giovedì 16 settembre 2021

L'OMBRA E LA GRAZIA Simone Weil


L'OMBRA E LA GRAZIA

Simon Weil

UN EGOISMO SENZA IO

 [...] Io spesso lo viviamo frantumato in una molteplicità di sensazioni, scomposto  in ciò su cui riflettiamo: in un libro, in un paesaggio, nel ricordo degli occhi di una persona che abbiamo amato. Siamo sempre un pò come  Vitangelo Moscarda, protagonista di "Uno, nessuno e centomila", che scopre l'inconsistenza del proprio io, attraversato da percezioni sempre mutevoli, frutto delle innumerevoli proiezioni di ciò che lo circonda, nella famiglia e nell'ambiente sociale.

"Nulla al mondo può toglierci il potere di dire Io. Nulla, eccetto l'estrema infelicità. Nulla è peggiore dell'estrema sventura che distrugge l'Io dal di fuori, perché da quel momento non può più distruggersi da sé. Che cosa avviene a coloro cui la sventura ha distrutto l'Io dal di fuori? Non è possibile aver di loro una rappresentazione diversa da quella che, dall'annientamento, ci forniscono le concezioni atee o materialistiche. Aver perduto l'Io non vuol dire che non si abbia più egoismo. Al contrario. Certo, talvolta ciò avviene, quando esiste una devozione animale, da cane. Ma, altre volte, l'essere si riduce invece all'egoismo nudo, vegetativo. Un egoismo senza l'Io." 

Non dimenticare mai che hai il mondo intero, la vita tutta davanti a te…. Che per te la vita può e deve essere più reale, più piena e gioiosa di quanto forse non lo è mai stato per nessun essere umano. Non la mutilare in anticipo con una qualsiasi rinuncia. Non ti lasciare imprigionare da nessun affetto. Preserva la tua solitudine. Il giorno, se mai verrà, che una vera amicizia ti sia concessa, non esisterà opposizione fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi è da questo segno infallibile che la riconoscerai.

L’amicizia non va cercata, nè sognata, nè desiderata, nè definita o teorizzata. L’amicizia si esercita (è una virtù). Essa semplicemente “esiste” come la bellezza. E’ un miracolo, misterioso e insieme incastonato nella realtà.

Non bisogna desiderare l’amicizia come compenso, non va inventata, non per alleviare la solitudine; non deve basarsi su visioni deformate di te e dell’altro. Molte volte vendiamo l’anima per l’amicizia ed è facile corrompere e corrompersi.

La nostra vita interiore si compiace di accogliere in folla fantasmi, costruzioni; nel sentimento invece bisogna tagliare via senza pietà tutto quanto vi è di immaginario e permettersi solo ciò che corrisponde a scambi reali.

Per questo bisogna vietarsi “slanci di cuore” che non trovano nell’altro ugual risposta. Non bisogna pretendere di venir capiti quando ancora non ci siamo chiariti a noi stessi.

Non ingannarsi sull’altro significa anche non ingannarlo e non pretendere da lui più di quanto può dare.

Più dai, più dipendi dagli altri per la tua felicità e infelicità. E una parola o un gesto possono darti più felicità di quanta tu non ne hai data in un anno di dedizione. Ti metti in una situazione di mendicante, di cane che aspetta l’osso.

E infine per un meccanismo inevitabile, non si può dipendere dagli esseri umani senza aspirare a tiranneggiarli, senza aspirare a piegarli ai nostri scopi, compresi quelli più nobili o del cuore.[...]

È uno splendido pensiero di Simone Weil, lucido, illuminante....

Nota

"L'ombra e la grazia" è una raccolta di pensieri, aforismi, sentenze e meditazioni che Simone Weill definì "investigazioni spirituali". Il libro nasce come scelta dalle pagine del "diario intimo" che l'autrice tenne tra il 1940 e il 1942. Vive, in ogni suo pensiero, un profondo "senso universale" illuminato da una luce che trae origine dall'eternità, dall'assoluto, dalla certezza che soltanto l'amore sovrannaturale sia libero, lecito e naturale. In Simone Weil, "la giovane ebrea che insegnava filosofia", la fede cristiana fu una tentazione perenne, ma anche lacerazione interiore, ansia protesa verso una verità superiore raggiungibile soltanto con la rinuncia, il distacco, il sacrificio.


L'OMBRA E LA GRAZIA


LA PESANTEZZA E LA GRAZIA

Tutti i moti naturali dell'anima sono retti da leggi analoghe a quelle della pesantezza materiale. Solo la grazia fa eccezione.

Bisogna sempre aspettarsi che le cose avvengano conformemente alla pesantezza; salvo intervento del sovrannaturale.

Due forze regnano sull'universo: luce e pesantezza.

Pesantezza. In genere quel che ci si aspetta dagli altri è determinato dagli effetti della pesantezza in noi; quel che noi riceviamo da loro è determinato dagli effetti della pesantezza in essi. Qualche volta (per caso) questi due fatti coincidono; spesso no.

Come mai accade che, dal momento in cui un essere umano dimostra di aver poco o punto bisogno di un altro, quest'ultimo si allontana? Pesantezza.

Lear, tragedia della pesantezza. Tutto ciò che si chiama bassezza è un fenomeno di pesantezza. D'altronde, sta a indicarlo il termine di: bassezza.

L'oggetto di un'azione e il livello dell'energia che lo alimenta; cose distinte.

Bisogna fare una data cosa. Ma dove trovare l'energia necessaria? Una azione virtuosa può disperdersi, se al medesimo livello non c'è energia disponibile.

Ciò che è basso e ciò che è superficiale sono al medesimo livello. Colui ama violentemente, ma bassamente, frase possibile. Ama profondamente, ma bassamente: frase impossibile.

Se è vero che la medesima sofferenza è molto più difficile a sopportare per un motivo elevato che per un motivo volgare (quella gente che restava in piedi, immobile, dall'una alle otto del mattino per avere un uovo, l'avrebbe fatto molto difficilmente per salvare una vita umana), una virtù volgare può essere, sotto un certo riguardo, più resistente di fronte alle difficoltà, alle tentazioni e alle sventuredi una virtù elevata. Soldati di Napoleone. Da ciò l'uso della crudeltà per mantenere o rialzare il morale dei soldati. Non dimenticarlo, in relazione a possibili cedimenti.

È questo un caso particolare della legge che mette generalmente la forza dalla parte della bassezza. La pesantezza ne è quasi un simbolo. La medesima azione, se il movente ne è basso, è più facile che se è, invece, elevato. I moventi volgari racchiudono più energia di quelli elevati. Problema: come trasferire ai moventi elevati l'energia devoluta a quelli volgari? Non dimenticare che in certi momenti dei miei mal di testa, quando la crisi cresceva, avevo un intenso desiderio di far soffrire un altro essere umano colpendolo precisamente nel medesimo punto della fronte. Desideri analoghi, frequentissimi fra gli uomini.

