OCCIDENTI E MODERNITÀ
Andrea Graziosi
Il libro
Il Covid e l'invasione russa dell'Ucraina hanno illuminato di colpo l'evoluzione e la crisi delle società occidentali e, facendo ciò, hanno reso evidente quanto le categorie con cui siamo cresciuti e abbiamo interpretato il Novecento, e le nostre stesse vite, siano ormai logore. Andrea Graziosi riflette sulle cause e le conseguenze dei mutamenti che hanno progressivamente trasformato l'Occidente scaturito dal secondo conflitto mondiale. Fine del mondo contadino, individualizzazione, crollo delle nascite e straordinario balzo in avanti nell'attesa di vita che ha reso e rende tutte le società più vecchie e meno vitali, coagularsi di nuove istanze reazionarie, ricomposizione faticosa di collettività plurali dal punto di vista etnico e del colore, crisi dell'azione e delle forme della politica sono alcuni degli aspetti sui quali si sofferma. Su che cosa potremmo far leva per salvare, innovando, un tipo di Occidente e di Modernità che è in crisi ma era riuscito, pur con tutti i suoi difetti, ad aumentare libertà e dignità umane più di ogni altro sistema conosciuto, e il progetto europeo che ne è uno nei nuclei fondamentali?
Andrea Graziosi insegna Storia contemporanea nell'Università di Napoli Federico II, è uno dei maggiori esperti di storia sovietica, ucraina e dell'Europa orientale. Con il Mulino ha pubblicato: "Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956" (2002), "L'Unione Sovietica in 209 citazioni" (2006), "L'università per tutti" (2010), "L'Urss di Lenin e Stalin" (2010), "L'Urss dal trionfo al degrado" (20112), "L'Unione Sovietica. 1914-1991" (2011), "Grandi illusioni" (con G. Amato, 2013), "Lingua madre" (con G.L. Beccaria, 2015) e "Il futuro contro" (2019).
OCCIDENTI E MODERNITÀ
Introduzione: nuovi paesaggi
1. Alla luce di Covid e Putin
Quando proviamo a capire il tempo in cui viviamo o la nostra vita personale vediamo con facilità solo ciò di cui abbiamo già coscienza. Tranne che in casi di grande evidenza, percepiamo invece in ritardo le mutazioni e in particolare quelle più innovatrici. Il fenomeno ha anche radici psicologiche, perché il cambiamento può ferire o irritare e preferiamo quindi ignorarlo. Più spesso però il motivo sta nelle categorie che costruiamo per leggere una realtà che, evolvendo, rende quelle stesse categorie sempre più sfocate. Accadono però di tanto in tanto eventi che oltre a determinare il cambiamento – come le riforme di Deng Xiaoping che hanno lanciato la crescita cinese o la crisi della denatalità in tutti i paesi che hanno raggiunto un certo livello di benessere – lo rendono visibile. Per noi occidentali, perché al nostro «Occidente» (vedremo presto il perché delle virgolette) sono dedicate queste riflessioni[1], il Covid e l’invasione russa dell’Ucraina sono eventi di questo tipo.
L’epidemia e le reazioni ad essa, quelle degli Stati così come quelle di segmenti della popolazione, ci hanno messo di fronte alla sgradevole naturalità di una deriva illiberale e di chiusura, legata ai momenti di crisi, che la prima guerra mondiale aveva già evidenziato. Ma hanno anche rivelato, con una nettezza a tratti sorprendente, quanto fossero avanzati, nel nostro mondo, i processi di individualizzazione, la perdita di autorità della cultura alta e il riprodursi di culture spesso costruite sul suo rifiuto (e per questo a loro modo più «libere»). E quanto grande fosse nelle società del benessere la forza di teorie del complotto nutrite dalla rapida e apparentemente inspiegabile sostituzione delle aspettative crescenti con quelle decrescenti. Il Covid ci ha anche fatto toccare con mano quanto un rapido invecchiamento avesse reso fragili queste società, mantenute da efficaci sistemi sanitari cui era però difficile fronteggiare una situazione straordinaria continuando a svolgere tutti i compiti loro affidati. Alla loro sopravvivenza, oltre che alla nostra, durante l’epidemia abbiamo così spesso – e non irragionevolmente – finito col sacrificare parte della nostra libertà. Una semplice comparazione con quanto è successo in società molto più giovani, come quelle africane, è sufficiente a far capire la profondità del fenomeno.
L’epidemia ci ha anche esposti a una paura della morte che si è dimostrata paradossalmente più forte in società che la morte sembravano aver messo da parte, allungando la speranza di vita di qualche decennio tra il 1945 e il 2000 (in Italia si è per esempio passati da 55 a circa 80 anni). E ci ha fatto vedere come questa paura della morte si trasformasse spontaneamente in una paura dello scambio umano, e quindi della vita, che era solo apparentemente il suo contrario. Il risultato è stato l’ulteriore marginalizzazione di giovani che hanno accettato, anche per amore, di sacrificarsi in società non fatte per loro, ma proprio per questo meno vitali.
L’invasione russa dell’Ucraina ha colpito invece per la sua carica ideologica e morale e per il suo improvviso stravolgere principi che sembravano scontati[2]. Da un lato, Vladimir Putin ha legato la sua «operazione speciale» alla necessità di sovvertire l’ordine mondiale impostato dall’Occidente sorto dalla seconda guerra mondiale e che il 1991 sembrava aver assicurato, un Occidente ora definito «satanico» da chi molti avevano ritenuto un amico. Dall’altro, dopo un secolo di retorica sui diritti dei popoli, nella nostra stessa Europa «civilizzata» questi diritti sono stati sacrificati in nome di politiche di sopraffazione portate avanti rafforzando e distorcendo gli stessi concetti di popolo e di diritti dei popoli, mettendone così a nudo le contraddizioni. Quella di Putin è stata infatti un’«operazione» che almeno ai suoi inizi si è proposta, anche formalmente, di costringere il popolo ucraino a pensare che esso sbagliava a ritenersi tale e che non aveva quindi diritto di esistere se non come manifestazione secondaria di quello russo. Per questo motivo non era nemmeno degno che gli si dichiarasse guerra.
Putin ribadiva così la centralità del «popolo» affermata da Wilson e Lenin nel 1917 (entrambi seguendo, ciascuno a suo modo, Mazzini) e sanzionata dalle dichiarazioni delle Nazioni Unite degli anni Sessanta che hanno fatto dei diritti dei popoli, e in particolare di quello all’autodeterminazione, il perno delle relazioni internazionali. Ma lo faceva sottolineando implicitamente che i popoli (e quindi gli Stati che pretendono di avere in essi il loro radicamento) non esistono in quanto tali, come oggetti naturali[3], ma solo in relazione alla forza che sono capaci di mettere in campo; e che quindi anche i loro diritti non esistono di per sé, ma solo se possono essere difesi. Egli ci ha così ricordato che proprio in quanto oggetti storici i «popoli» possono essere tanto costruiti e dotati di diritti, quanto annichiliti e privati di essi, rimandando implicitamente alla possibilità del genocidio[4]. Ma la regola che Putin ha riaffermato si estende in realtà a ogni gruppo umano e a ogni essere umano, e quindi le sue azioni hanno illuminato la fragilità di tutti i diritti, compresi quelli individuali, e di tutti i discorsi sui diritti, posti da tempo a fondamento della nostra Modernità. Il moralmente giusto, o quello che sembra tale, può inverarsi solo se esistono la forza e le condizioni perché ciò accada, e quindi solo conflittualmente e provvisoriamente.
Covid e Putin illuminano e definiscono quindi la fragilità delle nostre società e di molte delle nostre idee. Facendo ciò, rendono evidente quanto le categorie con cui siamo cresciuti e abbiamo interpretato il Novecento, e le nostre stesse vite, siano ormai logore. Non solo perché esse erano «false» anche quando erano piene di vita e di forza, ma perché anche le categorie e le interpretazioni, come tutti gli oggetti storici, deperiscono e alla fine si inabissano, o cambiano talmente di significato da diventare creature nuove, malgrado portino il vecchio nome.
Quelle categorie e con esse la nostra interpretazione del passato oltre che del presente vanno quindi riviste. Per farlo dobbiamo abbandonare la bella illusione – che è stata temporaneamente e per ragioni molto particolari «vera» per qualche decennio – che la storia collettiva così come la vita individuale possano essere regolate dal principio del «miglioramento continuo» e dell’ampliamento continuo dei diritti (ahimè, povero Bentham, verrebbe da dire)[5].
Erano e sono questi i principi ispiratori della nostra Costituzione così come dei documenti della costruzione europea, ma pure delle Nazioni Unite, tutti animati anche dall’idea di una pace e una fratellanza universali che solo la malvagità di alcuni impedisce di raggiungere. Si tratta ovviamente di principi e aspirazioni nobili e condivisibili: è necessario fare di tutto affinché si cerchi sempre il massimo miglioramento possibile e regnino la pace e la non aggressione. Ma la loro nobiltà e l’evidenza della loro giustezza non sono sufficienti: essi restano principi e aspirazioni da difendere e contestualizzare ricordando che le società e le culture passano da Johann Wolfgang Goethe ad Adolf Hitler o da Michail Gorbačëv a Putin (e, per fortuna, viceversa), e che viviamo in un mondo in cui il destino di tutti è nell’invecchiamento e nella morte. Solo sulla base della lotta contro la possibilità del peggioramento nonché della capacità di tener conto dell’evoluzione della realtà, e quindi della comprensione delle possibilità che di volta in volta essa offre, si può ottenere il miglioramento concretamente possibile, che può essere anche un peggioramento relativo. E solo dall’accettazione della nostra mortalità individuale (e quindi del nostro continuo decadere), e non dalla difesa a oltranza di noi stessi, può nascere la vita.
Sono, queste, ovvietà. Ma sono ovvietà che l’esperienza del travolgente miglioramento continuo garantito dal particolare Occidente nato dopo il 1945 e dal tipo di Modernità da esso rappresentato – di Occidenti, come di Modernità, ve ne sono stati infatti più d’uno – ci ha permesso di «dimenticare», malgrado la storia ne ricordasse di continuo la verità. La potenza dell’oblio era alimentata dalla forza, al tempo stesso vera e illusoria, di un progresso che sembrava non dovesse aver fine e che si identificava a sua volta in una crescita che nel 1975 lo storico Pierre Chaunu elencava così: «più cibo, più abitazioni, più libri, più vita, una morte più tardi, più uomini, una vita più lunga, una natura meglio dominata dall’uomo»[6].
Era questa allora l’esperienza dominante di tutte le Modernità esistenti, anche delle meno efficienti come quelle socialiste, un’esperienza che stava però già mostrando i segni della sua insostenibilità. Ma l’estrema gradevolezza di quella condizione eccezionale rendeva difficile vedere quei segni e accettare ciò che essi annunciavano. E quando, qualche anno dopo, il crollo del Moderno socialista sembrò confermare il trionfo del nostro, molti presero a bersaglio Francis Fukuyama per il titolo, sbagliato, sulla «fine della storia» dato a un libro migliore di esso[7]. Molti di quei critici, però, la pensavano in realtà come quel titolo e lo dimostravano rifiutando l’idea che si venisse da un periodo eccezionale che non poteva quindi per definizione costituire una regola o uno standard, e che la storia sarebbe continuata, cambiando le carte in tavola. Era un sentimento espresso indirettamente dai partecipanti alle grandi manifestazioni organizzate per difendere un «diritto» di andare in pensione a meno di 60 anni che speranze di vita che avevano ormai quasi toccato gli 85 avevano reso semplicemente irrealistico, così come da coloro secondo i quali sarebbe bastato tornare alle politiche keynesiane per far ripartire la crescita. E di fatto la pensano oggi così i tanti stupiti dall’invasione dell’Ucraina e dalla «guerra in Europa», che avevano evidentemente derubricato le guerre jugoslave, malgrado le loro 130-140.000 vittime, a episodio minore e tipico di territori marginali, e quindi isolabili, senza vedere che esse erano anche segni premonitori.
Queste reazioni confermano la forza del «buonismo ingenuo» – un’espressione che cominciai a usare dentro di me negli anni Ottanta – che si cela dietro l’illusione del miglioramento continuo e lo scambio persistente dei propri desideri, spesso riletti come diritti, con la realtà. Il suo limite sta appunto nell’incapacità di vedere, oltre che di ascoltare, quest’ultima, e in special modo quello che ne è un elemento costitutivo imprescindibile, cioè il Male se vogliamo dare un nome alla passione per la sopraffazione, al desiderio di chiusura e di controllo, al continuo riprodursi dell’ingiustizia e all’inevitabilità della sofferenza e della morte. Ma per poterlo affrontare, questo Male va riconosciuto e ascoltato, anche perché proprio in quanto elemento costitutivo della realtà esso ci racconta e ci lascia vedere elementi importanti di verità, malgrado le menzogne di cui la ricopre. E riuscire a vedere significa poter meglio combattere, mobilitando le energie e l’intelligenza che per fortuna esistono e cogliendo le opportunità che la realtà continuamente produce, come gli ucraini ci hanno ricordato che è possibile fare.
2. La parabola del nostro Occidente
Ho scritto che di Occidenti e Modernità ve ne sono stati più d’uno. Si tratta cioè di categorie multiple, che comprendono tipi e varianti differenti. In particolare, quella di «Occidente» è una categoria intellettuale, e quindi mobile, storicamente e geograficamente. È però possibile collegare le sue diverse incarnazioni, a partire da quella ateniese fino a quella odierna, al valore di una libertà e dignità individuali declinabili in modi diversi e sempre cresciute accanto e insieme a oppressione e ingiustizia. Ogni Occidente può quindi e fondatamente essere giudicato colpevole di ipocrisia, l’identificazione tra Occidenti e libertà è anche un inganno, e alcuni di questi Occidenti hanno corso il rischio di degenerare, o sono degenerati, in sistemi imperiali brutali, associati a ideologie ripugnanti, come è successo alla versione europeo-continentale dopo che la prima guerra mondiale ne determinò il «tramonto». La conquista del mondo da parte del primo Occidente europeo può inoltre essere raccontata sottolineando il ruolo della rivoluzione tecnico-scientifica e industriale, con le sue ricadute in termini di potenza militare, come hanno fatto e fanno i regimi repressivi sia in Europa che fuori di essa. Resta tuttavia il dato, incontestabile, che in ciascuno degli Occidenti che si sono succeduti nel tempo, la libertà e la dignità delle persone sono comunque sopravvissute e cresciute incomparabilmente più che altrove, ed è per questo che ci sono cari.
Se ci si chiede quale sia il nostro Occidente, la risposta è facile: è quello nato dopo il 1945 da un’associazione tra Stati Uniti ed Europa occidentale che fino agli anni Cinquanta ha dominato il mondo non socialista. È evidentemente un Occidente molto diverso da quello di cui Oswald Spengler lamentava il declino alla fine della prima guerra mondiale[8]. E prima di quest’ultimo vi erano stati – in una catena di cui dimentico sicuramente alcune maglie – quello ateniese, quello cristiano e dello stoicismo imperiale romano, e quelli dei comuni italiani, del Rinascimento e dell’illuminismo anglo-francese.
La sua nascita non era scontata, come non lo è oggi quella di un suo possibile successore: nel 1941 esso era solo una delle tre più importanti possibili vie di integrazione progressiva degli Stati nazionali in insiemi supernazionali. Due di esse, quella tedesca, in cui Mussolini aveva sperato di ritagliarsi uno spazio, e quella sovietica non erano di sicuro «occidentali» nel senso che ho dato al termine. E in realtà se ne potevano scorgere anche altre due, pure non occidentali, rappresentate da un blocco cattolico «antimoderno» di cui, dopo la caduta del fascismo, Spagna, Irlanda e Portogallo fornivano il modello, e dalla grande Asia giapponese. Alla fine della guerra, per fortuna, la via nazifascista e quella giapponese erano sconfitte e quella cattolico-tradizionalista era fortemente indebolita, mentre la via sovietica, benché trionfante, era destinata a incontrare difficoltà sempre maggiori.
Il nuovo blocco dominante fu quindi quello neo-occidentale costituito dall’adesione dei principali paesi dell’Europa occidentale al progetto guidato dagli Stati Uniti, un’adesione resa possibile non solo dalla debolezza dei primi, ma anche dalla forza e soprattutto dalle caratteristiche dei secondi. Si trattava infatti di un’«America» che era ancora, e anzi più di prima, un’Europa fuori d’Europa, in cui le quote poste all’immigrazione nel 1924 per frenare quella dei «bianchi di qualità inferiore» (i cattolici dell’Europa meridionale o gli ebrei di quella centrorientale) avevano paradossalmente finito col favorire – naturalmente insieme ad altri fattori come le guerre mondiali o le lotte del New Deal – l’integrazione di quelli arrivati in massa tra fine Ottocento e inizio Novecento[9]. Frank Sinatra o Albert Broccoli e Harry Saltzman, il calabrese e l’ebreo che produssero i film di James Bond, possono essere eletti a simbolo di questo processo che aveva reso gli Stati Uniti del 1960 non solo più «americani», ma in qualche modo anche più europei (perché non solo nordeuropei) che in qualunque altro punto della loro storia.
L’Europa – compresa, anche se in misura minore, parte di quella occidentale – veniva invece da decenni di pressioni prima oggettive e poi politiche verso un’omogenizzazione di natura diversa dall’integrazione americana. A suo favore avevano giocato sia il boom demografico delle campagne, l’urbanizzazione e l’alfabetizzazione che le politiche di integrazione francesi, i nuovi confini e gli scambi di popolazione seguiti alla prima guerra mondiale, le politiche discriminatorie fasciste, quelle genocide tedesche, lo sterminio degli ebrei, massacri reciproci come quelli tra ucraini e polacchi o tra serbi e croati, e le migrazioni forzate del secondo dopoguerra. Era insomma un’Europa che aveva inseguito l’illusione – velenosa – dell’omogeneità etnonazionale[10], un’illusione che può sembrare l’opposto del principio di autodeterminazione dei popoli[11] ma ne era in realtà, anche secondo buona parte del pensiero democratico, il presupposto. Ce lo indica il concetto di «etnicarchia» sviluppato, su basi herderiane, da Gian Domenico Romagnosi, il giurista e filosofo maestro di Carlo Cattaneo, per il suo progetto di Stato nazionale democratico. Secondo questo concetto, poi ripreso da Pasquale Stanislao Mancini, un popolo poteva definirsi libero se e solo se riuniva in un unico Stato tutti i suoi membri, ed esclusivamente loro, e il futuro dell’umanità stava in una Società delle nazioni composta da Stati nazionali e popolari di questo tipo[12].
La seconda guerra mondiale aveva rafforzato questi sentimenti anche attraverso le resistenze, appunto nazionali, al progetto nazista, da quella francese di Charles de Gaulle a quella italiana, a lungo presentata come «guerra di liberazione nazionale». Essa aveva però al tempo stesso fortemente indebolito sia gli Stati dell’Europa continentale, tutti – ancorché diversamente – sconfitti, sia le ideologie nazionaliste che ne avevano esaltato la forza, contribuendo anche così alla loro catastrofe. Questa debolezza rendeva possibile un’alleanza in posizione subordinata con Washington, facilitata anche dalla paura dell’Urss e del comunismo e legata alla reazione, politica e morale, alla prima guerra mondiale e alle sue conseguenze, una reazione che diede a un’epoca straordinaria il suo colore particolare, fatto di desiderio e progetti di pace, progresso, uguaglianza, giustizia e aspirazioni alla collaborazione. La porta si aprì così a politici che venivano da tradizioni critiche del nazionalismo e proiettate verso ideali più alti, come quella cattolico-liberale di Konrad Adenauer o di Alcide De Gasperi, o quella socialdemocratica, ma anche a élite federaliste che sognavano di sostituire i nazionalismi esistenti con un nazionalismo europeo, puntando sul lungo periodo a costruire uno Stato in grado di competere con Mosca e Washington.
I progetti di collaborazione europea poterono però allora contare proprio sull’appoggio americano e anche su quello di un Regno Unito legato alle sue tradizioni di diversità imperiale o comunque globale che, come disse Winston Churchill alla fine del 1946, sosteneva la creazione di Stati Uniti d’Europa basati sulla partnership franco-tedesca ma senza Londra[13]. Era, da un certo punto di vista, un’anticipazione del futuro, come lo fu poi l’Europa delle patrie proposta nel 1962 da de Gaulle, una formula avversata dai sostenitori del progetto europeo che la lessero, a ragione, come un ostacolo sul cammino sperato. Ma se essi riuscirono a imporre il principio che la sovranità della nazione potesse essere subordinata a una sovranità più alta, rendendo così possibile il progresso verso l’Unione Europea del 1992, quest’ultima risulta, di fatto, una confederazione di Stati nazionali, e quindi anche uno sviluppo dell’idea gaullista.
Nacque così nel 1945 un nuovo Occidente, legato a una nuova versione del Moderno nata negli Stati Uniti. Questo Occidente era composto da un vittorioso nucleo americano, che anche per le sue tradizioni antimperiali voleva essere solo informalmente tale ed era ancora culturalmente ed etnicamente europeo; un mondo anglosassone, pure vittorioso, ad esso associato e indeciso nei riguardi delle sue relazioni con l’Europa continentale; e un progetto europeo con diverse anime, composto essenzialmente da Stati etnonazionali sconfitti, e quindi indeboliti, ma fondati su fortissime tradizioni in parte vivificate dall’opposizione al nazismo. La definizione di questo nuovo Occidente come impero al tempo stesso informale e liberale (specie dopo il crollo degli imperi coloniali) sembra quindi fondata. Esso si dotò molto presto di un’alleanza militare e di forme sofisticate, in parte specifiche e in parte con ambizioni globali più che «internazionali», di collaborazione e integrazione economica, commerciale e finanziaria, come la Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale. Il progetto di cooperazione economica europea ne era parte: esso fu avviato da un piano Marshall fondato sulla decisione americana di tenere in vita, rinnovandola e rafforzandola, la grande macchina di coordinamento e direzione dello sforzo bellico, come i francesi avevano cercato di fare, senza riuscirvi, dopo il 1918.
A causa delle tradizioni del suo nuovo centro statunitense e del Regno Unito, della battaglia ideologica contro il nazifascismo e poi della guerra fredda, questo impero informale si dotò di un discorso imperniato sui valori della libertà e ostile al nazionalismo. Hans Kohn, il principale storico del fenomeno, fortemente segnato dall’amara delusione seguita al suo impegno nel sionismo, ne fu uno degli artefici. Significativa a questo proposito, al di là del valore scientifico, è la sua formalizzazione del modello, già emerso nel XIX secolo, basato sulla contrapposizione tra sentimento nazionale buono e nazionalismo cattivo. Il primo, legato a «un concetto razionale e universale di libertà politica e di diritti dell’uomo, e teso a guardare alla città del futuro», sarebbe stato animato da una versione secolarizzata della tradizione stoico-cristiana e basato sulle classi medie. Il secondo si fondava, invece, «sulla storia, i monumenti, i cimiteri, si ispirava ai miti del passato e della solidarietà tribale, sottolineava […] la diversità e l’autosufficienza delle nazioni» e ragionava in termini di masse e aristocrazie[14]. Insieme alle teorie dei critici del totalitarismo, questi concetti fornirono le pietre angolari della nuova (e bella, ancorché in parte ingenua e autoconsolatoria) retorica della Western civilization, i cui corsi divennero presto uno dei cardini dell’insegnamento superiore negli Stati Uniti prima di essere bersagliati dalle critiche a partire dalla fine del XX secolo.
La parabola di questo nuovo Occidente raggiunse il suo picco nel corso di quelli che sono stati chiamati da un demografo francese i «Trenta gloriosi»[15], cioè gli anni dal 1946 al 1975. Come osservò Chaunu, sarebbe stato forse più opportuno limitarsi al quindicennio 1948-1962, l’era degli antibiotici, dei primi computer, della gioia del consumo senza rimorsi, ma anche della voglia di rimediare alle ingiustizie di un’Europa precipitata dai due conflitti mondiali in una tragedia che a inizio XX secolo sarebbe parsa inconcepibile. È vero però che ancora nel 1975 «i paesi bianchi di ceppo europeo (Europa orientale e Urss incluse) più il Giappone, il 40% delle terre emerse, un miliardo di uomini», costituivano circa un quarto della popolazione mondiale ma rappresentavano «l’80% dei mezzi, delle risorse, in una parola, della potenza»[16]. L’inclusione del blocco sovietico non sembrava priva di fondamento in un momento in cui molti, Andrej Sacharov compreso, puntando su alcune evidenti somiglianze ma dimenticando differenze essenziali, parlavano di «convergenza». E molti, come il già ricordato Hans Kohn, sostenevano che «il concetto di Occidente non era un concetto esclusivo», esprimendo la speranza che prima o poi tutto il mondo si sarebbe modernizzato e quindi «occidentalizzato»[17].
È stato dunque facile, persino naturale, mitizzare un periodo in cui molti europei erano lavoratori stagionali, domestiche, contadini e migranti privi di pensioni e servizi, ma le speranze erano altissime. E si può capire perché nel 1991 Michel Wieviorka abbia potuto sostenere che la maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale era riuscita in breve tempo a integrare con successo società industriale, Stato egualitario e identità nazionale[18]. Quelle che sembravano sicure acquisizioni erano però solo il tratto di una parabola che aveva già cambiato direzione: non si era infatti passati da una fase all’altra, e questo né in un’Europa orientale transitata dal capitalismo al socialismo, né in una occidentale diventata finalmente moderna e integrata. Karl Marx e Walt Whitman Rostow avevano insomma torto[19], e, l’illusione di aver raggiunto in qualche modo una nuova stabilità era appunto un’illusione, ancorché potente e comprensibile perché esprimeva il naturale desiderio umano di pace e tranquillità, un desiderio tuttavia ingannevole perché pace e tranquillità sono solo una faccia della vita, che è anche caos e disordine. Più semplicemente si erano percorse alcune tappe di un cammino aperto, di cui era e resta impossibile prevedere i passaggi successivi.
Già nei primi anni Settanta una serie di crisi, culminate in quella petrolifera, offrì una finestra di visibilità su quanto stava accadendo. Esse mostrarono con chiarezza il declino della potenza del «mondo bianco di ceppo europeo» legato al compimento di una decolonizzazione che spinse subito verso un maggiore equilibrio tra popolazione e risorse globali. I secoli in cui una minoranza della specie umana aveva goduto, grazie alla superiorità culturale e scientifico-tecnologica, di vantaggi straordinari erano finiti, e teorie autoconsolatorie come quelle sul neocolonialismo potevano solo illusoriamente esorcizzare una realtà agita dal protagonismo dei nuovi paesi di quello che era ancora chiamato «Terzo mondo»[20].
Meno evidente, ma forse ancora più importante, era però il nuovo abbassamento del tasso di natalità che in molti paesi europei cominciò già in quel decennio a scendere sotto la percentuale di riproduzione naturale (2,2 figli per donna fertile). La combinazione dell’esaurimento dei bacini demografici rurali interni col calo della natalità sotto la soglia di riproduzione naturale già annunciava con chiarezza, a chi avesse voluto vedere, che si era prossimi al capovolgimento di quella tendenza all’omogeneizzazione, naturale o forzata, che aveva dominato l’Europa nei due secoli precedenti. Il bisogno di «importare» esseri umani tipico dei centri urbani premoderni, già rinnovato in Europa occidentale dal miracolo economico, veniva ora acuito dalle tendenze demografiche (fig. 1)[21].
Negli anni Settanta la speranza di vita continuò inoltre, e inaspettatamente, a crescere anche se in maniera diversificata. Se dopo il 1945, grazie ad antibiotici e vaccini, essa aveva raggiunto in un ventennio i 65 anni tanto in Occidente che nel blocco sovietico, a partire dal 1965 la crescita riguardò solo i paesi occidentali, dove quella speranza si avviò rapidamente a superare gli 80 anni. Al primo invecchiamento, legato a una crescita dei cinquanta-sessantenni che aveva costituito in Europa larga parte di quello che è erroneamente noto come baby boom, ne seguì così un secondo. Esso era ed è caratterizzato da una crescita degli ultrasessantacinquenni che poneva e ancora pone problemi nuovi di produttività, quota della popolazione attiva sul totale, e sostenibilità dei neonati sistemi pensionistici e sanitari. Nel 2001 l’età media della popolazione dei 28 paesi che nel 2020 facevano parte dell’Unione Europea era già salita a 38 anni. Essa avrebbe raggiunto nel 2020 i 44, e i 47 in Italia dove il 22,6% degli abitanti aveva ormai più di 65 anni rispetto all’8,1% del 1951.
FIG. 1. Tendenze del tasso di fertilità nell’Unione Europea e nel mondo, 1970-2010.
FIG. 1. Tendenze del tasso di fertilità nell’Unione Europea e nel mondo, 1970-2010.
fonte: UN World Fertility Patterns, 2010, http://www.un.org/en/development/desa/population/publications/pdf/fertility/world-fertility-patterns-2015.pdf (ultimo accesso ottobre 2022).
Questi due processi – discesa del tasso di natalità sotto la quota di riproduzione e allungamento della speranza di vita oltre gli 80 anni – hanno determinato la comparsa e la natura delle società del Moderno maggiore maturo di cui si occupa questo libro. Ma questi fenomeni cruciali alla comprensione della storia recente della nostra epoca, e del suo futuro, non sono stati e non sono il prodotto di «inevitabili processi demografici». Il prolungamento della vita umana è forse il frutto principale del progresso tecnico-scientifico e il calo delle nascite è la conseguenza di comportamenti e scelte umane rese possibili da nuove e migliori condizioni di vita. L’evoluzione della Modernità non è stata quindi dettata dalla demografia, ma si è prodotta una situazione in cui gli sviluppi demografici restringono progressivamente orizzonti, scelte e speranze.
Malgrado i primi, preoccupanti segnali associati a questi sviluppi, il collasso del sistema socialista nel 1989-1991 sembrò confermare l’ipotesi di un mondo destinato a unificarsi «occidentalizzandosi». Lo avrebbe fatto – si credette – adottando l’unico modello ormai disponibile, un modello la cui vitalità era confermata dai successi delle tigri asiatiche o delle riforme cinesi, i cui effetti benefici anche in campo politico parvero solo rimandati dal massacro di piazza Tienanmen. Su questa strada sembravano ora incamminarsi anche le ex repubbliche sovietiche, Russia inclusa, e un’India che si apriva al mondo. L’ottimismo era tale che nel 1992-1993 i marines, mandati in passato a combattere le battaglie della guerra fredda, sbarcavano in Somalia su mandato delle Nazioni Unite per fermare la guerra civile e combattere la carestia. Le speranze espresse anni prima da Hans Kohn sulla prossima apertura di «un’epoca di pan-umanesimo, generata dal dinamismo della moderna civiltà occidentale» sembrarono allora sul punto di realizzarsi. Eppure quello stesso 1991 che segnava la sconfitta della Modernità socialista, quella del piano e dello Stato, e il trionfo di quella occidentale, apriva una seconda e più grande finestra di visibilità anche sui trend che minavano quest’ultima. Erano trend già chiaramente visibili in un’Italia che visse allora quella che col senno di poi ci appare una crisi anticipatrice, anche nelle sue soluzioni, piuttosto che un’aberrazione. E quella stessa Cina che sembrava sanzionare il trionfo del modello economico «unico» ne stava coltivando anche all’interno la crisi con la tragedia umana prima che demografica della politica del figlio unico.
Il fallimento della missione internazionale in Somalia e soprattutto le guerre jugoslave e i problemi della transizione post-sovietica mostravano intanto come l’egemonia politica e culturale dell’Occidente nato dalla seconda guerra mondiale non fosse poi così solida. Nel primo decennio del nuovo millennio la sua crisi, già visibile negli anni Settanta e poi nascosta dal trionfo del 1991, era sotto gli occhi di tutti, Putin, Hu Jintao e Xi Jinping compresi. In questa prospettiva, il suo ultimo «presidente» è stato George W. Bush, coi suoi sogni di portare la democrazia nel mondo, e Barack Obama il primo della nuova era. Si potrebbe infatti sostenere che quest’ultima fu aperta dalla crisi del 2008 e sul piano internazionale dalla decisione presa da Obama nel 2013 di non dar seguito agli avvertimenti lanciati a Bashar al-Assad in Siria. Questo perché il vero obiettivo della sua presidenza era – dichiaratamente e non irragionevolmente – la costruzione di un’America più giusta e non la guida di un «mondo libero», poi oscurato da Donald Trump e fatto naufragare a Kabul nell’agosto 2021 da Joe Biden, lo stesso Biden che ne ha invece guidato con energia e passione il rilancio a fronte di un’invasione dell’Ucraina decisa da Putin forse anche sulla base di quei segnali di debolezza.
La crisi del nostro Occidente si è così e inevitabilmente manifestata tanto in campo politico, anche con una perdita progressiva di prestigio ed egemonia dei modelli politici imperniati sugli ideali liberaldemocratici, quanto in campo culturale. Guardando all’Italia, ho creduto in passato che la frattura culturale che ha accompagnato anche all’interno, tra i suoi abitanti, questa crisi si potesse situare nell’ultimo decennio del Novecento e che essa fosse legata alla percezione delle aspettative decrescenti e alle reazioni che generava, oltre che a fondamentali cambiamenti psicologici nonché di modi e stili di vita. Pensavo insomma a una frattura recente, ancorché affondasse le sue radici materiali negli anni Sessanta e Settanta[22].
