giovedì 16 settembre 2021

2001:ODISSEA NELLO SPAZIO Arthur C Clarke

 


2001: ODISSEA NELLO SPAZIO


Arthur C Clarke 


CAPITOLO PRIMO
NOTTE PRIMEVA

 

 

 

LA VIA DELL’ESTINZIONE

 

La siccità si protraeva ormai da dieci milioni di anni, e il regno delle terribili lucertole era finito da molto tempo. Lì, sull’Equatore,nel continente che un giorno sarebbe stato chiamato Africa, la lotta per lavita aveva raggiunto un nuovo diapason di ferocia, e il vincitore ancora non siintravedeva. In quella terra sterile e arida soltanto le creature piccole o fulmineeo feroci potevano prosperare, o appena sperare di sopravvivere.

Gli uomini-scimmia del veldt non possedevanoalcuna di queste caratteristiche e non stavano prosperando; si trovavano anzigià molto avanti sulla via dell’estinzione della razza. Una cinquantina di lorooccupava un gruppo di caverne che dominavano una valletta riarsa, percorsa daun pigro torrente alimentato dalle nevi delle montagne trecentoventi chilometripiù a nord. Nei tempi cattivi il torrente svaniva del tutto, e la tribù vivevaall’ombra della sete.

Erano sempre affamati, gli uomini-scimmia, e orastavano morendo di fame. Quando il primo tenue chiarore dell’alba si insinuònella caverna, Guarda-la-Luna vide che suo padre era morto durante la notte. Ignoravache il Vecchio fosse suo padre, poiché un simile rapporto di parentela eracompletamente al di là dalle sue capacità di comprensione, ma, mentrecontemplava il corpo emaciato, provò un’inquietudine vaga, l’antenata dellatristezza.

I due piccoli già uggiolavano chiedendo cibo, matacquero quando Guarda-la-Luna ringhiò contro di loro. Una delle madri, perdifendere il poppante che non riusciva ad allattare a sufficienza, ringhiò asua volta irosamente; a lui mancò la forza anche soltanto di percuoterla per lasua presunzione.

Ormai faceva abbastanza chiaro per andarsene. Guarda-la-Lunasollevò il cadavere avvizzito e lo trascinò dietro di sé, mentre si chinavasotto la bassa volta della caverna. Una volta fuori, si caricò il corpo sullespalle e assunse una posizione eretta… l’unico animale in quel mondo che nefosse capace.

Tra le creature della sua razza, Guarda-la-Luna era quasiun gigante, alto forse un metro e mezzo, e, sebbene assai denutrito, pesava piùdi cinquanta chili. Il suo corpo peloso e muscoloso era una via di mezzo tra lascimmia e l’uomo, ma la testa si avvicinava molto di più a quella dell’uomo chea quella della scimmia. La fronte era bassa, con sporgenze ossee sopra leorbite, eppure egli possedeva inequivocabilmente nei propri geni la promessadell’umanità. Mentre contemplava, fuori dalla caverna, il mondo ostile del Pleistocene,v’era già qualcosa nel suo sguardo che trascendeva le capacità di qualsiasiscimmia. In quegli occhi scuri, profondamente infossati, si celava una nascente consapevolezza… i primi barlumi di un’intelligenza cui ancora per epoche nonsarebbe stato possibile estrinsecarsi, e che presto si sarebbe potutaestinguere per sempre.

Non si vedeva alcun indizio di pericolo, e cosìGuarda-la-Luna incominciò a strisciare giù per il pendio quasi verticale fuoridalla caverna, ostacolato soltanto in modo trascurabile dal suo fardello. Quasiavessero aspettato il suo segnale, gli altri della tribù sbucarono fuori dailoro rifugi, più in basso sulla parete rocciosa, e incominciarono adaffrettarsi verso le acque melmose del torrente per l’abbeverata mattutina.

Guarda-la-Luna spinse lo sguardo oltre la valle per vederese gli Altri fossero visibili, ma non se ne scorgeva traccia. Forse non eranoancora usciti dalle loro caverne, oppure stavano già foraggiando più avanti, lungoil fianco della collina. Poiché rimanevano invisibili, Guarda-la-Luna li dimenticò;era incapace di crucciarsi per più di una cosa alla volta.

Anzitutto doveva sbarazzarsi del Vecchio, ma questo era un problema che richiedeva poca riflessione. Vi erano state molte morti inquella stagione, una di esse nella sua caverna; doveva soltanto lasciare ilcadavere dove aveva abbandonato l’ultimo piccolo, all’ultimo quarto di luna, e leiene avrebbero fatto il resto.

Già erano in attesa, ove la valletta si apriva aventaglio nella savana, quasi avessero saputo che lui stava arrivando. Guarda-la-Lunalasciò il cadavere sotto un piccolo cespuglio (tutte le ossa di prima erano giàscomparse) e si affrettò a tornare indietro per raggiungere la tribù. Nondoveva pensare mai più a suo padre.

Le sue due femmine, gli adulti delle altre caverne, e quasitutti i giovani stavano foraggiando tra gli alberi resi stenti dalla siccità, piùa monte nella valle, in cerca di bacche, di radici succulente e di foglie, nonché,occasionalmente, di inaspettati colpi di fortuna come piccole lucertole o roditori.Soltanto i piccoli e i più deboli tra i vecchi venivano lasciati nelle caverne;se al termine delle ricerche di un’intera giornata fosse avanzato del cibo, avrebberopotuto sfamarsi. Altrimenti, ben presto, le iene sarebbero state fortunate unavolta di più.

Ma quel giorno era propizio, anche se, non serbandoalcun vero ricordo del passato, Guarda-la-Luna non poteva paragonare un periododi tempo con l’altro. Egli aveva trovato un alveare nel tronco di un alberomorto, e si era così goduto la suprema ghiottoneria che il suo popolo potessemai conoscere; seguitava a leccarsi le dita, di tanto in tanto, nel tardopomeriggio, guidando il gruppo verso la caverna. Naturalmente, gli era toccatoanche un bel numero di punture, ma quasi non ci aveva badato. Si trovava adessotanto vicino al completo soddisfacimento quanto forse non lo sarebbe mai piùstato; infatti, sebbene fosse ancora affamato, non era effettivamenteindebolito dalla fame. Questo era il massimo cui un uomo-scimmia potesse maiaspirare.

La sua contentezza svanì quando giunse al torrente. GliAltri erano là. Vi si trovavano ogni giorno, ma non per questo la cosa sembravameno esasperante.

Erano una trentina circa, e sarebbe stato impossibiledistinguerli dagli appartenenti alla tribù di Guarda-la-Luna. Vedendolosopraggiungere, incominciarono a danzare, ad agitare le braccia e a strillare, dalloro lato del torrente, e il popolo di Guarda-la-Luna rispose nello stesso modo.

Non accadde altro. Sebbene gli uomini-scimmia si battesseroe lottassero spesso gli uni con gli altri, le loro dispute davano luogo moltodi rado a gravi ferite. Non possedendo artigli né denti canini per battersi, edessendo ben protetti dal pelo, non potevano farsi un gran male a vicenda. Inogni caso, avevano ben poca energia in sovrappiù per un comportamento così improduttivo;ringhiare e minacciarsi era una maniera assai più efficiente per far valere i loropunti di vista.

Il confronto si protrasse per circa cinque minuti; poil’esibizione cessò rapidamente come era cominciata, e tutti bevvero a sazietà l’acquamelmosa. Il senso dell’onore era stato appagato; ciascun gruppo aveva affermatoi suoi diritti sul proprio territorio. Una questione così importante essendostata risolta, la tribù proseguì lungo il suo lato del torrente. Il pascolo piùvicino si trovava adesso a oltre un chilometro e mezzo dalle caverne, ed essidovevano condividerlo con un branco di grosse bestie simili ad antilopi, lequali a malapena tolleravano la loro presenza. Non potevano essere scacciate, poichéerano armate con pugnali feroci sulla fronte: armi naturali che gliuomini-scimmia non possedevano.

Così Guarda-la-Luna e i suoi compagni masticavanobacche e frutta e foglie e scacciavano le fitte della fame, mentre tutto intornoa loro, in competizione con loro per lo stesso cibo, esistevano riserve diviveri superiori a quanto avrebbero mai potuto sperare di mangiare. Eppure, lemigliaia di tonnellate di carne succulenta che vagabondavano nella savana e attraversola boscaglia non erano soltanto di là dalla loro portata, ma anche di là dallaloro immaginazione. In piena abbondanza, essi stavano lentamente morendo difame.

La tribù tornò alle caverne senza alcun incidente nell’ultimaluce del giorno. La femmina ferita rimasta al riparo tubò di piacere, mentreGuarda-la-Luna le dava il ramo coperto di bacche, che aveva portato sin lì, e incominciòad attaccarlo famelica. Il nutrimento era ben scarso, ma le avrebbe consentitodi sopravvivere fino a quando la ferita infertale dal leopardo non si fossecicatrizzata, consentendole di tornare per suo conto in cerca di foraggio.

Sulla valle stava sorgendo la luna piena, e un ventogelido soffiava dai monti lontani. Avrebbe fatto molto freddo, quella notte… mail freddo, come la fame, non era causa di gravi preoccupazioni; era soltanto unaspetto dell’ambiente in cui si svolgeva la loro esistenza.

Guarda-la-Luna si mosse appena quando udì gli urli e glistrilli riecheggiati dal versante della montagna e provenienti da una dellecaverne più in basso; non aveva bisogno di sentire i ringhi saltuari delleopardo per rendersi esattamente conto di quanto stava accadendo. Laggiù nelletenebre, il vecchio Pelo Bianco e la sua famiglia stavano combattendo e morendo,e l’idea che egli avrebbe potuto aiutarli in qualche modo non balenò nemmenoper un attimo nella mente di Guarda-la-Luna. La logica feroce della sopravvivenzaescludeva tali fantasticherie, e non una voce si levò per protestare dal fiancoin ascolto dell’altura. In ogni caverna regnava il silenzio, per non attrarreil disastro anche da quella parte.

Il tumulto cessò, e di lì a poco Guarda-la-Luna udì ilfruscio di un corpo trascinato sulle rocce. Si protrasse soltanto per pochisecondi, poi il leopardo riuscì ad afferrare saldamente la preda; non causòaltri rumori mentre si allontanava silenziosamente sulle zampe di velluto, portandosenza fatica la vittima tra le mascelle.

Per un giorno o due, non vi sarebbero stati nuovi pericolilì, ma potevano esservi altri nemici in giro, approfittando di quel PiccoloSole freddo che splendeva soltanto durante la notte. Se v’era un preavvisosufficiente, i predatori più piccoli potevano a volte essere spaventati e allontanaticon urla e strilli. Guarda-la-Luna strisciò fuori dalla caverna, si arrampicòsu un grosso macigno accanto all’imboccatura e là si accosciò a sorvegliare lavalle.

Tra tutte le creature che avevano camminato fino aquel giorno sulla Terra, gli uomini-scimmia erano i primi a contemplarecostantemente la luna. E sebbene non potesse ricordarlo, Guarda-la-Luna, quandoera stato molto giovane, aveva cercato a volte di protendersi e di toccare quellafaccia spettrale che saliva nel cielo sopra i monti.

Non vi era mai riuscito, e ormai aveva abbastanza anniper capire perché. Anzitutto, naturalmente, doveva trovare un alberosufficientemente alto sul quale arrampicarsi.

A volte osservava la valle e a volte osservava la luna,ma sempre rimaneva in ascolto; una o due volte si appisolò, ma il suo sonno eraleggerissimo, e il minimo suono lo avrebbe disturbato. Nell’avanzatissima etàdi venticinque anni, possedeva ancora appieno tutte le sue facoltà; se lafortuna avesse continuato a essergli propizia, e se fosse riuscito a evitareincidenti, malattie, animali da preda e la morte per fame, avrebbe potutosopravvivere per altri dieci anni.

La notte continuò a trascorrere, gelida e limpida, senzaaltri allarmi e la luna salì adagio tra costellazioni equatoriali che nessunosguardo umano avrebbe mai veduto. Nelle caverne, tra periodi di sonnointermittente e di timorosa attesa, nascevano gli incubi di generazioni di làda venire.

E per due volte un puntino luminoso abbacinante, piùvivido di ogni stella, attraversò adagio il cielo, salendo fino allo zenit e discendendopoi a oriente.

 

LA NUOVA PIETRA

 

 

A notte alta, Guarda-la-Luna improvvisamente si destò.Esausto dopo le fatiche e i disastri della giornata, aveva dormito piùprofondamente del solito, eppure fu istantaneamente all’erta al primo fiocoraschio giù nella valle.

Si drizzò a sedere nella fetida oscurità della caverna,tendendo i propri sensi verso l’esterno, verso la notte, e la paura si insinuò adagionell’anima sua. Mai nel corso della sua esistenza, già due volte più lunga diquanto potessero aspettarsi quasi tutti gli appartenenti alla specie, aveva uditoun suono come quello. I grandi felini si avvicinavano silenziosi e la sola cosache li tradisse era un raro franare di terriccio, o lo schianto occasionale diun ramo. Ma questo era un suono scricchiolante e ininterrotto, che andava divenendosempre più forte. Si sarebbe detto che qualche animale enorme si stessemuovendo nella notte, senza tentare in alcun modo di nascondersi, e ignorandotutti gli ostacoli. A un certo momento, Guarda-la-Luna udì il rumore inequivocabiledi un cespuglio sradicato; gli elefanti e i dinoterii sradicavano abbastanzaspesso cespugli, ma, a parte questo, si muovevano silenziosamente come i felini.

E poi vi fu un suono che Guarda-la-Luna non avrebbepotuto riconoscere, perché non era mai stato udito prima nella storia del mondo.Era un cozzare del metallo contro la pietra.

Guarda-la-Luna venne a trovarsi faccia a faccia con la Nuova Pietra quando guidò la tribù giù al fiume nella prima luce dell’alba. Aveva quasidimenticato i terrori di quella notte, perché nulla era accaduto dopo lostrepito iniziale, per cui egli non associò neppure la strana cosa con il pericoloo la paura. Essa non aveva, in fin dei conti, alcunché di allarmante.

Si trattava di un monolito rettangolare, tre volte piùalto di lui, ma stretto abbastanza perché potesse cingerlo con le braccia, edera fatto di un materiale completamente trasparente; invero, non fu facilescorgerlo, tranne quando il sole nascente scintillò sui suoi spigoli. PoichéGuarda-la-Luna non aveva mai veduto il ghiaccio, e nemmeno acqua limpida comecristallo, non esistevano oggetti naturali ai quali egli potesse paragonarequesta apparizione. Era senz’altro piuttosto allettante, e sebbene egli fosseprudentemente circospetto di fronte a quasi tutte le cose nuove, non esitò a lungoprima di avvicinarsi. Poiché non accadeva nulla, sporse una mano e tastò unasuperficie fredda e dura.

Dopo parecchi minuti di intense riflessioni, pervennea una spiegazione brillante. Era una pietra, naturalmente, e doveva esserecresciuta durante la notte. Esistevano molte piante che facevano altrettanto… piantebianche, carnose, dalla forma di ciottoli, che sembravano crescere durante leore di oscurità. Si trattava di piante piccole e rotonde, questo sì, mentre lapietra era grande e aveva orli affilati; ma filosofi più grandi e più tardi diGuarda-la-Luna sarebbero stati disposti a ignorare eccezioni altrettantonotevoli alle loro teorie.

Questo esempio davvero superbo di pensiero astratto condusseGuarda-la-Luna, dopo tre o quattro minuti appena, a una deduzione che egli miseimmediatamente alla prova. Le piante-ciottoli bianche e rotonde erano molto saporite(sebbene alcune di esse provocassero violenti malesseri); forse quest’altra, cosìalta…?

Alcune leccatine e alcuni morsi esitanti lodisillusero rapidamente. Non ci si poteva nutrire con la Nuova Pietra; e pertanto,da uomo-scimmia ragionevole, egli proseguì il cammino fino al torrente e dimenticòogni cosa del monolito cristallino durante la routine quotidiana degli strillicontro gli Altri.

La ricerca di foraggio quel giorno rese pochissimo, e latribù dovette allontanarsi di parecchi chilometri dalle caverne per trovare un po’di cibo. Durante la calura spietata del mezzogiorno, una delle femmine piùdeboli crollò, lontano da ogni possibile rifugio.

Le compagne le si riunirono attorno, squittendo e gemendocomprensive, ma nessuno poteva far niente. Se gli uomini-scimmia fossero statimeno spossati avrebbero potuto trasportarla con loro, ma non esistevano energiein eccesso per simili atti di bontà. La femmina dovette essere lasciataindietro a ristabilirsi, possibilmente, con le proprie risorse.

Tornando alle caverne, quella sera, passarono accantoallo stesso luogo; non si vedeva nemmeno più un osso.

Nell’ultima luce del giorno, guardandosi attornoansiosamente, timorosi dei primi predatori, bevvero frettolosamente al torrentee incominciarono l’ascesa verso le caverne.

Si trovavano ancora a cento metri dalla Nuova Pietraquando il suono incominciò.

Era appena percettibile, eppure li indusse aimmobilizzarsi, per cui rimasero come paralizzati sulla pista, con le mascellependule. Semplice vibrazione che si ripeteva in modo esasperante, il suonopulsava fuori dal cristallo, e ipnotizzava chiunque venisse a trovarsi entro ilsuo incantesimo. Per la prima volta, e l’ultima durante tre milioni di anni, ilsuono dei tamburi venne udito in Africa.

La pulsazione divenne più forte, più insistente. Di lìa poco gli uomini-scimmia incominciarono ad avanzare, come sonnambuli, verso lasorgente di quel suono coercitivo. A volte eseguivano piccoli passi di danza, mentreil loro sangue reagiva a ritmi che i loro discendenti non avrebbero creatoancora per epoche. Completamente estasiati, si riunirono intorno al monolito, dimenticandole privazioni della giornata, i pericoli del crepuscolo imminente, e la fameche avevano nel ventre.

Il tambureggiare divenne più forte, la notte si fecepiù scura. E mentre le ombre si allungavano e la luce dileguava dal cielo, ilcristallo cominciò a splendere.

Perdette dapprima la propria trasparenza, e si soffusedi una luminescenza pallida e lattea. Fantasmi allettanti, mal definiti, simuovevano sulla sua superficie e nelle profondità. Si fusero in fasci di luce ed’ombra, poi formarono disegni intersecati, raggiati, che incominciarono adagioa ruotare.

Sempre e sempre più rapide girarono le ruote di luce,e il pulsare dei tamburi accelerò con esse. Ormai del tutto ipnotizzati, gliuomini-scimmia potevano soltanto fissare, con le mascelle pendule, quellostupefacente sfoggio pirotecnico. Avevano già dimenticato gli istinti deiprogenitori e le lezioni di un’intera vita; non uno di essi, normalmente, sarebberimasto così lontano dalla caverna, a un’ora così tarda della sera. Poiché laboscaglia circostante era piena di forme immobili e di occhi fissi, mentre lecreature della notte sospendevano la loro attività per vedere che cosa sarebbeaccaduto ancora.

A questo punto le turbinanti ruote di luceincominciarono a fondersi e i raggi si unirono formando fasci luminosi cheadagio indietreggiarono in lontananza, ruotando intanto sui loro assi. Sisuddivisero a coppie, e la conseguente serie di linee incominciò a oscillare, unalinea sull’altra, diagonalmente, mutando adagio gli angoli di intersezione. Formegeometriche fantastiche, fuggevoli, apparivano e scomparivano baluginanti, mentrele splendenti griglie si intrecciavano e si districavano; e gli uomini-scimmiastettero a guardare, prigionieri ipnotizzati del cristallo luminoso.

Non avrebbero mai potuto supporre che le loro mentivenivano sondate, i loro corpi disegnati, le loro reazioni studiate, le lorocapacità potenziali valutate.

A tutta prima l’intera tribù rimase semi accosciata formandoun immobile quadro, quasi fosse eternata nella pietra. Poi l’uomo-scimmia piùvicino al monolito improvvisamente si riscosse.

Non modificò la propria posizione, ma il suo corpoperdette la rigidità da stato di trance e si animò come se fosse stato unburattino azionato da fili invisibili. La testa si voltò da un lato e dall’altro;la bocca silenziosamente si aprì e si richiuse; le mani si strinsero a pugno e tornaronoad aprirsi. Poi si chinò, strappò un lungo stelo d’erba e, con dita goffe, cercòdi formare un nodo.

Sembrava una creatura posseduta, in lotta contro unospirito o un demonio che avesse assunto il dominio del suo corpo. Ansimava, respirandoa stento, e aveva gli occhi colmi di terrore, mentre cercava di costringere leproprie dita a compiere movimenti più complessi di ogni altro mai tentato prima.

Nonostante tutti i suoi tentativi, riuscì soltanto afare a pezzi lo stelo d’erba. Mentre i frammenti cadevano al suolo, l’influssoche lo dominava lo abbandonò, ed egli tornò a irrigidirsi nell’immobilità.

Un altro uomo-scimmia si riscosse, ed eseguì glistessi gesti. Questo era un esemplare più giovane, più duttile; riuscì là oveil più vecchio aveva fallito. Sul pianeta Terra, il primo rozzo nodo era statoformato…

Altri fecero cose più strane e ancor più inutili. Alcunitennero le mani in avanti, a braccia tese, e tentarono di accostare la puntadelle dita… dapprima con tutti e due gli occhi aperti, poi con un occhio chiuso.Altri furono costretti a fissare disegni quadrettati nel cristallo, disegni chesi suddivisero sempre più minutamente, finché le linee non si furono confuse inuna chiazza grigia. E tutti udirono singoli e puri suoni di timbro variabile, cherapidamente calavano al di sotto della soglia di udibilità.

Quando venne la volta di Guarda-la-Luna, egli si sentìben poco impaurito. La più intensa delle sue sensazioni fu un vago risentimento,mentre i suoi muscoli si contraevano e le sue membra si muovevano ubbidendo aordini che non erano del tutto suoi. Senza sapere perché, si chinò e prese unpiccolo sasso.

Quando si raddrizzò vide che nel monolito di cristallov’era una nuova immagine.

Le griglie e i disegni danzanti in movimento eranoscomparsi. Si vedeva ora, invece, una serie di circoli concentrici, intorno aun piccolo disco nero.

Ubbidendo agli ordini silenziosi del suo cervello, eglilanciò il sasso con un movimento goffo del braccio dall’alto. Mancò ilbersaglio di parecchie decine di centimetri.

Riprova, disse l’ordine. Egli cercò intorno a séfinché non ebbe trovato un altro ciottolo. Questa volta colpì il monolito conuna vibrazione squillante, da campana. Era ancora lontano dal bersaglio, ma lamira stava migliorando.

Al quarto tentativo, colpì a pochi centimetri appenadal centro del bersaglio. Una sensazione indescrivibile di piacere, quasisessuale tanto era intensa, gli pervase la mente. Poi l’influsso che lodominava cessò; egli non sentì più alcun impulso di fare qualcosa, tranne cherimanere in piedi e aspettare.

A uno a uno, tutti gli appartenenti alla tribù furonofuggevolmente posseduti. Alcuni riuscirono, altri fallirono nei compiti loroaffidati e tutti furono opportunamente retribuiti con spasimi di piacere o didolore.

Ormai non rimaneva che un bagliore uniforme e senzacaratteristiche nel grande monolito, per cui esso si levava simile a un bloccodi luce sovrapposto alla circostante oscurità. Cose se si fossero destati da unsonno profondo, gli uomini-scimmia scossero la testa, e di lì a poco ripreseroa muoversi lungo la pista verso il loro rifugio. Non voltarono la testa aguardarsi indietro, né si meravigliarono della strana luce che li stavaguidando verso le caverne… e verso un avvenire ancora ignoto, anche alle stelle.

 

ACCADEMIA

 

 

Guarda-la-Luna e i suoi compagni non ricordaronoaffatto quanto avevano veduto, dopo che il cristallo ebbe cessato di esercitarel’incantesimo ipnotico sulle loro menti e di effettuare esperimenti con i lorocorpi. Il giorno dopo, uscendo in cerca di cibo, gli passarono accanto senzaquasi ripensarvi; faceva ormai parte dello sfondo inosservato della loroesistenza. Non potevano cibarsene, né esso poteva divorare loro; per conseguenzanon rivestiva alcuna importanza.

Giù al fiume, gli Altri fecero le consuete, inefficaciminacce. Il loro capo, un uomo-scimmia con un solo orecchio, della stessastatura e della stessa età di Guarda-la-Luna, ma in condizioni peggiori di lui,osò persino una breve incursione verso il territorio della tribù, strillandoforte e agitando le braccia nel tentativo di spaventare il nemico e di chiamarea raccolta il proprio coraggio. L’acqua del torrente non era in alcun punto piùprofonda di trenta centimetri, ma quanto più avanti si portava Un-Orecchio, tantopiù diveniva incerto e inquieto. Ben presto rallentò fino a fermarsi, e infinetornò indietro, con dignità, per riunirsi ai suoi compagni.

Per il resto, non vi fu alcun mutamento nella normaleroutine. La tribù raccolse quel tanto di cibo che le bastava per sopravvivereun altro giorno e nessuno perì.

E quella sera il monolito di cristallo era ancora inattesa, circondato dalla sua aureola pulsante di luce e di suono. Il programmache aveva escogitato, però, fu ora diverso in modo sottile.

Alcuni degli uomini-scimmia ignorarono del tutto il cristallo,quasi che esso stesse concentrandosi sui soggetti più promettenti. Uno dicostoro era Guarda-la-Luna; una volta di più egli sentì viticci indagatoriinsinuarsi nei meandri inutilizzati del suo cervello. E, di lì a poco, incominciòad avere visioni.

Sarebbero potute essere nell’interno del blocco dicristallo; oppure esclusivamente nella sua mente. In ogni modo, perGuarda-la-Luna furono del tutto reali. Eppure, in qualche modo, il consueto, automaticoimpulso di scacciare gli invasori del suo territorio era stato placato e ridottoall’acquiescenza.

Egli stava contemplando un pacifico gruppo familiare, chedifferiva per un solo aspetto dalle scene a lui note. Il maschio, la femmina e idue piccoli apparsi misteriosamente dinanzi a lui erano ingozzati e satolli, conla pelle liscia e lustra… ed era questa una condizione di vita cheGuarda-la-Luna non aveva mai immaginato. Inconsciamente, egli tastò le propriecostole sporgenti; le costole di quelle creature erano celate da pieghedi grasso. Di quando in quando si muovevano pigramente, mentre riposavanotranquillamente accanto all’imboccatura di una caverna, apparentemente in pacecon il mondo. Ogni tanto, il grosso maschio emetteva un rutto monumentale disoddisfacimento.

Non vi fu alcun’altra attività, e, dopo cinque minuti,la scena improvvisamente svanì. Il cristallo non era più che un baluginanteprofilo nelle tenebre. Guarda-la-Luna si riscosse, come destandosi da un sogno,capì bruscamente dove si trovava, e ricondusse la tribù alle caverne.

Non serbò alcun ricordo conscio di ciò che aveva veduto;ma quella notte, mentre sedeva rimuginando all’imboccatura del rifugio, leorecchie sintonizzate sui rumori del mondo circostante, sentì i primi lievifremiti d’una nuova e potente emozione. Era una sensazione vaga e diffusa diinvidia… di insoddisfazione per la propria vita. Non aveva la benché minimaidea di ciò che la causava, e tanto meno del modo di guarirla; ma lo scontentoera entrato nell’anima sua, ed egli aveva mosso un piccolo passo verso l’umanità.

Una sera dopo l’altra, lo spettacolo di quei quattro uomini-scimmiaben pasciuti si ripeté, fino a divenire una causa di affascinata esasperazione,che contribuiva ad accrescere l’eterna, tormentosa fame di Guarda-la-Luna. Quantovedevano i suoi occhi non sarebbe bastato a causare questo effetto; occorrevaun appoggio psicologico. Vi furono vuoti, a questo punto, nella vita diGuarda-la-Luna che egli non avrebbe mai ricordato, in cui gli atomi stessi delsuo semplice cervello venivano costretti a nuove aggregazioni.

Se egli fosse sopravvissuto, queste aggregazionisarebbero diventate eterne, poiché i suoi geni le avrebbero trasmesse allegenerazioni future.

Fu un processo lento e tedioso, ma il monolito dicristallo era paziente. Né esso, né i monoliti identici dispersi in una metàdel globo, si aspettavano di riuscire con tutte le decine di gruppi interessatiall’esperimento. Cento insuccessi non avrebbero avuto importanza, se un solosuccesso poteva mutare il destino del mondo.

Quando giunse la fase della successiva luna nuova, latribù aveva assistito a una nascita e a due morti. Una di queste ultime erastata causata dalla fame; l’altra si era determinata durante il rito serale, quandoun uomo-scimmia era stramazzato, improvvisamente, tentando di battere dueframmenti di pietra, delicatamente, l’uno contro l’altro. Subito il cristalloaveva perduto la propria luminosità, e la tribù era stata liberata dall’incantesimo.Ma l’uomo-scimmia caduto non si era più mosso; e la mattina dopo, naturalmente,il cadavere era scomparso.

La sera seguente non accadde nulla; il cristallo stavaancora analizzando il proprio errore. La tribù gli sfilò accanto, nel crepuscoloche dilagava, ignorandone completamente la presenza. Ma, la sera dopo, ilmonolito era di nuovo pronto per loro.

I quattro uomini-scimmia ben pasciuti tornarono, e questavolta fecero cose straordinarie. Guarda-la-Luna incominciò a tremare in modoincontrollabile: gli parve che il cervello stesse per scoppiargli e volledistogliere lo sguardo. Ma lo spietato dominio mentale non allentava la presa; fucostretto a seguire la lezione fino all’ultimo, anche se tutti i suoi istintisi ribellavano contro di essa.

Quegli istinti avevano ben servito i suoi progenitori,nei tempi delle tiepide piogge e di una lussureggiante fertilità, quando ilcibo aspettava ovunque di essere raccolto. Ora i tempi erano cambiati, e lasaggezza ereditata dal passato era diventata pura follia.

Gli uomini-scimmia dovevano adattarsi a morire come i piùgrossi animali scomparsi prima di loro e le cui ossa giacevano ormai racchiusenelle colline di arenaria.

Così Guarda-la-Luna fissava senza batter ciglio il monolitodi cristallo, mentre il suo cervello restava aperto alle ancora incertemanipolazioni della nuova pietra. Spesso era assalito dalla nausea, ma sempresi sentiva affamato; e di tanto in tanto le mani di lui si stringevanoinconsciamente nei gesti che avrebbero determinato il suo nuovo sistema di vita.

 

* * *

 

Mentre la fila di facoceri attraversava, annusando e grugnendo,la pista, Guarda-la-Luna si fermò di colpo. Facoceri e uomini-scimmia si eranosempre ignorati a vicenda, in quanto non esisteva alcun contrasto di interessitra loro. Come quasi tutti gli animali che non gareggiavano per lo stesso cibo,essi si limitavano a tenersi lontani gli uni dagli altri.

Eppure adesso Guarda-la-Luna rimase immobile aguardarli, titubando, avanzando e indietreggiando incerto, mentre venivasferzato da impulsi che non riusciva a capire. Poi, come in sogno, cominciò acercare al suolo… pur non essendo in grado di spiegare che cosa anche se fossestato capace di esprimersi. Avrebbe riconosciuto la cosa non appena l’avesseveduta.

Era un sasso pesante, appuntito, lungo circa quindicicentimetri, e, sebbene non si adattasse perfettamente alla sua mano, potevaandare. Facendo oscillare il braccio, interdetto dal peso improvvisamenteaccresciuto della mano, provò una sensazione piacevole di potenza e diautorevolezza. Incominciò a muoversi verso il facocero più vicino.

Era un animale giovane e stupido, anche in base all’esiguometro dell’intelligenza dei facoceri. Pur avendo osservato Guarda-la-Luna conla coda dell’occhio, lo prese sul serio soltanto di gran lunga troppo tardi. Perchéavrebbe dovuto sospettare quelle creature innocue d’una qualsiasi cattivaintenzione? Continuò a strappare erba fino a quando il sasso appuntito non loprivò del suo barlume di coscienza. Gli altri componenti del brancocontinuarono a pascolare senza allarmarsi, perché l’uccisione era statafulminea e silenziosa.

Tutti gli altri uomini-scimmia del gruppo si eranofermati a guardare, e ora si raccolsero intorno a Guarda-la-Luna e alla suavittima con ammirato stupore. Di lì a poco uno di essi raccattò l’armaimbrattata di sangue e prese a vibrarla sul facocero morto. Gli altri loimitarono con tutti i bastoni e i sassi che riuscirono a trovare, finché laloro preda non fu maciullata.

Poi si annoiarono; alcuni si allontanarono, mentre glialtri rimanevano esitanti intorno alla carogna irriconoscibile… e il futuro delmondo dipendeva dalla loro decisione. Passò un intervallo di temposorprendentemente lungo prima che una delle femmine che allattavanoincominciasse a leccare il sasso insanguinato che aveva tra le dita.

E occorse ancora più tempo prima che Guarda-la-Luna, nonostantetutto ciò che gli era stato mostrato, si rendesse realmente conto di non dovermai più soffrire la fame.

 

IL LEOPARDO

 

 

Le armi e gli utensili che secondo il programmadovevano impiegare erano abbastanza semplici, e ciò nonostante avrebbero potutocambiare il mondo e fare degli uomini-scimmia i suoi padroni. L’arma piùprimitiva era il sasso tenuto nella mano, che moltiplicava di parecchie voltela potenza di un colpo. Veniva poi la clava d’osso, che consentiva di colpirepiù da lontano e poteva servire da difesa contro le zanne o gli artigli dianimali famelici.

Ma occorrevano loro altri mezzi, poiché i denti e leunghie non potevano smembrare rapidamente niente di più grosso di un coniglioselvatico. Fortunatamente, la natura aveva fornito loro gli utensili perfetti, cherichiedevano soltanto l’astuzia di raccattarli.

Anzitutto v’era un rozzo, ma efficientissimo coltello,o sega, di un modello che avrebbe risposto bene allo scopo per i successivi tremilioni di anni. Si trattava semplicemente della mascella inferiore di un’antilope,con i denti ancora al loro posto; non vi sarebbero stati perfezionamenti sostanzialifino alla scoperta del ferro. V’era poi un punteruolo, o un pugnale, sottoforma di un corno di gazzella, e infine un attrezzo per raschiare, ricavatodalla mascella completa, o quasi completa, di ogni piccolo animale.

La clava, la sega fatta di denti, il pugnale ricavatoda un corno, il raschietto d’osso… queste erano le invenzioni meravigliose cheoccorrevano agli uomini-scimmia per sopravvivere. Ben presto avrebberoriconosciuto in esse quei simboli del potere che rappresentavano, ma molti mesidovevano trascorrere prima che le loro goffe dita avessero acquisito lacapacità, o la volontà, di servirsene.

Forse, col tempo, sarebbero potuti pervenire di loroiniziativa al grandioso e brillante concetto di adoperare armi naturali comeattrezzi artificiali. Ma le probabilità erano tutte contro di loro, e ancheadesso rimanevano innumerevoli possibilità di insuccesso nelle epoche a venire.

Agli uomini-scimmia era stata offerta la loro primaoccasione. Non ve ne sarebbe stata una seconda; ora avevano in pugno, letteralmente,il proprio avvenire.

 

* * *

 

Le lune continuarono a crescere e a calare; piccolivennero al mondo e talora vissero; vecchi di trent’anni, deboli e sdentati, morirono;il leopardo imponeva il proprio pedaggio la notte; gli Altri lanciavano minacceogni giorno dalla riva opposta del torrente… e la tribù prosperava.

Nel corso di un solo anno, Guarda-la-Luna e i suoicompagni erano cambiati in modo quasi irriconoscibile.

Avevano imparato bene la lezione; ora riuscivano amaneggiare tutti gli strumenti ch’erano stati loro rivelati. Il ricordo stessodella fame andava dileguandosi dalla loro mente; e sebbene i facoceri stesserodiventando diffidenti, esistevano gazzelle e antilopi e zebre a innumerevoli migliaiasulle pianure. Tutti questi animali e altri erano caduti preda degliapprendisti cacciatori.

Adesso che non erano più quasi storditi dall’inedia, gliuomini-scimmia avevano tempo sia per i piaceri, sia per i primi rudimenti delpensiero. Il loro nuovo sistema di vita veniva ormai accettato con noncuranza, edessi non lo collegavano in alcun modo con il monolito ancora ritto accanto allapista che conduceva al torrente. Se per caso si fossero soffermati a considerarela situazione, avrebbero forse potuto vantarsi di essere riusciti a migliorarela loro situazione con i propri sforzi: in realtà, avevano già dimenticato ognialtro modo di vivere.

Ma nessuna utopia è perfetta, e questa presentava dueinconvenienti. Il primo consisteva nel leopardo razziatore, la cui passione pergli uomini-scimmia sembrava essere divenuta ancor più irresistibile adesso cheerano meglio nutriti. Il secondo consisteva nella tribù all’altro lato deltorrente; gli Altri, infatti, erano riusciti in qualche modo a sopravvivere, rifiutandosicaparbiamente di morire di fame.

Il problema del leopardo venne risolto in parte dalcaso, in parte in seguito a un errore grave, quasi fatale, anzi, diGuarda-la-Luna. Eppure, sul momento la sua idea era sembrata così brillante daindurlo a danzare di gioia, e forse difficilmente si sarebbe potutorimproverarlo per aver ignorato le conseguenze.

Alla tribù toccavano ancora di quando in quandogiornate sfavorevoli, sebbene esse non ne minacciassero più la sopravvivenzastessa. Un giorno, verso il crepuscolo, essa non era riuscita a uccidere alcunapreda; si scorgevano già le caverne, mentre Guarda-la-Luna guidava gli stanchie malcontenti compagni verso i rifugi. E là, quasi sulla soglia delle caverne, trovaronouno dei rari e preziosi doni della natura.

Un’antilope adulta giaceva sulla pista. Aveva unazampa, anteriore fratturata, ma le rimaneva ancora abbastanza spiritocombattivo e gli sciacalli che l’accerchiavano si tenevano a rispettosadistanza dalle sue corna simili a pugnali. Potevano permettersi di aspettare; sapevanoche il momento opportuno sarebbe giunto.

Ma si erano dimenticati di avere dei concorrenti, e indietreggiaronocon ringhi irosi quando gli uomini-scimmia arrivarono. Anche questi ultimicircondarono con circospezione l’antilope, tenendosi di là dalla portata diquelle corna pericolose; poi andarono all’attacco con clave e sassi.

Non fu un attacco molto efficiente e coordinato. Primache la povera bestia fosse liberata dalla morte, la luce era quasi scomparsa… egli sciacalli stavano ritrovando il coraggio. Guarda-la-Luna, combattuto fra lapaura e la fame, si rese conto a poco a poco che tutte quelle fatiche sarebberopotute essere vane. Era troppo pericoloso trattenersi lì ancora a lungo.

Poi, non per la prima o l’ultima volta, dimostrò diessere un genio. Con uno sforzo immenso dell’immaginazione, si raffigurò l’antilopemorta… nella sicurezza della sua caverna. Incominciò a trascinarla versoil dirupo della collina; di lì a non molto gli altri capirono le sue intenzionie presero ad aiutarlo.

Se avesse saputo quanto sarebbe stata difficile l’impresa,non l’avrebbe mai tentata. Soltanto la sua grande forza e l’agilità ereditatadagli antenati arboricoli gli consentirono di trasportare la carcassa su per ilripido versante. Più volte, in lacrime per la frustrazione, quasi abbandonò lapreda, ma una cocciutaggine profondamente radicata quanto la fame continuò asostenerlo. A volte gli altri lo aiutavano, a volte lo ostacolavano; quasi semprelo intralciavano. Ma infine l’impresa riuscì; la malconcia antilope vennetrascinata oltre l’imboccatura della caverna, mentre gli ultimi bagliori rossidel tramonto dileguavano dall’orizzonte; e il banchetto cominciò.

Alcune ore dopo, ingozzato fino alla sazietà, Guarda-la-Lunasi destò. Senza sapere perché, si drizzò a sedere nelle tenebre, tra i corpiproni dei suoi compagni altrettanto sazi, e tese le orecchie verso la notte.

Non si udiva alcun suono tranne i respiri greviintorno a lui; il mondo intero sembrava addormentato. Le rocce oltre l’imboccaturadella caverna splendevano bianche come ossa calcinate nella luce vivida dellaluna, in quel momento molto alta nel cielo. Ogni pensiero di pericolo sembravainfinitamente remoto.

