lunedì 8 luglio 2019


IL POSTO DELLE FRAGOLE
Ingmar Bergman

Il percorso nella vecchiaia come (ri)scoperta della vita.

Isak Borg, il protagonista del film di Bergman Il posto delle fragole , vedovo e chiuso nel suo egoismo, che per un caso si ferma nella casa dove aveva vissuto da ragazzo e rivede la cugina Sara, «da lui amata in gioventù ma alla quale non aveva mai avuto il coraggio di dichiararsi, mentre raccoglie le fragole nel prato». Un episodio che porta all’illuminazione e a una progressiva riscoperta di sé. Da lì i ricordi prendono a intrecciarsi alla realtà, trasformando il viaggio verso Lund in una sorta di pellegrinaggio, in cui gli episodi, i sogni, gli incontri sono come tappe di un percorso catartico all’interno di se stesso dove potrà  intravedere i suoi fallimenti, il vuoto della sua solitudine e quella verità che sembrano volergli comunicare i suoi  incubi. La vecchiaia, l’infanzia, la giovinezza, l’esistenza di Dio, le occasioni perdute, la nostalgia, l’amore sono i temi intorno a cui si gioca ancora una volta la partita a scacchi tra la morte e la vita per il possesso di un’anima.

Il posto delle fragole
di Enrico Terrone
Sinossi
“I nostri rapporti con il prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda deferente passione per la scienza. Ho un figlio, anche lui medico, che vive a Lund. È sposato da anni ma non ha avuto bambini. Mia madre vive ancora ed è molto attiva e molto vivace, malgrado la sua tarda età. Mia moglie, Karin, è morta da diversi anni. Ho la fortuna di avere una buona governante. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante, e questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me sia alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg, ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale”. 
Questo (magnifico) monologo in voce over accompagna le immagini che precedono i titoli di testa. La sequenza successiva si risolve in un sogno (primo inserto soggettivo: l’incubo degli orologi senza lancette), carico di presagi di morte. Al risveglio Isak decide di partire da Stoccolma prima dell’alba, in automobile anziché in aereo. Nel viaggio lo accompagna la nuora Marianne, in crisi col marito. In mattinata i due si fermano presso una villa dove Isak rivive in sogno un episodio della propria adolescenza (secondo inserto: l’onomastico dello zio Aron) e ritrova, nel posto delle fragole, la cugina Sara di cui era innamorato. L’uomo è richiamato alla realtà dall’arrivo di una ragazza, anche lei di nome Sara, che gli chiede un passaggio sino a Lund, insieme a due suoi amici autostoppisti. 
Dopo pranzo, con Marianne alla guida, Isak si assopisce e inizia a sognare (terzo inserto: l’incubo dell’esame). Al risveglio, l’uomo confida la propria angoscia alla nuora, che a sua volta gli racconta della propria gravidanza e dei dissidi con il marito, che vorrebbe farla abortire (quarto inserto: il flashback di Marianne). Isak e Marianne arrivano nel pomeriggio a Lund, dove poi si svolge, in tutta la sua solennità, la cerimonia del giubileo professionale. La sera, Isak, già a letto, viene salutato da Evald e Marianne fra i quali sembra prospettarsi una riconciliazione. “Quando durante la giornata sono stato preoccupato e triste, per calmarmi di solito cerco di ripensare ai periodi felici dell’infanzia. E così feci anche quella sera”. Nell’addormentarsi Isak (quinto inserto: il lago) ritrova il posto delle fragole e la cugina Sara che lo accompagna attraverso il parco. Da un altura, egli potrà vedere da lontano i suoi genitori, il padre che sta pescando e la madre seduta vicino, e ricevere da loro un cenno di saluto. Il film si chiude sul primo piano di Isak che si rimbocca la coperta e cerca di dormire. 

