IL POSTO DELLE FRAGOLE
Ingmar Bergman
Recensione
Di P.b.
Il percorso nella vecchiaia come (ri)scoperta della vita. Isak Borg, il protagonista del film di Bergman Il posto delle fragole , vedovo e chiuso nel suo egoismo, che per un caso si ferma nella casa dove aveva vissuto da ragazzo e rivede la cugina Sara, «da lui amata in gioventù ma alla quale non aveva mai avuto il coraggio di dichiararsi, mentre raccoglie le fragole nel prato». Un episodio che porta all’illuminazione e a una progressiva riscoperta di sé. Da lì i ricordi prendono a intrecciarsi alla realtà, trasformando il viaggio verso Lund in una sorta di pellegrinaggio, in cui gli episodi, i sogni, gli incontri sono come tappe di un percorso catartico all’interno di se stesso dove potrà intravedere i suoi fallimenti, il vuoto della sua solitudine e quella verità che sembrano volergli comunicare i suoi incubi. La vecchiaia, l’infanzia, la giovinezza, l’esistenza di Dio, le occasioni perdute, la nostalgia, l’amore sono i temi intorno a cui si gioca ancora una volta la partita a scacchi tra la morte e la vita per il possesso di un’anima.
Recensione
di Enrico Terrone
Sinossi
“I nostri rapporti con il prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda deferente passione per la scienza. Ho un figlio, anche lui medico, che vive a Lund. È sposato da anni ma non ha avuto bambini. Mia madre vive ancora ed è molto attiva e molto vivace, malgrado la sua tarda età. Mia moglie, Karin, è morta da diversi anni. Ho la fortuna di avere una buona governante. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante, e questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me sia alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg, ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale”.
Questo (magnifico) monologo in voce over accompagna le immagini che precedono i titoli di testa. La sequenza successiva si risolve in un sogno (primo inserto soggettivo: l’incubo degli orologi senza lancette), carico di presagi di morte. Al risveglio Isak decide di partire da Stoccolma prima dell’alba, in automobile anziché in aereo. Nel viaggio lo accompagna la nuora Marianne, in crisi col marito. In mattinata i due si fermano presso una villa dove Isak rivive in sogno un episodio della propria adolescenza (secondo inserto: l’onomastico dello zio Aron) e ritrova, nel posto delle fragole, la cugina Sara di cui era innamorato. L’uomo è richiamato alla realtà dall’arrivo di una ragazza, anche lei di nome Sara, che gli chiede un passaggio sino a Lund, insieme a due suoi amici autostoppisti.
Dopo pranzo, con Marianne alla guida, Isak si assopisce e inizia a sognare (terzo inserto: l’incubo dell’esame). Al risveglio, l’uomo confida la propria angoscia alla nuora, che a sua volta gli racconta della propria gravidanza e dei dissidi con il marito, che vorrebbe farla abortire (quarto inserto: il flashback di Marianne). Isak e Marianne arrivano nel pomeriggio a Lund, dove poi si svolge, in tutta la sua solennità, la cerimonia del giubileo professionale. La sera, Isak, già a letto, viene salutato da Evald e Marianne fra i quali sembra prospettarsi una riconciliazione. “Quando durante la giornata sono stato preoccupato e triste, per calmarmi di solito cerco di ripensare ai periodi felici dell’infanzia. E così feci anche quella sera”. Nell’addormentarsi Isak (quinto inserto: il lago) ritrova il posto delle fragole e la cugina Sara che lo accompagna attraverso il parco. Da un altura, egli potrà vedere da lontano i suoi genitori, il padre che sta pescando e la madre seduta vicino, e ricevere da loro un cenno di saluto. Il film si chiude sul primo piano di Isak che si rimbocca la coperta e cerca di dormire.
L’affermazione del cinema di Bergman al di fuori dei confini della Svezia si compie nel 1957 con il successo internazionale de Il settimo sigillo. Nel febbraio del 1958 Il posto delle fragole vince l’Orso d’oro a Berlino. Jean Luc Godard, inviato dei Cahiers du cinéma e di lì a poco autore di Fino all’ultimo respiro, scrive alla redazione un telegramma: “Orso d’oro fine viaggio prova Ingmar più forte stop sceneggiatura fantastica racconta lampo coscienza Victor Sjöström abbagliato bellezza Bibi Andersson stop moltiplicate Heidegger per Giraudoux ottenete Bergman stop selezione Francia miserabile stop …”i. Con questi due capolavori, girati in rapida successione, Bergman si impone come il regista (per alcuni il primo, per altri il principale, per altri ancora l’unico) capace di innalzare il cinema al livello delle maggiori opere letterarie del secolo, rielaborandone i temi della soggettività, del tempo vissuto e della loro connessione con il linguaggio e con i simboli. Così Il posto delle fragole e il suo autore entrano nelle alte sfere del mito, dove tuttora, seppure un po’ impolverati, soggiornano. Sugli splendori (passati) e le miserie (attuali) della parola “mito” e sull’opportunità di servisene come categoria critica Orio Menoni ha scritto, su queste stesse pagineii, cose assolutamente condivisibili. Il mito, originariamente una finzione attraverso la quale si manifestavano verità profonde e ineffabili (si pensi al mito della caverna), si è trasformato, specie nel linguaggio radiotelevisivo, in un’eccedenza di verità utile a dissimulare un’impostura o un’esagerazione (si pensi all’inflazione dell’aggettivo “mitico”). Cercando di mediare fra questi due estremi, ridefiniamo il mito, in quanto categoria critica, come una commistione di verità e menzogna di fronte alla quale si impone il tentativo di operare delle distinzioni e di portare qualche chiarimento. Vorremmo allora provare a svelare i miti e i veli che, dal 1957 a oggi, hanno ricoperto (oltre che rivelato) Il posto delle fragole, contrapponendovi alcune questioni che sembrano restare vive e aperte riguardo al senso e al valore del film.
Il mito della genialità
“Con quel tipo di vita alle spalle non si può non diventare un genio. L’alternativa è finire a far sorrisini ebeti dietro le porte sprangate di una stanza, alle cui pareti lo Stato ha fatto applicare una spessa imbottitura”. La frase, riferita a Bergman, è di Woody Allen e rende bene la tendenza assai diffusa di voler risalire dal film alla vita del suo autore (“la vita alle spalle”), come se l’opera avesse per fine ultimo l’espressione del curriculum e delle vicissitudini di un individuo o peggio il culto della sua, possibilmente “maledetta”, personalità. Non si vuole negare che Bergman sia un genio, non fosse perché riconosciamo di non aver ben chiaro che cosa si intenda ormai con questa parola. Si vuol invece negare, o almeno mettere in dubbio, l’utilità di una serie di informazioni a partire dalle quali il mito de Il posto delle fragole come opera del genio si alimenta. La notizia che la sceneggiatura fu scritta da Bergman durante un ricovero presso l’ospedale Karolinska di Stoccolma nella primavera del 1957 sarebbe abbastanza innocua, per non dire insulsa, se non servisse a insinuare la sottile suggestione che l’artista in quel periodo non era completamente in sé, e che il film esprimerebbe quindi i tormenti della sua psiche malata. Poi si fa notare che il protagonista Eberhard Isak Borg ha le stesse iniziali del regista (Ernst Ingmar Bergman). Forzatamente l’età dei due è differente, ma anche qui c’è una spiegazione: gli anni di Isak sono gli stessi (78) che il suo interprete Sjöström aveva al momento delle riprese, mentre è suo figlio Evald ad avere la stessa età (38 anni) del regista di allora. Si aggiungono infine alcuni particolari in odore di cronaca rosa, tipo che all’epoca Bergman stava vivendo la conclusione del suo terzo matrimonio e aveva in corso un’intensa relazione sentimentale con la ventiduenne Bibi Andersson, l’interprete delle due Sara. Con questo spirito, il film è diventato una specie di diario intimo, e già questo è strano, ma la cosa veramente paradossale è che si può arrivare a convincersi che esso è un capolavoro proprio perché nasce come un diario. Naturalmente un approccio di questo tipo non è immune da vendette del destino: per anni si è sottolineato il fatto capitale che l’idea del film era venuta al regista in coincidenza di una visita alla casa estiva della propria nonna, salvo poi rimangiarsi tutto quando Bergman, vent’anni dopo, ha confessato che questo aneddoto era solo uno scherzo, suggerendo invece che nella figura di Borg potrebbero condensarsi il suo punto di vista e quello di suo padre. Parimenti, la scelta di Sjöström come interprete del ruolo principale viene spesso caricata di significati e considerata come un omaggio del giovane autore al suo regista prediletto, mentre lo stesso Bergman ha di recente ammesso che l’ingaggio di Sjöström gli venne suggerito dal produttore del film e che egli faticò non poco ad accettarlo. Tuttavia, al di là di queste deliziose beffe, il regista svedese ha contribuito in maniera rilevante alla creazione e alla celebrazione del proprio mito, in particolare con la pubblicazione di due scritti autobiograficiiii che campeggiano in testa a quasi tutte le bibliografie critiche anziché venire considerati, come sarebbe più logico, un’appendice della sua opera. L’imponenza di questi testi, tra le cui righe traspare talvolta la pretesa del regista di essere il primo se non l’unico esegeta dei propri film, potrebbe essere considerata come una delle cause del numero relativamente esiguo di testi veramente critici su Bergman e in particolare su Il posto delle fragole. Detto questo, non si vuole negare che in alcuni casi le interviste e le biografie possano essere di notevole interesse, e più avanti non mancheremo di servircene. Quando però si arriva ad anteporre il creatore, per quanto interessante e rispettabile, alla creazione, allora può darsi che si stia facendo del buon cristianesimo (e anche di questo avremo modo di parlare), ma di certo si sta facendo della cattiva critica.