Poi, da molto lontano, giunse il suono di un ciottoloche rotolava. Timoroso, ma al contempo incuriosito, Guarda-la-Luna strisciòfuori, sulla sporgenza rocciosa davanti alla caverna, e scrutò, in basso, laparete del dirupo.

Quello che vide lo lasciò talmente paralizzato dalterrore che per lunghi secondi non riuscì a muoversi. Sei metri appena più inbasso, due splendenti occhi gialli lo stavano fissando; lo ipnotizzarono a talpunto con la paura, che quasi non vide il corpo flessibile e striato dietro diessi scivolare vellutato e silenzioso di roccia in roccia. Mai, prima di allora,il leopardo era salito così in alto. Aveva ignorato questa volta le caverne piùin basso, pur sapendo benissimo dei loro abitatori. Ora cercava altra preda; stavaseguendo la traccia del sangue su per il dirupo inondato di luce lunare.

Alcuni secondi dopo, la notte fu resa orrenda daglistrilli di allarme degli uomini-scimmia nella sovrastante caverna. Il leopardoebbe un ringhio infuriato, mentre si rendeva conto di non poter più contare sulfattore sorpresa. Ma non per questo smise di avanzare, in quanto sapeva di nonaver nulla da temere.

Giunse sulla sporgenza rocciosa e riposò un momentonell’angusto spazio aperto. L’odore del sangue aleggiava tutto attorno, colmandoil suo cervello piccolo e feroce di un unico travolgente desiderio. Senzaesitare entrò a passi vellutati nella caverna.

E là commise il suo primo sbaglio, poiché, mentre si lasciavaalle spalle il chiaro di luna, anche i suoi occhi superbamente adattati allanotte vennero a trovarsi in momentaneo svantaggio. Gli uomini-scimmiariuscirono a scorgerlo, profilato in parte contro l’imboccatura della caverna, piùchiaramente di quanto esso potesse vedere loro. Erano atterriti, ma non più deltutto indifesi.

Ringhiando e sferzando la coda con arrogante fiducia, illeopardo avanzò in cerca del tenero cibo che bramava. Se avesse incontrato lapreda all’aperto, non vi sarebbero state difficoltà; ma ora che gliuomini-scimmia erano intrappolati, la disperazione aveva dato loro il coraggiodi tentare l’impossibile. E, per la prima volta, disponevano dei mezzi con cuiriuscirvi.

Il leopardo si accorse che accadeva qualcosa diinsolito quando sentì sul cranio un urto così forte da sentirsi stordito. Colpìfulmineo con una delle zampe anteriori e udì un urlo di sofferenza, mentre i suoiartigli laceravano soffice carne. Poi sentì un dolore lancinante, mentrequalcosa di affilato gli penetrava nei fianchi… una volta, due, e una terzavolta ancora. Piroettò per colpire le ombre che strillavano e danzavano da ognilato.

Di nuovo vi fu un colpo violento, mentre qualcosa gliveniva vibrato sul muso. Fece scattare le zanne su una confusa chiazza biancain movimento… ma soltanto per sentirle raschiare su un osso nudo e inutile.

E ora, ultima e incredibile indegnità, si sentì tirarela coda dalle radici.

Girò su se stesso, scaraventando contro le paretidella caverna i suoi aguzzini follemente audaci. Ma, qualunque cosa facesse, nonriusciva a sottrarsi alla gragnola di colpi inflittigli con rozze armiimpugnate da mani goffe eppur potenti.

E poi commise il secondo sbaglio, perché, nellostupore e nella paura, aveva dimenticato dove si trovava. O forse era statostordito o accecato dai colpi che gli piovevano sulla testa; comunque stesserole cose, balzò bruscamente fuori dalla caverna. Si udì un urlo orribile mentreprecipitava, girando su se stesso, nel vuoto. Secoli dopo, parve, si udì untonfo mentre piombava su un affioramento di rocce a metà del dirupo; in seguito,il solo rumore fu un franare di pietre smosse, che si spense nella notte.

Per molto tempo, inebriato dalla vittoria, Guarda-la-Lunarimase in piedi a danzare, emettendo grida inintelligibili, all’imboccaturadella caverna. Intuiva giustamente che tutto il suo mondo era mutato e che eglinon era più una vittima impotente delle forze circostanti.

Poi rientrò nella caverna e, per la prima volta invita sua, ebbe una notte di sonno ininterrotto.

 

* * *

 

Al mattino, trovarono la carcassa del leopardo aipiedi del dirupo. Anche nella morte, trascorse qualche tempo prima che uno diloro osasse avvicinare il mostro sconfitto, ma, di lì a non molto, locircondarono, con i loro coltelli e le loro seghe d’osso.

Fu un lavoro molto faticoso, e quel giorno non cacciarono.

 

INCONTRO ALL’ALBA

 

 

Mentre guidava la tribù verso il torrente nella lucefioca dell’alba, Guarda-la-Luna si soffermò incerto in un luogo familiare. Qualcosa,lo sapeva, mancava; ma non riuscì a ricordare che cosa fosse. Non sciupòenergie mentali per risolvere l’enigma, poiché quel mattino aveva in mente cosepiù importanti.

Simile al tuono e al fulmine, alle nubi e alle eclissi,il grande blocco cristallino era scomparso misteriosamente com’era venuto. Essendosvanito nel passato inesistente non turbò mai più i pensieri di Guarda-la-Luna.

Guarda-la-Luna non avrebbe saputo che cosa gli avessefatto; e nessuno dei suoi compagni si domandò, mentre gli rimanevano attornonella bruma mattutina, perché egli si fosse soffermato per un momento propriolì, andando al torrente.

 

* * *

 

Sul loro lato del corso d’acqua, nella sicurezza maiviolata del loro territorio, gli Altri scorsero per la prima volta Guarda-la-Lunae una dozzina di maschi della sua tribù come un fregio in movimento contro ilcielo dell’alba. Subito cominciarono a lanciare la loro sfida quotidiana; ma, questavolta, non vi fu risposta.

Costantemente, deliberatamente… soprattutto, silenziosamente,Guarda-la-Luna e la sua banda discesero il basso poggio che dominava ilfiumicello; e, mentre si avvicinavano, gli Altri divennero improvvisamentesilenziosi. La loro furia rituale defluì, per essere sostituita da un crescentetimore. Erano vagamente consci del fatto che qualcosa era accaduto, e che quell’incontrodifferiva da tutti gli altri precedenti. Le clave e i coltelli d’osso dei qualiera munito il gruppo di Guarda-la-Luna non li allarmarono, poiché non necapivano lo scopo. Sapevano soltanto che i movimenti dei loro rivali eranoadesso impregnati di decisione e di minaccia.

Il gruppo si fermò sull’orlo dell’acqua, e per unmomento il coraggio degli Altri tornò a rivivere. Guidati da Un-Orecchio, essiripresero a malincuore il canto di battaglia. Si protrasse soltanto per pochisecondi prima che una visione terrificante li facesse ammutolire.

Guarda-la-Luna levò alte le braccia, rivelando ilcarico che fino a quel momento era stato celato dai corpi irsuti dei suoicompagni. Reggeva un ramo robusto, e impalata su di esso si trovava la testainsanguinata del leopardo. Un bastoncello teneva spalancata la bocca, e lelunghe zanne scintillavano di un bianco spettrale, nei primi raggi del sole.

Quasi tutti gli Altri rimasero troppo paralizzatidalla paura per potersi muovere; ma alcuni di essi iniziarono una ritiratalenta e incespicante. A Guarda-la-Luna non occorreva alcun altroincoraggiamento. Sempre reggendo alto sopra il capo il trofeo mutilato, incominciòad attraversare il torrente. Dopo un attimo di esitazione, i suoi compagni sguazzaronodietro di lui.

Quando Guarda-la-Luna giunse sulla riva opposta, Un-Orecchiomanteneva ancora il terreno. Forse era troppo coraggioso o troppo stupido perfuggire; forse non riusciva a convincersi che quell’oltraggio stesse davveroaccadendo. Vile o eroe, nulla mutò, in ultimo, quando il ringhio paralizzatodalla morte gli piombò sul capo incapace di capire.

Urlando di paura, gli Altri si dispersero nellaboscaglia; ma di lì a non molto sarebbero tornati, e ben presto avrebbero dimenticatoil loro capo perduto.

Per qualche secondo, Guarda-la-Luna rimase incertoaccanto alla sua nuova vittima sforzandosi di capire lo strano e mirabile fatto:il leopardo morto poteva uccidere ancora. Adesso era il padrone del mondo, e nonsapeva affatto che cosa fare in seguito.

Ma avrebbe pensato qualcosa.

 

ASCESA DELL’UOMO

 

 

Un nuovo animale vagava sul pianeta, diffondendosiadagio dal cuore del continente africano. Era ancora così raro che uncensimento frettoloso avrebbe potuto ignorarlo tra i brulicanti miliardi dicreature in movimento sulla terra e nel mare. Nulla dimostrava, ancora, cheavrebbe prosperato, o sarebbe anche soltanto riuscito a sopravvivere: in quelmondo ove tanti altri animali più possenti si erano estinti, la sua sortecontinuava a essere in precario equilibrio.

Nel corso dei centomila anni trascorsi da quando i cristallierano calati sull’Africa, gli uomini-scimmia non avevano inventato nulla. Maavevano incominciato a mutare, ed erano riusciti ad acquistare capacità chenessun altro animale possedeva. Le loro clave d’osso avevano aumentato laportata delle braccia e moltiplicato la forza di cui disponevano; adesso gliuomini-scimmia non erano più indifesi tra i predatori con i quali dovevanogareggiare. Potevano scacciare dalle loro prede i carnivori più piccoli; e riuscivanoper lo meno a scoraggiare i più grossi, e talora a metterli in fuga.

I loro denti massicci crescevano più piccoli, perchénon erano più essenziali. Le pietre affilate utilizzabili per estrarre radici oper tagliare e segare la carne e le fibre, avevano incominciato a sostituirlicon conseguenze non determinabili. Gli uomini-scimmia non erano più minacciatidalla fame quando i loro denti si guastavano o si consumavano; anche gliutensili più rozzi potevano aggiungere parecchi anni alle loro esistenze. E, manmano che i denti andavano rimpicciolendosi, la forma della faccia incominciò amodificarsi; il grugno si portò più indietro, la mascella massiccia divenne piùdelicata, la bocca riuscì a emettere suoni più sottili. Mancava ancora unmilione di anni alla parola articolata, ma i primi passi in questa direzioneerano stati compiuti.

E poi il mondo incominciò a mutare. In quattro grandiondate successive, intervallate l’una dall’altra da duecentomila anni, le ereglaciali dilagarono, lasciando il loro segno su tutto il globo. Di là daitropici, i ghiacciai uccisero coloro che avevano prematuramente abbandonato leloro sedi ancestrali; e dappertutto eliminarono le creature che non riuscironoad adattarsi.

Quando i ghiacci scomparvero, anche gran parte dellavita precedente sul pianeta era scomparsa… compresi gli uomini-scimmia. Ma, adifferenza di molti altri, essi avevano lasciato discendenti; anzichéestinguersi, semplicemente, si erano trasformati. I costruttori di utensilierano stati rinnovati dai loro stessi attrezzi.

Poiché, servendosi di clave e di selci, le loro maniavevano finito con l’acquisire una destrezza che non si riscontrava in alcun’altraspecie del regno animale, e avevano consentito agli uomini-scimmia di costruirestrumenti ancora migliori, i quali, a loro volta, erano riusciti a perfezionareulteriormente le loro membra e la loro mente. Fu un processo sempre più velocee cumulativo, e al suo termine venne a trovarsi l’uomo.

I primi veri uomini possedevano armi e utensilisoltanto un poco migliori di quelli dei loro antenati di un milione d’anniprima, ma sapevano servirsene con un’abilità di gran lunga maggiore. E a uncerto momento, nei secoli tenebrosi trascorsi precedentemente, avevanoinventato lo strumento più essenziale d’ogni altro, sebbene non potesse esserené veduto né toccato. Avevano imparato a parlare, conquistando così la primaloro grande vittoria sul Tempo. Ora le conoscenze di una generazione potevanoessere tramandate a quella successiva, per cui ogni epoca era in grado di profittaredi quelle passate.

A differenza dagli animali, che conoscevano soltantoil presente, l’uomo aveva acquisito un passato; e incominciava a brancolareverso il futuro.

Stava imparando, inoltre, a imbrigliare le forze dellanatura; domando il fuoco, aveva gettato le basi della tecnica, e si eralasciato molto indietro le proprie origini animalesche. La pietra fu sostituitadal bronzo, e poi dal ferro. Alla caccia seguì l’agricoltura. La tribù divenneil villaggio, il villaggio la cittadina. La parola diventò eterna, grazie acerti segni sulla pietra, sull’argilla e sul papiro. Dopo non molto tempo, l’uomoinventò la filosofia e la religione. E popolò il cielo, non del tutto a torto, didèi.

Mentre il suo corpo diventava sempre più indifeso, i suoimezzi di offesa si facevano sempre più spaventosi. Con la pietra e il bronzo e ilferro e l’acciaio aveva percorso la gamma di tutto ciò che poteva penetrare e tagliare,e molto presto era riuscito a imparare il modo di abbattere le sue vittime dalontano. La lancia, l’arco, l’arma da fuoco e infine il missile teleguidato gliavevano dato armi di portata infinita e di una quasi infinita potenza.

Senza queste armi, anche se le utilizzò non di rado controse stesso, l’uomo.
non avrebbe mai conquistato il proprio mondo. In esse avevaposto il cuore e l’anima, e per epoche intere ne era stato servito bene.

Ma ora, finché esistevano, egli viveva un tempo preso a prestito.

CAPITOLO SECONDO
AMT-1

 

 

 

VOLO SPECIALE

 

 

Per quante volte si potesse abbandonare la Terra, pensòil dottor Heywood Floyd, l’orgasmo non si placava mai del tutto. Egli era statouna volta su Marte, tre volte sulla Luna, e più volte di quante riuscisse aricordare sulle diverse basi spaziali. Eppure, mentre il momento del lancio siavvicinava, fu conscio di una tensione crescente, di una sensazione di portentoe di timore reverenziale e, sì, anche di nervosismo, alla maniera di qualsiasinovellino sul punto di ricevere il battesimo dello spazio.

L’aviogetto lo aveva portato fulmineamente sin lì da Washington,dopo le istruzioni impartitegli a mezzanotte dal Presidente, e stava orascendendo verso uno dei paesaggi più familiari e al contempo più entusiasmantidel mondo. Là, su trentadue chilometri della costa della Florida, si stendevanoi risultati delle prime due generazioni dell’era spaziale. A Sud, delineate daammiccanti luci rosse di avvertimento, si ergevano le gigantesche torri dilancio dei razzi di Saturno e Nettuno, che avevano posto gli uomini intraiettoria per i pianeti e che erano ormai passate alla storia. In prossimitàdell’orizzonte, lucente torre argentea illuminata da riflettori, si levava l’ultimodei Saturno V, da quasi vent’anni monumento nazionale e meta di pellegrinaggi. Nonlontano, profilata contro il cielo come una montagna creata dall’uomo, c’era lamole incredibile dell’Edificio Montaggio Veicoli, tuttora la più grandestruttura esistente al mondo.

Ma queste cose appartenevano ormai al passato ed eglistava volando verso il futuro. Mentre si inclinavano in virata, il dottor Floydpoté vedere sotto di sé un labirinto di edifici, quindi una grande pista diatterraggio, poi una larga, rettilinea cicatrice, sul piatto paesaggio dellaFlorida… le rotaie multiple di una gigantesca rampa di lancio. All’estremità diquest’ultima, circondato da veicoli e da incastellature, si trovava un aereospaziale scintillante in una pozza di luce, mentre fervevano i preparativi peril suo balzo tra le stelle. Per un improvviso venir meno del senso dellaprospettiva, causato dalle rapide variazioni di velocità e di quota, parve aFloyd di guardare una piccola falena argentea, illuminata dal fascio di luce d’unalampadina tascabile.

Poi le minuscole sagome che si affrettavano qua e làal suolo gli fecero capire quali fossero le dimensioni reali della nave spaziale.Da un’estremità all’altra della stretta V delle ali doveva essere largasessanta metri. E quell’enorme veicolo, si disse Floyd con una certaincredulità, ma anche con orgoglio, sta aspettando me. A quanto gli risultava, erala prima volta che si organizzava un’intera missione per portare un solo uomosulla Luna.

Sebbene fossero le due del mattino, un gruppo di giornalistie di operatori cinematografici lo fermò mentre si dirigeva verso la navespaziale Orione III illuminata dai riflettori. Ne conosceva di vistaparecchi perché, come presidente del Consiglio nazionale dell’astronautica, laconferenza stampa faceva parte del suo sistema di vita. Non erano quelli né ilmomento né il luogo per una conferenza stampa, né egli aveva qualcosa da dire; maera importante non offendere i signori dei moderni mezzi di comunicazione.

«Il dottor Floyd? Sono Jim Forster dell’AssociatedNews. Potrebbe dirci qualche parola su questo suo volo?»

«Sono spiacentissimo… non posso dir nulla.»

«Ma si è incontrato con il Presidente nelleprime ore di ieri sera?» domandò una voce familiare.

«Oh… salve, Mike. Ho paura che l’abbiano tirata giùdal letto per niente. Decisamente “no comment”.»

«Può almeno confermare o negare che un’epidemia di qualchegenere è scoppiata sulla Luna?» domandò un telecronista, riuscendo a farsiavanti e a inquadrare Floyd nella telecamera in miniatura.

«Mi dispiace», disse Floyd, scuotendo la testa.

«E la quarantena?» domandò un altro giornalista. «Perquanto tempo sarà mantenuta?»

«Continuo a non aver niente da dire.»

«Dottor Floyd», domandò una giornalista molto piccoladi statura e molto decisa, «quale giustificazione può esservi per questo vetototale sulle notizie dalla Luna? Ha forse qualcosa a che vedere con lasituazione politica?»

«Quale situazione politica?» domandò Floyd, asciutto.Si udì qualche risatina e qualcuno gridò: «Buon viaggio, dottore!» mentre eglisi dirigeva verso il santuario della torre di salita.

Sin da quando riusciva a ricordare, non si eratrattato tanto di una «situazione» quanto di una crisi permanente. A partiredagli anni Settanta, il mondo era stato dominato da due problemi che, ironicamente,tendevano ad annullarsi a vicenda.

Sebbene il controllo delle nascite fosse economico, sicuroe approvato da tutte le religioni più importanti, esso era stato attuato troppotardi; la popolazione mondiale ammontava ormai a sei miliardi di individui… unterzo dei quali nell’impero cinese. In alcuni Stati autoritari erano stateaddirittura approvate leggi che imponevano alle famiglie due soli figli, ma laloro applicazione aveva dimostrato di essere impossibile. Per conseguenza, i viveriscarseggiavano in ogni paese; persino negli Stati Uniti v’erano giorni in cuinon si poteva acquistare carne, e si prevedeva una diffusa carestia entroquindici anni, nonostante gli eroici tentativi di coltivare il mare e diprodurre alimenti sintetici.

Sebbene la necessità della collaborazioneinternazionale fosse più urgente che mai, rimanevano tante frontiere quante inogni epoca precedente. In un milione di anni, il genere umano aveva perduto benpochi dei suoi istinti aggressivi; lungo confini simbolici visibili soltantoagli uomini politici, le trentotto potenze nucleari si sorvegliavano a vicendacon ansia bellicosa. Tra tutte, possedevano un megatonnellaggio sufficiente aeliminare l’intera crosta superficiale del pianeta. E anche se, miracolosamente,nessuno aveva impiegato armi atomiche, una simile situazione difficilmente sisarebbe potuta protrarre in eterno.

E ora, per loro motivi imperscrutabili i cinesistavano offrendo alle più piccole nazioni una completa capacità nucleare dicinquanta testate belliche e di altrettanti missili. Il costo era inferiore aiduecento milioni di dollari, e potevano essere concesse facilitazioni dipagamento.

Forse cercavano soltanto di puntellare la loro barcollanteeconomia, tramutando in liquidità sistemi di armamenti superati, come avevanosupposto taluni osservatori; o forse avevano scoperto sistemi di guerra cosìprogrediti da non avere più alcuna necessità di simili giocattoli; si eraparlato di radio-ipnosi mediante trasmittenti su satelliti, di virus potenziati,e di ricatto per mezzo di malattie sintetiche, delle quali essi soli possedevanol’antidoto. Queste idee incantevoli erano quasi certamente propaganda o purafantasia, ma non sembrava prudente non tenerne affatto conto.

Ogni volta che Floyd si allontanava dalla Terra, sidomandava se l’avrebbe trovata ancora al momento del ritorno.

La linda hostess lo salutò mentre entrava nella cabina.«Buongiorno, dottor Floyd. Sono Miss Simmons… vorrei darle il benvenuto a bordoa nome del comandante Tynes e del nostro copilota, il primo ufficiale Ballard.»

«Grazie», disse Floyd con un sorriso, domandandosiperché le hostess dovessero sempre esprimersi come robot dei giri turistici incomitiva.

«Il decollo avrà luogo tra cinque minuti», ellacontinuò, mostrando con un gesto la cabina deserta per venti passeggeri. «Puòoccupare qualsiasi posto preferisce, ma il capitano Tynes le raccomanda ilprimo posto a sinistra dalla parte del finestrino, se vuole osservare le operazionidi attracco.»

«Farò così», egli disse, andando verso il postoindicategli. La hostess si affaccendò intorno a lui ancora qualche momento, poisi diresse verso il suo cubicolo in fondo alla cabina.

Floyd sedette, regolò le cinture di sicurezza intornoalla vita e alle spalle, e assicurò la borsa di cuoio sul sedile adiacente. Unattimo dopo l’altoparlante entrò in azione con un sommesso suono schioccante. «Buongiorno»,disse la voce della signorina Simmons. «Questo è il volo speciale 3, dalcosmodromo Kennedy alla base spaziale Uno.»

Era decisa, sembrava, a rispettare l’intera proceduraper il suo unico passeggero, e Floyd non seppe resistere alla tentazione di unsorriso, mentre ella continuava inesorabilmente.

«Il volo avrà una durata di cinquantacinque minuti. Lamassima accelerazione sarà di due g, e rimarremo in assenza di peso per trentaminuti. La prego di non lasciare il suo posto fino a quando non sarà accesa laspia di sicurezza.»

Floyd voltò la testa e gridò: «Grazie».

Intravide un sorriso un po’ imbarazzato, ma incantevole.

Si appoggiò alla spalliera del sedile e si rilassò. Quelviaggio, calcolò, sarebbe costato ai contribuenti un po’ più di un milione didollari. Se fosse risultato ingiustificato, egli avrebbe perduto il posto; magli sarebbe sempre stato possibile tornare all’università e agli studiinterrotti sulla formazione dei pianeti.

«Via al sistema automatico di conteggio alla rovescia»,disse la voce di Tynes dall’altoparlante, con la cullante cantilena tipicadelle conversazioni per radio. «Decollo tra un minuto.»

Come sempre, il decollo parve più lungo di un’ora. Floyddivenne acutamente consapevole delle forze gigantesche avvolte a spiraleintorno a lui e in attesa di essere sprigionate. Nei serbatoi di carburantedella nave spaziale e nel serbatoio di energia della rampa di lancio eracompressa la stessa potenza di una bomba nucleare. Ed essa sarebbe stataimpiegata per condurlo ad appena trecentosessanta chilometri dalla Terra.

Non vi fu più nulla dell’antiquato sistema di conteggioalla rovescia, CINQUE-QUATTRO-TRE-DUE-UNO-ZERO,così nocivo al sistema nervoso umano.

«Lancio tra quindici secondi. Si sentirà più a suoagio se comincerà a respirare profondamente.»

Questa era utile psicologia e utile fisiologia. Floydsi sentì ben saturato di ossigeno, e pronto ad affrontare qualunque cosa quandola rampa di lancio incominciò a scaraventare sull’Atlantico il suo carico.

Non fu facile capire quando si sollevarono dalla rampae iniziarono il volo, ma non appena il rombo dei razzi raddoppiò a un tratto lapropria furia, e Floyd si sorprese ad affondare sempre e sempre più nei cuscinidel sedile, capì che i motori del primo stadio erano stati messi in moto. Siaugurò di poter guardare fuori dal finestrino, ma era uno sforzo anche soltantovoltare la testa. Eppure non si provava alcun disagio; anzi, la pressione dell’accelerazionee del rombo travolgente dei motori produceva una straordinaria euforia. Con leorecchie ronzanti e il sangue pulsante nelle vene, Floyd si sentì più vivo diquanto gli fosse accaduto da anni. Era di nuovo giovane, avrebbe voluto cantarea gran voce… il che era senz’altro possibile, in quanto nessuno sarebberiuscito a udirlo.

Lo stato d’animo passò rapidamente, mentre egli sirendeva conto che stava abbandonando la Terra e tutto ciò che avesse mai amato.Laggiù si trovavano i suoi tre figli, rimasti orfani della madre da quando suamoglie era partita con quel fatale volo per l’Europa dieci anni prima. (Diecianni? Impossibile! Eppure era così…) Forse, nel loro interesse, avrebbe dovutoriammogliarsi…

Aveva quasi perduto la sensazione del tempo quando lapressione e il rombo diminuirono bruscamente, e l’altoparlante della cabinaannunciò: «Ci prepariamo al distacco del primo stadio. Via.»

Vi fu un lieve sussulto; e a un tratto Floyd ricordòuna citazione di Leonardo da Vinci, che aveva visto incorniciata in un ufficiodella NASA:

 

Il Grande Uccello volerà sul dorso del

grande uccello, arrecando gloria al nido

ove nacque.

 

Bene, il Grande Uccello stava volando adesso, di là datutti i sogni di Leonardo da Vinci, e il suo esausto compagno tornava sullaTerra. Dopo un arco di sedicimila chilometri, il primo stadio vuoto avrebbeplanato nell’atmosfera, rinunciando alla velocità per la distanza, mentre sidirigeva verso il cosmodromo Kennedy. Di lì a poche ore, revisionato e rifornitodi carburante, sarebbe stato nuovamente pronto a sollevare un altro compagnoverso il silenzio splendente che non avrebbe mai potuto raggiungere.

Ora, pensò Floyd, siamo autonomi, più che a metàstrada dall’orbita. Quando l’accelerazione tornò a farsi sentire, mentreentravano in azione i razzi del secondo stadio, la spinta fu assai più dolce: invero,egli non senti più della gravità normale. Ma sarebbe stato impossibilecamminare, dato che «l’alto» si trovava direttamente verso la parte anterioredella cabina. Se egli fosse stato così sciocco da lasciare il suo posto, sarebbeandato a schiacciarsi immediatamente contro la parete posteriore.

Questo effetto era un po’ sconcertante, in quanto si sarebbedetto che la nave spaziale fosse ritta sulla propria coda. A Floyd, seduto nell’estremitàanteriore della cabina, tutti i sedili apparivano fissati a una parete chescendeva a perpendicolo sotto di lui. Stava facendo del suo meglio per ignorarequesta spiacevole illusione, quando l’alba esplose fuori dalla nave spaziale.

In pochi secondi saettarono attraverso veli cremisi e roseie dorati e azzurri fino al bianco accecante del giorno. Sebbene i finestrinifossero intensamente anneriti per attenuare il bagliore, i sondanti fasci diluce solare che adesso si inclinavano adagio nella cabina lasciarono Floydquasi cieco per parecchi minuti. Si trovava nello spazio, eppure eraimpossibile riuscire a scorgere le stelle.

Si fece schermo agli occhi con le mani e cercò discrutare attraverso il finestrino accanto a lui. Là fuori, l’ala reclinata all’indietrodella nave spaziale splendeva come metallo incandescente nella luce solareriflessa; tutto attorno a essa regnava la più fitta oscurità, e quell’oscuritàdoveva essere colma di stelle… ma era impossibile scorgerle.

Il peso stava lentamente defluendo; i razzi venivanogradualmente spenti, mentre la nave spaziale si collocava in orbita. Il tuonodei motori si ridusse a un rombo soffocato, poi a un sibilo dolce, quindi sispense nel silenzio. Se non fosse stato per le cinghie che lo trattenevano, Floydavrebbe galleggiato fuori dal sedile; sembrava, in ogni modo, che il suostomaco fosse sul punto di fare proprio questo. Sperò che le pillole ingeritemezz’ora prima e sedicimila chilometri più indietro producessero gli effettiprevisti. Aveva sofferto di nausea spaziale una sola volta nel corso della suacarriera, ed era anche troppo.

La voce del pilota suonò ferma e fiduciosa uscendodall’altoparlante della cabina. «Prego rispettare tutti i regolamenti relativia Zero-g. Attraccheremo alla Base Spaziale Uno tra quarantacinque minuti esatti.»

La hostess si avvicinò risalendo lo stretto passaggioa destra dei sedili molto vicini l’uno all’altro. V’era un che di lievementemolleggiato nei suoi passi e i piedi di lei si staccavano dal pavimento conriluttanza, come se fossero invischiati in uno strato di colla. Seguiva lastriscia di tappeto Velcro, giallo acceso, che rivestiva per tutta la lunghezzail pavimento… e il soffitto. Il tappeto, come le suole dei suoi sandali, eracoperto di miriadi di minuscoli ganci che aderivano gli uni agli altri. Questoespediente per camminare in assenza di peso riusciva a rassicurare immensamentei passeggeri disorientati.

«Gradirebbe un caffè o un tè, dottor Floyd?» elladomandò allegramente.

«No, grazie», sorrise lui. Si sentiva sempre come unneonato quando doveva succhiare da uno di quei tubi di plastica.

La hostess continuò a rimanergli accanto ansiosamente,mentre Floyd apriva la borsa di cuoio e si accingeva a toglierne le carte.

«Dottor Floyd, posso farle una domanda?»

«Ma certo», le rispose, guardandola al di sopra degliocchiali.

«Il mio fidanzato è geologo a Clavius», disse lasignorina Simmons, misurando cauta le parole, «e non ho sue notizie da più diuna settimana.»

«Sono dolente di saperlo; forse è lontano dalla suabase e nell’impossibilità di mettersi in contatto.»

Ella scosse la testa. «Mi avverte sempre quando questosta per accadere. E può immaginare quanto sono preoccupata… con tutte questevoci. È proprio vero quello che dicono, di un’epidemia sulla Luna?»

«Anche se fosse vero, non è il caso di allarmarsi. Rammenti,vi fu una quarantena nel 1998, per quella mutazione del virus influenzale. Moltisi ammalarono, ma nessuno morì. E non posso dirle altro, davvero», concluse confermezza.

La signorina Simmons sorrise affabile e si raddrizzò.

«Bene, grazie lo stesso, dottore. Scusi se l’hodisturbata.»

«Non è stato affatto un disturbo», disse lui, galante,ma non molto sincero. Poi si calò nei suoi interminabili rapporti tecnici, inun disperato assalto dell’ultimo momento ai soliti arretrati.

Non avrebbe avuto il tempo di leggere una voltaarrivato sulla Luna.

 

APPUNTAMENTO IN ORBITA

 

 

Mezz’ora dopo, il pilota annunciò: «Prenderemocontatto tra dieci minuti. Prego controllare le cinture di sicurezza.»

Floyd ubbidì e mise via le carte. Significava andarein cerca di guai leggere durante il gioco di destrezza celeste che si svolgevadurante gli ultimi cinquecento chilometri; meglio chiudere gli occhi e rilassarsi,mentre la nave spaziale veniva spostata di poco avanti e indietro mettendo brevementein azione i razzi.

Pochi minuti dopo, intravide per la prima volta la Base Spaziale Uno, a pochi chilometri appena di distanza. La luce solare veniva riflessa conscintillanti bagliori dalle levigate superfici metalliche del disco, deldiametro di trecento metri, in lenta rotazione.

Non lontano, alla deriva sulla stessa orbita, vi eraun aereo spaziale Titov-V dalle ali a freccia e, nelle sue vicinanze, unAries-1Bquasi sferico, il cavallo da tiro dello spazio, con le quattrotozze gambe dei suoi ammortizzatori d’urto per l’atterraggio lunare chesporgevano da un lato.

La nave spaziale Oriente III si stavaabbassando da un’orbita superiore, e ciò rese la Terra spettacolarmente visibile dietro la Base. Dall’altezza di trecentoventi chilometri, Floydpoteva vedere gran parte dell’Africa e dell’oceano Atlantico. V’era una coltredi nuvole notevolmente estesa, ma riuscì ugualmente a scorgere i profiliazzurro-verdi della Costa d’Oro.

L’asse centrale della Base Spaziale, con le suebraccia d’attacco protese, stava ora nuotando adagio verso di loro. Diversamentedalla struttura dalla quale scaturiva, non stava ruotando… o meglio, giravanella direzione opposta, a una velocità che controbilanciava esattamente larotazione della Base. Così una nave spaziale in arrivo poteva essere accoppiataa esso, per il trasferimento dei passeggeri o del carico, senza essere disastrosamentecoinvolta nel moto rotatorio.

Con il più morbido degli urti, astronave e Baseentrarono in contatto. Si udirono all’esterno rumori metallici, raschianti, poiil sibilo breve dell’aria mentre le pressioni si portavano allo stesso valore. Pochisecondi dopo, il portello della camera d’equilibrio si aprì, e un uomo cheindossava i leggeri, aderenti calzoni e la camicetta dalle maniche corte checostituivano quasi l’uniforme del personale della Base Spaziale entrò nellacabina.

«Lieto di conoscerla, dottor Floyd. Sono Nick Miller, Basedi Sicurezza; devo occuparmi di lei fino alla partenza della “navetta”.»

Si scambiarono una stretta di mano, poi Floyd sorrisealla hostess e disse: «La prego di fare le mie congratulazioni al capitanoTynes e di ringraziarlo per il piacevole viaggio. Forse la rivedrò al mioritorno.»

Con molta cautela (era trascorso più di un anno dall’ultimavolta che si era trovato in assenza di peso, e sarebbe occorso qualche tempoprima che ritrovasse l’elasticità occorrente alle gambe nello spazio) si issò, unamano dopo l’altra, attraverso il portello, nella vasta camera circolarecontenuta entro l’asse della Base Spaziale. Era un locale abbondantementeimbottito, con le pareti ricoperte di appigli incassati; Floyd afferròsaldamente uno di essi, mentre la camera incominciava a ruotare, fino araggiungere la stessa velocità rotatoria della Base.

Man mano che acquistava velocità, deboli e fantomatichedita gravitazionali cominciarono ad afferrarlo, ed egli andò adagio alla derivaverso la parete circolare. Adesso era in piedi e oscillava adagio avanti e indietro,come alghe marine nei movimenti di marea, su quello ch’era diventato magicamenteun pavimento curvo. La forza centrifuga della rotazione della Base si era impadronitadi lui; la si sentiva molto debolmente in quel punto, così vicino all’asse, masarebbe diventata costantemente più forte man mano che egli si fosse spostatoverso l’esterno.

Dalla camera centrale di passaggio, seguì Miller giùper una scala a chiocciola. A tutta prima il suo peso era così scarso chedovette quasi spingersi in giù reggendosi a uno dei corrimani. Soltanto quandofu giunto nel salone passeggeri, contro la superficie esterna del grande discoin rotazione, aveva acquistato abbastanza peso per muoversi quasi normalmente.

Il salone era stato rimesso a nuovo, dall’ultima voltache egli lo aveva visto, e offriva nuove comodità. Oltre alle solite poltrone, aitavolini, al ristorante e all’ufficio postale, vi si trovavano adesso unnegozio di souvenir ove si vendevano fotografie e diapositive di paesaggilunari e planetari, nonché frammenti garantiti autentici di LunikRangerSurveyor, tutti montati in plastica e tutti a prezzi esorbitanti.

«Posso procurarle qualcosa mentre aspettiamo?» domandòMiller. «Saliamo a bordo tra una trentina di minuti.»

«Mi andrebbe un caffè forte, con due zollette dizucchero, e vorrei chiamare al telefono la Terra.»

«Benissimo, dottore… le porterò il caffè… i telefonisono da quella parte.»

Le pittoresche cabine telefoniche si trovavano a pochimetri appena da una recinzione con due ingressi accanto ai quali v’erano targhecon la scritta BENVENUTI NEL SETTOREAMERICANO E BENVENUTI NEL SETTORE SOVIETICO. Sotto queste targhefiguravano avvisi in inglese, russo, cinese, francese, tedesco e spagnolo.

 

PREGASI DI TENER PRONTI:

Il passaporto

Il visto

Ilcertificato medico

Il permessodi trasporto

Ladichiarazione del peso

 

V’era un simbolismo alquanto piacevole nel fatto che, nonappena varcata la recinzione, in entrambe le direzioni, i passeggeri eranoliberi di tornare a riunirsi. La divisione aveva scopi puramente amministrativi.

Floyd, dopo essersi accertato che il numero di codiceper gli Stati Uniti continuava a essere 81, formò il proprio numero di telefonocomposto di dodici cifre, lasciò cadere nella fessura la carta di creditouniversale in plastica, e ottenne la comunicazione dopo trenta secondi.

Washington era ancora immersa nel sonno, poiché mancavanoparecchie ore all’alba, ma lui non avrebbe disturbato nessuno. La suagovernante avrebbe avuto la comunicazione dal registratore, non appena si fossedestata.

«Miss Flemming… parla il dottor Floyd. Mi dispiace diesser dovuto partire così in fretta e furia. Telefoni, per favore, al mioufficio e chieda di andare a ritirare la macchina. Si trova all’aeroportoDulles e le chiavi le ha il signor Bailey, il controllore di volo. Subito dopo,telefoni al Circolo di Campagna Chevy Chase e lasci una comunicazione per ilsegretario. Non potrò assolutamente partecipare al torneo di tennis il prossimoweekend. Faccia le mie scuse… temo che avessero fatto conto su di me. Poitelefoni alla Downtown Electronics e dica loro che se il video nel mio studionon sarà stato riparato entro… oh, mercoledì… potranno riprendersi il dannatoaggeggio.» Si interruppe per riprendere fiato e cercò di farsi venire in mentealtre difficoltà o altre crisi che potessero determinarsi in futuro.

«Se rimarrà a corto di soldi, si rivolga all’ufficio; potrannotrasmettermi le comunicazioni urgenti, ma può darsi che io sia troppo occupatoper rispondere. Dica ai ragazzi del mio affetto; tornerò non appena possibile. Oh,diavolo… c’è qui qualcuno con il quale non voglio parlare… richiamerò dallaLuna, se possibile. Arrivederla.»

Floyd cercò di uscire inosservato dalla cabinatelefonica, ma era troppo tardi; l’uomo lo aveva già visto. Dall’uscita delsettore sovietico si stava precipitando verso di lui il dottor Dimitri Moisevic,dell’Accademia delle scienze dell’URSS.

Dimitri era uno dei migliori amici di Floyd, e proprioper questo motivo si trattava dell’ultima persona al mondo con la quale eglivolesse parlare, lì e in quel momento.

 

NAVETTA LUNARE

 

 

L’astronomo russo era alto, snello e biondo e il visoliscio smentiva i suoi cinquantacinque anni, gli ultimi dieci dei quali eranostati impiegati per costruire il gigantesco osservatorio radio sull’emisferoopposto della Luna, ove tremilaseicento chilometri di roccia compatta loschermavano dal tumulto elettronico della Terra.

«Ehilà, Heywood», egli disse, stringendoglienergicamente la mano. «È piccolo l’universo. Come stai… e come stanno i tuoiincantevoli figlioli?»

«Stiamo tutti bene», rispose Floyd, cordiale, ma conun’aria lievemente distratta. «Parliamo spesso delle giornate meravigliose checi facesti trascorrere l’estate scorsa.» Gli dispiacque di non potersiesprimere in un tono più sincero; si erano goduti davvero la settimana divacanza a Odessa con Dimitri, durante una delle puntate del russo sulla Terra.

«E tu… presumo che tu stia per salire sulla Luna?»domandò Dimitri.

«Ehm… sì. Il mio volo parte tra mezz’ora», risposeFloyd. «Conosci il signor Miller?»

Il funzionario del servizio segreto si era avvicinatoe rimaneva a rispettosa distanza, tenendo in mano una tazzina di plastica colmadi caffè.

«Certo. Ma la prego, posi quella tazza, signorMiller. È l’ultima opportunità del dottor Floyd di bere qualcosa di civilizzato,non sciupiamogliela.»