Spesso, in quello stato, ho ceduto almeno alla tentazione di dire parole che potessero offendere. Obbedienza alla pesantezza. Il massimo peccato. Si corrompe così la funzione del linguaggio, che è quella di esprimere i rapporti fra le cose.

Attitudine supplicante: necessariamente debbo rivolgermi verso altro da me, se si tratta di liberarsi da se medesimo.

Tentare questa liberazione mediante la propria energia personale, sarebbe fare come la mucca che tira sulle sue pastoie e così cade in ginocchio. Allora si libera in sé energia, con una violenza che sempre più ci degrada. Compensazione nel senso della termodinamica, cerchio infernale dal quale si può essere liberati solo per volontà celeste.

L'uomo ha la sorgente della sua energia morale all'esterno, come quella della energia fisica (nutrimento, respirazione). Generalmente la trova: e ciò lo illude - anche nei riguardi del proprio fisico - che il suo essere porti in sé il principio della propria conservazione. Solo la privazione fa sentire il bisogno, in caso di privazione, non gli si può impedire di dirigersi verso qualsiasi oggetto commestibile.

C'è un solo rimedio: una clorofilla che permetta di nutrirsi di luce. Non giudicare. Tutte le colpe sono eguali. C'è una colpa sola: non aver la capacità di nutrirsi di luce. Perché, abolita questa capacità, tutte le colpe sono possibili.

Mio nutrimento è fare la volontà di Colui che mi manda. Non c'è bene fuor di questa capacità.

Scendere con un moto in cui la pesantezza non intervenga affatto... La pesantezza fa discendere, l'ala fa salire... quale ala alla seconda potenza può fare discendere senza pesantezza?

La creazione è provocata dal moto discendente della pesantezza, dal moto ascendente della grazia e dal moto discendente della grazia alla seconda potenza.

La grazia è la legge del moto discendente.

Abbassarsi significa salire nel senso della pesantezza morale. La pesantezza morale ci fa cedere verso l'alto.

Una sventura troppo grande mette un essere umano al di sotto della pietà: disgusto, orrore e disprezzo.

La pietà scende fino a un certo livello e non al di sotto. Come fa la carità a scendere anche al di sotto?

Quelli che sono caduti tanto in basso hanno forse pietà di se stessi?

VUOTO E COMPENSAZIONE




Meccanica umana. Chiunque soffre cerca di comunicare la sua sofferenza - sia maltrattando, sia provocando la pietà - per diminuirla; e, così facendo, la diminuisce veramente. Colui che è più in basso d'ogni altro, che nessuno compiange, che non ha la possibilità di maltrattare nessuno (se non ha figli, se non ha nessuno che l'ami), la sofferenza gli rimane dentro e lo avvelena. Una cosa simile è perentoria come la pesantezza. Come è possibile liberarsene? Come è possibile liberarsi da quel che è simile alla pesantezza?

Tendenza ad espandere il male fuor di sé; e io l'ho ancora! Gli esseri e le cose non mi sono sacri abbastanza. Così potessi non macchiare io nulla, quand'anche fossi tutta trasformata in fango. Non insozzare nulla, nemmeno nel pensiero. Nemmeno nei momenti peggiori potrei distruggereuna statua greca o un affresco di Giotto. Perché lo farei dunque con un'altra cosa? Perché, per esempio, con un istante della vita d'un essere umano, che potrebb'essere un istante felice? Impossibile perdonare a chi ci ha fatto del male, se il male ci abbassa. Bisogna pensare che non ci ha abbassato ma che ha rivelato il nostro reale volto. Per questo, eccetto i periodi di instabilità sociale, i rancori dei miseri hanno di mira i loro simili.

È questo un fattore di stabilità sociale.

Tendenza ad espandere la sofferenza fuor di sé. Se, per eccesso di debolezza, non si può né provocar la pietà né far del male ad altri, si fa del male alla rappresentazione dell'universo in sé.

Ogni cosa bella e buona è allora come un'ingiuria.

Far del male ad altri significa riceverne qualcosa.

Che cosa? Che cosa si è guadagnato (e si dovrà restituire) quando si è fatto del male? Ci si è accresciuti. Ci si è distesi. Si è. riempito un vuoto in se stessi creandolo, in un'altra persona. Poter fare impunemente del male agli altri - per esempio adirarsi con un inferiore, quando costui sia obbligato a tacere - significa risparmiarsi un dispendio d'energia, dispendio che viene ad essere, così, assunto dall'altro. Accade lo stesso con la soddisfazione illegittima di un qualsiasi desiderio. L'energia che si è economizzata è così immediatamente degradata. Perdonare. Non si può. Quando qualcuno ci ha fatto del male, si creano in noi determinate reazioni. Il desiderio della vendetta è un desiderio d'equilibrio essenziale. Cercare l'equilibrio su di un altro piano. Bisogna andare da soli fino a quel limite. Là si tocca il vuoto. (Aiutati che il ciel ti aiuta... ) Mali di testa. A un certo punto: dolore diminuito proiettandolo nell'universo; ma l'universo si altera. Dolore più vivo, una volta ricondotto al suo luogo di origine; ma qualcosa in me non soffre e rimane in contatto con un universo non alterato. Agire allo stesso modo con le passioni. Farle discendere, ricondurle ad un punto determinato; e disinteressarsene.

In particolare, trattar così tutti i dolori. Impedire che avvicinino le cose. La ricerca dell'equilibrio è male, perché è immaginaria. La vendetta. Anche se in realtà si uccide o si tortura il proprio nemico ciò è in un certo senso immaginario.

L'uomo che viveva per la sua città, la sua famiglia, i suoi amici, per arricchirsi, per migliorare la sua situazione sociale, ecc. - una guerra, ed eccolo menato schiavo; e da quel momento, per sempre, deve sfinirsi fino al limite estremo delle sue forze, solo per sopravvivere.

Una cosa simile è orrenda, è impossibile; e perciò non si presenta a colui nessuna finalità tanto miserabile che non le si rivolga appassionatamente; foss'anche quella di far punire lo schiavo che lavora al suo fianco. Non ha più la scelta dei suoi fini. Uno qualsiasi è come un ramo per chi annega.

Quelli che avevano avuta distrutta la città e che erano condotti in schiavitù non avevano né più passato né avvenire: di quali oggetti potevano colmare i loro pensieri? Di menzogne; e dei più infimi, dei più pietosi desideri, pronti forse a rischiar piuttosto la crocifissione per rubare un pollo di quanto non fossero stati pronti, prima, alla morte nel combattimento che avrebbe dovuto difendere la loro città. Di certo, anzi; altrimenti quegli orrendi supplizi non sarebbero stati necessari.

Oppure, bisognava poter sopportare il vuoto nel pensiero.

Per aver la forza di contemplare la sventura quando si è sventurati, occorre il pane sovrannaturale.