Il mito dell’intertestualità
Se si guarda all’attività teatrale di Bergman nel periodo prossimo alle riprese de Il posto delle fragole, si può rilevare come molte delle opere messe in scena rimandino significativamente al film in gestazione. L’ultima regia, ad esempio, fu il Peer Gynt di Ibsen, storia di un eroe anziano che nell’imminenza della morte si interroga, attraverso una serie di viaggi e di incontri, sul senso del proprio passato. La costellazione di testi, non solo teatrali, all’interno della quale il film viene a collocarsi finisce per giocare un’ambigua funzione mitica, che agisce come un’arma a doppio taglio. Da un lato la nobiltà dei precursori contribuisce a far risplendere l’aura del genio: in virtù delle citazioni e delle ascendenze, sovente rivelate dallo stesso regista nei suoi scritti, Bergman sarebbe di volta in volta il nuovo Ibsen, il nuovo Strindberg, il nuovo Munch ecc. . D’altro canto, alcuni detrattori, che sono poi detrattori del cinema in quanto tale, fanno leva sui medesimi argomenti per sostenere che il regista non sarebbe altro che un epigono, un divulgatore tramite grande schermo, un assemblatore di “frammenti e detriti di esperienze già vissute dalle avanguardie letterario-artistiche del nostro secolo”iv. Rilevato come i due estremismi si elidano a vicenda, una carrellata delle opere che costituiscono il retroterra del film non è priva di valore, soprattutto per comprendere come il lavoro cinematografico di trascrizione e innesto possa produrre un senso supplementare, forse in realtà più essenziale di ogni presunta creazione pura.
Al centro degli interessi letterari di Bergman c’è la figura di Strindbergv: sia per la sua capacità di muoversi sullo scarto fra onirico e reale sia per l’analisi spietata del matrimonio come meccanismo perverso di attrazione e repulsione. Ne Il sogno si parla di un’esperienza infantile legata a una coppa di fragole selvatiche, di un incubo legato a un esame scolastico, di un dibattito semplicistico fra teologi e razionalisti e di una premiazione all’università. L’ultima opera di Strindberg, La grande strada, racconta il viaggio di un uomo che ripercorre i luoghi e i momenti decisivi della propria vita e si prepara a morire, incontrando una serie di figure emblematiche.
Lo stile visivo de Il posto delle fragole, nel suo alternare lugubri frangenti “espressionistici” a momenti realistici dominati dalla luce dell’estate svedese, è influenzato dall’opera dei due maggiori pittori scandinavi all’epoca della giovinezza del protagonista: Larsson e Munch. Entrambi erano amici di Strindberg e ne dipinsero un ritratto. Larsson è celebre per le sue rappresentazioni incantate della felicità della vita in famiglia nelle grandi dimore borghesi, dove un’illuminazione totale annulla qualunque ombra, quando invece la pittura di Munch, negli anni di fine Ottocento, è caratterizzata da toni cupi, morbosi, funesti. Nella sequenza della colazione in onore dello zio Aron, la posizione di Isak, in primo piano sulla destra dello schermo dando la schiena agli altri personaggi, rimanda alla struttura di alcuni quadri di Munch (in particolare Gelosia, 1895): il protagonista esprime una situazione di solitudine e di angoscia nei confronti della vita delle persone sullo sfondo che, nell’inquadratura di Bergman, si svolge in un’atmosfera edenica caratterizzata proprio dalla luminosità tipica di Larsson, dal bianco delle vesti e dell’arredamento.
Anche le ascendenze cinematografiche de Il posto delle fragole sono dislocabili in base alla duplicità costitutiva del film: l’oggettività delle sequenze al presente guarda alla lezione del neorealismo, mentre gli inserti onirici rimandano all’espressionismo tedesco e soprattutto al cinema muto svedese. La figura di Sjöström, interprete principale del film e principale regista di quella scuola, è decisiva. La potenza della sua “interpretazione” è tale da trasformare un uomo freddo e cupo in cerca di risveglio e riscatto in un saggio stoico capace di gettare in ogni istante uno sguardo critico e veritiero sulla propria vita. In altre parole, la recitazione di Sjöström introduce un forte elemento di continuità che entra in contraddizione con il percorso interiore previsto dalla sceneggiatura, tanto da far concludere a un recensore che “egli è così reale, sensibile, penetrante, così capace di ottenere simpatia in ogni modo, che la spiegazione di Bergman non ha affatto significato”vi. Maureen Turim, nel suo Flashback in Filmvii, riconosce l’importanza capitale del cinema di Sjöström e Stiller, l’altro grande regista del muto svedese, nello sviluppo della figura narrativa del flashback, che trova ne Il posto delle fragole una sorta di sublimazione e trasfigurazione. I punti cardinali del film sembrano quindi essere interni alla tradizione scandinava e in particolare a quella svedese. Appaiono invece meno fondati nella poetica del regista e più dovuti a libere associazioni dei critici altri riferimenti come quelli a Arthur Miller, Scott Fitzgerald e persino, a dimostrazione che la fantasia di certi critici non ha davvero nessun limite, Dickens: la sceneggiatura de Il carretto fantasma di Sjöström è tratta da un romanzo ispirato a Racconto di natale, per cui ci sarebbe una parentela (di quinto grado!) fra Isak Borg e il vecchio Scrooge.
Andrebbero infine considerati i rimandi, pressoché infiniti, agli altri film di Bergman. I film con cui il legame tematico sembra più stretto sono quelli più vicini nel tempo: il precedente (Il settimo sigillo) e il successivo (Alle soglie della vita). L’immagine centrale del primo è la celeberrima partita a scacchi fra il cavaliere e la morte, la cui scacchiera ritorna, in una delle prime inquadrature de Il posto delle fragole, nello studio di Isak Borg, che prima di andare a coricarsi vi indugia per qualche istante come per un ricordo o per un presagio. Poco dopo, l’incubo degli orologi senza lancette confermerà che la sfida è destinata a ripetersi. L’attore che vestiva i panni dello scudiero, Gunnar Björnstrand, ha ora il ruolo di Evald, il figlio nichilista che detesta la vita e chiede alla propria moglie di abortire. Max Von Sydow, il cavaliere che sfidava a scacchi la morte, è ora il benzinaio che racconta di quando Isak, giovane medico, fece nascere lui e suo fratello, e gli promette di battezzare col suo nome il figlio che la moglie porta in grembo. Bibi Andersson, che ne Il posto delle fragole interpreta le due Sara, ha quasi sempre incarnato, anche nei film più tardi e cupi come Persona, l’energia vitale, la semplicità e la bellezza della vita. Ne Il settimo sigillo, nel ruolo della moglie del giullare, offriva al cavaliere una coppa di fragole selvatiche, del cui “posto” Sara diventerà una sorta di dea protettrice. In Alle soglie della vita, che si svolge nel reparto maternità di un ospedale, l’attrice interpreta una ragazza incinta che vorrebbe abortire ma alla fine, pur disperando del proprio futuro di ragazza madre, decide di tenere il bambino. Una sua compagna di stanza ha invece dovuto abortire perché suo marito non desiderava un figlio: un destino uguale e contrario a quello di Marianne, che è interpretata dalla stessa attrice, Ingrid Thulin. Sebbene ci sia chi ritiene che qui “è presente con chiarezza l’elemento religioso”viii, la fertilità e la generazione attraverso il parto sembrano essere, nell’uno come nell’altro film, l’unico senso in cui si possa concepire la trascendenza della finitezza umana e il proseguimento della vita oltre la morte
L’affermazione del cinema di Bergman al di fuori dei confini della Svezia si compie nel 1957 con il successo internazionale de Il settimo sigillo. Nel febbraio del 1958 Il posto delle fragole vince l’Orso d’oro a Berlino. Jean Luc Godard, inviato dei Cahiers du cinéma e di lì a poco autore di Fino all’ultimo respiro, scrive alla redazione un telegramma: “Orso d’oro fine viaggio prova Ingmar più forte stop sceneggiatura fantastica racconta lampo coscienza Victor Sjöström abbagliato bellezza Bibi Andersson stop moltiplicate Heidegger per Giraudoux ottenete Bergman stop selezione Francia miserabile stop …”i. Con questi due capolavori, girati in rapida successione, Bergman si impone come il regista (per alcuni il primo, per altri il principale, per altri ancora l’unico) capace di innalzare il cinema al livello delle maggiori opere letterarie del secolo, rielaborandone i temi della soggettività, del tempo vissuto e della loro connessione con il linguaggio e con i simboli. Così Il posto delle fragole e il suo autore entrano nelle alte sfere del mito, dove tuttora, seppure un po’ impolverati, soggiornano. Sugli splendori (passati) e le miserie (attuali) della parola “mito” e sull’opportunità di servisene come categoria critica Orio Menoni ha scritto, su queste stesse pagineii, cose assolutamente condivisibili. Il mito, originariamente una finzione attraverso la quale si manifestavano verità profonde e ineffabili (si pensi al mito della caverna), si è trasformato, specie nel linguaggio radiotelevisivo, in un’eccedenza di verità utile a dissimulare un’impostura o un’esagerazione (si pensi all’inflazione dell’aggettivo “mitico”). Cercando di mediare fra questi due estremi, ridefiniamo il mito, in quanto categoria critica, come una commistione di verità e menzogna di fronte alla quale si impone il tentativo di operare delle distinzioni e di portare qualche chiarimento. Vorremmo allora provare a svelare i miti e i veli che, dal 1957 a oggi, hanno ricoperto (oltre che rivelato) Il posto delle fragole, contrapponendovi alcune questioni che sembrano restare vive e aperte riguardo al senso e al valore del film.