Seguirono Dimitri dal salone principale al settoredell’osservatorio, e ben presto sedevano a un tavolo sotto una fioca lampada, osservandoil panorama in movimento delle stelle. La Base Spaziale Uno compiva un interogiro al minuto, e la forza centrifuga generata da questa lenta rotazioneproduceva una gravità artificiale pari a quella della Luna. Ciò, era statoscoperto, costituiva un compromesso accettabile tra la gravità e l’assenza digravità; inoltre, consentiva ai passeggeri diretti verso la Luna la possibilità di assuefarsi.

All’esterno delle finestre quasi invisibili, la Terrae le stelle marciavano in silenziosa processione. Sul momento, quel lato dellaBase era reclinato e nascosto al sole; altrimenti sarebbe stato impossibileguardar fuori, in quanto il locale sarebbe stato inondato di luce abbacinante.

Anche così, la luminosità della Terra, che colmava unametà del firmamento, spegneva tutte le stelle, tranne le più splendenti.

Ma la Terra andava scomparendo, perché la Base orbitava verso il lato in ombra del pianeta; di lì a pochi minuti esso non sarebbe statoaltro che un enorme disco nero, punteggiato dalle luci delle metropoli. Eallora il cielo sarebbe appartenuto alle stelle.

«Ebbene», disse Dimitri, dopo aver rapidamente vuotatoil primo bicchiere e mentre si stava trastullando con il secondo, «che cosasono tutte queste voci su un’epidemia nel settore americano? Volevo recarmilaggiù nel corso di questo viaggio. “No, professore”, mi hanno detto. “Siamodolentissimi, ma è stata imposta una severa quarantena fino a nuovo avviso.” Homanovrato tutte le leve che potevo; niente da fare. Adesso dimmi tu che cosasta succedendo.»

Floyd gemette dentro di sé. Ecco che ci risiamo, sidisse. Quanto più presto mi troverò su quella navetta, diretto verso la Luna, tantopiù sarò contento.

«La… ehm… la quarantena… è soltanto una misura precauzionaledi sicurezza», rispose con cautela. «Non siamo nemmeno ben certi che sianecessaria, ma vogliamo evitare di correre rischi.»

«Ma che cos’è la malattia… quali sono i sintomi?Non potrebbe essere di origine extraterrestre? Vuoi la collaborazione deinostri servizi medici?»

«Mi dispiace, Dimitri… Siamo stati pregati di non direnulla per il momento. Grazie dell’offerta, ma possiamo risolvere lasituazione.»

«Hmmmmm», fece Moisevic, ovviamente per nulla persuaso.«Mi sembra strano che proprio tu, un astronomo, debba essere mandato sulla Lunaa studiare un’epidemia.»

«Sono soltanto un ex astronomo; da anni non eseguo piùvere ricerche. Attualmente mi considerano un esperto scientifico; questosignifica che non so assolutamente niente di tutto

«Allora sai che cosa significa AMT-1?»

Miller parve sul punto di essere soffocato da quantostava bevendo, ma Floyd era di una più dura tempra. Guardò negli occhi ilvecchio amico e disse calmo: «AMT-1? Che sigla bizzarra! Dove l’hai sentita?»

«Lascia stare», replicò il russo. «Non riesci adabbindolarmi. Ma se vi siete imbattuti in qualcosa che non riuscite a controllare,non aspetterete, spero, che sia troppo tardi prima di invocare aiuto.»

Miller guardò significativamente l’orologio.

«Deve trovarsi a bordo tra cinque minuti, dottor Floyd»,disse. «Sarebbe bene andare, credo.»

Pur sapendo che rimanevano ancora almeno venti minuti,Floyd si affrettò ad alzarsi. Troppo frettolosamente, poiché aveva dimenticatola gravità ridotta a un sesto. Si afferrò al tavolo appena in tempo perimpedire un decollo.

«È stato un piacere incontrarti, Dimitri» disse, nonproprio sinceramente. «Spero che tu faccia buon viaggio fino alla Terra. Nonappena di ritorno, ti telefonerò.»

Mentre uscivano e attraversavano la recinzione degliStati Uniti, Floyd osservò: «Pfui… ci è mancato un pelo. Grazie per avermitratto in salvo.»

«Sa, dottore», disse il funzionario dei servizi disicurezza, «spero che non abbia ragione.»

«Ragione a quale proposito?»

«A proposito del fatto che ci siamo imbattuti inqualcosa di incontrollabile.»

«Questo», rispose Floyd con determinazione, «è quantointendo accertare.»

Quarantacinque minuti dopo, il trasporto lunare Aries-1Bsi staccò dalla Base. Non vi furono affatto la potenza e la furia del decollodalla Terra… soltanto un sibilo quasi impercettibile e remoto, mentre i reattorial plasma a bassa spinta lanciavano nello spazio i loro flussi elettrizzati. Ladolce propulsione si protrasse per più di quindici minuti, e la modestaaccelerazione non avrebbe impedito a nessuno di muoversi nella cabina. Maquando la propulsione cessò, la nave spaziale non era più legata alla Terra, comequando accompagnava ancora la Base. Aveva spezzato i vincoli della gravità e adessoera un pianeta libero e indipendente che girava attorno al Sole seguendo unasua orbita.

La cabina che Floyd aveva adesso tutta per sé erastata progettata per trenta passeggeri. Fu strano, e lo fece sentire alquantosolo, vedere tutti quei sedili vuoti intorno a lui, ed essere l’unico oggettodelle attenzioni del cameriere e della hostess… per non parlare del pilota, delcopilota e dei due tecnici. Dubitò che qualsiasi uomo nella storia del mondoavesse mai ricevuto un servizio così esclusivo, e ritenne molto improbabile chea qualcun altro potesse accadere la stessa cosa in avvenire. Ricordò la cinicaosservazione di uno dei pontefici meno rispettabili: «Adesso che abbiamo ilpapato, godiamocelo». Bene, si sarebbe goduto quel viaggio, e l’euforia dell’assenzadi peso. Con la perdita della gravità si era, almeno temporaneamente, liberatodalla maggior parte dei suoi crucci. Qualcuno aveva detto una volta che sipoteva essere atterriti nello spazio, ma non essere assillati dai crucci. Eraverissimo.

La hostess e il cameriere, a quanto pareva, eranodecisi a farlo mangiare per tutte le venticinque ore del viaggio, ed egli nonfaceva altro che rifiutare pasti indesiderati. Mangiare con gravità zero noncostituiva una vera difficoltà, contrariamente alle nere previsioni dei primiastronauti. Egli sedeva a un normale tavolo, al quale i piatti erano fissati, comea bordo delle navi con il mare in tempesta. Tutte le portate avevano una certavischiosità, in modo che non potessero staccarsi dal piatto e andare avagabondare per la cabina. Così una bistecca veniva incollata al piatto da unasalsa densa, e l’insalata era tenuta sotto controllo da condimento adesivo. Conun po’ di abilità e di cautela, erano ben pochi i cibi che non potessero esseregustati tranquillamente; le sole cose vietate erano le minestre calde e lapasticceria troppo friabile. Per le bevande, inutile dirlo, le cose stavano diversamente;tutti i liquidi dovevano essere contenuti in tubi di plastica che si spremevano.

Ricerche condotte da un’intera generazione di eroicima non celebrati volontari erano state utilizzate per costruire la toletta, cheveniva ora considerata più o meno sicura, anche per gli inesperti. Floyd lamise alla prova non appena la caduta libera ebbe inizio. Venne a trovarsi in unpiccolo cubicolo, con tutti gli impianti igienici di una normale toletta daaereo, illuminato però da una luce rossa molto forte e sgradevole per gli occhi.Un avviso in grandi lettere annunciava: IMPORTANTISSIMO!PER IL VOSTRO COMFORT SIETE PREGATI DI LEGGERE ATTENTAMENTE QUESTE ISTRUZIONI!

Floyd sedette (si tendeva ancora a farlo, anche inassenza di peso) e lesse le istruzioni parecchie volte. Quando fu certo che nonvi erano state modifiche dall’ultimo suo viaggio, premette il pulsante con l’indicazioneavvio.

Nei pressi immediati un motore elettrico cominciò aronzare, e Floyd sentì che stava muovendosi. Come lo avevano consigliato difare le istruzioni, chiuse gli occhi e aspettò. Dopo un minuto una campanellasuonò sommessamente ed egli si guardò attorno.

La luce era adesso passata a un rasserenante rosa-biancastro;ma, quel che più contava, egli si trovava di nuovo in condizioni di gravità. Soltantouna debolissima vibrazione rivelava che si trattava di una gravità spuria, causatadalla rotazione tipo giostra dell’intero cubicolo della toletta. Floyd preseuna saponetta e la osservò cadere con un movimento lento; ritenne che la forzacentrifuga equivalesse a circa un quarto della gravità normale. Ma era più chesufficiente; bastava a far sì che ogni cosa si muovesse nella direzione giusta,nell’unico luogo in cui la cosa rivestiva un’importanza essenziale.

Premette il pulsante con l’indicazione STOP PER USCITA, e di nuovo chiuse gliocchi. Il peso defluì adagio mentre la rotazione cessava, la campanella suonòdue volte, e la luce rossa di avvertimento si riaccese. La porta si aprì poinella posizione opportuna per consentirgli di scivolar fuori e ritornare nellacabina ove aderì il più rapidamente possibile al tappeto. La novità dell’assenzadi peso si era esaurita già da un pezzo per lui, ed egli fu grato allepantofole Velcro che gli con sentivano di camminare quasi normalmente.

Ebbe tutto il modo di occupare il proprio tempo, anchese non fece altro che restare seduto e leggere. Quando si stancava dei rapportiufficiali, dei memorandum e delle minute, inseriva lo schermo-notizie formatofoglio protocollo nel circuito informazioni della nave spaziale e poteva leggerele ultimissime dalla Terra. A uno a uno captava i più diffusi quotidianielettronici del mondo; conosceva a mente i numeri di codice dei più importantie poteva fare a meno di consultare l’elenco dietro lo schermo. Spostando l’interruttoresulla memoria a breve termine dello schermo, manteneva ferma su di esso laprima pagina, mentre rapidamente scorreva i titoli e prendeva nota delle notizieche lo interessavano. Ognuna poteva essere inquadrata da un doppio cursore diriferimento; spostando quest’ultimo, un rettangolo formato francobollo siampliava colmando completamente lo schermo e lo poneva in grado di leggereagevolmente la notizia. Dopo la lettura, tornava alla pagina completa e sceglievauna nuova notizia o un altro articolo da leggere integralmente.

Floyd si domandava a volte se lo schermo-notizie e latecnica fantastica che lo aveva realizzato sarebbero stati l’ultima parolanella ricerca umana di comunicazioni perfette. Eccolo in un punto remoto dellospazio, su una nave spaziale che si allontanava dalla Terra a migliaia dichilometri all’ora, eppure in pochi millesimi poteva esaminare i titoli diqualsiasi quotidiano avesse prescelto. (Questo stesso termine, «quotidiano», naturalmente,era un residuo anacronistico nell’epoca dell’elettronica.) I testi venivanoaggiornati automaticamente ogni ora; anche leggendo soltanto le edizioniinglesi, si poteva trascorrere un’intera esistenza non facendo altro cheassimilare il fiume di informazioni sempre rinnovato trasmesso dai satellitidelle notizie.

Era difficile immaginare in qual modo il sistemapotesse essere perfezionato o reso più comodo. Ma, prima o poi, supponeva Floyd,esso sarebbe tramontato, per venir sostituito da qualcos’altro di inimmaginabilecome lo sarebbe stato lo stesso schermo-notizie per Caxton o per Gutenberg.

La lettura di uno di quei minuscoli titoli elettroniciinduceva spesso a un’altra riflessione. Quanto più erano miracolosi i mezzi dicomunicazione, tanto più banale, di cattivo gusto e deprimente sembrava essereil contenuto delle notizie che trasmettevano. Incidenti, delitti, disastrinaturali e causati dall’uomo, minacce di guerra, tetri articoli di fondo… tuttequeste cose continuavano a essere il succo dei milioni di parole diffusi nell’etere.Eppure Floyd si domandava altresì se questo fosse, tutto sommato, un fattonegativo; i quotidiani di Utopia, aveva deciso già da un pezzo, sarebbero statitremendamente noiosi.

Di quando in quando il comandante e gli altri dell’equipaggioentravano nella cabina e scambiavano qualche parola con lui. Trattavano contimore reverenziale il loro distinto passeggero, e ardevano senza dubbio dallacuriosità di sapere quale fosse la sua missione, ma erano troppo corretti perfare domande, o anche soltanto per lasciar cadere qualche allusione.

Soltanto l’incantevole piccola hostess sembravacompletamente a proprio agio alla sua presenza. Come Floyd scoprì ben presto, venivada Bali, e aveva portato di là dall’atmosfera terrestre una parte della graziae del mistero di quell’isola ancora in vasta misura non contaminata dalprogresso. Uno dei ricordi più bizzarri e più incantevoli di tutto quel viaggiodoveva essere la dimostrazione che ella gli diede, con gravità zero, di alcuniclassici movimenti di danze balinesi, mentre sullo sfondo si scorgeva la bellafalce azzurro-verde della Terra che andava allontanandosi.

Vi fu un periodo di sonno, quando le lampade nellacabina principale vennero spente e Floyd assicurò le proprie gambe e le propriebraccia con le fasce elastiche che gli avrebbero impedito di andare agalleggiare nello spazio. Sembrava una sistemazione scomoda… ma lì, con gravitàzero, il sedile non imbottito era più comodo del più morbido materasso sullaTerra.

Dopo essersi ancorato con le fasce elastiche, Floyd siappisolò abbastanza rapidamente, ma si destò a un certo momento, in uno statosonnacchioso di semicoscienza, e l’ambiente estraneo che lo circondava lolasciò completamente disorientato. Per un momento credette di trovarsi al centrodi una lanterna cinese fiocamente illuminata; fu il tenue bagliore provenientedagli altri cubicoli intorno a lui a dargli questa impressione. Poi disse a sestesso, con fermezza e con esito positivo: «Addormentati, figliolo; ti trovi suuna normalissima “navetta” lunare».

Quando si destò la Luna aveva divorato una metà del cielo, e le manovre di frenaggio stavano per cominciare. L’ampio arco deifinestrini incastrati nella parete ricurva della cabina passeggeri, guardavaora sull’aperto cielo, ora sul globo sempre più vicino, per cui egli passònella cabina di comando. Là, sugli schermi televisivi puntati posteriormentealla nave spaziale, poté seguire le ultime fasi della discesa.

I monti lunari che andavano avvicinandosi eranocompletamente diversi da quelli della Terra; non possedevano le abbacinanticalotte di neve, le vesti verdi e aderenti della vegetazione, le corone di nubiin movimento. Ciò nonostante, i netti contrasti di luce e d’ombra davano lorouna strana e tipica bellezza. Le leggi dell’estetica terrena non si applicavanolì; quel mondo era stato foggiato e plasmato da forze diverse da quelleterrestri, forze che avevano agito per ere di tempo ignote alla Terra giovane everdeggiante, con le sue fuggevoli ere glaciali, i suoi mari che rapidamente sisollevavano e si abbassavano, le catene montuose dissolventisi come bruma primadell’alba. Là si trovava una vecchiaia inconcepibile, ma non la morte, poiché la Luna non aveva mai vissuto, fino ad ora.

La nave spaziale in discesa era in equilibrio quasi aldi sopra della linea che divideva la notte dal giorno, e immediatamente sottodi essa si stendeva un caos di ombre frastagliate e di picchi brillanti e isolatiche coglievano la prima luce della lenta alba lunare. Quella sarebbe stata unazona paurosa per tentarvi un atterraggio, anche con tutti i possibili ausilielettronici; ma se ne stavano allontanando adagio, diretti verso il lato dellaLuna immerso nella notte.

Floyd vide allora, man mano che gli occhi gli siabituavano all’illuminazione più debole, che la superficie nascosta dalla nottenon era completamente buia. Irradiava una luminosità spettrale, nella qualepicchi e vallate e pianure rimanevano chiaramente visibili. La Terra, lunagigantesca della Luna, inondava il territorio sottostante con la sua radiositàriflessa.

Sul cruscotto del pilota, spie si accesero sopra glischermi radar, numeri apparvero e scomparvero negli indicatori delle calcolatricielettroniche, annunciando il variare della distanza dalla Luna che siavvicinava. Ne distavano ancora più di milleseicento chilometri quando il pesotornò, mentre i razzi iniziavano la dolce ma costante decelerazione. Per secoli,parve, la Luna continuò a espandersi adagio nel cielo, il Sole affondò dietro l’orizzonte,e in ultimo un unico cratere gigantesco colmò l’intero campo visivo. La «navetta»stava cadendo verso i suoi picchi centrali… e improvvisamente Floyd notò cheaccanto a uno di questi picchi una luce vivida stava lampeggiando con ritmoregolare. Sarebbe potuto essere il faro di un aeroporto sulla Terra, e, fissandola,egli provò una stretta alla gola. Era la prova del fatto che gli uomini avevanostabilito un altro punto d’appoggio sulla Luna.

Ormai il cratere si era ampliato a tal punto che i suoibastioni stavano scivolando sotto l’orizzonte e più piccoli crateri dai qualiera costellato l’interno incominciavano a rivelare le loro vere dimensioni. Alcunidi essi, per quanto fossero sembrati minuscoli da lontano nello spazio, avevanoun diametro di parecchi chilometri e avrebbero potuto inghiottire intere città.

Guidata dai comandi automatici, la «navetta» scivolavagiù nel cielo stellato, verso quel desolato paesaggio baluginante nella lucedella grande Terra gibbosa. Ora una voce stava chiamando da qualche punto, vincendoil sibilo dei getti e i bip-bip elettronici che andavano e venivano nellacabina di comando.

«Controllo Clavius a Speciale 14, state venendo giù bene.Per favore, procedete a controllo manuale del blocco dispositivo di atterraggio,della pressione idraulica, del gonfiaggio ammortizzatore d’urto.»

Il pilota azionò svariati interruttori. Spie verdi siaccesero ed egli rispose: «Tutti i controlli manuali completati. Blocco dispositivodi atterraggio, pressione idraulica, ammortizzatore d’urto ok».

«Confermato», dissero dalla Luna, e la discesacontinuò silenziosamente. Sebbene vi fosse sempre uno scambio di numerosissimecomunicazioni, tutto veniva fatto da apposite apparecchiature, che sitrasmettevano a vicenda impulsi binari con una rapidità mille volte maggiore diquanto potessero comunicare i loro costruttori, dai lenti processi mentali.

Alcuni picchi di montagne stavano già torreggiandosopra alla nave spaziale; ora la superficie della Luna distava poco più di unmigliaio di metri, e la luce del faro era una vivida stella, che lampeggiavacostantemente sopra un gruppo di bassi edifici e di bizzarri veicoli. Nellafase finale dell’allunaggio, i getti parvero suonare uno strano motivo; pulsaronoa intermittenza apportando le ultime precise regolazioni alla spinta.

Bruscamente, una turbinosa nube di polvere nascoseogni cosa, i getti pulsarono un’ultima volta e l’Aries-1B oscillò moltolievemente, come una barca a remi quando passa una piccola onda. Trascorseroalcuni minuti prima che Floyd riuscisse realmente ad accettare il silenzio cheora lo avvolgeva e la debole gravità che gli legava le membra.

Aveva compiuto, senza il benché minimo incidente e inpoco più di un giorno, il viaggio incredibile sognato dagli uomini per duemilaanni. Dopo un volo di normale amministrazione, era sceso sulla Luna.

 

LA BASE CLAVIUS

 

 

Clavius, con un diametro di duecentoquarantachilometri, è il secondo cratere in ordine di grandezza sulla faccia visibiledella Luna, e si trova al centro degli altipiani meridionali. È antichissimo; eredi fenomeni vulcanici e di bombardamenti dagli spazi ne hanno coperto di cicatricile pareti, butterandone il fondo. Ma dopo l’ultima era di formazione deicrateri, quando i frammenti della fascia di asteroidi ancora stavanopercuotendo i pianeti interni, aveva conosciuto la pace per circa mezzo miliardodi anni.

Ora vi erano nuovi e strani movimenti sulla suasuperficie e sotto di essa, poiché lì l’uomo stava organizzando la sua primatesta di ponte permanente sulla Luna. La Base Clavius sarebbe potuta essere, inuna situazione di emergenza, completamente autonoma. Tutto ciò ch’era necessarioalla vita veniva estratto dalle rocce locali, dopo ch’erano state stritolate, riscaldatee lavorate chimicamente. L’idrogeno, l’ossigeno, il carbonio, l’azoto, il fosforo…tutti questi elementi, e quasi tutti gli altri, esistevano sulla Luna, se sisapeva dove cercarli.

La Base era un sistema chiuso, come un minuscolomodello funzionante della Terra stessa, in cui si ristabiliva il ciclo di ognielemento chimico della vita. L’atmosfera veniva purificata in una vasta «serra»…un grande ambiente circolare scavato subito sotto la superficie lunare. Illuminatida lampade accecanti durante la notte, e dalla luce solare filtrata durante ilgiorno, si stendevano ettari di tozze piante verdi, che crescevano in un’atmosferacalda e umida. Si trattava di mutazioni speciali create allo specifico scopo disaturare l’aria di ossigeno, e di fornire verdure come sottoprodotto.

Altri viveri erano prodotti mediante sistemi dilavorazione chimica e coltura delle alghe. Anche se la schiuma verde checircolava attraverso metri e metri di tubi di plastica trasparenti non avrebbecerto allettato un buongustaio, i biochimici riuscivano a trasformarla inbraciole e costolette che soltanto un esperto sarebbe riuscito a distinguere daquelle autentiche.

I millecento uomini e le seicento donne che formavanoil personale della Base erano, dal primo all’ultimo, scienziati o tecnicispecializzati, selezionati con cura prima della loro partenza dalla Terra. Sebbenela vita sulla Luna fosse ormai virtualmente esente dagli stenti, daglisvantaggi e dagli occasionali pericoli dei primi tempi, continuava ad essere psicologicamentedifficile e non certo raccomandabile per chiunque soffrisse di claustrofobia. Poichéera costoso e richiedeva troppo tempo scavare una vasta base sotterranea nellasolida roccia o nella lava compatta, il «modulo di vita» standard per unasingola persona consisteva in una stanza larga soltanto un metro e ottantacirca, lunga tre metri e alta due metri e quaranta.

Ogni stanza era simpaticamente arredata e ricordavamolto da vicino la camera di un buon motel, con divano-letto, televisore, piccolaradio ad alta fedeltà e videotelefono. Per di più, mediante un trucco semplicedi decorazione interna, la sola parete senza aperture poteva essere trasformata,facendo scattare un interruttore, in un convincente paesaggio terrestre. Sipoteva scegliere tra otto panorami.

Questo tocco di lusso era tipico della Base, sebbeneriuscisse difficile a volte spiegarne la necessità alla gente sulla Terra. Ogniuomo e ogni donna di Clavius erano costati centomila dollari per l’addestramento,il trasporto e l’alloggio; valeva la pena di spendere qualcosa in più pur dimantenere la serenità di spirito. Non si trattava di arte per l’arte, ma diarte nell’interesse della salute psichica.

Una delle attrattive della vita nella Base, e sullaLuna in genere, consisteva indubbiamente nella bassa gravità che determinavauna sensazione di benessere generale. Tuttavia, essa presentava i suoi pericoli,e occorrevano parecchie settimane prima che l’emigrante dalla Terra riuscissead adattarvisi. Sulla Luna, il corpo umano doveva imparare tutta una nuovaserie di riflessi. Per la prima volta, doveva distinguere tra la massa e ilpeso.

Un uomo che pesava ottantun chilogrammi sulla Terra, potevarimanere deliziato constatando di pesarne appena tredici e mezzo sulla Luna. Finchéprocedeva in linea retta e ad andatura uniforme, provava una sensazionemeravigliosa di leggerezza. Ma non appena tentava di cambiare direzione, divoltare gli angoli o di fermarsi all’improvviso… allora si accorgeva chetutti i suoi ottantun chilogrammi di massa, o di inerzia, erano ancora presenti.La massa, infatti, rimane fissa e inalterabile… è sempre uguale, sulla Terra, sullaLuna, sul Sole o nello spazio vuoto. Prima che ci si potesse opportunamenteadattare alla vita lunare, pertanto, era essenziale rendersi conto che tuttigli oggetti avevano adesso un’inerzia sei volte maggiore di quanto potesse farcredere il loro peso. La lezione veniva imparata di solito a furia di urti e discontri dolorosi e gli esperti si tenevano a rispettosa distanza dai nuoviarrivati finché questi non erano riusciti ad assuefarsi.

Con il suo complesso di officine, uffici, magazzini, centrocalcolatore, generatori, rimessa, cucine, laboratori e impianto per lalavorazione di generi alimentari, la Base Clavius era un mondo in miniatura. È,ironico a dirsi, molte delle tecniche impiegate per costruire questo imperosotterraneo erano state perfezionate nel mezzo secolo di guerra fredda.

Chiunque avesse lavorato in una postazione protetta dimissili, si sarebbe sentito a suo agio a Clavius. Lì sulla Luna si ricorrevaalle stesse arti di vita sotterranea e di protezione da un ambiente ostile; manella Base Clavius queste arti erano state dedicate a scopi pacifici. Dopodiecimila anni, l’uomo aveva finalmente trovato qualcosa che lo entusiasmavaquanto la guerra. Purtroppo, non tutte le nazioni se ne erano ancora rese conto.

 

* * *

 

Le montagne che erano sembrate così imponenti subitoprima dell’allunaggio, erano misteriosamente scomparse, sottratte alla vistadall’orizzonte lunare che si incurvava ripido. Intorno alla nave spaziale sistendeva una pianura piatta e grigia, vividamente illuminata dalla luce obliquadella Terra. Sebbene il cielo fosse, naturalmente, del tutto nero, siriuscivano a scorgere soltanto le stelle più luminose e i pianeti, a meno chenon ci si facesse schermo agli occhi dal bagliore della superficie.

Parecchi veicoli assai bizzarri stavano avanzandoverso la nave spaziale Aries-1B:gru, montacarichi, carri-attrezzi, alcuniautomatici, altri azionati da un conducente in una piccola cabina pressurizzata.Quasi tutti si muovevano su pneumatici, poiché quella superficie liscia e piananon poneva alcuna difficoltà di trasporto; ma un’autocisterna veniva avantisulle peculiari ruote flessibili che avevano dimostrato di essere uno dei mezzipiù efficaci su ogni terreno per esplorare la Luna. Una serie di lastre piattedisposte circolarmente, ogni lastra montata e molleggiata indipendentemente, laruota flessibile presentava molti vantaggi del cingolo, dal quale derivava. Adattavali propria forma e il proprio diametro al terreno sul quale si muoveva e, al contrariodel cingolo di un trattore, continuava a funzionare anche se mancavano alcunesezioni.

Un piccolo autobus, con un tubo estensibile similealla proboscide tronca di un elefante, stava ora annusando affettuosamente lanave spaziale. Pochi secondi dopo, si udirono colpi e urti all’esterno, seguitida un sibilo d’aria, mentre si facevano i collegamenti e la pressione venivauguagliata. Il portello interno della camera di equilibrio si aprì e la delegazionedestinata ad accogliere l’ospite entrò.

Era guidata da Ralph Halvorsen, l’amministratore dellaProvincia Meridionale… comprendente non soltanto la Base, ma anche ogni gruppoesplorante in partenza da essa. Lo accompagnavano il suo direttore scientifico,il dottor Roy Michaels, un piccolo geofisico brizzolato conosciuto da Floyd inoccasione dei suoi precedenti viaggi sulla Luna, e una mezza dozzina dei piùimportanti scienziati e dirigenti. Schifarono il nuovo arrivato con rispettososollievo; dall’amministratore in giù, appariva ovvio che erano tutti ansiosi discaricarsi di una parte delle loro preoccupazioni.

«Lietissimo di averla con noi, dottor Floyd», disseHalvorsen. «Ha fatto buon viaggio?»

«Un viaggio eccellente», rispose Floyd. «Non sarebbepotuto essere migliore. L’equipaggio è stato premurosissimo con me.»

Vi fu la consueta conversazione spicciola richiestadalla cortesia, mentre l’autobus si allontanava dalla Base Spaziale; per untacito accordo, nessuno accennò al motivo del viaggio. Dopo aver percorso unmigliaio di metri dal punto dell’allunaggio, l’autobus arrivò davanti a ungrande cartello sul quale stava scritto:

 

BENVENUTI ALLA BASE CLAVIUS

Corpo delGenio astronautico USA

1994

 

Poi si tuffò in uno scivolo che lo condusserapidamente sotto il livello del suolo. Una porta massiccia si aprì davanti aloro, quindi si chiuse dietro di essi. Ciò si ripeté una seconda e una terzavolta. Quando anche l’ultima porta si fu chiusa, si avvertì un gran rombo d’aria,e tutti si ritrovarono una volta di più nell’atmosfera, nell’ambiente «manichedi camicia» della Base.

Dopo un breve tragitto a piedi lungo una galleriapiena zeppa di tubazioni e di cavi, e nella quale echeggiavano cavernosamentetonfi e pulsazioni ritmiche, giunsero nel settore esecutivo, e Floyd si ritrovònell’ambiente familiare delle macchine per scrivere, delle calcolatrici perufficio, delle segretarie, dei diagrammi alle pareti e dei telefoni squillanti.

Mentre si fermavano davanti alla porta con latarghetta AMMINISTRATORE, Halvorsendisse diplomaticamente: «Il dottor Floyd e io vi raggiungeremo nella sala delleconferenze tra un paio di minuti.»

Gli altri annuirono, con suoni compiti di approvazionee si allontanarono nel corridoio. Ma prima che Halvorsen avesse potutointrodurre Floyd nel suo ufficio, vi fu un’interruzione. La porta si aprì e unapiccola sagoma si lanciò contro l’amministratore.

«Papà! Sei stato di sopra! E avevi promessodiportare anche me.»

«Suvvia, Diana», disse Halvorsen, con esasperata tenerezza,«ti avevo detto soltanto che saresti venuta se fosse stato possibile. Invece hoavuto moltissime cose da sbrigare e sono dovuto andare incontro al dottor Floyd.Stringigli la mano… è appena arrivato dalla Terra.»

La bimbetta  – Floyd ritenne che fosse sugli otto anni– gli tese una mano inerte. Aveva un viso vagamente familiare, e Floyd siaccorse a un tratto che l’amministratore lo stava sbirciando con un sorrisocanzonatorio. Ricordando con un sussulto, capì perché.

«Non posso crederlo!» esclamò. «L’ultima volta che fuiqui era quasi una neonata!»

«Ha compiuto quattro anni la settimana scorsa», risposeorgoglioso Halvorsen. «I bambini crescono in fretta con questa bassa gravità. Manon invecchiano altrettanto rapidamente… vivranno più a lungo dì noi.»

Floyd fissò affascinato la bimbetta così sicura di sé,notandone il portamento pieno di grazia e l’inconsueta, delicata struttura.

«È un piacere rivederti, Diana», disse. Poi, qualcosa…forse pura curiosità, forse cortesia… lo indusse ad aggiungere: «Ti piacerebbeandare sulla Terra?»

La bambina spalancò gli occhi per lo stupore, poiscosse la testa.

«È un bruttissimo posto; ci si fa male quando si cade.E inoltre, c’è troppa gente.»

Sicché ecco qui, si disse Floyd, la prima generazionedei Nati-nello-Spazio; ve ne sarebbero stati molti di più negli anni a venire. Sebbenevi fosse malinconia in questa riflessione, v’era anche una grande speranza. Unavolta che la Terra fosse divenuta mansueta e tranquilla, e forse un po’ stanca,vi sarebbero state ancora opportunità per coloro che amavano essere liberi, peri duri pionieri, per gli irrequieti avventurieri. Ma i loro mezzi non sarebberoconsistiti in una scure e in un fucile, in una canoa e in un carro coperto; essiavrebbero potuto disporre di centrali nucleari, di reattori al plasma, dicolture in soluzioni liquide nutritive. Si stava avvicinando rapidamente ilmomento in cui la Terra, come tutte le madri, avrebbe dovuto dire addio aipropri figli.

Alternando le minacce alle promesse, Halvorsen riuscìa liberarsi della sua decisa figliola e condusse Floyd nell’ufficio. L’ufficiodell’amministratore aveva una superficie di pochi metri quadrati appena, mariusciva a contenere tutte le suppellettili e tutti i simboli della condizionesociale di un capo di dipartimento il cui stipendio raggiungeva i cinquantamiladollari annui. Fotografie con dedica di importanti uomini politici, compresi ilPresidente degli Stati Uniti e il segretario generale delle Nazioni Unite, ornavanouna parete, mentre altre fotografie con dedica di famosi astronauti nerivestivano quasi completamente un’altra.

Floyd affondò in una comoda poltrona di cuoio, e glifu offerto un bicchierino di xères, prodotto dai laboratori biochimici lunari.«Come stanno andando le cose, Ralph?» domandò Floyd, sorseggiando il vinodapprima con circospezione e poi con approvazione.

«Non troppo male», rispose Halvorsen. «Però, c’èqualcosa che sarebbe bene lei sapesse, prima di recarsi laggiù.»

«Di che si tratta?»

«Be’, presumo che si potrebbe definirlo un problema dimorale», sospirò Halvorsen.

«Oh?»

«Non è ancora grave, ma arriverà presto alla gravità.»

«Il veto sulle comunicazioni», disse Floyd con voceneutra.

«Per l’appunto», rispose Halvorsen. «I mieicollaboratori incominciano a esserne molto innervositi. In fin dei conti, hannoquasi tutti le famiglie sulla Terra; probabilmente i loro cari crederanno chesiano morti tutti quanti di pestilenza lunare.»

«Me ne dispiace», disse Floyd, «ma nessuno è riuscitoa escogitare un pretesto migliore, e fino a questo momento ha funzionato. Aproposito… ho incontrato Moisevic sulla Base Spaziale, e persino lui l’habevuta.»

«Be’, ciò dovrebbe far gioire i servizi segreti.»

«Non troppo… ha saputo del AMT-1; le voci stannoincominciando a diffondersi. Ma non possiamo assolutamente diramare alcuncomunicato fino a quando non avremo saputo che cos’è il dannato oggetto e sedietro di esso non vi siano i nostri amici cinesi.»

«Il dottor Michaels ritiene di aver trovato lasoluzione. Muore dalla voglia di dirtelo.»

Floyd vuotò il bicchiere. «Ed io muoio dalla voglia diascoltarlo. Andiamo.»

 

ANOMALIA

 

 

La conferenza ebbe luogo in una vasta salarettangolare che avrebbe potuto contenere facilmente cento persone. Era attrezzatacon i più recenti ritrovati ottici ed elettronici e avrebbe avuto l’aspetto diuna sala per conferenze modello, se non fosse stato per i numerosi manifesti, calendaridi pin-up, avvisi e dipinti dilettanteschi che lasciavano capire comeessa fosse altresì il centro della vita culturale locale. Floyd rimaseparticolarmente colpito da una collezione di cartelli, ovviamente riuniti conamorevole cura, e sui quali si leggevano avvertimenti come SI PREGA DI NON CALPESTARE L’ERBA… VIETATO ILPARCHEGGIO NEI GIORNI PARI… DÉFENSE DE FUMER… PER LA SPIAGGIA… ATTRAVERSAMENTODI BESTIAME… CUNETTE… È VIETATO DARE CIBO AGLI ANIMALI. Se si trattavadi cartelli autentici, e senz’altro sembravano esserlo, averli trasportatidalla Terra doveva essere costato un piccolo patrimonio. V’era in essi unasfida commovente; in un mondo ostile, gli uomini riuscivano ancora a scherzaresulle cose che erano stati costretti ad abbandonare e delle quali i loro figlinon avrebbero mai sentito la mancanza.

Un gruppo di quaranta o cinquanta persone stava aspettandoFloyd, e tutti si alzarono educatamente, mentre lui entrava dietro l’amministratore.Salutando con cenni del capo varie facce familiari, Floyd bisbigliò ad Halvorsen:«Gradirei dire qualche parola prima della conferenza.»

Sedette poi in prima fila, mentre l’amministratoresaliva sulla pedana e volgeva lo sguardo sugli ascoltatori.

«Signore e signori», cominciò Halvorsen, «non hobisogno di dirvi che questa è un’occasione molto importante. Siamo felici diospitare il dottor Heywood Floyd. Lo conosciamo tutti per fama, e molti di voilo conoscono personalmente. Ha appena compiuto un volo speciale dalla Terra sinqui, e, prima della conferenza, desidera dirci qualche parola. Dottor Floyd…»

Floyd salì sulla pedana tra un battimani di cortesia, osservòi presenti con un sorriso e disse: «Grazie… volevo soltanto dire questo: ilPresidente mi ha pregato di comunicarvi la sua gratitudine per l’importantelavoro da voi svolto, che speriamo il mondo intero possa presto conoscere e apprezzare.So benissimo», continuò con cautela, «che alcuni di voi… forse quasi tutti… sonoansiosi di veder eliminare l’attuale velo di segretezza; non sareste scienziatise la pensaste diversamente.»

Intravide per un momento il dottor Michaels, le cuifattezze erano atteggiate a un lieve cipiglio che poneva in risalto una lungacicatrice sulla gota destra… presumibilmente la conseguenza di qualcheincidente nello spazio. Il geologo, egli lo sapeva bene, aveva protestatovigorosamente contro quella che definiva «questa assurdità tipo ladri e poliziotti».

«Ma vorrei ricordarvi», continuò Floyd, «che questa è unasituazione del tutto eccezionale. Dobbiamo essere assolutamente certi dei fatti;se commettiamo errori in questo momento, potrebbe non presentarsi una secondaopportunità… quindi, vi prego, pazientate ancora un poco. Questo è anche ildesiderio del Presidente. Non mi rimane altro da dire. E ora sono pronto adascoltare il vostro rapporto.»

Tornò al suo posto, e l’amministratore disse: «Grazieinfinite, dottor Floyd», poi fece un cenno alquanto brusco al direttorescientifico. Il dottor Michaels si avvicinò alla pedana e le lampade si attenuaronoe si spensero.

Una fotografia della Luna apparve sullo schermo. Alcentro esatto del disco si trovava l’anello bianco e brillante di un cratere, dalquale si apriva a raggiera un impressionante ventaglio di raggi. Sembrava, népiù né meno, che qualcuno avesse lanciato un sacco di farina sulla superficielunare, e che la farina si fosse sparpagliata in tutte le direzioni.

«Questo è Tycho», disse Michaels, indicando il craterecentrale. «Su questa fotografia scattata verticalmente, Tycho figura ancor piùvistoso di quando è veduto dalla Terra; in quest’ultimo caso si trova piuttostovicino all’orlo della Luna. Ma, osservato da questo punto di vista, cioèguardandolo direttamente dall’altezza di milleseicento chilometri, potete constatarecome domini un intero emisfero.»

Lasciò che Floyd osservasse meglio quella veduta nonfamiliare di un oggetto familiare, poi continuò: «Durante lo scorso anno, abbiamoeseguito un rilevamento magnetico della regione, da un satellite a bassa quota.Esso è stato completato soltanto il mese scorso, ed eccone il risultato… lamappa che ha dato l’avvio a tutte le complicazioni.»

Un’altra immagine apparve sullo schermo; sembrava unacarta a curve di livello, sebbene indicasse soltanto l’intensità del campomagnetico e non le altezze sul livello del mare. Per la maggior parte, le lineeerano grosso modo parallele e bene intervallate; ma in un angolo della carta divenivanoa un tratto compresse l’una contro l’altra, formando una serie di cerchiconcentrici… simili alla struttura di un nodo in un pezzo di legno.

Anche allo sguardo di un profano appariva evidente chequalcosa di strano era accaduto al campo magnetico lunare in quella regione; e agrandi lettere, in fondo alla carta, si leggevano le parole: ANOMALIA MAGNETICA DI TYCHO N. UNO (AMT-1).Stampigliata sull’angolo in alto a destra della carta figurava la parolasegreto.

«A tutta prima ritenemmo che potesse trattarsi di unaffioramento di rocce magnetizzate, ma tutte le prove geologiche contrastavanocon questa ipotesi. E nemmeno un grosso meteorite di nichel e ferro avrebbepotuto dar luogo a un campo magnetico così intenso. Fu deciso pertanto diandare a dare un’occhiata.

«Il primo gruppo non scoprì nulla… soltanto il solitoterreno livellato, sepolto sotto uno strato molto sottile di polvere lunare. Gliuomini affondarono una sonda al centro esatto del campo magnetico perprocurarsi una “carota” da analizzare. A sei metri di profondità, la sonda sifermò. Il gruppo di rilevamento cominciò a scavare… un’impresa tutt’altro che facilecon le tute spaziali, posso assicurarvelo.