Il meccanismo che, in una situazione troppo dura, produce l'avvilimento, è dovuto al fatto che l'energia fornita dai sentimenti elevati è - generalmente - limitata; se la situazione esige che si vada oltre quel limite, bisognerà ricorrere a sentimenti bassi (paure, desideri, gusto del primato, degli onori esteriori) più ricchi di energia.

Questa limitazione è la chiave di molti rivolgimenti.

Tragedia di coloro che, essendosi inoltrati per amor del bene in una via dove c'è da soffrire, giungono dopo un certo tempo ai propri confini; e si degradano. Una pietra sul cammino. Gettarsi sulla pietra, come se, a partire da una certa intensità di desiderio, essa non dovesse più esistere. O andarsene come se fossimo noi, a non esistere.

Il desiderio racchiude in sé qualcosa dell'assoluto e se fallisce (una volta esaurita l'energia) l'assoluto si trasferisce su l'ostacolo. Stato d'animo dei vinti, degli oppressi.

Afferrare (in ogni cosa) che c'è un limite e che non sarà possibile oltrepassarlo senza aiuto sovrannaturale (o, altrimenti, di pochissimo) e pagandolo successivamente con un abbassamento terribile.

L'energia liberata dalla sparizione di oggetti che costituivano dei moventi tende sempre ad andare più bassa.»

I    sentimenti bassi liberano energia già degradata.) Ogni forma di ricompensa è una degradazione di energia.

Il    compiacimento di sé dopo una buona azione (o un'opera d'arte) è degradazione di energia superiore. Ecco perché la mano destra deve ignorare ciò che fa la sinistra. Una ricompensa affatto immaginaria (un sorriso di Luigi XIV) è l'equivalente esatto di quel che si è speso, - al contrario delle ricompense reali che, in quanto tali, sono al di sotto o al di sopra. Così soltanto ì vantaggi im- maginarì forniscono l'energia per sforzi illimitati. Ma bisogna che Luigi XIV sorrida davvero; se non sorride, indicibile privazione. Un re può pagare solo ricompense quasi sempre immaginarie; altrimenti sarebbe insolvibile.

Ad un certo livello, c'è un equivalente nella religione. Non potendo ricevere il sorriso di Luigi XIV, ci si fabbrica un Dio che ci sorrida.

Oppure ci si loda da sé. Una ricompensa equivalente ci è necessaria. Inevitabile come la pesantezza.

Una persona amata che delude. Gli ho scritto. Impossibile che non mi risponda quel che ho detto a me stessa in nome suo.

Gli uomini ci debbono quel che noi immaginiamo ci daranno a rimetter loro questo debito.

Accettare che essi siano diversi dalle creature della, nostra immaginazione, vuol dire imitare la rinuncia di Dio.

Anch'io sono altra da quello che avrei voluto essere.

Saperlo è il perdono.

ACCETTARE IL VUOTO





« Noi crediamo per tradizione, per quanto riguarda gli dèi, e vediamo per esperienza, per quanto riguarda gli uomini, che sempre, per una necessità di natura, ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone » (Tucidide). Come un gas, l'anima tende ad occupare la totalità dello spazio che le è accordato. Un gas che si restringesse e che lasciasse un vuoto sarebbe contrario alla legge della entropia. Non succede così col Dio dei cristiani. È un Dio sovrannaturale mentre Geova è un Dio naturale.

Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c'è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo.

Necessità di una ricompensa, di ricevere l'equivalente di quel che si da. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d'aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire.

Accade lo stesso con la remissione dei debiti ,(cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno, fatto. ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo , caso si accetta un vuoto in se stessi.

Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l'energia per un atto che non ha contropartita? L'energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura.

L'ammirazione, la pietà (l'unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno.

Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male.

Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte.

L'uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d'intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e per sino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi.

DISTACCO





Per raggiungere il distacco totale, non basta l'infelicità. È necessaria una infelicità senza consolazione. Bisogna non avere consolazione. Nessuna consolazione rappresentabile. Scende allora la consolazione ineffabile.

Rimettere i debiti. Accettare il passato, senza chiedere compenso all'avvenire.

Fermare il tempo nell'istante. È anche l'accettazione della morte.

« Si è vuotato della sua divinità. » Vuotarsi del mondo. Rivestire la natura di uno schiavo. Ridursi al punto che si occupa nello spazio e nel tempo. A nulla.

Spogliarsi della sovranità immaginaria sul mondo. Solitudine assoluta. Allora si possiede la verità del mondo»,

Due modi di rinunciare ai beni materiali.

Privarsene in vista di un bene spirituale.

Concepirli e sentirli come condizioni di beni spirituali esempio: la fame, la stanchezza, l'umiliazione oscurano l'intelligenza e disturbano la meditazione) e, nondimeno, rinunciarvi.

Questa seconda specie di rinuncia è sola nudità di spirito.

Anzi, i beni materiali sarebbero meno pericolosi se comparissero soli e non legati a beni spirituali.

Rinunciare a tutto ciò che non è la grazia; e non desiderare la grazia. L'estinzione del desiderio (buddismo) - o il distacco l' amor fati - o il desiderio del bene assoluto, è sempre la stessa cosa: svuotare di ogni contenuto il desiderio, la finalità, desiderare a vuoto, desiderare senza nessuna aspi-, razione.

Distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere.

L'esperienza prova che questa attesa è esaudita. Si raggiunge allora il bene assoluto.

In ogni cosa, oltre l'oggetto particolare, qualunque esso sia, volere a vuoto, volere il vuoto. Perché è un vuoto, per noi, quel bene che non possiamo né rappresentarci né definire. Ma quel vuoto è più pieno di tutti i pieni. Se si giunge là, si è in salvo; perché Iddio colma il vuoto. Non si tratta affatto di un processo intellettuale, nel senso che diamo oggi a questa parola. L'intelligenza non ha nulla da trovare, deve appena sbarazzare il terreno. È adatta solo ai compiti servili.

Il bene è per noi un nulla poiché nessuna cosa è buona. Ma questo nulla non è irreale. Tutto quel che esiste, commisurato ad esso, è irreale. Scartare le convinzioni che colmano i vuoti, che addolciscono le amarezze. Quella della immortalità. Quella dell'utilità dei peccati: etiam peccata. Quella dell'ordine provvidenziale degli avvenimenti - in una parola, le « consolazioni » che vengono cercate di solito nella religione.

Amare Iddio attraverso la distruzione di Troia e di Cartagine; e senza consolazione. L'amore non è consolazione, è luce.

La realtà del mondo è fatta da noi, col nostro attaccamento.

E la realtà dell'Io trasportata da noi nelle correnti nostre ha fatto la realtà esteriore. Questa può essere percepita solo col distacco. Quand'anche non rimanesse che un solo filo, vi sarebbe ancora attaccamento.