Il mito della genialità
“Con quel tipo di vita alle spalle non si può non diventare un genio. L’alternativa è finire a far sorrisini ebeti dietro le porte sprangate di una stanza, alle cui pareti lo Stato ha fatto applicare una spessa imbottitura”. La frase, riferita a Bergman, è di Woody Allen e rende bene la tendenza assai diffusa di voler risalire dal film alla vita del suo autore (“la vita alle spalle”), come se l’opera avesse per fine ultimo l’espressione del curriculum e delle vicissitudini di un individuo o peggio il culto della sua, possibilmente “maledetta”, personalità. Non si vuole negare che Bergman sia un genio, non fosse perché riconosciamo di non aver ben chiaro che cosa si intenda ormai con questa parola. Si vuol invece negare, o almeno mettere in dubbio, l’utilità di una serie di informazioni a partire dalle quali il mito de Il posto delle fragole come opera del genio si alimenta. La notizia che la sceneggiatura fu scritta da Bergman durante un ricovero presso l’ospedale Karolinska di Stoccolma nella primavera del 1957 sarebbe abbastanza innocua, per non dire insulsa, se non servisse a insinuare la sottile suggestione che l’artista in quel periodo non era completamente in sé, e che il film esprimerebbe quindi i tormenti della sua psiche malata. Poi si fa notare che il protagonista Eberhard Isak Borg ha le stesse iniziali del regista (Ernst Ingmar Bergman). Forzatamente l’età dei due è differente, ma anche qui c’è una spiegazione: gli anni di Isak sono gli stessi (78) che il suo interprete Sjöström aveva al momento delle riprese, mentre è suo figlio Evald ad avere la stessa età (38 anni) del regista di allora. Si aggiungono infine alcuni particolari in odore di cronaca rosa, tipo che all’epoca Bergman stava vivendo la conclusione del suo terzo matrimonio e aveva in corso un’intensa relazione sentimentale con la ventiduenne Bibi Andersson, l’interprete delle due Sara. Con questo spirito, il film è diventato una specie di diario intimo, e già questo è strano, ma la cosa veramente paradossale è che si può arrivare a convincersi che esso è un capolavoro proprio perché nasce come un diario. Naturalmente un approccio di questo tipo non è immune da vendette del destino: per anni si è sottolineato il fatto capitale che l’idea del film era venuta al regista in coincidenza di una visita alla casa estiva della propria nonna, salvo poi rimangiarsi tutto quando Bergman, vent’anni dopo, ha confessato che questo aneddoto era solo uno scherzo, suggerendo invece che nella figura di Borg potrebbero condensarsi il suo punto di vista e quello di suo padre. Parimenti, la scelta di Sjöström come interprete del ruolo principale viene spesso caricata di significati e considerata come un omaggio del giovane autore al suo regista prediletto, mentre lo stesso Bergman ha di recente ammesso che l’ingaggio di Sjöström gli venne suggerito dal produttore del film e che egli faticò non poco ad accettarlo. Tuttavia, al di là di queste deliziose beffe, il regista svedese ha contribuito in maniera rilevante alla creazione e alla celebrazione del proprio mito, in particolare con la pubblicazione di due scritti autobiograficiiii che campeggiano in testa a quasi tutte le bibliografie critiche anziché venire considerati, come sarebbe più logico, un’appendice della sua opera. L’imponenza di questi testi, tra le cui righe traspare talvolta la pretesa del regista di essere il primo se non l’unico esegeta dei propri film, potrebbe essere considerata come una delle cause del numero relativamente esiguo di testi veramente critici su Bergman e in particolare su Il posto delle fragole. Detto questo, non si vuole negare che in alcuni casi le interviste e le biografie possano essere di notevole interesse, e più avanti non mancheremo di servircene. Quando però si arriva ad anteporre il creatore, per quanto interessante e rispettabile, alla creazione, allora può darsi che si stia facendo del buon cristianesimo (e anche di questo avremo modo di parlare), ma di certo si sta facendo della cattiva critica.
Il mito dell’intertestualità
Se si guarda all’attività teatrale di Bergman nel periodo prossimo alle riprese de Il posto delle fragole, si può rilevare come molte delle opere messe in scena rimandino significativamente al film in gestazione. L’ultima regia, ad esempio, fu il Peer Gynt di Ibsen, storia di un eroe anziano che nell’imminenza della morte si interroga, attraverso una serie di viaggi e di incontri, sul senso del proprio passato. La costellazione di testi, non solo teatrali, all’interno della quale il film viene a collocarsi finisce per giocare un’ambigua funzione mitica, che agisce come un’arma a doppio taglio. Da un lato la nobiltà dei precursori contribuisce a far risplendere l’aura del genio: in virtù delle citazioni e delle ascendenze, sovente rivelate dallo stesso regista nei suoi scritti, Bergman sarebbe di volta in volta il nuovo Ibsen, il nuovo Strindberg, il nuovo Munch ecc. . D’altro canto, alcuni detrattori, che sono poi detrattori del cinema in quanto tale, fanno leva sui medesimi argomenti per sostenere che il regista non sarebbe altro che un epigono, un divulgatore tramite grande schermo, un assemblatore di “frammenti e detriti di esperienze già vissute dalle avanguardie letterario-artistiche del nostro secolo”iv. Rilevato come i due estremismi si elidano a vicenda, una carrellata delle opere che costituiscono il retroterra del film non è priva di valore, soprattutto per comprendere come il lavoro cinematografico di trascrizione e innesto possa produrre un senso supplementare, forse in realtà più essenziale di ogni presunta creazione pura.
Al centro degli interessi letterari di Bergman c’è la figura di Strindbergv: sia per la sua capacità di muoversi sullo scarto fra onirico e reale sia per l’analisi spietata del matrimonio come meccanismo perverso di attrazione e repulsione. Ne Il sogno si parla di un’esperienza infantile legata a una coppa di fragole selvatiche, di un incubo legato a un esame scolastico, di un dibattito semplicistico fra teologi e razionalisti e di una premiazione all’università. L’ultima opera di Strindberg, La grande strada, racconta il viaggio di un uomo che ripercorre i luoghi e i momenti decisivi della propria vita e si prepara a morire, incontrando una serie di figure emblematiche.
Lo stile visivo de Il posto delle fragole, nel suo alternare lugubri frangenti “espressionistici” a momenti realistici dominati dalla luce dell’estate svedese, è influenzato dall’opera dei due maggiori pittori scandinavi all’epoca della giovinezza del protagonista: Larsson e Munch. Entrambi erano amici di Strindberg e ne dipinsero un ritratto. Larsson è celebre per le sue rappresentazioni incantate della felicità della vita in famiglia nelle grandi dimore borghesi, dove un’illuminazione totale annulla qualunque ombra, quando invece la pittura di Munch, negli anni di fine Ottocento, è caratterizzata da toni cupi, morbosi, funesti. Nella sequenza della colazione in onore dello zio Aron, la posizione di Isak, in primo piano sulla destra dello schermo dando la schiena agli altri personaggi, rimanda alla struttura di alcuni quadri di Munch (in particolare Gelosia, 1895): il protagonista esprime una situazione di solitudine e di angoscia nei confronti della vita delle persone sullo sfondo che, nell’inquadratura di Bergman, si svolge in un’atmosfera edenica caratterizzata proprio dalla luminosità tipica di Larsson, dal bianco delle vesti e dell’arredamento.