Autori come Christopher Lasch, la cui Cultura del narcisismo (che nell’edizione originale del 1979 porta significativamente come sottotitolo La vita americana in un’era di aspettative decrescenti), mi hanno poi convinto che, come indicavano anche il Sessantotto europeo e quello italiano, questa frattura dovesse essere retrodatata, e non solo e per ovvie ragioni negli Stati Uniti. In linea con questa ipotesi sono le tesi di Chaunu, per il quale tale frattura può essere fatta risalire ai primi anni Sessanta e andrebbe legata: a) alla fine del periodo postbellico e della guerra fredda in Europa (simboleggiata dalla costruzione del Muro di Berlino nel 1961); b) alla fine della fase attiva della minaccia nucleare, seguita alla crisi di Cuba, e della decolonizzazione; e, soprattutto, c) al maturare in Occidente di generazioni che non avevano conosciuto guerra e privazioni ed erano quindi estranee all’esperienza umana tradizionale, dominata da miseria, sofferenza e dalla «necessità dell’ascetismo».
Tornando all’oggi, alla terza finestra aperta sulla crisi del nostro Occidente e sui nuovi paesaggi mondiali dal Covid e da Putin, ci si trova prima di tutto di fronte a un’immagine di divergenze crescenti, fatta di mondi che si allontanano. È un’immagine fondata, e in parte vera. Prima di cercare di tracciarne le linee è però necessario notare che da un punto di vista generale e di lungo periodo essa è anche un’immagine distorta: l’emersione dell’odierno mondo «multipolare», di cui tanto si parla come tanto si è parlato in passato di «pensiero unico» e tendenze all’omogeneizzazione mondiale, copre infatti anche spinte profonde alla convergenza, che non vanno dimenticate. Esse sono ben rappresentate dalla tendenza che associa ovunque diffusione del benessere e allungamento della speranza di vita al crollo della natalità (dimostrata con evidenza dalle figg. 1 e 4): quello che a partire dalla fine del XIX secolo è stato spesso visto come un «rifiuto della vita» tipicamente bianco e benestante è insomma il prodotto uniforme del miglioramento e dei desideri e delle aspettative di tutti gli individui che questo miglioramento vivono.
La tendenza all’unità è quindi ancora fortissima: malgrado le indubbie differenze fisiche e culturali la nostra è una sola specie e in campi fondamentali gli esseri umani mostrano comportamenti individuali sostanzialmente simili. E poiché maggior benessere e vita più lunga sono strettamente correlati al diffondersi di una modernizzazione che ha innegabili radici negli Occidenti degli ultimi secoli, la semplicistica e spesso ricordata opposizione tra the West and the Rest non indica alterità reciproca, quanto piuttosto un diverso posizionamento su un fascio di parabole legate da forti tratti comuni (anche per questo è non solo possibile ma giusto parlare di Modernità multiple).
In particolare, quella che un tempo era leggibile come contrapposizione tra «sviluppo» e «sottosviluppo» si presenta oggi anche e sempre più come differenza tra: a) società che hanno già superato il loro picco vitale, e sono ancora più ricche in assoluto perché partite prima, ma sempre meno ricche in termini relativi; e b) società che quel picco, demografico e di sviluppo economico, non hanno ancora raggiunto, vanno inseguendo, e prima o poi toccheranno per entrare infine anch’esse in una fase di contrazione, probabilmente senza raggiungere i livelli di ricchezza permessi a quelle arrivatevi prima di loro dai privilegi del primo venuto. Conosciamo insomma oggi la risposta al quesito che si poneva Corrado Gini pensando alla differenza tra la forza demografica degli slavi e quella ormai declinante di altre popolazioni europee[23]. Come oggi nel nord e nel sud del mondo, non si era di fronte a differenti caratteri demografici, ma piuttosto a popolazioni che si trovavano su punti diversi di parabole demografiche simili, la cui testa può essere spostata in direzioni imprevedibili da mutazioni inattese. E malgrado le divergenze di cui stiamo per occuparci, il declino del West e la crescita del Rest non segnalano solo una divergenza provvisoria, aperta dall’invecchiamento del primo in un periodo in cui il secondo consuma il suo boom demografico, ma indicano anche un divario che, in prospettiva, si va chiudendo.
Nonostante i loro fortissimi legami, è inoltre necessario distinguere la crisi politica dell’Occidente nato dopo il 1945 da quella del nuovo tipo di Modernità ad esso associato, alla quale è dedicato il prossimo capitolo. La crisi di quell’Occidente è infatti anche figlia delle strade diverse prese naturalmente nel tempo dalle sue componenti. La divergenza più importante si è aperta tra un’Europa che ha smesso di colpo di essere solo «occidentale» e Stati Uniti che hanno più lentamente cessato di essere un’Europa fuori d’Europa e lo sono oggi solo nelle fasce più anziane della loro popolazione, ben rappresentate dal presidente Biden, così come la vicepresidente Kamala Harris rappresenta i mutamenti degli ultimi decenni.
A questo processo, fondamentale, non è stata prestata la dovuta attenzione. Ancora alla fine degli anni Settanta del Novecento gli Stati Uniti erano un paese di Italian-, Jewish-, Irish-, Polish- (ecc.) Americans; e ancora nel 1980 i «non bianchi» e «non neri» rappresentavano solo il 5% della loro popolazione[24]. Ma proprio la pressione degli hyphenated Americans, che detestavano le quote del 1924, ritenendole giustamente discriminatorie e insultanti, contribuì al varo nel 1965 di una riforma dell’immigrazione che le eliminò per sostituirle con una quasi illimitata possibilità di ricongiungimenti familiari (di cui gli europeo-americani non si giovarono date le dinamiche economiche e demografiche del vecchio continente); con le qualificazioni professionali; e con l’apertura a rifugiati che si pensava destinati a provenire soprattutto dai paesi europei sottoposti al dominio sovietico.
C’era insomma la convinzione che la nuova legge non avrebbe alterato la composizione della popolazione, e quindi la cultura, statunitense. Come dichiarò Edward Kennedy al Senato:
le nostre città non saranno invase da un milione di immigrati all’anno. Con la nuova legge, il livello attuale di immigrazione resterà essenzialmente invariato […] e la composizione etnica del paese non sarà alterata […]. Contrariamente alle accuse lanciate da alcune parti [la legge] non inonderà l’America con immigrati […] dalle più povere e popolose nazioni dell’Africa e dell’Asia[25].
In pochi decenni queste previsioni si sarebbero rivelate completamente sbagliate. Già nel 1995 gli immigrati entrati legalmente negli Stati Uniti grazie alla nuova legge erano 18 milioni, il triplo di quelli ammessi tra il 1935 e il 1965, e non provenivano più dall’Europa. Se ancora nel 1977 quasi 9 americani su 10 erano contati nel censimento come bianchi, nel 2010 si era a 6,4, con un piccolissimo aumento della popolazione nera e un’esplosione di quella degli immigrati non europei. Un anno dopo le nascite dei non-bianchi avrebbero per la prima volta superato, in cifra assoluta, quelle dei bianchi[26].
La coraggiosa scelta di aprire l’Unione Europea ai paesi dell’Europa centrorientale stava intanto cambiando l’altra componente fondamentale dell’Occidente che aveva «vinto» la guerra fredda, aprendo le porte alla «continentalizzazione» dell’Europa, un processo in seguito rafforzato e accelerato dalla Brexit. Questa deriva continentale è stata poi complicata e riorientata dai veleni dell’autodefinizione russa, esplosi con l’invasione dell’Ucraina. La costruzione del potere putiniano e le sue scelte aggressive di ricostruzione imperiale hanno mostrato con chiarezza che la speranza, nutrita da molti anche a Mosca prima e dopo il 1991, di una reintegrazione della Russia in Europa (e quindi in un Occidente destinato anche per questo a cambiare volto) era purtroppo almeno per il momento fallita. E visto il peso del passato sovietico nel determinarlo, questo fallimento illuminava anche la profondità della frattura aperta dal 1917 nella storia europea, quando la perdita dell’impero russo aveva giocato un ruolo cruciale nel declino dell’Occidente precedente[27]. Con una Russia che si chiama di nuovo fuori, e pensa a ricostruire un proprio mondo, la nuova Europa continentalizzata subisce oggi un’ulteriore ridefinizione e coincide sempre più con un’Unione Europea il cui futuro non è, come vedremo meglio nelle conclusioni, assicurato. Essa ha già perso le due capitali (Londra e San Pietroburgo) che, come scrisse Lewis Namier, ne avevano determinato i destini tra il Congresso di Vienna e quello di Versailles[28] e si è oggettivamente andata allontanando da quella Washington cui la sua parte occidentale ha guardato nella seconda metà del Novecento.
3. La necessità di vedere
Le divergenze non hanno solo progressivamente sfaldato l’Occidente nato nel 1945. Esse fanno anche parte dei diversi e più o meno gravi declini dei tre pezzi del «mondo bianco» che ha dominato gli ultimi due secoli – Europa, Stati Uniti e Unione sovietica – e segnalano le diverse crisi dei tipi di Modernità ad essi associati.
Vedere e cercare di comprenderne cause e conseguenze, fare i conti col nuovo mondo cresciuto sia dentro i confini della nostra Europa che al di fuori di essa è quindi urgente e necessario. Solo così è possibile capire cosa si possa fare per porre le basi di un futuro capace di garantire il massimo possibile di libertà e dignità umana, e quindi di un nuovo Occidente, che è cosa non facile né scontata. E poiché, come ci hanno crudamente ancorché indirettamente mostrato il Covid e Putin, quella che abbandoniamo per questa ricerca è una favola bella, ma finita, e abbandonare le belle favole, come quella del «miglioramento continuo», è molto difficile (a volte è più facile scegliere di morire cullandosi in esse), riuscire a vedere anche le tendenze sgradevoli è parte essenziale di questo processo.
Riconoscere l’esistenza di ciò che non amiamo e che può portare a un futuro diverso da quello desiderato fa correre il rischio di essere giudicati «simpatizzanti» di quello che si vorrebbe in realtà evitare. Alfred Sauvy, il fondatore dell’Institut national d’études démographiques che citerò spesso in questo libro, grande sostenitore dei benefici economici, sociali e demografici dell’immigrazione ma preoccupato già decenni fa delle dinamiche in atto in Francia, è stato per esempio ritenuto uno degli originatori della «teoria della sostituzione»[29]. In trentaduesimo, quando, su iniziativa di mia figlia Irene, «Il Post» ha pubblicato estratti di una mia lettera alla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco), alcuni sollevarono dubbi sulla parziale sovrapponibilità di alcune sue parti con le tesi promosse dai teorizzatori del declino dell’Occidente come fallimento cui opporsi e da invertire attraverso un recupero reazionario di approcci che la cultura liberale e progressista ha combattuto.
Ma affrontare la crisi demografica, i problemi del «multiculturalismo», i limiti del progressismo odierno ecc. è un passaggio indispensabile nella ricerca di rimedi alle difficoltà della liberaldemocrazia e del cammino verso una sua rigenerazione[30]. E in questa ricerca non bisogna aver timore di usare autori che è difficile amare, come Lasch, anche lui accusato, poco dopo l’uscita della Cultura del narcisismo (1979), di guardare al passato e di auspicarne il ritorno. Nel suo caso quelle accuse avevano un fondamento, perché il libro era anche un lamento sul presente e il suo degrado, ostile a molti temi della nuova sinistra e al femminismo, da cui fu attaccato. Ma pur essendo un rappresentante della lunga tradizione del «conservatorismo di sinistra», pronto a usare luoghi comuni e teorie del complotto imperniate sulle corporations, Lasch era anche un visionario, capace – grazie all’uso innovativo benché spesso acritico di fonti psicoanalitiche – di intuizioni straordinarie sul funzionamento di quello che nel primo capitolo propongo di definire il «Moderno maggiore maturo»[31].
Ed è importante anche usare autori da cui ci si sente davvero distanti, ma che forse proprio questa distanza ha portato a percepire in anticipo e a «vedere», anche se in un modo che ci appare distorto e sbagliato, problemi che oggi sembrano evidenti. Penso per esempio a Chaunu, ma anche a un grande scrittore, e uomo difficile e a tratti sgradevole, come Aleksandr Solženicyn, alcune delle cui riflessioni, benché meno sofisticate di quelle di Lasch o Chaunu, pure fanno luce su ciò che dobbiamo riuscire a vedere per poterlo contrastare[32]. Del resto, è naturale che la comparsa di fenomeni nuovi ecciti l’interesse di persone diverse, anche nei loro orientamenti politici e ideali, e che sguardi diversi riescano a metterne a fuoco caratteristiche che da una sola angolatura sarebbe più difficile scorgere. Ciò può provocare all’inizio convergenze che sono però apparenti e solo temporanee, visto che alla fine la cosa decisiva è il discorso interpretativo che intorno a quei fenomeni si costruisce, e in particolare i fini per cui lo si fa.
Il tentativo di vedere e far vedere è quindi la ragione prima di questo libro ed è per questo che l’ho scritto, sperando di riuscire con esso a sottoporre a tutti quelli che condividono la passione per la libertà un’agenda almeno nel suo impianto corretta dei problemi che vanno affrontati e, nei limiti del possibile, di come si potrebbe farlo. Questo ne spiega la struttura, credo razionale, che analizza in successione le cause e le conseguenze (incluse quelle politiche trattate in un capitolo a parte per loro specificità) della crisi del nostro Occidente e del tipo di Moderno che gli è legato, per passare poi a criticare alcuni dei discorsi da esso generati e concludersi con alcune idee su ciò che sarebbe possibile e opportuno fare, specie in Europa.
In particolare, il primo capitolo cerca di definire le varianti della Modernità e individuare le cause della loro crisi, discutendo il ruolo della demografia vista come espressione di comportamenti umani in determinate condizioni di vita; il significato della fine del mondo contadino; e le caratteristiche principali della maturità di quello che definisco all’inizio del capitolo il «Moderno maggiore». Il secondo è dedicato alle conseguenze della crisi di quest’ultimo: l’invecchiamento e le aspettative decrescenti; i mutamenti nella stratificazione sociale; la nascita di nuove società plurali; e la tipologia della crisi. Nel terzo, che è a suo modo una prosecuzione del secondo, affronto il tema della crisi della politica nel Moderno maturo, guardando sia al modello avanguardie-masse che alla liberaldemocrazia.
Nel quarto capitolo provo invece a criticare i discorsi e le categorie elaborate per spiegare il Moderno maggiore e cercare di emendarlo, distinguendo una narrazione progressista da una che ho preferito definire di rifiuto e di chiusura piuttosto che semplicemente reazionaria. Come suggerisce il suo titolo, il quinto capitolo si occupa infine dei pericoli e delle possibilità derivanti dai problemi definiti nei capitoli precedenti, prestando speciale attenzione a quelli del progetto di costruzione statale lanciato in Europa nel 1992.
Pur essendo uno storico, in questo libro ho sì usato la storia ma non ho mai inteso fare lo storico. Non sarebbe stato del resto possibile. Contrariamente a quanto aveva auspicato la scuola delle Annales, alla cui ombra sono cresciuto, la storia non è infatti e non può essere una scienza sociale, e tanto meno la regina delle scienze sociali, né può ambire a fare previsioni leggendo, sul lungo periodo, le strutture del passato. È però vero che la massa delle informazioni oggi pressoché immediatamente disponibili è tale da rendere possibile un trattamento storico del presente. Esso va condotto con la chiara coscienza dei suoi limiti, che non sono solo o tanto quelli posti dalla mancanza di archivi ma appunto quelli derivanti dall’impossibilità di prevedere le mutazioni, come ci hanno appena ricordato il Covid o la comparsa del putinismo. Come aveva compreso Chaunu, che delle Annales fu esponente di punta, è quindi possibile «conquistare la spiaggia della memoria vivente», i 50 anni della chiara memoria adulta, e farne la storia, colmando in parte la fossa scavata tra storia e presente dall’allungamento della vita umana. Ma ciò va fatto con la coscienza che così facendo possiamo al massimo riuscire a vedere le mutazioni già in atto, a definire alcuni problemi e a individuare alcune possibili traiettorie.
È quanto provo a fare da qualche anno, riallacciandomi ai quesiti e alle ambizioni di un me lontano. Dietro questo libro c’è infatti un percorso iniziato negli anni Settanta, quando mi parve che senza studiare Stati Uniti e Unione sovietica fosse impossibile capire il mondo in cui vivevo, e la crisi e la sconfitta della nuova sinistra in cui avevo militato; ci sono le lunghe discussioni con Lisa Giua e Vittorio Foa; il confronto con la critica radicale portata dal femminismo alle idee della sinistra tradizionale; e i decenni dedicati alla storia sovietica, favoriti da incontri con maestri straordinari, dall’inatteso crollo dell’Urss, e dalla grande avventura rappresentata dall’apertura dei suoi archivi. C’è la realizzazione, già acuta negli anni Ottanta, della sostituzione del marxismo, causata dalla sua sconfitta anche teorica, con un insieme di incriticabili principi morali, un «buonismo» che occupò velocemente il vuoto lasciato dal collasso di una strategia razionale, ma fallimentare; e c’è infine l’incontro personale con grandi pensatori e studiosi del passato come Ludwig von Mises, Lewis Namier e Raphael Lemkin, che tanto mi hanno aiutato a vedere.
Più direttamente, con questo libro continuo e cristallizzo le discussioni con Giuliano Amato cominciate in occasione del 150o dell’unità d’Italia, i primi tentativi di formalizzazione, fatti per e con ResetDoc, e lo sforzo del 2019 per guardare al futuro che avevamo di fronte. Sullo sfondo stanno gli studi per preparare il libro sulla storia della classificazione umana e dei suoi usi avviato dopo la conclusione della mia storia dell’Urss e il cui manoscritto spero di riuscire a consegnare un giorno al Mulino[33].
So bene di non essere in grado, per la mia età oltre che per le mie (in)capacità, di offrire soluzioni che vadano oltre i pochi punti elencati nelle conclusioni. Soprattutto so di non essere in grado di costruire un nuovo discorso liberaldemocratico, capace di mobilitare per il futuro le energie che pure esistono e di individuare le opportunità che di continuo si producono. Spero però che lo sforzo di «vedere» il nuovo mondo in cui viviamo, sgombrando il campo da discorsi sbagliati e comunque invecchiati e quindi non più veri, aiuti altri ad affrontare questo compito fondamentale.
[1] Mi sarebbe piaciuto allargare questi pensieri all’Asia e all’Africa ma, semplicemente, non ne sono in grado.
[2] A. Graziosi, L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia, Bari-Roma, Laterza, 2022.
[3] Edward P. Thompson ha chiarito a suo tempo che anche le classi, come i popoli, sono prodotti storici, anche se il termine da lui usato, making, può essere fonte di confusione vista la possibile interpretazione in chiave eccessivamente soggettivistica.
[4] A. Graziosi e F. Sysyn (a cura di), Genocide: The Power and Problems of a Concept, Montreal, McGill-Queen’s University Press, 2022.
[5] Jeremy Bentham vide subito e con chiarezza l’infondatezza di una tale illusione nelle sue Anarchical Fallacies, Being an Examination of the Declaration of Rights Issued during the French Revolution (1796), https://oll.libertyfund.org/title/bowring-the-works-of-jeremy-bentham-vol-2 (ultimo accesso ottobre 2022).
[6] P. Chaunu, Le refus de la vie. Analyse historique du présent, Paris, Calman-Lévy, 1975, p. 88.
[7] F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, London, Penguin, 1992, che riprendeva il saggio The End of History, in «The National Interest», 16, 1989, pp. 3-18, https://pages.ucsd.edu/~bslantchev/courses/pdf/Fukuyama%20-%20End%20of%20History.pdf (ultimo accesso ottobre 2022).
[8] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (1918-1922), Milano, Longanesi, 1981; M. Ferrari Zumbini, Untergänge und Morgenröten. Über Spengler und Nietzsche, Berlin, De Gruyter, 1976; D. Conte, Introduzione a Spengler, Roma-Bari, Laterza, 1997.
[9] K. Prewitt, What is your Race? The Census and our Flawed Efforts to Classify Americans, Princeton, N.J., Princeton University Press, 2013, pp. 74, 158.
[10] A. Ferrara e N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Bologna, Il Mulino, 2012.
[11] J. Fisch, The Right of Self-Determination of Peoples. The Domestication of an Illusion, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, p. 183.
[12] «Il dominio nazionale importa che tutta una nazione comandi in casa sua. Ma tutta una nazione non comanda quando lo straniero padroneggia tutta o parte della medesima. Tutta una nazione non comanda quando essa è divisa in più governi proprii. Tutta la nazione finalmente non comanda quando solamente certe classi o certi uomini o un uomo solo fanno o possono far prevalere la loro privata volontà alla volontà di tutto un popolo. Nazioni intere indipendenti, padrone di tutto il loro territorio, e viventi sotto un solo governo temperato, ecco dunque lo stato ultimo del mondo, voluto dalla natura e dalla ragione onde ottenere pace e prosperità interna ed esterna. Ecco in ciò che consiste l’etnicarchia», in G. Romagnosi, Teoria speciale della Scienza delle Costituzioni, Bastia, 1848 (ma scritta prima della morte nel 1835 e pubblicata postuma), https://books.google.it/books?id=y_8xAQAAMAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f= false (ultimo accesso ottobre 2022). Vedi anche O. Vossler, Il pensiero politico di Mazzini (1927), Firenze, La Nuova Italia, 1971. Sono qui le radici della famosa definizione del nazionalismo moderno – a political principle which holds that the political and the national unit should be congruent – data da Ernest Gellner, Nation and Nationalism, Oxford, Blackwell, 1983, p. 1.
[13] H. Schulze, States, Nations and Nationalism, Oxford, Blackwell, 1996, p. 314.
[14] H. Kohn, The Idea of Nationalism. A Study in its Origins and Background (1944), New York, The Macmillan Company, 1967, pp. 572-575.
[15] J. Fourastié, Les Trente glorieuses, ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Paris, Fayard, 1979. Il titolo riprendeva «le tre giornate gloriose» del luglio 1830.
[16] Chaunu, Le refus de la vie, cit., p. 205.
[17] A. Sacharov, Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, Milano, Etas Kompass, 1968; H. Kohn, The Age of Nationalism. The First Era of Global History, New York, Harper & Row, 1961, p. 167.
[18] M. Wieviorka, L’Espace du racisme, Paris, Seuil, 1991.
[19] W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi, 1962. Il sottotitolo, ignorato nell’edizione italiana, era A Non-communist Manifesto.
[20] Pensando al terzo stato di Emmanuel Joseph Sieyès, Alfred Sauvy parlò per primo di «Terzo mondo» sull’«Observateur» del 14 agosto 1952 per riferirsi all’insieme dei paesi che non appartenevano né al blocco occidentale né a quello socialista. Alla fine della sua vita (1898-1990) egli osservò che si trattava di un insieme ormai scomparso, viste le differenze tra i suoi elementi. Proprio allora stava anche scomparendo il «secondo mondo» socialista.
[21] W.H. McNeill, Polyethnicity and National Unity in World History, Toronto, University of Toronto Press, 1985, p. 69.
[22] È questa l’ipotesi avanzata in G. Amato e A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia 1943-2012, Bologna, Il Mulino, 2013.
[23] F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini tra scienza e politica, Roma, Carocci, 2006, p. 130.
[24] M. Anderson e S.E. Fienberg, Race and Ethnicity and the Controversy over the US Census, in «Current Sociology», 48, 3, 2000, pp. 87-110.
[25] Prewitt, What is your Race?, cit., p. 158.
[26] C. Reynaud-Paligot, De l’identité nationale. Science, race et politique en Europe et aux États-Unis, XIXe-XXe siècle, Paris, Presses universitaires de France, 2011, p. 173.
[27] A. Graziosi, The Weight of the Soviet Past in post-1991 Russia, in «Journal of Cold War Studies», 23, 1, 2021, pp. 89-125, ora in Graziosi, L’Ucraina e Putin, cit., parte II.
[28] L.B. Namier, From Vienna to Versailles, in Id., Conflicts: Studies in Contemporary History, London, Macmillan, 1942, pp. 1-19.
[29] R. Camus, Le grand remplacement, Neuilly-sur-Seine, David Reinharc, 2011.
[30] A. Sauvy, La vieillesse des nations, Paris, Gallimard, 2000, in particolare la prefazione di Jean-Claude Chesnais, p. 13; A. Graziosi, I limiti del «buonismo ingenuo», in «Il Post», 5 marzo 2022, https://www.ilpost.it/2022/03/05/graziosi-declino-occidente-ucraina (ultimo accesso ottobre 2022).
[31] E.J. Dionne, Introduction, in C. Lasch, The Culture of Narcissism. American Life in an Age of Diminishing Expectations (1979), New York, Norton, 2018, pp. xv-xxxiv. L’accusa venne dalla «New York Review of Books». Lasch rispose di sentirsi semmai il critico di una cultura radicale «compromessa dal permissivismo generato dal capitalismo».
[32] Chaunu, Le refus de la vie, cit.; A. Solženicyn, Il respiro della coscienza. Saggi e interventi sulla vera libertà, 1967-1974. Con il discorso all’università di Harvard del 1978, Milano, Jaca Book, 2015.
[33] Amato e Graziosi, Grandi illusioni, cit.; A. Graziosi, Getting to the Roots of Illiberal Trends, ResetDoc, aprile 2017, https://www.resetdoc.org/story/getting-to-the-roots-of-the-illiberal-trends/ (ultimo accesso ottobre 2022) e Illiberal Trends in the West. Seeing the Crisis of the Modern, relazione alla conferenza «Resetting Liberalism: An Inquiry into the Causes of the Crisis of Open Societies», ResetDoc e William & Mary Reves Center for International Studies, Williamsburg, ottobre 2019; Id., Il futuro contro. Democrazia, libertà, mondo giusto, Bologna, Il Mulino, 2019. Il titolo provvisorio del libro cui lavoro dal 2009 è Classificare e cambiare gli esseri umani. Razze, nazioni, popoli, etnie, caste, classi, lingue e religioni: conoscenza, intellettuali, stato e progetti trasformativi.
Parte prima. Il moderno maggiore e la sua crisi
1.
Cause
1. Il Moderno, le sue varianti e le loro crisi
Il Moderno di cui parlo è il prodotto in continua evoluzione del veloce cambiamento avviatosi in Europa centroccidentale circa quattro secoli fa, un cambiamento strettamente legato allo sviluppo scientifico, tecnico ed economico. Pur tra tante contraddizioni, esso ha permesso la crescita di una libertà degli individui declinabile in modi molto diversi e si è identificato col «progresso», antesignano del nostro miglioramento continuo. Naturalmente, come per ogni fenomeno storico, è possibile trovargli nel passato presupposti e precedenti, ma è ragionevole farlo cominciare con la rottura rivoluzionaria verificatasi, anche nel pensiero, nel XVII secolo di Galileo, Keplero, Grozio, Cartesio, Newton e Leibniz.
Le nozioni di progresso, diritti e democrazia maturarono tuttavia nel secolo successivo. E fu alla sua fine che Condorcet diede la definizione di progresso che è al cuore del Moderno occidentale in senso lato, identificandolo con la distruzione della diseguaglianza tra le nazioni; la crescita dell’uguaglianza all’interno della stessa nazione; e il miglioramento dell’essere umano (o dell’uomo, come si diceva allora). Non è privo di significato che questa visione abbia preso forma in un Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain scritto in prigione subito prima di un suicidio che testimonia come l’idea stessa di progresso e di miglioramento continuo, pur vera in alcune fasi della vita individuale come di quella sociale, debba convivere con la possibilità del peggioramento e la certezza della morte.
I primi secoli del Moderno occidentale sono stati quelli in cui il volto positivo di questa verità contraddittoria ha assunto un peso sempre maggiore, consentendo un ottimismo basato sul legame biunivoco tra crescita della popolazione e progresso economico che Adam Smith riteneva essere causa e conseguenza l’uno dell’altra. Già quattro anni dopo la morte di Condorcet, tuttavia, Thomas Robert Malthus ne criticò idee e principi, notando che essi venivano contraddetti ogni giorno dalla realtà e scatenando così in un’Europa allora quasi sprovvista di statistiche una caccia ai numeri destinata a cambiare la nostra capacità di leggere la realtà. La cosa, notissima, va ricordata perché a partire da David Ricardo, che aiutò Malthus a rivedere parzialmente le sue posizioni, l’idea della limitazione delle risorse naturali, e quindi della necessità di controllare la crescita umana, ha giocato un ruolo importante nella teoria economica anche dopo il suo riorientamento sullo sviluppo. Lo dimostra, come vedremo, anche l’evoluzione di alcune delle sue correnti comunemente associate ad esso, come quella legata al nome di John Maynard Keynes, che della Malthusian League fu presidente[1].
Nel corso del XIX secolo il dibattito sulla possibilità di lungo periodo del progresso «continuo», che la crescita stessa aveva apparentemente risolto, fu sostituito dalla riflessione sul suo legame con l’instabilità economica. Questo legame, già intravisto da Ricardo, fu messo a fuoco dagli economisti che tra fine XIX e inizio XX secolo studiarono le fluttuazioni economiche come funzioni dello sviluppo. Il problema divenne così quello delle crisi, viste come manifestazioni temporanee di quest’ultimo e che era compito della teoria economica e della politica ridurre quanto più possibile. Le risposte furono dominate per lungo tempo a sinistra dall’idea del socialismo e del piano come strumenti per assicurare un progresso continuo e senza scosse, e poi dalla soluzione elaborata da Keynes. Ciò fu reso possibile dalla straordinaria fase di sviluppo del Moderno occidentale dopo il 1945, che sembrò risolvere a favore degli ottimisti il dibattito tra Condorcet e Malthus. Ma l’adesione di buona parte della sinistra, che col marxismo aveva respinto e anche deriso le idee malthusiane, a un keynesismo interpretato come teoria dello sviluppo, rivela alcune delle aporie del pensiero progressista della seconda metà del XX secolo. Come vedremo, infatti, proprio su una visione malthusiana Keynes fondava la necessità di usare le leve della politica economica e monetaria scoperte grazie alla prima guerra mondiale.
La nuova fase in cui sono entrate le società che per prime hanno conosciuto il progresso, ben rappresentata dal loro invecchiamento, non dovrebbe però portare a riscoprire Malthus, che aveva basato il suo ragionevole pessimismo su ipotesi errate (anche se le riflessioni pessimiste sui rapporti tra sviluppo, risorse e possibilità stessa del progresso, cominciate negli anni Settanta del Novecento, hanno dato vita a nuove forme di malthusianesimo di ispirazione ingegneristica). Piuttosto, questa fase ci impone di vedere come un insieme le fasi della crescita e del progresso e quella dell’invecchiamento e forse della decrescita. Il problema delle «crisi del capitalismo» torna così a essere quello della possibilità e dei limiti del progresso e della crescita economica che lo alimenta. Ma poiché abbiamo conosciuto quest’ultima, e sappiamo quanto essa possa dare al genere umano e agli individui che lo compongono in termini di benessere, libertà e dignità, di menti e corpi liberi in società aperte, esso si pone in modo nuovo: come cioè continuare a garantire il massimo di questi risultati in una situazione nuova, e come – dato l’indiscutibile legame tra questi risultati e la crescita – assicurare una crescita sostenibile che permetta delle risposte positive al primo quesito.
Per fare questo occorre ragionare sui sistemi che questo progresso hanno espresso, e ai fini di questa analisi Capitalismo e Socialismo sono cattive categorie. A causa del loro carattere binario e oppositivo esse impediscono infatti di vedere la varietà del reale, che comprende innumerevoli tipi di società, composte da parti rette da logiche diverse, che convivono in maniera più o meno conflittuale. Soprattutto, entrambe le categorie, e in specie la prima, si prestano a essere trasformate in soggetti autonomi ai quali diventa possibile, ma resta sbagliato, imputare il farsi della storia. Esse nutrono cioè «teorie del complotto» (le cose succedono perché così vuole il «capitalismo», o la cospirazione comunista) e distolgono l’attenzione dall’attività e dalle scelte degli esseri umani. La storia è invece il prodotto di queste ultime, in condizioni date ma modificabili. E, naturalmente, tra gli infiniti «tipi» umani esistono anche capitalisti e socialisti di diversa natura, come esistono e contano le idee e gli ideali, tra cui quelli che hanno nutrito il modello socioeconomico abbandonato dalla Cina negli anni Settanta e crollato in Europa negli anni Ottanta del Novecento.
Per evitare questi pericoli si può ragionare in termini di Modernità multiple, o meglio di un Moderno multiplo[2] in senso sia diacronico che sincronico. Le sue varianti si sono infatti succedute nel corso del tempo ma hanno anche convissuto in ciascun momento dato, formando insiemi che andrebbero di volta in volta analizzati nelle loro specificità. Fino al 1917, quando emerse il nuovo tipo socialista, queste varianti sono state accomunate da affinità sostanziali. Sembra quindi possibile parlare di un primo Moderno occidentale che va grosso modo dal XVIII secolo alla prima metà del Novecento, vale a dire alla lenta e contestata diffusione anche in Europa di una nuova versione dominante, cresciuta negli Stati Uniti dopo la fine della guerra di secessione.