La sventura che costringe ad affezionarsi ad oggetti miserabili svela il carattere miserabile dell'attaccamento, più chiara ne diviene la necessità del distacco. L'attaccamento fabbrica illusioni; e chiunque vuole reale dev'essere distaccato. Da quando si sa che qualcosa è reale, non è più possibile essergli affezionati. L'attaccamento non è altro che l'insufficienza nel sentimento della realtà. Si è legati al possesso di una cosa perché si crede che, se si cessa di possederla, quella non esista più. Molte persone non sentono con tutta la loro anima che c'è una totale differenza fra l'annientamento di una città e il loro esilio definitivo da quella medesima città.

La miseria umana sarebbe intollerabile se non fosse diluita nel tempo. Impedire che si diluisca perché sia intollerabile.

« E quando si furono saziati di lagrime » (Iliade) -ancora un mezzo per rendere tollerabile la peggiore sofferenza.

Non bisogna piangere per non essere consolati *.

Ogni dolore che non si distacca è un dolore perduto. «Mia di più orribile; deserto freddo, anima che si dissecca. Ovidio. Schiavi di Plauto.

Non pensare mai ad una cosa o ad un essere che si ama e che non si ha sotto gli occhi senza pensare che forse quella cosa è distrutta o quell'essere è morto. * « Beati quelli che piangono » ha detto tuttavia Gesù Cristo. Ma Simone Weil condanna solo le lagrime dovute alla privazione dei beni temporali e versate dall'uomo su sé medesimo (N. di Thibon).

Far si che un simile pensiero non dissolva il senso della realtà, ma lo renda più intenso.

Ogni volta che si dice: « Sia fatta la tua volontà », rappresentarsi nel loro insieme tutte le infelicità possibili.

Due modi di uccidersi: suicidio o distacco.

Uccidere col pensiero tutto quel che si ama: solo modo di morire. Ma soltanto quel che si ama. (Chi non odia suo padre o sua madre... Ma: amate i vostri nemici--) Non desiderare che quel che si ama sia immortale. Davanti ad un essere umano, qualunque esso sia,, non desiderarlo né immortale né morto.

L'avaro, per troppo desiderio del suo tesoro, se ne priva. Se è possibile porre tutta la propria felicità in una cosa nascosta sotto terra, perché non farlo in Dio?

Ma quando Dio è divenuto altrettanto pieno di significato come lo è il tesoro per l'avaro, ripetersi fortemente che egli non esiste. Sperimentare che lo si ama anche se non esiste.

Egli è colui che, mediante l'opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro. Elettra che piange Oreste morto. Se si ama Iddio pensando che non esiste, egli manifesterà la sua esistenza.

L'IMMAGINAZIONE CHE CI COLMA





L'immaginazione lavora continuamente a chiudere tutte le fessure dove la grazia potrebbe passare.

Ogni vuoto (non accettato) produce odio, amarezza, rancore. Il male che si augura a ciò che si odia, e che si immagina, ristabilisce l'equilibrio. I miliziani di Testamento Spagnuolo che inventavano vittorie per sopportare di morire, esempio della immaginazione che colma il vuoto. Benché non si debba guadagnar nulla dalla vittoria, si sopporta di morire per una causa che sarà vittoriosa, non per una causa che sarà vinta. Sopportarlo per qualcosa che sia completamente spoglia di forza sarebbe sovrumano (discepoli del Cristo). Il pensiero della morte esige un contrappeso; e questo contrappeso - a parte la grazia - può essere solo una menzogna.

L'immaginazione che colma i vuoti è essenzialmente menzognera. Essa esclude la terza dimensione, perché solo gli oggetti reali sono nelle tre dimensioni. Essa esclude i rapporti multipli.

Cercare di definire le cose che, pur accadendo effettivamente, rimangono, in un certo senso, immaginarie. Guerre. Delitti. Vendette. Sciagure estreme.

I delitti, in Spagna, erano effettivamente commessi; eppure somigliavano a semplici vanterìe.

Realtà che non hanno dimensioni più vere di quelle del sogno.

Nel male, come nel sogno, non ci sono letture multiple. (Per il significato di questa parola nel lessico di Simone Weil, cfr. pp. 140 ss.)

Da ciò la semplicità dei criminali.

Delitti piatti come sogni, e da ambo le parti: quella del carnefice e quella della vittima. Ci può essere qualcosa di più orribile della morte in un incubo? Compensi. Mario immaginava la vendetta futura. Napoleone pensava alla posterità. Guglielmo II voleva una tazza di té. La sua immaginazione non era legata alla potenza tanto fortemente da poter attraversare gli anni: si volgeva verso una tazza di té.

Adorazione del popolo per i grandi, nel secolo XVII (La Bruyère). Era un risultato della immaginazione che colma i vuoti, risultato scomparso quando vi si è sostituito il denaro. Due risultati volgari; ma, il denaro, ancor più dell'altro. In qualsiasi situazione, se si ferma l'immaginazione si forma un vuoto (i poveri in ispirito).

In qualsiasi situazione (ma, in talune, a prezzo di quali abbassamenti!) l'immaginazione può colmare il vuoto. Così avviene che gli esseri medi possano essere prigionieri, schiavi, prostitute; e attraversare senza purificazione qualsiasi sofferenza.

Sospendere continuamente in se stesso il lavoro della immaginazione che colma i vuoti.

Se si accetta qualsiasi vuoto, qual colpo del destino può impedire di amare l'universo?

Si è certi, che qualunque cosa avvenga, l'universo è pieno.

RINUNCIA AL TEMPO





II tempo è una immagine dell'eternità; ma è anche un Ersatz [surrogato] dell'eternità.

L'avaro cui è stato tolto il tesoro. Ciò che gli è stato rubato è passato congelato. Passato e avvenire, sole ricchezze dell'uomo.

L'avvenire che colma i vuoti. Talora anche il passato sostiene questa parte (Io ero, ho fatto...). In altri casi, l'infelicità rende intollerabile il pensiero della felicità; priva così l'infelice del suo passato. (Nessun maggior dolore... ( In italiano nel testo) (N. d.T.).

Il passato e l'avvenire. Ostacolano l'effetto salutare della sventura fornendo un campo illimitato ad immaginarie elevazioni. Per questo la rinuncia al passato e all'avvenire è la prima delle rinunce.

Il presente non accoglie la finalità. E nemmeno l'avvenire, perché è solo ciò che sarà presente. Ma non lo si sa. Se si punta sul presente la freccia di quel desiderio che in noi corrisponde alla finalità, essa travalica fino all'estremo. Questo è l'uso della disperazione che distoglie dall'avvenire.

Quando si è delusi da un piacere che ci si aspettava e che sopraggiunge, la causa della delusione è nell'attesa di qualcosa dell'avvenire. E una volta giunta la cosa, ecco che fa parte del presente. Bisognerebbe che l'avvenire fosse qui, senza cessar d'essere l'avvenire. Assurdità di cui solo l'eternità ci guarisce.