Anche le ascendenze cinematografiche de Il posto delle fragole sono dislocabili in base alla duplicità costitutiva del film: l’oggettività delle sequenze al presente guarda alla lezione del neorealismo, mentre gli inserti onirici rimandano all’espressionismo tedesco e soprattutto al cinema muto svedese. La figura di Sjöström, interprete principale del film e principale regista di quella scuola, è decisiva. La potenza della sua “interpretazione” è tale da trasformare un uomo freddo e cupo in cerca di risveglio e riscatto in un saggio stoico capace di gettare in ogni istante uno sguardo critico e veritiero sulla propria vita. In altre parole, la recitazione di Sjöström introduce un forte elemento di continuità che entra in contraddizione con il percorso interiore previsto dalla sceneggiatura, tanto da far concludere a un recensore che “egli è così reale, sensibile, penetrante, così capace di ottenere simpatia in ogni modo, che la spiegazione di Bergman non ha affatto significato”vi. Maureen Turim, nel suo Flashback in Filmvii, riconosce l’importanza capitale del cinema di Sjöström e Stiller, l’altro grande regista del muto svedese, nello sviluppo della figura narrativa del flashback, che trova ne Il posto delle fragole una sorta di sublimazione e trasfigurazione. I punti cardinali del film sembrano quindi essere interni alla tradizione scandinava e in particolare a quella svedese. Appaiono invece meno fondati nella poetica del regista e più dovuti a libere associazioni dei critici altri riferimenti come quelli a Arthur Miller, Scott Fitzgerald e persino, a dimostrazione che la fantasia di certi critici non ha davvero nessun limite, Dickens: la sceneggiatura de Il carretto fantasma di Sjöström è tratta da un romanzo ispirato a Racconto di natale, per cui ci sarebbe una parentela (di quinto grado!) fra Isak Borg e il vecchio Scrooge.
Andrebbero infine considerati i rimandi, pressoché infiniti, agli altri film di Bergman. I film con cui il legame tematico sembra più stretto sono quelli più vicini nel tempo: il precedente (Il settimo sigillo) e il successivo (Alle soglie della vita). L’immagine centrale del primo è la celeberrima partita a scacchi fra il cavaliere e la morte, la cui scacchiera ritorna, in una delle prime inquadrature de Il posto delle fragole, nello studio di Isak Borg, che prima di andare a coricarsi vi indugia per qualche istante come per un ricordo o per un presagio. Poco dopo, l’incubo degli orologi senza lancette confermerà che la sfida è destinata a ripetersi. L’attore che vestiva i panni dello scudiero, Gunnar Björnstrand, ha ora il ruolo di Evald, il figlio nichilista che detesta la vita e chiede alla propria moglie di abortire. Max Von Sydow, il cavaliere che sfidava a scacchi la morte, è ora il benzinaio che racconta di quando Isak, giovane medico, fece nascere lui e suo fratello, e gli promette di battezzare col suo nome il figlio che la moglie porta in grembo. Bibi Andersson, che ne Il posto delle fragole interpreta le due Sara, ha quasi sempre incarnato, anche nei film più tardi e cupi come Persona, l’energia vitale, la semplicità e la bellezza della vita. Ne Il settimo sigillo, nel ruolo della moglie del giullare, offriva al cavaliere una coppa di fragole selvatiche, del cui “posto” Sara diventerà una sorta di dea protettrice. In Alle soglie della vita, che si svolge nel reparto maternità di un ospedale, l’attrice interpreta una ragazza incinta che vorrebbe abortire ma alla fine, pur disperando del proprio futuro di ragazza madre, decide di tenere il bambino. Una sua compagna di stanza ha invece dovuto abortire perché suo marito non desiderava un figlio: un destino uguale e contrario a quello di Marianne, che è interpretata dalla stessa attrice, Ingrid Thulin. Sebbene ci sia chi ritiene che qui “è presente con chiarezza l’elemento religioso”viii, la fertilità e la generazione attraverso il parto sembrano essere, nell’uno come nell’altro film, l’unico senso in cui si possa concepire la trascendenza della finitezza umana e il proseguimento della vita oltre la morte
IL POSTO DELLE FRAGOLE
Prologo
Credo che ormai, all’età di settantasei anni, sono troppo vecchio per mentire a me stesso. Anche se non ne sono del tutto sicuro. Già questa serenità nei confronti della verità potrebbe essere un’ipocrita finzione, anche se non so cosa dovrei avere da mascherare o da nascondere, se così fosse. Non voglio però pretendere (per il solo fatto di nutrire tale sentimento) di essere diventato un paladino della verità. Piuttosto il contrario. Se per qualche ragione mi si domandasse un mio giudizio su me stesso, lo darei senza imbarazzo e senza riguardo per il mio prestigio personale. Ma se mi venisse richiesto di esprimermi su un mio consimile, sarei considerevolmente più cauto. Niente è più azzardato che giudicare gli altri. È molto facile rendersi colpevoli di errori, sotto o sopravvalutazioni, sì, perfino di sorprendenti menzogne. Piuttosto che incorrere in simili sciocchezze preferisco tacere. Con la diretta conseguenza che ho finito in pratica per ritirarmi spontaneamente dalla cosiddetta vita di società, visto che la maggior parte dei nostri rapporti con gli altri esseri umani consiste nel discutere e giudicare il comportamento del prossimo. E così sono rimasto un po’ solo nella mia vecchiaia. Lo dico senza rammarico, è una semplice constatazione. Non chiedo nient’altro alla vita che di essere lasciato in pace e di avere la possibilità di dedicarmi ai pochi interessi che ancora mi danno uno stimolo, per quanto superficiale. Mi piace, per esempio, seguire i progressi costanti della mia disciplina (avevo una cattedra in batteriologia) e ritrovo un certo vigore nel gioco del golf, inoltre, leggo di tanto in tanto un libro di memorie o qualche buon romanzo poliziesco.
La mia vita è stata riempita dal lavoro e ne sono grato. Era cominciato come semplice mezzo per guadagnarmi il pane ed è poi diventato amore per la scienza. Ho un figlio medico che vive a Lund, sposato da diversi anni. Senza bambini. Mia madre è ancora viva e anche piuttosto vitale, nonostante l’età avanzata (ha novantasei anni).
Abita dalle parti di Huskvarna, ci vediamo molto raramente. I miei nove fratelli sono morti, ma hanno lasciato una schiera di figli e nipoti. Ho pochissimi contatti con i miei parenti. Mia moglie Karin è morta da molti anni. Il nostro non è stato un matrimonio felice. In compenso ho una buona governante.
Questo è quanto ho da dire su me stesso. Forse dovrei aggiungere che sono un vecchio pedante, il che ogni tanto può essere piuttosto gravoso per me come per quelli costretti a starmi attorno; detesto gli sfoghi emotivi, i pianti delle donne e gli strilli dei bambini. In generale i rumori forti e gli imprevisti mi danno un enorme fastidio.
Tornerò più avanti sul motivo che mi spinge a scrivere questa storia, che è il resoconto più fedele possibile di fatti, sogni e pensieri che mi sono capitati un certo giorno.
Sul finire della notte di sabato primo giugno ho fatto un sogno strano e molto spiacevole.
Ho sognato che facevo la mia passeggiata mattutina per le solite strade.
Era molto presto e non si vedeva anima viva. La cosa mi sorprese un po’. Notai anche che non c’era nessuna macchina parcheggiata lungo i marciapiedi.
La città mi sembrava stranamente deserta, più o meno come una domenica mattina in piena estate.
Il sole splendeva forte e proiettava nitide ombre scure, ma non scaldava.
Nonostante camminassi sul lato soleggiato avevo un po’ freddo.
Anche il silenzio era insolito. Vado abitualmente a passeggiare in un viale alberato dove almeno passeri e cornacchie cominciano in genere a far chiasso già prima dell’alba. Inoltre si sente sempre una specie di sordo brusio che viene dal centro città.
Ma quel mattino non si sentiva niente, il silenzio era assoluto, i miei passi echeggiavano in modo quasi inquietante contro i muri delle case e cominciavo a chiedermi cosa fosse successo.
Proprio in quel momento passai davanti a un negozio di ottica che ha per insegna un grosso orologio con l’ora esatta. Sotto l’orologio è appeso un cartello a forma di occhiali con dipinti due occhi che guardano fissi nel vuoto; nelle mie passeggiate mattutine ho sempre sorriso di quel dettaglio un po’ grottesco nel paesaggio urbano.