Le caratteristiche distintive di questo primo Moderno erano quelle descritte di seguito.
Un boom demografico, inizialmente legato a un drastico calo della mortalità infantile e quindi a un altrettanto drastico aumento del numero di giovani, che ha dato vita a società estremamente energiche.
Una crescita economica rapida e apparentemente infinita, strettamente legata a quella della produttività e quindi al progresso scientifico e tecnologico, ma alimentata anche dalla colonizzazione di nuovi territori, dal boom demografico e dal trasferimento di molti giovani dal lavoro rurale a quello urbano, e contraddistinta perciò dall’attiva partecipazione alla liquidazione della società contadina dei suoi elementi più energici. Questa crescita si è accompagnata a una straordinaria ondata di mobilità sociale verso l’alto (che ha nascosto, ma mai annullato, quella verso il basso), e a un altrettanto straordinario miglioramento delle condizioni umane.
Un veloce aumento dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e della secolarizzazione, nonché dell’istruzione, prima determinata dall’appartenenza religiosa (coi protestanti interamente alfabetizzati, gli ebrei in base al sesso, i cattolici allo status ecc.) oltre che dal censo.
Una crescita contrastata ma complessivamente rapida dei diritti degli individui, e in particolare, rispetto alle società del passato, di quelli delle donne, in parallelo col rafforzamento della loro posizione sociale, culturale e infine politica (come notò John Stuart Mill in On Liberty, già questa versione del Moderno era quindi capace di garantire alla natura umana la libertà di espandersi in innumerevoli e conflittuali direzioni).
Una vivacissima produzione ideologica di progetti trasformativi e utopie di vario tipo, legati e derivanti dai cambiamenti sopra citati, che induce a pensare che – contrariamente a quanto si è creduto – i veri secoli «utopici» siano stati il XIX e il XX, e non quelli precedenti.
Il predominio dell’Europa e dell’Occidente, dove questi processi erano iniziati, su continenti che, come l’Asia, erano stati in precedenza sedi di imperi altrettanto o più potenti di quelli europei, o che, come l’Africa o l’Oceania, a causa del loro ambiente e delle malattie, erano scarsamente popolati (l’America era già stata conquistata). Tale predominio era anche rappresentato da potenti movimenti migratori europei, alimentati dal boom demografico.
Una fenomenale ondata di costruzione di Stati e imperi che partì dall’Europa, migrò nelle Americhe, per poi tornare in Europa e conquistare infine il mondo, riorganizzandolo. Questa ondata è incarnata da centinaia di storie di successo, ma anche da migliaia di tentativi falliti, di cui i partiti e le associazioni dominate dai giovani sono stati di regola i protagonisti. In quasi tutti i casi, hanno giocato un ruolo cruciale i progetti e le utopie nazionaliste, socialiste, e persino anarchiche ecc., e più spesso forme ibride di questi due filoni principali, ma anche visioni di vario tipo ispirate alla religione. L’Africa è l’ultima stazione raggiunta da questo fenomeno.
Le guerre, la violenza categoriale di massa (cioè la violenza rivolta contro specifici gruppi linguistici, religiosi, sociali ecc.) e i genocidi che hanno accompagnato questa ondata di costruzione di Stati e imperi spesso guidata dall’ideologia.
Nel 1917, con la vittoria dei bolscevichi, nacque un tipo di Modernità nuovo e dalla forte impronta ideologica. Ancora essenzialmente bianca e legata alla cultura occidentale e all’idea del progresso (affermata anche con tratti caricaturali, per esempio nella lotta per domare la natura), questa nuova Modernità sarebbe col tempo servita da modello a molti dei nuovi paesi nati dalla decolonizzazione, provando anche così, oltre che con la sua vittoria sul nazismo, di possedere una sua vitalità.
Ciò malgrado è ragionevole definirla una Modernità minore perché minata, e su un arco temporale relativamente breve, da contraddizioni e problemi in parte simili, ma anche essenzialmente diversi da quelli della variante principale. La diversità chiave stava nella sua struttura sociale ed economica (non a caso, il modello è sopravvissuto, ma solo politicamente, nei paesi che, come la Cina, hanno saputo abbandonare tempestivamente e risolutamente tale struttura), a sua volta improntata dal marxismo. Questa Modernità minore fu così caratterizzata dall’assenza più o meno radicale di indicatori economici credibili (prezzi), un’assenza che la indeboliva sul lungo periodo, per esempio ritardando l’innovazione tecnologica e facendo ristagnare la produttività, ma non le impediva di vivere sul breve grazie all’uso di vari surrogati. A causa del minor benessere che era in grado di generare, della maggiore repressione e della generale tendenza depressiva ad essa intrinseche, che pesava su individui le cui possibilità/opportunità erano significativamente compresse, questa Modernità minore ha relativamente presto presentato problemi demografici simili a quelli del suo parente occidentale ma anche diversi da essi e non solo perché più gravi. Lo hanno per esempio testimoniato l’incapacità dopo l’inizio degli anni Sessanta del Novecento di generare nuovi aumenti della speranza di vita (che raggiunti i 65 anni cominciò anzi a declinare fino a scendere sotto i 60), la straordinaria diffusione dell’alcolismo e l’altrettanto straordinario numero di aborti, che negli anni Settanta erano in Unione sovietica circa il doppio dei nati vivi.
Nel 1945, poi, la guerra, la vittoria sul nazifascismo e la sconfitta della maggior parte delle grandi nazioni europee permisero al nuovo tipo di Moderno (che propongo di definire maggiore in riferimento tanto al Moderno occidentale precedente che a quello sovietico) cresciuto negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento di conquistare un’Europa in cui aveva cominciato a penetrare all’inizio del secolo. Ad esso è legato lo straordinario sviluppo del secondo dopoguerra, quei decenni di «miracoli» economici e di miglioramenti continui che si guadagnarono come sappiamo l’appellativo di Trenta gloriosi. Sappiamo anche che le prime difficoltà legate al Moderno maggiore emersero già negli anni Sessanta e poi e soprattutto all’inizio del decennio successivo, quando però era ancora difficile – benché non impossibile – coglierne i più importanti fattori di crisi, e soprattutto il principale, che rendeva un modello economicamente vitale incapace di riprodursi dal punto di vista demografico. Questi fattori erano invece già abbastanza chiari negli anni Novanta, al momento del suo trionfo sulla variante socialista della Modernità, e divennero evidenti dopo la crisi del 2008 e le conseguenze da essa innescate, in Europa ma anche negli Stati Uniti.
A riprova della fragilità della categoria «capitalismo», le ipotesi che cercano di usarla per spiegare le difficoltà occidentali degli ultimi decenni (impropriamente estese a un mondo ancora in forte sviluppo) portano fuori strada. Prendiamo per esempio la tesi che lega queste difficoltà a un aumento della disuguaglianza su scala globale in un mondo dominato appunto da un capitalismo che avrebbe il suo centro in «Occidente»[3]. Negli anni Ottanta del Novecento, tuttavia, il mondo non «bianco» è entrato in una straordinaria fase di crescita che ha fatto uscire miliardi di persone dalla povertà estrema e centinaia di milioni dalla povertà (fig. 2) e ingigantito la classe media prima in Asia e ora anche in Africa. Esso ha così ridotto, e non di poco, la distanza da un Occidente le cui diverse parti sono invece entrate in sofferenza, ancorché in modo diversificato.
Su scala globale la crescita della disuguaglianza equivale quindi piuttosto alla riduzione dell’uniformità determinata dalla povertà estrema, come testimoniano la Cina di Mao Zedong e quella di Deng anche se certo all’interno di queste due Cine, come all’interno di altri paesi in crescita dell’ex «Terzo mondo», la disuguaglianza economica è enormemente cresciuta (c’è tuttavia da chiedersi se in termini assoluti la disuguaglianza di status e privilegi degli anni maoisti del Grande Balzo in Avanti, che portò alla morte per fame di decine di milioni di persone, non fosse a suo modo superiore a quella economica della Cina di Deng).
FIG. 2. Popolazione mondiale in condizioni di estrema povertà, 1820-2015.
FIG. 2. Popolazione mondiale in condizioni di estrema povertà, 1820-2015.
note: L’estrema povertà è definita come vivere con un livello di consumo (o reddito) al di sotto di 1 «dollaro internazionale» al giorno. I dollari internazionali sono calcolati tenendo presente le variazioni dei prezzi tra i paesi, e il loro cambiamento nel tempo (inflazione).
fonte: M. Roser e E. Ortiz-Ospina, Global Extreme Poverty, https://ourworldindata.org/extreme-poverty, basato su dati della Banca mondiale.
Se è vero poi che, come mostra il famoso grafico dell’elefante di Branko Milanović, la velocissima crescita delle classi medie non occidentali ha avuto come contraltare un peggioramento delle condizioni delle loro controparti occidentali, questo peggioramento è stato sin qui di regola solo relativo. Le eccezioni sono due: esso divenne assoluto, ma solo per un certo periodo, nei paesi dell’ex blocco socialista europeo all’indomani del 1989-1991, e mostra una tendenza a diventare assoluto nei paesi più gravemente colpiti dall’invecchiamento della popolazione, e in particolare in Italia, dove questa tendenza è aggravata da altri fattori[4].
In Occidente, le variazioni nel tempo dell’indice di Gini (lo strumento ancor oggi più utilizzato per misurare la disuguaglianza) dicono che negli Stati Uniti essa è cresciuta in modo significativo soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, e meno nel corso degli ultimi due decenni. In Europa occidentale, invece, le variazioni sono state limitate e tutt’altro che uniformi, e l’intervento pubblico ha permesso di tenere il fenomeno sotto controllo anche durante il Covid[5]. A prevalere sono stati piuttosto una riduzione delle aspettative e un generale senso di perdita di status e di angoscia per il venire meno del «futuro», sensazioni che dopo il 2008 si sono trasformate in impoverimento reale in alcuni paesi, tra cui il nostro.
Questo senso della perdita del futuro è legato a sua volta a un aumento della percezione della disuguaglianza, intesa qui in un senso non misurato dall’indice di Gini e che deriva dalla sensazione di avere meno opportunità di quante ve ne fossero in passato. Si tratta quindi di una disuguaglianza crescente delle opportunità rispetto a quelle delle generazioni passate (soprattutto, come vedremo, quelle nate negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta del Novecento). Essa è ben rappresentata dall’insicurezza che deriva dal sapere che le pensioni saranno molto meno generose di quelle odierne o dal discorso sul «ritorno» del lavoro precario, che sarebbe meglio definire la fine dell’illusione che si potesse abolire il lavoro a tempo determinato. Il precariato è stato infatti la regola anche di società occidentali abitate a lungo, specie dopo la rottura dell’equilibrio nelle campagne e il progressivo collasso delle aziende familiari contadine, da braccianti, cameriere, edili, e migranti. Secondo l’Oecd, inoltre, nei paesi occidentali la quota del lavoro a tempo determinato sul totale è sì raddoppiata negli ultimi decenni, ma tenendosi su percentuali ancora basse: tra il 2000 e il 2022, per esempio, essa è passata dal 5 a circa il 10% del totale e in Italia dal 7 al 15%[6].
Paradossalmente ma non sorprendentemente, le opinioni pubbliche occidentali leggono inoltre come aumento della disuguaglianza il relativo ma rapido declino del loro status sociale ed economico, soprattutto se confrontato con quello di classi medie di continenti e popolazioni prima emarginate. Forse ciò avviene perché quello che si sta perdendo è il precedente senso di sicura preminenza: ci si sentirebbe insomma meno uguali rispetto alle élite globali perché ora si è più vicini alle masse più distanti dai ceti dominanti a livello mondiale. E data l’estrema importanza e persino il predominio delle percezioni sulla realtà nelle nostre società mature (un fenomeno forse legato al loro livello di benessere materiale, che permette agli individui di dimenticare la realtà, almeno sul breve e medio periodo), molto probabilmente le tendenze attuali continueranno a essere lette in termini di crescente disuguaglianza, a dispetto dei dati ed estendendo impropriamente al mondo l’esperienza del nostro Occidente.
Se guardiamo invece a quest’ultimo non come al cuore del capitalismo ma come all’area del mondo dominata dopo il 1945 da un nuovo modello di Moderno, e cerchiamo di definirne le caratteristiche, tutto ci appare più chiaro. Dopo aver raggiunto come abbiamo visto il suo culmine negli anni Cinquanta e Sessanta, questo Moderno maggiore è entrato in crisi in pochi decenni (vale a dire piuttosto rapidamente da un punto di vista storico), sicché la mia generazione ha potuto sperimentare personalmente sia il suo picco che il suo declino. Questa crisi è il prodotto di fattori che riassumerei come segue:
Un rapido declino del tasso di fertilità e un altrettanto rapido innalzamento della speranza di vita, entrambi legati al miglioramento delle condizioni e dello stile di vita proprio di questo Moderno maggiore, che ha prodotto un veloce invecchiamento delle popolazioni occidentali.
Il declino del mondo contadino e la fine del trasferimento interno, o intraeuropeo, tra zone rurali e urbane, che ha posto fine anche allo straordinario aumento di produttività che questo trasferimento interno era in grado da solo di garantire grazie al maggior livello tecnico dei settori in cui migranti trovavano lavoro.
La crescente presa di coscienza dei problemi sollevati dallo sviluppo – certo benefico per la specie umana «presente» – per il pianeta che questa specie abita (problemi destinati a moltiplicarsi man mano che la sua estensione condurrà all’aumento dei redditi e dei consumi di altre zone del mondo).
La decolonizzazione e quindi, in prospettiva, la fine del dominio occidentale sul mondo (col senno di poi si può affermare che essa, e non la guerra fredda da cui pure è stata condizionata e che ha determinato il quadro in cui si è svolta, è l’evento che ha definito i decenni del dopoguerra).
La migrazione del motore demografico-economico del predominio occidentale verso altri continenti, di cui la Cina di Deng ha fornito l’esempio più eclatante.
Ai primi di questi fattori, quelli interni, sono dedicati i paragrafi successivi, che prestano particolare attenzione alle dinamiche europee, diverse da quelle nordamericane e più preoccupanti. Lo dimostrano la più acuta crisi demografica; la perdita relativamente maggiore di centralità culturale e politica; la fragilità delle istituzioni «confederali» europee rispetto a quelle federali americane o canadesi; la diversa attrazione del «populismo», alimentato da una più profonda crisi sociale e psicologica oltre che economica. Tuttavia, l’ascesa di Trump dimostra che anche gli Stati Uniti attraversano una crisi certo meno grave dal punto di vista relativo, ma più acuta in termini di perdita di status internazionale. Ciò a ragione del tramonto del «secolo americano», che genera squilibri e desideri di rivalsa con possibili, sgradevoli ripercussioni culturali, psicologiche e politiche per certi versi affini a quelle verificatesi in molti dei paesi e degli ambienti che hanno affrontato drastici ridimensionamenti in passato: la Francia post-napoleonica, il mondo tedesco dopo la prima guerra mondiale, o i circoli nazional-imperiali russi dopo il crollo dell’Urss.
2. Il peso della demografia ovvero dei comportamenti umani
Il motore principale della crisi del Moderno maggiore è quello demografico, a sua volta il prodotto dei comportamenti e quindi delle preferenze dei suoi abitanti. Queste preferenze hanno ribaltato nel giro di pochi decenni la direzione iniziale di una rivoluzione demografica che ha continuato a essere tale ma si è capovolta nei suoi effetti, come dimostrano con chiarezza le due «piramidi» (la seconda di certo non lo è) della popolazione dell’Europa occidentale nel 1965 e nel 2021 nella figura 3.
Se nel 1955 non esisteva luogo del mondo, tranne la parte occidentale di Berlino e forse qualche area dell’Amazzonia, la cui popolazione fosse incapace di riprodursi stabilmente, nel 1972 l’intera Repubblica federale tedesca varcò questa soglia. Solo due anni dopo nessun paese occidentale assicurava la riproduzione generazionale, Stati Uniti e Canada inclusi se si considerano solo i bianchi. Certo, la popolazione vi continuava ad aumentare grazie al continuo prolungamento della speranza di vita, ma non era questo, come sappiamo, il caso dell’Europa socialista, dove quella speranza aveva preso a ridursi. E se nel 1913 quasi un quarto dei bambini nati nel mondo erano di origine europea, nel 1974 questa percentuale era crollata al 7%, confermando in apparenza (e in sostanza se si adotta una visione parziale e conflittuale della specie umana) le previsioni sul declino «bianco» di inizio Novecento. In realtà le cose stavano diversamente perché l’estensione del Moderno, in tutte le sue varianti, stava già provocando – malgrado gli in parte giustificati timori sulla «bomba demografica» – un rapidissimo calo della natalità e un aumento della speranza di vita in quasi tutto il mondo (fig. 4).
FIG. 3. Piramidi della popolazione in Europa occidentale, 1965 e 2021.
FIG. 3. Piramidi della popolazione in Europa occidentale, 1965 e 2021.
fonte: www.populationpyramid.net.
Si confermava anche così la sostanziale unità della specie umana e dei suoi comportamenti basilari in condizioni simili, malgrado tutte le teorie, di destra e di sinistra, che hanno preferito sottolinearne le presunte, inconciliabili differenze culturali e di «civilizzazione». A ulteriore conferma di questa uniformità tendenziale di comportamenti e di preferenze, anche nel «Terzo mondo» furono da subito gli elementi più istruiti e «moderni» ad abbassare bruscamente il proprio tasso di riproduzione, e il primo dimezzamento della natalità vi si verificò in pochi decenni rispetto ai quasi due secoli che erano occorsi in Europa.
FIG. 4. Tassi di fertilità totale per livello di sviluppo.
FIG. 4. Tassi di fertilità totale per livello di sviluppo.
fonte: http://www.europeanfinancialreview.com/?p=1096#!prettyPhoto (ultimo accesso ottobre 2022).
Il declino demografico europeo fu osservato e commentato molto presto, ma non ne furono capiti subito motivi e meccanismi e il legame con la Modernità e le sue varianti. Nel secondo dopoguerra, poi, un baby boom che in realtà era solo parzialmente tale fece scemare l’interesse per il declino, mentre la pesante eredità delle politiche demografiche totalitarie screditava gli studi demografici nel loro insieme.
Il primo paese a prendere coscienza del fenomeno era stata la Francia del XIX secolo[7], dove esso si legò presto alle preoccupazioni derivanti dal declino incarnato dalla sconfitta del 1815. Emersero allora anche retoriche precorritrici che lamentavano gli effetti della rivoluzione e delle ideologie progressiste[8]; la «colonizzazione» da parte di immigrati stranieri (comparvero anche i prototipi della teoria della «sostituzione» ma ci fu anche chi sostenne la necessità di favorirne l’arrivo e l’integrazione); la diminuzione della potenza, anche relativa, del paese; e la «paura» e il «rifiuto» della vita che dilagavano tra i francesi. Abbastanza presto, tuttavia, ci si rese conto che la diminuzione della fecondità era già iniziata verso la metà del XVIII secolo, anche nelle campagne, e in particolare nelle zone rurali dove le condizioni di vita erano migliorate. Qui contadini divenuti piccoli proprietari relativamente agiati rispondevano al declino della mortalità infantile riducendo il numero dei figli grazie a metodi anticoncezionali primitivi, ma abbastanza efficienti se usati sistematicamente come l’onanismo (cioè il coito interrotto), anche per difendere dalla divisione eccessiva una proprietà di cui si erano assicurati il godimento.
Il legame tra benessere e calo della fecondità era sottolineato anche dal declino della seconda negli Stati Uniti, dove già Thomas Jefferson e George Washington, convinti che gli esseri umani si moltiplicavano quando erano felici e che quindi gli Stati Uniti fossero destinati ad avere i più alti tassi di crescita demografica, furono molto delusi dai risultati del primo censimento, decisamente inferiori alle loro attese. E se il declino relativo francese era di gran lunga superiore a quello di altri paesi europei (nel XIX secolo la Francia vide i suoi abitanti aumentare «solo» del 40% mentre quelli del Regno Unito quintuplicavano), dal 1870 al 1940 ogni paese dell’Europa settentrionale sperimentò un declino della fecondità di circa il 50%. Nel 1912, come osservò Gini, non era «più la Francia sola a dover riflettere sulla sua vita avvenire, ma ogni popolo di Europa che sia previdente. La Francia fu, nella grande famiglia europea, per molti rispetti, la sorella maggiore e fu sorella molto precoce; ma i sintomi della senescenza si rivelano o si sospettano ormai anche negli organismi delle sorelle minori e più tardive»[9].
L’analisi delle cause del fenomeno portò all’elaborazione di ipotesi poi provatesi infondate. Ancora tra le due guerre persino grandi studiosi, come appunto Gini, sostenevano che ve ne erano di fisiche o biologiche e che si fosse di fronte a una «progressiva riduzione del potere riproduttivo della razza bianca», malgrado vi fosse chi, come Livio Livi, faceva notare che proprio la rapidità del movimento (e verrebbe da aggiungere il suo carattere generale) facesse piuttosto pensare a un complesso di cause psicologiche più che biologiche.
Soprattutto, ma non solo, nel Regno Unito queste teorie presero anche in ambienti progressisti forme fondate su preoccupazioni sociali oltre che razziste: si sostenne che erano in generale i ceti superiori ad avere una riproduttività assai più debole di quella degli strati inferiori, senza sospettare che in entrambi i casi erano piuttosto le condizioni migliori a determinare il calo della natalità, certo controintuitivamente se si pensa alla diffusione della credenza per cui non si fanno figli perché non se ne hanno i mezzi.
Almeno a livello popolare, la teoria errata più diffusa fu infatti presto quella secondo cui non si facevano figli per colpa della povertà. Già a inizio Novecento, tuttavia, Bertillon comprese che si trattava di un autoinganno: mai la Francia era stata così ricca, mai era stato così facile vivervi come da quando la natalità si era abbassata. Se le persone dicevano che non facevano figli perché non avevano sufficiente denaro, non era perché fossero più povere di quando ne facevano, ma perché i loro bisogni e le loro aspettative erano aumentati. Malgrado i suoi successivi errori «biologizzanti», a una conclusione simile giunse anche Gini, che osservò come «in una condizione di ricchezza di cui la storia della nazione non ricorda l’eguale» stava paradossalmente aumentando «un senso di povertà quale mai forse si ebbe: interrogate le famiglie sulla ragione per cui limitano la prole, ed esse ne incolperanno invariabilmente le crescenti difficoltà della vita». I figli non si facevano insomma per questioni psicologiche, e non sociali, razziali o economiche se non, nel caso di queste ultime, in modo indiretto e controintuitivo, come valutazione a partire da condizioni migliori delle possibilità e opportunità di benessere relativo proprio e degli eventuali figli[10].
Come David Glass capì già negli anni Trenta, altrettanto sbagliata era l’ipotesi secondo cui il tasso di natalità cadeva a causa del sempre più frequente uso di contraccezione e aborto. Il problema, semmai, era perché gli individui vi facessero più ricorso. Per spiegarlo, tuttavia, egli ricadde nell’errore, già individuato da Bertillon e Gini, secondo cui i motivi decisivi erano quelli economici, rappresentati dai costi di una famiglia più numerosa, piuttosto che dalle aspettative individuali[11].
Sempre Glass si unì a chi riteneva che il problema potesse essere legato all’influenza della vita urbana sulla famiglia e vedeva la radice della crisi demografica in una «civiltà urbana», legata al «capitalismo», che stava dando la prova biologica della sua inadeguatezza. Questo antiurbanesimo aveva diramazioni sia a destra che a sinistra: Gini parlava negli anni Trenta di «azione deterioratrice degli ambienti urbani» e nel 1929 Carle Zimmerman e Pitirim Sorokin, il grande sociologo di orientamento politico socialista-rivoluzionario, già segretario del primo governo democratico russo, parlarono di «universale, planetaria differenza sociale e biologica fra la popolazione urbana e quella rurale», riproponendo sotto altra veste la tesi della differenza «essenziale» tra parti del genere umano. Ma proprio i comportamenti demografici smentivano anche la tesi di una frattura rurale/urbana: le regioni agricole francesi coi raccolti più ricchi erano per esempio le più sterili di esseri umani e gli strati urbani, o recentemente inurbati, più poveri avevano al contrario alti di tassi di fecondità, confermandone la correlazione con il benessere, sia pure relativo, e la coscienza di sé, acuita dall’istruzione[12].
Anche la religione, o meglio la crisi del sentimento religioso, è stata invocata come possibile causa del declino della natalità. Già Bertillon, tuttavia, notò che se la Bibbia considera la sterilità una punizione terribile, il Cristianesimo, di per sé, non condanna affatto (anzi a suo modo esalta) celibato e castità, persino nel matrimonio, un punto ripreso decenni dopo dal cattolico Chaunu, che notò come la natalità diminuisse anche in paesi cattolici e che restavano tali. Era vero, però, che l’investimento nei successi di un figlio comportava una rinuncia almeno parziale del sé individuale, favorendo il sacrificio in nome del futuro e implicando di fatto un’accettazione della mortalità del singolo. La morale cristiana del sacrificio era quindi più favorevole alla procreazione di uno spirito laico e democratico che nutre negli esseri umani il desiderio di elevarsi, incitandoli a non avere pesi.
Già a inizio XX secolo, al culmine del primo Moderno e dell’Occidente eurocentrico cui era legato, era quindi abbastanza chiaro che le cause del declino della natalità erano in primo luogo psicologiche e intellettuali. Esse dipendevano cioè da scelte e comportamenti individuali che, malgrado le stesse dichiarazioni degli interessati, erano legate al miglioramento socioeconomico, e non alla povertà. Bertillon riassunse questa conclusione, raggiunta anche con un’inchiesta cui parteciparono 500 medici, in un secco l’aisance entraîne la stérilité. Essa fu poi ripetuta in forme diverse dai maggiori studiosi del fenomeno che, malgrado abbagli anche grossolani, videro come Gini nella società aperta, con le sue opportunità di mobilità sociale, la molla che spingeva gli individui che volevano «lanciarsi verso l’alto», e si potrebbe aggiungere verso l’indipendenza, a considerare una famiglia numerosa come una zavorra; o conclusero, come fece Francesco Saverio Nitti nel 1938, che ogni «sistema morale» che portava all’individualismo era contrario alla fecondità[13]. La chiave stava insomma nelle scelte e quindi nella volontà dei singoli individui in generale e soprattutto delle donne, e questa volontà variava in modo inverso con l’aumento del benessere e delle opportunità, nonché dell’istruzione, come aveva notato Giulio Del Vecchio studiando nel 1894 Gli analfabeti e le nascite.
Nella seconda metà del Novecento John Charles Caldwell avrebbe formalizzato queste conclusioni sottolineando che il calo della natalità si produce quando le coppie si convincono che un figlio in più nuoce al benessere di uno o di entrambi i coniugi e/o a quello degli eventuali pochi figli già nati, un meccanismo innescato da concrete e durature esperienze di sviluppo e mobilità sociale crescente. La razionalità alla base delle scelte procreative resterebbe quindi simile, e a cambiare sarebbe la reazione a quella che si presenta come un’inversione della convenienza: se nel mondo tradizionale (lo vedremo tra breve parlando di contadini) fare figli era percepito come fonte di ricchezza, già durante la prima transizione al Moderno questa percezione sembrò capovolgersi, una sensazione probabilmente acuita dal peso aggiuntivo imposto alle famiglie dal repentino aumento dei figli sopravvissuti rispetto a quelli nati[14].
I medici intervistati da Bertillon avevano però anche notato che i contadini agiati volevano almeno due figli, necessari per assicurare il loro futuro e quello della loro proprietà. E lo stesso comportamento lo hanno avuto fino alla seconda metà del XX secolo anche molte coppie moderne urbane[15]. Si intravede così una caratteristica che distingue in modo essenziale il primo Moderno dal Moderno maggiore, più ricco e urbanizzato, cristallizzatosi dopo la seconda guerra mondiale. L’incremento notevolissimo di benessere, libertà individuale e istruzione anche a livello di massa, associato a un veloce quanto epocale innalzamento della speranza di vita, passata come sappiamo dai circa 55 anni del 1945 a più di 80 in quattro decenni, determinarono infatti una seconda, brusca diminuzione della natalità, portandola – ancorché in modo non uniforme – sotto il livello di riproduzione (fig. 1).
La prima, verso i due figli per coppia, poteva e può essere vista come un ritorno verso il relativo equilibrio garantito in precedenza, e in modo brutale, dall’alta mortalità infantile, e in seguito affidato invece alle scelte degli individui. Era un ritorno che poneva fine al boom straordinario e insostenibile innescato dal veloce calo di quella mortalità (da questo punto di vista sbagliò chi vide un declino in quello che era in realtà un ritorno a una «normalità» sia pure diversa e più civile). Esso preparava inoltre il terreno per il già ricordato riequilibrio tra le grandi aree del paese causato dalla migrazione planetaria delle grandi innovazioni culturali e scientifico-tecnologiche del Moderno occidentale.
Vedere sotto questa luce la seconda e ancor più brusca diminuzione della natalità è invece difficile. La sua riduzione sotto il livello di riproduzione, in associazione col brusco innalzamento della speranza di vita, ha infatti creato e in breve tempo un nuovo tipo di società moderna essenzialmente diversa, anche perché più fragile, dalla precedente.
3. L’esaurirsi del mondo contadino e il miraggio del baby boom
Il passaggio dopo il 1945 a un nuovo tipo di Moderno fu segnato in Europa occidentale anche da una «grande trasformazione» che non era quella identificata nel 1944 da Karl Polanyi nel passaggio dalla comunità al mercato. Piuttosto, essa era rappresentata dal rapido declino del mondo contadino che aveva dominato tutta l’Europa per secoli (se nel Regno Unito la popolazione urbana aveva superato quella rurale già nel 1851, in Francia e in Italia questo avvenne solo nel periodo tra le due guerre mondiali).
Benché diminuisse in termini relativi, inoltre, la popolazione rurale continuò a lungo ad aumentare in termini assoluti. Malgrado le migrazioni verso i centri urbani interni, o verso le Americhe, e la tendenza alla riduzione della natalità presto evidente tra i loro strati più agiati, i contadini e in particolare quelli più poveri e meno istruiti continuarono per diversi decenni a fare molti più figli di quanti non ne uccidesse la mortalità infantile. Questo per ragioni culturali; per la relativa (3-4 generazioni) lentezza della reazione alle mutate condizioni; ma anche e forse soprattutto perché nelle società rurali era interesse economico e individuale dei contadini, specie ma non solo di quelli che avevano un po’ di terra, fare figli che contribuivano subito all’economia famigliare e garantivano poi la sia pur breve vecchiaia dei genitori.
Progresso e urbanizzazione hanno quindi a lungo convissuto, anche in Europa, con una società contadina capace di nutrirli, grazie all’emigrazione di una parte della gioventù da essa prodotta, e al tempo stesso di conservarsi, all’inizio persino rafforzandosi e poi sopravvivendo più a lungo di quanto ci si potesse aspettare. Come dimostra la figura 5, il medesimo processo si è poi riprodotto, con circa un secolo di ritardo, su scala mondiale. Anche in questo caso la popolazione rurale, benché superata da quella urbana poco dopo il 2000, continua a crescere, sia pure sempre più lentamente, anche se non è lontano il giorno in cui comincerà a diminuire anche in termini assoluti.
Le campagne hanno quindi assicurato al Moderno, nelle sue varie incarnazioni, un serbatoio a lungo capace di fornire energia. L’urbanizzazione, o meglio il richiamo del «confortevole» (il termine è di Gini) e le opportunità che le città malgrado tutto offrivano, lo ha però col tempo svuotato, a cominciare dalle aree in cui quel richiamo è per la prima volta risuonato. Anche in questo caso, come in quello dei movimenti demografici, a contare sono state le decisioni personali di milioni di persone, e in particolare quelle dei contadini stessi, che hanno col loro comportamento dimostrato che, in presenza di opzioni reputate migliori, non volevano difendere un mondo che preferivano, se possibile, abbandonare. Almeno in Europa occidentale, la fine dei contadini è stata insomma prima di tutto una scelta, come ha più volte dimostrato quello che è successo anche laddove, grazie alle riforme agrarie, il possesso della terra aveva smesso di essere un miraggio. I contadini e soprattutto le contadine non volevano restare tali, e sognavano una vita che con tutti i suoi disagi e le sue difficoltà prometteva (e manteneva) più di quello che faceva la campagna, come si sente ripetere nelle interviste fatte alle donne andate a lavorare in fabbrica nell’Italia del «miracolo economico». Questa autoliquidazione dimostra indirettamente la spaventosa futilità della liquidazione del mondo contadino imposta con la violenza e la collettivizzazione nei paesi di un Moderno, quello socialista, che anche per questo si conferma, e rimase, minore.
FIG. 5. Numero delle persone che vivono in aree urbane e rurali a livello mondiale, 1960-2020.
FIG. 5. Numero delle persone che vivono in aree urbane e rurali a livello mondiale, 1960-2020.
fonte: https://ourworldindata.org/grapher/urban-and-rural-population (ultimo accesso ottobre 2022).