Il tempo e la caverna. Uscire dalla caverna, essere distaccato consiste nel non orientarsi più verso l'avvenire.

Un modo di purificazione: pregare Iddio, non solo in segreto rispetto agli uomini, ma anche pensando che Dio non esiste. (Dio non esiste infatti come le cose create che costituiscono, per le nostre facoltà naturali, l'unico oggetto di esperienza. Così, il contatto con la realtà sovrannaturale è vissuto anzitutto come una esperienza .del nulla) (N. di Thibon).

Pietà verso i morti: fare tutto per quel che non esiste.

Il dolore della morte altrui è questo dolore del vuoto, dello squilibrio. Sforzi ormai senza oggetto, dunque senza ricompensa. Se vi supplisce l'immaginazione, abbassamento. « Lasciate i morti seppellire i loro morti. » E non è lo stesso, forse, con la propria morte? L'oggetto, la ricompensa sono nell'avvenire. Privazione di avvenire, vuoto, squilibrio. Per questo « filosofare è imparare a morire ». Per questo « pregare è come una morte ».

Quando il dolore e lo sfinimento giungono al punto di far nascere nell'anima il senso della perpetuità, contemplando questa perpetuità con accettazione e amore si viene strappati via fino all'eternità.

DESIDERARE SENZA OGGETTO





La purificazione è la separazione del bene e della cupidigia.

Scendere alla sorgente dei desideri per strappare l'energia al suo proprio oggetto. Là i desideri sono veri in quanto energia; quel che è falso, è l'oggetto. Ma strappo indicibile nell'anima, alla separazione di un desiderio e del suo oggetto. Se si discende in se stessi si trova che si possiede esattamente quel che si desidera.

Se si desidera una data persona (morta) si desidera un essere particolare, limitato; quindi, necessariamente, un mortale; e si desidera quell'essere, quell'essere, che... ecc, insomma, quell'essere che è morto quel dato giorno a quell'ora. E lo si ha, morto.

Se si desidera del denaro, si desidera una moneta (istituzione), qualcosa che non può essere acquisito se non in una o in un'altra determinata situazione, dunque lo si desidera solo nella misura in cui... Ora, in questa misura, lo si ha. La sofferenza, il vuoto sono, in casi simili, il modo di esistenza degli oggetti del desiderio. Scostato il velo di irrealtà, si vedrà ch'essi ci sono offerti così. Quando lo si capisce, si soffre ancora; ma si è felici. Giungere a sapere esattamente che cosa abbia perduto l'avaro cui è stato rubato il tesoro; ci sarebbe molto da imparare. Lanzun e il titolo di capitano dei moschettieri; preferiva essere prigioniero e capitano dei moschettieri, piuttosto che libero e non capitano. Sono degli abiti. « Ed ebbero vergogna di essere nudi. »

Perdere una persona cara: si soffre che il morto, l'assente sia diventato qualcosa di immaginario, di falso. Ma il desiderio che si ha di lui non è immaginario. Scendere in sé medesimi, dove abita quel desiderio che non è immaginario. Fame: si immaginano dei cibi; ma anche la fame in sé è reale. Impadronirsi della fame. La persona del morto è immaginaria, ma la sua assenza è reale; questa è ormai il suo modo di apparire.

Non bisogna cercare il vuoto, perché sarebbe tentare Iddio contar sul pane sovrannaturale per colmarlo. Non bisogna neppure fuggirlo.

Il vuoto è la suprema plenitudine, ma l'uomo non ha il diritto di saperlo. L'ha provato Cristo, ignorandolo affatto, una volta. Una parte di me deve saperlo; ma le altre no, perché se lo sapessero nel loro basso modo, non ci sarebbe più vuoto. Il Cristo ha avuta tutta la miseria umana, eccetto il peccato. Ma ha avuto tutto quel che rende l'uomo capace di peccato. Quel che rende l'uomo capace di peccato, è il vuoto. Tutti i peccati sono tentativi per colmar dei vuoti. Così la mia vita piena di impurità è prossima alla sua perfettamente pura; ed è così anche per vite molto più basse. Per quanto io cada in basso, non mi allontanerò molto da lui. Ma questo, se cado, non potrò più saperlo.

Stretta di mano di un amico riveduto dopo lunga assenza. Non noto neppure se, per il senso del tatto, è un piacere o un dolore. Come il cieco sente direttamente la presenza dell'amico. La medesima cosa accade con le circostanze della vita, qualunque esse siano; con Dio. Questo implica che non bisogna mai cercare una consolazione al dolore. Perché la felicità è al di là del regno della consolazione e del dolore. È percepita con un altro senso, come la percezione degli oggetti con la punta di un bastone o di uno strumento è altra da quella che si ha col tatto propriamente detto. Questo altro senso si forma spostando l'attenzione mediante un allenamento cui partecipano l'anima tutta intera e il corpo.

Per questo si legge nel Vangelo: « Io vi dico che costoro hanno ricevuto il loro salario ». Non ci deve esserecompensazione. Il vuoto nella sensibilità trasporta al di là della sensibilità.

Rinnegamento di san Pietro. Dire al Cristo: Ti resterò fedele, voleva già dire rinnegarlo, perché voleva dire supporre in sé e non nella grazia la sorgente della fedeltà. Fortunatamente, siccome egli era un eletto, quel rinnegamento è divenuto manifesto per tutti e per lui. Ma in quante altre persone avvengono simili vanterie - ed essi non comprendono mai.

Era difficile esser fedele al Cristo. Era una fedeltà a vuoto. Molto più facile esser fedele fino alla morte a Napoleone. Molto più facile per i martiri, più tardi, esser fedeli, perché c'era già la Chiesa, una forza, con promesse temporali. Si muore per quel che è forte, non per quel che è debole; o almeno per quel che, essendo momentaneamente debole, serba una aureola di forza. La fedeltà a Napoleone quando era a Sant'Elena non era una fedeltà a vuoto. Morire per quel che è forte fa perdere alla morte la sua amarezza. E, al tempo stesso, tutto il suo valore. Supplicare un uomo, è un tentativo disperato per far passare a forza di intensità il proprio sistema di valori nello spirito di un'altra persona. Supplicare Iddio è il contrario: un tentativo per trasferire i valori divini nell'anima propria. Invece di pensare più intensamente che si può i valori cui si è legati, è un vuoto interiore.

L'IO






Non possediamo nulla al mondo perché il caso può toglierci tutto eccetto il potere di dire Io. Quel che bisogna dare a Dio, cioè distruggere, è questo. Non c'è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, eccetto la distruzione dell'Io.

Offerta. Si può offrire solo l'Io. E tutto quel che si chiama offerta è soltanto una etichetta posta sopra una rivendicazione dell'Io.