Con mia sorpresa vidi che le lancette dell’orologio erano scomparse, il quadrante era cieco, inoltre qualcuno aveva squarciato i due occhi, che ora mi fissavano come due ferite infette e acquose.
Istintivamente tirai fuori il mio orologio per controllare l’ora, ma scoprii che anche la mia vecchia fedele cipolla d’oro aveva perso le lancette. La portai all’orecchio per controllare se funzionava. E sentii i battiti del mio cuore, rapidi e irregolari. Fui all’istante sopraffatto da un assurdo e sgradevole senso di agitazione.
Rimisi l’orologio in tasca e mi appoggiai per qualche istante al muro, in attesa che il mio affanno si placasse. Il cuore si calmò e decisi di tornare a casa.
Con sollievo vidi che c’era qualcuno all’angolo della strada, girato di spalle. Mi affrettai a raggiungerlo e gli toccai il braccio.
Si voltò di colpo e con orrore scoprii che sotto il cappello di feltro l’uomo non aveva volto.
Ritirai la mia mano e nello stesso istante l’intera figura crollò come se fosse fatta di polvere o di trucioli.
Sul marciapiede non rimase che un mucchio di vestiti, l’uomo era scomparso senza lasciare traccia.
Mi guardai attorno perplesso e scoprii che mi ero perso; mi trovavo in una parte della città dove non ero mai stato.
Era uno slargo circondato da alti e brutti casermoni e da quella piccola piazza soffocata partivano strade in tutte le direzioni. Tutte erano deserte, non si vedeva anima viva.
In alto il sole splendeva bianco e i raggi di luce penetravano tra le case come lame di coltelli. Avevo così freddo che tremavo in tutto il corpo.
Finalmente trovai la forza di muovermi e scelsi a caso uno di quei vicoli.
Camminavo quanto più in fretta mi consentisse il mio cuore in tumulto, eppure la strada mi sembrava infinitamente lunga.
Sentii un suono di campane e improvvisamente mi trovai in uno spiazzo aperto davanti a una chiesa di mattoni rossi, brutta e insignificante. Non aveva camposanto ed era circondata da ogni parte da muri grigi.
Un corteo funebre avanzava lentamente in direzione della chiesa, in testa veniva un carro mortuario vecchio stile e in coda delle carrozze a nolo d’altri tempi, tirate da cavalli scheletrici, curvi sotto il peso di enormi gualdrappe nere.
Mi fermai scoprendomi il capo; provavo un grande sollievo nel vedere finalmente altri esseri viventi e nell’udire lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli e le campane della chiesa.
Poi tutto si svolse precipitosamente e in modo così terrificante che ancora oggi, scrivendone il ricordo, sento un netto disagio.
Il carro funebre stava giusto per arrivare davanti al portale della chiesa, quando improvvisamente cominciò a ondeggiare e beccheggiare come un vascello in tempesta. Vidi che una delle ruote si era staccata e mi veniva incontro rotolando rumorosamente. Dovetti buttarmi da un lato per non esserne travolto; si schiantò alle mie spalle contro la chiesa, andando in pezzi.
Le altre carrozze si erano fermate un po’ più lontano, ma nessuno scese o venne in aiuto. L’enorme carro funebre ondeggiava cercando l’equilibrio sulle sue tre ruote; improvvisamente la bara scivolò fuori, cadde sulla strada e si ruppe. Come alleggerito, il carro si raddrizzò, i cavalli si impennarono e il convoglio sparì in una via traversa seguito dalle altre carrozze.
Le campane avevano smesso di suonare e mi trovai solo con la bara rovesciata e mezza rotta. Spinto da una morbosa curiosità, mi avvicinai, una mano spuntava dal mucchio di assi spezzate e di schegge. Quando mi chinai la mano del morto mi afferrò il braccio e mi tirò verso la bara con una forza inaudita. Cercai di resistere e il cadavere si alzò lentamente dalla bara. Era vestito in frac.
Con orrore mi accorsi che il morto ero io. Mi si aggrappò con una presa salda e lentamente si tirò su seduto. Tentai di liberarmi, ma lui continuò a stringermi imperterrito il braccio. Per tutto il tempo non smise mai di fissarmi impassibile e come sorridendo beffardo.
In quello stato di folle terrore mi svegliai di soprassalto e balzai a sedere sul letto.
Erano le tre del mattino e il sole già illuminava il tetto di fronte. Chiusi gli occhi e mormorai il mio esorcismo contro quei sogni orribili e spaventosi che mi hanno perseguitato negli ultimi anni.
ISAK: Mi chiamo Isak Berg. Sono ancora vivo. Ho settantasei anni. E nel complesso sto piuttosto bene.
Dopo aver mormorato questa rassicurante litania, bevvi un bicchier d’acqua e tornai a coricarmi per meditare sulla giornata che mi attendeva.
D’un tratto seppi quel che dovevo fare. Mi alzai, tirai le tende, trovai un tempo radioso e respirai l’aria leggera del mattino. Poi infilai la mia vestaglia e attraversai l’appartamento (dove gli orologi suonavano le tre) fino alla camera della mia vecchia governante.
Non appena socchiusi la porta, lei balzò seduta sul letto, perfettamente sveglia.
AGDA: È malato, professore?
ISAK: Senta, signorina Agda, potrebbe per piacere prepararmi qualcosa da mangiare? Vado in macchina.
AGDA: Va in macchina, professore?
ISAK: Sì. Guiderò io stesso in persona fino a Lund. Non ho mai avuto fiducia negli aerei.
AGDA: Caro professore! Torni a dormire, e io le porterò il suo caffè alle nove e poi partiamo alle dieci, come stabilito.
ISAK: Va bene, vuol dire che partirò senza mangiare.
AGDA: E chi le metterà il frac in valigia?
ISAK: Lo farò io.
AGDA: E di me che ne sarà?
ISAK: Lei, signorina Agda, può venire in macchina con me o prendere l’aereo, come preferisce.
AGDA: Per un anno intero mi sono rallegrata di poter partecipare alla cerimonia del suo giubileo1 abbiamo organizzato tutto nel migliore dei modi e adesso il professore viene a dirmi che va in macchina.
1 Il titolo di “jubeldoktor”, qualcosa di simile a professore emerito, è un titolo onorifico conferito solennemente dalle università svedesi dopo cinquant’anni di dottorato in lettere o scienze. ( N.d.T. ) ISAK: La cerimonia non inizierà prima delle cinque e se parto subito avrò quattordici ore di tempo.
AGDA: Così rovinerà tutto. E cosa dirà suo figlio che l’aspetta all’aeroporto di Malmö?
ISAK: Può anche trovare qualche spiegazione lei, signorina Agda.
AGDA: Se va in macchina, io alla cerimonia non ci vengo.
ISAK: Mi ascolti adesso, signorina Agda.
AGDA: Prenda pure la sua macchina e se ne vada, e rovinerà il giorno più solenne della mia vita.
ISAK: Non siamo sposati, signorina Agda.
AGDA: Ringrazio Dio ogni sera di non essere sposata con lei, professore. Per settantaquattro anni il buon senso mi ha assistita e non mi abbandonerà proprio oggi.
ISAK: È la sua ultima parola sull’argomento, signorina Agda?
AGDA: È la mia ultima parola. Ma per mio conto ne avrò parecchie altre da dire riguardo a certi vecchi signori cattivi che pensano solo a se stessi e neanche un po’
agli altri che li hanno serviti fedelmente per quarant’anni.
ISAK: È davvero incomprensibile come io abbia fatto a resistere per tutti questi anni alla sua spaventosa tirannia.
AGDA: Non ha che da dirlo e domani stesso sarà finita.
ISAK: Adesso comunque io parto in macchina e lei faccia quel diavolo che vuole, signorina. Si dà il caso che sono adulto e non ho nessun bisogno di ubbidire ai suoi ordini.
L’ultima parte della nostra conversazione, devo ammetterlo, si era svolta a voce piuttosto alta, un po’ per via del temperamento indomabile della signorina Agda, un po’ perché ero andato in bagno a farmi la barba e la toilette mattutina.
Quando uscii dal bagno scoprii con stupore la signorina Agda indaffarata a mettere in valigia il mio frac e altre cose. Visto che sembrava tornata alla ragione, cercai di farle capire, con qualche amichevole pacca sulla schiena, che l’avevo perdonata.
ISAK: Credo che nessuno sappia fare le valigie come lei, signorina.
AGDA: Ah sì?
ISAK: Vecchia bisbetica.
Mi contrariò molto che non rispondesse. L’ultima battuta, è vero, non era particolarmente ben scelta, ma la signorina Agda ha un modo di tenere il broncio che farebbe perdere la pazienza anche allo Spirito Santo.
AGDA: Devo farle due uova, col caffè?
ISAK: Sì, grazie, è molto gentile da parte sua, signorina Agda. Grazie, cara signorina Agda.