L’affermazione del cinema di Bergman al di fuori dei confini della Svezia si compie nel 1957 con il successo internazionale de Il settimo sigillo. Nel febbraio del 1958 Il posto delle fragole vince l’Orso d’oro a Berlino. Jean Luc Godard, inviato dei Cahiers du cinéma e di lì a poco autore di Fino all’ultimo respiro, scrive alla redazione un telegramma: “Orso d’oro fine viaggio prova Ingmar più forte stop sceneggiatura fantastica racconta lampo coscienza Victor Sjöström abbagliato bellezza Bibi Andersson stop moltiplicate Heidegger per Giraudoux ottenete Bergman stop selezione Francia miserabile stop …”i. Con questi due capolavori, girati in rapida successione, Bergman si impone come il regista (per alcuni il primo, per altri il principale, per altri ancora l’unico) capace di innalzare il cinema al livello delle maggiori opere letterarie del secolo, rielaborandone i temi della soggettività, del tempo vissuto e della loro connessione con il linguaggio e con i simboli. Così Il posto delle fragole e il suo autore entrano nelle alte sfere del mito, dove tuttora, seppure un po’ impolverati, soggiornano. Sugli splendori (passati) e le miserie (attuali) della parola “mito” e sull’opportunità di servisene come categoria critica Orio Menoni ha scritto, su queste stesse pagineii, cose assolutamente condivisibili. Il mito, originariamente una finzione attraverso la quale si manifestavano verità profonde e ineffabili (si pensi al mito della caverna), si è trasformato, specie nel linguaggio radiotelevisivo, in un’eccedenza di verità utile a dissimulare un’impostura o un’esagerazione (si pensi all’inflazione dell’aggettivo “mitico”). Cercando di mediare fra questi due estremi, ridefiniamo il mito, in quanto categoria critica, come una commistione di verità e menzogna di fronte alla quale si impone il tentativo di operare delle distinzioni e di portare qualche chiarimento. Vorremmo allora provare a svelare i miti e i veli che, dal 1957 a oggi, hanno ricoperto (oltre che rivelato) Il posto delle fragole, contrapponendovi alcune questioni che sembrano restare vive e aperte riguardo al senso e al valore del film.
Il mito della genialità
“Con quel tipo di vita alle spalle non si può non diventare un genio. L’alternativa è finire a far sorrisini ebeti dietro le porte sprangate di una stanza, alle cui pareti lo Stato ha fatto applicare una spessa imbottitura”. La frase, riferita a Bergman, è di Woody Allen e rende bene la tendenza assai diffusa di voler risalire dal film alla vita del suo autore (“la vita alle spalle”), come se l’opera avesse per fine ultimo l’espressione del curriculum e delle vicissitudini di un individuo o peggio il culto della sua, possibilmente “maledetta”, personalità. Non si vuole negare che Bergman sia un genio, non fosse perché riconosciamo di non aver ben chiaro che cosa si intenda ormai con questa parola. Si vuol invece negare, o almeno mettere in dubbio, l’utilità di una serie di informazioni a partire dalle quali il mito de Il posto delle fragole come opera del genio si alimenta. La notizia che la sceneggiatura fu scritta da Bergman durante un ricovero presso l’ospedale Karolinska di Stoccolma nella primavera del 1957 sarebbe abbastanza innocua, per non dire insulsa, se non servisse a insinuare la sottile suggestione che l’artista in quel periodo non era completamente in sé, e che il film esprimerebbe quindi i tormenti della sua psiche malata. Poi si fa notare che il protagonista Eberhard Isak Borg ha le stesse iniziali del regista (Ernst Ingmar Bergman). Forzatamente l’età dei due è differente, ma anche qui c’è una spiegazione: gli anni di Isak sono gli stessi (78) che il suo interprete Sjöström aveva al momento delle riprese, mentre è suo figlio Evald ad avere la stessa età (38 anni) del regista di allora. Si aggiungono infine alcuni particolari in odore di cronaca rosa, tipo che all’epoca Bergman stava vivendo la conclusione del suo terzo matrimonio e aveva in corso un’intensa relazione sentimentale con la ventiduenne Bibi Andersson, l’interprete delle due Sara. Con questo spirito, il film è diventato una specie di diario intimo, e già questo è strano, ma la cosa veramente paradossale è che si può arrivare a convincersi che esso è un capolavoro proprio perché nasce come un diario. Naturalmente un approccio di questo tipo non è immune da vendette del destino: per anni si è sottolineato il fatto capitale che l’idea del film era venuta al regista in coincidenza di una visita alla casa estiva della propria nonna, salvo poi rimangiarsi tutto quando Bergman, vent’anni dopo, ha confessato che questo aneddoto era solo uno scherzo, suggerendo invece che nella figura di Borg potrebbero condensarsi il suo punto di vista e quello di suo padre. Parimenti, la scelta di Sjöström come interprete del ruolo principale viene spesso caricata di significati e considerata come un omaggio del giovane autore al suo regista prediletto, mentre lo stesso Bergman ha di recente ammesso che l’ingaggio di Sjöström gli venne suggerito dal produttore del film e che egli faticò non poco ad accettarlo. Tuttavia, al di là di queste deliziose beffe, il regista svedese ha contribuito in maniera rilevante alla creazione e alla celebrazione del proprio mito, in particolare con la pubblicazione di due scritti autobiograficiiii che campeggiano in testa a quasi tutte le bibliografie critiche anziché venire considerati, come sarebbe più logico, un’appendice della sua opera. L’imponenza di questi testi, tra le cui righe traspare talvolta la pretesa del regista di essere il primo se non l’unico esegeta dei propri film, potrebbe essere considerata come una delle cause del numero relativamente esiguo di testi veramente critici su Bergman e in particolare su Il posto delle fragole. Detto questo, non si vuole negare che in alcuni casi le interviste e le biografie possano essere di notevole interesse, e più avanti non mancheremo di servircene. Quando però si arriva ad anteporre il creatore, per quanto interessante e rispettabile, alla creazione, allora può darsi che si stia facendo del buon cristianesimo (e anche di questo avremo modo di parlare), ma di certo si sta facendo della cattiva critica.