Nell’Europa occidentale del secondo dopoguerra quel richiamo del confortevole si fece così forte e realistico da determinare non più il semplice svuotamento ma il rapido esaurimento del serbatoio rurale. Il fenomeno, di grandissimo rilievo, pone il problema di cosa abbia rappresentato e significato la scomparsa di un mondo che era stato per circa 200 anni insieme motore demografico, riserva di aumenti di produttività e di capacità imprenditoriale, e bacino di una cultura popolare che era possibile, anche se errato, considerare altra rispetto a quella dominante, e poteva anche per questo servire da pretesto a progetti tanto conservatori, quanto nazionalisti o rivoluzionari.
La sua fine ha messo prima di tutto il Moderno occidentale maggiore di fronte alla necessità di assicurarsi nuove fonti di energia umana in aree geografiche sempre più distanti, anche dal punto di vista culturale, linguistico e del colore, complicando, invece di facilitare l’integrazione e l’omogeneizzazione sociale a qualunque livello, nazionale come europeo. Anche l’enorme e automatico incremento di produttività permesso dal passaggio dall’agricoltura all’industria e ai servizi è andato, almeno a livello di contabilità nazionale, in qualche modo perso, visto che l’ingresso avviene ormai dall’esterno. Ed è anche diminuito, anche se in forma minore, il contributo di capacità imprenditoriali che i contadini portavano con sé inurbandosi. Contrariamente a quel che pensava Polanyi, benché a modo loro, essi erano infatti molto spesso imprenditori abituati a operare sul mercato gestendo aziende familiari che nei villaggi occupavano la grande maggioranza della popolazione[16]. Questo vale ancora per almeno una parte di coloro che arrivano oggi dalle appena ricordate altre zone del pianeta. Ma anche lasciando perdere le maggiori difficoltà culturali e linguistiche che hanno a impiantare un’azienda in un paese che non è il loro, un’altra e importante parte di essi proviene ormai da esperienze urbane e di lavoro dipendente ed è quindi – come molti degli abitanti del Moderno che raggiungono – priva di esperienze e in molti casi anche di capacità imprenditoriali.
A svuotarsi fu anche un bacino culturale che in qualche modo garantiva non tanto la continuità, quanto più lenti ritmi di cambiamento e, almeno secondo Chaunu, anche un serbatoio di «ascetismo laico» basato sul sacrificio del presente a favore del futuro. Di sicuro coi contadini è venuto meno anche quel «materiale etnografico», quel «popolo» e quel tipo di «cultura popolare» di cui negli anni Settanta Pasolini lamentava la fine e sui cui sostituti tornerò nel prossimo capitolo.
Lo sfruttamento fino all’esaurimento degli ultimi serbatoi rurali interni e un baby boom che però fu, almeno in Europa, meno rilevante di quanto si credette e si continui a pensare, contribuirono a far dimenticare, e persino a far sembrare ridicolo, quanto era a molti apparso chiaro negli anni Trenta. La realtà sembrava insomma smentire Keynes, che nel 1939 aveva parlato di società moderne condannate dalla demografia alla stagnazione e quindi bisognose di stimoli continui, così come Sauvy, che nel 1930 aveva predetto – in assenza di provvedimenti – un netto calo della popolazione francese entro il 1980, o i tanti che avevano avanzato previsioni altrettanto catastrofiche per l’Inghilterra.
Anche l’accento posto dai regimi dittatoriali sconfitti, così come dall’Unione sovietica staliniana, sulle politiche nataliste, e gli orrori di quelle demografiche naziste, contribuirono a far sembrare insopportabili oltre che sbagliate le preoccupazioni circa la fecondità in generale, quelle nazionaliste e razziste così come quelle legate al materialismo brutale di certo scientismo ottocentesco. Rassicurava in particolare il fatto che la ripresa demografica seguita al conflitto si provasse più duratura di quella, molto breve, verificatasi dopo il 1918. Molti si convinsero così che il lugubre mondo degli anni Trenta fosse morto, cominciando a nutrire l’illusione che il progresso fosse la condizione normale delle società umane moderne. L’idea che si andava radicando, anche in base al già ricordato ragionare per stadi cui Rostow stava per dare una nuova formulazione, era che quanto si era verificato o si stava verificando era appunto il passaggio da uno stadio all’altro (sottosviluppato-in via di sviluppo-sviluppato). Non si capiva che si stava invece percorrendo solo una tappa di un cammino che portava in territori sempre nuovi.
Ma se negli Stati Uniti, come in Canada, Australia o Nuova Zelanda, era lecito parlare di baby boom (nei primi il tasso di fecondità, che era sceso nel 1936 alla soglia di riproduzione di 2,2 per donna fertile, risalì dopo il 1945 fino a toccare un picco di 3,8, per poi riprendere a discendere fino al 2,2 del 1972), in Europa occidentale sarebbe stato più corretto parlare di baby boomlet. Qui, infatti, l’aumento demografico aveva già come causa principale quello della speranza di vita verificatosi dopo il 1945 (legato come sappiamo a vaccini, antibiotici e sulfamidici), e si esprimeva quindi in un invecchiamento ancora relativo, e perciò non immediatamente visibile, della popolazione. Nel blocco socialista, poi, il fenomeno fu ancor più limitato e già negli anni Sessanta i tassi di fecondità scesero sotto il livello di sostituzione, spingendo alcuni paesi, come la Romania, a rilanciare le vecchie e autoritarie politiche nataliste, mentre in Urss il boom delle popolazioni non slave, e in particolare di quelle dell’Asia centrale, nascondeva il fenomeno ma accendeva le preoccupazioni di Mosca.
Inoltre, sia il baby boom statunitense che quello più piccolo dell’Europa occidentale si rivelarono presto una deviazione temporanea, dovuta a una pluralità di ragioni, dal molto più solido trend di lungo termine in direzione di un calo della natalità legato alle preferenze individuali in condizioni di benessere relativo. Questo calo stava per entrare in una fase nuova e più radicale, quella segnata dal superamento verso il basso della soglia di riproduzione. Già nei primi anni Sessanta la natalità aveva ripreso a scendere in tutto il nuovo Occidente sorto nel 1945, e presto furono raggiunti e superati i livelli degli anni Trenta con un moto generale che ribadiva implicitamente l’uniformità dei comportamenti della specie umana in condizioni simili. Questo moto, molto rapido e inatteso anche per la maggior parte dei demografi, portò nel 1968 la Svezia a essere il primo paese occidentale le cui donne fertili facevano in media meno di 2,2 figli ciascuna. Essa fu seguita nel 1969 da Danimarca e Finlandia, nel 1972 dalla Germania federale, nel 1973 da Belgio, Olanda e Inghilterra, nel 1975 dalla Francia, nel 1976 dall’Italia, e nel 1980 dalla Spagna. La popolazione residente negli Stati Uniti, e in special modo quella bianca, aveva varcato questa soglia nel 1972, ma il già ricordato boom della nuova immigrazione, permesso dalla riforma del 1965, ribaltò rapidamente la situazione facendo risalire un tasso di fecondità che ha ripreso a calare solo dal 2010.
L’importanza di questi nuovi trend e i pericoli da essi rappresentati furono anche oscurati dalla retorica, allora al suo culmine, relativa ai pericoli di segno opposto, rappresentati dalla population bomb. Era una retorica che affondava le sue radici nelle preoccupazioni malthusiane relative al rapporto tra popolazione e reddito, e in quelle, spesso ad esse legate, riguardanti la possibile degenerazione sociale e razziale determinata dai differenziali di natalità tra gruppi ritenuti di diverso valore, come sappiamo molto forti già nei primi decenni del Novecento tra le élite anglosassoni poi uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale. Contò anche la sconfitta di alcuni dei principali regimi «natalisti» (quello sovietico, vittorioso, avrebbe cambiato rapidamente orientamento dopo la morte di Stalin), e contarono i dati su una crescita della popolazione mondiale superiore alle attese, che esprimeva in realtà l’arrivo della prima fase del Moderno in territori ancora non toccati da esso. Nel 1968 questa crescita toccò il suo picco assoluto con il 2,1% annuo. Di fronte a ciò, quanto stava avvenendo in Occidente sembrò paradossalmente un fenomeno positivo: il 18 maggio 1975, per esempio, l’«Observer» intitolò And Now for the Good News: Britain’s Population Has Stopped Growing un articolo sulla crisi demografica britannica. Pochi demografi, e ancor meno economisti, sollevarono il problema posto dalla mancata capacità di sostituire le generazioni e quindi dall’invecchiamento della popolazione occidentale, forse anche per la difficoltà psicologica di discutere un fenomeno che adombrava la nostra mortalità come individui.
Nel frattempo la crescita della popolazione mondiale aveva però già cominciato a rallentare (nel 1977 si era all’1,8%, oggi è di circa l’1% e si prevede che presto essa si interromperà per iniziare il movimento in senso inverso). E il noto fenomeno dell’inerzia demografica (se non nascono bambini, ci saranno tra 20 anni meno giovani capaci di riprodursi e quindi la fecondità scenderà ancora) lasciava chiaramente capire che la situazione occidentale, e soprattutto quella europea, avrebbe continuato a peggiorare. Come dimostrò la Conferenza mondiale sulla popolazione riunitasi a Bucarest nel 1974, tuttavia, gli sforzi maggiori erano allora ancora rivolti a ridurne la crescita. Ad essi si oppose soprattutto la Cina, che sostenne che imperialismo e capitalismo, non la sovrappopolazione, erano le cause del sottosviluppo. Anche la Cina, tuttavia, avrebbe presto capovolto la sua posizione, adottando la politica del figlio unico (1980-2015), benché tra il 1965 e il 1979 le donne cinesi fossero da sole già passate da circa sei a circa tre figli ciascuna. Questo mentre l’India di Indira Gandhi varava un grande piano repressivo di sterilizzazione forzata[17].
4. La maturità e la crisi del Moderno maggiore
Alla metà degli anni Settanta, con la discesa della fertilità sotto la soglia di riproduzione l’Europa occidentale e la popolazione di origine europea degli Stati Uniti entrarono quindi nella fase matura del Moderno maggiore, contraddistinta appunto dalla tendenza a fare meno di due figli per coppia e dal già ricordato e altrettanto notevole crescere della speranza di vita (da circa 65 a più di 80 anni). Questi due fenomeni erano a loro volta accompagnati da una riduzione della numerosità dei nuclei familiari già stimolata dal prevalere dei figli unici e dalla moltiplicazione di quelli composti da un’unica persona, spesso ma non sempre anziana e vedova.
Siamo qui di fronte alle caratteristiche forse più importanti della nuova situazione in cui viviamo, contraddistinta da un rapido invecchiamento della popolazione che ha preso grazie a questi due fenomeni una nuova forma e un nuovo significato. Nell’Europa di inizio Novecento il 15-20% della popolazione era composta da bambini con meno di 5 anni e la metà di essa aveva meno di 20 anni. Nella prima fase della riduzione della natalità e dell’allungamento della speranza di vita a diminuire furono i minori, almeno in parte gravanti sui redditi dei genitori (molti cominciavano presto a lavorare), e ad aumentare le persone tra i 40 e i 60 anni, con una crescita quindi della percentuale della popolazione in età lavorativa, e perciò della ricchezza. Nella seconda fase, cominciata grosso modo negli anni Sessanta del Novecento, a crescere, col numero delle persone tra 40 e 60 anni fu quello degli ultrasessantacinquenni, il cui aumento più che compensò la diminuzione dei minori di 18 anni. Per esempio, nell’Italia di oggi, questi ultimi costituiscono il 17,8% della popolazione, mentre più del 23% ha più di 65 anni e quasi il 12% più di 75.
Le figure 6.a, 6.b e 6.c mostrano con chiarezza la difformità a livello planetario creata all’inizio dalle tendenze demografiche legate alla comparsa della Modernità, e il loro successivo convergere verso una nuova uniformità, che reca però le tracce (evidenti nel caso dei paesi ex sovietici) delle diverse caratteristiche e dei diversi costi dei vari Moderni.
Le cause delle due grandi tendenze che definiscono il Moderno maturo sono abbastanza chiare. L’allungamento della speranza di vita dipende dal progresso scientifico, dal suo impatto sulle cure mediche, dai grandi sistemi sanitari, dal benessere e dal mutamento degli stili di vita che esso permette. E il legame tra aumento del benessere e delle opportunità individuali da un alto, e riduzione della natalità dall’altro fu, come sappiamo, intravisto abbastanza presto.
L’aggravarsi dell’incapacità di riprodursi delle società moderne ha posto però il problema in termini nuovi, che richiedono di aggiornare, se non di andare oltre, le conclusioni di Caldwell. Si è così generata un’ondata di nuove ipotesi più o meno «collettivistiche» e sociali, come quelle legate alla convinzione che il rifiuto di fare figli dipendesse in qualche modo dalle caratteristiche della nuova «psiche collettiva» generata dal Moderno maturo. Sauvy, per esempio, riteneva che l’invecchiamento dipendesse da una paura che si traduceva in rifiuto collettivo della vita. Altri hanno invece preferito guardare a cause specifiche, alcune delle quali probabilmente rilevanti. C’è per esempio chi ha sottolineato come il rapido sviluppo dei movimenti per la tutela dell’ambiente, esplosi appunto negli anni Settanta, testimoniasse indirettamente della presenza di timori «apocalittici» nei riguardi del futuro, forse in parte collegati a quelli di un conflitto nucleare, timori che hanno probabilmente influenzato la decisione delle donne di riprodursi.
Un ruolo forse più importante lo ha giocato l’illusione di eternità generata dal crescere continuo della speranza di vita nella seconda metà del XX secolo. Ciò ha prodotto da un lato la convinzione di una quasi eterna giovinezza, che faceva ritenere possibile rimandare «all’infinito» scelte come quelle legate alla procreazione; e dall’altro ha creato un senso fortissimo di indipendenza del sé (legato anche allo sviluppo dei sistemi di protezione sociale e di quelli pensionistici), che rendeva a sua volta possibile mettere da parte la necessità della riproduzione. In questa prospettiva il rifiuto collettivo della vita (intesa come generazione di essa) di cui parlava Sauvy ci appare piuttosto il prodotto di un individuale rifiuto della morte, in una società in cui, come Lasch intuì alla fine degli anni Settanta, l’idea della propria finitezza diventava insopportabile. In quanto simboli di essa, e del passaggio all’età matura, maternità e paternità vi cominciavano quindi ad «apparire quasi come forme di autodistruzione»[18].
Importante è stata anche la crescita dell’autonomia e dell’indipendenza di donne che hanno gradualmente conquistato una libertà di scelta sempre maggiore e scoperto che un’altra vita e un’altra felicità erano almeno in parte possibili, sfuggendo alla costrizione esercitata su di loro nelle società maschili. Questa maggiore libertà è stata spesso associata alla disponibilità di metodi contraccettivi più semplici ed efficaci, ma il successo di quelli precedenti (pensiamo alle conclusioni raggiunte da Bertillon riflettendo sul crollo della natalità francese) spinge a ritenere che la componente psicologica e quella materiale siano state e siano più importanti. È comunque indubbio che le battaglie per i diritti riproduttivi delle donne, cominciate a inizio XX secolo e incarnate da Margaret Sanger, la fondatrice di Planned Parenthood, abbiano contato e non poco. Lo hanno fatto anche per i loro rapporti con quelle per il controllo delle nascite e lo sviluppo di sistemi più avanzati di contraccezione, come per esempio la pillola, diffusa commercialmente nei primi anni Sessanta ma sviluppata nel decennio precedente a partire da ricerche finanziate da Katharine McCormick su consiglio della Sanger.
FIG. 6.A. Speranza di vita nel mondo: 1800 (con i confini del 2015).
FIG. 6.A. Speranza di vita nel mondo: 1800 (con i confini del 2015).
fonte: Nostra elaborazione da https://ourworldindata.org/life-expectancy (ultimo accesso ottobre 2022).
FIG. 6.B. Speranza di vita nel mondo: 1950 (con i confini del 2015).
FIG. 6.B. Speranza di vita nel mondo: 1950 (con i confini del 2015).
FIG. 6.C. Speranza di vita nel mondo: 2015.
FIG. 6.C. Speranza di vita nel mondo: 2015.
Naturalmente, il metodo di controllo delle nascite più discusso e divisivo è stato ed è l’aborto (cui la Sanger era contraria), ed è inevitabile che lo continui a essere in società dove la questione della vita e della sua «scarsità», nonché quella del diritto ad essa e più in generale dei diritti degli individui, è diventata centrale. Vale la pena di rimarcare la diversa esperienza, anche in questo campo, dei paesi del Moderno minore. La Russia di Lenin fu il primo paese a legalizzare l’aborto, poi vietato e punito da Stalin nel 1936, nell’ambito di una legislazione al tempo spesso natalista e tradizionalista. Esso fu infine rilegalizzato da Chruščëv nel 1955, una svolta che si propagò all’intero blocco sovietico e accelerò grandemente la caduta della natalità, coadiuvando e in parte sostituendo il coito interrotto. Il ricorso all’aborto crebbe infatti molto velocemente anche a seguito della decisione sovietica di non produrre e commercializzare la pillola: a fronte di nascite che oscillavano tra i 4 e i 4,2 milioni all’anno, alla fine degli anni Sessanta gli aborti legali erano in Urss dai 7 agli 8 milioni, e nella Repubblica russa degli anni Ottanta c’erano 196 aborti per 100 nascite, rispetto ai 30 della Svezia, ai 21 della Francia e ai 10 dell’Olanda.
Un caso altrettanto eccezionale è quello del Giappone dopo la sconfitta del 1945. Qui l’aborto, reso molto difficile ma non impossibile dalla legge eugenica nazionale del 1940, fu legalizzato nel 1948: i 1.800 aborti del 1944 erano esplosi, nel 1960, a quasi un milione, segnalando tanto la relativa uniformità del comportamento femminile in presenza della possibilità di ricorrervi, quanto il desiderio di evitarlo in presenza di altre opportunità (dopo l’introduzione della pillola gli aborti diminuirono rapidamente e nel 2019 sono stati 156.000).
Nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti la questione cominciò a giocare un ruolo politico cruciale, anche dal punto di vista simbolico, negli anni Cinquanta. In Francia come in Italia nacquero allora associazioni ispirate in qualche modo a Planned Parenthood, come Maternité heureuse, poi Mouvement français pour le planning familial e l’Associazione italiana per l’educazione demografica. Dopo la combattuta ma netta vittoria della legalizzazione negli anni Settanta, la questione si è spesso riaccesa, come ha fatto di recente in forma esplosiva negli Stati Uniti e potrebbe fare anche in Europa, anche se solo come perno di divisioni ideologiche e morali, prima che politiche.
Un’altra ipotesi avanzata per spiegare le tendenze mostrate dalla fase matura del Moderno maggiore è quella della crisi della famiglia «tradizionale», variamente associata ai fattori appena discussi. Il calo drastico dei matrimoni (nei paesi dell’Unione Europea il tasso per 1.000 abitanti è crollato, tra il 1964 e il 2020, da 8 a 3,2) e l’aumento dei divorzi, il cui tasso è invece raddoppiato nello stesso periodo da 0,8 a 1,6 (ancorché mostrando un calo a partire dal 2010 quando toccò l’1,9) sembrerebbero confermare questa ipotesi. Nella stessa direzione punta lo straordinario aumento delle famiglie unipersonali (passate in Italia dai poco più di due milioni del censimento del 1971 ai più di nove milioni del 2019, balzando dal 13 al 35% del totale) e quello dei figli nati fuori del matrimonio. Nel 2014 questi ultimi erano circa il 40% negli Stati Uniti, rispetto al 28% del 1990 e con tassi molto più elevati tra neri e ispanici che tra i bianchi; più del 50% in Belgio, Francia o Svezia; e più del 70% in Messico, Islanda o Cile (in Italia si è passati da circa il 3% del 1964 al 34% del 2018)[19].
La famiglia nucleare «tradizionale» (marito, moglie e due-tre figli) sarebbe insomma nel cuore della tempesta, e la sua crisi non solo segnerebbe la frattura tra un passato, conservatosi anche nella prima fase della Modernità, e il nuovo futuro rappresentato dal Moderno maturo, ma ne costituirebbe una causa di fondamentale importanza. I sostenitori di questa tesi l’hanno motivata richiamando fattori psicologici e sociali, come per esempio lo svuotamento delle funzioni della famiglia, assunte dalla scuola ma anche da esperti di vario tipo. Lasch, per esempio, lamentava «la nuova concezione terapeutica dello Stato e l’appropriazione delle funzioni della famiglia da parte di agenzie esterne», affermatasi negli Stati Uniti tra gli anni Trenta e Quaranta, che avrebbe contribuito al collasso dell’autorità paterna. Questo collasso, a sua volta associato a una crescita del permissivismo legata anche alla diffusione di «versioni corrotte della teoria freudiana», avrebbe a suo dire segnato il passaggio «da una società in cui dominavano i valori del Super Io (quelli dell’autocontrollo), a una in cui i valori dell’Id (quelli dell’autoindulgenza) acquistavano sempre più peso»[20].
Ma se la crisi della famiglia nucleare di quel tipo è innegabile, c’è da chiedersi quanto essa abbia davvero costituito una regola di lungo periodo, specie nelle società contadine, e quanto non fosse in realtà essa stessa il prodotto di un’evoluzione passata attraverso una fase in cui i figli vivi erano anche più di dieci[21]. Più che «tradizionale» (di qui l’uso delle virgolette) quella famiglia nucleare era quindi una tappa di un cammino più lungo; di modelli di famiglia ve ne sono stati molti, compreso quello non formalizzato in cui oggi crescono in alcuni paesi la maggioranza dei bambini; ed è probabile che le grandi masse dei giovani abbandonati, senza famiglia, sbandati o orfani della prima modernizzazione o della società «tradizionale» siano cresciuti e abbiano vissuto in condizioni molto più acute di crisi dell’autorità paterna.
Soprattutto lo sviluppo di nuove forme di famiglia (piuttosto che, per le ragioni appena addotte, «la crisi della famiglia») era a sua volta il portato naturale dei grandi cambiamenti di cui abbiamo parlato, più che la causa di essi. Pensiamo per esempio all’allungamento della speranza di vita. Come osservò acutamente Chaunu, esso ha comportato tra il XVII secolo e il 1960-1965 un notevole prolungamento, forse la triplicazione, della durata dei matrimoni, con una forte accelerazione dopo gli anni Trenta del Novecento. In questa prospettiva il divorzio è un surrogato della morte, o meglio della vedovanza, piuttosto che della «crisi della famiglia». E su quest’ultima ha certo influito la già ricordata fine del mondo contadino, in cui la coincidenza tra famiglia e impresa era spesso la regola (come lo è oggi per le imprese familiari urbane, che occupano tuttavia uno spazio minore di quello un tempo ricoperto dalle aziende contadine). La famiglia «tradizionale» reggeva non solo perché non era sottoposta alla prova di tempi lunghissimi, ma anche perché si identificava con un’attività economica, la cui scomparsa le ha tolto gran parte della sua forza, trasformandola in prospettiva in un più semplice e fragile rifugio per «inattività, piacere e pensione»[22].
La riduzione del numero delle gravidanze, accompagnata dalla concentrazione delle nascite nei primi anni del matrimonio, ha minato un’altra delle fondamenta della sua durata, eliminandone uno dei motivi. Il lavoro fuori della famiglia della donna ha inoltre aumentato il costo anche psicologico dei figli, diventati sinonimo di rinuncia, mentre l’aumento e il prolungamento della scolarità li trasformava nell’immediato in un peso economico e in un ostacolo a una vita più piacevole e confortevole, oscurando l’enorme felicità da essi generata sul breve come, e forse soprattutto, sul lungo periodo.
Arriviamo così a un altro dei fattori cui è stata imputata soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento la «crisi dell’Occidente», vale a dire un individualismo fondato sulla ricerca del piacere personale, quello della Me decade (gli anni Settanta appunto) di Tom Wolfe. Erano tesi che si riallacciavano, in maniera inconscia, ai lamenti di chi aveva deprecato il declino francese e poi quello occidentale prima del 1914, ma che tuttavia trovavano nuovo fondamento in comportamenti individuali effettivamente sempre più ispirati alla ricerca della felicità del singolo. Ma proprio i lamenti del secolo precedente, così come le ben più ottimistiche teorie settecentesche, suggeriscono che si tratta in realtà della manifestazione di un comportamento umano normale, certo acutizzato da circostanze eccezionalmente favorevoli. Esse ne permettono lo sviluppo in forme nuove, quelle identificate da Lasch con una preoccupazione narcisistica per il sé che si presentava ed era all’inizio emancipazione dalla repressione del passato, ma portava in un vicolo cieco perché conduceva al venir meno della preoccupazione per la posterità. Questo fenomeno era nutrito dalla sensazione che «il benessere personale e la salute fisica e mentale» fossero più di un’illusione momentanea, visto che le nuove condizioni di vita associate al Moderno maggiore gli stavano dando una base più solida, trasformandole da realtà di qualche anno in realtà di qualche decennio. Come scrisse Chaunu, che ragione c’era di nascere se non si doveva più morire? Un’illusione che negli anni Settanta generò persino movimenti che teorizzavano la scomparsa della vecchiaia, contribuendo alla sostituzione del culto della giovinezza con quello del sé[23].
Molti sostenitori dell’ipotesi del crescente individualismo come fattore della crisi ne sottolinearono già 50 anni fa, subito dopo l’inizio della «rivoluzione sessuale», il rapporto con il peso sempre maggiore assunto dal sesso e con la trasformazione di quest’ultimo, legando entrambi alla caduta della natalità. Era un sesso, si notava, spesso concentrato sull’esperienza personale immediata e poco legato al sentimento o all’amore, che perdeva quindi il rapporto col futuro, con la speranza di relazioni durature, se non permanenti, e soprattutto con i figli. Si trattava di una tendenza peraltro già comparsa tra le avanguardie artistiche, culturali e politiche dei decenni precedenti e destinata ad acquistare sempre più peso negli anni successivi (essa si manifesta oggi anche con le preoccupazioni degli psicoterapeuti circa l’incontro con il porno virtuale fatto da moltissimi preadolescenti). Anche in questo caso, però, più che di fattore di crisi sarebbe opportuno parlare di conseguenza delle grandi mutazioni legate al Moderno maturo. È tuttavia verosimile che, una volta comparse, esse abbiano esercitato ed esercitino un’influenza, anche notevole, sull’evoluzione di una realtà plasmata, ancora una volta, dai comportamenti individuali.
A colpire è semmai, di nuovo, la relativa uniformità di questi comportamenti in condizioni date. Ovunque siano comparsi miglioramenti sostanziali della condizione umana, essi hanno portato gli individui a mettere sé stessi e le possibilità del presente davanti al passato e soprattutto a un futuro che non gli appartiene direttamente. Il risultato – non desiderato – è stato di produrre velocemente società più vecchie, probabilmente alla lunga più povere, e comunque meno adatte alla felicità individuale. Questo comportamento sul lungo periodo autolesionistico sembrerebbe essere stato facilitato dal fatto che il passaggio dalle società rurali/tradizionali a quelle urbane/moderne produce anche una contraddizione tra l’interesse collettivo a fare almeno i figli necessari alla riproduzione della società così come essa è e il comprensibile e comunque insopprimibile interesse individuale a vivere nel modo che la situazione sembra finalmente permettere. Sappiamo infatti che nelle prime fare figli è anche un investimento economico di cui si colgono presto i risultati. Nelle seconde, invece, avere figli può sembrare, a livello individuale, un sacrificio. La prevalenza del lavoro dipendente e delle grandi organizzazioni, pubbliche e private, vi genera inoltre l’illusione che si potrà in futuro, figli o non figli, contare su una pensione che però un drastico calo del peso delle generazioni in età lavorativa rispetto a quelle dipendenti non potrà che ridurre (magari semplicemente ritardandone l’arrivo), e questo anche col migliore dei sistemi possibili.
Siamo qui di fronte a una delle componenti essenziali del nucleo disfunzionale del comparativamente bellissimo Moderno in cui ho vissuto, che esploreremo nel prossimo capitolo. E in particolare di fronte al paradosso per cui, contrariamente a quanto speravano i teorici settecenteschi del progresso, superata una certa soglia il maggiore benessere e la maggiore libertà non portano a un aumento della popolazione, bensì al suo contrario. Questo perché, raggiunto un certo livello di benessere e di presa di coscienza individuale, finché è loro possibile gli esseri umani preferiscono in maggioranza massimizzare il loro benessere in quanto singoli.
È questa, in realtà, una constatazione che non dovrebbe stupire, visto che quasi tutti i benestanti del passato, tranne quelli talmente privilegiati da non essere sottoposti ad alcun vincolo materiale e da poter quindi permettersi ogni comportamento, si erano presto avviati su questa strada. Non lo avevano fatto quindi perché erano «diversi» dai poveri o dalle persone di altro genere o colore ma proprio perché simili a questi ultimi. E posti in condizioni simili anche questi ultimi si sono affrettati a comportarsi come quei patrizi romani che, come osservò nel 131 a.C. Quinto Cecilio Metello Macedonico, preferivano non sposarsi per evitare una convivenza che «tutti reputavano penosa» (donne comprese, aggiungeremmo oggi, non appena raggiunto un certo grado di benessere e indipendenza). Ma poiché la natura aveva voluto «che noi non potessimo né vivere bene con loro, né, senza di loro, vivere», lui era costretto a ricordare ai suoi concittadini che bisognava «pensare piuttosto al nostro bene permanente che al piacere di un istante»[24].
Sembra quindi possibile avanzare un’ipotesi che potremmo chiamare del «piacere relativo imitante»: escludendo élite più o meno ristrette, fino al XVIII secolo non si divertiva (se non in misura molto limitata) quasi nessuno, né gli uomini, servi della gleba o contadini che fossero, né tanto meno le donne, sottoposte a un regime di doppia soggezione, sociale e di genere, e anche tripla o quadrupla nelle società miste con lingue, religioni, o colori diversi. La massa dell’umanità viveva quindi in condizioni spesso brutali, mitigate parzialmente da affetti, bellezza e religione, condizioni che hanno cominciato a venir meno progressivamente e in modo diversificato in aree geografiche diverse. La Francia del XVIII secolo è stato forse il primo grande paese dove masse di uomini comuni hanno cominciato a capire che vivere meglio e in modo diverso, come persone, era possibile, eccitando probabilmente il desiderio delle loro compagne, inizialmente escluse da questo progresso.
Questo desiderio imitativo del vivere come persone fu presto accompagnato dalla percezione che esso era ostacolato e non favorito dalla nascita di figli. Esso si è diffuso nel mondo nei due secoli successivi producendo ovunque risultati simili, ancorché in modo differenziato, e facendo ovunque affiorare il fatto che, raggiunti determinati livelli di benessere, l’essere umano non è un «animale sociale», o meglio non lo è in una prospettiva di specie. I singoli individui continuano infatti a vivere socialmente, ma lo fanno preferendo sé stessi, come del resto è naturale, anche quando questa preferenza entra in contraddizione con la riproduzione sociale[25]. Ma la percezione, «vera» a livello individuale e in parte anche sociale finché il tasso di riproduzione era comunque assicurato, che fare un figlio riduca almeno sul breve-medio periodo il benessere dei potenziali genitori, diventa assolutamente falsa sul piano generale una volta che quel tasso non è più garantito. Questa falsità riguarda inoltre anche il piano materiale, al di là di considerazioni affettive e umane di lungo periodo di grandissima importanza (ma l’allergia, in parte giustificata, a ragionare sul lungo periodo è nota).
Perché le società liberaldemocratiche del Moderno maggiore maturo abbiano un futuro, insomma, occorre che gli individui prendano coscienza di questa contraddizione e decidano di porvi rimedio, prima che questo rimedio:
venga trovato da regimi politici autoritari che è già facile immaginare, coi loro appelli alla necessità della stabilità del sistema sociale, del disciplinamento della vita sessuale, della difesa delle tradizioni della famiglia, della nazione e della religione (sembra l’ideologia putiniana, sono parole di Corrado Gini di quasi un secolo fa);
oppure venga imposto da una sperabilmente improbabile regressione della condizione umana, legata per esempio al riscaldamento globale.
Come ricordava Alvin Hansen nel 1939, il progresso economico ha infatti tre cause principali: a) la scoperta e lo sviluppo di nuovi territori e nuove risorse, che si annuncia sempre più difficile a meno di eventi davvero rivoluzionari come l’acquisizione della capacità di sfruttare lo spazio o la fusione dell’idrogeno; b) la crescita della popolazione, in via di esaurimento; e c) il progresso tecnico, cioè l’ingegno umano, l’unico fattore ancora nel pieno delle sue capacità e su cui andrebbe quindi concentrato il massimo delle risorse possibili puntando in maniera decisa su scuola, università e ricerca[26]. Ma anche se lo si facesse, non è detto che l’aumento della produttività riuscirebbe da solo a sostenere un peso che riposava prima su tre pilastri, tanto più che passato un certo limite anagrafico l’invecchiamento della forza lavoro spinge in senso contrario e che la concentrazione di grandi risorse su ricerca e istruzione incontra forti resistenze in società in difficoltà.
[1] Nel 1930 egli chiuse per esempio le Prospettive economiche dei nostri nipoti sottolineando che il cammino verso la «beatitudine» dipendeva in primo luogo dalla «nostra capacità di controllo demografico», https://www.redistribuireillavoro.it/assets/prospettive.pdf (ultimo accesso ottobre 2022).