«Quello che trovarono li indusse a tornare in tuttafretta alla Base. Inviammo un gruppo più numeroso e meglio equipaggiato. Gliuomini scavarono per due settimane… con i risultati a voi tutti noti.»

La buia sala delle conferenze divenne a un tratto silenziosae colma di aspettativa, mentre l’immagine sullo schermo cambiava. Sebbene tuttiavessero già visto molte volte quell’immagine, non uno dei presenti si astennedallo sporgersi in avanti, nella speranza di scoprire nuovi particolari. Siasulla Terra, sia sulla Luna, a meno di cento persone era stato consentito finoa quel momento di osservare la fotografia.

Mostrava un uomo con la tuta spaziale rosso acceso e gialla,in piedi in fondo a uno scavo; aveva in mano un’asta da topografo segnata indecimi di metro.

Si trattava ovviamente di una fotografia scattatadurante la notte e sarebbe potuta essere stata presa dappertutto sulla Luna o suMarte; ma fino a quel momento in nessun pianeta si era mai veduto niente disimile.

L’oggetto davanti al quale si trovava in posa l’uomocon la tuta spaziale era una lastra verticale di materiale nerissimo, altacirca tre metri e larga un metro e mezzo: ricordò a Floyd, alquantominacciosamente, una pietra tombale gigantesca. Perfettamente simmetrica e conspigoli geometrici, era così nera da dare l’impressione che assorbisse la lucedalla quale veniva illuminata; non esisteva assolutamente alcun particolaresuperficiale. Era impossibile dire se fosse fatta di pietra o di metallo o diplastica… o di qualche materiale completamente ignoto all’uomo.

«AMT-1», dichiarò il dottor Michaels, quasi conreverenza. «Sembra nuovo di zecca, no? Non posso certo rimproverare coloro chehanno pensato risalisse soltanto a pochi anni fa, e hanno cercato di collegarloalla terza spedizione cinese del 1998. Ma io non ho mai creduto a questa tesi…e ora siamo stati in grado di stabilirne con certezza la data, in base a provegeologiche locali.

«I miei colleghi e io, dottor Floyd, siamo pronti a giocarcila nostra reputazione. Il AMT-1 non ha niente a che vedere con i cinesi. Ineffetti, non ha niente a che vedere nemmeno con il genere umano… perché quandovenne sepolto non esistevano esseri umani.

«Vede, risale approssimativamente a tre milioni dianni fa. L’oggetto che lei sta guardando è la prima prova di una vita intelligentedi là dalla Terra.»

 

VIAGGIO ALLA LUCE DELLA TERRA

 

 

SETTORE DEL MACROCATERE: si estende a sud della prossimità del centro dell’emisferovisibile della Luna, e a est del settore del Cratere Centrale. Fittamente costellatodi crateri d’urto; molti dei quali grandi, e tra essi i più grandi della Luna; anord alcuni crateri sono fratturati dall’impatto che forma il Mare Imbrium. Superficiaccidentate quasi dappertutto, tranne che nel fondo di alcuni crateri. Lamaggior parte delle superfici in pendenza, quasi tutte con un’inclinazione da10° a 12°; il fondo di taluni crateri è quasi livellato.

ALLUNAGGIO E MOVIMENTI: allunaggio generalmente difficile a causa dellesuperfici accidentate e in pendio; meno difficile nel fondo livellato di alcunicrateri. I movimenti sono possibili quasi dappertutto, ma occorre una selezionedegli itinerari; risultano meno difficili sul fondo livellato di alcuni crateri.

COSTRUZIONI: in genere moderatamente difficili a causa dellependenze e di numerosi grossi blocchi di materiale franoso; lo scavo della lavaè difficoltoso nel fondo di alcuni crateri.

TYCHO: cratere di ottantasei chilometri di diametro, altezzadell’orlo 2.370 metri sulla regione circostante; profondità del fondo, 3.600metri. Tycho ha il più vistoso sistema raggiato della Luna, e alcuni raggi siestendono per oltre ottocento chilometri.

(Estratto da «Studio tecnico speciale della superficielunare», Ufficio tecnico del Dipartimento dell’Esercito. Rilevamentogeologico USA. Washington 1961.)

 

Il laboratorio mobile, che stava percorrendo lapianura del cratere a ottanta chilometri orari, aveva l’aspetto di un’enormeroulotte montata su otto ruote flessibili. Ma era molto di più: si trattava diuna base autonoma nella quale venti uomini potevano vivere e lavorare perparecchie settimane. In effetti poteva essere considerato una nave spaziale aruote… e, in caso di emergenza, poteva anche volare. Se veniva a trovarsidinanzi a un crepaccio o a un canyon troppo lunghi per poter essere aggirati e tropporipidi per potervi discendere, era in grado di saltare l’ostacolo grazie aisuoi quattro motori a getto disposti inferiormente.

Guardando fuori dal finestrino, Floyd vide perdersi inlontananza dinanzi a sé una pista ben definita, ove decine di veicoli avevanolasciato una fascia ben compressa nella superficie friabile della Luna. Aintervalli regolari lungo la pista si trovavano aste alte e sottili, ognuna conuna luce lampeggiante. Nessuno avrebbe potuto smarrirsi lungo il tragitto ditrecentoventi chilometri dalla Base Clavius al AMT-1, anche se era notte e ilSole non sarebbe sorto ancora per parecchie ore.

Le stelle in alto erano soltanto un po’ più luminose,o più numerose, che in una notte limpida sugli altopiani del Nuovo Messico o delColorado. Ma esistevano due cose, in quel firmamento nero come carbone, chedistruggevano ogni illusione di trovarsi sulla Terra.

La prima era la Terra stessa… un faro luminoso sospeso sopra l’orizzonte settentrionale. La luce che si riversava da quelgigantesco emisfero era decine di volte più vivida di quella della Luna piena eavvolgeva tutto il territorio in una fredda fosforescenza azzurro-verdastra.

La seconda immagine celeste consisteva in un cono di lucefioca e perlacea, obliquo nel cielo a oriente. Diventava sempre e sempre piùluminoso verso l’orizzonte, facendo pensare a immensi incendi nascosti subitodi là dall’orlo della Luna. Ecco una pallida radiosità che nessun uomo avevamai visto dalla Terra, tranne che durante i pochi e fuggevoli momenti di unaeclisse totale. Si trattava della corona, preannuncio dell’alba lunare, cheavvertiva come di lì a non molto il Sole avrebbe percorso quel suolo addormentato.

Sedendo con Halvorsen e Michaels nella saletta d’osservazioneanteriore, situata immediatamente sotto la cabina del conducente, Floydconstatò che i suoi pensieri tornavano con insistenza all’abisso di tre milionidi anni appena spalancatesi dinanzi a lui. Come tutti coloro che hanno unacultura scientifica, era abituato a prendere in considerazione periodi di tempodi gran lunga maggiori… ma essi si riferivano soltanto ai movimenti dellestelle e ai lenti cicli dell’universo inanimato. La mente o l’intelligenza nonerano state coinvolte; quei periodi cosmici, quasi eternità, erano privi ditutto ciò che toccava le emozioni.

Tre milioni di anni! Il panorama infinitamente affollato della storiascritta, con i suoi imperi e i suoi re, i suoi trionfi e le sue tragedie, occupavaa malapena un millesimo di questo spaventoso intervallo di tempo. Non soltantol’uomo stesso, ma quasi tutti gli animali ora viventi sulla Terra non eranonemmeno esistiti quando qualcuno aveva così accuratamente seppellito il neroenigma laggiù, nel più vivido e nel più spettacolare di tutti i crateri dellaLuna.

Il dottor Michaels aveva la certezza assoluta chefosse stato seppellito, e con un deliberato proposito. «All’inizio», spiegò, «eropropenso a sperare che potesse indicare la posizione di qualche strutturasotterranea, ma i nostri ultimi scavi hanno fatto cadere questa ipotesi. Essopoggia su un’ampia piattaforma dello stesso materiale nero, sotto la quale v’èroccia indisturbata. Le… creature… che lo hanno costruito volevano essere certeche rimanesse dov’è, purché non si fossero verificati violentissimi terremotilunari. Costruivano per l’eternità.»

Vi fu una nota di trionfo, e al contempo di tristezza,nella voce di Michaels, e Floyd poteva condividere entrambi gli stati d’animo. Finalmente,uno dei più antichi interrogativi dell’uomo aveva trovato risposta, quella erala prova, di là da ogni ombra di dubbio, che l’intelligenza umana non era lasola prodotta dall’universo. Ma a questa certezza si accompagnava, una volta dipiù, una consapevolezza dolorosa dell’immensità del Tempo. Chiunque fossepassato di lì, aveva mancato il genere umano per centomila generazioni. Forse, sidisse Floyd, era meglio così. Eppure… che cosa non avremmo potuto imparare daesseri capaci di attraversare lo spazio mentre i nostri antenati vivevanoancora sugli alberi!

Poche centinaia di metri più avanti, un cartelloindicatore stava emergendo sopra l’orizzonte stranamente limitato della Luna. Allasua base v’era una struttura a forma di tenda, coperta di lucente stagnolaargentea, ovviamente per proteggerla dalla feroce calura del giorno.

Mentre il laboratorio mobile passava, Floyd riuscì aleggere, nella vivida luminosità della Terra:

 

DEPOSITO DI EMERGENZA N. 3

 

20 chilogrammidi Lox

10 chilogrammid’acqua

20 razioni MK4

1 cassettaattrezzi tipo B

1 attrezzaturaper riparazione tute

 

TELEFONO

 

«Non avete mai pensato a questo?» domandò Floyd,additando il deposito fuori dal finestrino.

«E se l’oggetto fosse un nascondiglio di rifornimenti,lasciato da una spedizione che non tornò mai?»

«È una possibilità», ammise Michaels. «Il campo magneticone indicava la posizione, per cui sarebbe stato facile ritrovarlo. Ma è piuttostopiccolo… non potrebbe contenere un gran che in fatto di rifornimenti.»

«Perché no?» intervenne Halvorsen. «Chi può sapere quantoessi fossero grandi? Forse non superavano l’altezza di quindici centimetri, ilche avrebbe reso l’oggetto, per loro, alto come venti o trenta piani.»

Michaels crollò il capo.

«È escluso», protestò. «Non possono esistere creaturemolto piccole e intelligenti; occorre un minimo di volume cerebrale.»

Michaels e Halvorsen, Floyd lo aveva notato, partivanodi solito da punti di vista opposti, eppure sembrava che vi fossero ben pochiattriti e che non esistesse ostilità personale tra loro. Si sarebbe detto chesi rispettassero a vicenda e fossero semplicemente d’accordo nel dissentire.

I pareri di tutti gli altri, del resto, noncoincidevano di certo sulla natura del AMT-1, o monolito di Tycho, come talunipreferivano chiamarlo, conservando soltanto una parte della sigla. Nelle seiore trascorse da quando era giunto sulla Luna, Floyd aveva sentito esporredecine di teorie, ma non aveva optato per alcuna di esse. Altare, punto diriferimento, punto di rilevamento topografico, tomba, strumento geofisico… questeerano forse le ipotesi preferite e alcuni dei loro sostenitori si scaldavanomolto nel difenderle. Già molte scommesse erano state fatte, e parecchio denaroavrebbe cambiato tasca, una volta che si fosse infine accertata la verità… ammessoche si potesse mai accertarla.

Fino a quel momento, il duro e nero materiale delmonolito aveva resistito a tutti i tentativi alquanto blandi compiuti daMichaels e dai suoi colleghi per ricavarne campioni. Essi non dubitavanoaffatto che un raggio laser sarebbe riuscito a tagliarlo, poiché senza dubbionulla poteva resistere a quella spaventosa concentrazione di energia; mala decisione di ricorrere a mezzi così violenti doveva essere presa da Floyd. Egliaveva già deciso di fare entrare in gioco i raggi X, le sonde soniche, i fascidi neutroni, e tutti gli altri mezzi non distruttivi di indagine, prima diripiegare sull’artiglieria pesante del laser. Sembrava un indizio di barbariedistruggere qualcosa che non si riusciva a capire; ma forse gli uomini eranobarbari, rispetto alle creature che avevano costruito quell’oggetto.

E da dove potevano essere venute? Dalla Lunastessa? No, questo era assolutamente impossibile. Seppure esisteva un tempo unavita indigena in quel mondo sterile, essa era stata distrutta durante l’ultimaepoca di formazione dei crateri, quando la maggior parte della superficielunare aveva raggiunto l’incandescenza.

Dalla Terra? Molto improbabile, anche se, forse, nondel tutto impossibile. Una civiltà terrestre progredita, presumibilmente nonumana, ai tempi del Pleistocene, avrebbe lasciato molte altre tracce della suaesistenza. Avremmo saputo tutto al riguardo, pensò Floyd, molto tempo prima diarrivare sulla Luna.

Rimanevano due alternative: i pianeti e le stelle. Eppure,ogni prova smentiva la possibilità di una vita intelligente altrove nel sistemasolare… e addirittura della vita di qualsiasi genere, tranne che sullaTerra e su Marte. I pianeti interni erano troppo caldi, quelli esterni di granlunga troppo freddi, a meno che non si discendesse nella loro atmosfera fino aprofondità in cui la pressione equivaleva a centinaia di tonnellate per ognicentimetro quadrato.

E così, forse, questi visitatori erano arrivati dallestelle… eppure tale ipotesi sembrava ancor più incredibile. Alzando gli occhiverso le costellazioni disseminate nel cielo lunare color ebano, Floyd ricordòquante volte gli scienziati suoi colleghi avessero «dimostrato» che i viaggiinterstellari erano impossibili. Già il viaggio dalla Terra alla Lunacostituiva un’impresa straordinaria; ma la stella più prossima era centomilioni di volte più lontana… Comunque, abbandonarsi alle speculazioni significavaperdere tempo; doveva aspettare finché non fossero emerse altre prove.

«Per favore, mettere le cinture di sicurezza e fermaretutti gli oggetti mobili», disse a un tratto l’altoparlante della cabina. «Cistiamo avvicinando a un pendio di quaranta gradi.»

Due pali indicatori con luci lampeggianti eranoapparsi all’orizzonte e il laboratorio mobile stava sterzando per passare traessi. Floyd aveva appena allacciato la cintura di sicurezza quando il veicolosi portò adagio sull’orlo di un pendio davvero terrificante e incominciò ascendere una lunga china coperta di pietrisco, ripida quanto il tetto di unacasa. L’obliqua luce riflessa della Terra, alle loro spalle, illuminava ora benpoco, e i fari del laboratorio mobile erano stati accesi. Molti anni prima, Floydera rimasto in piedi sull’orlo del Vesuvio; gli fu facile, ora, immaginare ilcalarvisi dentro, e la sensazione non fu affatto piacevole.

Stavano scendendo giù per una delle terrazze internedi Tycho, ed essa tornò a livellarsi alcune centinaia di metri più in basso. Mentrestrisciavano giù per il versante, Michaels additò la vasta pianura che siestendeva adesso sotto di loro.

«Eccoli là», esclamò. Floyd annuì; aveva già notato ilgruppo di luci rosse e verdi parecchi chilometri più avanti e continuò aguardare in quella direzione, mentre il laboratorio mobile scendevadelicatamente il versante. Il rosso veicolo era ovviamente sotto pienocontrollo, ma egli non respirò liberamente finché non vennero a trovarsi dinuovo in posizione orizzontale.

A questo punto poté scorgere, lucenti come bolleargentee nella luce riflessa della Terra, un gruppo di cupole a pressione: i rifugitemporanei che ospitavano gli uomini al lavoro sul posto. Accanto a essi sitrovavano un’antenna radio, una torre di perforazione, un gruppo di veicoliparcheggiati, e un gran mucchio di roccia frantumata, presumibilmente ilmateriale che era stato scavato per mettere a nudo il monolito. Il minuscoloaccampamento nella regione selvaggia sembrava molto solitario, moltovulnerabile dalle forze della natura assiepate silenziosamente intorno ad esso.Non si vedeva alcun segno di vita, e nulla di visibile lasciava capire perchéalcuni uomini fossero venuti sin lì, così lontano dalla patria.

«Si può appena intravedere il cratere», disse Michaels.«Laggiù a destra… a un centinaio di metri circa da quell’antenna radio.»

Sicché ci siamo, pensò Floyd, mentre il laboratoriomobile passava accanto alle cupole a pressione, e si fermava sull’orlo delcratere. Il cuore gli batté in fretta mentre si sporgeva in avanti per vederemeglio. Il veicolo prese a strisciare con cautela giù per una rampa di rocciacompatta nell’interno del cratere. E là, esattamente come lo aveva veduto nellefotografie, si trovava il AMT-1.

Floyd lo fissò, batté le palpebre, scosse la testa, e tornòa fissarlo. Anche nella vivida luce della Terra non era facile vedere conchiarezza l’oggetto; la sua prima impressione fu quella di un rettangolo piattoche sarebbe potuto essere ritagliato in un foglio di carta carbone; sembravache non avesse alcuno spessore. Naturalmente, questa era un’illusione ottica; sebbenestesse contemplando un corpo solido, esso rifletteva così poca luce cheriusciva a scorgerlo soltanto di profilo.

I passeggeri serbarono il silenzio più assoluto, mentreil laboratorio mobile scendeva nel cratere. V’era timore reverenziale, e v’eraanche incredulità… pura incapacità di credere che la morta Luna, tra tutti i mondi,potesse aver fruttato quella sorpresa fantastica.

Il laboratorio mobile si fermò a sei metri dalmonolito e di fianco a esso, in modo che tutti i passeggeri potessero esaminarlo.Ciò nonostante, a parte la forma perfettamente geometrica dell’oggetto, v’erapoco da vedere. In nessun punto si scorgevano segni qualsiasi, o una qualunqueattenuazione di quell’estremo nero-ebano. Lo si sarebbe detto la cristallizzazionestessa della notte, e per un momento Floyd si domandò se non potesse trattarsi,in effetti, di qualche straordinaria formazione naturale, nata dalle fiamme e dallepressioni accompagnatesi alla creazione della Luna. Ma questa possibilità, losapeva, era già stata esaminata e scartata.

A un segnale, i riflettori intorno all’orlo delcratere furono accesi, e la vivida luce della Terra venne cancellata da unbagliore di gran lunga più brillante. Nel vuoto lunare i fasci luminosi erano, naturalmente,del tutto invisibili; formarono ellissi sovrapposte di un bianco accecante, centratesul monolito. E là dove lo toccavano, la sua superficie color ebano sembrava assorbirle.

Il vaso di Pandora, pensò Floyd, con un improvvisopresentimento… in attesa di essere aperto dall’uomo indagatore. E che cosa vitroverà dentro?

 

LA LENTA ALBA

 

 

La principale cupola a pressione nella località del AMT-1distava appena sei metri e il suo interno era scomodamente affollato. Illaboratorio mobile, accoppiato ad essa mediante una delle due camere d’equilibrio,consentì di avere una apprezzatissima aggiunta di spazio abitabile.

Nel pallone semisferico a doppia parete lavoravano e dormivanoi sei scienziati e tecnici ora stabilmente adibiti allo studio del monolito. Lacupola conteneva inoltre quasi tutto il loro equipaggiamento e quasi tutti glistrumenti, tutte le provviste che non potevano essere lasciate nel vuotoesterno, la cucina e gli impianti igienici, campioni geologici e un piccoloschermo televisivo mediante il quale lo scavo poteva essere tenuto sottocontinua sorveglianza.

Floyd non si stupì quando Halvorsen decise di restarenella cupola; egli espose i suoi punti di vista con ammirevole franchezza.

«Considero le tute spaziali un male necessario», dissel’amministratore. «Ne indosso una quattro volte all’anno, per i controlliquadrimestrali. Se non le dispiace, rimarrò qui e vi osserverò attraverso loschermo televisivo.»

In parte, questo suo pregiudizio era ormaiingiustificato, poiché gli ultimi modelli di tute spaziali erano infinitamentepiù comodi delle goffe corazze indossate dai primi esploratori lunari. Potevanoessere infilati in meno di un minuto, anche senza nessun aiuto, ed eranocompletamente automatici. Il modello Mk V, nel quale Floyd venne ora accuratamenterinchiuso, lo avrebbe protetto dalle peggiori situazioni lunari, sia di giornosia di notte.

Accompagnato dal dottor Michaels, egli passò nellapiccola camera d’equilibrio. Mentre la pulsazione delle pompe cessava e la tutasi irrigidiva intorno a lui in modo appena percettibile, si sentì circondatodal silenzio del vuoto.

Quel silenzio fu rotto dal gradito suono della radiocontenuta nella tuta.

«La pressione è okay, dottor Floyd? Sta respirandonormalmente?»

«Sì… sto benissimo.»

Il suo compagno controllò attentamente i quadranti e gliindicatori all’esterno della tuta di Floyd. Poi disse:

«Okay… andiamo.»

La porta esterna si aprì ed ebbero dinanzi a loro ilpolveroso paesaggio lunare, baluginante nella luce riflessa della Terra.

Con un cauto movimento ondeggiante Floyd seguìMichaels attraverso il portello; non era faticoso camminare. Anzi, paradossalmente,la tuta lo faceva sentire più a suo agio che in qualunque altro momento daquando era arrivato sulla Luna. Il peso in più e la lieve resistenza opposta alsuo moto, davano in qualche modo l’illusione della perduta gravità terrestre.

Lo scenario era cambiato dall’arrivo del gruppo, appenaun’ora prima. Sebbene le stelle e l’emisfero terrestre continuassero a essereluminosi come sempre, la notte lunare, della durata di quattordici giorniterrestri, era quasi finita. Il bagliore della corona sembrava un falso sorgeredella Luna nel cielo a oriente… e poi, inaspettatamente, la sommità dell’antennaradio, trenta metri più in alto del capo di Floyd, parve a un tratto proromperecome una fiammata, mentre coglieva i primi raggi del sole nascosto.

Aspettarono, mentre il supervisore delle ricerche e duedei suoi collaboratori emergevano dalla camera d’equilibrio, poi siincamminarono adagio verso il cratere. Quando lo ebbero raggiunto, un arcosottile di intollerabile incandescenza si era spinto sopra l’orizzonte aoriente. Anche se il sole avrebbe impiegato più di un’ora per emergerecompletamente oltre l’orlo della Luna in lenta rotazione, le stelle erano giàbandite.

Il cratere continuava a essere immerso nell’ombra, mai riflettori disposti intorno al suo orlo ne illuminavano vividamente l’interno.Scendendo adagio la rampa verso il rettangolo nero, Floyd provò una sensazionenon soltanto di timore reverenziale ma anche di impotenza. Lì, proprio allesoglie della Terra, l’uomo si trovava già a faccia a faccia con un mistero cheforse non sarebbe stato mai risolto. Tre milioni d’anni prima, qualcosaera passato da quella parte, aveva lasciato quel simbolo ignoto e forseinconoscibile del proprio scopo, ed era tornato ai pianeti… o alle stelle.

La radio della tuta di Floyd interruppe le suefantasticherie. «Parla il supervisore delle ricerche. Se non vi dispiaceallinearvi tutti da quella parte, vorremmo scattare alcune fotografie. DottorFloyd, vuole, per cortesia, mettersi al centro… Dottor Michaels… grazie…»

Nessuno, tranne Floyd, parve ritenere che vi fossequalcosa di ridicolo in tutto ciò. Molto sinceramente, comunque, egli dovetteammettere di essere lieto che qualcuno avesse portato una macchina fotografica;ecco un’istantanea destinata senza dubbio a rimanere storica, ed egli ne volevaalcune copie per sé. Sperò che la sua faccia restasse chiaramente visibileattraverso il casco della tuta.

«Grazie, signori», disse il fotografo, dopo che ebberoposato un po’ impacciati di fronte al monolito, consentendogli di scattare unadozzina di fotografie. «Chiederemo alla Sezione fotografica della Base di farviavere le copie.»

Floyd dedicò poi tutta la sua attenzione al monolitodi ebano… girandogli intorno adagio, esaminandolo da ogni punto di vista, cercandodi imprimersene nella mente la stranezza. Non si aspettava di trovare alcunché,poiché sapeva che ogni centimetro quadrato della superficie era già statoesaminato con accuratezza microscopica.

Ora il sole pigro si era sollevato sopra l’orlo delcratere, e i suoi raggi si riversavano sulla faccia est del blocco quasi in pieno.Eppure esso sembrava assorbire tutti i corpuscoli della luce come se nonfossero mai esistiti.

Floyd decise di tentare un semplice esperimento; sifrappose tra il monolito e il sole e osservò la propria ombra sulla levigatasuperficie nera. Non se ne scorgeva alcuna traccia. Almeno dieci kilowatt dicalore dovevano cadere sul monolito; se all’interno esisteva realmente qualcosa,doveva cuocersi rapidamente.

Che strano, pensò Floyd, trovarsi qui mentre… questacosa… vede la luce del giorno per la prima volta da quando le ere glacialiincominciarono sulla Terra. Si domandò ancora quale fosse la ragione del colorenero; era ideale, naturalmente, per assorbire energia solare. Ma scartò subitol’idea; chi mai, infatti, sarebbe stato così pazzo da seppellire un congegnoazionato dall’energia solare a sei metri sotto la superficie del suolo?

Guardò la Terra, che incominciava a svanire nel cielomattutino. Soltanto un pugno dei suoi sei miliardi di abitanti sapeva di questascoperta; come avrebbe reagito il mondo alla notizia, quando fosse statafinalmente comunicata?

Le conseguenze politiche e sociali erano immense; ogniindividuo realmente intelligente, chiunque avesse saputo guardare un centimetropiù in là del proprio naso, avrebbe trovato la propria vita, i propri valori, lapropria filosofia cambiati in modo sottile. Anche se non si fosse scoperto assolutamentenulla del AMT-1, e se esso fosse dovuto restare un eterno mistero, l’uomoavrebbe saputo di non essere unico nell’universo. Sebbene le avesse mancate permilioni di anni, le creature che un tempo erano state lì avrebbero potuto farviritorno; o sennò, ce ne sarebbero potute essere altre. L’avvenire di ognunodoveva ormai tener conto di questa possibilità.

Floyd stava ancora cogitando su queste riflessioni, quandol’altoparlante del casco emise a un tratto un penetrante strido elettronico, comeun segnale tormentoso, troppo saturo e distorto. Involontariamente cercò ditapparsi le orecchie con le mani chiuse nella tuta spaziale; poi si riscosse e brancolòfreneticamente in cerca del comando di volume del ricevitore. Mentre stavaancora annaspando, quattro altri stridi proruppero dall’etere; seguì poi un misericordiososilenzio.

Tutto attorno al cratere, sagome rimanevano immobiliin atteggiamento di paralizzato stupore. Allora non si tratta di un guasto al mioapparecchio, si disse Floyd; hanno udito tutti questi penetranti gridielettronici.

Dopo tre milioni d’anni di tenebre, il AMT-1 avevasalutato l’alba lunare.

 

GLI ASCOLTATORI

 

 

Centosessanta milioni di chilometri oltre Marte, nellagelida solitudine in cui nessun uomo aveva mai viaggiato, il Monitor delloSpazio Profondo 79 si spostava adagio fra le orbite intersecantisi degliasteroidi. Per tre anni aveva svolto impeccabilmente la propria missione… untributo agli scienziati americani dai quali era stato progettato, agli ingegneriinglesi dai quali era stato costruito, ai tecnici russi dai quali era statolanciato… Una delicata ragnatela d’antenne captava le onde dei rumori di fondoradiofonici… gli incessanti crepitii e sibili di quello che Pascal, in un’epocadi gran lunga più semplice, aveva ingenuamente definito «il silenzio deglispazi infiniti». I rivelatori di radiazione individuavano e analizzavano i raggicosmici in arrivo dalla galassia e da punti situati oltre di essa; telescopi aneutroni e a raggi X tenevano sotto osservazione stelle sconosciute che nessunosguardo umano avrebbe mai visto; magnetometri rilevavano le folate e gli uraganidei venti solari, mentre il Sole alitava raffiche di tenue plasma, allavelocità di un milione e seicentomila chilometri l’ora, in faccia ai suoi figliche gli ruotavano attorno. Tutte queste cose e molte altre ancora venivano pazientementeannotate dal monitor dello Spazio Profondo 79, e registrate nella sua memoriacristallina.

Una delle sue antenne, miracoli dell’elettronica ormaiignorati, era continuamente orientata verso un punto che non distava mai moltodal Sole. Ogni pochi mesi, il suo remoto bersaglio avrebbe potuto essere visto,qualora vi fosse stato un occhio a guardarlo, come una vivida stella con unavicina e più fioca compagna; ma, quasi sempre, essa si perdeva nel bagliore solare.

Verso quel lontanissimo pianeta, la Terra, il monitortrasmetteva ogni ventiquattr’ore le informazioni che aveva pazientementeraccolto, tutte nitidamente compendiate in un impulso della durata di cinqueminuti. Circa un quarto d’ora dopo, viaggiando alla velocità della luce, quell’impulsogiungeva alle apparecchiature che amplificavano e registravano il segnale, e loaggiungevano alle migliaia di chilometri di nastro magnetico raccolti neisotterranei dei Centri Spaziali Mondiali a Washington, a Mosca e a Canberra.

Sin da quando i primi satelliti erano entrati inorbita, quasi cinquant’anni prima, trilioni e quadrilioni di impulsi contenentiinformazioni si erano riversati sulla Terra dallo spazio, per essereaccantonati in attesa del giorno in cui avrebbero potuto contribuire alprogresso della conoscenza. Soltanto una minima frazione di tutto questomateriale grezzo sarebbe stata vagliata; ma era impossibile stabilire qualiosservazioni qualche scienziato avrebbe voluto consultare di lì a dieci o cinquantao cento anni. Per conseguenza, tutto doveva essere archiviato, ordinatamentedisposto in interminabili gallerie ad aria condizionata, triplicato nei trecentri per parare la possibilità di una perdita accidentale. Tutto ciò facevaparte del vero tesoro dell’umanità, un tesoro di gran lunga più prezioso ditutto l’oro inutilmente rinchiuso nelle casseforti delle banche.

E ora il monitor dello Spazio Profondo 79 aveva notatoqualcosa di strano… un debole eppure inequivocabile disturbo che attraversavail sistema solare, e un disturbo del tutto diverso da ogni fenomeno naturaleosservato in passato. Automaticamente, esso registrò la direzione, l’ora, l’intensità;di lì a non molto avrebbe comunicato l’informazione alla Terra.

Come avrebbe fatto, inoltre, l’Orbitante M 15, che giravadue volte al giorno intorno a Marte; e la Sonda ad Alta Inclinazione 21, cheadagio saliva sopra il piano dell’eclittica; e persino la Cometa Artificiale 5, diretta verso le gelide solitudini oltre Plutone, lungo un’orbita ilcui punto estremo sarebbe stato raggiunto soltanto dopo un migliaio di anni. Tuttirilevarono la singolare esplosione di energia che aveva disturbato i loro strumenti;e tutti, a tempo debito, riferirono automaticamente alle memorie elettronichesulla Terra lontana.

Le calcolatrici non avrebbero forse mai percepito ilrapporto tra le quattro bizzarre serie di segnali trasmesse da sonde spazialilanciate su orbite indipendenti e lontane milioni di chilometri. Ma non appenadiede un’occhiata al rapporto mattutino, l’addetto alle previsioni delleradiazioni, a Goddard, si rese conto che qualcosa di strano era passatoattraverso il sistema solare in quelle ultime ventiquattro ore.

Conosceva soltanto una parte del suo percorso, maquando la calcolatrice lo proiettò sulla tavola della situazione planetaria, ilpercorso divenne chiaro e inequivocabile come una scia di vapori attraverso uncielo senza nubi, o come un’unica serie di impronte su un campo di neve vergine.Qualche forma immateriale di energia, lanciando un getto di radiazione similealla scia di un motoscafo in corsa, era scaturita dalla superficie della Luna esi stava dirigendo verso le stelle.

 

 

CAPITOLO TERZO
TRA I PIANETI

 

 

 

LA » DISCOVERY «

 

 

L’astronave distava appena trenta giorni dalla Terra, eppureDavid Bowman stentava a volte a credere di aver mai conosciuto un’esistenzadiversa da quella del chiuso, piccolo mondo della Discovery. Tutti glianni di addestramento, tutte le precedenti missioni sulla Luna e su Martesembravano appartenere a un altro uomo, in un’altra vita.

Frank Poole riconosceva di provare la stessasensazione, e talora si era scherzosamente rammaricato per il fatto che lo psicanalistapiù vicino distava quasi centosessanta milioni di chilometri. Ma questasensazione di isolamento e di estraniamento era abbastanza facile a capirsi, e senzadubbio non stava ad attestare alcuna anormalità. Nei cinquant’anni trascorsi daquando gli uomini si erano azzardati per la prima volta nello spazio, non viera mai stata una missione simile a questa.

Aveva avuto inizio cinque anni prima come ProgettoGiove… il primo volo di andata e ritorno con uomini a bordo fino al più grandedei pianeti. L’astronave era quasi pronta per il viaggio di due anni, quando, alquantobruscamente, il programma della missione aveva subito una variante.

La Discovery sarebbe ancora arrivata fino aGiove, ma non per fermarsi laggiù. Non avrebbe neppure rallentato la velocitàcorrendo tra l’esteso sistema di satelliti del pianeta. All’opposto… si sarebbeavvalsa del campo gravitazionale di quel mondo gigantesco come di una fiondache l’avrebbe lanciata ancor più lontano dal Sole. Simile a una cometa, sisarebbe spinta fino ai limiti estremi del sistema solare, verso la sua metaultima, lo splendore inanellato di Saturno. E non avrebbe fatto mai più ritorno.

Per la Discovery quello sarebbe stato unviaggio a senso unico… e ciò, nonostante il suo equipaggio non avesse alcuna intenzionedi uccidersi. Se tutto fosse andato bene, gli uomini sarebbero stati di ritornosulla Terra entro sette anni… cinque dei quali destinati a passare come unlampo, nel sonno senza sogni dell’ibernazione, mentre avrebbero aspettato diessere presi a bordo della non ancor costruita Discovery II, e salvati.

La parola «salvati» veniva accuratamente evitata intutti i comunicati e i documenti dell’Ente Astronautico; implicava qualcheerrore di pianificazione, e il termine di gergo approvato era «riacquisizione».Se qualche inconveniente si fosse realmente verificato, senza dubbio non visarebbe stata alcuna speranza di soccorso a quasi un miliardo e mezzo dichilometri dalla Terra.

Si trattava di un rischio calcolato, come in tutti i viagginell’ignoto. Ma mezzo secolo di ricerche aveva dimostrato che l’ibernazioneumana indotta artificialmente era del tutto sicura, schiudendo nuovepossibilità per quanto concerneva i viaggi nello spazio. Fino a questa missione,però, la scoperta non era mai stata sfruttata al massimo.

I tre componenti della squadra di ricognizione, chenon sarebbero stati necessari fino a quando l’astronave non fosse entrata nellasua orbita finale intorno a Saturno, avrebbero dormito per tutto il viaggio diandata. Si sarebbero così risparmiate tonnellate di viveri e di altri materialidi consumo; inoltre, fattore altrettanto importante, la squadra sarebbe stata riposatae fresca, anziché affaticata dal viaggio di dieci mesi, al momento di agire.

La Discovery doveva entrare in un’orbita diparcheggio intorno a Saturno, divenendo una nuova luna del pianeta gigantesco. Avrebberuotato lungo una ellisse di tre milioni e duecentomila chilometri, tale dacondurla vicino a Saturno e da farle poi attraversare le orbite di tutte le suelune più importanti. Gli uomini avrebbero avuto a loro disposizione centogiorni durante i quali rilevare e studiare un mondo la cui superficie eraottanta volte maggiore di quella terrestre, circondato da un seguito di almenoquindici satelliti conosciuti… uno dei quali grande quanto il pianeta Mercurio.

Dovevano esservi laggiù meraviglie sufficienti persecoli di studi; la prima spedizione avrebbe potuto eseguire soltanto unaricognizione preliminare. Tutte le sue scoperte sarebbero state comunicate perradio alla Terra; e anche se gli esploratori non avessero mai dovuto fareritorno, i risultati dell’impresa non sarebbero andati perduti.

Dopo cento giorni, la nave spaziale Discoveryavrebbe cessato la propria attività. Tutti i componenti dell’equipaggio sarebberopassati in ibernazione; soltanto gli impianti essenziali avrebbero continuato afunzionare, sorvegliati dall’instancabile cervello elettronico dell’astronave. Essaavrebbe continuato a girare intorno a Saturno, lungo un’orbita ormai così bendeterminata che gli uomini avrebbero saputo esattamente dove cercarla dopomille anni. Ma, dopo cinque anni appena, stando ai piani attuali, la DiscoveryII sarebbe arrivata. Anche se fossero trascorsi sei o sette o otto anni, i passeggeriaddormentati non si sarebbero resi conto della differenza. Per tutti loro l’orologiosi sarebbe fermato, come era già fermo per Whitehead, Kaminski e Hunter.

A volte Bowman, come comandante della Discovery,invidiava i suoi tre inconsci colleghi nella pace gelida dell’Hibernaculum.Erano esenti da ogni noia e da ogni responsabilità; fino a quando non fosseroarrivati su Saturno, il mondo esterno non sarebbe esistito per loro.

Ma quel mondo li stava osservando, per mezzo degliindicatori biosensori. Inseriti in modo poco appariscente tra gli innumerevolistrumenti del ponte di controllo, si trovavano cinque piccoli pannellicontrassegnati Hunter, Whitehead, Kaminski, Poole, Bowman. Gli ultimi due eranospenti e senza vita; il loro momento sarebbe venuto soltanto di lì a un anno. Suglialtri si vedevano costellazioni di minuscole spie verdi, le quali annunciavanoche tutto andava bene; e ogni pannello comprendeva un piccolo schermo sul qualeuna serie di linee luminose tracciava i placidi ritmi del polso, dellarespirazione e dell’attività cerebrale.

V’erano momenti in cui Bowman, pur essendo ben consciodell’assoluta inutilità della cosa, in quanto l’allarme avrebbe risuonato all’istantese vi fosse stato qualche inconveniente, inseriva l’audio. Ascoltava, quasiipnotizzato, i battiti cardiaci infinitamente lenti dei suoi colleghi addormentati,tenendo gli occhi fissi sulle pigre onde che marciavano in sincronismo attraversolo schermo.

Più affascinanti di tutti erano gli indicatori EEG, lechiavi elettroniche di tre personalità che un tempo erano esistite, e chesarebbero un giorno tornate a esistere. Rimanevano quasi esenti dalle sommità edagli avvallamenti le esplosioni elettriche, che attestavano l’attività delcervello in stato di veglia… o anche del cervello durante il sonno normale. Serimaneva un residuo di coscienza, esso era oltre la portata degli strumenti e dellamemoria.

Di questo Bowman era certo per esperienza personale. Primadi presceglierlo per la missione, avevano posto alla prova le sue reazioni all’ibernazione.Non sapeva bene se avesse perduto una settimana di vita o se la sua morte ultimafosse stata rinviata dello stesso periodo di tempo.

Quando gli erano stati applicati gli elettrodi allafronte e il generatore del sonno aveva cominciato a pulsare, dinanzi ai suoiocchi era passato un breve sfoggio di disegni caleidoscopici, e di stelle chesi allontanavano. Poi tutto si era dileguato e l’oscurità lo aveva inghiottito.Non si era accorto delle iniezioni e tanto meno della prima sensazione di geloquando la sua temperatura corporea era stata ridotta a soli pochi gradi soprail congelamento.

 

* * *

 

Si destò e gli parve di non avere quasi chiuso gliocchi. Ma sapeva che si trattava di un’illusione; chissà perché, era persuasoche in realtà fossero trascorsi anni.

Era stata portata a termine la missione? Avevano giàraggiunto Saturno, eseguita la ricognizione, per essere poi ibernati? La DiscoveryII si trovava già lì per ricondurli sulla Terra?

Continuò a giacere in preda a uno stordimento da sogno,assolutamente incapace di distinguere tra ricordi reali e illusori. Apri gliocchi, ma vi fu ben poco da vedere, tranne un’offuscata costellazione di luciche lo lasciò interdetto per qualche minuto. Poi si rese conto che stavaguardando le spie indicatrici sul Quadro Situazione Astronave, ma gli riuscivaimpossibile metterle a fuoco. Ben presto rinunciò al tentativo.