Senza neanche notare i miei sforzi di mostrarmi nonostante tutto gentile, l’anziana donna sparì in cucina.
ISAK: Professore emerito! Dio mio, che sciocchezza. L’università poteva anche conferirmi il titolo di idiota emerito. Comprerò qualcosa alla vecchia, così tornerà affabile. Odio le persone vendicative. Io che non potrei far male a una mosca.
Figuriamoci alla signorina Agda…
La suddetta signorina comparve sulla porta.
AGDA: Vuole del pane tostato, professore?
ISAK: No. No, grazie, per carità. Non si disturbi per me.
AGDA: Perché è così acido?
Non feci in tempo a replicare che la porta venne richiusa. Mi vestii e andai in sala da pranzo, dove mi attendeva la colazione. Il sole del mattino proiettava una striscia di luce sul grande tavolo. La signorina Agda entrò silenziosamente con la caffettiera e versò del caffè fumante nella mia tazza speciale.
ISAK: Non ne vuole una tazza anche lei?
AGDA: No, grazie.
La signorina Agda si mise a bagnare i fiori sul davanzale, voltandomi la schiena in modo del tutto naturale, ma estremamente eloquente.
A quel punto si aprì la porta di una stanza attigua ed entrò Marianne, mia nuora.
Era ancora in pigiama ma fumava una sigaretta.
ISAK: Cosa fa la mia stimata nuora in piedi a quest’ora, se è lecito chiedere?
MARIANNE: È un po’ difficile dormire quando tu e la signorina Agda gridate tanto da far tremare i muri.
ISAK: Qui nessuno ha gridato.
AGDA: No, qui non c’è proprio nessuno che ha gridato.
MARIANNE: Vai a Lund in macchina?
ISAK: Credo di sì.
MARIANNE: Posso venire anch’io?
ISAK: Come? Torni a casa?
MARIANNE: Sì, voglio tornare a casa.
ISAK: Da Evald.
MARIANNE. Proprio così. Non chiedermi il motivo. Se avessi i soldi prenderei il treno.
ISAK: Ovvio che puoi venire.
MARIANNE: Sarò pronta in dieci minuti.
Marianne spense la sigaretta in un posacenere sul tavolo e andò in camera sua chiudendo la porta.
Agda portò un’altra tazza di caffè, ma non disse nulla. Eravamo entrambi stupiti, ma non potevamo commentare l’improvvisa decisione di Marianne di tornare a casa, da mio figlio Evald. Mi sentii comunque in dovere di scuotere la testa.
AGDA: Eh sì, santo Iddio!
Poco dopo le tre e mezzo andai a tirar fuori la macchina dal garage. Marianne uscì dalla porta di casa, vestita in pantaloni lunghi e una giacca corta (è una donna giovane e bella). Lanciai un’occhiata verso la finestra per vedere se Agda era là a guardare. C’ era.
La salutai con la mano. Non fece nessun cenno di risposta. Seccato, salii in macchina sbattendo la portiera e avviai il motore.
Senza parlare uscimmo dalla città silenziosa.
Marianne fece per accendersi una sigaretta.
ISAK: Non fumare, per favore.
MARIANNE: Va bene.
ISAK: Non sopporto il fumo delle sigarette.
MARIANNE: Me l’ero dimenticato.
ISAK: Inoltre fumare sigarette costa e fa male alla salute. Dovrebbe esserci una legge che proibisca alle donne di fumare.
MARIANNE: Che bel tempo.
ISAK: Sì, ma afoso. Penso che verrà un temporale.
MARIANNE: Lo credo anch’io.
ISAK: Vuoi mettere un buon sigaro. Il sigaro è l’espressione dell’idea intrinseca del fumare. È al tempo stesso stimolante e distensivo. Un vizio da uomini.
MARIANNE: E a quali vizi può dedicarsi una donna?
ISAK: Piangere, fare figli e parlar male dei vicini.
MARIANNE: Quanti anni hai, realmente, papà Isak?
ISAK: Perché me lo chiedi?
MARIANNE: Così. Perché?
ISAK: So perché me l’hai chiesto.
MARIANNE: Ah sì?
ISAK: Non fare finta. Io non ti piaccio e non ti sono mai piaciuto.
MARIANNE: Ti conosco solo come suocero.
ISAK: Come mai torni a casa?
MARIANNE: Un impulso. Nient’altro.
ISAK: Si dà il caso che Evald sia mio figlio.
MARIANNE: Non c’è dubbio.
ISAK: Quindi non sarà poi così strano che io te lo chieda.
MARIANNE: È una cosa che proprio non ti riguarda.
ISAK: Allora ti dirò quel che penso io.
Mi irritava con quella sua calma imperturbabile e con la sua freddezza. Inoltre ero molto perplesso e un po’ inquieto.
ISAK: Evald e io siamo molto simili, abbiamo i nostri princìpi.
MARIANNE: Non c’è bisogno che tu me lo dica.
ISAK: Quel “prestito”, per esempio. Ho prestato a Evald i soldi per studiare. Con l’accordo che me li avrebbe restituiti una volta avuto l’incarico di docente. È
diventata per lui una questione d’onore versarmi cinquemila corone l’anno, anche se mi rendo conto che è difficile. Ma quel che è detto è detto.
MARIANNE: Per noi questo vuol dire che non abbiamo mai tempo di stare insieme e che tuo figlio si ammazza di lavoro.
ISAK: Tu hai il tuo reddito.
MARIANNE: Specie se poi si pensa che tu sei ricco sfondato e che non hai affatto bisogno di quei soldi.
ISAK: Quel che è detto è detto, mia cara Marianne. E so che Evald mi capisce e mi rispetta.
MARIANNE: Sarà. Ma ti odia anche.
Il suo tono calmo, quasi oggettivo, mi fece sussultare. Cercai il suo sguardo, ma lei guardava fisso davanti a sé e il suo viso era senza espressione.
ISAK: Evald e io non siamo mai stati molto teneri tra noi.
MARIANNE: Ti credo.
ISAK: È un peccato che io ti sia così antipatico, perché in fondo io invece ti sono affezionato.
MARIANNE: Mi fa piacere.
ISAK: Che cos’hai in realtà contro di me?
MARIANNE: Vuoi che ti risponda in tutta franchezza?
ISAK: Visto che te lo chiedo.
MARIANNE: Tu sei un vecchio egoista, papà Isak. Sei del tutto senza scrupoli e non hai mai ascoltato nessun altro che te stesso. Ma lo nascondi bene dietro la tua aria raffinata da gentiluomo e i tuoi modi affabili. Invece sei un inscalfibile egoista, per quanto ti dipingano, a parole e per iscritto, come il grande amico dell’umanità. Ma noi che ti conosciamo da vicino sappiamo chi sei. Noi non ci inganni. Ti ricordi, tanto per fare un esempio, quando sono venuta da te un mese fa? Avevo una qualche stupida idea che tu ci avresti aiutati, me e Evald. Così ti ho chiesto di poter stare da te per qualche settimana. Ti ricordi cosa mi hai risposto?
ISAK: Ti ho detto che potevi rimanere da me di tutto cuore.
MARIANNE: Ecco cosa mi hai detto (ma te lo sei dimenticato): Non provate a immischiarmi nei vostri problemi matrimoniali, tu e Evald, perché me ne infischio, che ognuno si risolva i suoi problemi.
ISAK: Ho detto così?
MARIANNE: Peggio.
ISAK: Davvero!
MARIANNE: Hai detto, testuali parole: Non ho nessun rispetto per le sofferenze psichiche, quindi non venire a lamentarti da me. Ma se hai bisogno di un po’ di masturbazione mentale posso trovarti qualche buon ciarlatano dello spirito. O magari un prete, sono così di moda ai nostri giorni.
ISAK: Ho detto questo?
MARIANNE: Sei piuttosto categorico nei tuoi giudizi, papà Isak. Sarebbe terribile dover dipendere da te in qualsiasi modo.
ISAK: Può darsi. Se devo essere sincero mi ha fatto molto piacere averti in casa.
MARIANNE: Come un gatto, allora.
ISAK: Come un gatto o un essere umano, non fa differenza. Tu sei una ragazza in gamba, e mi dispiace esserti antipatico.
MARIANNE: Non mi sei antipatico.
ISAK: Ah.
MARIANNE: Mi fai pena.
Non potei trattenermi dal ridere, per il suo strano tono di voce e per la sua mancanza di logica. Del resto rise anche lei, e l’atmosfera si alleggerì un po’.
ISAK: Avrei proprio voglia di raccontarti un sogno che ho fatto questa notte.
MARIANNE: Non mi interessano molto i sogni.
ISAK: No, forse no.