[2] Sposo qui, dandogli un senso diverso, il concetto di multiple Modernities avanzato alla fine degli anni Novanta del Novecento da Shmuel Eisenstadt, un concetto criticato ma fruttuoso.
[3] Riprendo temi trattati in Getting to the Roots of Illiberal Trends e in Futuro contro.
[4] Il grafico di Milanović evidenzia la crescita dei redditi degli strati più ricchi della popolazione mondiale tra il 1988 e il 2008, ma anche quella, ancora più notevole, del reddito delle nuove classi medie non occidentali a fronte del declino relativo della crescita (ma non ancora del livello assoluto) dei redditi delle classi medie occidentali. B. Milanović, Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media, Roma, Luiss University Press, 2017, e H. Kharas e B. Seidel, What’s Happening to the World Income Distribution? The Elephant Chart Revisited, Washington, D.C., Brookings Institution Press, aprile 2018, Global Economy and Development Working Paper n. 114, https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2018/04/workingpaper114-elephantchartrevisited.pdf (ultimo accesso ottobre 2022).
[5] Il quadro cambia sia negli Stati Uniti che in Europa se si considerano frazioni molto piccole della popolazione, e si compara per esempio lo 0,1% (o anche meno come si tende spesso a fare) più ricco della popolazione con il 10 o il 20% più povero. Si tratta di una comparazione utilizzabile dal punto di vista discorsivo, così importante nelle nostre società, ma meno da quello analitico, e che avrebbe prodotto un’immagine simile, e forse ancora più marcata, 100, 200 o 300 anni fa.
[6] Oecd Employment Outlook 2022, Building Back More Inclusive Labour Markets, https://doi.org/10.1787/1bb305a6-en (ultimo accesso ottobre 2022).
[7] Il libro più importante è J. Bertillon, La dépopulation de la France. Ses conséquences, ses causes, mesures à prendre pour la combattre, Paris, Alcan, 1911.
[8] Passando in rassegna la possibile influenza della rivoluzione sulla natalità, per poi negarla, Bertillon analizzava l’indebolimento delle credenze religiose; lo spirito democratico; l’individualismo; il codice civile e le guerre napoleoniche (La dépopulation, cit., pp. 124-137).
[9] Prewitt, What is your Race?, cit., p. 34; M.S. Teitelbaum e J.M. Winter, La paura del declino demografico, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 26; C. Gini, I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni, Torino, Fratelli Bocca, 1912, p. 98.
[10] Bertillon, La dépopulation, cit., p. 193; Gini, I fattori demografici, cit., p. 43; G.S. Becker, A Treatise on the Family, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1991.
[11] D.V. Glass, The Struggle for Population, Oxford, Clarendon Press, 1936, pp. 87-91.
[12] Glass, The Struggle for Population, cit.; L. Hogben, Retreat from Reason, London, Watts, 1936; E. Charles, Twilight of Parenthood, New York, W.W. Norton, 1934; Cassata, Il fascismo razionale, cit., pp. 39, 190; P.A. Sorokin e C.C. Zimmerman, Principles of Rural-Urban Sociology, New York, Henry Holt & Co., 1929; Bertillon, La dépopulation, cit., p. 103.
[13] Teitelbaum e Winter, Paura del declino, cit., p. 78.
[14] J.C. Caldwell, Theory of Fertility Decline (Population and Social Structure), New York, Academic Press, 1982. G. Dalla Zuanna ne fa una rassegna bibliografica in Social Mobility and Fertility, in «Demographic Research», 17, 15, 2007, pp. 441-464, https://www.demographic-research.org/volumes/vol17/15/references.htm (ultimo accesso ottobre 2022).
[15] Becker, A Treatise on the Family, cit.
[16] A.V. Chayanov, On the Theory of Peasant Economy, a cura di D. Thorner, B. Kerblay e R.E.F. Smith, Homewood, Ill., R.D. Irwin, 1966.
[17] A. Whitby, The Sum of People: How the Census Has Shaped Nations, from the Ancient World to the Modern Age, New York, Basic Books, 2020, p. 205; H. Le Bras (a cura di), L’invention des populations. Biologie, idéologie et politique, Paris, Odile Jacob, 2000; M. Connelly, Fatal Misconception: The Struggle to Control World Population, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2008; A. Bashford, Global Population: History, Geopolitics, and Life on Earth, New York, Columbia University Press, 2014.
[18] Lasch, The Culture of Narcissism, cit., pp. 251-252.
[19] Graziosi, Il futuro contro, cit., p. 41.
[20] Lasch, The Culture of Narcissism, cit., pp. 194, 205 ss.
[21] Vedi gli studi del Cambridge Group for the History of Population and Social Structure, fondato da Peter Laslett, come R. Wall (a cura di), Family Forms in Historic Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1983.
[22] Chaunu, Le refus de la vie, cit., pp. 186 ss.
[23] Ibidem, p. 303; Lasch, The Culture of Narcissism, cit., p. 258, ricorda il Prolongevity movement, che parlava di una vita umana «senza vecchiaia».
[24] C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris, Gallimard, 1976, p. 109.
[25] Sandro Momigliano mi ha fatto notare che in fondo è come se ai porcospini di cui parla Arthur Schopenhauer in Parerga e paralipomena venisse meno il «freddo», inteso come necessità economiche e di difesa.
[26] A.H. Hansen, Economic Progress and Declining Population Growth, in «American Economic Review», 29, 1, 1939, pp. 1-15.
2.
Conseguenze
1. Restringimento, invecchiamento e aspettative decrescenti
Il rallentamento e poi l’arresto della crescita demografica hanno portato a una rapida riduzione del peso dell’Europa e del mondo bianco: nel 2020 18 dei 20 paesi con la popolazione in più veloce declino erano europei (Cuba e Giappone erano gli altri due); a causa della pesante eredità del Moderno minore la maggioranza di essi era situata nell’Europa orientale, e l’Italia era al 20o posto, primo dei grandi paesi dopo il Giappone. Gli undici paesi con un tasso di fertilità superiore a cinque figli per donna erano invece tutti in Africa, un continente che al momento della mia nascita aveva meno della metà degli abitanti dell’Europa; ne ha oggi quasi il doppio e dovrebbe averne quasi il triplo al momento della mia morte «statistica» alla fine degli anni Trenta e più del sestuplo alla fine di questo secolo, quando avrà anch’essa raggiunto condizioni quasi stazionarie.
Il declino relativo in termini di produzione o reddito pro capite, o nel livello dei consumi, è meno impressionante, ma sempre notevole, e questo mutamento del peso reciproco delle varie parti del mondo è alla radice di quel riemergere di un «mondo multipolare» di cui si parla. Esso può essere visto come un altro passaggio in quel lungo declino della supremazia europea cominciato prima della prima guerra mondiale ma accelerato da essa, anche se l’Europa è poi riuscita a riprendersi grazie al sostegno provvisorio di Stati Uniti che a metà del Novecento erano ancora, come sappiamo, una sua parte. Questo declino, presentato come crisi dell’eurocentrismo e della cultura alta europea e inaridimento delle sue radici nel mondo classico e nel Rinascimento, ma anche del «mondo russo», o del secolo americano, ha generato e genera spontaneamente sgradevoli reazioni di rivincita e di rivalsa. Queste ultime sono tanto più forti dove esso è stato più grave e profondo, come nella Russia di Putin che rimpiange la potenza sovietica, o più recente, meno evidente e anche per questo più sorprendente come negli Stati Uniti del Make America Great Again di Trump o nel Regno Unito della Brexit, che è a suo modo l’inseguimento di un sogno di rinnovata grandezza.
Tra queste reazioni vi è stata una ripresa della teoria delle civilizzazioni, della loro differenza essenziale come del loro scontro più o meno inevitabile, che ha trovato, in parte impropriamente, il suo manifesto in Lo scontro delle civiltà, il saggio scritto nel 1992 da Samuel Huntington anche per rispondere alle già ricordate tesi del suo allievo Fukuyama. Come queste ultime, anch’esso è meno banale di quanto a volte si sostiene. Quattro anni prima, inoltre, nella sua biografia di Arnold J. Toynbee, William H. McNeill aveva notato come alla fine della sua vita persino lo stesso Toynbee, che riprendendo Spengler aveva ridato popolarità all’idea di scontro di civilizzazioni fondandovi la sua famosa teoria della storia, fosse arrivato a vedere nell’ibridizzazione delle civilizzazioni da parte di quella occidentale la più potente tendenza in atto nel XX secolo. Il mondo intero aveva così sostituito queste civilizzazioni come «unità elementare» della storia contemporanea grazie appunto alla presa e all’attrazione esercitata ovunque dal Moderno, testimoniata anche dalle tendenze demografiche[1].
La realizzazione dell’errore essenziale di qualunque teoria fondata su concezioni apertamente «plurigeniche», dopo Darwin scientificamente insostenibili, o comunque neganti l’unità biologica e comportamentale, e quindi potenzialmente anche culturale, della specie umana, non deve però oscurare la possibilità dell’ascesa, o viceversa della crisi e del declino, di questa o quella sua parte. E malgrado tutti i rimpianti che come europei possiamo avere, non vi è dubbio che il peso e l’attrazione della nostra cultura siano in netto calo, un calo probabilmente già avviato dalla nascita dei nazionalismi e quindi delle culture nazionali. Come Goethe aveva subito compreso, tagliandone le radici comuni – quelle classiche come quelle cristiane – i nazionalismi finivano infatti col minarne l’unità e quindi con l’indebolirla, producendo una specie di persone, i semicolti, che egli riteneva pericolosa[2].
Questo calo è comprensibilmente causato anche dalla nostra perdita di prestigio e reputazione nella «memoria» di popolazioni un tempo sottoposte al dominio coloniale. Già tra le due guerre, i loro leader avevano avuto buon gioco a notare, come fece Jawaharlal Nehru, che l’ideologia degli europei in Asia o in Africa era un’ideologia di popoli signori e razze superiori (ma lo era anche in Europa, come aveva appena dimostrato Hitler e visto con chiarezza Namier)[3]. Si trattava di una verità innegabile cui si poteva rispondere solo notando che ideologie simili erano state sviluppate in qualunque continente da tutti i dominatori del mondo, e che la differenza della cultura europea stava nell’aver accompagnato il loro sviluppo con quello della loro critica. Era quindi questa parte speciale che bisognava riconoscere, e celebrare, invece di arrendersi a un’autoflagellazione che, come osservò Bernard Lewis nel 1990, era solo il rovesciamento del Fardello dell’uomo bianco di Rudyard Kipling, un fardello ora fatto di colpa invece che di potere, ma che si assumeva comunque una responsibilità per le sorti del mondo che era altrettanto infondata di quella dei vecchi imperialisti[4]. Come ho già notato, persino le teorie del neocolonialismo equivalevano a loro modo alla rivendicazione di una centralità che ci si rifiutava di ammettere finita, e costituivano quindi, in un certo senso, un’altra faccia di quel rifiuto anche popolare di prendere atto della realtà che alimentava e alimenta i desideri di riscatto e di rivincita.
Ma individuare e rivendicare quanto di buono c’è nel nostro passato, per quanto indispensabile anche alla nostra autolegittimazione, non basta. La risposta giusta va completata dallo sforzo per cercare di vedere e capire quello che non va nel nostro presente – che purtroppo, dati i fenomeni analizzati nel primo capitolo e i cambiamenti che ne sono seguiti, non è poco – in modo da poterlo indirizzare verso gli esiti migliori possibili.
La nostra capacità di vedere è tuttavia limitata da fattori di origine psicologica più potenti di quelli usuali. Dopo la grande guerra del 1914-1945 (o meglio del 1905-1956)[5] le società europeo-occidentali hanno infatti conosciuto per qualche decennio un repentino miglioramento generale che ha generato fortissime aspettative crescenti, per perdere poi rapidamente buona parte della loro spinta autopropulsiva. Ci siamo trovati così ad aver bisogno di appoggiarci all’esterno per trovare nuova energia e nuovi cittadini restando però, per comprensibili motivi, legati a quelle grandi aspettative e ai «diritti acquisiti». La nostra Europa, inclusa per motivi in parte diversi la sua parte centrorientale, è quindi fatta da individui e culture che non amano «vedere» e fare i conti con la loro realtà interna, oltre che col declino della loro posizione internazionale.
La forza dell’illusione che l’invecchiamento della popolazione avesse effetti positivi ne è un buon esempio. Si è a lungo argomentato che una forza lavoro più «matura» equivalesse a meno disoccupazione (per di più concentrata tra i giovani e quindi meno preoccupante) e a più produttività, visto che la maggiore esperienza avrebbe più che compensato l’aumento dei tassi di invalidità e la maggiore resistenza al cambiamento. Considerazioni quantitative sulla popolazione e la quantità di forza lavoro teoricamente disponibile hanno così a lungo prevalso sulle riflessioni in merito alla composizione qualitativa di quella stessa popolazione e di quella forza lavoro. Ma queste riflessioni, sempre necessarie, sono diventate indispensabili a causa del prolungarsi dell’aumento della speranza di vita, che ha causato il rigonfiamento del numero di sessantenni e ultrasessantenni la cui «stanchezza», inclusa quella di chi scrive, è un fattore di soverchiante importanza.
È quindi opportuno cominciare l’analisi delle conseguenze «interne» della nostra crisi da quella dell’invecchiamento, e in particolare dell’invecchiamento qualitativamente nuovo generato dal movimento verso il figlio unico e da una speranza di vita che arriva a quasi 85 anni. Prima di farlo va sottolineato che anche per quanto riguarda la speranza di vita è evidente una convergenza che conferma l’unicità della specie, malgrado i suoi tempi e ritmi diversi e il loro determinare differenze anche profonde (fig. 7, i dati anteriori al 1950 sono ipotetici).
Alcuni dei problemi generati dal rapporto tra anemia demografica, invecchiamento della popolazione, rallentamento della crescita, persistenza della disoccupazione, tendenza (in seguito superata) all’abbassamento dell’età pensionistica e paura dell’immigrazione furono messi subito in luce dalle riflessioni fatte durante la prima fase dell’invecchiamento, quella di un’aspettativa di vita tendente ai 55-60 anni e di un tasso di natalità sia pure di poco ancora positivo.
FIG. 7. Speranza di vita per continente, 1770-2019.
FIG. 7. Speranza di vita per continente, 1770-2019.
fonte: https://ourworldindata.org/life-expectancy (ultimo accesso ottobre 2022).
Nel 1939, a un Hansen che aveva da poco scoperto Keynes, era per esempio chiaro che una popolazione in crescita generava una domanda diversa, per quantità e qualità, da quella di una popolazione stazionaria, come più abitazioni nel primo caso e più servizi personali nel secondo. Più in generale la prima richiedeva più spese in conto capitale ed era immaginabile che il passaggio da una popolazione in crescita a una stazionaria (che sembrava allora un dato di fatto, poi temporaneamente contraddetto dal baby boom), poteva alterare la composizione dei consumi finali in modo tale da ridurre il rapporto tra capitale e produzione. Proprio questo rendeva indispensabile il ricorso a politiche che presto si sarebbero dette keynesiane, la cui necessità (che portava a riconoscere la preminenza dello Stato) era implicitamente riconosciuta anche da chi, come Gini, sottolineava la spinta alla riduzione generale della domanda creata dalla stagnazione della popolazione, domanda da cui dipendeva l’occupazione e quindi la disoccupazione, al contrario di quel che pensavano marxisti ancora concentrati sull’offerta di lavoro.
Alla fine degli anni Trenta anche Keynes era convinto che «avremo presto a che fare con una popolazione stazionaria o in declino», che avrebbe prodotto l’indebolimento del meccanismo col quale, con una popolazione crescente, una domanda insufficiente tende a correggersi da sola[6]. In un’epoca di popolazione decrescente era semmai vero il contrario e in particolare il periodo di passaggio da una popolazione in aumento a una in declino poteva rivelarsi disastroso, rendendo inevitabile l’aumento del peso e del ruolo economico dello Stato. Questo perché, a fronte della diminuzione del numero dei consumatori e in assenza di un miglioramento eccezionale della tecnica, la domanda di capitale sarebbe dipesa o dalla crescita del benessere o dalla caduta del saggio di interesse. Keynes ne proponeva perciò la cosciente manipolazione sulla base di calcoli secondo cui a condizioni invariate nel Regno Unito una popolazione stazionaria si sarebbe tradotta in un quasi dimezzamento della domanda di capitale e quindi in un aumento del risparmio (per Hansen nella seconda metà del XIX secolo la crescita della popolazione era stata responsabile del 40% della formazione di capitale nell’Europa occidentale e del 60% negli Stati Uniti).
Per Keynes, quindi, per assicurare condizioni di equilibrio della prosperità almeno per un certo numero di anni in una società invecchiata «sarebbe stato essenziale alterare le nostre istituzioni e la distribuzione della ricchezza per ridurre il risparmio», quasi a supporre una tendenza spontanea delle società «vecchie» verso un certo tipo di «socialismo». Si poteva altrimenti «abbassare talmente il tasso di interesse da rendere profittevoli grandi cambiamenti nella tecnica [di produzione] o in direzione di consumi che richiedano molto capitale per unità di prodotto». Meglio ancora, si poteva operare in entrambe le direzioni (per Keynes quindi una popolazione stazionaria favoriva insieme socialismo e statalismo), che è quanto in qualche modo è stato poi fatto, aiutandosi anche con l’arrivo di immigrati che hanno alleviato fin qui le tendenze che scaturiscono dalla stagnazione della popolazione.
Keynes sembrava così malthusianamente preferire la gestione di società vecchie e stagnanti al tentativo di cambiarle puntando su politiche demografiche e di investimento nell’istruzione e nella scienza, oltre che su un’immigrazione qualificata. Egli contava implicitamente anche sulla maggior disposizione alla spesa pubblica di anziani tendenti naturalmente, in particolare se privi di figli, a non tener conto del lungo periodo.
Hansen, che dopo il 1945 avrebbe giocato un ruolo fondamentale come principale keynesiano d’America, condivideva il suo pessimismo e la conclusione che il declino demografico spingesse oggettivamente verso una «illimitata espansione» del ruolo del governo per raggiungere un pieno impiego che la crisi strutturale della domanda rendeva altrimenti impossibile. Ciò andava perseguito anche se la crescita a oltranza della spesa pubblica e del ruolo dello Stato poteva danneggiare mercato e imprese private perché «la grande transizione che deriva da un veloce declino nella crescita della popolazione» impattava comunque «sulla formazione di capitale e la funzionalità [workability] di un sistema di imprese private»[7].
Il keynesismo, che nel secondo dopoguerra abbiamo visto come politica per lo sviluppo e per la gestione delle sue fluttuazioni, è stato quindi concepito anche come strumento per far fronte a società che invecchiano e sono poco interessate al futuro. Esso ha inoltre subito avuto coscienza del fatto che mentre è possibile gestire, con alcuni strumenti e almeno sul breve-medio periodo, una società con una popolazione stazionaria o in lento declino, è difficilissimo, se non impossibile, gestirne con quei soli strumenti una in cui quel declino si fa rapido.
Una cosa simile si può dire per i grandi sistemi di welfare, che siamo stati abituati a ritenere conquiste di battaglie civili rese possibili dallo sviluppo e al tempo stesso strumenti della gestione di quest’ultimo. Essi, tuttavia, sono stati concepiti anche come strumenti per fronteggiare i problemi di società di cui si temeva la stagnazione demografica. Il Beveridge Report del 1942 era pervaso dal timore del collasso delle razze «più progredite», che andava a tutti i costi fermato; dal desiderio di rallentare la denatalità tra gli strati «migliori» della popolazione, considerata dannosa per la «stirpe»; e da quello di frenare, se non interrompere, l’invecchiamento della società britannica. E l’anno prima Alva Myrdal, che negli anni Trenta si era occupata di «crisi della popolazione», aveva ancorato la necessità del welfare svedese alla preoccupazione di come preservare e migliorare il materiale umano in un paese in cui la popolazione non riesce a riprodursi, promuovendo una politica a favore della natalità che non reprimesse la libertà delle donne.
Sappiamo però che si trattava di strumenti pensati per far fronte a società solo relativamente stagnanti e che, almeno secondo uno dei loro ideatori, essi non erano in grado di far fronte a rapidi declini della popolazione. In altre parole, quegli strumenti, che hanno provato la loro efficacia nella gestione delle scosse dello sviluppo, sarebbero largamente spuntati in una situazione come quella creata, in assenza di immigrazione, dalla fase matura del Moderno maggiore definita come sappiamo dal crollo della natalità sotto la soglia di riproduzione e dall’aumento di un nuovo tipo di popolazione dipendente formato da ultrasessantacinquenni.
Contrariamente a quanto ipotizzato dalla teoria del livellamento dei consumi tra le varie fasi del ciclo della vita umana (consumption smoothing), un’ipotesi più che ragionevole quando la speranza di vita tendeva verso i 65 anni, si potrebbe inoltre pensare che nel caso degli ultrasettantenni e degli ultraottantenni si verifichi non solo un importante mutamento qualitativo nella composizione dei consumi, ma anche una loro riduzione, con una corrispondente crescita di risparmio a suo modo «involontario»[8]. Questo risparmio potrebbe a sua volta più che compensare quel maggior favore verso una politica di spesa statale tipico di popolazioni più anziane e quindi meno preoccupate di ripagare il debito sul lungo periodo[9]. Per fare un solo esempio, in società notevolmente invecchiate, il moltiplicatore potrebbe funzionare meno e meno prontamente, e gli stimoli «keynesiani» avere un’efficienza marginale inferiore a quella che hanno in società più vive, come per esempio quella statunitense rigenerata dalla riforma dell’immigrazione del 1965.
Non sorprende quindi che le società più colpite dalla crisi del Moderno maggiore nelle sue due manifestazioni principali (meno giovani e più vecchi) siano spesso anche quelle dove maggiore è stato il ricorso alla spesa pubblica, una spesa pubblica per di più e in modo crescente orientata, anche per calcolo elettorale, a favore del sempre più numeroso mondo degli anziani. E non sorprende che questo ricorso sia avvenuto in maniera quasi spontanea, senza riflettere sulle sue caratteristiche e i suoi limiti nella nuova situazione che si andava delineando, molto diversa da quella in cui esso riusciva a gestire con relativo successo le fluttuazioni della crescita in un mondo dove non c’era libertà di movimento di capitali e i cambi erano fissi. In realtà, all’incirca a partire dagli anni Settanta spesa e debito sono invece anche e sempre di più stati usati per prolungare la «dolce vita» (che per molti tanto dolce non era) dei decenni precedenti, senza capire che si stava entrando in quella che Keynes stesso riteneva una fase diversa e molto più difficile.
Nel frattempo, invecchiamento e declino demografico influivano sulla spesa pubblica e il bilancio dello Stato non solo quantitativamente, attraverso l’aumento del debito, ma anche determinando importanti variazioni nella loro composizione, diverse da quelle ipotizzate da Hansen. Pensiamo per esempio alla lievitazione delle spese per pensioni e sanità rispetto a quelle per l’istruzione, che ha aggravato la caduta di produttività di una forza lavoro in rapido invecchiamento e che era quindi necessario curare di più, ma che aveva anche e fortemente bisogno di migliore istruzione, più aggiornamento e più rapido progresso tecnico e scientifico.
Il rapporto tra aumento del ricorso al debito e pressione, prima per la soddisfazione di aspettative che erano state nel secondo dopoguerra a lungo ed eccezionalmente crescenti, e poi per rispondere alla rabbia e alla delusione di chi vedeva minacciati «diritti» presto dati per acquisiti, ci conduce al ruolo decisivo giocato dal capovolgimento di quelle aspettative crescenti in aspettative decrescenti. È per questo importante e interessante capire quando queste ultime siano comparse e quando di esse si prese coscienza, visto che è legittimo immaginare che anche in questo caso idee e percezioni abbiano fatto fatica a tenere dietro a una realtà le cui mutazioni non è facile scorgere. Sappiamo che già nel 1979 Lasch parlò di «un’era di aspettative decrescenti» nel sottotitolo del suo libro sul narcisismo. In effetti, secondo i dati di Opportunity Insights[10], negli Stati Uniti la percentuale dei figli che da adulti avrebbero raggiunto un tenore di vita superiore a quello dei genitori, che era stata del 90% tra i nati negli anni Quaranta, sarebbe crollata al 50% per i nati negli anni Ottanta. Ma essa era già scesa al 60% negli anni Sessanta, un dato poi rimasto stabile fin quasi alla metà del decennio successivo, quando aveva ripreso il cammino verso il basso. Nei paesi dell’Europa occidentale i miracoli economici e la grande urbanizzazione del secondo dopoguerra possono aver spostato un po’ in avanti la curva in questione, che però sembrerebbe aver avuto il medesimo andamento.
Nel nuovo Occidente nato nel 1945, l’onda che spingeva quasi automaticamente e quasi tutti verso l’alto sarebbe quindi finita prima di quanto si pensi, e infatti sin dagli anni Ottanta sono emersi idee, teorie, risentimenti e movimenti che reagivano a questa fine. Sempre Lasch legò ad essa anche l’accentuazione del desiderio di rinchiudersi in sé stessi, difendendo lo status raggiunto. Ma questa difesa, e il rapido e apparentemente inspiegabile capovolgimento che ne aveva provocato la necessità, ha generato anche delusione, risentimento e rabbia, sia tra i vecchi che tra i giovani. È tuttavia probabile che siano sentimenti più diffusi tra i secondi, che sono i più danneggiati, come indica la crescente concentrazione della ricchezza nelle fasce più anziane della popolazione.
Sta qui una delle radici profonde delle ondate periodiche di populismo che hanno percorso a più riprese negli ultimi anni i paesi occidentali, e che hanno portato in Italia a una rapida successione di speranze in leader che promettevano di rovesciare le sgradevoli tendenze in atto (Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, il Matteo Renzi della rottamazione, non a caso ripudiato dopo la sua svolta antipopulista, Matteo Salvini, e ora Giorgia Meloni), seguite da sempre più rapide disillusioni. Ed è nel sentimento che le cose peggiorano perché qualcuno trama affinché ciò accada che affondano le radici psicologiche della fioritura di teorie del complotto che vedono in certe riforme piani escogitati da élite antipopolari per erodere «diritti» (ma sarebbe meglio dire avantages, come si fa in Francia) dati per scontati benché siano stati acquisiti da pochissimo tempo. Queste riforme sono però talvolta quelle che sarebbe razionalmente necessario introdurre per garantire la preservazione di almeno una parte di quegli avantages nel futuro. E così, benché persista naturalmente il favore per riforme associate, come quelle di una volta, al ricevere subito qualcosa, anche a spese del futuro di tutti, si è logorato il nesso che un tempo legava riformismo e razionalità, almeno nelle rappresentazioni, oltre che nelle intenzioni, delle élite come della popolazione. E l’impopolarità delle riforme razionali non solo ne rende difficile l’approvazione, ma attraverso la comprensibile mobilitazione degli interessi distorce quanto pure a volte si riesce a fare[11].
L’angoscia generata dalle aspettative decrescenti è rafforzata anche dalla crescita del timore e dell’ansia per la mobilità sociale verso il basso, il cui aumento sembra reale benché venga spesso spiegato con teorie poco convincenti (il fenomeno è meno studiato del suo opposto, la mobilità ascendente, a lungo considerata più rilevante). Ad essa contribuiscono, nel nostro Occidente, la fine del grande sviluppo che spingeva molti verso l’alto e la ripresa dell’indurimento di una stratificazione sociale a più riprese spezzata nel XX secolo da guerre, rivoluzioni, iperinflazioni ecc. che hanno visto tramontare corti e nobiltà, scomparire grandi e piccole fortune e generato anche così una forte spinta all’eguaglianza. Ma il dato è talmente rilevante da richiedere spiegazioni ulteriori: come ho ricordato nel Futuro contro, negli Stati Uniti quasi il 60% dei bambini bianchi e più dell’80% di quelli neri nati in famiglie ricche sono destinati nel corso della vita a finire in gruppi sociali inferiori a quelli in cui sono cresciuti, con una disparità tra maschi che conferma l’importanza del colore e la molto maggiore omogeneità dei dati relativi alle bambine, bianche e nere, che sottolinea invece la rilevanza del genere. Secondo Cobalti e Schizzerotto, in Italia la situazione era molto simile già negli anni Novanta, con circa il 60% dei membri nati nella «borghesia» che scivolavano nel corso della vita in gruppi sociali di livello «inferiore»[12].
Questo rafforzamento della mobilità discendente, che almeno rispetto ai Trenta gloriosi sembra innegabile (anche se Glass, passato a studiare la mobilità sociale nel Regno Unito, stimò negli anni Cinquanta che l’opposto fosse vero), potrebbe essere anche legato alla diversa composizione delle classi agiate nel Moderno maturo. Laddove nel passato questa agiatezza dipendeva largamente dalla proprietà, ed era quindi relativamente indipendente dai talenti, dall’istruzione e dall’energia dei singoli, da tempo essa è strettamente associata a queste caratteristiche, e tende perciò a variare con esse, facendo sì che la mobilità discendente sia probabilmente diventata più frequente di quanto non fosse in passato. Studiando i dati relativi ai matrimoni a Roma, all’inizio del XX secolo Gini aveva per esempio concluso che essa fosse pari a meno della metà di quella ascendente. Oggi, quando la maggioranza dei ceti medio-alti (ma non dei possessori di grandi fortune) è composta da professionisti e stipendiati qualificati, il privilegio dell’eredità come fattore cruciale per il tenore futuro di vita è rimasto appannaggio di una percentuale ristretta dei ceti superiori, ancorché probabilmente più numerosa in cifra assoluta di quanto non fosse ai tempi di Gini. Forse anche per questo, oltre che per gli investimenti di tempo, energia e cura richiesti da una mobilità ascendente divenuta possibile, le speranze avanzate da Paul Leroy-Beaulieu alla fine del XIX secolo si sono rivelate infondate. Esse riposavano sull’ipotesi che i ceti sociali superiori avrebbero ripreso a fare figli grazie al passaggio dalla proprietà al reddito, e quindi al valore dell’istruzione rispetto all’eredità, che avrebbe minato l’ossessione per il risparmio[13].
La nuova fase del Moderno maggiore ha trasformato da alcuni decenni i giovani nello strato materialmente più sfavorito, anche se continuano naturalmente ad avere dalla loro relativamente più energia, più speranze e più entusiasmo, cioè più vita. Questa mutazione è messa in risalto dalla già ricordata distribuzione della ricchezza, dal tipo di ricorso al debito, dalla struttura della spesa pubblica o dalle politiche in materia di pensioni e garanzie sul lavoro, ed è stata confermata di recente dalle scelte fatte per fronteggiare il Covid, in parte inevitabili ma che avrebbero dovuto prestare più attenzione alle esigenze dei giovani. La cosa era già evidente nel 1991, quando esprimendo secondo Vittorio Foa «ad alta voce quello che nessuno dice[va] e pochi pensa[va]no» e toccando così una delle «verità più profonde della nostra vita collettiva», il ministro socialista delle Finanze, Rino Formica, aveva amaramente commentato: «i nostri figli ci malediranno»[14].
Rimando al terzo capitolo per alcune considerazioni sui cambiamenti nel rapporto tra giovani e politica nelle nostre società, cambiamenti che ne confermano la perdita di centralità. Ma non è un caso che almeno una parte dei giovani, inclusi alcuni dei potenzialmente più attivi ed energici, esprima da alcuni decenni un disagio che non si traduce più solo o tanto in richieste di cambiamento sociale, quanto nella concentrazione su di sé. Quest’ultima traspare dalla convinzione/desiderio di poter autodeterminare qualunque cosa in quanto individui, come dalle pulsioni di autoemarginazione e di rifiuto della società e della realtà che trovano i loro modelli anche in culture espresse altrove da gruppi ghettizzati. Benché la capacità e la forza di attrazione di queste culture non vadano sottovalutate, dietro questa scelta vi è anche la sensazione di essere costretti in orizzonti più limitati e di vivere in società dominate di nuovo dagli anziani, col senso di emarginazione e il rancore che ne consegue.
Paradossalmente, ma non tanto, visto l’insieme dei sentimenti che crescono col crescere della coscienza della propria finitezza e del proprio declino fisico, un senso di insoddisfazione e di rancore è oggi diffuso anche nella parte più anziana ed economicamente più favorita della popolazione, le cui sensazioni dominano buona parte dello spazio pubblico. Benché sia difficile valutare se sia vero che le popolazioni più anziane differiscono nel carattere da quelle più giovani, sembrano fondate le ipotesi di coloro secondo i quali le società che invecchiano assumono «quei caratteri di assennatezza, di prudenza, di calcolo, di egoismo, di grettezza, che formano i pregi e gli inconvenienti delle età senili». O, per usare le parole di Sauvy, che esse siano fortemente influenzate «da persone vecchie, che vivono in vecchie case, rimuginando vecchie idee»[15].