Il mito dell’intertestualità
Se si guarda all’attività teatrale di Bergman nel periodo prossimo alle riprese de Il posto delle fragole, si può rilevare come molte delle opere messe in scena rimandino significativamente al film in gestazione. L’ultima regia, ad esempio, fu il Peer Gynt di Ibsen, storia di un eroe anziano che nell’imminenza della morte si interroga, attraverso una serie di viaggi e di incontri, sul senso del proprio passato. La costellazione di testi, non solo teatrali, all’interno della quale il film viene a collocarsi finisce per giocare un’ambigua funzione mitica, che agisce come un’arma a doppio taglio. Da un lato la nobiltà dei precursori contribuisce a far risplendere l’aura del genio: in virtù delle citazioni e delle ascendenze, sovente rivelate dallo stesso regista nei suoi scritti, Bergman sarebbe di volta in volta il nuovo Ibsen, il nuovo Strindberg, il nuovo Munch ecc. . D’altro canto, alcuni detrattori, che sono poi detrattori del cinema in quanto tale, fanno leva sui medesimi argomenti per sostenere che il regista non sarebbe altro che un epigono, un divulgatore tramite grande schermo, un assemblatore di “frammenti e detriti di esperienze già vissute dalle avanguardie letterario-artistiche del nostro secolo”iv. Rilevato come i due estremismi si elidano a vicenda, una carrellata delle opere che costituiscono il retroterra del film non è priva di valore, soprattutto per comprendere come il lavoro cinematografico di trascrizione e innesto possa produrre un senso supplementare, forse in realtà più essenziale di ogni presunta creazione pura.
Al centro degli interessi letterari di Bergman c’è la figura di Strindbergv: sia per la sua capacità di muoversi sullo scarto fra onirico e reale sia per l’analisi spietata del matrimonio come meccanismo perverso di attrazione e repulsione. Ne Il sogno si parla di un’esperienza infantile legata a una coppa di fragole selvatiche, di un incubo legato a un esame scolastico, di un dibattito semplicistico fra teologi e razionalisti e di una premiazione all’università. L’ultima opera di Strindberg, La grande strada, racconta il viaggio di un uomo che ripercorre i luoghi e i momenti decisivi della propria vita e si prepara a morire, incontrando una serie di figure emblematiche.
Lo stile visivo de Il posto delle fragole, nel suo alternare lugubri frangenti “espressionistici” a momenti realistici dominati dalla luce dell’estate svedese, è influenzato dall’opera dei due maggiori pittori scandinavi all’epoca della giovinezza del protagonista: Larsson e Munch. Entrambi erano amici di Strindberg e ne dipinsero un ritratto. Larsson è celebre per le sue rappresentazioni incantate della felicità della vita in famiglia nelle grandi dimore borghesi, dove un’illuminazione totale annulla qualunque ombra, quando invece la pittura di Munch, negli anni di fine Ottocento, è caratterizzata da toni cupi, morbosi, funesti. Nella sequenza della colazione in onore dello zio Aron, la posizione di Isak, in primo piano sulla destra dello schermo dando la schiena agli altri personaggi, rimanda alla struttura di alcuni quadri di Munch (in particolare Gelosia, 1895): il protagonista esprime una situazione di solitudine e di angoscia nei confronti della vita delle persone sullo sfondo che, nell’inquadratura di Bergman, si svolge in un’atmosfera edenica caratterizzata proprio dalla luminosità tipica di Larsson, dal bianco delle vesti e dell’arredamento.