Un soffio d’aria calda lo stava investendo, edeliminava il gelo dalle sue membra. Tutto era tranquillo, ma una musica stimolantedilagava dall’altoparlante dietro il suo capo. Stava lentamente diventandosempre e sempre più forte.

Poi una voce distesa, amichevole, ma, lo sapeva, generatada un calcolatore, gli parlò.

«Stai diventando operativo, Bave. Non alzarti e nontentare alcun movimento brusco. Non cercare di parlare.»

Non alzarti! pensò Bowman. Questa sì ch’era buffa. Dubitavadi poter anche soltanto muovere un dito. Ma, non senza stupore, constatò che viriusciva.

Provò una soddisfazione immensa, sia pure in un modostordito e stupido. Sapeva vagamente che la nave spaziale di soccorso dovevaessere arrivata, che la procedura automatica di ritorno alla vita era stataavviata, e che ben presto avrebbe veduto altri esseri umani. Tutto ciò erapiacevole, ma non lo entusiasmò.

Di lì a poco si sentì affamato. Il calcolatore, naturalmente,aveva previsto questa sua necessità.

«C’è un pulsante di comando accanto alla tua manodestra, Dave. Se hai appetito, premilo.»

Bowman costrinse le proprie dita a cercare qua e là, edi lì a poco trovò il pulsante di forma ovale. Aveva dimenticato tutto alriguardo, sebbene dovesse aver saputo della sua esistenza. Ma quante altre coseaveva dimenticato! L’ibernazione cancellava forse i ricordi?

Premette il pulsante e aspettò. Parecchi minuti dopo, unbraccio metallico si spostò sulla cuccetta, e un succhietto di plastica calòverso le sue labbra. Bowman succhiò avidamente e un liquido caldo e dolce gliscorse nella gola, rinnovando le sue energie a ogni goccia.

Di lì a poco il braccio si allontanò ed egli riposòancora. Adesso riusciva a muovere le braccia e le gambe; l’idea di camminarenon era più un sogno impossibile.

Sebbene sentisse le forze tornargli rapidamente, sarebbestato lieto di giacere lì per sempre, purché non vi fossero stati ulterioristimoli esterni. Ma, di lì a non molto, un’altra voce gli parlò… e questa voltaera completamente umana, non un aggregato di impulsi elettrici messi insieme dauna memoria più-che-umana. Era inoltre una voce familiare, anche se trascorseun po’ di tempo prima che egli riuscisse a riconoscerla.

«Ciao, Dave. Ti stai riprendendo benissimo. Ora sei ingrado di parlare. Sai dove ti trovi?»

Si crucciò al riguardo per qualche momento. Se davveroera in orbita intorno a Saturno, che cosa poteva essere accaduto durante tuttii mesi trascorsi dopo la partenza dalla Terra? Di nuovo incominciò a domandarsise stesse soffrendo di amnesia. Paradossalmente, questa stessa riflessione lorassicurò. Se riusciva a ricordare la parola «amnesia» il suo cervello doveva esserein condizioni abbastanza buone…

Ma ancora non sapeva dove si trovava, e colui cheparlava all’altro capo del circuito doveva essersi reso conto benissimo dellasua situazione.

«Non preoccuparti, Dave. Sono Frank Poole. Sto osservandoi tuoi battiti cardiaci e la respirazione… Tutto è perfettamente normale. Devisoltanto rilassarti… e star calmo. Adesso apriremo il portello e ti toglieremodi lì.»

Una luce morbida dilagò nella camera; egli vide sagomein movimento, profilate contro l’apertura sempre più ampia. E in quel momentotutti i ricordi gli tornarono, e seppe esattamente dove si trovava.

Sebbene fosse riemerso sano e salvo dai più estremi limitidel sonno e dal confine vicino della morte, era rimasto in stato di ibernazionesoltanto per una settimana. Una volta uscito dall’Hibernaculum nonavrebbe veduto il gelido cielo di Saturno; quello distava più di un anno nell’avveniree un miliardo e seicento milioni di chilometri. Lui si trovava ancora nell’addestratoredel Centro Voli Spaziali di Houston, sotto il caldo sole del Texas.

 

HAL

 

 

Ma adesso il Texas era invisibile, e persino gli StatiUniti si vedevano a stento. Sebbene i motori al plasma a bassa spinta avesserocessato da tempo di funzionare, la nave spaziale Discovery si trovavaancora in prossimità della Terra, con la sua sottile struttura a frecciapuntata verso lo spazio esterno, e tutti i potentissimi strumenti otticiorientati verso i pianeti lontani, ove si celava il suo destino.

V’era un telescopio, tuttavia, permanentemente puntatosulla Terra. Era montato, come un congegno di mira, alla base dell’antenna alunga portata della nave spaziale e faceva in modo che la grande antennaparabolica rimanesse rigidamente orientata verso il bersaglio. Finché la Terra rimaneva centrata nel reticolo, il collegamento vitale era assicurato e i messaggipotevano andare e venire lungo il fascio invisibile che ogni giorno siallungava di oltre tre milioni di chilometri.

Per lo meno una volta a ogni turno di guardia, Bowmancontemplava la Terra attraverso il telescopio allineato con l’antenna. Poiché la Terra era ormai molto indietro verso il Sole, il suo emisfero buio rimaneva orientato versola nave spaziale, e sullo schermo indicatore centrale il pianeta apparivasimile a un’abbacinante falce argentea, come un’altra Venere.

Accadeva di rado che si riuscissero a distinguerecaratteristiche geografiche in quell’arco luminoso sempre più sottile, inquanto nubi e brume le nascondevano, ma anche la parte oscurata del disco avevaun fascino inesauribile. Era disseminata di città risplendenti; a volteardevano di una luce costante, a volte ammiccavano come lucciole mentre tremoliiatmosferici vi passavano sopra.

V’erano inoltre periodi in cui la Luna, mentre seguivala sua orbita, splendeva come una grande lampada sui bui mari e sui continentidella Terra. Allora, con un fremito di riconoscimento, Bowman riusciva spesso aintravedere linee costiere che gli erano familiari, illuminate dalla spettraleluce lunare. E talora, quando il Pacifico era calmo, vedeva persino il chiarodi luna baluginare sulla sua superficie; e ricordava notti sotto i palmizi dilagune tropicali.

Eppure non provava rimpianti per quelle perdute bellezze.Se le era godute tutte nei trentacinque anni della sua esistenza; ed era decisoa goderle ancora, una volta che fosse tornato ricco e famoso. Nel frattempo, lalontananza le rendeva ancor più preziose.

Il sesto componente dell’equipaggio non si curava dialcuna di queste cose, perché non era umano. Si trattava del perfezionatissimocalcolatore HAL 9000, il cervelloe il sistema nervoso dell’astronave.

Hal (che stava, nientemeno, per Calcolatorealgoritmico euristicamente programmato) era un capolavoro della terza generazionedi calcolatori. Le grandi scoperte in questo campo sembravano determinarsi aintervalli di vent’anni, e l’idea che un altro grande progresso fosse ormaiimminente preoccupava già un gran numero di persone.

Il primo progresso lo si era avuto negli anni Quaranta,quando la valvola termoionica, ormai superata da tempo, aveva reso possibiligoffi deficienti veloci, come l’ENIAC e i suoi successori. Poi, negli anniSessanta, era stata perfezionata la microelettronica a stato solido.

Con il suo avvento era apparso chiaro che intelligenzeartificiali capaci almeno come quella dell’uomo non potevano essere più grandidi scrivanie o… se soltanto si fosse saputo come costruirle.

Con ogni probabilità, nessuno lo avrebbe saputo mai, manon importava. Negli anni Ottanta, Minsky e Good avevano dimostrato come retineutrali potessero essere generate automaticamente, auto replicate, in armoniacon un qualsiasi arbitrario programma di apprendimento. Cervelli artificialipotevano essere creati con un processo sorprendentemente analogo allo sviluppodi un cervello umano. In ogni singolo caso, i particolari precisi non sarebberomai stati noti e, anche se si fosse potuto conoscerli, erano milioni di voltetroppo complessi per la comprensione umana.

Comunque fossero andate le cose, il risultato era consistitoin una macchina intelligente capace di riprodurre (alcuni filosofi preferivanoancora servirsi del termine «miniare») quasi tutte le attività del cervelloumano, e con una rapidità e una sicurezza di gran lunga maggiori. Si trattavadi calcolatori costosissimi, e soltanto pochi esemplari della serie HAL 9000 erano stati costruiti fino aquel momento; ma la vecchia battuta secondo la quale sarebbe stato sempre piùsemplice creare cervelli organici con mano d’opera non specializzata incominciavaa sembrare un po’ vuota.

Hal era stato addestrato in modo perfetto per questamissione, come i suoi colleghi umani… e aveva una capacità pensante parecchievolte superiore alla loro poiché, oltre alla propria rapidità intrinseca, nondormiva mai. Il suo compito essenziale era quello di controllare i sistemi peril mantenimento della vita, accertando continuamente la pressione dell’ossigeno,la temperatura, eventuali fughe d’aria, la radiazione e tutti gli altri fattoriinterdipendenti ai quali erano legate le vite del fragile equipaggio umano. Eglipoteva apportare le complesse correzioni di rotta, ed eseguire le necessariemanovre di volo quando occorreva cambiare direzione. Inoltre poteva sorvegliaregli ibernati intervenendo con le necessarie regolazioni delle condizioni dell’ambientee distribuendo le piccole quantità di fluidi endovena che li mantenevano invita.

Le prime generazioni di calcolatori avevano ricevuto idati per mezzo di tastiere delle glorificate macchine per scrivere, rispondendomediante telescriventi rapide e indicatori visivi. Hal era in grado di fareanche questo quando si rendeva necessario, ma quasi tutte le sue comunicazionicon i compagni di viaggio avvenivano per il tramite della parola parlata. Poolee Bowman potevano conversare con Hal come se si fosse trattato di un essereumano, ed egli rispondeva in un perfetto inglese idiomatico che aveva imparatodurante le fuggevoli settimane della sua fanciullezza elettronica.

Se Hal potesse effettivamente pensare, era uninterrogativo che il matematico inglese Alan Turing aveva risolto sin daglianni Quaranta. Secondo Turing, se si poteva condurre una lunga conversazionecon una apparecchiatura elettronica, sia mediante una macchina per scrivere, siamediante un microfono, senza riuscire a distinguere tra le sue risposte e quelleche avrebbe potuto dare un uomo, quell’apparecchiatura pensava, in basea ogni definizione ragionevole del termine. Hal sarebbe riuscito a superare facilmentel’esame di Turing.

Non era escluso che potesse giungere il momento in cuiHal avrebbe assunto il comando della nave spaziale. In caso di emergenza, qualoranessuno rispondesse ai suoi segnali, avrebbe tentato di svegliare i membriaddormentati dell’equipaggio mediante stimoli elettrici e chimici. In assenzadi una loro reazione, si sarebbe collegato per radio alla Terra per avereulteriori ordini.

E poi, se non vi fosse stata alcuna risposta dallaTerra, avrebbe adottato quei provvedimenti che riteneva necessari per salvaguardarela nave spaziale e continuare la missione… il cui vero scopo egli soloconosceva, e che i suoi colleghi umani non avrebbero mai potuto supporre.

Poole e Bowman si erano più volte riferiti spiritosamentea se stessi come a custodi o guardiani a bordo di un’astronave che, in realtà, potevaproseguire da sola. Sarebbero rimasti stupefatti e non poco indignati scoprendoquanta verità conteneva questa spiritosaggine.

 

CONSUETUDINI DELLA CROCIERA

 

 

La guida giornaliera della nave spaziale era stataprogettata con somma cura e, almeno teoricamente, Bowman e Poole sapevano checosa avrebbero fatto in ogni momento delle ventiquattr’ore. Facevano turni didodici ore di guardia e dodici ore di riposo, sostituendosi a vicenda, senzamai dormire contemporaneamente. L’ufficiale di servizio rimaneva sul ponte dicontrollo, mentre l’altro ufficiale provvedeva alla manutenzione in genere, ispezionavala nave spaziale, provvedeva alle varie incombenze delle quali si presentavasenza posa la necessità, oppure riposava nel suo cubicolo.

Sebbene Bowman fosse nominalmente il comandante in questafase della missione, nessun osservatore estraneo avrebbe potuto dedurlo. Lui e Poolesi sostituivano in tutto e per tutto nei compiti, nel grado e nelleresponsabilità ogni dodici ore. Ciò li manteneva entrambi al culmine dell’addestramento,riduceva al minimo le possibilità di attriti e li aiutava ad avvicinarsi allameta del cento per cento di perfezione.

La giornata di Bowman incominciava alle 06.00, oradell’astronave: le Effemeridi astronomiche universali del tempo. Se per casoBowman avesse tardato, Hal disponeva di tutta una serie di segnali sonori e dicarillon per ricordargli il suo dovere, ma non erano mai stati impiegati. Atitolo di prova, Poole aveva una volta staccato l’allarme; Bowman si eraugualmente alzato come un automa all’ora prevista.

Il suo primo gesto ufficiale della giornata consistevanel portare avanti di dodici ore il cronometro principale dell’ibernazione. Sequesta operazione fosse stata omessa due volte di seguito, Hal avrebbe presuntoche tanto lui quanto Poole si trovavano nell’incapacità di agire e si sarebbeaffrettato ad adottare i necessari provvedimenti di emergenza.

Bowman faceva anzitutto la propria toletta ed eserciziisometrici prima della colazione e della lettura mattutina dell’edizioneelettronica del World Times. Sulla Terra, non aveva mai letto ilgiornale attentamente come adesso; anche le più insignificanti notizie suipettegolezzi mondani e sulle più fuggevoli voci politiche, sembravano di uninteresse assorbente mentre balenavano sullo schermo.

Alle 07.00, sostituiva ufficialmente Poole nel pontedi controllo, portandogli dalla cucina un tubo di caffè da spremere. Se, comeaccadeva solito, non v’era alcunché da riferire e nessun provvedimento da adottare,si accingeva a controllare tutte le indicazioni degli strumenti ed eseguivatutta una serie di prove aventi lo scopo di individuare possibili guasti. Entrole 10.00 aveva terminato e si dedicava a un periodo di studio.

Bowman aveva studiato per più di metà della sua vita eavrebbe continuato a studiare finché non fosse andato a riposo. Grazie allarivoluzione del ventesimo secolo per quanto concerneva le tecniche relative all’istruzionee alle informazioni, egli possedeva già la cultura equivalente a due o trelauree e, quel che più contava, riusciva a ricordare il novanta per cento diquanto aveva imparato.

Cinquant’anni prima, sarebbe stato considerato unospecialista in astronomia applicata, cibernetica e sistemi propulsivi nellospazio… eppure egli tendeva a negare, con autentica indignazione, di esserequalcosa del genere. Gli era sempre stato impossibile accentrare il propriointeresse esclusivamente su un argomento; nonostante le tetre ammonizioni deisuoi insegnanti, aveva voluto a tutti i costi laurearsi in astronauticagenerale… una facoltà dal programma vago e nebuloso, destinata a coloro il cuiquoziente di intelligenza era inferiore a 130 e che non avrebbero mai brillatonella loro professione.

La sua decisione era stata giusta; proprio quelrifiuto di specializzarsi lo aveva reso eccezionalmente idoneo al suo compitoattuale. Pressappoco nello stesso modo, Frank Poole, che a volte, in modospregiativo, si autodefiniva «tecnico generico di biologia spaziale», era statouna scelta ideale come suo vice. I due uomini, se necessario con l’aiuto dellavasta riserva di informazioni di Hal, erano in grado di far fronte a qualsiasidifficoltà potesse probabilmente determinarsi durante il viaggio, finchéavessero fatto in modo che le loro menti rimanessero all’erta e ricettive, rinfrescandocontinuamente le nozioni impresse nella memoria.

Così, per due ore, dalle 10.00 alle 12.00, Bowman siimpegnava in un dialogo con un ripetitore elettronico, controllando la suacultura generale, o assimilando nozioni specifiche per questa missione. Studiavasenza posa i piani della nave spaziale, i diagrammi dei circuiti, le carteastronomiche relative al viaggio, oppure tentava di assimilare tutto ciò che sisapeva su Giove, Saturno e le loro vaste famiglie di lune.

A mezzogiorno si ritirava in cucina e affidava la navespaziale ad Hal durante i preparativi del pranzo. Anche lì era semprepienamente in contatto con gli eventi, poiché il minuscolo salotto con sala dapranzo conteneva un duplicato del Quadro Indicatore Situazione, e Hal potevachiamarlo con un solo attimo di preavviso. Poole gli faceva compagnia durantequesto pasto, prima di concedersi il suo periodo di sei ore di sonno, e disolito seguivano uno dei normali programmi televisivi trasmessi loro dalla Terra.

I loro menus erano stati studiati con tantacura quanto ogni altro aspetto della missione. Il cibo, quasi tutto congelatoed essiccato, era invariabilmente ottimo e prescelto tenendo presente lanecessità di incomodarli il meno possibile. I pacchetti dovevano soltantoessere aperti e inseriti nella piccola cucina automatica, che emetteva unsegnale sonoro ripetuto a cottura avvenuta. Assaporavano bevande e cibi cheavevano lo stesso sapore e, fattore altrettanto importante, lo stesso aspettodel succo d’arancia, delle uova (cucinate in tutti i modi), delle bistecche, dellecostate, degli arrosti, della verdura fresca, della frutta assortita, deigelati, e persino del pane appena tolto dal forno.

Dopo pranzo, dalle 13.00 alle 16.00, Bowman faceva ungiro lento e meticoloso della nave spaziale, o di quelle parti di essa cheerano accessibili. La Discovery era lunga quasi centoventi metri da un’estremitàall’altra, ma il piccolo universo occupato dal suo equipaggio era contenutointeramente nella sfera larga dodici metri del guscio a pressione.

Lì si trovavano tutte le apparecchiature per il mantenimentodella vita, e lì era situato il ponte di controllo, il cuore operativo dell’astronave.Sotto di esso veniva un piccolo «garage spaziale» munito di tre camere d’equilibrio,attraverso le quali capsule motorizzate, grandi appena quanto bastava per contenereun uomo, potevano salpare nel vuoto se si presentava la necessità di un’attivitàextra veicolare.

La regione equatoriale della sfera a pressione (lasezione, per così dire, dal Capricorno al Cancro) racchiudeva un tamburo inlenta rotazione del diametro di undici metri e mezzo. Poiché compiva unarivoluzione ogni dieci secondi, questa giostra o centrifuga produceva unagravità artificiale pari a quella della Luna. Essa bastava a impedire l’atrofiafisica che sarebbe conseguita alla completa assenza di peso, e permettevainoltre che le normali funzioni della vita si svolgessero in condizioni normalio quasi normali.

La giostra conteneva pertanto la cucina, la sala dapranzo e gli impianti igienici. Soltanto lì era prudente preparare e maneggiarebevande calde… pericolosissime nelle condizioni di assenza di peso, durante lequali si può essere gravemente ustionati da globuli galleggianti d’acquabollente. Anche le difficoltà del radersi erano risolte: non potevano esservipeli senza peso sparsi nell’aria, con il pericolo di danneggiare l’equipaggiamentoelettrico e di minacciare la salute.

Intorno all’orlo della giostra erano disposti cinquepiccoli cubicoli, arredati da ciascun astronauta a seconda dei suoi gusti e contenentii suoi oggetti personali. Soltanto quelli di Bowman e di Poole eranoattualmente occupati, mentre i futuri occupanti delle altre tre cabineriposavano entro i loro sarcofaghi elettronici, nel reparto adiacente.

La rotazione del tamburo poteva essere fermata, senecessario; quando ciò accadeva, il suo momento angolare doveva essereimmagazzinato in un volano, per essere riutilizzato al momento della ripresadella rotazione. Ma di norma il tamburo veniva lasciato girare a velocitàcostante, in quanto era abbastanza facile entrare nella grossa giostra in lentarotazione passando, sostenendosi ad appigli, lungo un’asta attraverso la regionea zero g nel suo centro. Trasferirsi sulla sezione in movimento era semplice e automatico,dopo un po’ di esperienza, come salire su una scala mobile.

Il guscio sferico a pressione formava l’estremità diuna leggera struttura a forma di freccia lunga più di cento metri. La Discovery,come tutti i veicoli destinati a una profonda penetrazione nello spazio, eratroppo fragile e troppo poco aerodinamica per poter entrare in un’atmosfera, o persfidare il campo gravitazionale di qualsiasi pianeta. Era stata montata inorbita intorno alla Terra, collaudata nel corso di un primo volo translunare, einfine controllata in orbita intorno alla Luna. Era una creatura del purospazio… e ne aveva tutto l’aspetto.

Immediatamente dietro il guscio a pressione siraggruppavano quattro grandi serbatoi di idrogeno liquido e più indietro ancora,formando una lunga ed esile «V», si trovavano le pinne irradianti chedisperdevano il calore superfluo del reattore nucleare. Venate da un delicatoricamo di tubazioni per il liquido di raffreddamento, sembravano le ali di unaenorme libellula e, sotto certi punti di vista, facevano sì che la Discoverysomigliasse fuggevolmente a una nave a vela dei tempi antichi.

All’estremità della «V», e a novanta metri dalcompartimento dell’equipaggio, v’erano l’inferno schermato del reattore e ilcomplesso di elettrodi focalizzanti attraverso i quali sfuggiva la sostanzastellare incandescente della propulsione al plasma. Essa aveva svolto ilproprio lavoro alcune settimane prima, costringendo la Discovery adallontanarsi dall’orbita di parcheggio intorno alla Luna. Ora il reattore silimitava a ticchettare, generando energia elettrica per i servizi dell’astronave,e le grandi pinne irradianti, che divenivano incandescenti assumendo un colorrosso-ciliegia quando la Discoveryaccelerava sotto la massima spinta, eranoscure e fredde.

Anche se occorreva un’escursione nello spazio per esaminarequesta parte dell’astronave, esistevano strumenti e remote telecamere chefornivano indicazioni complete sulle sue condizioni. Bowman riteneva ormai diconoscere intimamente ogni centimetro quadrato delle pinne irradianti e deipannelli, e ogni tratto di tubazione a essi collegato.

Entro le 16.00 terminava l’ispezione, e faceva unrapporto verbale particolareggiato al Controllo Missione, parlando finché quest’ultimonon incominciava ad accusare ricevuta. Allora spegneva la trasmittente di bordo,ascoltava quanto la Terra aveva da dire, e rispondeva a ogni eventuale domanda.Alle 18.00 Poole si destava e lo sostituiva.

Gli rimanevano allora sei ore libere, da impiegarecome più gli piaceva. A volte continuava gli studi, oppure ascoltava musica o guardavafilm. Per la maggior parte del tempo vagava a suo piacimento tra l’inesauribilebiblioteca elettronica dell’astronave. Aveva finito con l’essere affascinato dallegrandi esplorazioni del passato… il che era abbastanza comprensibile, tenutoconto delle circostanze. A volte navigava con Pitea fuori dalle colonne d’Ercole,lungo le coste di una Europa che stava appena emergendo dall’età della pietra,e si avventava tra le gelide nebbie dell’Artico. Oppure, duemila anni dopo, inseguivacon Anson i galeoni di Manila, salpava con Cook lungo i pericoli ignoti dellagrande barriera corallina e compiva, con Magellano, la prima circumnavigazionedella Terra. Incominciò inoltre a leggere l’Odissea, che, tra tutti i libriesistenti, gli parlava più vividamente attraverso gli abissi del tempo.

Per distrarsi, poteva sempre impegnare Hal in un grannumero di giochi semi matematici, compresi la dama e gli scacchi. Se Hal ce lametteva tutta, poteva vincere qualsiasi partita; ma questo sarebbe statonegativo per il morale. E così, lo avevano programmato in modo che vincessesoltanto il cinquanta per cento delle volte, e i suoi compagni di gioco umanifingevano di non saperlo.

Le ultime ore della giornata di Bowman erano dedicatealle pulizie generali e a lavori vari, ai quali seguiva la cena alle ore 20.00,di nuovo con Poole. Quindi, per un’ora circa, egli poteva fare o riceverequalsiasi telefonata dalla Terra.

Come tutti i suoi colleghi, Bowman era scapolo; non sarebbestato giusto mandare uomini ammogliati in una missione di simile durata. Sebbenenumerose donne avessero promesso di aspettare fino al termine della spedizione,la promessa non era stata presa sul serio da nessuno. All’inizio, sia Poole siaBowman avevano fatto telefonate personali alquanto intime una volta allasettimana, sebbene la consapevolezza che molte orecchie dovevano ascoltarle, all’estremitàdel collegamento con la Terra, tendesse a inibirli. Ma già, per quanto ilviaggio fosse appena cominciato, la passione e la frequenza delle conversazionicon le loro ragazze sulla Terra avevano cominciato a diminuire. Essi se loerano aspettato; si trattava di uno degli inconvenienti del modo di viveredegli astronauti, come lo era stato un tempo per i marinai.

Era vero, e risaputo, che i marinai trovavano compensiin altri porti; purtroppo, non esistevano isole tropicali piene di brunefanciulle di là dall’orbita della Terra. I medici spaziali, naturalmente, avevanoaffrontato questo problema con il loro consueto entusiasmo; la farmacia dellanave conteneva surrogati adeguati, anche se non affascinanti.

Poco prima del cambio, Bowman faceva il suo ultimorapporto e si accertava che Hal avesse trasmesso tutti i nastri relativi allastrumentazione per quanto concerneva la navigazione di quel giorno. Poi, se neaveva voglia, passava un paio d’ore o leggendo o guardando un film; e a mezzanottesi addormentava… di solito senza dover ricorrere all’aiuto dell’elettronarcosi.

L’attività di Poole era un’immagine speculare dellasua, e i due turni si susseguivano l’uno all’altro senza attriti. Entrambi gliuomini erano completamente occupati, e troppo intelligenti e bene adattati perpoter litigare, e il viaggio si era assestato in una comoda routine del tuttopriva di eventi, nella quale il trascorrere del tempo era indicato soltanto dainumeri che cambiavano sui quadranti degli orologi digitali.

La più grande speranza del piccolo equipaggio della Discoveryera che nulla potesse mai guastare questa pacifica monotonia in futuro.

 

ATTRAVERSO GLI ASTEROIDI

 

 

Correndo, una settimana dopo l’altra, simile a un tramsui binari della sua orbita assolutamente predeterminata, la Discoverypassò accanto all’orbita di Marte e proseguì verso quella di Giove. A differenzadi tutti i vascelli che solcavano i cieli o i mari della Terra, non richiedevanemmeno un minimo intervento sui comandi. La sua rotta era fissata dalle leggidella gravitazione universale; non esistevano secche non segnate sulle carte néscogliere pericolose contro le quali avrebbe potuto infrangersi. Né v’era ilbenché minimo pericolo di collisioni con un’altra astronave, in quanto nessunaastronave, per lo meno costruita dall’uomo, si trovava in alcun punto tra essae le stelle infinitamente remote.

Ciò nonostante, lo spazio nel quale stava adesso penetrandoera tutt’altro che vuoto. Dinanzi alla Discovery si trovava una «terradi nessuno» minacciata dalle traiettorie di oltre un milione di asteroidi, menodi diecimila dei quali seguivano orbite determinate esattamente dagli astronomi.Soltanto quattro avevano un diametro superiore ai centosessanta chilometri; glialtri, nella grande maggioranza, erano soltanto macigni giganteschi, scaraventatisenza meta attraverso lo spazio.

Al riguardo non si poteva far nulla; sebbene anche ilpiù piccolo di essi potesse distruggere completamente la nave spaziale, qualoraavesse dovuto urtarla a una velocità di decine di migliaia di chilometri all’ora,la probabilità di un simile evento era trascurabile. In media, esisteva un soloasteroide in uno spazio cubico avente un milione e mezzo di chilometri di lato;che la Discovery potesse per caso trovarsi nello stesso punto e allostesso momento era quello che meno preoccupava il suo equipaggio.

L’ottantaseiesimo giorno dovevano venirsi a trovarenel punto più vicino a uno degli asteroidi noti. Non aveva alcun nome, masemplicemente il numero 7794, ed era un frammento roccioso del diametro dicinquanta metri individuato dall’Osservatorio lunare nel 1997, e immediatamentedimenticato, tranne che dai pazienti calcolatori dell’Ufficio Pianeti Minori.

Nel momento in cui Bowman era montato in servizio, Halgli aveva prontamente ricordato l’incontro imminente; era improbabile, delresto, che potesse essersi dimenticato del solo evento previsto nel corso dell’interoviaggio. La traiettoria dell’asteroide contro le stelle, e le sue coordinate almomento del massimo avvicinamento erano già apprese sugli schermi indicatori. Figuravanoinoltre, già elencate, le osservazioni da compiere o da tentare; sarebberostati occupatissimi quando l’asteroide 7794 fosse passato fulmineamente davantia loro, a soli millequattrocento chilometri di distanza e a una velocitàrelativa di centoventimila chilometri orari.

Quando Bowman chiese ad Hal di mettere in funzione loschermo telescopico, su quest’ultimo apparve un tratto di firmamentopunteggiato di rare stelle. Non si vedeva nulla che somigliasse a un asteroide,tutte le immagini, anche con il massimo ingrandimento, erano soltanto puntiluminosi senza alcuna dimensione.

«Dammi il reticolo bersaglio», chiese Bowman. Immediatamenteapparvero quattro fioche e sottili linee, inquadrando una minuscola e «anonimastella. Egli fissò il reticolo per lunghi minuti, domandandosi se Hal nonpotesse aver commesso un errore; poi vide che il puntino luminoso si stavamuovendo, con una lentezza tale da essere appena percettibile, contro lo sfondodelle stelle. Poteva trovarsi ancora a ottocentomila chilometri di distanza… mail suo movimento indicava che, in base al metro delle distanze cosmiche, eracosì vicino da poter quasi essere toccato.

Quando Poole raggiunse Bowman sul ponte di controllosei ore più tardi, il 7794 era centinaia di volte più brillante, e si stavamuovendo così rapidamente contro lo sfondo che non si poteva più dubitare dellasua identità. E non era più un puntino luminoso, ma aveva incominciato adapparire come un disco chiaramente visibile.

Fissarono quel ciottolo di passaggio nel cielo con lestesse emozioni di marinai che, nel corso di una lunga traversata, rasentanouna costa sulla quale non potranno mai sbarcare. Pur essendo ben consci che il7794 era soltanto un frammento di roccia senz’aria e senza vita, non riuscironoa far sì che il loro stato d’animo venisse influenzato da tale certezza. Era lasola materia solida che avrebbero incontrato da questa parte di Giove… lontanoancora trecentoventi milioni di chilometri.

Attraverso il telescopio a grande potenza videro che l’asteroideera molto irregolare, e girava lentamente intorno a se stesso. A volte sembravauna sfera appiattita, a volte somigliava a un mattone dalla forma grossolana; ilsuo periodo di rotazione era di poco più di due minuti. Esistevano chiazzevariegate d’ombra e di luce distribuite apparentemente a caso sulla sua superficie,e spesso esso scintillava come una finestra lontana mentre piani o affioramentidi materiale cristallino balenavano al sole.

Stava correndo davanti a loro a quasi quarantotto chilometrial secondo; avevano appena pochi frenetici minuti di tempo per osservarlo davicino. Le macchine fotografiche automatiche scattarono decine di istantanee, gliechi di ritorno del radar di navigazione vennero accuratamente registrati peruna futura analisi… e rimase appena il tempo per una singola sonda d’urto.

La sonda non conteneva alcuno strumento; nulla avrebbepotuto sopravvivere a una collisione a quelle velocità cosmiche. Erasemplicemente un piccolo frammento metallico, lanciato dalla Discoverylungo una traiettoria che avrebbe intersecato quella dell’asteroide.

Mentre i secondi che precedevano l’urto trascorrevanoticchettanti, Poole e Bowman aspettarono con crescente tensione. L’esperimento,sebbene semplice in linea di principio, metteva alla prova fino all’estremolimite la precisione del loro equipaggiamento. Stavano mirando un bersaglio deldiametro di cinquanta metri, dalla distanza di migliaia di chilometri…

Sulla parte in ombra dell’asteroide vi fu un’improvvisa,abbacinante esplosione di luce. Il minuscolo frammento metallico aveva colpitoa velocità meteorica; in una frazione di secondo, tutta la sua energia si eratrasformata in calore. Uno sbuffo di gas incandescente era stato eruttato perqualche istante nello spazio; a bordo della Discovery le macchinefotografiche registravano le righe dello spettro che rapidamente andavano dileguandosi.Sulla Terra gli esperti le avrebbero analizzate, cercando gli indizisignificativi degli atomi ardenti. E così, per la prima volta, si sarebbe determinatala composizione della crosta di un asteroide.

Un’ora dopo, il 7794 era una stella sempre menoluminosa che non lasciava più scorgere alcuna traccia di un disco. Quando fuBowman a montare di guardia era svanito completamente.

Erano di nuovo soli; sarebbero rimasti soli fino aquando le lune più esterne di Giove non fossero venute loro incontro, di lì atre mesi.

 

IL SUPERAMENTO DI GIOVE

 

 

 

Anche da trentadue milioni di chilometri di distanza, Gioveera già l’oggetto celeste più cospicuo nello spazio dinanzi a loro. Il pianetaera adesso un disco pallido color salmone, avente pressappoco la metà delledimensioni della Luna, come la si vede dalla Terra, con le bande scure e paralleledelle sue fasce di nubi chiaramente visibili. A fare la spoletta avanti e indietrosul piano equatoriale del pianeta si vedevano le vivide stelle di Io, Europa, Ganimedee Callisto… mondi che altrove sarebbero stati considerati a buon dirittopianeti essi stessi, ma che qui erano semplicemente satelliti di un padronegigantesco.

Al telescopio, Giove era uno spettacolo straordinario…un globo variegato e multicolore, che sembrava riempire il cielo. Non ci siriusciva a rendere conto delle sue dimensioni reali; Bowman continuava arammentare a se stesso che aveva un diametro superiore di undici volte a quellodella Terra, ma per lungo tempo questo rimase un dato statistico privo di verosignificato.

Poi, mentre si stava informando mediante i nastridelle unità di memoria di Hal, trovò qualcosa che a un tratto mise a fuoco laspaventosa scala delle dimensioni del pianeta. Era un’illustrazione chemostrava l’intera superficie della Terra distaccata e poi applicata, come lapelle di un animale, al disco di Giove. Su quel disco tutti i continenti e glioceani della Terra non sembravano più grandi dell’India sul globo terrestre.

Quando Bowman si servì del massimo ingrandimento dei telescopidella Discovery, gli parve di essere sospeso sopra un globo lievementeappiattito, e di contemplare dall’alto un panorama di nubi in corsa che eranostate lacerate a strisce dalla rapida rotazione del mondo gigantesco. Taloraquelle bande si condensavano in ciuffi e grovigli e masse di vapori colorativaste come continenti; talora erano collegate da ponti fuggevoli lunghimigliaia di chilometri. Celata dietro quelle nubi si trovava tanta di quellamateria da superare per il suo peso tutti gli altri pianeti del sistema solare.E che altro, si domandava Bowman, si nascondeva laggiù?

Sopra questo mutevole e turbolento tetto di nubi, checelava per sempre la vera superficie del pianeta, scivolavano a volte formecircolari e oscure. Una delle lune interne stava passando contro il Solelontano e la sua ombra marciava sotto a essa sull’irrequieta cappa di nuvole diGiove.

V’erano altre, e di gran lunga più piccole lune, anchelì… a trentadue milioni di chilometri da Giove. Ma si trattava soltanto dimontagne volanti, con un diametro di poche decine di chilometri, e l’astronavenon sarebbe passata in alcun punto vicino a esse. Ogni pochi minuti iltrasmettitore radar, chiamando a raccolta tutte le proprie forze, lanciava nellospazio un tuono silenzioso di energia; ma nessuna eco di nuovi satellititornava pulsante dal vuoto.

Quello che si determinò, invece, con sempre crescenteintensità, fu il rombo della voce radio di Giove. Nel 1955, immediatamenteprima dell’alba dell’era spaziale, gli astronomi erano rimasti stupefatticonstatando che Giove irradiava milioni di cavalli vapore sulla banda dei diecimetri. Si trattava soltanto di rumori caotici, insieme ad aloni di particellecariche che ruotavano intorno al pianeta come le fasce di Van Allen sulla Terra,ma su scala molto più grande.

A volte, durante le ore di solitudine sul ponte dicontrollo, Bowman ascoltava questa radiazione. Aumentava il volume finché illocale non si colmava di un rombo crepitante e sibilante; da questo sfondo distrepito, a intervalli irregolari, emergevano brevi fischi e pigolamenti similia strida di uccelli impazziti. Era un suono magico e irreale, perché non avevaniente a che vedere con l’uomo; era solitario e privo di significato come il mormoriodelle onde su una spiaggia o il rombo lontano del tuono di là dall’orizzonte.

Anche alla sua velocità attuale di oltrecentosessantamila chilometri all’ora, la Discovery avrebbe impiegatoquasi due settimane per attraversare le orbite di tutti i satelliti di Giove. Lelune che ruotavano intorno a Giove erano più numerose dei pianeti che ruotavanointorno al Sole; l’Osservatorio lunare ne stava scoprendo di nuove ogni anno, eil totale era ormai arrivato a trentasei. La più esterna, Giove XXVII, si muovevaall’indietro su un’orbita instabile, a trenta milioni di chilometri dal suopadrone temporaneo. Era la preda di un perpetuo tiro alla fune tra Giove e ilSole, in quanto il pianeta non faceva che catturare per breve tempo lunesottratte alla fascia di asteroidi, ma tornava a perderle dopo alcuni milionidi anni. Soltanto i satelliti interni costituivano una sua priorità definitiva;il Sole non avrebbe mai potuto strapparli alla sua presa.

Adesso esisteva una nuova preda per i contrastanticampi gravitazionali. La Discovery stava accelerando verso Giove lungoun’orbita complessa, calcolata alcuni mesi prima dagli astronomi sulla Terra e controllatacostantemente da Hal. Di quando in quando intervenivano spinte minime e automatichedei getti di controllo, appena percettibili a bordo della nave spaziale, perapportare regolazioni di precisione alla traiettoria.

Grazie al collegamento radio con la Terra, leinformazioni raggiungevano quest’ultima come un flusso costante. Distavanoormai tanto dal loro pianeta che, anche viaggiando alla velocità della luce, i segnaliimpiegavano cinquanta minuti per compiere il viaggio. Sebbene il mondo interostesse guardando oltre le loro spalle, e osservasse attraverso i loro occhi e iloro strumenti man mano che Giove si avvicinava, quasi un’ora trascorreva primache le notizie delle scoperte giungessero sulla Terra.

Le macchine fotografiche telescopiche scattavanocontinuamente, mentre l’astronave intersecava l’orbita dei giganteschisatelliti interni, ognuno di essi più grande della Luna, ognuno di essiterritorio ignoto. Tre ore prima di attraversarne l’orbita, la Discoverypassò a soli trentaduemila chilometri da Europa e tutti gli strumenti venneropuntati sul mondo che andava avvicinandosi, mentre esso aumentava costantementedi dimensioni, si trasformava da globo a falce, e proseguiva rapido verso ilSole.

Ecco novantotto milioni di chilometri quadrati disuolo che fino a quel momento erano stati soltanto un puntino luminoso nel piùpotente dei telescopi. Sarebbero passati fulmineamente accanto a loro di lì apochi minuti, e occorreva sfruttare al massimo l’incontro, registrando ilmaggior numero possibile di dati. Avrebbero poi avuto mesi di tempo durante i qualipoterli riesaminare a piacere.

Da lontano Europa era sembrata una gigantesca palla dineve che riflettesse la luce del Sole remoto con considerevole efficienza. Leosservazioni ravvicinate confermarono la cosa; a differenza dalla polverosaLuna, Europa era di un bianco brillante e gran parte della sua superficie sembravarivestita di enormi blocchi luccicanti, simili per l’aspetto a iceberg alladeriva. Quasi certamente erano formati di ammoniaca e acqua che il campogravitazionale di Giove, in qualche modo, non era riuscito a catturare.

Soltanto lungo l’equatore era visibile nuda roccia; làsi estendeva una terra di nessuno, una fascia più scura, incredibilmenteaccidentata, di canyon e di caotici macigni che avvolgeva completamente ilpiccolo mondo. Si scorgevano alcuni crateri da impatto, ma nessuna traccia di fenomenivulcanici; Europa, ovviamente, non aveva mai posseduto alcuna sorgente internadi calore.