Per un po’ viaggiammo in silenzio. Il sole era già alto in cielo e la strada d’un bianco accecante. All’improvviso mi venne un’idea, tanto avevamo tempo. Frenai e svoltai a sinistra in una stradina laterale che scendeva verso il mare. Era una strada che serpeggiava nel bosco, costeggiata da cataste di tronchi appena tagliati che emanavano un profumo forte al calore del sole. Marianne alzò lo sguardo, un po’
stupita, ma non disse nulla. A una curva stretta fermai la macchina.
ISAK: Vieni, voglio farti vedere una cosa.
Lei sospirò in silenzio e mi seguì giù per la breve discesa verso il cancello. Ora potevamo vedere la grande casa gialla in mezzo alle betulle con la terrazza rivolta alla baia. La casa dormiva dietro le porte chiuse e le tende abbassate.
ISAK: Nei primi vent’anni della mia vita, ho passato qui ogni estate. Eravamo dieci fratelli. Sì, forse lo sai già.
MARIANNE: Che vecchia casa buffa.
ISAK: È un vestigio del passato.
MARIANNE: È ancora abitata?
ISAK: Non quest’estate.
MARIANNE: Vado a farmi un tuffo, se non hai nulla in contrario. Abbiamo tempo.
ISAK: Io vado un momento al posto delle fragole.
Mi resi d’un tratto conto che stavo parlando da solo. Marianne si era avviata a passo pigro verso la spiaggia.
ISAK: Il posto delle fragole.
Mi avvicinai alla casa e trovai subito il posto, ma mi sembrò più piccolo e insignificante di come me lo ricordavo. Però c’erano ancora molte fragole. Mi sedetti ai piedi di un vecchio melo solitario e mi misi a mangiare le fragole, una a una.
Probabilmente mi lasciai prendere dal sentimentalismo. Forse ero un po’ stanco e mi sentivo malinconico. Non è escluso che mi venissero in mente pensieri legati ai luoghi dove giocavo da bambino.
Provavo uno strano senso di solennità e di fatalità. Non sarebbe stata l’unica volta quel giorno. La quiete del mattino estivo. La calma piatta sulla baia. Lo straordinario concerto di uccelli tra le chiome degli alberi. La vecchia casa addormentata. Il melo dolcemente inclinato contro cui mi appoggiavo. Le fragole selvatiche.
Non so come accadde, ma la chiara realtà del giorno si trasfigurò in immagini di sogno. Non so neppure se fosse un sogno o se fossero ricordi che affioravano con la forza di fatti reali. Non ha importanza. Non so neppure come cominciò, ma credo che per prima cosa sentii il suono di un pianoforte.
Stupefatto, mi voltai a guardare la casa che si trovava a qualche centinaia di metri più in alto. Era cambiata in modo singolare. La facciata, prima chiusa e abbandonata, improvvisamente viveva e scintillava del riverbero del sole sulle finestre aperte.
Tendine bianche si gonfiavano al caldo vento estivo. Tende da sole colorate abbassate a metà, fumo dal comignolo. Tutta la vecchia residenza estiva sembrava scoppiare di vita, si sentiva il suono di un piano (era qualcosa di Waldteufel, ma l’ho sicuramente già scritto), voci allegre echeggiavano dalle finestre aperte, si sentivano risate e passi, grida di bambini, la pompa cigolava, qualcuno, al primo piano, si mise a cantare, una voce tenorile, quasi da bel canto italiano. Eppure non si vedeva nessuno. Ancora per qualche istante quell’impressione conservò un senso di irrealtà, un’illusione momentanea che poteva dissolversi da un momento all’altro e svanire di nuovo nella chiusura e nel silenzio.
D’un tratto la vidi. Quando mi voltai, dopo aver contemplato la casa così stranamente cambiata, la scorsi accovacciata, nel suo vestito di cotone giallo sole, intenta a raccogliere le fragole. La riconobbi subito e mi accorsi di essere turbato. Era così vicina che potevo toccarla, ma la persistente sensazione di fugacità della situazione mi impedì di farle notare la mia presenza. (Era così incredibilmente lei in quell’immagine mentale, o sogno, o quel che fosse: la fanciulla vestita di giallo, con le sue lentiggini, abbronzata, come raggiante di gioiosa e fresca femminilità).
Rimasi qualche minuto a contemplarla in silenzio, ma alla fine non riuscii a trattenermi dal chiamarla per nome, a voce bassa, ma perfettamente udibile. Lei non reagì. Provai di nuovo, a voce un po’ più alta.
ISAK: Sara. Sono io, tuo cugino Isak. Sono un po’ invecchiato, naturalmente, e sono cambiato. Ma tu non sei cambiata affatto. Cara cuginetta, non mi senti.
Non mi sentiva, continuava a raccogliere alacremente le fragole nel suo piccolo cestino di vimini. Compresi allora che non era facile parlare con i ricordi. Questa scoperta non mi amareggiò particolarmente, decisi soltanto di rimanere in silenzio e sperai che questa singolare e deliziosa situazione si prolungasse il più a lungo possibile.
In quel momento comparve un ragazzo che scendeva a passo indolente dal pendio.
Portava già i baffetti, benché non potesse avere più di diciotto o diciannove anni. Era in camicia e pantaloni e teneva il berretto da studente spinto indietro, sulla nuca. Si fermò proprio alle spalle di Sara, si levò gli occhiali e li pulì con un grande fazzoletto bianco. (Lo riconobbi: era mio fratello Sigfrid, un anno maggiore di me. Avevamo condiviso molte gioie e molte preoccupazioni, ma era morto relativamente giovane, di pielonefrite. Era docente di lingue slave all’Università di Uppsala).
SIGFRID: Buon giorno, bella cugina. Cosa stai facendo?
SARA: Raccolgo fragole, non lo vedi, stupido?
SIGFRID: E chi si delizierà di questi gustosi frutti, raccolti di primo mattino da una giovane e graziosa damigella? (pronunciò la parola “damigella” accentuandone l’arcaica ricercatezza).
SARA: Be’, lo sai che oggi è l’onomastico dello zio Aron, e io ho dimenticato di fargli il regalo. Così gli porterò un cestino di fragole, è un bel regalo lo stesso.
SIGFRID: Ti aiuto.
SARA: Vedi, Charlotta e Sigbritt hanno ricamato un centrino, e Angelica ha fatto una torta, e Anna ha dipinto un bel quadretto, e Kristina e Birgitta hanno scritto una canzone che gli canteranno.
SIGFRID: Questa è l’idea migliore, visto che lo zio Aron è sordo come una campana.
SARA: Ne sarà contentissimo, e tu sei uno stupido.
SIGFRID: E tu hai una nuca dannatamente bella.
Sigfrid si chinò rapido e con fare galante sulla ragazza e le baciò la morbida nuca.
Sara si arrabbiò.
SARA: Lo sai che non puoi fare queste cose.
SIGFRID: E chi l’ha detto?
SARA: Lo dico io. Inoltre sei un signorino insopportabile e pieno d’arie.
SIGFRID: Sono tuo cugino, e tu sei innamorata di me.
SARA: Di te!
SIGFRID: Vieni qui che ti bacio sulla bocca.
SARA: Se non te ne stai buono dirò a Isak che cerchi sempre di baciarmi.
SIGFRID: Il piccolo Isak. Di lui posso sbarazzarmi con una mano legata dietro la schiena.
SARA: Isak e io siamo segretamente fidanzati, lo sai benissimo.
SIGFRID: Sì, il fidanzamento è così segreto che tutta la casa lo sa.
SARA: Non è colpa mia se le gemelle vanno in giro a spettegolare su tutto.
SIGFRID: Quando vi sposerete, allora? Quando vi sposerete, allora? Quando vi sposerete, allora? Quando vi sposerete?
SARA: Ti dirò che di voi quattro fratelli non so proprio chi sia il meno spocchioso, ma credo che sia Isak; e comunque è il più gentile. E tu sei il più cattivo, il più insopportabile, il più stupido, il più sciocco, il più ridicolo, il più presuntuoso, sì, e non so più cos’altro.
SIGFRID: Ammetti che hai un debole per me.
SARA: Per di più puzzi di sigaro.
SIGFRID: È un profumo da uomo.
SARA: E poi le gemelle (che sanno “tutto”) dicono che hai fatto delle cose
“piuttosto brutte” con la maggiore delle Berglund. E non è una ragazza proprio “per bene”, dicono le gemelle. E io ci credo, visto che penso lo stesso.
SIGFRID: Se sapessi quanto sei bella quando arrossisci così. Adesso devi baciarmi. Non resisto più. Sono innamorato perso di te, ora che ci penso bene.
SARA: Sì, lo dici tanto per dire. Le gemelle sostengono che vai “matto” per le ragazze. Non è forse vero?
D’un tratto lui la baciò con forza e in modo piuttosto esperto. Lei si lasciò trascinare dal gioco e rispose al bacio con una certa foga. Ma poi fu presa dai rimorsi e si gettò a terra sul ventre, rovesciando il cestino di fragole. Era molto arrabbiata e si mise a piangere di stizza.