Nulla al mondo può toglierci il potere di dire Io. Nulla, eccetto l'estrema infelicità. Nulla è peggiore dell'estrema sventura che distrugge l'Io dal di fuori, perché da quel momento non può più distruggersi da sé. Che cosa avviene a coloro cui la sventura ha distrutto l'Io dal di fuori? Non è possibile aver di loro una rappresentazione diversa da quella che, dall'annientamento, ci forniscono le concezioni atee o materialistiche. Aver perduto l'Io non vuol dire che non si abbia più egoismo. Al contrario. Certo, talvolta ciò avviene, quando esiste una devozione animale, da cane. Ma, altre volte, l'essere si riduce invece all'egoismo nudo, vegetativo. Un egoismo senza l'Io.

Basta si sia iniziato il processo di distruzione dell'Io per rendere innocua ogni sventura. Perché l'Io non può essere distrutto da una pressione esterna senza una dura rivolta. Se ci si rifiuta a questa rivolta per amor di Dio, allora la distruzione dell'Io non vien prodotta dal di fuori bensì dal di dentro.

Dolore che redime. Quando l'essere umano è in stato di perfezione; quando, mercé l'aiuto della grazia, ha completamente distrutto in se stesso l'Io; se precipita allora a quel grado di sventura che corrisponderebbe per lui alla distruzione dell'Io dall'esterno, ecco allora la plenitudine della croce. La sventura non può più distruggere in lui l'Io, perché in lui l'Io non esiste più, essendo interamente scomparso ed avendo lasciato il posto a Dio. Ma la sventura produce un effetto equivalente, sul piano della perfezione, alla distruzione esterna dell'Io. Produce l'assenza di Dio. « Mio Dio, perché mi hai abbandonato? »

Che cos'è quest'assenza di Dio prodotta dalla sventura suprema nell'anima perfetta?

Qual è il valore in essa contenuto e chiamato dolore che redime?

Il dolore che redime è quello per cui il male ha realmente la pienezza dell'essere nell'intera misura in cui può riceverla.

Mediante il dolore che redime Dio è presente nel male supremo. Perché l'assenza di Dio è il modo di presenza divina che corrisponde al male - l'assenza sentita come tale. Chi non ha Dio in sé non può sperimentarne l'assenza. È questa la purezza, la perfezione, la pienezza, l'abisso del male. Mentre l'inferno è un falso abisso (cfr. Thi- bon). L'inferno è superficiale. L'inferno è il nulla che ha la pretesa dell'essere e ne da l'illusione. La distruzione affatto esterna dell'Io è un dolore quasi infernale. La distruzione esterna, cui l'anima si associa per amore, è dolore espiatorio. La produzione di assenza di Dio nell'anima completamente vuotata di se stessa per amore è dolore che redime. Nella sventura, l'istinto vitale sopravvive agli affetti strappati e si avvinghia ciecamente a tutto quel che può servirgli da supporto, come una pianta fa con i suoi viticci. La riconoscenza (se non in una forma volgare), la giustizia non sono concepibili in questo stato. Schiavitù. Non c'è più la quantità supplementare di energia che serve di supporto al libero arbitrio, e mediante la quale l'uomo si distanzia. La sventura, sotto questo punto di vista, è ripugnante come lo è sempre la vita messa a nudo, come un moncherino, come il brulichio degli insetti. La vita informe. In questi casi, la sopravvivenza è l'unico attaccamento residuo. È qui appunto che ha inizio l'estrema sventura; quando tutti gli affetti sono sostituiti da quello di sopravvivenza. Allora la forza di attaccamento compare a nudo, senz'altro oggetto che sé medesima. Inferno. Per questo gli infelici non trovano nulla che sia più dolce della vita, anche quando la vita loro non è in nulla preferibile alla morte.

In questa situazione, accettare la morte, significa aver raggiunto il distacco totale.

Semi-inferno sulla terra. L'estremo sradicamento nella sventura. L'ingiustizia umana fabbrica, in genere, non martiri, bensì semi-dannati. Gli esseri caduti nel semi- inferno sono come l'uomo spogliato e ferito dai ladri. Hanno perduto l'abito del carattere.

La sofferenza più grande, che lasci sussistere qualche radice è ancora ad una infinita distanza dal semi- inferno.

Quando ci si rende utili a persone così sradicate, e si ricevono in cambio cattive maniere, ingratitudine, tradimento, si subisce semplicemente una piccola parte della loro sventura. Si ha il dovere di esporvisi, in una misura limitata, come si ha il dovere di esporsi alla infelicità. Quando accade, bisogna sopportare, come si sopporta l'infelicità, senza riferire la cosa a persone determinate, perché infatti non vi si riferisce. Nell'infelicità quasi infernale, come nella perfezione, c'è qualcosa di impersonale.

Non si può far nulla, assolutamente nulla, per coloro in cui

Io è morto. Ma non si sa mai, in un essere umano determinato, se l'Io è morto o solo inanimato. Se non è morto, l'amore può rianimarlo, come se lo pungesse, ma solo l'amore completamente puro, senza la minima traccia di condiscendenza, perché la minima sfumatura di disprezzo precipita verso la morte.

Quando l'Io è ferito dall'esterno, per prima cosa si rivolta con estrema amarezza, come un animale che si dibatte. Ma quando l'Io è quasi morto, desidera esser finito e si lascia venir meno. Se allora l'amore lo risveglia, è un acutissimo dolore che genera ira contro chi l'ha provocato. Da ciò, negli esseri degradati, le reazioni (apparentemente inspiegabili) di vendetta contro chi ha fatto loro del bene. Accade anche che in colui che fa del bene l'amore non sia puro. Allora l'Io risvegliato dall'amore ricevendo subito, dal disprezzo, una nuova ferita, provoca l'odio più amaro, odio legittimo.

In chi, invece, l'Io è totalmente morto, non c'è nessun imbarazzo per l'amore di cui è fatto oggetto. Si lascia fare; come i cani e i gatti che ricevono nutrimento, calore, e carezze e, come quelli, è avido di riceverne il più possibile. Secondo i casi, si affeziona come un cane o si lascia fare, con una specie di indifferenza, come un gatto. Beve senza il minimo scrupolo tutta l'energia di chiunque si occupi di lui.

Disgraziatamente, ogni opera caritatevole rischia di avere come clienti una maggioranza di persone senza scrupolio, soprattutto, esseri in cui l'Io è stato ucciso.

L'Io è ucciso tanto più presto quanto più debole è il carattere di colui che subisce la sventura. Più esattamente, la sventura limite, la sventura distruttrice dell'Io si situa più o meno lontano secondo la tempra del carattere. Più si situa lontano più si dice che il carattere è forte. Il collocamento più o meno lontano di questo limite: probabilmente un fatto di natura come l'attitudine alla matematica, e chi, non avendo nessuna fede, è fiero di aver serbato un « morale elevato » in circostanze difficili non ha maggior ragione dell'adolescente inorgoglito dalla propria abilità per la matematica. Chi crede in Dio corre il rischio di una illusione ancora maggiore: quella cioè di attribuire alla grazia quel che è soltanto un effetto di natura essenzialmente meccanica.