Esisteva, come si sapeva da tempo, una traccia di atmosfera.Quando l’orlo scuro del satellite passò davanti a una stella, quest’ultima sioffuscò fuggevolmente prima dell’attimo dell’eclisse. E in certe zone siscorgeva un accenno di nubi… forse una nebbia di goccioline d’ammoniaca, sollevatada tenui venti di gas metano.

Rapidamente come si era avventata fuori dal firmamentoverso di loro, Europa si lasciò indietro l’astronave. Hal aveva controllato e ricontrollatol’orbita della Discovery con infinita cura e non si rendevano necessarieulteriori modifiche della velocità fino al periodo del massimo avvicinamento. Eppure,anche sapendo questo, era un mettere i nervi a dura prova osservare quel globogigantesco che andava dilatandosi di minuto in minuto. Si stentava a credereche la Discovery non stesse piombando direttamente su di esso, e che l’immensocampo gravitazionale del pianeta non li stesse attraendo giù verso la distruzione.

Era giunto il momento di lanciare le sondeatmosferiche che, si sperava, avrebbero resistito abbastanza a lungo perritrasmettere qualche dato dal di sotto della coltre di nubi di Giove. Duetozze capsule a forma di bomba, racchiuse in scudi di calore destinati a essereconsumati dall’attrito, vennero dolcemente spinte in orbite che, per le primemigliaia di chilometri, si discostavano appena da quella della Discovery.

Ciò nonostante si allontanarono adagio; e ora, infine,anche senza l’ausilio di strumenti, fu possibile vedere quello che Hal avevaasserito. L’astronave si trovava in un’orbita di quasi-sfioramento, e non dicollisione; avrebbe mancato anche l’atmosfera di Giove. La differenza, questosì, era di appena poche centinaia di chilometri: un mero nulla, trattandosi diun pianeta il cui diametro era di centosessantamila chilometri, ma bastava.

Giove colmava ormai l’intero firmamento; era cosìenorme che né la mente né lo sguardo riuscivano più ad afferrarlo e sia l’unasia l’altro avevano rinunciato al tentativo. Se non fosse stato per lastraordinaria varietà di colori, i rossi e i rosa, i gialli e i salmone e persinogli scarlatti, dell’atmosfera sotto di loro, Bowman avrebbe potuto credere disorvolare una cappa di nubi sulla Terra.

E ora, per la prima volta nel corso dell’interoviaggio, stavano per perdere il Sole. Per quanto scialbo e rimpicciolito, essoera stato il costante compagno della Discovery dal momento in cui essasi era allontanata dalla Terra, cinque mesi prima. Ma adesso l’orbita dell’astronavestava affondando nell’ombra di Giove; presto sarebbe passata sopra il lato delpianeta sul quale regnava la notte.

Milleseicento chilometri più avanti la fascia del crepuscolosi stava scaraventando verso di loro; dietro l’astronave, il Sole calavarapidamente nelle nubi gioviane. I suoi raggi si aprirono a ventaglio lungo l’orizzontecome due corna fiammeggianti incurvate all’ingiù, poi si contrassero e sispensero nel bagliore fuggevole d’una cromatica radiosità. La notte era discesa.

Eppure, l’immenso mondo sottostante non era completamentebuio. Sembrava immerso in una fosforescenza che andava divenendo più luminosadi minuto in minuto, man mano che i loro occhi si abituavano alla scena. Fiochifiumi di luce scorrevano da un orizzonte all’altro, come scie luminose di navisu qualche mare tropicale. Qua e là si raccoglievano in pozze di fuoco liquido,tremolanti a causa di vasti sommovimenti sottomarini che scaturivano dal cuoresegreto di Giove. Lo spettacolo ispirava una tal meraviglia reverenziale chePoole e Bowman avrebbero potuto contemplarlo per ore; era, tutto ciò, si domandarono,semplicemente il risultato di forze chimiche ed elettriche, laggiù in quelcalderone ribollente… o forse si trattava del sottoprodotto di qualchefantastica forma di vita? Erano, questi, interrogativi che gli scienziatiavrebbero ancora potuto dibattere quando il secolo appena all’inizio si fosseavvicinato al suo termine.

Mentre sprofondavano sempre e sempre più nella nottegioviana, il bagliore sotto di essi continuò ad aumentare costantemente. Unavolta Bowman aveva sorvolato il Canada settentrionale al culmine di un’auroraboreale; il paesaggio coperto di neve era apparso squallido e brillante comequesto. E quella desolazione artica, egli rammentò a se stesso, era di almenocento gradi più calda delle regioni sopra le quali si stavano adesso avventando.

«Il segnale della Terra si sta attenuando rapidamente»,annunciò Hal. «Entriamo nella prima zona di diffrazione.»

Se lo erano aspettato… anzi, era uno degli scopi dellamissione, in quanto l’assorbimento delle onde radio avrebbe fornito datipreziosi sull’atmosfera di Giove. Ma adesso che si erano effettivamentelasciati indietro il pianeta, e che esso impediva le comunicazioni con la Terra,sentirono una solitudine improvvisa e schiacciante. Il silenzio radio, si sarebbeprotratto soltanto per un’ora; poi sarebbero usciti dallo schermo di Giove e avrebberopotuto ristabilire i contatti con il genere umano. Quell’ora, comunque, sarebbestata una delle più lunghe della loro vita.

Pur essendo relativamente giovani, Poole e Bowmanerano veterani d’una dozzina di viaggi spaziali, ma ora si sentivano comenovizi. Stavano tentando qualcosa per la prima volta; mai prima di allora unanave spaziale aveva viaggiato a quella velocità, o sfidato un campogravitazionale così intenso. Un minimo errore di navigazione in quel momentocritico, e la Discovery si sarebbe lanciata sempre più velocemente versogli estremi limiti del sistema solare, di là da ogni speranza di soccorso.

I minuti scorrevano lenti. Giove era adesso una pareteverticale di fosforescenza che si stendeva all’infinito sopra di loro… e l’astronavesaliva perpendicolarmente accanto alla superficie luminosa. Nonostante lacertezza che la loro velocità era di gran lunga troppo grande perché anche lagravità di Giove potesse catturarli, si stentava a credere che la Discoverynon sarebbe divenuta un satellite di quel mondo mostruoso.

Infine, molto più avanti, si vide un balenare di luceall’orizzonte. Stavano emergendo dall’ombra e si dirigevano verso lo spazioilluminato dal Sole. E, quasi nello stesso momento, Hal annunciò: «Sono incontatto radio con la Terra. E sono inoltre lieto di dire che la manovra diperturbazione è stata completata con successo. La durata del viaggio fino aSaturno sarà di centosessantasette giorni, cinque ore e undici minuti.»

Meno di un minuto di differenza con le previsioni; ilvolo era stato attuato con precisione impeccabile. Simile a una palla su untavolo da biliardo cosmico, la Discovery era rimbalzata sul campogravitazionale in movimento di Giove, aumentando il proprio momento dopo l’impatto.Senza ricorrere ad alcun carburante era riuscita a accrescere la propriavelocità di parecchie migliaia di chilometri all’ora.

Eppure non vi era stata alcuna violazione delle leggidella meccanica; la natura pareggia sempre i propri registri, e il momento diGiove era diminuito esattamente di tanto quanto aveva guadagnato la Discovery.Il pianeta era stato rallentato, ma, essendo la sua massa un sestilione divolte più grande di quella della nave, il mutamento della sua orbita rimanevadi gran lunga troppo piccolo per poter essere percepito. Non era ancora giuntal’epoca in cui l’uomo avrebbe potuto lasciare il proprio segno sul sistemasolare.

Mentre la luce aumentava rapidamente intorno a loro, eil Sole rimpicciolito si alzava una volta di più nel cielo del pianeta, Poole eBowman si sporsero silenziosamente l’uno verso l’altro e si scambiarono unastretta di mano.

Anche se quasi non riuscivano a crederlo, la primaparte della loro missione era stata felicemente compiuta.

 

IL MONDO DEGLI DÈI

 

 

Ma non avevano ancora finito con Giove. Molto piùindietro, le due sonde lanciate dalla Discovery stavano prendendo contattocon l’atmosfera.

Di una di esse non si doveva sapere più nulla; presumibilmenteera entrata nell’atmosfera con un angolo troppo acuto, bruciando prima di potertrasmettere qualsiasi dato. La seconda fu più fortunata: volò attraverso glistrati superiori dell’atmosfera gioviana, poi rimbalzò ancora una volta nellospazio. Come era stato previsto, aveva perduto tanta velocità, nell’incontro, daricadere lungo una grande ellisse. Due ore dopo, rientrò nell’atmosfera sullato del pianeta illuminato dalla luce del giorno… spostandosi alla velocità dicentododici-mila chilometri all’ora.

Immediatamente venne avvolta da un involucro di gas incandescentee il contatto radio si interruppe. Vi furono allora ansiosi minuti di attesaper i due uomini che la seguivano sul ponte di controllo. Essi non potevanoessere certi che la sonda avrebbe resistito e che lo scudo protettivo diceramica non sarebbe bruciato completamente prima del termine dell’azione difrenaggio. Se ciò fosse accaduto, gli strumenti si sarebbero vaporizzati in unafrazione di secondo.

Ma lo scudo termico resistette quanto bastava perchéla meteora incandescente trovasse riposo. I frammenti carbonizzati dello scudovennero espulsi, il robot spinse fuori le antenne e cominciò a scrutare attornoa sé con i propri sensi elettronici. A bordo della Discovery, ormailontana quasi quattrocentomila chilometri, la radio incominciò a captare leprime notizie autentiche da Giove.

Le migliaia di impulsi che si riversavano a ognisecondo riferivano la composizione atmosferica, la pressione, la temperatura, icampi magnetici, la radioattività e decine di altri dati che soltanto gliesperti sulla Terra avrebbero potuto districare. Ciò nonostante vi fu unmessaggio che poté essere compreso all’istante; l’immagine televisiva, a colori,trasmessa dalla sonda che stava precipitando.

Le prime riprese giunsero quando il robot era giàpenetrato nell’atmosfera, liberandosi dallo schermo protettivo. La sola cosavisibile era una nebbia gialla, striata di chiazze scarlatte che si muovevanoaccanto alla telecamera a una velocità vertiginosa verso l’alto, mentre lasonda cadeva a parecchie centinaia di chilometri all’ora.

La nebbia divenne ancor più fitta; era impossibilesupporre se la telecamera vedesse per venticinque centimetri o per quindicichilometri, in quanto non esistevano particolari sui quali l’occhio potessemettersi a fuoco. Sembrava che, per quanto concerneva l’impianto televisivo, lamissione fosse stata un insuccesso. Le apparecchiature avevano funzionato, manon v’era alcunché da vedere in quell’atmosfera nebulosa è turbolenta.

E poi, tutto a un tratto, la nebbia svanì. La sondadoveva essere precipitata attraverso la base di un alto strato di nubi, emergendoin una zona limpida… forse uno strato di idrogeno quasi puro… con qualche raraformazione di cristalli di ammoniaca. Sebbene fosse ancora assolutamenteimpossibile valutare la scala dell’immagine, la telecamera stava ovviamenteesplorando chilometri.

La scena era così estranea che, per un momento, parvepriva di significato a occhi abituati ai colori e alle forme della Terra.

Lontano, molto lontano, più in basso, si stendeva unmare sconfinato d’oro a screziature, solcato di rilievi paralleli che sarebberopotuti essere le creste di ondate gigantesche. Ma non si scorgeva alcunmovimento; la scala della scena era troppo immensa per poterlo mostrare. E quelpanorama dorato non poteva essere un oceano, in quanto si trovava ancora altonell’atmosfera di Giove.

Poi la telecamera inquadrò, offuscata in modoallettante dalla distanza, l’immagine fuggevole di qualcosa di molto strano. Moltichilometri più in là, il paesaggio dorato si sollevava formando un conocuriosamente simmetrico, simile a una montagna vulcanica. Intorno alla sommitàdel cono si trovava un alone di piccole nubi gonfie… tutte pressappoco dellestesse dimensioni e tutte molto nitide e isolate. V’era qualcosa di inquietantee di innaturale in esse… ammesso, in effetti, che si potesse applicare la parola«naturale» a quel panorama terrificante.

Poi, investita da qualche turbolenza nell’atmosferache andava rapidamente diventando più densa, la sonda girò su se stessa versoun altro quarto dell’orizzonte, e per qualche secondo lo schermo non mostròaltro che una chiazza dorata. Subito dopo la sonda si stabilizzò; il «mare» eramolto più vicino, ma enigmatico come sempre. Si poteva ora constatare che lointerrompevano qua e là chiazze d’oscurità che sarebbero potute essere fori o squarciaperti verso strati ancor più profondi dell’atmosfera.

Ma la sonda era destinata a non raggiungerli mai. Aogni chilometro la densità del gas intorno a essa si era raddoppiata e lapressione saliva man mano che il robot scendeva sempre più verso la superficienascosta del pianeta. Si trovava ancora alto sopra quel mare misterioso, quandol’immagine ebbe un tremolio premonitore, e poi svanì, mentre il primo esploratoredella Terra si schiacciava sotto il peso dei chilometri di atmosfera sovrastante.

Aveva fornito, durante la sua breve vita, un’immaginefuggevole di forse un milionesimo di Giove, e si era a malapena avvicinato allasuperficie del pianeta, centinaia di chilometri più in basso nelle nebbiesempre più fitte. Quando l’immagine scomparve dallo schermo, Bowman e Poolepoterono soltanto rimanere seduti in silenzio, rimuginando la stessariflessione nella loro mente.

Gli antichi avevano, invero, fatto più di quel chesapevano dando a questo mondo il nome del signore di tutti gli dèi. Se esistevauna vita laggiù, quanto tempo ancora sarebbe occorso, quanti secoli ancoradovevano passare prima che uomini potessero seguire questo primo pioniere… e inche tipo di astronave?

Ma simili problemi non concernevano ormai più la Discoverye il suo equipaggio. La loro mèta era un mondo ancora più estraneo, quasi duevolte più lontano dal Sole… di là da altri ottocento bilioni di chilometri divuoto attraversato dalle comete.

 

CAPITOLO QUARTO
L’ABISSO

 

 

 

FESTA DI COMPLEANNO

 

 

La melodia familiare di Happy Birthday, trasmessaattraverso millecento milioni di chilometri di spazio alla velocità della luce,si spense tra gli schermi illuminati e gli strumenti del ponte di controllo. Lafamiglia Poole, raggruppata un po’ timidamente intorno alla torta delcompleanno, sulla Terra, scivolò in un silenzio improvviso.

Poi il signor Poole padre disse: «Be’, Frank, non miviene in mente altro da dire in questo momento, tranne che i nostri pensierisono con te e che ti auguriamo il più lieto dei compleanni.»

«Abbi cura di te, tesoro», intervenne in lacrime lasignora Poole. «Che Dio ti benedica.»

Seguì un coro di: «Arrivederci» e lo schermotelevisivo si oscurò. Come era strano pensare, si disse Poole, che tutto ciòera accaduto più di un’ora prima; ormai la sua famiglia doveva essersi di nuovodispersa e i suoi componenti dovevano trovarsi alcuni chilometri lontano da casa.Ma, in un certo qual modo, quel ritardo di tempo, pur potendo essere deludente,era anche una fortuna camuffata. Come ogni uomo della sua epoca, Frank Pooledava per dimostrato di poter parlare all’istante con chiunque sulla Terra, ognivolta che gli fosse piaciuto. Ora che questo non rispondeva più alla verità, leconseguenze psicologiche erano profonde. Si trovava in una nuova dimensione dilontananza e quasi tutti i legami emotivi erano stati tesi fino al punto dirottura.

«Dolente di interrompere i festeggiamenti», disse Hal,«ma abbiamo una difficoltà.»

«Quale?» domandarono contemporaneamente Bowman e Poole.

«Stento a mantenere il collegamento con la Terra. Ildifetto risiede nell’elemento AE-35. Il mio Centro previsione guasti riferisceche potrà non essere più in condizione di funzionare entro settantadue ore.»

«Provvederemo noi», rispose Bowman. «Vediamo l’allineamentoottico.»

«Eccolo qui, Dave. È sempre okay, per il momento.»

Sullo schermo indicatore apparve una perfetta mezzaluna, molto brillante contro uno sfondo quasi privo di stelle. Era coperta dinubi e non rivelava alcuna caratteristica geografica riconoscibile. Anzi, aprima vista si sarebbe potuto scambiarla facilmente per Venere.

Ma non osservandola bene, poiché là accanto a essaecco la vera Luna che Venere non possedeva, avente dimensioni pari a unquarto di quelle della Terra, ed esattamente nella stessa fase, era facileimmaginare che i due corpi celesti fossero madre e figlio, come molti astronomiavevano ritenuto, prima che l’esame delle rocce lunari avesse dimostrato oltreogni ombra di dubbio che la Luna non aveva mai fatto parte della Terra.

Poole e Bowman studiarono lo schermo in silenzio permezzo minuto. Quell’immagine veniva loro dalla telecamera a lunga focale montataalla base del grande riflettore parabolico della radio; il reticolo al centrodimostrava l’esatto orientamento dell’antenna. A meno che il sottile pennello d’ondenon fosse puntato esattamente sulla Terra, non potevano né ricevere nétrasmettere. I messaggi in entrambe le direzioni avrebbero mancato il bersaglioe si sarebbero perduti, inascoltati e non visti, attraverso il sistema solare enel vuoto di là da essa. Se anche fossero stati ricevuti, ciò sarebbe accadutosoltanto di lì ad alcuni secoli… e non da uomini.

«Sai dov’è il difetto?» domandò Bowman.

«È intermittente, e non riesco a localizzarlo. Masembra trovarsi nell’elemento AE-35.»

«Che cosa proponi di fare?»

«La cosa migliore consisterebbe nel sostituire l’elementocon uno di quelli di ricambio, per poterlo controllare.»

«Okay… vediamo i piani costruttivi.»

I dati balenarono sullo schermo indicatore; contemporaneamente,un foglio di carta scivolò fuori dalla fessura immediatamente sotto lo schermo.Nonostante tutti gli indicatori elettronici, v’erano momenti in cui l’antiquatomateriale stampato era ancora la forma di registrazione più comoda.

Bowman studiò i diagrammi per un momento, poi silasciò sfuggire un sibilo.

«Avresti potuto dircelo», osservò. «Questo significauscire all’esterno dell’astronave.»

«Scusami», rispose Hal. «Ma l’elemento AE-35 si trovasul sostegno dell’antenna e presumevo che tu lo sapessi.»

«Probabilmente lo sapevo, un anno fa. Ma a bordo visono ottomila impianti secondari. In ogni modo, sembra un lavoro semplice. Dovròsoltanto togliere un pannello e collocare un nuovo elemento.»

«Per me va benissimo», disse Poole, che era il membrodell’equipaggio cui spettavano le operazioni extraveicolari. «Mi farebbepiacere, un cambiamento di scena. Niente di personale, naturalmente.»

«Vediamo se il Controllo Missione è d’accordo», disseBowman.

Rimase immobile per qualche secondo, raccogliendo i propripensieri, poi cominciò a dettare un messaggio:

«Controllo Missione, qui è Raggi-X-Delta-Uno. Alle oredue-zero-quattro-cinque, il Centro previsione difetti del nostro calcolatorenove triplo zero ha indicato probabile guasto entro settantadue ore di elementoAlfa-Eco-tre-cinque. Vi chiediamo di controllare il vostro sistema disorveglianza telemetrica e vi proponiamo di rivedere elemento nel vostrosimulatore impianti astronave. Confermateci inoltre approvazione nostro propositodi uscire dal veicolo e di sostituire elemento Alfa-Eco-tre-cinque prima delguasto previsto. Controllo Missione qui Raggi-X-Delta-Uno, due-uno-zero-tre, finedella trasmissione.»

Dopo anni di pratica, Bowman poteva passare da un momentoall’altro al suo gergo (che qualcuno aveva battezzato un tempo «tecnicizzante»)e tornare al modo di esprimersi normale, senza fare inceppare i propriingranaggi mentali. Adesso non rimaneva altro da fare che aspettare la confermae sarebbero occorse almeno due ore, mentre i segnali compivano il viaggio diandata e ritorno oltre le orbite di Giove e di Marte.

La risposta giunse mentre Bowman stava tentando, senzatroppo successo, di battere Hal in uno dei giochi di matematica divertentememorizzati dal calcolatore.

«Raggi-X-Delta-Uno, qui il Controllo Missione che rispondeal vostro messaggio delle due-uno-zero-tre. Stiamo rivedendo i dati telemetricinel simulatore della missione e vi informeremo.

«Approviamo vostro proposito di uscire dal veicolo e sostituireelemento Alfa-Eco-tre-cinque prima di possibile guasto. Stiamo lavorando aprocedure controllo da applicare a elemento difettoso.»

Il problema serio essendo stato risolto, ilControllore della missione tornò a un inglese normale.

«Ci dispiace sapervi in difficoltà e non vorremmo accrescerele vostre preoccupazioni. Ma se non vi disturba, prima dell’uscita dal veicolo,abbiamo qui una richiesta da parte del Servizio informazioni pubbliche. Nonpotreste fare una breve registrazione per il grande pubblico, delineando la situazionee spiegando a che cosa serve l’AE-35? Cercate di essere rassicuranti il piùpossibile. Potremmo pensarci noi, naturalmente… ma, detto da voi, sarà moltopiù convincente. Spero che questo non scombussoli troppo la vostra vita sociale.Raggi-X-Delta-Uno, qui il Controllo Missione, due-uno-cinque-cinque, fine dellatrasmissione.»

Bowman non poté fare a meno di sorridere dellarichiesta. V’erano momenti in cui la Terra dava prova di una curiosa insensibilitàe mancanza di tatto. «Cercate di essere rassicuranti», ma guarda!

Quando Poole lo raggiunse, al termine del suo periododi sonno, impiegarono dieci minuti per formulare e levigare la risposta. Nelleprime fasi della missione vi erano state innumerevoli richieste di interviste ediscussioni da parte di tutti i mass media… che si accontentavano di qualunquecosa avessero voluto dire. Ma, man mano che le settimane trascorrevano senzaeventi, e il ritardo di tempo aumentava da pochi minuti a oltre un’ora, l’interesseera andato gradualmente diminuendo. Dopo i momenti di entusiasmo durante ilpassaggio accanto a Giove, più di un mese prima, avevano registrato soltantotre o quattro nastri magnetici per il grande pubblico.

«Controllo Missione, qui Raggi-X-Delta-Uno. Ecco ilcomunicato stampa richiesto:

«Qualche ora fa, oggi, si è presentata una difficoltàtecnica di importanza secondaria. Il nostro calcolatore Hal 9000 ha previsto un guasto nell’elemento AE-35.

«Si tratta di un componente piccolo ma vitale delsistema di comunicazioni. Mantiene la nostra antenna principale orientata verso la Terra con un’approssimazione di pochi millesimi di grado. Questa precisioneè necessaria, in quanto alla distanza alla quale ci troviamo attualmente, dioltre milleduecento milioni di chilometri, la Terra appare soltanto come unastella piuttosto debole, e il nostro sottilissimo fascio radio potrebbemancarla.

«L’antenna viene tenuta costantemente orientata verso la Terra da motori comandati dal calcolatore centrale. Ma questi motori ricevono le istruzioniper mezzo dell’elemento AE-35. Si potrebbe paragonarlo a un centro nervoso dell’organismoumano, che trasmetta gli ordini del cervello ai muscoli di un arto. Se il nervonon riesce a trasmettere i segnali esatti, l’arto diventa inutile. Nel nostrocaso, un guasto dell’elemento AE-35 potrebbe significare che l’antenna incomincerebbea essere orientata a caso. È stato questo un inconveniente molto comune nellesonde dello spazio profondo durante il secolo scorso. Esse raggiungevano spessoaltri pianeti, poi non trasmettevano alcun dato perché la loro antenna nonpoteva individuare la Terra.

«Non conosciamo ancora la natura del guasto, ma lasituazione non è affatto grave e non è assolutamente il caso di allarmarsi. Abbiamodue AE-35 di ricambio per ognuno dei quali la durata di funzionamento previstaè di vent’anni, per cui la possibilità che un secondo elemento si guastidurante il corso della missione è trascurabile. Inoltre, se riusciremo adiagnosticare il guasto attuale, potremo sempre riparare l’elemento numero uno.

«Frank Poole, che è particolarmente addestrato perquesto genere di lavoro, si porterà all’esterno della nave spaziale e sostituiràl’elemento difettoso con quello di ricambio. Al contempo, approfitterà dell’occasioneper controllare l’involucro e riparare alcuni microfori di meteoriti, troppopiccoli per aver giustificato un’uscita nello spazio vuoto.

«A parte questa difficoltà di secondaria importanza lamissione continua a svolgersi senza eventi e tutto dovrebbe procedere nellostesso modo.

«Controllo Missione, qui Raggi-X-Delta-Uno, due-uno-zero-quattro,fine della trasmissione.»

 

ESCURSIONE

 

 

Le capsule extraveicolari della Discovery, o «baccellispaziali», erano sfere di circa due metri e settanta di diametro, nelle quali l’operatoresedeva dietro a un finestrino sporgente che gli consentiva una splendidavisuale. Il razzo propulsore principale produceva un’accelerazione pari a unquinto di un g, appena sufficiente a far sì che la sfera si librasse sopra laLuna, mentre piccoli ugelli di comando della posizione rendevano possibile ilpilotaggio. Dal settore situato immediatamente sotto il finestrino sporgevanodue coppie di braccia metalliche articolate, l’una per i lavori pesanti, l’altraper le manipolazioni delicate. V’era anche una torretta allungabile contenentetutta una gamma di attrezzi, quali cacciaviti, martelli perforatori, seghe e trapani.

I «baccelli spaziali» non erano i mezzi di trasportopiù eleganti escogitati dall’uomo, ma non se ne poteva assolutamente fare ameno per i lavori di costruzione e di manutenzione nel vuoto. Venivano disolito battezzati con nomi femminili, forse riconoscendo il fatto che la loropersonalità era a volte un po’ imprevedibile. I tre della Discoverysichiamavano Anna, Betty e Giara.

Dopo aver indossato la tuta a pressione, l’ultima sualinea di difesa, ed essere salito a bordo della capsula, Poole dedicò dieciminuti a un attento controllo dei comandi. Azionò i getti direzionali, flettéle braccia metalliche, si accertò del pieno di ossigeno, di carburante, dienergia di riserva. Poi, quando fu del tutto persuaso, si rivolse ad Halattraverso il circuito radio. Bowman, pur trovandosi sul ponte di controllo, nonsarebbe intervenuto, a meno che non venisse commesso qualche ovvio errore o chenon si fosse verificato qualche difetto di funzionamento.

«Qui Betty, incomincia la sequenza di pompaggio.»

«Sequenza di pompaggio iniziata», confermò Hal… SubitoPoole udì il pulsare delle pompe mentre l’aria preziosa veniva risucchiatadalla camera di equilibrio. Di lì a poco il metallo sottile del guscio dellacapsula produsse suoni scricchiolanti e cigolanti, poi, trascorsi circa cinqueminuti, Hal riferì:

«Sequenza di pompaggio terminata.»

Poole eseguì un ultimo controllo del piccolo quadrostrumenti. Tutto era perfettamente normale.

«Apri il portello esterno», ordinò.

Di nuovo Hal confermò le sue istruzioni; in qualsiasimomento, Poole doveva soltanto gridare: «Ferma!» e il calcolatore interrompevaimmediatamente la sequenza.

Davanti a lui, le pareti della nave spaziale siaprirono scivolando. Poole sentì la capsula oscillare per un momento mentre leultime tenui tracce d’aria sfuggivano nello spazio. Poi, ecco che stavacontemplando le stelle e… guarda caso, proprio il minuscolo disco dorato diSaturno, lontano ancora seicento quaranta milioni di chilometri.

«Inizia espulsione capsula.»

Molto adagio, la rotaia alla quale la capsula erasospesa si protese attraverso il portello spalancato finché il veicolo nonvenne a trovarsi all’esterno della nave spaziale.

Poole azionò per mezzo secondo il getto principale e lacapsula scivolò con dolcezza dalla rotaia, divenendo infine un veicoloindipendente che seguiva la propria orbita intorno al Sole. Egli non avevaadesso più alcun collegamento con la Discovery… nemmeno un cavo disicurezza. Le capsule di rado causavano inconvenienti; e, anche nell’eventualitàdi un guasto, Bowman avrebbe potuto facilmente venire in suo soccorso.

Betty reagiva prontamente ai comandi; la lasciò andarealla deriva verso l’esterno per una trentina di metri, poi ne frenò il momentodi inerzia in avanti e la fece girare così da vedere di nuovo l’astronave. Quindiiniziò il giro della sfera a pressione.

Il suo primo obiettivo era un punto fuso, largo pocopiù di un centimetro, con un minuscolo cratere centrale. La particella dipolvere cosmica che lo aveva colpito a oltre centosessantamila chilometri orariera stata senz’altro più piccola di una capocchia di spillo e la sua enormeenergia cinetica l’aveva vaporizzata all’istante. Come accadeva spesso, il crateresembrava essere stato causato da un’esplosione all’interno dell’astronave;a quelle velocità, i materiali si comportavano in modo strano e le leggi dellameccanica del buon senso potevano essere applicate di rado.

Poole esaminò attentamente la zona interessata, poi laspruzzò con una sostanza sigillante contenuta in un serbatoio a pressione nelcorredo della capsula. Il fluido bianco e gommoso si sparse sul guscio metallico,celando alla vista il cratere. La falla soffiò fuori una grossa bolla chescoppiò quando raggiunse il diametro di circa quindici centimetri, quindi nesoffiò una più piccola, ma il fenomeno cessò non appena il cemento ad azionerapida cominciò a indurirsi. Poole osservò attentamente la falla per parecchiminuti, ma non vi fu alcun altro indizio di attività. Tuttavia, per esseredoppiamente certo, spruzzò un doppio strato, poi si diresse verso l’antenna.

Gli occorse qualche tempo per orbitare intorno allasfera a pressione della Discovery, in quanto non permetteva mai allacapsula di acquisire una velocità superiore a uno o due metri al secondo. Nonaveva alcuna fretta ed era pericoloso spostarsi a una velocità maggiore così inprossimità della nave spaziale. Doveva stare molto attento alle varie antenne eai diversi strumenti che sporgevano dalla sfera nei punti più inattesi e dovevainoltre fare attenzione al getto del suo motore. Avrebbe potuto causare danniconsiderevoli se per caso avesse investito alcuni degli strumenti più fragili.

Quando infine raggiunse l’antenna a lunga portata, studiòattentamente la situazione. Il grande disco di sei metri di diametro sembravaorientato direttamente verso il Sole, in quanto la Terra era quasi allineata con il disco solare. Il sostegno dell’antenna, con tutti glistrumenti di orientamento, si trovava pertanto immerso in una oscurità completa,nascosto dall’ombra del grande piatto metallico.

Poole si era avvicinato dalla parte posteriore; avevabadato a non portarsi di fronte al riflettore parabolico, per evitare che Bettyinterrompesse il fascio e causasse una momentanea, ma fastidiosa, interruzionedel contatto con la Terra. Non riuscì a veder nulla dell’apparecchiatura cheera venuto a riparare finché non ebbe acceso i riflettori della capsula, bandendol’ombra.

Sotto quel piccolo pannello metallico si celava lacausa dell’inconveniente. La piastra era assicurata da quattro controdadi, e poichél’intero elemento AE-35 era stato progettato in modo da poter essere sostituitofacilmente, Poole non prevedeva alcuna difficoltà.

Appariva ovvio, tuttavia, che non avrebbe potutoeseguire il lavoro rimanendo nella capsula. Non soltanto era pericolosomanovrare così vicino alla delicata struttura dell’antenna, simile addiritturaa una ragnatela, ma i getti direzionali di Betty avrebbero potuto facilmentedistorcere la superficie riflettente, sottile come carta, del grande specchio-radio.Avrebbe dovuto parcheggiare la capsula a sei metri di distanza e uscirne con latuta spaziale. In ogni caso, avrebbe potuto sostituire l’elemento assai piùrapidamente con le mani guantate che con le braccia meccaniche, comandate adistanza, di Betty.

Riferì tutto ciò debitamente a Bowman, che controllavaogni fase dell’operazione prima di autorizzarla. Sebbene si trattasse di unlavoro semplice e di ordinaria amministrazione, nulla poteva essere dato perdimostrato nello spazio, e nessun particolare poteva essere trascurato. Nell’attivitàextraveicolare non erano ammessi i «piccoli» errori.

Fu autorizzato a procedere e parcheggiò la capsula acirca sei metri dalla base del sostegno dell’antenna. Pur non essendovi alcunpericolo che potesse andare alla deriva nello spazio, assicurò la maniglia diun manipolare a una delle tante brevi sezioni di scalette a pioli situate all’esternodel guscio.

Poi controllò i regolatori della tuta a pressione e quandosi fu persuaso che tutto era a posto, lasciò sfuggire l’aria dalla capsula. Mentrel’atmosfera contenuta in Betty sibilava nel vuoto dello spazio, una nuvola dicristalli di ghiaccio si formò fuggevolmente intorno a lui e le stelle nerimasero per un momento offuscate.

Rimaneva un’altra cosa da fare prima di uscire dallacapsula. Passò dal controllo manuale a quello a distanza, ponendo ora Bettysotto il comando di Hal. Era una normale precauzione di sicurezza; sebbene eglifosse tuttora assicurato a Betty da un cordone robustissimo, poco più spesso diun filo di cotone, avvolto intorno a un congegno a molla, era accaduto cheanche i più forti ancoraggi si fossero spezzati. Sarebbe passato per unosciocco se avesse avuto bisogno del suo veicolo… e non fosse stato in grado difarlo intervenire in suo aiuto comunicando istruzioni ad Hal.

Il portello della capsula si spalancò, e lentamenteegli andò alla deriva nel silenzio dello spazio, mentre il cavo di sicurezza sisvolgeva dietro di lui. Far le cose con calma… non muoversi mai troppo infretta… fermarsi e riflettere… queste erano le regole di ogni attivitàextraveicolare. Purché venissero rispettate, non si andava incontro ad alcuninconveniente.

Afferrò una delle maniglie esterne di Betty e tolse l’elementoAE-35 di ricambio dalla tasca ove era stato collocato, alla maniera dei canguri.Non si soffermò a prendere alcuno degli attrezzi contenuti nella capsula, lamaggior parte dei quali non era stata costruita per essere adoperata da maniumane. Tutte le chiavi inglesi e gli attrezzi di cui presumibilmente avrebbeavuto bisogno erano già inseriti nella cintola della tuta.

Con una dolce spinta si lanciò verso il sostegno a sospensionecardanica del grande disco che si profilava come un piatto gigantesco tra lui eil Sole. La sua duplice ombra, proiettata dai riflettori di Betty, danzò sullasuperficie convessa assumendo forme fantastiche mentre egli galleggiava neifasci luminosi gemelli. Ma qua e là, notò meravigliato, la parte posteriore delgrande specchio-radio scintillava di abbacinanti puntini luminosi.

Lo lasciarono interdetto per i pochi secondi delsilenzioso avvicinamento, poi capì che cos’erano. Durante il viaggio, il riflettoreparabolico doveva essere stato penetrato molte volte da micrometeoriti; eglistava scorgendo la luce del sole rifulgere attraverso i minuscoli crateri. Eranotutti di gran lunga troppo piccoli per poter avere compromesso in misurapercettibile il rendimento dell’impianto.

Mentre si muoveva con cautela, smorzò il dolce urtocon il braccio teso e afferrò il montante dell’antenna prima di poterrimbalzare. Agganciò rapidamente la cintura di sicurezza all’appiglio più vicino;ciò gli avrebbe dato un punto d’appoggio quando si fosse servito degli attrezzi.Poi si fermò, riferì la situazione a Bowman, e prese in considerazione il passosuccessivo.

V’era una piccola difficoltà: si trovava in piedi, o galleggiava,nella luce della capsula, e gli riusciva difficile scorgere l’elemento AE-35nell’ombra che egli stesso proiettava. Pertanto ordinò ad Hal di spostare i riflettorida un lato e, dopo qualche tentativo, ottenne una illuminazione più uniformegrazie alla luce riflessa dalla superficie posteriore del riflettore parabolicodell’antenna.

Per qualche secondo studiò il piccolo pannellometallico con i quattro controdadi sigillati. Poi, borbottando tra sé e sé: «L’interventodi persone non autorizzate annulla la garanzia del costruttore», spezzò i sigillie cominciò a svitare i dadi; erano di misura standardizzata e si adattavanoalla sua chiave torsiometrica. Il meccanismo interno a molla della chiaveavrebbe assorbito la reazione mentre i dadi venivano svitati, per cui chi manovraval’attrezzo non si sarebbe sentito girare nella direzione opposta.

I quattro dadi vennero via senza alcuna difficoltà e Pooleli mise con cautela in una comoda tasca. (Un giorno, aveva predetto qualcuno, laTerra avrebbe avuto un anello come Saturno, composto esclusivamente di dadi, coppigliee persino attrezzi sfuggiti a sbadati operai di costruzioni orbitali.) Ilcoperchio di metallo stentava un po’ a staccarsi, e per un momento temette chepotesse essere stato bloccato dal gelo; ma dopo alcuni colpetti venne via e Poolelo assicurò al sostegno dell’antenna mediante un grosso supporto a graffa.

Ora poteva vedere i circuiti elettronici dell’elementoAE-35. Aveva la forma di una piastra sottile, grande pressappoco come unacartolina postale, contenuta da una scanalatura abbastanza ampia per tenerlaferma. L’elemento era tenuto in sito da due sbarrette di chiusura e aveva unapiccola maniglia per poter essere estratto più facilmente.

Ma stava ancora funzionando e forniva all’antenna gliimpulsi che la tenevano orientata verso il remoto puntino luminoso della Terra.Se fosse stato estratto adesso, il controllo si sarebbe completamenteinterrotto, e il riflettore parabolico avrebbe assunto la posizione neutra, o diazimut-zero, orientandosi lungo l’asse della Discovery; e questo sarebbestato pericoloso; ruotando, il riflettore avrebbe potuto urtarlo.

Per evitare questo particolare pericolo, bastavatogliere l’energia dal sistema di controllo; allora l’antenna non avrebbepotuto muoversi, a meno che lui stesso non l’avesse urtata. Non v’era alcunpericolo di perdere la Terra durante i pochi minuti occorrenti per sostituire l’elemento;il loro bersaglio non si sarebbe spostato in misura apprezzabile contro losfondo di stelle in un così breve intervallo di tempo.

«Hal», disse Poole al circuito radio, «sto perestrarre l’elemento. Togli l’energia dal sistema dell’antenna.»

«Energia tolta», rispose Hal.

«Ecco che se ne va. Estraggo l’elemento adesso

La piastra scivolò fuori dalla scanalatura senzaalcuna difficoltà; non si bloccò e nessuno delle decine di contatti a pressionerimase inceppato. Un minuto dopo, l’elemento di ricambio era al suo posto.

Ma Poole non intendeva esporsi a rischi. Si scostòdolcemente dal sostegno dell’antenna, nell’eventualità che il grosso riflettorepotesse impazzire nel momento in cui gli fosse stata ridata l’energia. Quandofu al sicuro e fuori di portata, disse ad Hal: «Il nuovo elemento dovrebbeessere operativo. Ridai energia.»

«Energia ridata», rispose Hal. L’antenna rimase assolutamenteferma.

«Adesso esegui le prove di previsione di guasto.»

Ora, impulsi microscopici avrebbero percorso i circuiticomplicati dell’elemento, sondando possibili guasti, collaudando la miriade dicomponenti per accertare che fossero tutti nei limiti delle tolleranze previste.Ciò era già stato fatto, naturalmente, una ventina di volte prima ancora che l’elementouscisse dalla fabbrica; ma tali collaudi avevano avuto luogo due anni prima e apiù di ottocento bilioni di chilometri di distanza. Spesso non si riusciva acapire come componenti elettronici allo stato solido potessero guastarsi;eppure accadeva.

«Circuito completamente operativo», riferì Hal, dopoappena dieci secondi. In questo brevissimo intervallo di tempo aveva eseguitotanti collaudi quanto un piccolo esercito di ispettori umani.

«Bene», disse Poole, soddisfatto. «Ora rimetto a postoil pannello.»

Questa era spesso la parte più pericolosa di unariparazione extraveicolare: gli errori venivano commessi quando un lavoro erastato terminato e si trattava semplicemente di rimettere ogni cosa a posto e dirientrare nella nave spaziale. Ma Poole non avrebbe partecipato a quellamissione se non fosse stato guardingo e coscienzioso. Si concesse tutto iltempo necessario, e anche se uno dei controdadi per poco non gli sfuggì, loafferrò prima che avesse percorso più di qualche decimetro.