Anche le ascendenze cinematografiche de Il posto delle fragole sono dislocabili in base alla duplicità costitutiva del film: l’oggettività delle sequenze al presente guarda alla lezione del neorealismo, mentre gli inserti onirici rimandano all’espressionismo tedesco e soprattutto al cinema muto svedese. La figura di Sjöström, interprete principale del film e principale regista di quella scuola, è decisiva. La potenza della sua “interpretazione” è tale da trasformare un uomo freddo e cupo in cerca di risveglio e riscatto in un saggio stoico capace di gettare in ogni istante uno sguardo critico e veritiero sulla propria vita. In altre parole, la recitazione di Sjöström introduce un forte elemento di continuità che entra in contraddizione con il percorso interiore previsto dalla sceneggiatura, tanto da far concludere a un recensore che “egli è così reale, sensibile, penetrante, così capace di ottenere simpatia in ogni modo, che la spiegazione di Bergman non ha affatto significato”vi. Maureen Turim, nel suo Flashback in Filmvii, riconosce l’importanza capitale del cinema di Sjöström e Stiller, l’altro grande regista del muto svedese, nello sviluppo della figura narrativa del flashback, che trova ne Il posto delle fragole una sorta di sublimazione e trasfigurazione. I punti cardinali del film sembrano quindi essere interni alla tradizione scandinava e in particolare a quella svedese. Appaiono invece meno fondati nella poetica del regista e più dovuti a libere associazioni dei critici altri riferimenti come quelli a Arthur Miller, Scott Fitzgerald e persino, a dimostrazione che la fantasia di certi critici non ha davvero nessun limite, Dickens: la sceneggiatura de Il carretto fantasma di Sjöström è tratta da un romanzo ispirato a Racconto di natale, per cui ci sarebbe una parentela (di quinto grado!) fra Isak Borg e il vecchio Scrooge.
Andrebbero infine considerati i rimandi, pressoché infiniti, agli altri film di Bergman. I film con cui il legame tematico sembra più stretto sono quelli più vicini nel tempo: il precedente (Il settimo sigillo) e il successivo (Alle soglie della vita). L’immagine centrale del primo è la celeberrima partita a scacchi fra il cavaliere e la morte, la cui scacchiera ritorna, in una delle prime inquadrature de Il posto delle fragole, nello studio di Isak Borg, che prima di andare a coricarsi vi indugia per qualche istante come per un ricordo o per un presagio. Poco dopo, l’incubo degli orologi senza lancette confermerà che la sfida è destinata a ripetersi. L’attore che vestiva i panni dello scudiero, Gunnar Björnstrand, ha ora il ruolo di Evald, il figlio nichilista che detesta la vita e chiede alla propria moglie di abortire. Max Von Sydow, il cavaliere che sfidava a scacchi la morte, è ora il benzinaio che racconta di quando Isak, giovane medico, fece nascere lui e suo fratello, e gli promette di battezzare col suo nome il figlio che la moglie porta in grembo. Bibi Andersson, che ne Il posto delle fragole interpreta le due Sara, ha quasi sempre incarnato, anche nei film più tardi e cupi come Persona, l’energia vitale, la semplicità e la bellezza della vita. Ne Il settimo sigillo, nel ruolo della moglie del giullare, offriva al cavaliere una coppa di fragole selvatiche, del cui “posto” Sara diventerà una sorta di dea protettrice. In Alle soglie della vita, che si svolge nel reparto maternità di un ospedale, l’attrice interpreta una ragazza incinta che vorrebbe abortire ma alla fine, pur disperando del proprio futuro di ragazza madre, decide di tenere il bambino. Una sua compagna di stanza ha invece dovuto abortire perché suo marito non desiderava un figlio: un destino uguale e contrario a quello di Marianne, che è interpretata dalla stessa attrice, Ingrid Thulin. Sebbene ci sia chi ritiene che qui “è presente con chiarezza l’elemento religioso”viii, la fertilità e la generazione attraverso il parto sembrano essere, nell’uno come nell’altro film, l’unico senso in cui si possa concepire la trascendenza della finitezza umana e il proseguimento della vita oltre la morte