Il salto dell’invecchiamento rappresentato dalla quota crescente degli ultrasessantacinquenni acutizza questi fenomeni e produce, per dirla ancora con Sauvy, società «più portate alla commemorazione che all’immaginazione e all’innovazione». Viviamo insomma in società in cui non solo il passato pesa più di quanto sia mai accaduto[16], ma che guardano al passato invece che al futuro, e per di più – almeno in Occidente – a un passato straordinario, quello dei miracoli del secondo dopoguerra, un passato che, come suggerisce lo stesso uso del termine «miracolo», non è ragionevole considerare normale. Come ho scritto nel Futuro contro, le nostre sono quindi anche società spontaneamente «reazionarie», così come lo sono i nostri tempi per il ruolo che vi svolgono il mito del passato e il rimpianto per esso. È un rimpianto comprensibile alla luce del fatto che quel passato consentiva di realizzare senza troppa fatica ambizioni modeste ma, proprio per questo, ampiamente diffuse e, forse soprattutto, perché esso era anche il tempo della gioventù degli anziani di oggi.
Gli anziani sono inoltre spesso anche soli e tendono a esserlo sempre più man mano che invecchiano le generazioni che hanno avuto meno figli, come dimostra la già ricordata esplosione delle famiglie formate da un’unica persona. Ed essendo soli hanno più paura, anche perché sono sempre meno confortati da una religione la cui presenza si è andata, specie in Europa, drasticamente riducendo, come ci indicano i dati sulla presenza alle messe o quelli sul crollo del numero dei religiosi in tutte le confessioni cristiane[17]. Questo malgrado l’enorme forza, anche solo potenziale, posseduta dal messaggio cristiano, testimoniata per esempio dalla sua capacità di parlare, includendoli, a tutti gli esseri umani.
Le popolazioni che invecchiano sono inoltre anche particolarmente sensibili ai cambiamenti, soprattutto a quelli che mettono in discussione le loro conoscenze, la loro «memoria» e i loro stili di vita, tanto più se tali cambiamenti non sono compensati da un immediato miglioramento nelle condizioni di vita che non è facile produrre a una certa età. Questa irritazione naturale nei confronti del nuovo rafforza la già ricordata avversione alle riforme tipica dell’era delle aspettative decrescenti ed è stata alimentata dai mutamenti estremamente rapidi e radicali degli ultimi decenni, abbattutisi su società sempre più orientate sul passato. Essi sono stati spesso personificati dagli immigrati, ma comprendono il declino della religione, i nuovi stili di vita, il rapido aumento delle conoscenze necessarie per vivere nelle società moderne (anche usare un nuovo telefonino non è facile) ecc., tutti fattori più che sufficienti per scatenare reazioni preoccupate e negative. I maschi anziani (ma anche parte di quelli giovani), e una parte delle donne anziane, sono stati inoltre particolarmente colpiti dalla rapida evoluzione dei ruoli di genere, che sembra sconfessare la loro vita. Nelle nostre società si è così formata un’atmosfera culturale, politica e soprattutto psicologica che le società più giovani del passato semplicemente non conoscevano, anche per il peso assunto in esse da fasce di popolazione cresciute in un mondo ormai scomparso, ma per esse ancora vivo.
2. I mutamenti nella stratificazione sociale
Il sociale del titolo di questo paragrafo va inteso nell’ampia accezione ottocentesca, che comprendeva ogni criterio utilizzabile per scomporre una società: non solo proprietà, ceti o classi, quindi, ma anche conoscenza, gruppi etnolinguistici e quelli fondati sul colore, il genere, l’età, la religione ecc., spesso integrati verticalmente più che orizzontalmente. La cosa è indispensabile perché proprio in questa direzione si è andata evolvendo la struttura delle società del Moderno maggiore persino in un’Europa che, come sappiamo, veniva da uno spesso terribile sforzo di omogeneizzazione.
Non che questi elementi non fossero presenti anche in passato (basti pensare alla stratificazione per lingua, etnia o religione in Europa centrorientale), ma è lecito guardare a questa evoluzione degli ultimi decenni come a un’altra grande trasformazione dopo quella che, sempre in Europa, aveva portato alla scomparsa del mondo contadino e alla sostituzione di società in cui la maggioranza della popolazione viveva in piccole imprese familiari con società dominate dal lavoro dipendente. Grazie anche a industrializzazione e inurbamento, in queste società era cresciuto il ruolo di nuovi gruppi «sociali» nel senso stretto del termine e in particolare delle classi, nel cui nome e per cui conto si riteneva si muovesse una politica che aveva in realtà giocato un ruolo non secondario nell’ascesa del concetto grazie alla forza dei suoi progetti trasformativi.
Naturalmente questi gruppi sociali e le classi – ma non quelle ipostatizzate dall’ideologia, se non nella mente dei credenti – esistono ancora e giocano ancora un ruolo rilevante, anche incrociandosi in modo nuovo, come vedremo, col concetto di popolo. Non vi è dubbio, tuttavia, che pensare la stratificazione sociale (e quindi anche la politica) richieda oggi prendere in esame fattori molto più complessi di quelli esclusivamente socioeconomici.
Una delle novità maggiori è costituita da un fenomeno già discusso parlando di mobilità sociale: si tratta dell’aumento del numero di coloro che salgono la scala sociale «meritocraticamente» (uso le virgolette perché, per motivi discussi nel quarto capitolo, considero l’avverbio sbagliato oltre che ingannevole), cioè grazie al loro talento e alle loro capacità. Si tratta di ceti alti, medio-alti e medi che non devono la loro posizione alla proprietà, ma l’hanno conquistata grazie agli studi e sono quindi spesso muniti di una buona istruzione nonché in genere aperti al cambiamento e favorevoli al progresso e a una globalizzazione cui devono talvolta la loro fortuna.
Questi nuovi ceti illuminano un’altra delle caratteristiche fondamentali delle società del Moderno maggiore, che consiste nel ruolo crescente giocato in esse da una conoscenza che ha garantito e ancora riesce a garantire maggior benessere, malgrado il ripiegamento degli altri grandi fattori della crescita[18]. Vi sono tuttavia ragioni e segni che spingono a ritenere che la nuova società della conoscenza non solo rimarrà divisa, anche se in modo nuovo, ma sarà attraversata da una frattura altrettanto e forse, almeno a livello psicologico, più netta di quella precedente. Questa nuova società assegna infatti più valore al talento, all’impegno e al contributo dei singoli. E se è vero che lo fa per fortuna in maniera meno sessista e meno gerarchizzata per lingua, etnia o «razza» di quanto non avvenisse in passato, sembra possibile dire che così facendo lascia gli individui più soli con loro stessi, le loro capacità, i loro limiti e le loro fortune, anche per il progressivo disfarsi delle reti familiari.
Per qualche tempo, il perdurare delle illusioni nutrite dagli straordinari decenni del dopoguerra ha reso possibile pensare che così non fosse, che fosse comunque possibile tener dentro tutti. Ma gli eventi degli ultimi decenni ci dicono che purtroppo ciò non è vero. Per di più, proprio per il ruolo che vi gioca l’istruzione, questa società ha una tendenza a produrre una frattura molto nitida anche all’interno delle popolazioni autoctone. Da un lato vi sono ceti superiori che sentono di aver meritato la loro posizione e possono quindi apparire supponenti specie verso chi presta loro servizi di natura poco qualificata e non ha quindi, ai loro occhi, «meritato» di ascendere la scala sociale. Dall’altro stanno invece strati inferiori che, specie se si tratta di nativi, sentono di essere stati emarginati da meccanismi cui per qualche motivo non erano adatti. Ciò nutre naturalmente un risentimento alimentato anche dal fatto che si tratta delle persone più esposte, in prima battuta, alla concorrenza degli immigrati, una parte dei quali riesce a farsi strada grazie alla sua intraprendenza ed energia.
Fortemente legata alla conoscenza è anche la nuova faglia che deriva dall’affermazione, diventata sempre più evidente negli ultimi decenni, dell’inglese come lingua sovranazionale, grazie all’emergere di una sovracultura mondiale nello spettacolo e nella musica, su internet, negli affari, nel turismo, nelle scienze ecc. Questa affermazione ha portato al riprodursi in veste nuova di fenomeni di un bilinguismo tendente alla diglossia anche in paesi europei di antica tradizione e cultura, che pensavano di aver superato questo stadio attraverso l’addomesticamento dei dialetti e il loro addensamento intorno alle lingue nazionali. Al di là delle difficoltà causate a queste ultime, la nuova diglossia è divenuta a sua volta, come lo era già stato nelle sue versioni precedenti (francese contro lingue nazionali, lingue nazionali contro grandi aree dialettali), un potente strumento e simbolo di differenziazione sociale, che mette gli anglofoni in posizione di vantaggio, riservando loro i lavori migliori. Essa crea così al tempo stesso un nuovo canale di mobilità sociale e una nuova linea di stratificazione, legata alla maggiore o minore vicinanza con la globalizzazione[19].
Ancor più importanti sono i cambiamenti che derivano dalla crescita del peso e dell’importanza di forme di stratificazione basate su fattori come l’età, il genere, la cittadinanza, la lingua, l’origine e il colore, che producono nuove emarginazioni e nuove ascensioni, o ne rafforzano di precedenti. L’emergere di queste nuove linee di faglia ha modificato le fratture tradizionali attorno a cui si erano per decenni cristallizzati, secondo Stein Rokkan, i comportamenti dell’elettorato europeo (Stato-Chiesa, centro-periferie, borghesia-operai, gruppi dirigenti e blocchi urbani e rurali). E queste nuove linee di faglia si sono mostrate almeno altrettanto capaci delle vecchie di orientare, mobilitare e organizzare elettori e schieramenti.
Forse la più importante è quella causata dal profondissimo sommovimento creato dall’ascesa delle donne che ha presto accompagnato l’affermazione delle Modernità, incrinando una supremazia maschile che, sia pure in forme diverse, durava da millenni. Questa ascesa si è espressa attraverso richieste di uguaglianza e al tempo stesso di affermazione della differenza, un fenomeno che va letto ricordando che le differenze genetiche tra i sessi sono più rilevanti di quelle che esistono tra le etnie o le altre popolazioni umane[20]. Malgrado resistenze e difficoltà, le donne sono riuscite in un tempo relativamente breve a riportare successi inaspettati in società che sembrano essere col tempo diventate più adatte alle loro capacità e alle loro doti, e meno a quelle degli uomini, di quanto non fossero quelle tradizionali. Lo testimonia il progressivo indebolirsi dei precedenti ruoli di genere, confermato da quanto sta avvenendo nel campo dell’istruzione superiore, così importante per la definizione, specie sul medio-lungo periodo, delle gerarchie sociali del Moderno maturo. Dopo una lunga emarginazione, le giovani donne superano ormai sistematicamente, tra le matricole universitarie, i giovani uomini e la disparità si accentua se invece che agli iscritti si guarda ai laureati. E se è vero che ai vertici prevalgono ancora gli uomini, si tratta in larga parte dell’ombra di un passato in via di scomparsa.
Di questo fenomeno è possibile dare interpretazioni diverse, e lo si può inserire in narrazioni opposte[21]. È tuttavia innegabile che molte delle caratteristiche delle nostre società dipendono da questa rivoluzione di genere, grandemente acceleratasi nel Moderno maggiore (e, malgrado le apparenze, molto più debole in quello minore socialista)[22], ma che ha avuto un impatto profondo a livello politico e ideologico anche fuori di esse. Essa ha per esempio anche e definitivamente messo in crisi, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la più importante utopia di liberazione del periodo precedente, dimostrando l’infondatezza di un’ideologia che prometteva di liberare tutti liberando il «proletariato» (vale a dire una classe). Ed è col tempo diventata uno dei principali fattori trasversali delle tendenze illiberali presenti in tipi di società e paesi molto diversi, perché ha innescato la reazione e il risentimento di parte degli uomini alla loro perdita di potere, prestigio e autorità nelle società contemporanee.
Di un’altra faglia divenuta più rilevante, e che ha al contempo cambiato i suoi contorni, quella tra anziani e giovani, ho già discusso. Dopo una lunga stagione in cui è sembrato che il futuro fosse dei giovani, una stagione che ha toccato un nuovo culmine negli anni Sessanta del Novecento dopo più di un secolo dominato dal culto e dalla forza della gioventù, almeno da alcuni decenni, e almeno finora, nel Moderno maggiore maturo le fasce più giovani della popolazione perdono di peso e di ruolo. Esse subiscono in particolare una relativa emarginazione delle loro esigenze già emersa con chiarezza nei dibattiti e nelle scelte in materia di pensioni o nella creazione di doppi standard loro sfavorevoli sui luoghi di lavoro, che le politiche adottate di fronte al Covid hanno reso ancora più evidenti. In società a lungo dominate dal discorso sulla difesa dei «diritti» acquisiti, la naturale divisione e contrapposizione tra giovani e anziani ha teso insomma ad accentuare i suoi tratti di linea di stratificazione sociale, su cui si addensano conflitti che potrebbero diventare acuti.
Il significativo, ancorché relativo, aumento del benessere e delle aspettative ha portato inoltre all’emersione di una linea di faglia che già esisteva e tagliava in profondità, ma era poco visibile e aveva anche per questo un significato e un impatto minori. Penso a quella rappresentata dalle persone affette da disabilità di diverso tipo, un tempo spesso condannate a una vita di emarginazione e isolamento. I dati sul loro numero sono impressionanti, specie se si considerano, come è ragionevole fare, anche le disabilità di tipo psicologico o mentale, meno evidenti ma altrettanto rilevanti, specie nelle nostre «società della conoscenza». Secondo la National Alliance on Mental Illness, negli Stati Uniti quasi un adulto su cinque si confronta ogni anno con questi problemi, che limitano sostanzialmente la capacità di vivere e agire di almeno 10 milioni di individui. Gli adolescenti affetti dagli stessi problemi sono una percentuale simile, circa il 20%, e le persone che convivono con malattie mentali gravi, dalla schizofrenia a episodi depressivi maggiori, costituiscono più del 10% della popolazione. Ad essi vanno aggiunti i milioni di individui colpiti da fobie o stress post-traumatico per i motivi più diversi e gli effetti da dipendenze di vario tipo[23]. Vi sono poi altre decine di milioni che hanno difficoltà di apprendimento e comportamento generate da cause diverse (circa il 20% della popolazione si situa per esempio al di sotto della fascia media individuata dai test di intelligenza). Circa il 40% della popolazione statunitense, un totale che include persone di grande intelligenza ma che quell’intelligenza non riescono a usare socialmente, è insomma affetto da disabilità. In Europa la situazione non dovrebbe essere diversa e vi sono dunque forti indicazioni che la stratificazione sociale, oltre alla componente sociale, linguistica, di genere ecc., ne abbia sempre di più anche una, notevole, di tipo individuale, fisico e psicologico, a sua volta legata, anche se non sempre, a fattori genetici e in parte ereditari.
Delle fondamentali, nuove stratificazioni create dall’immigrazione e dall’approfondimento della faglia che divide cittadini ed esseri umani in base ai loro diritti, e taglia da alcuni decenni sempre di più le società del Moderno maturo discuterò nel prossimo paragrafo. Se si rimane all’interno dei «cittadini nativi» (un termine più adatto al Moderno maggiore europeo che non a quello delle società di immigrazione di origine anglosassone, a partire dagli Stati Uniti, dove il fenomeno è però più accentuato), la stratificazione sociale mostra anche una fortissima tendenza allo sgranamento. Essa è legata ai già ricordati processi di rafforzamento degli individui, a loro volta determinati dal benessere, dalla maggiore istruzione, dall’allungamento della vita, e dall’aumento della libertà che tutto questo permette. Negli ultimi decenni questi processi sono stati potenziati dalla comparsa di internet e dei social media che, oltre a offrire grandissime opportunità di informazione e apertura, hanno dato a ciascuno anche la possibilità di vivere in mondi ritagliati a propria immagine e somiglianza.
Questa individualizzazione, che è certo legata anche all’isolamento, alle famiglie che si restringono come all’aumento di coloro che vivono da soli, e non solo nella lunga fase finale della loro vita, è però spesso anche una scelta dettata da preferenze ora più libere di esprimersi, ed è quindi anche una faccia dei processi di emancipazione. Al contrario di quel che pensava Lasch, insomma, erano queste preferenze, e non i complotti delle corporations o del capitalismo, a guidare la trasformazione di un’etica del risultato in un’etica del piacere, e a portare, come intravidero già nel 1950 gli autori di un libro famoso, alla comparsa negli Stati Uniti di nuovi individui che definirono «eterodiretti», vale a dire centrati su sé stessi ma desiderosi dell’approvazione altrui. Nel decennio successivo, un altro marxista critico, Guy Debord, cominciò a parlare di «società dello spettacolo», anch’essa vista come mistificazione capitalistica volta a giustificare i rapporti di produzione esistenti piuttosto che come prodotto di preferenze umane. Poco dopo Lasch vi associò acutamente la proliferazione di immagini che per lui erano strumenti di nuovi sé, immagini che secondo Susan Sontag stavano prendendo per molti il posto della realtà. Entrambi non potevano nemmeno immaginare quel che sarebbe successo con internet, i social media e i cellulari intelligenti[24].
Aggregare, anche solo a fini commerciali, individui così diversificati era ed è difficile, come dimostra la sorprendente mappa costruita nel 2004 dall’Eurisko a partire dagli studi sui consumatori e il consumo[25]. Farlo a fini sociali e soprattutto politici lo è anche di più, e questi processi costituiscono lo sfondo della progressiva crisi della politica condotta sulla base dell’individuazione di grandi identità, e quindi di grandi interessi, politica che era stata al centro dell’esperienza delle prime fasi del Moderno. Essa potrebbe tornare a esserlo, per esempio a seguito di un eventuale processo di semplificazione delle diversità causato dalla crisi che stiamo vivendo. Almeno finora, però, hanno e di gran lunga prevalso i processi di individualizzazione e quindi di frammentazione e di «crisi dell’identità»[26]. Da questa prospettiva, quella che è stata chiamata «società di massa», perché articolata in grandi gruppi sociali «massificati», appare piuttosto una tappa nella diversificazione di una società originariamente ancora più semplice (con le sue masse contadine e le sue piccole élite nobiliari, clericali e mercantili) che si stava velocemente differenziando. E forse non è un caso che i primi a parlare con malcelato disprezzo di società «di massa» fossero i rappresentanti di quelle élite, che assistevano alla fine del loro mondo.
Come aveva capito Alexis de Tocqueville guardando agli Stati Uniti e intuendo anche il fascino esercitato dall’individualismo quando le cose vanno bene, la «crisi dell’identità» è legata all’incertezza, all’atomizzazione, all’insicurezza della vita nelle società libere. Ma è una crisi che non risparmierebbe i gruppi sociali, inclusi quelli nazionali. Già nel 1950 Erik Erikson, cui si deve il successo del sintagma, dedicò un capitolo di Infanzia e società alle «riflessioni sull’identità americana», discutendovi di «caratteri nazionali» che egli preferiva appunto chiamare «identità», anch’esse naturalmente soggette a crisi. L’aggancio con il patrimonio ideologico del nazionalismo europeo e con gli studi sui «caratteri nazionali» fatti rifiorire ovunque dalla seconda guerra mondiale era evidente[27]. Ma il nuovo termine permetteva in qualche modo di bonificare questo legame, celando sia i problemi posti dall’ipostatizzazione di soggetti collettivi sia il retroterra «primordialista» rappresentato dall’ipotesi che l’identità fosse radicata in strutture psichiche profonde dotate, malgrado le crisi, di consistenza e continuità.
Il termine ebbe anche per questo grande fortuna. Già agli inizi degli anni Settanta Robert Coles lamentava come «identità» e «crisi di identità» fossero diventati «purissimi clichés» e nel 1972 un altro psichiatra, William Glasser, parlò di una «società dell’identità», una definizione che lasciava intravedere una società fatta non più da pochi grandi soggetti ma da identità individuali e collettive multiple e rese variabili da continue crisi. Emergeva anche così il legame tra la fortuna del termine, di cui le scienze sociali diedero una lettura più soggettivista, la nuova e più complessa stratificazione delle società del Moderno maggiore e la crescente fragilità in esse di una politica basata sulle classi sociali. Come per esempio ricordarono nel 2000 Rogers Brubacker e Frederick Cooper, almeno negli Stati Uniti classe, razza e genere divennero presto «la Santa Trinità» degli studi letterari e di critica letteraria ispirati al concetto di «identità». Quest’ultimo poteva quindi giocare un ruolo importante anche nello scomporre e riaggregare in configurazioni sempre nuove tanto i «soggetti sociali» che le analisi e i discorsi su di essi[28].
Il legame tra il concetto di identità e le vecchie e screditate teorie sui caratteri nazionali, o gli spiriti dei popoli, che esso in qualche modo rianimava, permette di guardare anche alle trasformazioni che il concetto stesso di «popolo», posto dal Moderno ottocentesco alla base della stratificazione internazionale, ha assunto nel Moderno maggiore del secolo successivo. Si potrebbe dire che quel concetto è riuscito così a conservare la sua forza, rinnovandone i fattori. Anche in questo caso il processo è cominciato negli Stati Uniti dove già negli anni Trenta del secolo scorso ci si accorse di quella che potrebbe essere definita la fine del «popolo» herderiano e di una cultura «davvero» popolare e potenzialmente alternativa (o piuttosto del mito del popolo herderiano e di tale cultura popolare visto che già i fratelli Grimm avevano «venduto» come cultura popolare tedesca il riarrangiamento di favole rielaborate dalla cultura alta francese e filtrate in Germania con l’emigrazione ugonotta), e la sua sostituzione con la cultura pop contemporanea[29].
Penso a Avant-garde and Kitsch, il saggio marxisteggiante con cui nel 1939 Clement Greenberg annunciò l’assassinio della cultura popolare genuina, quella folk, ad opera del consumismo. Egli proclamava così, indirettamente ma non tanto, la fine del modello intellettuali-popolo visto che il popolo era stato irrimediabilmente corrotto dalla cultura popolare commerciale (quella pop appunto), a sua volta figlia dell’alfabetizzazione di massa e della tecnologia industriale, che avevano permesso la produzione di massa di una cultura kitsch (ma anche crap, spazzatura) per individui che cercavano spettacolo e distrazione, come se tale preferenza fosse una colpa. Il lamento sarebbe poi stato ripetuto, a destra e a sinistra, nelle varie società conquistate dal Moderno maggiore dai teorici della Scuola critica di Francoforte; da un ex trozkista come Dwight Macdonald, che nel 1944 dava la colpa dell’indifferenza dei lavoratori americani nei confronti del socialismo all’effetto perverso di cinema, radio e riviste di infimo ordine; da Chaunu che nel 1975 accusava la televisione di aver soppresso la possibilità stessa di una cultura tradizionale; o da Pasolini e altri intellettuali italiani che piansero negli stessi anni la supposta morte di una supposta cultura popolare con sentimenti che univano senso di tradimento e disperazione[30].
Che le nuove culture pop sollevassero e sollevino problemi era ed è naturalmente vero, ma lo stesso si sarebbe potuto dire di quelle folk/völkisch, un termine che ricorda subito il ruolo, spesso orribile, che hanno giocato nella storia europea. Soprattutto, per quello su cui ci interessa ragionare, l’emergere di quelle culture non significava affatto la scomparsa dei «veri» popoli originari, mai esistiti in quanto tali, ma piuttosto la nascita di popoli politici e culturali nuovi, legati al modello liberaldemocratico e alle possibilità permesse dal Moderno. La combinazione di questi due fattori ha portato a questi «popoli nuovi» grandi benefici e privilegi – politici, come appunto il regime liberaldemocratico, e materiali, come i moderni sistemi di welfare – trasformandoli in un certo senso, a livello internazionale, in una sorta di popoli-classe, cioè di gruppi sociali collettivamente privilegiati. Questa loro qualità era già visibile all’inizio del secolo scorso, quando era però meno netta e giocata soprattutto al di fuori dei confini nazionali nei grandi imperi coloniali. Negli ultimi decenni essa è stata portata dentro di essi da migrazioni che hanno «internalizzato» e reso più netta e visibile la distinzione tra uomo e cittadino, o meglio tra cittadini ed esseri umani, già presente nelle dichiarazioni dei diritti di fine XVIII secolo, quando essa era però molto più sfumata. Si è così creato, dentro i paesi del Moderno maggiore, un nuovo tipo di «società plurali» che costituisce un aspetto talmente rilevante della nuova stratificazione sociale da meritare un trattamento separato.
3. Le nuove società plurali
«Società plurale» è il nome dato da John S. Furnivall, un socialista fabiano, a un modello di società coloniale da lui formalizzato studiando la Birmania britannica di cui era alto funzionario coloniale. Nel 1971 il Webster’s New International Dictionary ne dava questa non del tutto soddisfacente ma utile definizione: «uno stato o una condizione della società in cui i membri di diversi gruppi etnici, razziali, religiosi o sociali mantengono una partecipazione autonoma e sviluppano la loro cultura tradizionale o i loro interessi particolari all’interno dei confini di una civilizzazione comune»[31]. Furnivall non richiamava il dibattito sui vantaggi e gli svantaggi dell’omogeneità etnonazionale per la democrazia e la libertà che aveva opposto John Stuart Mill, Lord Acton e i rispettivi seguaci[32], e sembrava ignorare che, sia pure con caratteristiche diverse, questo tipo di società aveva dominato anche larga parte dell’Europa almeno fino alla prima metà del XX secolo.
Studiosi più acuti di lui, come von Mises, Namier e Lemkin[33], non a caso legati direttamente o indirettamente all’Ucraina occidentale, che di quel tipo di società è stata un prototipo, erano perciò riusciti, se non a trovargli un nome, a darne definizioni e interpretazioni più penetranti. Essi avevano anche compreso i terribili effetti che vi avrebbe potuto provocare il tentativo di risolverne i problemi attraverso il nazionalismo e l’omogeneizzazione. In queste società la stratificazione era ed è infatti rappresentata da piramidi indipendenti e al tempo stesso intrecciate tra loro di tipo sociale, linguistico e religioso (ma anche, possibilmente, basate su colore, caste ecc.). E se il pluralismo e la varietà da esse rappresentati erano in grado di garantire fioriture culturali o artistiche, quelle piramidi potevano però anche moltiplicare, in base al loro numero, i conflitti e la violenza presenti in ogni tipo di società, e di origine prevalentemente sociale nei tipi più semplici di esse. Furnivall, però, si convinse che nella «sua» Birmania il rimedio fosse proprio puntare sul nazionalismo, contribuendo così dopo il 1945 al disastro del nazionalsocialismo birmano[34].
Un nuovo tipo di questa società è andato formandosi negli ultimi decenni anche in molti paesi del Moderno maggiore, all’incrocio tra bisogni di società invecchiate e in calo demografico e desideri di miglioramento degli abitanti di aree che ancora vivono nella fase del boom. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, questo incrocio ha generato una nuova età di migrazioni di massa: si calcola che nel 2021 vi fossero al mondo circa 280 milioni di migranti internazionali e 26 milioni di rifugiati all’estero, oltre a qualche milione di richiedenti asilo. Negli Stati Uniti i nati all’estero rappresentano oggi circa il 14% della popolazione (la stessa percentuale raggiunta tra il 1880 e il 1914), rispetto al 5% del 1970, e in Europa i numeri sono storicamente alti, con paesi come l’Italia che hanno ribaltato la loro posizione da centri di emigrazione a poli di immigrazione.
Il diverso carattere delle due società «tipo» del Moderno maggiore del XX secolo, quelle di immigrazione di origine anglosassone (che hanno assorbito nel periodo centrale del secolo la grande e nuova immigrazione europea del pre-1914 per aprirsi al mondo dopo gli anni Sessanta) e quelle europee, a lungo dominate da un unico «popolo» e sottoposte per circa 200 anni a processi oggettivi e soggettivi di omogeneizzazione, ha generato «società plurali» diverse, malgrado i numerosi tratti comuni. E non c’è dubbio che anticipazioni di quanto è poi successo anche in Europa fossero già visibili nella prima parte del XX secolo come dimostrano la grande immigrazione francese o l’arrivo di molti abitanti delle colonie nei centri imperiali europei. Già nel 1915 un classicista e politologo inglese di origini tedesche, Sir Alfred Zimmern, tra i primi a ridefinire come British Commonwealth l’impero inglese e a usare l’espressione welfare state, guardando a Londra osservò che gli Stati moderni erano in realtà industralized and largely migratory democracies, le cui popolazioni erano destinate a essere composte da gruppi di origine sempre più diversa[35].
Ma la scala del fenomeno e le condizioni in cui esso si è manifestato dopo gli anni Sessanta gli hanno dato caratteristiche nuove:
le correnti migratorie non hanno più la loro origine in Europa (eccezion fatta per gli anni straordinari aperti nel 1991 dal crollo del Moderno minore);
esse hanno luogo in un mondo ormai saldamente organizzato in Stati «nazionali», e devono perciò superare ostacoli molto maggiori[36];
gli Stati di destinazione provengono da lunghi periodi di omogeneizzazione, sia pure di natura essenzialmente diversa (pensiamo a come gli Stati Uniti hanno integrato gli immigrati ebrei o italiani, e a come gli Stati europei si sono disfatti delle loro minoranze);
questi Stati hanno costruito nel XX secolo estesi e popolari sistemi di welfare che hanno dato contenuto sociale alla cittadinanza, ma ne hanno reso anche più costosa la concessione in virtù dei benefici-privilegi ad essa associati, un costo che cresce coll’esaurirsi della straordinaria fase del benessere apertasi nel secondo dopoguerra;
specie in Europa, la popolazione residente è molto più anziana, e quindi più avversa al cambiamento e meno tollerante del disordine, specie se legato a novità di cui gli immigrati sono l’incarnazione perfetta (sono queste caratteristiche, anche psicologiche, a moltiplicare l’impatto del legame, certo esistente, tra immigrazione e criminalità).
Malgrado molte di queste caratteristiche fossero evidenti o comunque intuibili già negli anni Sessanta, la natura e i possibili sviluppi di questa nuova grande migrazione non furono inizialmente compresi. La stessa categoria di Gastarbeiter dimostra come in Germania o in Svizzera si pensasse che l’immigrazione potesse essere trattata come un fenomeno provvisorio, da regolare e proteggere evitando ogni tipo di integrazione. Si gettavano però così le basi per una differenziazione ancora più netta tra immigrati e nativi o, come vedremo, tra esseri umani e cittadini, alimentata anche dalla crescente diversità di immigrati che come sappiamo tendevano a provenire da paesi sempre più lontani e più distanti culturalmente, linguisticamente e in alcuni casi anche religiosamente. Il fenomeno si era subito manifestato, per via dei loro imperi coloniali, nel Regno Unito e in Francia, dove non si impose agli immigrati uno status giuridico separato ma dove questo fu generato di fatto da quelle differenze.
Specie, ma non solo, in Europa, la crisi del Moderno minore attenuò parzialmente e temporaneamente dopo il 1989-1991 il fenomeno, garantendo l’apertura di un nuovo bacino di immigrazione europea, bianca e cristiana, e quindi di più facile integrazione. Ma la crescita della diversificazione riprese presto a manifestarsi, ponendo complessi problemi di gestione e integrazione e facendo dell’immigrazione (che presenta da questo punto di vista delle affinità con l’aborto, le pensioni e la libera scelta di una morte dignitosa, su cui torneremo) una delle questioni centrali del dibattito politico, culturale e legale di tutti i paesi del Moderno maggiore, un dibattito addensato intorno a temi simili ma che ha naturalmente assunto forme diverse.
Nei paesi dell’Unione Europea esso è stato più teso per via della maggiore omogeneità delle popolazioni residenti; della fragilità di istituzioni confederali in via di costruzione; e di una crescita economica più debole di quella statunitense, quando non quasi assente, come nel caso italiano. È infatti ovvio che le tensioni e i conflitti che la diversità genera possono essere affrontati con relativa facilità finché il processo di cambiamento e di crescita economica, stimolato anche dalle migrazioni, sostiene un generale e accelerato aumento del tenore di vita, quale l’Europa non conosce più, per i motivi discussi nel capitolo precedente, da diversi anni.
Le migrazioni su lunga distanza degli anni Dieci hanno inoltre presentato ulteriori fattori aggravanti. Esse si sono per esempio verificate in un periodo in cui l’estremismo islamico, la sua ideologia e le sue pratiche hanno rappresentato un potente fattore di paura e diffidenza anche per settori della popolazione europea che si consideravano progressisti, e che anche per questo si sentivano minacciati dal radicalismo religioso e dalla sua misoginia. La paura e la preoccupazione causate dalle crescenti differenze sono state inoltre accresciute dalla presenza, accanto ai migranti economici, di sfollati e rifugiati provenienti da zone di crisi e conflitto che gli occidentali temono e da cui vorrebbero essere protetti[37].
Ma l’aggravante maggiore, destinata probabilmente a giocare un ruolo sempre più rilevante, è la crescente presenza della linea del colore in un’Europa che fino al XX secolo non l’aveva conosciuta in proporzioni rilevanti. Uso il termine colore, come si fa in Brasile, come sinonimo di ciò che negli Stati Uniti si chiama senz’altro «razza», un termine bandito in Europa (ancorché presente anche nella nostra Costituzione) e lì invece usato senza problemi, per motivi su cui torneremo, tanto nei censimenti che nelle università o sulla stampa (nel Census Bureau vi è un ufficio per le race statistics e il «New York Times» ha una rubrica fissa intitolata Race/Related)[38].