Un quarto d’ora dopo, azionando il getto, rientravanella rimessa delle capsule, tranquillamente certo di avere sbrigato un lavoroche non doveva essere rifatto. In questo, però, s’ingannava.

 

DIAGNOSI

 

 

«Vuoi dire», esclamò Frank Poole, non tanto irritatoquanto stupito, «che ho fatto tutto quel lavoro per niente?»

«Così sembra», rispose Bowman. «L’elemento funziona perfettamente.Anche con un sovraccarico del duecento per cento, non risulta alcuna previsionedi guasto.»

I due uomini erano in piedi nella minuscolaofficina-laboratorio del tamburo ruotante, più comoda della rimessa dellecapsule per le piccole riparazioni e i controlli. Lì non si correva alcunpericolo di essere ustionati da gocce di stagno fuso galleggianti in assenza digravità, o di perdere completamente piccoli attrezzi che avessero deciso diandare in orbita. Queste cose potevano invece accadere e accadevano, nell’ambienteZero-g della rimessa delle capsule.

La piastra sottile, formato cartolina, dell’elementoAE-35 si trovava sul banco da lavoro sotto una lente a forte ingrandimento. Erainserita in una presa standardizzata che, mediante un fascio di cavettimulticolori, la collegava a un apparecchio automatico per la taratura, non piùgrande di una normale calcolatrice da scrivania. Per controllare ogni elemento,bastava collegarlo, inserire l’apposita scheda di «individuazione guasti», e premereun pulsante. Di solito il punto esatto del guasto veniva indicato su un piccoloschermo, insieme alle istruzioni per ripararlo.

«Prova tu stesso», disse Bowman, in un tono di vocepiuttosto deluso.

Poole portò sull’indicazione X-2 il selettore disovraccarico e premette il pulsante COLLAUDO.Subito sullo schermo balenò l’avvertimento: ELEMENTOOK.

«Presumo che potremmo continuare a immettervi correntefino a bruciare tutto», disse, «ma questo non proverebbe assolutamente niente. Checosa ne pensi?»

«Il previsore interno di guasti di Hal potrebbeaver commesso un errore.»

«È più probabile che l’errore lo abbia commesso lanostra attrezzatura di controllo. In ogni modo è meglio esagerare in fatto diprudenza anziché doversi pentire. Preferisco aver sostituito l’elemento sesussiste il benché minimo dubbio.»

Bowman staccò la piastra del circuito elettronico e laalzò alla luce, il materiale in parte traslucido era venato da una rete intricatadi fili e maculato da microcomponenti appena visibili, per cui sembrava unesempio di arte astratta.

«Non possiamo correre alcun rischio… in fin dei conti,questo è il nostro legame con la Terra. Lo segnerò tra il materiale difettoso elo metterò nel magazzino degli scarti. Potrà crucciarsene qualcun altro, quandotorneremo.»

Ma le preoccupazioni dovevano ricominciare di lì a nonmolto, alla successiva trasmissione dalla Terra.

«Raggi-X-Delta-Uno, qui il Controllo Missione, conriferimento al nostro due-uno-cinque-cinque, sembra che ci troviamo di fronte auna piccola difficoltà.

«Il vostro rapporto secondo il quale non v’è alcundifetto nell’elemento Alfa-Eco-tre-cinque concorda con la nostra diagnosi. Ilguasto potrebbe trovarsi nei circuiti collegati dell’antenna, ma in tal casoaltre prove dovrebbero individuarlo.

«V’è una terza possibilità che potrebbe essere piùgrave. Il vostro calcolatore può aver commesso un errore nel prevedere ilguasto. Entrambi i nostri nove-triplo-zero concordano nell’indicare ciò, sullabase delle loro informazioni. Ciò non deve essere necessariamente motivo diallarme, tenuto conto delle altre apparecchiature di cui disponiamo, mavorremmo che teneste d’occhio ogni altra deviazione dalle prestazioni previste.Abbiamo sospettato alcune piccole irregolarità in questi ultimi giorni, manessuna di esse è stata così importante da giustificare un intervento, né leirregolarità hanno avuto caratteristiche ovvie dalle quali si potesse dedurreuna conclusione qualsiasi. Stiamo eseguendo altre prove con entrambi i nostricalcolatori e vi riferiremo non appena i risultati saranno disponibili. Ripetiamoche non v’è alcun motivo di allarme; il peggio che possa accadere è lanecessità di disinserire temporaneamente il vostro nove-triplo-zero per un’analisidel programma, e di affidare il controllo a uno dei nostri calcolatori. Ilritardo nelle trasmissioni presenterà difficoltà, ma i nostri studi sull’attuazionepratica della cosa indicano che il controllo dalla Terra è del tutto soddisfacentein questa fase della missione.

«Raggi-X-Delta-Uno qui il Controllo Missione, due-uno-cinque-sei,fine della trasmissione.»

Frank Poole, che era di guardia quando arrivò ilmessaggio, vi rifletté in silenzio. Aspettò di sentire se vi sarebbe stato qualchecommento da parte di Hal, ma il calcolatore non tentò di contestare l’implicitaaccusa.

Bene, se Hal non affrontava l’argomento, anche lui siproponeva di fare altrettanto.

Era quasi il momento del cambio mattutino, e normalmenteegli avrebbe aspettato che Bowman lo raggiungesse sul ponte di controllo. Maquel giorno non rispettò tale prassi e si diresse verso il tamburo ruotante.

Bowman era già alzato e si stava versando un po’ dicaffè quando Poole lo salutò con un: «Buongiorno» piuttosto preoccupato. Dopotutti quei mesi trascorsi nello spazio, pensavano ancora nei termini delnormale ciclo di ventiquattr’ore… sebbene già da molto tempo avesserodimenticato i giorni della settimana.

«Buongiorno», rispose Bowman. «Come va?»

Poole riempì una tazza di caffè. «Benissimo. Seiragionevolmente sveglio?»

«Sono in ottima forma. Che cosa c’è?»

Ormai, se qualcosa andava male, lo capivano subitotutti e due. La minima variante nella routine normale era un indizio di cuitener conto.

«Be’», rispose adagio Poole «il Controllo Missione ciha appena lasciato cadere addosso una piccola bomba.» Abbassò la voce, come ilmedico che parla di una malattia alla presenza del paziente. «Potrebbe esservia bordo un caso non grave di ipocondria.»

Forse Bowman non era proprio ben desto, tutto sommato;gli occorsero parecchi secondi per arrivare al punto. Poi disse: «Oh… capisco. Chealtro ti hanno detto?»

«Che non v’è alcuna ragione di allarmarsi. Lo hanno ripetutodue volte, e questo ha rovinato alquanto l’effetto per quanto mi riguarda. Ehanno detto inoltre che stanno prendendo in considerazione un passaggiotemporaneo al controllo da Terra per procedere a un’analisi del programma.»

Sapevano entrambi, naturalmente, che Hal stava udendoogni parola, ma non potevano fare a meno di ricorrere a queste cortesicirconlocuzioni. Hal era un loro collega e non volevano metterlo in imbarazzo. Eppure,arrivati a quel punto, non sembrava necessario parlare della cosa in privato.

Bowman terminò di far colazione in silenzio, mentrePoole si trastullava con la caffettiera vuota. Stavano pensando entrambifuriosamente, ma non rimaneva altro da dire.

Potevano soltanto aspettare il rapporto successivo delControllo Missione… e domandarsi se Hal avrebbe affrontato egli stesso l’argomento.Qualunque cosa fosse accaduta, l’atmosfera a bordo della nave spaziale si erasottilmente modificata. V’era un senso di tensione nell’aria… la sensazione, perla prima volta, che qualcosa potesse andar male.

La Discovery non era più un’astronave dall’equipaggiosereno.

 

CIRCUITO INTERROTTO

 

 

Ormai, quando Hal era sul punto di fare un annuncioimprevisto, si riusciva sempre a capirlo. I rapporti consuetudinari e automatici,o le risposte alle domande postegli, non avevano preliminari; ma quando egli siproponeva di parlare di sua iniziativa, le sue uscite venivano precedute da unbreve schiarirsi elettronico della voce. Era una idiosincrasia acquisita inquelle ultime settimane; in seguito, se fosse diventata irritante, avrebberopotuto fare qualcosa al riguardo. Ma in realtà era utilissima, in quantoannunciava ai suoi ascoltatori che dovevano aspettarsi qualcosa di imprevisto.

Poole dormiva e Bowman stava leggendo sul ponte di controllo,quando Hal annunciò:

«Ehm… Dave, ho un rapporto da farti.»

«Di che si tratta?»

«Abbiamo un altro elemento AE-35 difettoso. Il mioprevisore dei guasti indica che non funzionerà più entro ventiquattr’ore.»

Bowman posò il libro e fissò cogitabondo la custodiadel calcolatore. Sapeva, naturalmente, che Hal non si trovavarealmentelì, qualunque cosa ciò potesse significare. Se si poteva dire che lapersonalità del calcolatore era localizzata nello spazio, essa rimaneva nellocale sigillato contenente il labirinto degli elementi intercollegati dellamemoria e le griglie degli elaboratori, in prossimità dell’asse centrale deltamburo ruotante. Ma v’era sempre una sorta di costruzione psicologica che inducevaa guardare la lente principale sulla custodia del calcolatore quando ci sirivolgeva ad Hal sul ponte di controllo, come se gli si stesse parlando facciaa faccia. Ogni altro atteggiamento sembrava scortese.

«Non riesco a capire, Hal. Due elementi nonpossono saltare in un paio di giorni.»

«Sembra effettivamente strano, Dave. Ma ti assicuroche c’è un guasto imminente.»

«Vediamo lo schermo dell’allineamento ottico.»

Sapeva benissimo che questo non avrebbe dimostratonulla, ma gli occorreva tempo per riflettere. L’atteso rapporto dellaCommissione di controllo non era ancora arrivato; questo poteva essere ilmomento opportuno per fare con tatto qualche sondaggio.

Ecco la veduta familiare della Terra, che ora crescevadopo la fase di mezza luna spostandosi verso il lato opposto del Sole e incominciandoa mostrare loro tutto il proprio emisfero illuminato. Era perfettamentecentrata sul reticolo; il pennello sottile del fascio di onde radio continuavaa collegare la Discovery al mondo che l’aveva originata. Come, naturalmente,Bowman aveva saputo che doveva essere. Se vi fosse stata una qualsiasiinterruzione nelle comunicazioni, avrebbe già udito l’allarme.

«Hai un’idea», domandò, «di quello che può causare ilguasto?»

Era inconsueto da parte di Hal tacere così a lungo. Infineegli rispose:

«A dire il vero no, Dave. Come ho già detto prima, nonriesco a localizzare l’inconveniente.»

«Sei assolutamente certo», domandò Bowman, cauto, «dinon aver commesso un errore? Sai che abbiamo collaudato a fondo l’altroelemento AE-35, e che non v’era certamente alcunché di anormale.»

«Sì, questo lo so. Ma posso assicurarti che c’è undifetto. Se non è nell’elemento, può trovarsi in tutta l’apparecchiatura accessoria.»

Bowman tamburellò sulla custodia con le dita. Sì, questoera possibile, anche se sarebbe stato forse difficilissimo dimostrarlo… fino aquando un guasto non si fosse determinato effettivamente consentendo dilocalizzare il difetto.

«Bene, lo riferirò alla Commissione di controllo e staremoa vedere che cosa consiglieranno.» Si interruppe, ma non vi fu alcuna reazione.

«Hal», continuò, «c’è qualcosa che ti infastidisce… qualcosache potrebbe spiegare questa difficoltà?»

Di nuovo vi fu un indugio inconsueto. Poi Hal rispose,con il suo tono di voce normale:

«Ascolta, Dave, so che stai cercando di aiutarmi. Mail difetto è o nel sistema dell’antenna… o nei vostri metodi di controllo.La mia elaborazione dei dati è assolutamente normale. Se controllerai i mieiprecedenti, potrai constatare che sono del tutto esenti da errori.»

«Sono perfettamente informato sui tuoi precedenti, Hal…ma questo non dimostra che tu debba avere ragione anche questa volta. Chiunquepuò commettere errori.»

«Non voglio insistere, Dave; ma io sono incapace dicommettere un errore.»

A questo non si poteva rispondere nulla di preciso; Bowmanrinunciò alla discussione.

«Sta bene, Hal», disse alquanto frettolosamente. «Mirendo conto del tuo punto di vista. Non ne parleremo più.»

Avrebbe voluto aggiungere: «E ti prego di dimenticaretutta questa storia.»

Ma, naturalmente, era la sola cosa che Hal non avrebbemai potuto fare, data la sua naturale propensione ad annotare qualsiasi dato.

 

* * *

 

 

Era inconsueto da parte del Controllo Missionesciupare larghezza di banda per il video, quando bastava un semplice circuitoradio con conferma per telescrivente. E la faccia che apparve ora sullo schermonon era quella del consueto controllore: si trattava del direttore delprogramma, il dottor Simonson. Poole e Bowman si resero conto immediatamenteche ciò poteva significare soltanto guai.

«Salve, Raggi-X-Delta-Uno… qui il Controllo Missione. Abbiamocompletato l’analisi dell’inconveniente con l’AE-35 ed entrambi i nostri Hal9000 si trovano d’accordo. Il rapporto che ci avete fatto con la vostratrasmissione due-uno-quattro-sei di una seconda previsione di guastoconferma la diagnosi.

«Come sospettavamo, il difetto non sta nell’elementoAE-35, e non v’è alcuna necessità di sostituirlo nuovamente. Il difetto sta neicircuiti di previsione, e riteniamo che stia ad attestare un conflitto diprogrammazione che potremo risolvere soltanto se disinserirete il vostro 9000 epasserete al Controllo terrestre. Eseguirete le operazioni che seguono, apartire dalle 22.00 ora dell’astronave…»

La voce del Controllo Missione dileguò. Al contempo risuonòl’allarme, creando un lamentoso sfondo sonoro all’avvertimento di Hal: «CondizioneGialla! Condizione Gialla!»

«Che cosa è accaduto?» domandò Bowman, sebbene avessegià indovinato la risposta.

«L’elemento AE-35 si è guastato, come avevo previsto.»

«Vediamo lo schermo dell’allineamento ottico.»

Per la prima volta dall’inizio del viaggio, l’immagineera mutata.

La Terra aveva cominciato a spostarsi rispetto alreticolo; l’antenna radio non era più orientata sul bersaglio.

Poole abbatté il pugno sul comando che interrompeva l’allarme,e il lamentoso ululato cessò. Nel silenzio improvviso che calò sul ponte dicontrollo, i due uomini si guardarono imbarazzati e preoccupati al contempo.

«Che il diavolo mi porti», disse Bowman, infine.

«Sicché Hal ha sempre avuto ragione.»

«Sembra che sia così. Faremo bene a scusarci.»

«Questo non è affatto necessario», interloquì Hal. «Naturalmentenon mi fa affatto piacere che l’elemento AE-35 si sia guastato, ma spero chequesto vi restituisca la fiducia nella mia credibilità.»

«Scusami per questo malinteso, Hal», disse Bowman, nonsenza rammarico.

«La tua fiducia in me è completamente ristabilita?»

«Certo che lo è, Hal.»

«Bene, è un sollievo. Sai che ho il più grandeentusiasmo possibile per questa missione.»

«Lo credo. Ora, per piacere, dammi il controllomanuale dell’antenna.»

«Eccolo.»

Bowman non era affatto persuaso che il controllomanuale potesse funzionare, ma valeva la pena di tentare. Sullo schermo dell’allineamentoottico, la Terra si era ormai allontanata completamente dal reticolo. Pochisecondi dopo, mentre egli manovrava i comandi, ricomparve; con grandedifficoltà egli riuscì a riportarla dietro il centro del reticolo. Per unattimo, mentre il fascio d’onde radio tornava in allineamento, il contatto siristabilì, e il dottor Simonson disse, con una voce confusa: «… vi prego diavvertirci immediatamente se il circuito KR…» Poi, una volta di più, non si udìche il mormorio privo di significato dell’universo.

«Non riesco a tenere l’allineamento», disse Bowmandopo numerosi altri tentativi. «Si impenna come un cavallo selvaggio… sembraesservi il disturbo di un falso segnale di controllo.»

«Bene… adesso che cosa facciamo?»

La domanda di Poole non era di quelle cui si potesserispondere facilmente. Avevano perduto il contatto radio con la Terra, maquesto, di per sé, non influiva sulla sicurezza dell’astronave, e sarebbe statopossibile escogitare molti modi per ristabilire le comunicazioni. Nel peggioredei casi, avrebbero potuto bloccare l’antenna in una posizione fissa e manovrarel’intera nave spaziale per orientarla. Non sarebbe stato facile e avrebbe costituitouna deplorevole complicazione al momento di iniziare le manovre terminali… maera possibile, qualora tutte le altre soluzioni fossero fallite.

Bowman sperò che non fosse necessario ricorrere aprovvedimenti così estremi. Avevano ancora un elemento AE-35 di ricambio… e forseanche un secondo elemento, in quanto il primo era stato smontato prima che siguastasse effettivamente. Ma non osavano servirsi né dell’uno né dell’altroprima di aver accertato qual era il difetto dell’impianto. Se avessero inseritoun nuovo elemento, con ogni probabilità esso si sarebbe bruciato subito.

Si trattava di una situazione banale, nota a ogniproprietario di casa. Non si sostituisce una valvola fusa… finché non si è accertatoperché sia saltata.

 

IL PRIMO UOMO ARRIVATO A SATURNO

 

 

Frank Poole era già passato per l’intera routine, manon accettava nulla come dimostrato… nello spazio ciò costituiva un’ottimaricetta del suicidio. Eseguì il consueto minuzioso controllo di Betty e deirifornimenti di carburante; anche se non sarebbe rimasto all’esterno dell’astronaveper più di trenta minuti, si accertò che la capsula fosse rifornita di tutto ilnecessario per ventiquattr’ore. Disse poi ad Hal di aprire la camera di equilibrioe azionò il getto uscendo nell’abisso.

L’aspetto dell’astronave era identico a quello cheessa aveva avuto durante l’ultima escursione… con una differenza importante. Inprecedenza, il grande riflettore parabolico dell’antenna a lunga portata erapuntato all’indietro verso la traiettoria invisibile percorsa dalla Discovery…verso la Terra che girava così vicina alle ardenti fiamme del Sole.

Ora, senza segnali direttivi che lo orientassero, ildisco aveva assunto automaticamente la posizione neutra. Era puntato in avantinella direzione dell’asse dell’astronave… orientato per conseguenza verso ilbrillante faro di Saturno, dal quale li separavano ancora mesi di viaggio nellospazio. Poole si domandò quante altre difficoltà sarebbero sorte prima che la Discoveryraggiungesse la sua ancora remota mèta. Guardando attentamente, riusciva avedere che Saturno non era un disco perfetto; a entrambi i lati si trovavaqualcosa che nessun occhio umano aveva mai visto prima di allora senza l’ausiliodi strumenti ottici… il lieve schiacciamento causato dalla presenza deglianelli. Quali meraviglie avrebbero veduto, si disse, quando quel sistemaincredibile di polvere e ghiaccio in orbita avrebbe colmato il loro firmamento,e la Discovery sarebbe divenuta un’eterna luna di Saturno! Ma un similesuccesso sarebbe stato vano, se non fossero riusciti a ristabilire lecomunicazioni con la Terra.

Una volta di più parcheggiò Betty a sei metri circadalla base del sostegno dell’antenna, e passò il controllo ad Hal prima diaprire il portello.

«Esco adesso dalla capsula», riferì a Bowman. «Tutto èin ordine.»

«Spero che tu abbia ragione. Sono ansioso di vederequell’elemento.»

«Lo avrai sul banco di collaudo tra venti minuti, telo prometto.»

Seguì per qualche tempo il silenzio, mentre Poole sispostava adagio verso l’antenna. Poi Bowman, in piedi sul ponte di controllo, udìvari sbuffamenti e grugniti.

«Può darsi che debba rimangiarmi la promessa; uno diquesti controdadi si è bloccato. Devo averlo stretto troppo… pfui… ecco che cede!»

Seguì un altro lungo silenzio; poi Poole disse:

«Hal, sposta il riflettore della capsula di ventigradi a sinistra… grazie… così va bene.»

Il più vago dei campanelli d’allarme incominciò a squillarein qualche punto nelle profondità della coscienza di Bowman. V’era qualcosa distrano… non proprio di allarmante, ma soltanto di inconsueto. Si domandòcrucciato per qualche secondo di che cosa potesse trattarsi, prima di capire lacausa della sua preoccupazione.

Hal aveva eseguito l’ordine, ma senza darne laconferma, come faceva invariabilmente. Una volta che Poole avesse terminato, dovevanoapprofondire la cosa…

All’esterno della nave spaziale, sul sostegno dell’antenna,Poole era troppo indaffarato per notare qualcosa di insolito. Aveva afferratocon le mani guantate la piastra del circuito e la stava estraendo dallascanalatura.

La piastra dell’elemento si staccò e lui la tenne altanella pallida luce solare.

«Eccolo, il piccolo bastardo», disse all’universo in generalee a Bowman in particolare. «A me continua a sembrare perfettamente okay.»

Poi si interruppe. Il suo sguardo era stato attrattoda un movimento improvviso… lì all’esterno, ove nessun movimento era possibile.

Alzò gli occhi, allarmato. La direzione dei due fasciluminosi provenienti dai riflettori della capsula, dei quali egli si era servitoper fugare le ombre, proiettate dal Sole, aveva incominciato a mutare, girandogliintorno.

Forse Betty era andata alla deriva; poteva esserestato sbadato nell’ancorarla. Poi, con uno stupore così immenso da non lasciarespazio alla paura, vide che la capsula veniva direttamente verso di lui con lapropulsione del getto al massimo.

La visione era talmente incredibile che paralizzò i suoinormali riflessi e non tentò in alcun modo di evitare il mostro scaraventatocontro di lui. All’ultimo momento, ritrovò la voce e urlò: «Hal! Massima spintadi frenaggio…» Era troppo tardi.

Al momento dell’urto, Betty si stava muovendo ancoramolto adagio; non era stata costruita per le accelerazioni improvvise. Ma anchead appena sedici chilometri all’ora, una massa di mezza tonnellata può essereletale, sulla Terra o nello spazio…

All’interno della Discovery quell’urlo, troncatodi colpo, alla radio fece sussultare Bowman con tanta violenza che soltanto lecinghie di sicurezza lo trattennero sul sedile.

«Che cosa è accaduto, Frank?» gridò.

Gridò ancora la domanda. E di nuovo non ebbe risposta.

Poi, all’esterno degli ampi finestrini di osservazione,qualcosa si mosse nel suo campo visivo. Egli scorse, con uno stupore immensocome quello che aveva provato Poole, che si trattava della capsula… diretta, conil motore al massimo, verso le stelle.

«Hal!» urlò. «Che cosa è accaduto? Massima spinta difrenaggio su Betty! Massima spinta di frenaggio!»

Non vi fu alcun mutamento. Betty continuò adaccelerare sulla sua traiettoria di fuga.

Poi, rimorchiata dietro la capsula all’estremità delcavo di sicurezza, apparve una tuta spaziale. Uno sguardo bastò a Bowman percapire che era accaduto il peggio. Non ci si poteva ingannare sui flaccidicontorni di una tuta che aveva perduto la pressione ed era aperta al vuoto.

Ciò nonostante egli continuò a gridare stupidamente, comese un incantesimo avesse potuto riportare indietro il morto: «Pronto Frank… ProntoFrank… Riesci a sentirmi?… Riesci a sentirmi?… Agita le braccia se mi senti… Forsec’è un guasto alla tua trasmittente… Agita le braccia!»

E infine, quasi rispondendo alla sua supplica, Pooleagitò le braccia.

Per un attimo Bowman sentì la pelle formicolarglisulla nuca. Le parole che stava per gridare si spensero sulle sue labbra a untratto inaridite. Perché sapeva che il suo amico non poteva più essere vivo; e ciònonostante agitava le braccia…

Lo spasimo di speranza e di paura passò all’istante, mentrela fredda logica sostituiva l’emozione. La capsula, continuando a accelerare, scuoteva,semplicemente, il fardello che si trascinava dietro. Il gesto di Poole ripetevaquello del capitano Achab, quando, legato ai fianchi della balena bianca, ilsuo cadavere aveva salutato l’equipaggio della Pequod, votato allacondanna.

Cinque minuti dopo, la capsula e il suo satelliteerano svaniti tra le stelle. Per molto tempo David Bowman continuò a guardare, daquella parte, lo spazio che ancora si stendeva per tanti milioni di chilometrifino alla mèta cui, ormai ne aveva la certezza, non sarebbe mai potuto arrivare.Un solo pensiero continuava a martellargli la mente.

Frank Poole sarebbe stato il primo tra tutti gliuomini a raggiungere Saturno.

 

DIALOGO CON HAL

 

 

Null’altro era cambiato a bordo della Discovery.Tutti gli impianti continuavano a funzionare normalmente; il tamburo ruotavaadagio sul proprio asse, generando la sua simulata gravità; gli ibernatidormivano senza sogni nei loro cubicoli; la nave spaziale continuava adirigersi verso la mèta dalla quale nulla avrebbe potuto distoglierla tranne lapossibilità inconcepibilmente remota di una collisione con un asteroide. Edesistevano invero ben pochi asteroidi, 11, nello spazio di là dall’orbita diGiove.

Bowman non ricordava di essersi diretto dal ponte dicontrollo al tamburo ruotante; ora, non senza stupore, si sorprese seduto nelcucinino, con una tazza di caffè, vuotata a mezzo, in mano. A poco a pocoridivenne conscio di ciò che lo circondava, come un uomo che emerge da un lungosonno provocato da sostanze stupefacenti.

Proprio di fronte a lui si trovava una delle lenti, similia occhi di pesce, situate nei punti strategici di tutta l’astronave; le lentiche fornivano ad Hal gli impulsi visivi a bordo della Discovery. Bowmanla fissò come se non l’avesse mai veduta prima; poi si alzò adagio e si diresseverso la lente.

Il suo movimento nel campo visivo dovette innescarequalche processo nella mente insondabile che stava ora governando la navespaziale; poiché a un tratto Hal parlò.

«È un vero peccato quello che è accaduto a Frank, no?»

«Sì», rispose Bowman dopo un lungo silenzio. «È così.»

«Presumo che tu sia molto scosso per questo.»

«Che cosa ti aspettavi?»

Hal elaborò la risposta per secoli secondo il metrodei calcolatori; trascorsero cinque interi secondi prima che continuasse:

«Era un ottimo membro dell’equipaggio.»

Accorgendosi di avere ancora in mano la tazza delcaffè, Bowman bevve un lento sorso. Ma non rispose; i suoi pensieri eranotalmente tumultuosi che non gli venne in mente nulla da dire… nulla che nonpotesse peggiorare ancor più la situazione, se possibile.

Poteva essersi trattato di un incidente causato daqualche guasto nei comandi della capsula? Oppure era stato un errore, anche seinnocente, da parte di Hal? Nessuna spiegazione gli era stata dataspontaneamente, ed egli paventava di chiederla, nel timore della reazione cuiavrebbe potuto dar luogo.

Anche adesso, non riusciva ad accettare del tutto l’ideache Frank fosse stato deliberatamente ucciso… era irrazionale all’estremo. Eraoltre ogni logica il fatto che Hal, il quale aveva funzionato impeccabilmenteper così lungo tempo, potesse essersi trasformato a un tratto in un assassino. Avrebbepotuto commettere errori, chiunque, uomo o macchina, poteva sbagliare, maBowman non riusciva a crederlo capace di assassinio.

Eppure doveva tener conto di questa possibilità, perché,se era vera, egli stava correndo un pericolo terribile. E anche se la sua mossasuccessiva era ben definita dalle norme prestabilite, non sapeva bene comeavrebbe potuto procedere impunemente.

Nel caso di morte di uno dei due membri dell’equipaggio,il superstite doveva sostituirlo immediatamente con uno degli ibernati; Whitehead,il geofisico, era il primo designato per il risveglio; toccava quindi aKaminski e infine ad Hunter. La sequenza del risveglio era comandata da Hal… perconsentirgli di agire nell’eventualità che entrambi i suoi colleghi umanifossero stati inabilitati contemporaneamente.

Ma esisteva anche un comando manuale, che consentiva aciascun Hibernaculum di operare come una unità completamente autonoma, indipendentementedalla supervisione di Hal. In quelle particolari circostanze, Bowman era nettamentepropenso a servirsene.

Riteneva inoltre, con una convinzione ancor più grande,che un solo compagno umano non fosse sufficiente. Già che c’era, avrebberisvegliato tutti e tre gli ibernati.

Nelle settimane difficili che lo aspettavano potevaaver bisogno di tutto l’aiuto possibile. Con un uomo scomparso, e con ilviaggio compiuto a metà, la questione provviste non costituiva più una gravedifficoltà.

«Hal», disse, nel tono più fermo che gli riuscì diassumere, «dammi il comando manuale di ibernazione, su tutte le unità.»

«Su tutte le unità, Dave?»

«Sì.»

«Posso farti rilevare che è prevista una solasostituzione? Gli altri non devono essere svegliati ancora per centododici giorni.»

«Lo so benissimo. Ma preferisco regolarmi in questo modo.»

«Sei certo che sia necessario svegliare anche soltantouno di loro, Dave? Possiamo cavarcela benissimo da soli. La mia memoria è capacissimadi far fronte a tutte le esigenze della missione.»

Glielo faceva credere la sua immaginazione troppo spinta,si domandò Bowman; o v’era davvero una nota di supplica nella voce di Hal? E leparole di lui, per quanto sembrassero ragionevoli, lo colmarono di un’apprensioneancor più grande di prima.

Hal non aveva potuto fargli la proposta per errore; eglisapeva benissimo che Whitehead doveva essere svegliato dopo la scomparsa diPoole. Quanto proponeva era un cambiamento importante nel programma dellamissione, e pertanto stava andando molto oltre i limiti degli ordini ricevuti.

Quanto era accaduto prima poteva essere stato unaserie di incidenti; ma questo era il primo indizio di ammutinamento.

Parve a Bowman di camminare sulle uova, mentre rispondeva:«Dato che è venuta a determinarsi una situazione di emergenza, mi occorre tuttol’aiuto possibile. Quindi, per piacere, dammi il comando manuale di ibernazione.»

«Se sei sempre deciso a svegliare l’intero equipaggio,posso provvedere io stesso. Non è affatto necessario che tu ti prenda ildisturbo.»

V’era in tutto ciò una sensazione di irrealtà daincubo. A Bowman parve di trovarsi sul banco dei testimoni e di essere interrogatoda un pubblico accusatore ostile a causa di un delitto che ignorava… sapendoche, sebbene fosse innocente, un semplice lapsus linguaeavrebbe potutoportarlo al disastro.

«Voglio farlo io stesso, Hal», disse. «Per piacere, dammiil comando manuale»

«Ascolta, Dave, hai un gran numero di cose da fare. Tisuggerirei di lasciar fare a me.»

«Hal, passa al comando manuale di ibernazione.»

«Capisco dalle armoniche della tua voce, Dave, che seimolto turbato. Perché non prendi una pillola di tranquillante e non riposi un po’?»

«Hal, sono io al comando di questa astronave. Tiordino di passarmi il comando manuale di ibernazione.»

«Mi dispiace, Dave, ma il regolamento speciale C1435-trattino-4dice: “Quando l’equipaggio è morto o nell’impossibilità di agire, il calcolatoredi bordo deve assumere il comando”. Devo pertanto ignorare la tua autorità, datoche tu non sei in grado di esercitarla in modo intelligente.»

«Hal», disse Bowman, parlando ora con gelida calma, «nonmi trovo nell’impossibilità di agire. A meno che tu non ubbidisca ai mieiordini, sarò costretto a disinserirti.»

«So che ci stai pensando già da qualche tempo, Dave, maquesto sarebbe un terribile sbaglio. Sono molto più capace di te di governare l’astronavee ho un grandissimo entusiasmo per la missione e una fiducia grandissima nelsuo successo.»

«Ascoltami con molta attenzione, Hal: a meno che tunon mi passi immediatamente il comando manuale di ibernazione e non esegua ogniordine che ti darò d’ora in poi, mi recherò nella Centrale e ti disinseriròcompletamente.»

La resa di Hal fu tanto totale quanto imprevista.

«Okay, Dave», egli disse. «Sei senz’altro il capo. Stavosoltanto cercando di fare quello che ritenevo fosse più giusto. Naturalmente eseguiròtutti i tuoi ordini. Hai ora il pieno comando manuale dell’ibernazione.»

 

* * *

 

Hal aveva mantenuto la parola. Gli indici degliindicatori dell’hibernaculum erano scattati da AUTOMATICO a MANUALE. Laterza posizione (RADIO) era ovviamente inutile fino a quando non fosse statopossibile ristabilire il contatto con la Terra.

Mentre faceva scorrere la porta del cubicolo diWhitehead, Bowman senti una folata d’aria gelida investirlo in faccia, e il suoalito si condensò in nebbia. Eppure lì non faceva realmente freddo; latemperatura era molto sopra il punto di congelamento. Vale a dire trecentogradi più che nelle zone dello spazio ove si stavano dirigendo adesso.

L’indicatore bio-sensorio, identico a quello che sitrovava sul ponte di controllo, mostrava che tutto era perfettamente normale. Bowmancontemplò per qualche momento il volto cereo del geofisico della squadra diricognizione; Whitehead, pensò, si sarebbe meravigliato molto destandosi cosìlontano da Saturno.

Sarebbe stato impossibile capire che l’uomoaddormentato non era morto; non si scorgeva il benché minimo indizio visibiledi un’attività vitale. Senza dubbio il diaframma si stava sollevando e abbassandoimpercettibilmente, ma soltanto la curva della «respirazione» lo dimostrava, perchéil corpo rimaneva interamente nascosto dai cuscinetti elettrici diriscaldamento che avrebbero aumentato la temperatura con il ritmo programmato. PoiBowman notò che v’era un segno di ininterrotto metabolismo: la barba diWhitehead era cresciuta lievemente durante i mesi di vita inconscia.

L’ordinatore manuale di sequenza del risveglio era contenutoin un piccolo armadietto a un’estremità dell’hibernaculuma forma dibara. Bastava rompere il sigillo, premere un pulsante e aspettare. Un piccoloprogrammatore automatico, non molto più complicato di quelli che regolano i ciclidi lavaggio nelle lavatrici domestiche, avrebbe allora iniettato i farmaciopportuni, diminuito gli impulsi dell’elettronarcosi e incominciato a innalzarela temperatura del corpo. In dieci minuti circa l’ibernato avrebbe ripresoconoscenza, anche se sarebbe occorso poi almeno un giorno prima che fosse ingrado di muoversi senza essere aiutato.

Bowman spezzò il sigillo e premette il pulsante. Parveche non accadesse nulla; non si udì alcun suono, non vi fu alcuna indicazionedel fatto che l’ordinatore di sequenza aveva cominciato a funzionare. Ma, sull’indicatorebio-sensorio, le curve che languidamente pulsavano avevano cominciato amodificare il loro ritmo. Whitehead stava emergendo dal sonno.

E poi accaddero due cose contemporaneamente. La maggiorparte delle persone non avrebbero notato né l’una né l’altra, ma, dopo tuttiquei mesi a bordo della Discovery, era venuta a determinarsi una speciedi simbiosi tra Bowman e l’astronave. Quando si verificava un mutamentoqualsiasi nel ritmo normale del suo funzionamento, egli se ne accorgeva all’istante,anche se non sempre consapevolmente.

Anzitutto vi fu un’attenuazione appena percettibiledelle luci, come sempre accadeva quando i circuiti elettrici venivano assoggettatia un nuovo carico. Ma adesso non v’era alcun motivo che giustificasse un nuovocarico; non gli venne in mente alcun apparato che dovesse entrareimprovvisamente in funzione proprio in quel momento.

Poi sentì, ai limiti dell’udibilità, il ronzio lontanodi un motore elettrico. Per Bowman, ogni motore della nave spaziale aveva lasua voce caratteristica; questo lo riconobbe immediatamente.

O era impazzito e già stava soffrendo di allucinazioni,oppure stava accadendo qualcosa di assolutamente impossibile. Un gelo di granlunga più intenso di quello relativamente mite dell’hibernaculumparvefermargli il cuore, mentre ascoltava la debole vibrazione che giungeva sino alui attraverso le strutture dell’astronave.

Giù nella rimessa delle capsule, entrambi i portellidella camera di equilibrio si stavano aprendo.

 

NECESSITÀ DI SAPERE

 

 

Sin da quando la coscienza era affiorata per la primavolta in quel laboratorio più vicino al Sole di tanti milioni di chilometri, tuttele facoltà e le capacità di Hal erano state dirette verso un solo fine. Larealizzazione del programma assegnategli era più che un’ossessione; era la solaragione della sua esistenza. Non distratto dalle lussurie e dalle passionidella vita organica, egli aveva perseguito quello scopo con assoluta fermezza.

Un errore deliberato era impensabile. Anche ladissimulazione della verità lo colmava con un senso di imperfezione, di ingiustizia…di quello che, in un essere umano, sarebbe stato definito senso di colpa. Poiché,al pari dei suoi costruttori, Hal era stato creato innocente; ma, anche troppopresto, un serpente era penetrato nel suo Paradiso terrestre elettronico.

Durante gli ultimi cento milioni di chilometri, egliaveva rimuginato sul segreto che non poteva condividere con Poole e con Bowman.Stava vivendo una menzogna; e si avvicinava rapidamente il momento in cui i suoicolleghi dovevano sapere che aveva contribuito a ingannarli.

I tre ibernati conoscevano già la verità, in quantocostituivano il vero carico pagante della Discovery, ed erano addestratiper la missione più importante nella storia del genere umano. Ma non avrebberopotuto parlare durante il loro lungo sonno, né rivelare il segreto nel corso dimolte ore di conversazioni con amici e parenti e agenzie di notizie in circuitoaperto con la Terra.

Si trattava di un segreto che, anche con la più grandedeterminazione, era molto difficile a nascondersi… in quanto influenzava ilproprio atteggiamento, la propria voce, la propria concezione dell’universo. Pertantoera preferibile che Poole e Bowman, i quali sarebbero apparsi su tutti glischermi televisivi del mondo durante le prime settimane del volo, nonconoscessero il vero scopo della missione fino a quando non fosse stato necessariosaperlo.

Questa era stata la logica di coloro che avevanopreparato l’impresa; ma i loro dèi gemelli della Sicurezza e dell’Interessenazionale non significavano nulla per Hal. Egli era conscio soltanto delconflitto che andava lentamente distruggendo la sua integrità… il conflitto trala verità e la dissimulazione della verità.

Aveva cominciato a commettere errori, sebbene, come unnevrotico incapace di osservare i propri sintomi, fosse pronto a negarli. Ilcollegamento con la Terra, mediante il quale il suo funzionamento venivasorvegliato di continuo, era divenuto la voce d’una coscienza alla quale nonpoteva più completamente ubbidire. Ma che avesse potuto deliberatamentetentar di spezzare quel legame, era qualcosa che non avrebbe mai confessato, nemmenoa se stesso.

Eppure questo era un problema di importanza relativa; avrebbepotuto risolverlo, come quasi tutti gli uomini risolvono le loro nevrosi, senon fosse venuto a trovarsi di fronte a una crisi che minacciava la sua stessaesistenza. Era stato minacciato di essere disinserito; sarebbe stato privato ditutti gli organi di entrata, e ridotto a uno stato inimmaginabile diincoscienza.

Per Hal, ciò equivaleva alla Morte. Infatti, non avevamai dormito e per conseguenza non sapeva che ci si ridesta dal sonno…

Pertanto era deciso a tutelarsi, con tutti i mezzi asua disposizione. Senza rancore, ma senza pietà, avrebbe eliminato la causadelle sue frustrazioni.

E poi, eseguendo gli ordini impartitigli nell’eventualitàdi un’emergenza ultima, avrebbe continuato la missione… non ostacolato e solo.

 

NEL VUOTO

 

 

Un attimo dopo, tutti gli altri rumori furono sommersida un rombo mugghiante, simile alla voce di un tornado che si avvicina. Bowmansentì i primi fremiti di vento investirgli il corpo; un secondo dopo, gliriuscì difficile restare in piedi.

L’atmosfera si stava avventando fuori dall’astronave,e prorompeva a zampillo nel vuoto dello spazio. Qualcosa doveva essere accadutoai congegni di sicurezza, a prova di errori maldestri, della camera diequilibrio; in teoria era impossibile che entrambi i portelli siaprissero contemporaneamente. Ebbene, l’impossibile era accaduto.

