IL CAPPOTTO
Di Sergej Dovlatov
In un ministero... meglio non dire in quale. Non c'è nulla di più suscettibile dei
ministeri, dei reggimenti, degli uffici e, insomma, d'ogni sorta di corpo burocratico.
Al giorno d'oggi, ormai, ogni privato cittadino ritiene che lì venga offesa tutta la
società. Pare che molto recentemente un capitano di polizia non ricordo di quale città, abbia presentato un esposto in cui dice a chiare lettere che le istituzioni statali vanno in rovina e che il loro sacro nome viene pronunciato invano. E, come prova delle sue affermazioni, costui ha allegato all'esposto il grosso volume di un'opera letteraria dove, ogni dieci pagine, appare un capitano di polizia, in certi punti persino in stato d'ubriachezza. Perciò, ad evitare ogni seccatura, sarà meglio chiamare "un ministero" il ministero di cui si tratta. Dunque in "un ministero" prestava servizio "un
funzionario", un funzionario che non si può dire che fosse molto importante.
Era di bassa statura, alquanto butterato, rossiccio, persino un po' debole di vista,
con una incipiente calvizie, rughe da entrambe le parti delle guance e quel colore della faccia che si dice emorroidale... Che farci? la colpa è del clima di Pietroburgo. Quanto al grado (da noi bisogna innanzi tutto dichiarare il grado), era ciò che viene chiamato un eterno consigliere titolare, del quale, com'è noto, si sono beffati e presi gioco in abbondanza i vari scrittori che hanno la lodevole abitudine di prendersela con quelli che non possono mordere. Il cognome del funzionario era Basmackìn. Già da questo nome si vede che esso, in un tempo lontano, aveva avuto origine da una scarpa; ma quando, in quale epoca e in qual modo esso fosse derivato dalla scarpa è
assolutamente ignoto. Il padre, il nonno, il cognato, insomma assolutamente tutti i
Basmackìn andavano in giro con gli stivali, rinnovando solo tre volte all'anno le suole.
Il suo nome era: Akàkij Akakièvic. Al lettore parrà forse alquanto strano e ricercato,
ma posso assicurare che esso non era stato scelto, solo che, a causa di particolari
circostanze, non fu assolutamente possibile dare un altro nome. Avvenne
precisamente così: Akàkij Akakièvic nacque verso sera, se la memoria non mi
tradisce, il ventitré di marzo. La madre, moglie d'un funzionario e ottima donna, si
dispose, come si usa, a battezzare il bambino. Ella giaceva ancora nel letto, di fronte
alla porta, e alla sua destra stava il padrino, Ivàn Ivanòvic Eroskìn, che prestava
servizio come capufficio al senato, e la madrina, moglie d'un ufficiale di polizia,
donna di rare virtù, Arìna Semènovna Belobrjùskova. Alla genitrice proposero di
scegliere fra uno dei seguenti nomi:
Mòkkija, Sòssija, oppure di chiamarlo con il nome del martire Chozdazàt.
"No," pensò la madre, "che razza di nomi!" Per compiacerla aprirono il
calendario in un altro punto; uscirono altri tre nomi: Trifìlij, Dùla, Varachàsij!" "Ma
questo è un flagello," disse la donna, "che razza di nomi continuano a venir fuori;
davvero non li ho mai sentiti. Fosse ancora Varadàt o Varùch, ma Trifìlij e
Varachàsij!" Voltarono ancora la pagina e uscirono: Pavsikàkij e Vachtìsij.
"Beh, ormai vedo," disse la donna, "che questo è il suo destino.
Già che dev'essere così, meglio che si chiami come suo padre. Suo padre è
Akàkij e che pure il figlio sia dunque Akàkij." Così saltò fuori il nome Akàkij
Akakièvic. Il bambino venne battezzato, e durante il battesimo scoppiò a piangere e
fece una smorfia, come se avesse il presentimento di diventare un giorno consigliere
titolare….
Akàkij Akakièvic, anche se guardava qualcosa, vedeva sempre le sue righe
pulite, scritte con calligrafia regolare, e forse soltanto se un muso di cavallo, venuto
chissà di dove, gli si appoggiava su una spalla e gli soffiava dalle frogie un uragano di
vento sul collo, forse solo allora si accorgeva che non stava a metà d'una riga, ma a
metà d'una strada.