SIGFRID: Non gridare. Può arrivare qualcuno.
SARA: Guarda, tutte le fragole! E cosa dirà Isak, lui che è così gentile e che mi ama davvero. Ah, come sono triste, che male mi hai fatto. Mi hai fatto diventare una donna di malaffare, o “quasi”. Vattene. Non voglio più vederti, almeno fino all’ora di colazione. Devo sbrigarmi. Aiutami a raccogliere le fragole. E guarda, mi sono anche macchiata il vestito.
D’un tratto risuonò il gong, annunciando che la colazione era servita; fu come se quel suono materializzasse una moltitudine di esseri umani vicino al luogo dove mi trovavo, come uno spettatore attonito piovuto da un altro pianeta.
La bandiera con lo stemma dell’Unione2 si alzò e si tese contro le leggere nuvole estive, mentre Hagbart, il fratello maggiore, in uniforme da cadetto, manovrava le funi con mano esperta. Dalla cabina scoppiarono risate selvagge e due ragazzine dai capelli rossi sui tredici anni, identiche come due fragole, sbucarono a precipizio dalla porta. Ridevano tanto da non riuscire quasi a camminare e si sussurravano cose senza dubbio molto segrete e molto divertenti. Sigbritt, alta e snella, coi capelli che ricadevano in pesanti bande sulla fronte, uscì portando la culla del bambino e la mise all’ombra del pergolato. Charlotta, la sorella coscienziosa e pronta a sacrificarsi che portava sulle sue spalle tonde il peso dell’andamento di casa, uscì in veranda e gridò a Sara e Sigfrid di sbrigarsi. Il diciassettenne Benjamin spuntò fuori da un cespuglio, il viso arrossato dal sole e pieno di foruncoli, e si guardò intorno con aria risentita.
Teneva in mano un grosso libro aperto. Angelica, la bellezza di famiglia, arrivò al galoppo dal bosco e si unì alle gemelle, che la misero subito al corrente di qualche divertente segreto. Infine Anna, quindicenne, si precipitò di corsa dalla casa e andò a chiedere a Hagbart qualcosa di importante, poi si mise a chiamare Isak a gran voce.
Mi alzai, stupito e inquieto, ma incapace di rispondere al suo richiamo.
LE GEMELLE: Credo che Isak sia andato a pescare con papà. Forse non hanno sentito il gong. E papà del resto ha detto di non aspettarlo a pranzare. Papà l’ha detto, me lo ricordo perfettamente.
E così papà e io eravamo andati insieme a pescare. Provai una gioia segreta e del tutto inesplicabile a questa notizia, rimasi a lungo indeciso a chiedermi come dovessi comportarmi in questo nuovo vecchio mondo che così all’improvviso e senza alcun merito mi era dato di visitare.
Il resto della famiglia si era ritirato in casa, dove si stava discutendo qualcosa a voce molto alta. Sulla terrazza era rimasto solo il bambino di Sigbritt, che dormiva all’ombra degli alti lillà del pergolato.
La curiosità era troppo forte, risalii lentamente verso casa e mi trovai presto nel corridoio lungo e scuro collegato all’ingresso da una doppia porta a vetri. Da lì avevo ampia vista sulla grande sala da pranzo illuminata dal sole, col suo tavolo apparecchiato con la tovaglia bianca per la prima colazione, i mobili chiari e la tappezzeria, le statuette, le palme, le vaporose tende estive, il parquet a larghe tavole tirato a lucido e i tappeti azzurri, i dipinti e i quadri ricamati, il grande lampadario di ottone, e soprattutto la famiglia.
Erano tutti lì – i miei nove fratelli, la zia e lo zio Aron. Mancavamo solo papà, 2 L’unione tra i regni di Svezia e Norvegia (1814-1905). ( N.d.T. ) mamma e io.
Stavano ciascuno dietro la sua sedia con il capo chino e le mani giunte. La zia recitò la preghiera: Per questa mensa il Tuo nome sia lodato, benedici Signore il cibo che ci hai dato, dopodiché tutti si sedettero con gran baccano e irruenza. La zia, una donna statuaria nel fiore degli anni, dotata di forte autorità e di notevoli risorse vocali, impose il silenzio.
ZIA: Benjamin, va’ immediatamente a lavarti le mani. A che età intendi imparare cos’è la pulizia?
BENJAMIN: Ma me le sono lavate, le mani.
ZIA: Sigbritt, dài il porridge ad Angelica e servine alle gemelle. Hai le unghie nere come carbone. Passami il pane, Hagbart, chi ti ha insegnato a spalmare il burro in quel modo? È così che si fa all’Accademia militare? Charlotta, la saliera è tappata, quante volte ho detto che non bisogna lasciarla aperta, altrimenti il sale si inumidisce.
BENJAMIN: Io mi sono lavato le mani, ma ho della pittura sotto le unghie.
ZIO ARON: Chi mi ha raccolto le fragole selvatiche?
SARA: Sono stata io. ( a voce più alta) Sono stata io.
ZIA: Parla più forte, piccola, sai che zio Aron è duro d’orecchi.
SARA ( grida): Sono stata io!
ZIO ARON: Ti sei ricordata dell’onomastico dello zio Aron, davvero gentile da parte tua.
HAGBART: Potremmo dare un bicchierino d’acquavite allo zio Aron, per celebrare la giornata.
ZIA: L’acquavite a colazione quando papà non c’è è fuori discussione.
LE GEMELLE: Lo zio Aron se ne è già presi tre di bicchierini, l’abbiamo visto noi, l’abbiamo visto questa mattina alle otto, quando siamo scese alla spiaggia.
ZIA: Fareste meglio a mangiare e a tenere la bocca chiusa, gemelle. Inoltre non avete rifatto i vostri letti e per punizione asciugherete le posate dopo pranzo.
Benjamin, non mangiarti le unghie. Smettila di saltare sulla sedia, Anna, non sei più una bambina.
ANNA: Voglio dare il mio quadro a zio Aron, cara zia, non possiamo darglieli subito i nostri regali?
ZIA: Dov’è il quadro?
ANNA: Sotto il tavolo.
ZIA: Devi aspettare la fine del pranzo.
SIGFRID: Si tratta di un’opera d’arte d’avanguardia, devo dire, Frithiof e Ingeborg3, anche se non si capisce bene quale dei due sia Frithiof.
SARA: Deve sempre rovinare tutto, quel guastafeste. Adesso ha fatto arrabbiare Anna. Scommetto che si mette a piangere.
ANNA: Non ci penso nemmeno. Sono tollerante con Sigfrid!
LE GEMELLE: Tra l’altro, cosa facevano Sara e Sigfrid al posto delle fragole, stamattina? Abbiamo visto tutto dalla cabina.
SIGBRITT: Silenzio, bambine!
CHARLOTTA: Bisognerebbe mettere il bavaglio alle gemelle.
ZIA: State un po’ zitte, gemelle, o andatevene da tavola.
BENJAMIN: Non c’è neanche libertà di parola, adesso!
SIGFRID: Chiudete il becco, mocciose.
ANGELICA: Sara arrossisce. Sara arrossisce. Sara arrossisce.
LE GEMELLE: Anche Sigfrid arrossisce. Hahaha! Sigfrid e Sara. Sigfrid e Sara.
Sigfrid e Sara!
ZIA ( con voce stentorea): Adesso basta, silenzio a tavola!
ZIO ARON: Cos’hai detto? Certo che ci divertiremo.
Le gemelle ridacchiano nel silenzio generale.
Sara lancia il cucchiaio del porridge alle sue tormentatrici.
CHARLOTTA: Ma… Sara!
3 Eroi del celebre ciclo poetico Frithiofs Saga (1820-25), del poeta romantico Esaias Tegnér (1782-1846), sono un po’
l’equivalente di Tristano e Isotta svedesi. ( N.d.T. ) SARA: Sono delle bugiarde! Sono solo delle bugiarde!
Sara si alzò dal tavolo con tale impeto da rovesciare la sedia, rimase un attimo esitante e rossa in viso, mentre le lacrime le scorrevano sulle guance. Poi si precipitò furiosa fuori dalla porta nell’ingresso.
Aprì la porta a vetri e scomparve in veranda, dove potevo sentirla singhiozzare forte. La dolce e tonda Charlotta la seguì e mi passò davanti per andarla a cercare o consolarla.
Sentivo le loro voci dal buio dell’ingresso e mi avvicinai cautamente. Sara sedeva su un piccolo sgabello rosso (che la nonna usava per mettersi o togliersi le calosce).
Charlotta, in piedi davanti a lei, le carezzava dolcemente il capo; la ragazza affranta premeva il viso rosso di lacrime contro il ventre di Charlotta. La luce colorata che penetrava dai vetri della porta esterna dava a tutta la scena un’atmosfera irreale.