L’esplosione delle migrazioni su lunga distanza ha infatti portato a contatto diretto, come mai prima se non nei paesi importatori di schiavi, popolazioni umane la cui diversità genetica si manifesta anche in caratteristiche fisiche immediatamente evidenti, la prima delle quali è appunto il colore. La sua crescente importanza era stata sottolineata già all’inizio del Novecento da intellettuali neri come W.E.B. Du Bois, che nel 1903 aveva predetto che la linea del colore (color line) sarebbe divenuta «il problema del secolo», e Marcus Garvey. Tra le due guerre, uno dei maggiori sociologi statunitensi, Robert Park, sostenne invece che poiché «i rapporti di razza erano rapporti tra estranei», col procedere dell’integrazione sociale «i conflitti razziali sarebbero stati sempre più confusi con quelli di classe, fino a essere superati da essi», e nel 1948 Oliver Cox pubblicò la prima analisi marxista dei rapporti tra casta, classe e razza, facendo del razzismo parte integrante della crescita del capitalismo[39]. Dopo la guerra, tuttavia, la linea del colore tornò a essere una bandiera. Il maoismo, per esempio, presentò sì «i problemi razziali come problemi di classe», ma proprio per questo chiamò alla lotta i popoli di colore contro l’imperialismo bianco nelle sue due versioni, quella di Washington e quella socialimperialista sovietica. Secondo Pechino, il conflitto mondiale che si preannunciava sarebbe stato innescato dall’antagonismo razziale e si sarebbe trasformato in un’epica lotta tra razze in cui la Cina avrebbe preso la testa di quelle colorate[40].
Questi sviluppi passarono relativamente sotto silenzio in un’Europa che di fronte al nazismo prese a opporsi anche alla semplice menzione della categoria «razza», un rifiuto poi rinsaldato dalla scoperta della Shoah. Non era stato sempre così: fino a tutti gli anni Venti il termine era stato usato, spesso imprecisamente, a destra come a sinistra, anche per indicare la nazione e la nazionalità[41]. L’antisemitismo hitleriano, tuttavia, costrinse a uno sforzo di chiarezza che portò Julian Huxley, nel 1935, a proporre formalmente di usare etnia al posto di razza, riservando quest’ultima all’ideologia nazista e quindi facendone un tabù che dura ancora: «Malgrado il lavoro di genetisti e antropologi – scrisse – vi è ancora una deplorevole confusione tra le idee di razza, cultura e nazione […]. In queste circostanze è fortemente auspicabile che il termine razza sia espunto dal vocabolario della scienza […]. Nelle prossime pagine esso non sarà quindi deliberatamente utilizzato, e si ricorrerà per ogni fine al termine gruppo etnico, o popolo» (corsivo mio)[42].
Questa scelta era motivata anche con l’argomento che in Europa non c’erano razze ma solo gruppi etnici che poco differivano tra loro, come si prefiggevano di dimostrare le fotografie dei principali tra essi usate nel libro. Ma se la tesi era facilmente difendibile nell’Europa di allora, negare l’evidenza del colore e della differenza da esso rappresentata a livello mondiale era ed è molto più complicato, come lo era, ed è, cancellare l’uso di un termine che le stesse vittime del razzismo hanno rivendicato e rivendicano. A conferma della più volte ricordata biforcazione dell’esperienza dell’Occidente nato dopo il 1945, l’esempio più classico è quello statunitense, ma si potrebbe guardare anche al Brasile (dove pure si è per qualche tempo sostenuto che le cose stessero diversamente). Al contrario dell’Europa di cui parlava Huxley, qui le varie ancestry (il termine che Reich propone ragionevolmente di usare al posto di razza[43]) della specie umana avevano cominciato a convivere sin dal momento della «scoperta», aumentando col tempo la loro varietà (oggi il censimento americano conta tutte le cinque razze individuate nel 1776 a scopo puramente classificatorio da Johann Blumenbach: bianchi, neri, indiani americani, asiatici e abitanti delle isole del Pacifico).
Non sarebbe quindi stato difficile rispondere al quesito che negli anni Settanta si ponevano quegli studiosi americani che si chiedevano come mai la linea del colore rimanesse così netta mentre le differenze tra i gruppi etnici bianchi andavano erodendosi. Ciò succedeva perché le differenze legate all’ancestry erano al tempo stesso più nette e più immediatamente percepibili di quelle etniche, anche se come sappiamo inferiori a quelle di genere e non tali da scalfire l’unicità dei comportamenti e delle forme generali della nostra specie.
La cosa stava del resto trovando conferma nell’appena ricordata rivendicazione del termine «razza» come strumento per rafforzare la loro posizione da parte dei neri ma anche di un segmento importante della comunità latina, che pure l’aveva in un primo momento rifiutato. Furono per esempio i primi a premere per ottenere che le grandi università istituissero centri di studi come il Center for the Study of Race, Politics and Culture dell’Università di Chicago, il Center for the Study of Ethnicity and Race e il Center for the Comparative Studies in Race and Ethnicity alla Columbia e a Stanford ecc. E nel mondo latino organizzazioni come il National Council of La Raza, o La Raza Unida Party, operavano già negli anni Sessanta, quando «La Raza» era il nome del giornale militante della comunità chicana di Los Angeles. Oggi solo una minuscola percentuale della popolazione statunitense non risponde alla domanda sulla razza nel censimento e si calcola che il 90% dei milioni che scelgono la casella «altra razza» sia composto da latinos che rifiutano di essere considerati una semplice etnia. La cosa non è sorprendente visto che il termine raza era già largamente diffuso nella prima parte del Novecento in un’America Latina che esaltava le sue radici indigene e innalzava ad essa monumenti, come si fece nel 1940 a Città del Messico ispirandosi a José Vasconcelos che aveva esaltato una raza prodotta dall’ibridizzazione tra colonizzatori e indios che figura ancora nel sigillo dell’Università nazionale autonoma del Messico.
Gli anni Sessanta furono anche quelli dell’adozione del sistema della discriminazione positiva (affirmative action), che sollevò dapprima non pochi dubbi tra i sostenitori dell’eguaglianza razziale. Esso fu poi sistematizzato dalla presidenza Nixon e giustificato nel 1978 dalla Corte suprema con l’argomento che «per superare il razzismo dobbiamo in primo luogo tenere conto della razza. Non c’è alternativa. E per trattare certe persone con equità, dobbiamo trattarle in modo differenziato»[44].
Era una giustificazione non molto diversa da quella avanzata dai marxisti per controbattere alle accuse degli anarchici: solo rafforzando in un primo momento lo Stato (nel nostro caso la disuguaglianza) si poteva poi abolirlo. Certo, la discriminazione positiva aveva in più dalla sua la giustificazione morale del porre rimedio a grandi ingiustizie passate[45], più labile ma non assente negli argomenti a favore della lotta di classe e della dittatura del proletariato. Ma anche nel suo caso gli anni sono passati e la transitorietà non accenna a manifestarsi (nel 2003 la Corte suprema espresse la speranza che in 25 anni «l’uso di preferenze razziali non sarebbe più stato necessario»[46]). Si rafforzano invece le posizioni che – a destra come a sinistra – fanno della razza la chiave di volta dell’azione politica[47]. E si rafforza il trattamento diseguale praticato da tribunali, legislature statali e agenzie legislative, media, campagne elettorali, gruppi di sostegno, pianificatori aziendali, uffici di ammissioni universitarie, ospedali e agenzie per l’occupazione (l’elenco è di Kenneth Prewitt, già capo del Census Bureau), nonché le teorie che lo giustificano, non più, come vedremo, solo in nome della «razza».
In Europa, e specie e significativamente più in quella continentale che in un Regno Unito più vicino all’esperienza americana, il termine «razza» è rimasto invece un tabù. Di razza e razzismo non si può parlare in Germania, dove però come vedremo il termine Volk, di significato certo più ampio, può essere ed è stato usato come suo surrogato, e dove comunque il fattore dell’origine etnica può essere ufficialmente preso in considerazione. In Francia è invece di fatto bandita anche l’associazione tra etnia e popolo (etnolinguistico e non politico) tipica delle tradizioni herderiane e mazziniane europee[48]. È per esempio su questa base che nel 1991 il Consiglio costituzionale ha ritenuto che la legislazione non potesse parlare di popolo corso, ancorché come parte di quello francese, perché avrebbe voluto dire ammettere una distinzione, basata sull’origine etnica e quindi contraria alla Costituzione (che però prevede che la legge possa «favorire» l’eguaglianza tra uomini e donne), all’interno del popolo repubblicano, l’unico ammissibile.
Qualcosa di simile è avvenuto anche in Italia e in Spagna, con pronunce sul Veneto e la Catalogna che però, più che negare etnie specifiche, hanno esorcizzato il rischio di doverle riconoscere, riaffermando che l’indivisibilità repubblicana consente di chiamare popolo solo l’intera nazione. È tuttavia possibile sostenere che, con la parziale eccezione della Francia, la cultura europea riconosca in qualche modo l’esistenza di popoli-etnie, come è nella tradizione dei nostri nazionalismi, ma non ammetta il concetto o l’uso della categoria di razza. L’arrivo o il rafforzamento della linea del colore potrebbero però determinare se non l’abbandono di questo paradigma culturale, la nascita di forti spinte in direzione di una sua modifica, sia da parte dei nuovi immigrati di colore che, e in modo più preoccupante come dimostrano le dichiarazioni di Viktor Orbán, da parte della popolazione «nativa».
La formazione e la cristallizzazione delle piramidi etnolinguistiche, religiose e di ancestry tipiche delle società plurali potrebbe insomma alterare significativamente la stratificazione «sociale» dell’Europa continentale, originando la necessità di compiere scelte difficili, i cui contorni è possibile intravedere. Penso per esempio al problema se sia giusto o meno aprire, come è stato fatto nelle Americhe, a identità di gruppo e al riconoscimento di «diritti collettivi» che sono al cuore delle discussioni sul «multiculturalismo», un termine insoddisfacente perché i «diritti collettivi» non sono solo quelli culturali. Essi possono essere richiesti da, o garantiti a, gruppi umani molto diversi, di regola (penso per esempio al dibattito sulle «disabilità») ma non per forza svantaggiati, come ha insegnato la storia della discriminazione positiva[49].
Personalmente ritengo che – malgrado i suoi indiscutibili limiti e la sua altrettanto indiscutibile «ipocrisia» – l’approccio francese sia sul lungo periodo il migliore. Ma, e torneremo a discuterne, non c’è dubbio che le convenienze, gli interessi, e la logica del breve periodo, nonché considerazioni di equità, sembrino spingere in direzione contraria. Per restare alla formazione di una nuova stratificazione europea, fondata su piramidi basate anche ed evidentemente sul colore, è per esempio saggio continuare, in presenza di essa, a difendere il dogma del rifiuto tout court della categoria di «razza»? Il farlo potrebbe infatti indebolire quanto di vero e buono c’è nell’antirazzismo: piuttosto che sottolineare l’unità di base della specie umana, testimoniata ogni giorno da incontri, amicizie e matrimoni misti anche nelle «società plurali», il dogma in questione tende a negare diversità evidenti. Così facendo, esso potrebbe da un lato spingere una parte della popolazione nativa, messa di fronte a una realtà nuova, a chiedersi quanto sia credibile un discorso che, come quello progressista tradizionale, la esorcizza invece di spiegarne potenzialità e problemi. E portare dall’altro, come è già successo negli Stati Uniti, a tensioni con discriminati che il termine razza orgogliosamente rivendicano. I primi preferirebbero, anche per questo, narrazioni che usano questa nuova realtà per riaffermare visioni razziste e suprematiste, e i secondi entrerebbero in contrasto con un discorso progressista che parrebbe negare un’identità frutto appunto anche della discriminazione basata sul colore.
4. Tipologia della crisi del Moderno maggiore maturo
Chiudo il capitolo con delle ipotesi relative alla forma e al tipo con cui si manifesta la crisi del Moderno maggiore maturo che richiedono poco spazio ma che mi sembrano importanti per capire alcune delle dinamiche presenti e future delle nostre società.
Sappiamo che l’insostenibilità del Moderno maggiore è legata alla sua incapacità, derivante dal suo successo, di riprodurre al suo interno le risorse umane, cioè l’energia, indispensabili alla sua stessa sopravvivenza ed espansione, e al progressivo invecchiamento delle società dove esso è nato e che ne formano il nucleo. In assenza di continue trasfusioni di energia umana dall’esterno sotto forma di immigrazione, raggiunta la sua maturità questo Moderno finisce per arenarsi in un declino demografico che sostituisce società giovani, mobili e dinamiche con altre che, lasciate a sé stesse, si avviano rapidamente alla stagnazione, se non all’estinzione.
Ma come si manifesta questa crisi? La forma che prende questo declino è controintuitiva. Ne ebbi la prima percezione nella Russia degli anni Novanta, un paese in gravissimo declino demografico e le cui campagne ristagnavano, ma dove le città principali, e in specie Mosca, ribollivano di energia e attività. Presi perciò a pensare a una crisi di tipo bipolare che, come capii negli anni successivi, era propria anche dei paesi del nostro Moderno. Essa è bipolare perché le varie aree, di cui si compongono anche questi ultimi paesi, la vivono con due modalità molto diverse, che invece di succedersi l’una all’altra convivono nello stesso tempo.
Oltre ad attrarre nuovi immigrati da terre lontane, alcune di queste aree, soprattutto, ma non solo, grandi e potenti città come New York o Parigi, Londra o Milano, Mosca o Kyiv, continuano ad attrarre anche i migliori talenti delle regioni ormai esaurite che le circondano e dei paesi in cui si trovano. Per restare in Italia, Milano continua a drenare i migliori talenti anche dalla Calabria, da Roma o dal Piemonte, oltre ad attrarre persone da altre nazioni e altri continenti. In realtà, anzi, il loro potere di attrazione nei confronti delle aree interne solo marginalmente sviluppate è accresciuto proprio dal depauperamento demografico/energetico di queste ultime, dove le persone attive non desiderano più vivere.
L’emigrazione sistematica della parte migliore e più attiva della gioventù delle aree meno sviluppate è naturalmente una costante storica. Quella dal nostro Meridione è stata per esempio nel corso dei decenni una delle cause principali del perpetuarsi del suo distacco dal nord, nonostante i suoi indubbi e grandi progressi. Tuttavia, fino a 20-30 anni fa queste regioni producevano energia umana sufficiente per andare avanti comunque, e l’emigrazione non le faceva sentire abbandonate, emarginate o sacrificate agli interessi dei poli di attrazione, che si mostravano anzi loro con un volto benefico, abbellito dai flussi di denaro e dai periodici ritorni.
Oggi, invece, il fatto che i migliori se ne vadano, e soprattutto che il figlio unico se ne vada, e pochi rimangano, che il tessuto locale diventi necrotico, può generare e genera potenti ondate di risentimento legate all’assenza di futuro. Nella Russia degli anni Novanta questo era, come dicevo, particolarmente evidente, ma il meccanismo non era diverso da quello che opera per esempio nell’Italia di oggi: come i corpi che soffrono di denutrizione concentrano le loro energie restanti negli organi vitali, così le nostre società concentrano le migliori risorse umane in centri sempre più ristretti, che le attraggono irresistibilmente anche per il deterioramento delle aree che le producono.
I centri luminosi sono quindi sempre più circondati da periferie che diventano sempre più oscure anche all’interno dei paesi sviluppati. E queste periferie tendono a collegare direttamente il proprio declino allo splendore dei primi: si sentono abbandonate, e in effetti sono lasciate indietro molto più di quanto lo fossero i territori interni «sottosviluppati» nei giorni della crescita e del progresso. Questa bipolarità – poli luminosi (almeno per un po’) contro territori in via di necrosi – alimenta quindi nei secondi la crescita del malcontento nonché del desiderio di tornare a un passato più vivace e migliore, e nutre nei primi una strana esaltazione, gerarchizzando in forme nuove interi paesi anche dal punto vista spaziale.
[1] S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 2001; W.H. McNeill, Arnold J. Toynbee. A Life, New York, Oxford University Press, 1989; T. Tagliaferri, La nazione, le colonie, il mondo. Saggi sulla cultura imperiale britannica (1861-1947), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, p. 270.
[2] J.W. Goethe, Massime e riflessioni, Milano, Rizzoli, 2013.
[3] A. Graziosi, Il mondo in Europa. Namier e il «Medio oriente europeo», 1815-1948, in «Contemporanea», 2, 2007, pp. 193-228.
[4] B. Lewis, Race and Slavery in the Middle East: An Historical Inquiry, Oxford, Oxford University Press, 1990, p. 102.
[5] A. Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956, Bologna, Il Mulino, 2001.
[6] J.M. Keynes, Some Economic Consequences of a Declining Population (The Galton Lecture, tenuta all’Eugenics Society il 16 febbraio 1937), in «The Eugenics Review», 29, 1, 1937, pp. 13-17. Keynes si scusava per aver dato l’impressione di aver contestato Malthus sostenendo che per avere più benessere bisognava far aumentare la popolazione. La cosa, ammise, era in un certo senso vera, ma i malthusiani non dovevano preoccuparsi: il problema era che una popolazione stazionaria favoriva sì l’aumento del benessere, ma generava un altro demonio, l’aumento della disoccupazione, di cui lo stesso Malthus si era preoccupato. Bisognava insomma combattere contro due mali malthusiani, la crescita della popolazione e le risorse inutilizzate.
[7] Hansen, Economic Progress and Declining Population Growth, cit.
[8] L’ipotesi dello smoothing fu avanzata tra gli altri da Franco Modigliani e Milton Friedman e parzialmente corretta da chi osservò che, poiché nessuno può prevedere la durata della propria vita, era ragionevole supporre che gli anziani si comportassero diminuendo lentamente col passare degli anni i propri consumi, alla ricerca di un bilanciamento tra lasciare troppo agli eredi e consumare tanto dei propri risparmi da rendere impossibile far fronte a una vecchiaia inaspettatamente lunga. Di recente è stato osservato che, specie per gli ultrasettantenni, vale anche l’ipotesi di una riduzione dei consumi legata al peggioramento della salute, che rende difficile godere di attività e oggetti che pure si sono amati. L’ipotesi non sembra contraddetta dal forte calo del risparmio che si osserva in molte società mature, e specie in Italia, visto che questa riduzione potrebbe essere legata alla tendenza complessiva a non abbassare i consumi malgrado impoverimento relativo e aspettative decrescenti. Senza la riduzione dei consumi degli anziani, quel calo potrebbe cioè essere anche maggiore. S. Rohwedder, M.D. Hurd e P. Hudomiet, Explanations for the Decline in Spending at Older Ages, Cambridge, Mass., National Bureau for Economic Research, 2022, Working Paper n. 30460, https://www.nber.org/papers/w30460 (ultimo accesso ottobre 2022).
[9] K. Wolter et al., 2012 Norc Presidential Election Study: Americans’ Views on Entitlement Reform and Health Care, Chicago, Norc at the University of Chicago, 2013, https://www.norc.org/PDFs/NORC_Inauguration%20Report-FINAL.pdf (ultimo accesso ottobre 2022). Debbo la citazione a Sandro Momigliano, che mi ha anche dato la possibilità di leggere il suo Il debito pubblico italiano. Storia, teoria e scelte per il futuro, in corso di pubblicazione da Carocci.
[10] https://opportunityinsights.org/ (ultimo accesso ottobre 2022).
[11] In Graziosi, Il futuro contro, cit., pp. 47-48, discuto anche del problema dell’impatto di tutto ciò sulla struttura di una spesa pubblica che diventa anche per questo più irrazionale.
[12] Ibidem, p. 66; A. Cobalti e A. Schizzerotto, La mobilità sociale in Italia, Bologna, Il Mulino, 1994.
[13] Gini, I fattori demografici, cit., pp. 25, 28; D. Glass (a cura di), Social Mobility in Britain, London, Routledge, 1954 (i suoi risultati furono criticati e il Regno Unito era allora in crisi); Bertillon, La dépopulation, cit., p. 194.
[14] Amato e Graziosi, Grandi illusioni, cit., p. 180.
[15] Teitelbaum e Winter, La paura del declino, cit., p. 141; Cassata, Il fascismo razionale, cit., p. 20; Sauvy, La vieillesse des nations, cit., pp. 32, 59.
[16] I lamenti sui tempi in cui, a differenza di oggi, la «storia contava» sono quindi fondati solo se si parla delle élite, nella cui formazione la storia e la cultura classica giocavano un ruolo che non giocano quasi più. Ma erano anche tempi con pochi anziani e molti analfabeti, su cui il passato, ma non la storia, pesava molto meno di oggi.
[17] Vedi per esempio http://www.europeanvaluesstudy.eu/page/religion.html (ultimo accesso ottobre 2022).
[18] Ne discuto più diffusamente in Il futuro contro, cit., pp. 59 ss.
[19] A. Graziosi, La nuova questione della lingua in Italia, in G.L. Beccaria e A. Graziosi, Lingua madre. Italiano e inglese nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 53 ss.
[20] D. Reich, Who We Are and How We Got Here: Ancient Dna and the New Science of the Human Past, New York, Pantheon Books, 2018, p. 266.
[21] R.V. Reeves, Of Boys and Men: Why the Modern Male is Struggling, Why It Matters, and What to Do about It, Washington, D.C., Brookings Institution Press, 2022; Hungary Officials Warn Education Is Becoming «Too Feminine», in «The Guardian», 26 agosto 2022, https://www.theguardian.com/world/2022/aug/26/hungary-officials-warn-education-is-becoming-too-feminine (ultimo accesso ottobre 2022).
[22] G. Pop-Eleches e J.A. Tucker, Communism’s Shadow: Historical Legacies and Contemporary Political Attitudes, Princeton, N.J., Princeton University Press, 2017, in particolare il capitolo 7.
[23] https://www.nami.org/Learn-More/Mental-Health-By-the-Numbers (ultimo accesso ottobre 2022). Mi rifaccio qui a Graziosi, Il futuro contro, cit., pp. 98 ss.
[24] D. Riesman, N. Glazer e R. Denney, La folla solitaria (1950), Bologna, Il Mulino, 1956 (l’edizione originale aveva come sottotitolo A Study of the Changing American Character); G. Debord, La società dello spettacolo, Roma, Stampa Alternativa, 1967; Lasch, The Culture of Narcissism, cit., pp. 71, 75, 112, già notava che «la creazione del sé» stava diventando «la forma più alta di creatività» e l’importanza dell’«autopromozione attraverso “immagini vincenti”».
[25] Amato e Graziosi, Grandi illusioni, cit., p. 240.
[26] La letteratura in materia è sterminata. Una buona guida alla storia della questione in P. Gleason, Identifying Identity: A Semantic History, in «The Journal of American History», 69, 4, 1983, pp. 910-931.
[27] Penso per esempio a R. Benedict, Il crisantemo e la spada (1946), Bari, Dedalo, 1968. Sulla sua genesi vedi C. King, La riscoperta dell’umanità. Come un gruppo di antropologi ribelli reinventò le idee di razza, sesso e genere nel XX secolo, Torino, Einaudi, 2020 (pp. 317-330 dell’edizione originale del 2019). Dopo il 1945 anche Stalin sottolineò la maggiore importanza, messa in risalto dalla guerra, della nazione e dei caratteri nazionali rispetto alla classe.
[28] Gleason, Identifying Identity, cit., p. 913; W. Glasser, The Identity Society, New York, Harper & Row, 1972; R. Brubaker e F. Cooper, Beyond «Identity», in «Theory and Society», 29, 1, 2000, p. 3; N. Glazer e D.P. Moynihan (a cura di), Ethnicity: Theory and Existence, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1975.
[29] J.M. Ellis, One Fairy Story too Many: The Brothers Grimm and Their Tales, Chicago, The University of Chicago Press, 1993; F. Benigno, Note sul concetto di cultura popolare tra storia e antropologia (2009), ora in Id., Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013, pp. 79-114. Di grande interesse è a questo proposito il percorso di Giuseppe Cocchiara, autore di quella che resta forse la migliore Storia del folklore in Europa (1952), Torino, Bollati Boringhieri, 1971, che capovolse dopo il 1945 la sua ammirazione della cultura popolare da un punto di vista fascista in un’affine ammirazione comunista e «gramsciana».
[30] C. Greenberg, Avant-garde and Kitsch, in «Partisan Review», 5, 1939, p. 34; D. Macdonald, A Theory of Popular Culture, in «Politics», febbraio 1944, pp. 20-22; L. Menand, Browbeaten. Dwight Macdonald’s War on Midcult, in «The New Yorker», 5 settembre 2011, pp. 72-78; Chaunu, Le refus de la vie, cit., p. 69; P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975 (la raccolta dei suoi editoriali del 1973-1975 sul «Corriere della Sera»).
[31] J.S. Furnivall, Colonial Policy and Practice: A Comparative Study of Burma and Netherlands India, Cambridge, Cambridge University Press, 1947; J. Pham, J.S. Furnivall and Fabianism: Reinterpreting the «Plural Society» in Burma, in «Modern Asian Studies», 39, 2, 2005, pp. 321-348.
[32] J.S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Roma, Editori Riuniti, 1999; Lord Acton, Nationality (1862), in Id., Essays on Freedom and Power, Gloucester, Mass., Peter Smith, 1972, pp. 141-179; C.A. Macartney, National States and National Minorities, Oxford, Oxford University Press, 1934; A. Cobban, The Nation State and National Self-Determination (1945), New York, Thomas Crowell, 1969.
[33] Discuto di Mises e Namier in Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa, cit. Vedi anche Graziosi e Sysyn, Genocide, cit., pp. 3-21.
[34] R.H. Taylor, Disaster or Release? J.S. Furnivall and the Bankruptcy of Burma, in «Modern Asian Studies», 29, 1, 1995, pp. 45-63.
[35] A.E. Zimmern, Nationality and Government, London, Chatto & Windus, 1915, p. 67.
[36] In questa prospettiva risalta con chiarezza lo straordinario privilegio della grande emigrazione europea pre-novecentesca, che si mosse in un mondo quasi senza confini e provenne da un continente che deteneva ed esercitava potere. Gli europei poterono quindi immaginare di avere, e in parte ebbero, quello che Benjamin Franklin definì il diritto di lasciare uno Stato oppressivo e la miseria per farsi una vita altrove, un diritto esaltato anche da Goethe. Esso ha nutrito a lungo il sogno cosmopolita dell’ubi libertas, ibi patria, un sogno che conferma che quando la ricerca del benessere personale diventa possibile, e finché resta tale, l’individuo ragiona appunto come individuo e non comunitariamente ed è quindi essenzialmente «asociale» pur continuando a comportarsi socialmente.
[37] Ne discuto in Graziosi, Il futuro contro, cit., pp. 55-56.
[38] https://www.nytimes.com/spotlight/race (ultimo accesso ottobre 2022).
[39] E.T. Thompson, Race Relations and the Race Problem. A Definition and an Analysis, New York, Greenwood Press, 1968; O.C. Cox, Caste, Class and Race: A Study in Social Dynamics, New York, Monthly Review Press, 1948; M. Banton, Racial Theories (1987), Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 105, 168-195. L’imputazione del razzismo al «capitalismo» è un buon esempio dei danni teorici provocati da quest’ultima categoria. Il «razzismo» (considerare cioè alcune popolazioni come intrinsecamente inferiori alla propria e quindi ad essa asservibili) è il prodotto normale delle espansioni conquistatrici e della vertigine da successo che è loro associata, quella degli indoeuropei ariani in India come quella araba in Africa o quella tedesca nell’Europa centrorientale, e forse anche quella bantù. Esso è stato formalizzato da un segmento del mondo scientifico europeo nel XIX secolo, e moderato, ma non cancellato, da religioni che predicano l’uguaglianza degli esseri umani agli occhi di Dio, nonché da idee e sentimenti moderni come quelli associati alla ragione e alla scienza. Ma almeno finora è rimasto un tratto stabile, e ripugnante, del comportamento umano.
[40] F. Dikötter, The Discourse of Race in Modern China (1994), London, Hurst & Co., 2015, p. 126; R. Segal, The Race War, London, Jonathan Cape, 1966, pp. 9-26.
[41] Vedi per esempio M. Mauss, La nation (1920), ora in Oeuvres, vol. 3: Cohésion sociale et division de la sociologie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1969, pp. 573-625.
[42] J. Huxley, A.C. Haddon e A.M. Carr-Saunders, We Europeans: A Survey of «Racial» Problems (1935), Harmondsworth, Penguin Books, 1939, p. 91.
[43] Sulla differenza, determinata dalla distanza genetica e da una differenziazione sviluppatasi nel tempo ma che è rimasta interna alla stessa specie e quindi reversibile (o meglio complicabile ulteriormente) con contatti e incroci, vedi Reich, Who We Are and How We Got Here, cit., p. 251.
[44] G. Fredrickson, Breve storia del razzismo (2002), Roma, Donzelli, 2005, p. 149.
[45] Sul fatto che l’affirmative action sul breve-medio periodo funzioni nel senso sperato non ci sono, pare, dubbi e sarebbe strano non lo facesse visto che si pone obiettivi quantitativi cui vengono legati forti incentivi e disincentivi, finanziari e normativi. Vedi per esempio R. Dworkin, Affirming Affirmative Action, in «The New York Review of Books», 45, 1998, p. 91.
[46] Prewitt, What is your Race?, cit., p. 126; Anderson e Fienberg, Race and Ethnicity, cit., pp. 93-96.
[47] D. Brooks, This Is What Happens When Race Is Everything, in «The New York Times», 13 ottobre 2022, https://www.nytimes.com/2022/10/13/opinion/la-city-council-racism.html (ultimo accesso ottobre 2022).
[48] A. Graziosi, Communism, Nations, and Nationalism, in S. Pons e S. Smith (a cura di), The Cambridge History of Communism, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, vol. 1, pp. 449-474.
[49] A.M. Schlesinger, Jr., The Disuniting of America: Reflections on a Multicultural Society, Knoxville, Tenn., Whittle Direct Books, 1991; W. Kymlicka, Politics in the Vernacular: Nationalism, Multiculturalism, and Citizenship, Oxford, Oxford University Press, 2001.
3.
La crisi della politica
1. Crisi delle avanguardie e crisi delle masse
La crescente debolezza dei più importanti modelli politici propri del Moderno è un’altra delle conseguenze della sua evoluzione. In quanto tale avrei potuto trattarla nel capitolo precedente ma, data la sua importanza, ho ritenuto opportuno dedicarle uno spazio a sé stante. Questi modelli sono essenzialmente due. Tuttavia, nei primi decenni della transizione verso la Modernità – e quindi su un periodo storico abbastanza lungo visto che essa non è stata e non è un processo sincronico – ha giocato un ruolo importante anche un modello militare, protagonista sia di progetti di modernizzazione che di tentativi di arginarne gli effetti, che ha avuto in Napoleone il suo eroe.
Il primo dei due principali è quello fondato su «avanguardie» (repubblicane, nazionaliste, socialiste, comuniste, fasciste, razziste, religiose ecc.) variamente organizzate e portatrici di progetti trasformativi spesso imperniati su gruppi umani specifici (individuati in base a criteri di nuovo politici, etnonazionali, sociali ecc.) che di tali progetti erano al tempo stesso gli eroi e i supposti beneficiari. Il contesto che li ha nutriti è quello della prima, alta e montante fase della modernizzazione, quando si succedevano con velocità cambiamenti straordinari, il progresso non cessava di stupire, il mondo a partire dall’Europa si riorganizzava in Stati, e tutto sembrava pensabile e possibile. Da questa angolazione, al contrario di quanto si è tradizionalmente sostenuto, si può affermare che i veri secoli dell’utopia non siano stati quelli tra il XVI e il XVIII, ma piuttosto i 200 anni che vanno dalla fine del XVIII alla metà del XX, con una coda importante in Asia e in Africa, dove molto ancora continua.
Riflettendo sulle linee generali della sua genealogia sembra possibile sostenere che questo modello sia la trasfigurazione di quello religioso basato su chierici, pure loro più o meno organizzati, capaci di parlare e di farsi seguire da popoli (nel loro caso di credenti) anch’essi più o meno ben individuati. Questo schema, fondato su avanguardie che guidano moralmente e politicamente le masse perché in possesso di conoscenze superiori, ha preso nel tempo forme diverse, seguendo tuttavia una linea evolutiva abbastanza netta. Esso ha inoltre definito soggetti («popoli») sempre nuovi, seguendo anche in questo caso una logica che non è difficile identificare.
La linea evolutiva è quella che va dalle società segrete a metà tra il religioso, il magico e il razionale, come la prima massoneria, alle sue logge razionaliste[1], ai caucus americani, ai club giacobini, alle organizzazioni segrete e cospirative, e arriva al moderno partito politico, la grande invenzione mazziniana poi perfezionata dalla socialdemocrazia e da Lenin, che cristallizzò in modo brillante il rapporto tra avanguardie, partito (come intellettuale collettivo) e Stato come strumento del loro agire nella storia.