Arrivando a casa si sedeva subito a tavola, trangugiava alla svelta la sua zuppa a
base di cavoli, mangiava un pezzo di bue con la cipolla, senza rendersi conto del loro
sapore. Mangiava tutto questo insieme con le mosche e con tutto quello che Dio gli
mandava in quel momento. Quando sentiva che lo stomaco cominciava a gonfiarsi, si
alzava da tavola, tirava fuori una boccetta d'inchiostro e ricopiava qualche
incartamento che s'era portato a casa. Se non ne aveva, faceva apposta, per il proprio
piacere, una copia per sé, specialmente se l'incartamento era considerevole non tanto
per l'eleganza dello stile, quanto per il fatto che si rivolgeva a qualche personaggio
nuovo o importante.
Persino nelle ore in cui il grigio cielo di Pietroburgo si spegne completamente e
tutto il popolo impiegatizio s'è pasciuto e saziato, come ognuno può, in conformità
agli stipendi e al personale capriccio, quando tutti riposano dopo il ministeriale
scricchiolio di penne, il correre qua e là, le imprescindibili occupazioni proprie e
altrui (che l'uomo inquieto s'assegna volontariamente persino più del necessario),
quando i funzionari s'affrettano a dedicare al piacere il tempo che resta: chi è più
vivace, corre a teatro; chi in strada, dedicando il proprio tempo alla contemplazione di
certi cappellini; chi a una serata, prodigando complimenti a qualche leggiadra
ragazza, stella d'una piccola cerchia di funzionari; chi, e questo succede più spesso, se
ne va semplicemente da un amico a un quarto o terzo piano, in due piccole stanze con
un'anticamera e una cucina e certe pretese d'eleganza, una lampada o un'altra cosetta
che è costata molti sacrifici, rinunce a pranzi e a passeggiate. Insomma, anche nell'ora
in cui tutti i funzionari si sparpagliano nei piccoli alloggi degli amici a giocare un
burrascoso whist, sorseggiando il tè dai bicchieri insieme a biscotti da un copeco,
aspirando il fumo da lunghe pipe, riportando mentre si danno le carte qualche
maldicenza dell'alta società, dal che mai e in nessuna occasione può esimersi l'uomo
russo, oppure, quando non c'è altro di cui parlare, raccontando l'eterna barzelletta del
poliziotto a cui vengono a dire che è stata tagliata la coda al cavallo del monumento di
Falconet - insomma anche quando tutti corrono a distrarsi, Akàkij Akakièvic non
s'abbandonava ad alcun divertimento. Nessuno poteva dire d'averlo mai veduto a
qualche serata. Dopo aver copiato a sazietà, si metteva a letto sorridendo in anticipo al
pensiero del domani, di quel che l'indomani Dio gli avrebbe mandato da copiare.
Così trascorreva la sua pacifica esistenza un uomo che con quattrocento rubli di
stipendio sapeva essere contento della sua sorte, e avrebbe forse raggiunto così la
tarda vecchiaia se la strada della vita non fosse disseminata di vari guai non solamente
per i consiglieri titolari, ma anche per quelli segreti, effettivi, di corte e d'ogni altro
genere, e persino per quelli che non danno consigli a nessuno e da nessuno ne
prendono.
C'è a Pietroburgo un forte nemico di tutti coloro che ricevono quattrocento rubli
l'anno di stipendio o giù di lì. Questo nemico non è altri che il gelo pietroburghese,
sebbene qualcuno dica che sotto diversi aspetti sia assai salutare. Alle nove del
mattino, precisamente nell'ora in cui le strade si riempiono di coloro che si recano ai
ministeri, esso comincia a dare pizzicotti così energici e pungenti su tutti i nasi senza
distinzione, che i poveri funzionari non sanno più dove infilarli. A quest'ora, quando
anche a chi occupa le cariche più elevate duole la fronte per il gelo e vengono le
lacrime agli occhi, i poveri consiglieri titolari sono talvolta completamente indifesi.
L'unica salvezza consiste nel percorrere di corsa con il leggero paltoncino cinque o sei
strade e poi pestare per bene i piedi in anticamera fino a quando tutte le facoltà e le
doti naturali necessarie alle mansioni d'ufficio, congelatesi lungo la strada, non si
disgelano per bene.
Da qualche tempo Akàkij Akakièvic cominciava ad avvertire in modo
particolarmente acuto, sulle spalle e sulla schiena, i rigori del gelo, benché si sforzasse
di percorrere al più presto e di corsa il tragitto dalla casa all'ufficio. Alla fine si chiese
se il suo cappotto non avesse qualche difetto. A casa sua lo esaminò accuratamente e
scoprì che in due o tre posti, precisamente sulla schiena e sulle spalle, esso era
diventato leggero come un velo: il panno s'era talmente liso che ci si vedeva
attraverso e la fodera si sfilacciava.