martedì 7 ottobre 2025

QUEL MALEDETTO SABATO DI DUE ANNI FA Michele Magno


QUEL MALEDETTO SABATO DI DUE ANNI FA 

 Michele Magno 

 07/10/2025 


La violenza di quel sabato maledetto di due anni fa ha lasciato molti attoniti per qualche ora, ma ha suscitato ben poca pietas.

Già dal giorno successivo è iniziata una catastrofe morale e spirituale che avrebbe travolto le opinioni pubbliche occidentali. Prima ancora che a Teheran, nelle capitali delle due sponde dell’Atlantico esplodeva l’esultanza per un pogrom considerato una legittima reazione a una lunga vicenda di prevaricazioni.

La bandiera palestinese, la kefiah e altri simboli hanno così invaso — più che le strade e le università arabe — quelle americane ed europee, rappresentando il “controccidente” tornato improvvisamente alla ribalta a ovest di Allah.

Anche se gli ostaggi sono rimasti nelle mani dei rapitori, anche se i razzi hanno continuato a piovere su Israele, anche se era sempre più evidente la ferocia di Hamas verso la propria popolazione ridotta al martirio, il 7 ottobre si è però concluso, in quel giorno, come un assoluto senza luogo e senza tempo.

La storia è proseguita altrove: nelle fabbriche dello sdegno universale per i morti di Gaza.

Uno sdegno veicolato da media compiacenti e amplificato dalla narrazione mainstream, libera dall’onere della ricerca della verità, dello “Stato terrorista”.

È una strana civiltà la nostra, la cui cultura è impegnata da due secoli a denunciare se stessa e a preconizzarne il tramonto.

Con il crollo dell’Urss l’odio antioccidentale sembrava aver perso i suoi riferimenti geopolitici e teorici. Non era così. In realtà aveva solo cambiato natura e direzione.

Oggi li ha trovati nell’astrazione dello “Stato di Palestina”. Del resto, almeno a giudicare dagli odierni movimenti antisionisti e antisemiti — fisici e digitali — nella battaglia contro Israele si saldano gli argomenti dell’anticapitalismo terzomondista tipici del comunismo d’antan con quelli del verbo khomeinista contro la società borghese e liberale.

(Nessuna meraviglia, quindi, se la tragedia dell’Ucraina — Paese che vuole affiliare all’Ue — non rientra nell’orizzonte di protesta di questi movimenti.)

Tutto ciò può spiegare come quell’impasto ideologico che aveva animato le rivolte studentesche degli anni Sessanta sia stato riesumato per demonizzare Israele, il “piccolo Satana”, avamposto dell’imperialismo yankee — il “grande Satana”.

E può anche spiegare come mai l’antisemitismo, che fino a ieri la memoria del nazismo e l’accostamento con le destre rendevano impresentabile, faccia oggi proseliti a sinistra, mentre le destre si intestano la difesa dello Stato ebraico.

Come sappiamo, proviene d’altronde dalla sinistra l’appellativo di “nazista” (Luciano Canfora docet) con cui, utilizzando un lemma stalinista, viene marchiato il “regime” israeliano.

Dal pacifismo aggressivo che univa cattolici e comunisti — da Fanon a Marcuse a don Milani — riemerge oggi una costellazione di temi, autori e testi di una stagione che pareva caduta nell’oblio.

E poi ci sono i mezzi di comunicazione di massa.

La stessa stampa quotidiana, oggi per lo più online, in cui la fedeltà dei lettori è assai labile, deve essere incessantemente confermata da notizie eclatanti, volte non a descrivere i fatti e trasmettere informazioni verificate, ma a confermare i bias cognitivi degli utenti.

In un certo primitivismo della militanza filopalestinese qualcuno potrebbe scorgere anche il segno inconsapevole di un paternalismo coloniale.

Guardando con sospetto i successi della ricerca scientifica, dell’agricoltura e dell’industria israeliana — così come il suo governo democratico, o i suoi traguardi nella tutela dell’ambiente e dei diritti di genere — ci si compiace quasi del sottosviluppo palestinese, in gran parte dovuto alla rapina degli aiuti internazionali operata da Hamas per i propri scopi bellici, come simbolo dell’“innocenza” degli umili e degli oppressi.

In ogni caso, queste sono le ore della speranza.

A giudizio di chi scrive, la strada è ancora in salita, ma è lecito attendersi dai colloqui del Cairo novità promettenti.

Hamas è con le spalle al muro. E non bisogna temere di dire che anche Trump e Netanyahu, per una volta, “hanno fatto cose buone”.

I giovani di “Free Palestine from the river to the sea” — molti dei quali non sanno nemmeno di quale fiume e di quale mare si parli — forse continueranno a mobilitarsi.

I sindacati, confederali e di base, forse continueranno a scioperare. La sinistra parlamentare “astensionista sulla pace” forse continuerà a chiedere il boicottaggio di Israele.

Quella extraparlamentare continuerà ad agitare il fantoccio del genocidio.

Gli intellettuali engagés forse continueranno a denunciare l’impianto “colonialista” di un piano di pace accettato dall’Anp, da numerosi Paesi arabi e islamici, e da quasi tutte le nazioni europee.

Può darsi. Ma se i negoziati andranno a buon fine, nulla sarà come prima.