La successione dei soggetti in nome dei quali si è agito sembra invece seguire la logica del «dal più grande al più piccolo», probabilmente replicando la tendenza alla diversificazione e quindi all’individualizzazione propria del crescente benessere e legata alla nascita delle nuove forme di stratificazione sociale di cui ho discusso. Il primo modello ha al suo centro il Terzo stato, poi identificato da Augustin Thierry come popolo-nazione (i discendenti dei celti latinizzati) che fa la rivoluzione per liberarsi di un oppressore straniero (i nobili di origine franca) e così facendo libera tutti. Di lì si arriva alle classi di Marx (che ammise di dovere a Thierry – ma c’entrava anche François Guizot – il suo modello della storia come prodotto del conflitto di classe, con un soggetto, nel suo caso il proletariato, portatore dell’interesse generale), ai vari popoli-nazione del nazionalismo europeo ottocentesco, alle razze e ai popoli (anche religiosi) del Novecento, e poi a gruppi sempre più circoscritti ma chiaramente identificati, con la rilevantissima eccezione delle donne, mobilitatesi seguendo un modello originale.
Talvolta, parlando a nome dei loro soggetti, queste avanguardie sono riuscite a costruire Stati e regimi nuovi, alcuni dei quali – specie nel XX secolo – dotati di grande aggressività. Più spesso, e per fortuna, hanno finito col costruire partiti portatori degli interessi dei gruppi di cui si sentivano gli interpreti e le guide. Il successo di questo modello si spiega così anche con la sua capacità di rinnovare un nucleo essenziale nella storia del progressismo, vale a dire l’intreccio tra allargamento della democrazia ed emersione e promozione di soggetti nuovi che quella storia segnano con le loro richieste, la loro attività e le loro conquiste. La difesa e l’esaltazione dei diritti di gruppi prima emarginati, ancorché spesso sempre più piccoli, e la loro centralità per il discorso progressista sono quindi un naturale portato del passato, ed è comprensibile che sia così.
Nel Moderno maggiore maturo le condizioni che hanno permesso il successo del modello avanguardie-masse sono però rapidamente cambiate. Vi è in primo luogo il già ricordato, brutale ridimensionamento del peso quantitativo e soprattutto del ruolo qualitativo dei giovani, e proprio i giovani erano stati il suo motore in una politica concentrata sulla costruzione del futuro. Insieme al ruolo dei giovani si è ridimensionato infatti anche quello di quest’ultimo: viviamo anche per questo, purtroppo e per fortuna, tempi non più dominati dall’elaborazione di utopie e dai progetti elaborati per realizzarle.
Già a fine Ottocento, Bertillon aveva notato che la Francia aveva ormai il suo ideale «nel funzionario e nel pensionato». Alcuni decenni dopo Sauvy aggiunse che il segno dei tempi era dato da un’Europa che aspirava alla pensione, cioè a godere di una vecchiaia «giovane» e lunga, e non più al socialismo (il François Mitterrand che combinò genialmente le due cose, identificando il socialismo con la pensione a 60 anni mentre la speranza di vita superava gli 80 ne è in qualche modo il simbolo). Non è quindi un caso se la questione delle pensioni sia da qualche decennio al centro del dibattito politico nonché delle angosce di giovani che da tempo sanno che non ne godranno nelle forme e con la generosità dei loro maggiori[2].
La mobilità, ascendente e discendente, ha prodotto poi un indebolimento delle élite come gruppo sociale identitario stabile e del suo senso di avere il diritto di guidare gli altri. Soprattutto, come abbiamo visto, sono andate scomparendo le «masse», vale a dire i soggetti che si riteneva di dover rappresentare, scomposte dal processo di individualizzazione e sostituite da gruppi via via più piccoli. Ed è scomparsa quella cultura popolare tradizionale, ritenuta al tempo stesso autonoma e alternativa e in quanto tale capace di fondare la rigenerazione del mondo, probabilmente esistita più come creazione delle élite che come oggetto a sé stante, ma non per questo meno capace di agire nella storia. Accanto alla crisi delle vocazioni, e dei preti, c’è insomma la crisi dell’intellettuale, e del suo intellettuale collettivo, il partito, che non sa più a chi parlare e in nome di chi e di cosa farlo per rigenerare la società.
Come dimostra il caso cinese, regge tuttavia il partito, trasformato in strumento di gestione di società rette da sistemi autoritari al tempo stesso meritocratici, corrotti e para-nobiliari. Ma su questo torneremo alla fine del prossimo paragrafo.
2. Crisi della liberaldemocrazia
In Europa occidentale e in America settentrionale il rapporto tra sistema politico democratico e libertà è stato negli ultimi due secoli abbastanza lineare e biunivoco, nel senso che all’affermazione dell’uno è sembrato dovesse corrispondere il progresso dell’altra e viceversa[3].
A ben guardare le cose non sono state così semplici. Buona parte delle élite ha a lungo ritenuto che allargare il suffragio alle masse come si diceva allora «oscure» – rurali, urbane, religiose o femminili che fossero – avrebbe messo in pericolo il progresso e la libertà e con questa giustificazione esplicita o implicita sono stati difesi sistemi limitativi del voto per censo o istruzione (vale la pena di ricordare come, a partire da presupposti simili, per non mettere in pericolo il socialismo anche la prima Costituzione sovietica pesasse elettoralmente i contadini un quinto degli operai). Partiti di avanguardia di vario tipo (socialisti, nazionalisti, fascisti, comunisti ecc.) hanno inoltre cercato di realizzare i loro progetti trasformativi, talvolta riuscendovi anche col favore delle guerre e delle loro conseguenze, e regimi militari anch’essi di vario tipo hanno cercato di imporre la loro visione della società.
Tuttavia, specie durante i decenni seguiti alla seconda guerra mondiale, il binomio è apparso davvero inscindibile, e come tale è iscritto in molte Costituzioni. Gli eventi degli ultimi anni ne hanno però evidenziato fragilità vecchie e nuove, mostrando la differenza e anche la possibile frattura tra la democrazia intesa come elezione formale dei governanti, che resiste e anzi si espande dato che molti dei regimi e dei movimenti illiberali di oggi rivendicano una legittimazione popolare e godono spesso di sostegno elettorale, e quella democrazia liberale che implicitamente siamo stati portati a identificare erroneamente con la democrazia tout court[4]. A essere oggi in crisi, quindi, non è la democrazia, quanto i principi liberali che ne sono stati il fulcro in Occidente, vale a dire la liberaldemocrazia.
Il suo prestigio agli occhi delle élite di tanti paesi del mondo è stato minato dal declino della potenza, dell’immagine e quindi del modello occidentale (ma il potere di attrazione dei suoi stili e standard di vita resta forte) che con essa è identificato. Ciò che va spiegato è quindi la sua crisi all’interno del grande Occidente in cui abbiamo fin qui vissuto, e dove la liberaldemocrazia sembrava ormai scontata. Nel farlo è opportuno ricordare che il nostro Occidente è in crisi anche perché i pezzi da cui era composto nel 1945, e quelli che gli si sono via via aggiunti coi vari processi di transizione alla democrazia dagli anni Settanta alla fine del Novecento, non solo erano diversi ma col tempo hanno accentuato la loro diversità oltre a conoscere importanti esperienze di convergenza.
Rimanendo all’interno del Moderno maggiore bianco riunitosi, forse solo in parte se non solo in apparenza, coi paesi del Moderno minore nel 1989-1991, sembra possibile distinguere almeno quattro grandi aree, diverse per passato, composizione, condizioni e «stadi» in cui si trovano: i paesi di immigrazione di origine anglosassone (gli Stati Uniti, il Canada con l’eccezione del Québec, l’Australia e in un certo senso e in certe sue parti lo stesso Regno Unito odierno); gli Stati più o meno nazionali dell’Europa occidentale; quelli dell’ex blocco socialista dell’Europa centrorientale, con un passato in parte affine ma anche diverso da quello del gruppo precedente, e che includono un mondo balcanico con caratteristiche proprie a causa dell’esperienza jugoslava (che ha per esempio potenziato il mix etnolinguistico); e un’Europa orientale sovietizzata per un periodo più lungo, che si allarga a est a una Federazione russa che è stata a lungo il cuore di un modello diverso e che ha presto imboccato di nuovo una propria strada. Malgrado possibilità, speranze e anche realtà che sembravano promettere il contrario, già nel 1993 si moltiplicavano a Mosca i segnali che le cose sarebbero potute andare male: alla fine di quell’anno, per esempio, dopo il bombardamento della Duma, a ridosso del sanguinoso conflitto georgiano-abcaso e subito prima dello scoppio della prima guerra cecena, l’estrema destra nazionalista di Vladimir Žirinovskij era il primo partito della Federazione. Oggi Mosca è il centro di un potere aggressivo pervaso da desideri di rivalsa, dotatosi di una nuova ideologia e con un sistema politico «democratico» che teorizza la sua alterità rispetto al corrotto liberalismo occidentale[5].
Mi concentro qui però sul terreno che alimenta la crisi della liberaldemocrazia nei paesi tradizionali dell’Occidente nato dopo il 1945, passando in rassegna quelle che me ne sembrano le componenti principali, vale a dire: la rivoluzione delle aspettative decrescenti; il suo impatto sui rapporti tra governanti e governati (o tra «élite» e «popolo»); la formazione di un bacino «reazionario» di tipo nuovo; la natura che assumono, in questo contesto, le riforme, e il rapporto nei loro confronti; la complessità della gestione delle società moderne, che nutre di continuo la spinta a una direzione tecnico-amministrativa che ha principi e regole diversi da quelli liberaldemocratici; le nuove tendenze al leaderismo connesse al processo di individualizzazione; e infine la nascita di nuove società plurali.
Dalla metà del XVIII secolo agli anni Settanta del Novecento abbiamo vissuto in un’epoca di aspettative crescenti più o meno realizzabili che hanno permesso al popolo, inteso qui come l’insieme degli strati inferiori della società, di chiedere e di ottenere, e alle élite di distribuire. Si trattava di un popolo che all’inizio di quel periodo era spesso analfabeta e aveva poco a che fare col popolo politico, plebe inclusa, delle repubbliche classiche (e anche dei comuni italiani), e stava appena cominciando a diventare il nucleo dei nuovi popoli nazionali. In quelle condizioni iniziali e prima di esse, quando come diceva Cartesio vi erano «verità difficili» che il popolo non era in grado di capire, i padri intellettuali delle idee progressiste non avevano neanche pensato si potesse ricorrere alla democrazia come strumento per decidere. Pierre Bayle era per esempio convinto che le opinioni andassero pesate, non contate, e pochi dubitavano del nesso della democrazia con la demagogia, riaffermato da Montesquieu.
Crescita economica, diffusione dell’istruzione e maggior benessere cominciarono presto a cambiare questo quadro mentre la rivoluzione francese fondeva i tre popoli allora possibili – sociale, nazionale e politico – nella nazione, termine preferito proprio a causa dell’ambiguità del concetto di popolo e della sua possibile identificazione coi ceti inferiori. L’esaltazione di questa nazione e del suo popolo, un popolo che «progrediva» anch’esso più o meno velocemente, permise alle avanguardie intellettuali non solo di non temerlo più, ma di proporsi di guidarlo. Emmanuel Joseph Sieyès dava intanto forma teorica alla democrazia rappresentativa, lo strumento che permetteva di risolvere le contraddizioni della democrazia di massa moderna. Malgrado guerre, crisi, regimi dispotici e arretramenti anche terribili, almeno in Occidente seguirono due secoli fondati su una triplice felice finzione, che era però vera «situazionalmente», cioè nelle condizioni allora date.
In primo luogo la democrazia rappresentativa funzionava e si poteva allargare perché il popolo/demos sociale, politico e sempre più nazionale seguiva e riconosceva una rappresentanza/élite (che comprendeva anche avanguardie spesso poco democratiche) perché riusciva a ottenere da essa almeno parte di ciò che chiedeva. La finzione del popolo che poteva decidere, «contando» (ricordiamo che si trattava di un popolo a lungo solo maschile e spesso tagliato da censo e istruzione), era insomma resa possibile dal «miglioramento continuo» e dalla posizione di dominio dell’Europa nel mondo. La spinta demografica interna rendeva inoltre possibile pensare a un popolo-nazione sempre più omogeneo grazie anche agli strumenti della nazionalizzazione. E soprattutto, in terzo luogo, la tensione tra le masse «oscure» e la Modernità e il progresso promossi dalla liberaldemocrazia era risolta dalla fiducia, nutrita dalla parte più aperta delle élite liberali e democratiche (le Memorie di Giuseppe Garibaldi sono a proposito illuminanti), che il diffondersi dell’istruzione di massa avrebbe sanato il dissidio. Tale fiducia è stata poi corroborata dalla graduale, ancorché contraddittoria e mai lineare, adesione del «popolo» delle società occidentali alla Modernità liberaldemocratica, culminata nei decenni «gloriosi» del secondo dopoguerra.
Le classi dirigenti hanno così goduto di un lungo periodo in cui riformare voleva dire dare di più, oltre che eliminare privilegi; la legittimazione era in qualche modo assicurata dal patto sociale da ciò reso possibile e dalla crescita dell’omogeneizzazione; e i problemi – anche quelli complessi e difficili – sembravano col tempo risolvibili anche perché c’era una risposta semplice: impiegare più risorse. E se venivano commessi errori magari costosi seguendo opinioni facili e sbagliate, almeno sul breve-medio periodo essi erano quasi automaticamente celati da uno sviluppo che restava tale anche se una parte dei suoi frutti andava invisibilmente a saldare i costi di quegli errori. Dopo il 1945, inoltre, a condizioni ancora straordinarie si aggiunse la possibilità di ricorrere agli strumenti keynesiani, cioè alla giustificazione razionale della spesa in deficit, che fornirono alle classi dirigenti per qualche decennio uno strumento per moltiplicare impropriamente ciò che era possibile dare e promettere, e alla popolazione di ricevere più di quanto fosse sostenibile.
Sappiamo che dagli anni Settanta alla fine del Novecento tutti questi fattori hanno progressivamente smesso di funzionare, mentre una nuova rivoluzione, quella delle aspettative decrescenti (a lungo non apertamente ammesse perché si preferiva rifiutare di crederle possibili), indeboliva strutturalmente il rapporto tra élite e popolo, corrodendo la fiducia di entrambi nella liberaldemocrazia[6]. La crisi del 2007-2008 ha segnato a suo modo uno spartiacque, non tanto perché ha cambiato la realtà (in Italia, e non solo, la direzione del cambiamento era chiara da circa 15 anni), quanto perché ha rivelato la fragilità su cui riposavano la legittimazione e la tranquillità dell’ordine occidentale anche negli stessi paesi occidentali, soprattutto ma non solo nell’Unione Europea.
Nei nuovi tempi aperti da quella crisi, i problemi sono diventati anche in apparenza (ché nella sostanza già lo erano) difficili e spesso soluzioni che rappresentano la scelta migliore sul lungo periodo richiedono misure che sono sul breve periodo impopolari, minando il nucleo della democrazia rappresentativa. Se vogliono agire responsabilmente, per esempio danneggiando gli interessi immediati della popolazione per preservare quelli di lungo termine, i rappresentanti sono infatti chiamati a fare scelte (riforme) che pesano su rappresentati che si sentono ingannati e traditi. Questi ultimi sono quindi attratti da chi predica soluzioni semplici e in linea con quelle del passato, senza vedere i costi altissimi che esse avrebbero per il loro stesso benessere futuro. Il medio-lungo periodo è infatti un orizzonte temporale di cui è psicologicamente oltre che intellettualmente spesso difficile tenere conto, anche perché tenere fisso lo sguardo sul breve periodo, in cui si vive, è un comportamento naturale e per molti versi razionale, specie ma non solo per i sempre più consistenti segmenti anziani della popolazione.
La riduzione della crescita fa inoltre sì che ogni errore commesso diventi presto visibile perché i suoi costi vanno sostenuti sottraendo risorse scarse a progetti e investimenti necessari. Si mettono così in difficoltà gli attori politici, le cui mancanze erano prima coperte da uno sviluppo che come abbiamo visto tutto sembrava perdonare, attutendo le conseguenze degli errori e facendo sì che essi non venissero nemmeno percepiti.
Almeno implicitamente, il nuovo populismo tende così a detestare le classi dirigenti (ridivenute «élite») e a escluderle dal popolo, un’esclusione che si era di regola verificata in passato dove queste classi dirigenti erano di lingua o religione diversa, o venivano ritenute tali. Un siffatto atteggiamento può essere spiegato solo con un risentimento più profondo di quello «normale» verso un altrettanto «normale» potere delle élite. A nutrirlo sembra essere l’insoddisfazione verso l’evoluzione delle società occidentali e l’incapacità delle loro élite tradizionali di continuare a garantire – anche solo a livello di promesse e aspettative – quello che era diventato parte integrante del patto sociale che quelle società legittimava, vale a dire una crescita del tenore di vita e un allargamento di diritti sostanziali che erano in realtà privilegi consentiti da condizioni straordinarie. Le élite vengono così accusate di tradimento, un tradimento consumato appoggiando innovazione e globalizzazione, di cui non si percepisce il ruolo di grande alleviatrice dei processi negativi in corso. Innovazione e globalizzazione vengono piuttosto identificate con la rottura del patto sociale stretto nei decenni precedenti, con la perdita della posizione dell’Occidente e con quella della conquistata omogeneità, causata dall’arrivo degli immigrati.
Saremmo perciò di fronte a una divaricazione tra idee e convinzioni popolari e concezioni e ideali «progressisti» che riproduce, ma in maniera nuova, quella che ha contraddistinto gran parte del XIX secolo europeo. Torniamo così alla nascita di un nuovo bacino reazionario strutturale all’interno delle società del Moderno maturo, un bacino a suo modo simile a quello rappresentato nel XIX secolo dalle campagne e da una parte del mondo religioso, ma anche profondamente diverso da esso perché «spento» e quindi forse ancora più conservatore. La sua formazione è legata all’invecchiamento (col suo corteo di solitudine, orizzonti limitati, angoscia da morte incombente e cattiva salute); ai nuovi rapporti di genere e al sentimento di svalutazione dei maschi; all’immigrazione e alla comparsa del diverso in condizioni di aspettative decrescenti; alle nuove forme di emarginazione tipiche della «società della conoscenza»; e all’avversione a un cambiamento identificato col peggioramento che spesso trova erroneamente il suo simbolo nella globalizzazione.
Conta anche l’emergere dei limiti delle promesse insite nella diffusione dell’istruzione, che ha portato e porta enormi benefici ma non è in grado di risolvere i problemi anche perché non tutti possono o sono interessati a raggiungere gli stessi livelli di conoscenza. Quella diffusione produce inoltre effetti inaspettati, creando nuove gerarchie e alimentando in molti l’illusione di poter decidere in proprio senza rispettare le competenze anche nei campi in cui la competenza e l’autorevolezza scientifiche sono indispensabili, e quindi diminuendo paradossalmente il prestigio e lo status dell’istruzione stessa.
La crisi della liberaldemocrazia è accompagnata, e testimoniata anche dal cambiamento di senso di riforme, un tempo popolari perché pegno della dignità e della capacità di domandare e della possibilità di dare, e oggi temute perché simbolo della necessità di ridurre diritti/privilegi acquisiti che non è più possibile garantire. Un esempio particolarmente pregnante, alla luce della crisi demografica e delle misure che sarebbe opportuno prendere per fronteggiarla, è quello di riforme che spostino risorse (e cioè percentuali della spesa pubblica) dalle fasce anziane, e quindi in primo luogo dalle pensioni, a quelle più giovani della popolazione, anche per favorire le nascite. Al di là della comprensibile resistenza degli anziani, questo vuol dire far intervenire lo Stato nel campo delicatissimo e personale della riproduzione, che sarebbe sempre meglio lasciare il più possibile alle scelte dei privati. Anche se prende forma di incentivazione, un tale intervento ha infatti sempre componenti dirigiste, e quindi in potenza autoritarie[7].
Una forte tendenza al dirigismo è nutrita anche dal crescente carattere amministrativo delle nostre società, un fenomeno naturale e inevitabile vista l’altrettanto crescente complessità dei compiti, e quindi dei poteri, assunti dalle amministrazioni pubbliche in campi come l’assistenza, la sanità, l’economia, la regolazione di molteplici funzioni ecc. Questa amministrazione, il cui ruolo è accresciuto dalla crisi[8], richiede competenze qualificate ed è chiamata ogni giorno ad affrontare questioni nuove, non sempre previste dalle leggi. Le amministrazioni, quindi, spesso funzionano non in base a un mandato politico ben definito, ma piuttosto interpretando, più o meno liberamente, quello che hanno ricevuto dal Parlamento o dal governo. Lo Stato amministrativo, di cui quello sovietico è stato forse finora l’esempio più estremo, è quindi ormai una realtà per certi versi anche necessaria, alla quale i governanti sono tentati di fare ricorso (lo ha dimostrato negli Stati Uniti la presidenza Obama), ma che di certo riduce i margini della liberaldemocrazia.
Quest’ultima è minacciata anche dalla crescente personalizzazione della leadership politica[9], a sua volta legata alla più generale e già discussa tendenza all’individualizzazione, potenziata prima dai media tradizionali come la televisione e poi dai nuovi social media che richiedono personalità polarizzanti e quindi fuori dalla norma, di cui Berlusconi prima e Trump poi sono, rispettivamente, esempi perfetti.
Una minaccia forse maggiore, specie in un’Europa continentale che ha coltivato il mito dei popoli herderianamente intesi e dello Stato come loro espressione naturale, è rappresentata dalla tendenza alla formazione di nuove società plurali. Torniamo qui al legame tra democrazia, nazione e nazionalismo che la sinistra ha fatto fatica a tematizzare[10] anche perché costa ammettere che la spinta all’omogeneità non proviene solo dal nazionalismo ma anche (e torniamo qui al dibattito tra Mill e Acton) dalle esigenze di funzionamento della democrazia, che sembra per esempio richiedere un’unica lingua, come sostennero subito i giacobini[11].
Non a caso la nazione, in linea di principio politica, è diventata molto presto e soprattutto in Europa etnica, come immaginò Thierry e come ammetteva implicitamente lo stesso Hegel, riconoscendo il primato dell’astrazione kantiana ma notando che l’appartenenza a un unico «popolo» facilitava enormemente quel riconoscimento reciproco che permetteva allo Stato razionale kantiano di funzionare correttamente nei suoi rapporti con la società civile[12]. L’ipotesi fu poi suffragata dalle difficoltà incontrate dalla liberaldemocrazia nei territori misti, dove si sono generate forze potenti e sgradevoli al tempo stesso «democratiche» (cioè basate sull’appello al «popolo» e alla sua volontà) e persecutorie nei confronti degli «altri-alieni». Ciò non vuole dire che tra pluralità e liberaldemocrazia vi sia incompatibilità, ma certo bisogna mettere in conto le difficoltà che la prima crea all’affermazione della seconda, specie in un mondo che sta ricreando, anche all’interno dei paesi del Moderno maggiore, quelle che McNeill ha chiamato «gerarchie plurietniche». In Europa, per esempio, «col crescere della prosperità si reclutarono lavoratori stranieri da sempre più lontano, lavoratori che erano quindi sempre meno [facilmente] assimilabili», riportando questo tipo di «gerarchie» anche in un continente che in epoca moderna le aveva conosciute soprattutto ma non solo nella sua parte centrorientale e nel Regno Unito, con la sua Irlanda e il suo proletariato irlandese. Sempre McNeill sottolineava giustamente i problemi che queste nuove gerarchie creavano agli ideali di uguaglianza in paesi che si ritrovavano con «grandi differenze di qualifica, cultura, ricchezza e apparenza fisica»; ma anche i costi, altissimi, a causa del declino demografico delle scelte a favore della chiusura e della purezza in termini di isolamento e impoverimento culturale, sociale ed economico[13].
La fragilità della liberaldemocrazia, che è per sua natura aperta, discende anche dal già ricordato rafforzamento della barriera tra l’essere umano e il cittadino, che tende a trasformare l’insieme dei cittadini in una specie di ceto privilegiato che ha più diritti – inclusi quelli socioeconomici – ed è quindi più «uguale» degli altri. Come scrisse nel 1943 Hannah Arendt i passaporti e i certificati di nascita potevano cessare di essere documenti ufficiali e diventare «questione di discriminazione sociale»[14]. Lo Stato nazionale in senso etnocultuale, come espressione politica della volontà democratica di un popolo, è quindi sì l’embrione del moderno «stato pluriclasse» e del suo sistema di welfare, ma quest’ultimo può a sua volta diventare l’embrione, se e quando il diverso si materializza e le condizioni peggiorano, dello Stato populista. Lo aveva intuito Thomas Mann che nel 1947, riflettendo sull’esperienza tedesca, aveva notato come «la parola e il concetto di popolo conservano sempre un che di arcaicamente apprensivo» e che bastava «apostrofare la folla chiamandola “popolo” per indurla a malvagità reazionarie»[15].
Quanto va accadendo nelle liberaldemocrazie occidentali, specie ma non solo quelle dell’Europa continentale, dopo la fine del loro straordinario periodo di espansione e di privilegio, e la luce che ciò getta sul passato, solleva quindi un quesito di grandissima rilevanza[16]. Si potrebbe infatti sostenere che la liberaldemocrazia così come noi la conosciamo sia nata con la (se non dalla) crescita economica, e si sia affermata prima e sviluppata poi grazie ad essa, usata per aumentare – sia pure a balzi, conflittualmente e non uniformemente – la quantità e la qualità delle risorse da redistribuire, creando potenti e generosi Stati sociali «pluriclasse». I problemi che abbiamo passato in rassegna – il «razionamento» di risorse divenute scarse e i conflitti da esso provocati, la paura della diversità e dell’immigrazione e il calo dell’ottimismo che prendono il posto delle antiche lotte su come meglio distribuire ricchezza comunque in crescita in società che sembravano tendere verso l’omogeneità – spingerebbero infatti la «democrazia» a slittare verso un conflitto tra spinte demagogiche e tendenze elitarie (nutrite dalla meritocrazia della società della conoscenza oltre che dallo Stato amministrativo) che ne metterebbe in difficoltà la natura aperta e liberale che abbiamo conosciuto e amato.
Si confermerebbero così i timori dei grandi pensatori politici dall’antichità alla metà del XVIII secolo, portati a sostenere forme di governo oligarchiche o monarchie moderate perché la democrazia era – in condizioni che adesso si potrebbe tornare a considerare normali, cioè di crescita molto bassa se non di decrescita – un ideale irraggiungibile e una realtà pericolosa, cui andavano preferiti degli heureux mélanges tra le varie forme di governo[17].
Se così fosse, l’elaborazione di una narrazione politica e di soluzioni pratiche, e anche tecniche, capaci di comprendere, e almeno in parte di rispondere, a questi problemi sarebbe la questione cruciale di fronte a chi la liberaldemocrazia vuole preservare salvandone il carattere aperto, sia pure con le modifiche indispensabili alla sua tenuta. La cosa è tanto più urgente se si guarda alle risposte «spontanee» che a questa crisi vengono date, e che sono a loro volta spesso legate ai discorsi di rifiuto e di chiusura che abbiamo esaminato.
I conflitti tra popolo ed élite e i problemi posti dal Moderno maturo potrebbero per esempio essere composti da governi «tecnici» più o meno autoritari, espressione di quella tendenza all’espansione delle funzioni e delle prerogative dell’amministrazione che nasce dalle complessità della Modernità ed è forse alimentata dalla stagnazione, come ipotizzavano Keynes e Hansen. Ma potrebbero pure essere risolti da un leaderismo sospinto, come sappiamo, da altri fattori. Si potrebbe quindi assistere alla comparsa anche in Europa occidentale, e non solo, di quel palace rule legittimato dalla sovranità del popolo e unto da elezioni democratiche che Samuel Finer riteneva caratteristico di paesi in via di modernizzazione, ma che potrebbe quindi rivelarsi anche tipico di un nuovo «Moderno»[18]. È a suo modo il modello cinese, che si fonda sulla mutazione, caratterizzata da un radicale rinnovamento, del modello di partito-Stato inventato da Lenin tra il 1918 e il 1921 come strumento centralizzato di guida e controllo della società a opera di un ceto dirigente politico e in subordine tecnocratico, un modello che Deng salvò staccandolo dal sistema economico fallimentare costruito in Urss sulla base del marxismo. È questo anche il modello verso cui ha virato la «democrazia gestita» russa, resa però molto più aggressiva dalla sconfitta e dal desiderio di rivalsa[19].
Si intravedono quindi modelli e metodi alternativi di gestione politica di situazioni complesse e «moderne», che tengono insieme il potere e la stabilità dell’élite politica con le competenze di quella tecnocratica e riescono in qualche modo a ottenere una sanzione «popolare». Sono modelli che riscuotono successo ma, sia pure in modo diverso, anch’essi dovranno prima o poi fare i conti (e in Cina più prima che poi visti gli effetti della politica del figlio unico) con gli stessi problemi che piagano il Moderno maturo. E si potrebbe sperare che essi non attecchiscano in società che restano il prodotto della grande storia della libertà occidentale e che potrebbero quindi contribuire a inventare un nuovo Occidente.
[1] Vale l’acuto e complesso G. Giarrizzo, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994.
[2] Bertillon, La dépopulation, cit., pp. 157-159; Sauvy, La vieillesse des nations, cit., p. 34.
[3] Graziosi, Il futuro contro, cit., pp. 69 ss.
[4] F. Zakaria, The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad, New York, Norton, 2003; E. Luce, Il tramonto del liberalismo occidentale, Torino, Einaudi, 2017; I. Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie, Bari-Roma, Laterza, 2018; W. Galston, Anti-Pluralism: The Populist Threat to Liberal Democracy, New Haven, Conn., Yale University Press, 2018; Y. Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Milano, Feltrinelli, 2018; T. Snyder e B. Head, La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, Milano, Rizzoli, 2018; A. Applebaum, Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo, Milano, Mondadori, 2021.
[5] Graziosi, L’Ucraina e Putin, cit., pp. 52-81.
[6] Graziosi, Il futuro contro, cit., pp. 73 ss.
[7] Per Gini la ripartizione dei redditi su base demografica non era possibile in democrazia perché nessuno si sarebbe sacrificato volentieri per famiglie altrui (Cassata, Il fascismo razionale, cit., p. 51), ma l’esperienza francese mostra che l’impossibilità non è vera, anche se resta la difficoltà. Vedi anche l’interessante conferenza tenuta da Gini a Harvard nel 1936, Authority and the Individual during the Different Stages of the Evolution of Nations, viziata da un’ingenua fiducia nello Stato.
[8] G. Amato, Bentornato Stato, ma, Bologna, Il Mulino, 2022.
[9] M. Calise, Il partito personale, Roma-Bari, Laterza, 2000; Id., La democrazia del leader, Bari-Roma, Laterza, 2016. Questa nuova tendenza è molto diversa da quella innescata in Europa dal primo conflitto mondiale, cui seguì un’era di duci, führer, vožd ecc. che ho discusso in Guerra e rivoluzione in Europa, cit., ma pur sempre centrata sulla figura del leader.
[10] Il legame, che Gellner provò ad affrontare, è stato sottovalutato anche dagli storici che hanno rinnovato la storiografia sul nazionalismo (J.A. Hall, a cura di, The State of the Nation: Ernst Gellner and the Theory of Nationalism, New York, Cambridge University Press, 1998). Prima di loro, però, Hugh Seton-Watson aveva colto con chiarezza il nesso tra nazionalismo e democrazia: dopo il 1789, scrisse, «il problema di trovare un’unità per l’esercizio della sovranità popolare era reale, e la nazione, di solito basata sulla lingua, era l’unica risposta che si poteva dare a quell’epoca. L’intolleranza e le illusioni del nazionalismo sono parte dell’intolleranza e delle illusioni della democrazia» [corsivo mio] (in Nations and States: An Inquiry into the Origins of Nations and the Politics of Nationalism, London, Methuen, 1977, p. 14); M. Mann, Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica, Milano, Egea, 2005.
[11] M. de Certeau, D. Julia e J. Revel, Une politique de la langue. La Révolution française et les patois: l’enquête de Grégoire, Paris, Gallimard, 1975; L. Renzi, La politica linguistica della rivoluzione francese, Napoli, Liguori, 1981.
[12] L.L. Moland, Hegel on Political Identity, Evanston, Ill., Northwestern University Press, 2011.
[13] McNeill, Polyethnicity, cit., p. 83.
[14] H. Arendt, We Refugees, in «The Menorah Journal», 1, 1943, ora in Ebraismo e modernità, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 35-49. Debbo questa citazione, e la prossima, a Michele Battini, Homo Italicus Orbànicus, in Thinking Democracy Now. Between Innovation and Regression, Annale Fondazione Feltrinelli 2019, Milano, Feltrinelli, pp. 181-199.
[15] T. Mann, Doktor Faustus, Milano, Mondadori, 1980, p. 50.
[16] Graziosi, Il futuro contro, cit., pp. 78-79.
[17] Ne discute in modo intelligente Mauss, La nation, cit. Alla luce dell’esperienza degli ultimi due secoli si potrebbe pensare che alle tre forme di governo classiche, democrazia, aristocrazia, e monarchia, andrebbero aggiunte due varianti, la monarchia costituzionale e la liberaldemocrazia, che sono qualcosa di più di heureux mélange.
[18] S.E. Finer, The History of Government, vol. III: Empires, Monarchies, and the Modern State, Oxford, Oxford University Press, 1999.
[19] R. McGregor, The Party: The Secret World of China’s Communist Rulers, London, Penguin, 2012. Di questi sviluppi in Russia dopo il 1991 e soprattutto sotto Putin discuto in Graziosi, L’Ucraina e Putin, cit., parte II.
Parte seconda. Discorsi, problemi, possibilità