L'angoscia della sventura estrema è la distruzione esterna dell'Io. Arnolfo, Fedra, Licaone. Si ha ragione di gettarsi in ginocchio, di supplicare bassamente, quando la morte violenta che sta per abbattersi deve uccidere l'Io dall'esterno prima ancora che la vita sia distrutta.

« Anche Niobe dai bei capelli ha pensato a mangiare. » Sublime come lo spazio negli affreschi di Giotto.

Una umiliazione che obbliga a rinunciare anche alla disperazione. Il peccato in me dice « io ».

Il male crea la distinzione, impedisce che Dio sia equivalente a tutto. È la mia miseria a fare che io sia io. È la miseria dell' universo a fare che, in un dato senso, Iddio sia io (cioè una persona).

I farisei erano gente che contava sulla propria forza per essere virtuosa. L'umiltà consiste nel sapere che in ciò che si chiama Io non c'è nessuna sorgente di energia che permetta di elevarsi.

Tutto quel che in me è prezioso, senza eccezione, viene da ciò che è altro da me; non come dono, ma come prestito che dev'essere continuamente rinnovato. Tutto ciò che è in me, senza eccezione, è assolutamente senza valore; e, fra i doni venuti dal di fuori, tutto quel che io mi approprio diventa subito senza valore.

La gioia perfetta esclude il sentimento di gioia, perché nell'anima colmata dall'oggetto nessun angolo è disponibile per dire « io ». Non s'immaginano tali gioie quando sono assenti; manca così lo stimolo per cercarle.

DISCREAZIONE







Discreazione: far passare qualcosa di creato nell'increato. Distruzione: far passare qualcosa di creato nel nulla. Ersatz[surrogato] colpevole della discreazione.

La creazione è un atto d'amore ed è perpetua. In ogni istante, la nostra esistenza è amore di Dio per noi. Ma Dio può amare solo se stesso. Il suo amore per noi è amore per se stesso attraverso di noi. Così egli, che ci da l'essere, ama in noi il consenso a non essere.

La nostra esistenza è fatta solo della sua attesa, del nostro consenso a non esistere.

Perpetuamente egli mendica da noi l'esistenza che ci da. Ce la da per chiedercela in elemosina.

La necessità inflessibile, la miseria, le difficoltà, il peso agghiacciante del bisogno e del lavoro che sfinisce, la crudeltà, le torture, la morte violenta, la costrizione, il terrore, le malattie - tutto ciò è amore divino. È Dio che per amore si ritira da noi perché ci sia possibile amarlo. Perché se fossimo esposti ai raggi diretti del suo amore, senza la protezione dello spazio, del tempo e della materia, saremmo svaporati come l'acqua al sole; non ci sarebbe abbastanza Io in noi per abbandonare l'Io per amore. La necessità è lo schermo posto fra Dio e noi perché noi possiamo essere. Tocca a noi romper lo schermo per cessare di essere.

Esiste una forza « deifuga ». Altrimenti tutto sarebbe Dio.

È stata data all'uomo una divinità immaginaria perché potesse spogliarsene, come il Cristo ha fatto con la sua divinità reale.

Rinuncia. Imitazione della rinuncia di Dio nella creazione. Iddio rinuncia - in un dato senso - ad essere tutto. Noi dobbiamo rinunciare ad essere qualcosa. Ed è, per noi, il solo bene.

Siamo anfore senza fondo finché non si sia compreso che abbiamo un fondo. Elevazione e abbassamento. Una donna che si guarda in uno specchio e si acconcia non sente vergogna di ridurre se stessa, l'essere infinito che guarda ogni cosa, in un piccolo spazio. Egualmente ogni volta che si innalza l'Io (l'Io sociale, psicologico, ecc.) per quanto lo si innalzi, lo si degrada infinitamente riducendolo ad esser solo quella cosa. Quando l'Io è abbassato (a meno che l'energia non tenda ad innalzarsi sotto forma di desiderio), si sa che non si è quell'abbassamento. Una bellissima donna che guardi la sua immagine allo specchio può benissimo credere di esser quello che vede. Una donna brutta sa di non essere quello che vede.

Tutto quel che è afferrato dalle facoltà naturali è ipotetico. Solo l'amore sovrannaturale pone realmente. Così noi siamo concreatori. Noi partecipiamo alla creazione del mondo discreandoci.

Si posseggono solo le cose cui si è rinunciato. Ciò cui non abbiamo rinunciato ci sfugge. In questo senso non si può ottener nulla senza passare attraverso Dio.

Comunione cattolica. Dio non si è fatto soltanto una volta carne, si fa ogni giorno materia per darsi all'uomo ed esserne divorato. Reciprocamente, con la fatica, la sventura, la morte, l'uomo si fa materia ed è divorato da Dio. Come rifiutare questa reciprocità?

Egli si è vuotato della sua divinità. Noi dobbiamo vuotarci della falsa divinità con cui siamo nati.

Una volta capito che si è nulla, il fine di tutti gli sfor- z:i è di diventar nulla. Tendendo verso questo fine si soffre con accettazione, tendendo a questo fine si agisce, tendendo a questo fine si prega.

Dio mio, concedetemi di diventare nulla.

Man mano che divengo nulla, Iddio si ama attraverso di me.

Quel che è in basso somiglia a quel che è in alto. Per questo la schiavitù è una immagine dell'obbedienza a Dio, L'umiliazione una immagine dell'umiltà, la necessità fisica una immagine della spinta irresistibile della grazia, l'abbandono dei santi alla vita quotidiana è una immagine della frantumazione del tempo nei criminali e nelle prostitute, :cec.

Per questo come immagine, bisogna ricercare quel che è più basso.

Bisogna che quel che è in basso vada verso il basso, perché quel che è alto possa andare in alto. Siamo alla rovescia. Nasciamo così. Ristabilire l'ordine, vuol dire disfare in noi la creatura.

Rovescio dell'oggettivo e del soggettivo.

Egualmente, rovesciamento del positivo e del negativlo. È anche il senso della filosofia delle Upanishad.

Nasciamo e viviamo controsenso; perché nasciamo e viviamo nel peccato, che è un rovesciamento della gerarchia.

La prima operazione è il rovesciamento, la conversione.

Se il grano non muore... Deve morire per liberare l'energia che porta in sé perché se ne formino altre combinazioni.

Egualmente noi dobbiamo morire per liberare l'energiaschiava dell'attaccamento, per possedere una energia libera suscettibile di entrare in un rapporto vero con le cose.

La difficoltà estrema che spesso provo ad eseguire la più piccola azione è un dono. Perché così, con azioni ordinarie e senza attirar l'attenzione, posso recidere radici dell'albero. Per quanto si sia distaccati dalla opinione, le azioni straordinarie racchiudono uno stimolante ineliminabile. Tale stimolante è totalmente assente dalle azioni ordinarie. Provare una straordinaria difficoltà a compiere una azione ordinaria è un dono del quale bisogna essere riconoscenti. Non bisogna chiedere la sparizione di questa difficoltà; ma implorare la grazia di farne uso.

In modo generale, non desiderare la sparizione di nessuna delle proprie miserie, bensì la grazia che le trasfiguri.

Le sofferenze fisiche (e le privazioni) sono spesso, per gli uomini coraggiosi, una prova di resistenze e di forza d'animo. Ma ne esiste un uso migliore. Che esse dunque per me, non siano quello. Che esse siano una testimonianza sensibile della miseria umana. Che io possa subirle in modo interamente passivo. Qualunque cosa avvenga, come potrei trovare mai troppo grande l'infelicità, se il morso della infelicità e l'abbassamento cui essa condanna permettono la conoscenza della miseria umana, conoscenza che è la porta di ogni sapienza?

Ma il piacere, la felicità, la prosperità, se si sa riconoscervi quel che viene dall'esterno (dal caso, dalle circostanze, ecc.) testimoniano anch'essi della miseria umana. Farne anche quest'uso. Ed anche la grazia, in quanto fenomeno sensibile...

Essere nulla per essere al proprio vero posto nel tutto.

La rinuncia esige da noi che si passi attraverso angosce equivalenti a quelle che provocherebbe in realtà la perdita di tutte le persone care e di tutti i beni, comprese le attitudini e le capacità acquisite nel campo dell'intelligenza e del carattere, le opinioni e le convinzioni su ciò che è bene, su ciò che è stabile, ecc. E tutto ciò non dobbiamo togliercelo noi stessi, bensì perderlo - come Giobbe. Ma l'energia così rescissa dal suo oggetto non dev'essere sprecata in oscillazioni, degradata. L'angoscia deve dunque essere ancora più grande di quel che non sarebbe in una reale sventura; non deve essere suddivisa nel tempo né diretta verso una speranza.

Quando la passione dell'amore raggiunge l'energia vegetativa, allora si hanno casi come Fedra, Arnolfo, ecc. « E io mi sento dentro che dovrò morire. » Ippolito è davvero necessario alla vita di Fedra, alla lettera, più del nutrimento. Perché l'amore di Dio penetri altrettanto in basso, bisogna che la natura abbia patito la suprema violenza. Giobbe, la croce...

L'amore di Fedra, di Arnolfo è impuro. Un amore che discendesse altrettanto in basso e che fosse puro...

Diventare nulla fino al livello vegetativo; allora Iddio diventa pane. Se ci consideriamo in un momento determinato - l'istante presente, separato dal passato e dall'avvenire - noi siamo innocenti. Non possiamo essere in questo istante altro che quello che siamo. Ogni progresso implica una durata. Fa parte dell'ordine del mondo, in questo istante, che noi siamo quali siamo.

Isolare così un istante implica il perdono. Ma questo isolamento è distacco. Ci sono soltanto due istanti di nudità e di purezza perfetti nella vita umana: la nascita e la morte. Non è possibile adorare Iddio in forma umana, senza offendere la divinità, se non come neonato e come agonizzante.

Morte. Condizione istantanea, senza passato né avvenire. Indispensabile per l'accesso all'eternità.

Se si trova la pienezza della gioia nel pensiero che Iddio esiste, bisogna trovare la medesima pienezza nella conoscenza che, noi stessi, non esistiamo; perché è il medesimo pensiero.

E questa conoscenza è estesa alla sensibilità solo dalla sofferenza e dalla morte. Gioia in Dio. C'è realmente gioia perfetta ed infinita in Dio. La mia partecipazione non può aggiungervi nulla, la mia non- partecipazione nulla toglie alla realtà di questa gioia perfetta ed infinita. Se è così, che importanza può avere che io vi debba aver parte o no? Nessuna.

Chi desidera la propria salvezza non crede veramente alla realtà della gioia in Dio.

Credere alla immortalità è nocivo perché non è in nostro potere rappresentarci l'anima come veramente incorporea. Così questa credenza è in realtà credenza nel prolungamento della vita; e toglie l'uso della morte.

Presenza di Dio. Dobbiamo intenderla in due modi. In quanto creatore, Iddio è presente in ogni cosa che esiste, dal momento che esiste. La presenza per la quale Iddio ha bisogno della cooperazione della creatura, è la presenza di Dio, non in quanto è il Creatore, ma in quanto è lo Spirito. La presenza prima è presenza di creazione. La seconda è presenza di dis- creazione. (Chi ci ha creati senza di noi non ci salverà senza di noi: sant'Agostino.)

Iddio ha potuto creare solo nascondendosi. Altrimenti ci sarebbe stato egli solo. Anche la santità deve quindi essere nascosta, persino alla coscienza, entro una certa misura. E deve esserlo nel mondo.

Essere e avere. L'uomo non ha l'essere, ha soltanto l'avere. L'essere dell'uomo è situato dietro il velario, dalla parte del sovrannaturale. Ciò che egli può conoscere di sé medesimo è soltanto quel che gli è offerto dalle circostanze. L'Io è celato per me (e per gli altri); è dalla parte di Dio, è in Dio, è Dio. Essere orgoglioso vuol dire dimenticare che si è Dio... Il velario è la miseria umana: c'era un velario anche per il Cristo.

Giobbe. Satana a Dio: ti ama forse gratuitamente? Si sta parlando del livello dell'amore. L'amore è situato al livello delle pecore, dei campi di grano, dei molti figli? O più lontano, nella terza dimensione, indietro? Per profondo che sia questo amore, c'è un momento di rottura, nel quale esso soccombe; e questo è il momento che trasforma, che strappa dal finito verso l'infinito, che rende trascendente nell'anima l'amore dell'anima per Dio. È la morte dell'anima. Sventura a colui nel quale la morte del corpo precede quella dell'anima! L'anima che non è piena d'amore muore di mala morte. Perché una morte simile deve cadere indistintamente?

Dev'esser così. Tutto deve cadere indistintamente. L'apparenza si attacca all'essere; e soltanto il dolore può strapparli l'una all'altro. Chiunque ha l'essere può averne l'apparenza. L'apparenza incatena l'essere.

Il corso del tempo strappa l'apparenza dall'essere e l'essere dall'apparenza, violentemente. Il tempo manifesta che non è eternità.

Bisogna sradicarsi. Tagliare l'albero e farne una croce; e poi portarla tutti i giorni.

Non si deve essere io; ma ancor meno si dev'essere noi. La città da il senso di essere in casa propria. Assumere il senso di essere in patria mentre si è in esilio. Essere radicato nell'assenza di luogo.

Sradicarsi socialmente e vegetativamente. Esiliarsi da ogni patria terrestre. Far tutto ciò ad altri, dal di fuori, è un Ersatz [surrogato] di discreazione. Vuol dire produrre irrealtà. Ma sradicandosi si cerca più realtà.

FARSI DA PARTE