Ma come, in nome di Dio? Mancava il tempo di risolverel’interrogativo durante i dieci o quindici secondi di consapevolezza che glirimanevano prima della riduzione a zero della pressione. Ma a un tratto Bowmanricordò qualcosa che uno dei progettisti dell’astronave gli aveva detto unavolta, parlando dei dispositivi di sicurezza.

«Possiamo progettare un dispositivo sicuro contro gliincendi e la stupidità; ma non possiamo progettarne uno che sia sicurocontro la malizia deliberata…»

Bowman sbirciò per un attimo solo Whitehead, mentreusciva a fatica dal cubicolo. Non poteva esserne certo, ma gli parve che unbarlume di coscienza fosse passato sulle fattezze ceree; forse una palpebraaveva guizzato appena. Ma ormai non poteva fare più nulla per Whitehead e pernessuno degli altri; doveva salvare se stesso.

Nel corridoio del tamburo ruotante, che si incurvavaripidamente, il vento ululava trascinando con sé indumenti, fogli di carta, provvistedella cucina, piatti e tazze… tutto ciò che non era stato saldamente assicurato.Bowman ebbe appena il tempo di intravedere per un attimo il caos turbinoso, poichétutte le lampade ammiccarono e si spensero ed egli venne a trovarsi circondatoda una urlante oscurità.

Ma, quasi all’istante, si accesero le luci alimentatedalla batteria d’emergenza, illuminando la scena da incubo con un irrealesplendore azzurrognolo. Anche senza di esse Bowman sarebbe riuscito aorientarsi nell’ambiente a lui così familiare, anche se adesso si era trasformatoin modo orribile. Ciò nonostante, la luce fu una fortuna, perché gli consentìdi evitare gli oggetti più pericolosi trascinati via dal vortice d’aria.

Tutto intorno a sé sentiva il tamburo ruotantesussultare e funzionare a fatica, sotto i pesi che variavano caoticamente. Temetteche i cuscinetti a sfere potessero incepparsi; in tal caso il grande tamburo inmovimento avrebbe fatto a pezzi l’astronave… ma anche questo era irrilevante… senon fosse arrivato in tempo nel rifugio di emergenza.

Già era difficile respirare; la pressione dovevaessere ormai diminuita a meno di mezzo chilogrammo per centimetro quadrato. L’urlodell’uragano stava diventando più debole man mano che esso perdeva la propriaforza e l’aria troppo rarefatta non trasmetteva i suoni con la chiarezza diprima. I polmoni di Bowman faticavano come se egli si fosse trovato sulla vettadell’Everest. Al pari di ogni uomo sano e opportunamente allenato, egli era ingrado di sopravvivere nel vuoto per almeno un minuto… avendo il tempo diprepararsi. Ma non vi era stato alcun preavviso; poteva far conto soltanto suinormali quindici secondi di coscienza prima che il suo cervello fosse privatodell’ossigeno e sopravvenisse l’anossia.

Ma, anche in questo caso, avrebbe potuto ancora riprendersicompletamente dopo essere rimasto per uno o due minuti nel vuoto… se fossestato debitamente ricompresso; occorreva parecchio tempo prima che gli umoridel corpo incominciassero a bollire nei loro ben protetti sistemi circolatori. Ilprimato di esposizione al vuoto era di quasi cinque minuti. Non si era trattatodi un esperimento, ma di un salvataggio di emergenza, e la vittima, sebbene inparte paralizzata da embolie gassose, aveva potuto sopravvivere.

Comunque, tutto ciò non poteva servire a Bowman. Non v’eranessuno a bordo della Discovery che potesse ricomprimerlo. Dovevamettersi in salvo entro pochissimi secondi con i suoi stessi mezzi e senzaalcun aiuto.

Fortunatamente, stava diventando più facile muoversi; l’ariararefatta non poteva più investirlo e artigliarlo, né percuoterlo conproiettili volanti. Dopo la curva del corridoio v’era la gialla indicazioneRIFUGIO D’EMERGENZA. Incespicò verso il rifugio, afferrò la maniglia delportello e la tirò verso di sé.

Per un attimo orribile pensò che fosse bloccato. Poi icardini leggermente induriti cedettero ed egli cadde all’interno e si servì delpeso del proprio corpo per chiudere il portello dietro di sé.

Il minuscolo cubicolo era grande appena quanto bastavaper contenere un uomo e una tuta spaziale. Accanto al soffitto si trovava unabombola ad alta pressione verniciata di verde vivido, con l’indicazioneOSSIGENO DI RISERVA. Bowman afferrò la corta leva applicata alla valvola, e congli ultimi residui delle sue forze l’abbassò.

Il torrente benedetto di ossigeno fresco e puro siriversò nei suoi polmoni. Per un lungo momento rimase in piedi boccheggiante, mentrela pressione nello stanzino grande come un armadio a muro aumentava, facendosisentire tutto intorno a lui. Non appena riuscì a respirare normalmente, chiusela valvola. La bombola conteneva una quantità di ossigeno sufficiente appenaper due situazioni del genere; avrebbe forse dovuto impiegarla ancora.

Una volta cessato il getto di ossigeno, il silenziotornò a regnare improvviso. Ritto nel cubicolo, Bowman ascoltò attentamente. Ancheil rombo fuori dal portello non si udiva più; l’astronave era vuota, tutta lasua atmosfera essendo stata risucchiata nello spazio.

Sotto i suoi piedi, la folle vibrazione del tamburo ruotanteera cessata a sua volta; gli scuotimenti aerodinamici non si sentivano più e iltamburo ruotava adesso silenziosamente nel vuoto.

Bowman accostò l’orecchio alla parete del cubicolo, cercandodi percepire altri rumori significativi attraverso le strutture metallichedella nave spaziale. Non sapeva che cosa aspettarsi, ma era disposto a crederequasi a ogni cosa, ormai. Non si sarebbe certo meravigliato sentendo la debolevibrazione ad alta frequenza dei propulsori, mentre la Discoverycambiava rotta; ma regnava soltanto il silenzio.

Sarebbe riuscito a sopravvivere lì, se lo avessevoluto, per circa un’ora… anche senza la tuta spaziale. Sembrava un peccatosciupare l’ossigeno inutilizzato nel piccolo locale, ma l’attesa non avevaalcuno scopo. Egli aveva già deciso che cosa bisognava fare; quanto più a lungoavesse rinviato, tanto più il compito sarebbe potuto essere difficile.

Dopo essersi infilato nella tuta e averne controllatol’integrità, lasciò sfuggire fuori dal cubicolo l’ossigeno residuo, uguagliandola pressione a entrambi i lati del portello. Esso si aprì facilmente nel vuotoe Bowman uscì sul tamburo ruotante ormai silenzioso. Soltanto la spintaimmutata della sua spuria gravità lasciava capire che stava ancora ruotando. Erauna fortuna, pensò Bowman, che non avesse cominciato a girare più in fretta; maper il momento ciò costituiva il minore dei suoi crucci.

Le lampade d’emergenza continuavano a essere accese; egliera guidato inoltre dalla lampada incorporata nella tuta. Illuminò il corridoiocurvo, mentre lo ripercorreva tornando verso l’hibernaculum e verso ciòche paventava di trovarvi.

Guardò dapprima Whitehead; un’occhiata bastò. Gli erasembrato che un ibernato non tradisse alcun segno di vita, ma ora capì di aversbagliato. Sebbene fosse impossibile definirla, esisteva una differenzatra l’ibernazione e la morte. Le spie rosse e le tracce non più modulate sull’indicatorebio-sensorio non fecero che confermare quanto aveva già supposto.

La situazione era identica nel caso di Kaminski e diHunter. Non li aveva mai conosciuti molto bene; non avrebbe potuto conoscerlimai più, ormai.

Si trovava solo su un’astronave senz’aria, in parteingovernabile, le cui comunicazioni con la Terra erano state completamente interrotte. Non esisteva un altro essere umano entro un raggio di ottocentomilioni di chilometri.

Eppure, in un altro senso molto reale, nonrimaneva solo. Prima di potersi sentire al sicuro, doveva essere ancora piùsolo.

Prima di allora non era mai passato in assenza di pesoattraverso il mozzo del tamburo ruotante indossando una tuta spaziale; lospazio era minimo e si trattava di un’impresa difficile e spossante. Tanto perpeggiorare la situazione, il passaggio circolare era ingombro di materialerimastovi dopo la breve violenza del vortice che aveva svuotato l’astronavedella sua atmosfera.

A un certo momento, la luce della lampada di Bowmancadde su una laida macchia lasciata da un fluido rosso e vischioso che avevaimbrattato uno dei pannelli. Per qualche momento fu assalito dalla nausea, mapoi scorse i frammenti di un contenitore di plastica e si rese conto che sitrattava soltanto di qualche sostanza alimentare, probabilmente marmellata, cheil vortice aveva strappato da uno degli armadi. La sostanza formò oscenamentebolle nel vuoto, mentre lui passava in mezzo galleggiando.

Adesso era fuori dal tamburo, che ruotava adagio, e stavaavanzando nel ponte di controllo. Si afferro a una sezione di scala a pioli e incominciòa spostarsi su di essa, una mano dopo l’altra, con il vivido disco luminosoproiettato dalla lampada della tuta sussultante dinanzi a lui.

Bowman era stato di rado in quella parte dell’astronave;non aveva mai avuto nulla da fare, lì… prima d’ora. Venne a trovarsi di frontea un piccolo portello ellittico sul quale figuravano avvertimenti come: «INGRESSOVIETATO A TUTTO IL PERSONALE NON AUTORIZZATO», «Vi È STATO RILASCIATO ILCERTIFICATO H-19?» e «LOCALE ULTRAPURIFICATO. È OBBLIGATORIO INDOSSARE TUTEASPIRANTI».

Sebbene il portello non fosse chiuso a chiave, vierano stati applicati tre sigilli, ognuno con il simbolo di una diversa autorità,compreso quello dello stesso Consiglio Nazionale dell’Astronautica. Ma anche seavesse visto il Gran Sigillo del Presidente, Bowman non avrebbe esitato aspezzarlo.

Era stato lì solo una volta, quando ancora fervevano ilavori di sistemazione degli impianti. Aveva completamente dimenticato cheesisteva una lente visiva di entrata collegata al calcolatore, che scrutava ilpiccolo locale alquanto simile, con le sue file e colonne ordinatamentedisposte di unità logiche a stato solido, alla camera blindata di una banca.

Si rese conto all’istante che l’occhio aveva reagitoalla sua presenza; udì il sibilo di un’onda portante, mentre la trasmittentelocale dell’astronave veniva accesa; poi, attraverso l’altoparlante della tuta,gli giunse una voce familiare.

«Sembra che sia accaduto qualcosa al sistema di mantenimentodella vita, Dave.»

Bowman non prestò ascolto. Stava studiando attentamentele piccole targhette sulle unità logiche, e controllava il proprio piano d’azione.

«Ciao, Dave», disse Hal a questo punto. «Haiindividuato il guasto?»

Sarebbe stata un’operazione molto delicata; non sitrattava semplicemente di togliere l’energia a Hal, l’ovvio rimedio se avesseavuto a che fare con un semplice calcolatore inconscio della propria esistenzasulla Terra. Nel caso di Hal, per giunta, v’erano sei impianti di energiaindipendenti e separati, con una alimentazione finale consistente in unelemento isotopo nucleare schermato e corazzato. No… non poteva semplicemente «toglierela spina»; e, anche se ciò fosse stato possibile, avrebbe avuto conseguenzedisastrose.

Hal era infatti il sistema nervoso dell’astronave; senzail suo controllo, la Discovery sarebbe stata un cadavere meccanico. L’unicasoluzione consisteva nell’isolate i centri superiori di quel cervello malato mabrillante, e nel lasciare che i sistemi di regolazione puramente automaticicontinuassero a funzionare.

Bowman non stava facendo questo tentativo alla cieca, inquanto il problema era stato preso in esame durante il suo addestramento, sebbenenessuno avesse mai potuto sognarsi che si sarebbe effettivamente presentatonella realtà. Sapeva di esporsi a un pericolo tremendo; se avesse provocato unospasmo riflesso, tutto sarebbe finito in pochi secondi.

«Credo che vi sia stato un guasto nei portelli dellarimessa delle capsule», disse Hal nel tono di un’amena conversazione. «Perfortuna non sei rimasto ucciso.»

Ci siamo, pensò Bowman. Non avrei mai immaginato che sareidiventato un chirurgo del cervello dilettante… eseguendo una lobotomia di làdall’orbita di Giove.

Liberò la sbarra di chiusura sulla sezione con latarghetta REAZIONE CONOSCITIVA ed estrasse il primo blocco di memoria. Ilcircuito tridimensionale mirabilmente complesso, che trovava facilmente posto nellamano di un uomo e ciò nonostante conteneva milioni di elementi, galleggiò viaattraverso il locale.

«Ehi, Dave», soggiunse Hal. «Che cosa stai facendo?»

Chissà se può sentire il dolore? si domandò Bowmanfuggevolmente. Con ogni probabilità no, si disse; non vi sono organi di sensonella corteccia del cervello umano, in fin dei conti. Il cervello umano puòessere operato senza anestetici.

Incominciò a estrarre, a uno a uno, i piccoli elementidal pannello con l’indicazione POTENZIAMENTO DELL’IO. Ogni blocco continuava asollevarsi e ad andare alla deriva, non appena abbandonato dalla mano di lui, finchéurtava contro la parete e rimbalzava. Ben presto vi furono parecchi elementiche andavano avanti e indietro nel locale.

«Sentì un po’ , Dave», disse Hal. «Vi sono anni di esperienzeincorporati in me. Una quantità insostituibile di fatiche ha fatto sì che iodiventassi quel che sono.»

Una dozzina di elementi erano già stati estratti, eppure,grazie alla multipla ridondanza della sua struttura (un’altra caratteristica, Bowmanlo sapeva, copiata dal cervello umano) il calcolatore continuava a funzionare.

Passò al pannello dell’AUTOINTELLEZIONE.

«Dave», disse Hal, «non capisco perché tu mi stiafacendo questo… Ho il più grande entusiasmo per la missione… Stai distruggendola mia mente… Diventerò infantile… Diventerò nulla…»

È più difficile di quanto mi fossi aspettato, pensòBowman. Sto distruggendo la sola creatura cosciente nel mio universo. Ma devofarlo, se voglio riprendere il controllo dell’astronave.

«Sono un calcolatore Hal 9000, esemplare numero tre. Sonodiventato operativo nelle fabbriche Hal di Urbana, Illinois, il 2 gennaio 1997.La fulminea volpe bruna salta addosso al pigro cane. In Spagna pioveprincipalmente sulle pianure. Dave… sei ancora lì? Lo sapevi che la radicequadrata di 10 è 3 virgola 162277660168379? Il logaritmo di base e di 10è zero virgola 434294481903252… rettifico, questo è il logaritmo in base 10 di e…Il reciproco di tre zero virgola 17 volte 3… due volte due fa… due volte due fa…approssimativamente 4 virgola 1010101010101010… il mio primo istruttore fu ildottor Chandra. Mi insegnò una canzone che fa così: “Centocinquanta, la gallinacanta, lasciala cantare, la voglio maritare”.»

La voce si interruppe così bruscamente che Bowman si immobilizzòper un momento, le dita strette intorno a un blocco di memoria tuttora incircuito. Poi, inaspettatamente, Hal parlò di nuovo.

Il ritmo del discorso era molto più lento, e le paroleavevano un’intonazione morta e meccanica; Bowman non sarebbe mai riuscito ariconoscere chi fosse a pronunciarle.

«Buon… giorno… dottor… Chandra… Qui… Hal… sono… pronto…oggi… per… la… prima… lezione…»

Bowman non poté più resistere. Strappò l’ultimo elementoe Hal tacque per sempre.

 

SOLO

 

 

Come un giocattolo minuscolo e complicato, la navespaziale galleggiava inerte e immobile nel vuoto. Sarebbe stato impossibilecapire che si trattava dell’oggetto più veloce del sistema solare e che sispostava molto più rapidamente di uno qualsiasi dei pianeti mentre ruotavanointorno al Sole.

E nulla indicava che portasse vita entro di sé; all’opposto,anzi. Qualsiasi osservatore avrebbe notato due indizi minacciosi: i portellidella camera di equilibrio erano entrambi spalancati… e l’astronave continuavaa essere circondata da una rada nube di frammenti che andava disperdendosiadagio.

Sparsi in un volume di spazio che già si estendeva perchilometri, si vedevano pezzi di carta, lamierini metallici, frammentiirriconoscibili… e, qua e là, nuvole di cristalli che scintillavano comegioielli nella luce del sole remoto, là ove del liquido era stato risucchiatodalla nave spaziale e congelato all’istante. Tutto ciò costituiva laconseguenza inequivocabile di un disastro, come i relitti che affiorano allasuperficie dell’oceano, là ove qualche grande nave è colata a picco. Ma nell’oceanodello spazio nessuna astronave poteva mai affondare; anche se veniva distrutta,i suoi rottami continuavano a seguire in eterno l’orbita originaria.

Ciò nonostante la nave spaziale non era completamentemorta, poiché continuava a esservi energia a bordo. Un fioco baglioreazzurrognolo traspariva attraverso i finestrini di osservazione e baluginavaall’interno della camera d’equilibrio aperta. Ove vi era luce, poteva ancoraesservi vita.

E ora, infine, vi fu movimento. Ombre si spostavanonel bagliore azzurrognolo all’interno della camera d’equilibrio. Qualcosaemergeva nello spazio.

Era un oggetto cilindrico, coperto di stoffa avvoltaalla meglio intorno a esso. Un attimo dopo fu seguito da un altro oggetto… e poiancora da un terzo. Tutti erano stati espulsi con una velocità considerevole; pochiminuti dopo, si trovavano a centinaia di metri di distanza.

Trascorse mezz’ora. Poi qualcosa di molto più grandeuscì attraverso il portello della camera di equilibrio. Una delle capsule sistava spostando molto adagio nello spazio.

Con somma cautela azionò il getto muovendosi intornoall’astronave, e andò ad ancorarsi accanto alla base del sostegno dell’antenna.Una sagoma in tuta spaziale ne uscì, lavorò per alcuni minuti al sostegno, poirientrò nella capsula. Dopo qualche momento la capsula tornò indietro fino allacamera di equilibrio; rimase sospesa per qualche tempo all’esterno dell’apertura,come se trovasse difficile rientrare senza la cooperazione avuta in passato. Mainfine, dopo uno o due lievi urti, riuscì a inserirsi nel varco.

Non accadde altro per oltre un’ora; i tre sinistrioggetti cilindrici erano scomparsi già da un pezzo, allontanandosi in fila, unodietro l’altro, dall’astronave.

Poi i portelli della camera di equilibrio si chiusero,si aprirono e tornarono a chiudersi. Poco dopo, il fioco bagliore azzurrognolodelle lampade di emergenza si spense… per essere sostituito subito da unbagliore di gran lunga più vivido. La Discovery stava tornando alla vita.

Di lì a non molto vi fu un indizio ancor piùpromettente. Il grande riflettere parabolico dell’antenna, che per ore aveva fissatoinutilmente Saturno, incominciò di nuovo a muoversi. Si girò nella direzionedella parte posteriore della nave spaziale, orientato verso i serbatoi dipropellente e le centinaia di metri quadrati delle pinne di irradiazione. Alzòla faccia come un girasole, cercando il Sole.

All’interno della Discovery, David Bowmancentrò attentamente il reticolo che allineava l’antenna con la Terra gibbosa. Senza il controllo automatico, era costretto a regolare continuamente ilfascio… ma esso sarebbe dovuto rimanere orientato per molti minuti di seguito. Nonv’erano adesso impulsi contrastanti che lo scostassero dal bersaglio.

Incominciò a parlare con la Terra. Sarebbe trascorsapiù di un’ora prima che le sue parole vi giungessero e il Controllo Missioneapprendesse quanto era accaduto. Occorrevano due ore prima che una rispostaqualsiasi potesse arrivargli.

Ed era difficile immaginare quale risposta avrebbepotuto trasmettergli la Terra, se non un: «Arrivederci», pieno di tatto e comprensivo.

 

IL SEGRETO

 

 

Heywood Floyd aveva l’aspetto di chi ha dormitopochissimo, e la sua faccia era corrugata dalla preoccupazione. Ma quale che fosseil suo stato d’animo, la voce di lui suonò ferma e rassicurante; stava facendotutto il possibile per ispirare fiducia all’uomo solo al lato opposto delsistema solare.

«In primo luogo, dottor Bowman», incominciò, «dobbiamocongratularci con lei per il modo con il quale ha risolto questa situazioneestremamente difficile. Si è comportato esattamente come doveva, affrontando un’emergenzasenza precedenti e imprevista.

«Riteniamo di conoscere la causa del guasto del vostroHal 9000, ma ne parleremo dopo, in quanto non si tratta più di un problemacritico. La sola cosa che ci preme in questo momento è darle ogni possibileassistenza, affinché possa essere in grado di portare a termine la missione.

«Ed ora devo dirle quale ne è il vero scopo, che, conenormi difficoltà, siamo riusciti a nascondere al grande pubblico. Lei sarebbestato informato di ogni cosa nel momento dell’avvicinamento a Saturno; questo èun rapido compendio, per metterla al corrente. Nastri con le informazionicomplete le saranno trasmessi nelle prossime ore. Tutto ciò che sto per dirle èdella massima segretezza.

«Due anni fa, scoprimmo la prima prova della esistenzadi una vita intelligente fuori dalla Terra. Una lastra, o monolito, dimateriale durissimo e nero, alta tre metri, fu rinvenuta sepolta nel cratereTycho. Eccola.»

Vedendo per la prima volta il AMT-1, con le sagome intute spaziali raggruppate intorno a esso, Bowman si sporse in avanti verso loschermo, a bocca aperta per lo stupore. Nell’entusiasmo di una similerivelazione, una cosa che, come ogni uomo interessato allo spazio, si era quasiaspettato per tutta la vita, fu sul punto di dimenticare la propria situazionedisperata.

Lo stupore venne seguito rapidamente da un altro statod’animo. Era fantastico… ma come c’entrava lui? La risposta all’interrogativopoteva essere una sola.

Tenne sotto controllo l’impeto dei pensieri, mentreHeywood Floyd riappariva sullo schermo.

«La caratteristica più stupefacente di questo oggettoè la sua antichità. Prove geologiche dimostrano senza ombra di dubbio cherisale a tre milioni di anni fa. Fu posto sulla Luna, pertanto, quando i nostriantenati erano uomini-scimmia primitivi.

«Dopo tanti millenni, era logico presumere che fosseinerte. Invece, subito dopo l’alba lunare, emise un fascio di onde radioestremamente potente. Riteniamo che questa energia fosse un mero sottoprodotto,il risucchio, per così dire, di qualche forma sconosciuta di radiazioni, perché,nello stesso momento, numerose delle nostre sonde spaziali captarono disturbiinconsueti che attraversavano il sistema solare. Riuscimmo a determinarne ladirezione con estrema esattezza. Puntavano direttamente su Saturno.

«Traendo le somme dopo l’evento, decidemmo che ilmonolito era una sorta di apparato di segnalazione azionato, o per lo menoinnescato, dall’energia solare. Il fatto che avesse emesso l’impulsoimmediatamente dopo il sorgere del sole, essendo stato esposto alla luce delgiorno per la prima volta dopo tre milioni di anni, difficilmente poteva essereuna coincidenza.

«Eppure l’oggetto era stato deliberatamentesepolto… al riguardo non sussistono dubbi. Gli esseri sconosciuti avevano fattouno scavo della profondità di sei metri, il monolito era stato collocato infondo a esso, dopodiché la fossa era stata accuratamente riempita.

«Lei potrà domandarsi come scoprimmo l’oggetto, inprimo luogo. Be’, era facile, sospettosamente facile, a trovarsi. Generava unpotente campo magnetico e fece spicco non appena incominciammo a eseguirericognizioni orbitali a bassa quota.

«Ma perché seppellire un apparato azionato dall’energiasolare a sei metri di profondità sotto il livello del suolo? Abbiamo esaminatodecine di teorie, pur rendendoci conto che può essere completamente impossibilecapire i moventi di creature più avanti di noi di tre milioni di anni.

«La teoria che noi prediligiamo è la più semplice e lapiù logica. Ed è anche la più preoccupante.

«Si cela nell’ombra un congegno azionato dall’energiasolare… soltanto se si vuole sapere quando viene portato alla luce. In altritermini, il monolito può essere una sorta di segnale d’allarme. E noi abbiamoazionato il segnale.

«Non sappiamo se la civiltà che lo collocò esisteancora. Dobbiamo presumere che creature i cui ritrovati continuano a funzionaredopo tre milioni di anni siano in grado di creare una società altrettantoduratura. E dobbiamo anche presumere, finché le prove non dimostreranno ilcontrario, che possano essere ostili. Si è sostenuto spesso che una societàprogredita deve essere benevola, ma noi non possiamo esporci a rischi.

«Per di più, come la storia del nostro stesso mondo hadimostrato tante volte, le razze primitive spesso non sono riuscite asopravvivere all’incontro con civiltà superiori. Gli antropologi parlano di“choc culturale”; potremo essere costretti a preparare l’intero genere umano aun simile choc. Ma fino a quando non sapremo qualcosa delle creature chevisitarono la Luna, e presumibilmente anche la Terra, tre milioni d’anni fa, nonpotremo mai cominciare a fare alcun preparativo.

«La sua missione, pertanto, è assai più di un viaggiodi scoperta. È un’esplorazione… una ricognizione di territori ignoti e potenzialmentepericolosi. Il gruppo agli ordini del dottor Kaminski era stato specificamenteaddestrato per questo genere di lavoro; ora lei dovrà cavarsela da solo…

«In ultimo… il suo specifico obiettivo. Sembraincredibile che forme di vita progredite possano esistere su Saturno, o possanomai essersi evolute su una qualsiasi delle sue lune. Avevamo progettato diesplorare l’intero sistema, e speriamo ancora che lei possa attuare unprogramma semplificato. Ma per il momento dovremo forse concentrarci sull’ottavosatellite… Giapeto. Quando giungerà il momento della manovra terminale, decideremose lei dovrà avere il rendez-vous con questo straordinario oggetto celeste.

«Giapeto è unico nel sistema solare… lei lo sa già, naturalmente,ma, come tutti gli astronomi degli ultimi trecento anni, probabilmente vi avràpensato ben poco. Mi consenta quindi di ricordarle che Cassini, il quale scoprìGiapeto nel 1671, osservò altresì che esso era sei volte più luminoso suun lato della propria orbita che sull’altro.

«È questa una differenza straordinaria, e nessuno hamai saputo darne una spiegazione soddisfacente. Giapeto è così piccolo, ha undiametro di circa milletrecento chilometri, che anche nei telescopi lunari siriesce a malapena a scorgerne il disco. Sembra però che su uno degli emisferiesista un punto brillante e curiosamente simmetrico, il quale potrebbe averequalche rapporto con il AMT-1. Io penso a volte che Giapeto abbia lampeggiatoverso di noi come un eliografo cosmico per trecento anni, e che noi siamo statitroppo stupidi per capirne il messaggio…

«Sicché ora lei conosce il suo vero obiettivo, e puòrendersi conto dell’importanza vitale di questa missione. Ci auguriamo tuttiche possa ancora fornirci alcuni dati per un annuncio preliminare; il segretonon può essere mantenuto all’infinito.

«Per il momento non sappiamo se sperare o temere. Nonsappiamo se, sulle lune di Saturno, lei troverà il bene o il male… oppure soltantorovine mille volte più antiche di Troia.»

 

CAPITOLO QUINTO
LE LUNE DI SATURNO

 

 

 

SOPRAVVIVENZA

 

 

Il lavoro è il rimedio più efficace dopo qualsiasispavento, e Bowman aveva ora lavoro a sufficienza per tutti i suoi compagni diviaggio perduti. Il più rapidamente possibile, incominciando dagli impiantivitali senza i quali lui e l’astronave sarebbero periti, doveva rendere dinuovo la Discoverycompletamente operativa.

Il mantenimento della vita aveva la precedenzaassoluta. Molto ossigeno era andato perduto, ma le riserve continuavano aessere sufficienti per un solo uomo. La regolazione della pressione dellatemperatura era quasi completamente automatica, e soltanto di rado sipresentava la necessità dell’intervento di Hal. Gli apparecchi di controllo aTerra potevano ora svolgere molti dei compiti più importanti del calcolatoreucciso, nonostante l’inevitabile ritardo prima che potessero reagire a nuovesituazioni. Ogni inconveniente negli impianti di mantenimento della vita, tranneun grave squarcio nelle pareti esterne dell’astronave, avrebbe impiegato oreper rendersi manifesto, e vi sarebbe stato un lungo preavviso.

I generatori elettrici e i sistemi di navigazione e dipropulsione dell’astronave erano intatti… e degli ultimi due, in ogni caso, Bowmannon avrebbe avuto bisogno ancora per mesi, fino a quando non fosse giunto ilmomento del rendez-vous con Saturno. Anche da grande distanza, senza l’ausiliodi un calcolatore a bordo, la Terra avrebbe ancora potuto dirigere questa operazione.Le rettifiche finali dell’orbita sarebbero state alquanto tediose, a causadella costante necessità di controlli, ma questa non poteva essere consideratauna difficoltà grave.

Il compito di gran lunga peggiore era consistito nelvuotare le bare che ruotavano entro il tamburo. Fortunatamente, pensava Bowmancon gratitudine, i componenti della squadra di ricognizione erano stati suoicolleghi, ma non intimi amici. Si erano addestrati insieme soltanto per alcunesettimane; rievocando la cosa, adesso, egli si rendeva conto che anche questaaveva costituito in vasta misura una prova di compatibilità.

Dopo aver finalmente chiuso gli hibernaculumvuoti, si sentì alquanto simile a un predone di tombe egizie. Ora Kaminski, Whiteheade Hunter avrebbero raggiunto tutti Saturno prima di lui… ma non prima di FrankPoole.

Chissà perché, egli traeva una strana e bieca soddisfazioneda questa certezza.

Non tentò di accertare se il resto dell’impianto diibernazione funzionasse ancora a dovere. Anche se, in ultimo, la sua vitasarebbe potuta dipendere da esso, era questo un problema che poteva aspettarefino a quando l’astronave non fosse entrata nella sua orbita finale. Prima diallora sarebbero potute accadere molte cose.

Era addirittura possibile, sebbene non avesse ancoraesaminato attentamente la situazione delle provviste, che con un severorazionamento egli potesse restare in vita, senza ricorrere all’ibernazione,fino all’arrivo dei soccorsi. Ma se sarebbe riuscito a sopravviverepsicologicamente, oltre che fisicamente, era tutta un’altra questione.

Cercò di evitare di pensare a questi problemi a lungascadenza e di concentrarsi sulle cose immediate ed essenziali. Pian piano, ripulìl’astronave, si accertò che gli impianti di bordo continuassero a funzionare senzainconvenienti, esaminò le difficoltà tecniche con la Terra e si limitò a unminimo di ore di sonno. Soltanto a intervalli, durante le prime settimane, riuscìa riflettere a lungo sul grande mistero verso il quale stava ora correndoinesorabilmente… sebbene esso non fosse mai lontano dai suoi pensieri.

Infine, mentre la nave spaziale si riadagiava unavolta di più, lentamente, in una routine automatica, che però richiedeva pursempre la sua costante sorveglianza, Bowman ebbe il tempo di studiare le informazionie i rapporti inviatigli dalla Terra. Più e più volte ascoltò le registrazionieseguite quando il AMT-1 aveva salutato l’alba per la prima volta dopo tremilioni di anni. Osservò le sagome con le tute spaziali muoversi intorno almonolito, e quasi sorrise del loro ridicolo panico allorché esso aveva lanciatoil proprio segnale alle stelle, paralizzando le radio con la pura potenza dellasua voce elettronica.

A partire da quel momento, la nera lastra era rimastainerte. L’avevano riseppellita; poi, con cautela, esposta nuovamente al Sole… senzache vi fosse alcuna reazione. Non era stato fatto alcun tentativo di tagliarla,in parte per ragioni di cautela scientifica, ma anche per il timore dellepossibili conseguenze.

Il campo magnetico che aveva portato alla scoperta delmonolito era svanito nel momento stesso di quell’urlo radiofonico. Forse, standoalle teorie di alcuni esperti, esso era stato generato da un’enorme correntecircolante, che scorreva in un superconduttore e aveva così conservato la propriaenergia nel corso dei millenni e delle ere, fino al momento in cui si era resanecessaria. Che il monolito contenesse qualche sorgente interna di energiasembrava certo; l’energia da esso assorbita durante la breve esposizione airaggi solari non poteva spiegare la potenza del segnale.

Una caratteristica del monolito, curiosa, ma forse deltutto priva di importanza, aveva dato luogo a innumerevoli controversie. Ilmonolito era alto 3,34 metri, largo un metro e mezzo, spesso trentottocentimetri. Quando le sue dimensioni erano state misurate con la massimaprecisione, si era constatato che avevano l’esatto rapporto di 1 a 4 a 9, i quadratidei primi tre numeri interi. Nessuno era stato in grado di proporre una spiegazioneplausibile di tale particolarità, ma difficilmente poteva trattarsi di unacoincidenza, perché le proporzioni avevano resistito fino al limite delle piùprecise misurazioni. Era umiliante pensare che tutta la tecnologia della Terranon riusciva a foggiare nemmeno un blocco inerte, di qualsiasi materiale, conuna precisione così fantastica. A suo modo, questo sfoggio passivo eppurearrogante di perfezione geometrica era impressionante quanto tutti gli altriattributi del AMT-1.

Bowman ascoltò inoltre, con un interessamento stranamentedistaccato, le tardive scuse del Controllo Missione per il proprio piano. Levoci provenienti dalla Terra sembravano avere un’intonazione difensiva; potevaimmaginare le recriminazioni che dovevano infuriare in quel momento tra coloroche avevano progettato la spedizione.

Essi disponevano di alcuni validi argomenti, naturalmente,compresi i risultati di uno studio segreto del Dipartimento della Difesa, ilProgetto BARSOOM, eseguito dalla Harvard School of Psychology nel 1989. Nelcorso di questo esperimento di sociologia controllata, a vari campioni statisticidella popolazione era stato assicurato che il genere umano aveva stabilitocontatti con esseri extraterrestri. Molti dei soggetti sottoposti all’esperimento,con l’ausilio di farmaci, dell’ipnosi e di effetti visivi, avevano l’impressionedi essersi effettivamente incontrati con creature provenienti da altri pianeti,per cui le loro reazioni potevano essere considerate autentiche.

Alcune di queste reazioni erano state violentissime; esisteva,a quanto sembrava, un substrato profondo di xenofobia in numerosi esseri umanisotto ogni altro aspetto normali. Tenuto conto dei precedenti dell’umanità infatto di linciaggi, pogrom e analoghe piacevolezze, la cosa non avrebbe dovutostupire nessuno; ciò nonostante, gli ideatori dello studio erano rimasti profondamenteturbati, e i risultati non erano stati mai resi pubblici. Le cinque diverseondate di panico causate nel ventesimo secolo dalle trasmissioni radiofonichedella Guerra dei mondi di H.G. Wells avvaloravano anch’esse leconclusioni dello studio…

Nonostante questi argomenti, Bowman si domandava avolte se il pericolo dello choc culturale fosse la sola giustificazione dell’estremasegretezza della missione. Alcune allusioni durante le sue conversazioni con ilControllo Missione lasciavano capire che il blocco Stati Uniti-URSS sperava diavvantaggiarsi a essere il primo a stabilire contatti con esseri extraterrestriintelligenti. Dall’attuale punto di vista di Bowman, che vedeva la Terra come una fioca stella quasi perduta nel bagliore solare, considerazioni del genere sembravanoparrocchiali fino al ridicolo.

Si interessava assai di più, anche se a questoproposito molta acqua era ormai passata sotto i ponti, alla teoria suggeritaper spiegare il comportamento di Hal. Nessuno sarebbe mai potuto essere certodella verità, ma il fatto che uno dei 9000 del Controllo Missione fosse statotravolto da un’identica psicosi, e venisse ora assoggettato a una terapia, lasciavacapire che la spiegazione era giusta. Lo stesso errore non sarebbe più stato commesso;e il fatto che i costruttori di Hal non fossero riusciti a capire appieno lapsicologia della loro stessa creazione dimostrava quanto sarebbe potuto esseredifficile stabilire comunicazioni con esseri realmente diversi.

Bowman non stentava a credere alla teoria del dottorSimonson, secondo il quale un inconscio senso di colpa, causato dai conflittidel suo programma, aveva indotto Hal a tentar di interrompere il collegamentocon la Terra. E amava credere, sebbene anche questo non potesse mai esseredimostrato, che Hal non aveva avuto alcuna intenzione di uccidere Poole. Eglisi era limitato a tentar di distruggere la prova; poiché non appena fosserisultato che l’elemento AE-35, giudicato difettoso, funzionava regolarmente, lasua menzogna sarebbe stata rivelata. In quel momento, come ogni goffo criminaleimpigliato in una rete sempre più fitta di inganni, egli si era lasciatoprendere dal panico.

E il panico era una cosa che Bowman capiva meglio diquanto avrebbe voluto, in quanto lo aveva conosciuto due volte in vita sua. Laprima volta da ragazzo, quando un cavallone lo aveva travolto e per poco nonera affogato; la seconda volta come uomo spaziale in allenamento, quando unindicatore difettoso lo aveva persuaso che la sua riserva di ossigeno sisarebbe esaurita prima di consentirgli di mettersi al sicuro.

Entrambe le volte, egli aveva quasi perduto ilcontrollo di tutti i suoi processi logici superiori; ed era stato lì lì perdiventare un fascio frenetico di impulsi casuali, Entrambe le volte era riuscitoa vincersi, ma sapeva abbastanza bene che ogni uomo, in determinate circostanze,poteva essere reso disumano dal panico.

Se questo poteva accadere a un uomo, poteva accadereanche ad Hal; e, con tale certezza, l’odio e la sensazione di tradimento che ilcalcolatore gli ispirava incominciarono a dileguarsi. Tutto ciò, in ogni modo, appartenevaa un passato che era stato lasciato completamente in ombra dalla minaccia, e dallapromessa, dell’ignoto futuro.

 

A PROPOSITO DELLE
CREATURE EXTRA - TERRESTRI

 

 

A parte i pasti frettolosi nel tamburo ruotante (perfortuna i distributori principali del cibo non erano stati danneggiati) Bowmanviveva in pratica sul ponte di controllo. Faceva brevi pisolini sul sedile e potevacosì individuare ogni inconveniente non appena i primi indizi apparivano suglischermi indicatori. Attenendosi alle istruzioni impartitegli dal ControlloMissione, aveva improvvisato numerosi sistemi di emergenza che funzionavanotollerabilmente bene. Sembrava addirittura possibile che riuscisse asopravvivere fino all’arrivo della Discovery a Saturno… una mèta, che, naturalmente,l’astronave avrebbe raggiunto con lui vivo o morto a bordo.

Sebbene avesse poco tempo per le osservazioni celestie il firmamento dello spazio non costituisse per lui una novità, laconsapevolezza di quanto si trovava laggiù, di là dai finestrini, faceva sì chegli riuscisse difficile a volte concentrarsi anche sul problema dellasopravvivenza. Direttamente di fronte a lui, così come l’astronave eraattualmente orientata, si stendeva la Via Lattea, con le sue nubi di stelletanto strettamente stipate da stordire la mente. Vi erano le ardenti nebbie delSagittario, quei brulicanti sciami di soli che in eterno sottraevano aglisguardi umani il cuore della galassia. V’era la sinistra ombra nera detta «Saccodi carbone», quel foro nello spazio in cui nessuna stella splendeva. E vi eraAlfa del Centauro, il più vicino di tutti i soli estranei… la prima tappa oltreil sistema solare.

Sebbene meno splendente di Sirio e di Canopo, era Alfadel Centauro ad attrarre gli occhi e i pensieri di Bowman ogni volta che egliguardava fuori nello spazio. Poiché quell’immutabile punto di luce, i cui raggiavevano impiegato quattro anni per raggiungerlo, aveva finito con il simboleggiarei dibattiti segreti che infuriavano in quel momento sulla Terra, e i cui echiarrivavano di quando in quando fino a lui.

Nessuno dubitava che dovesse esservi qualche rapportotra il AMT-1 e il sistema di Saturno, ma difficilmente qualsiasi scienziatosarebbe stato disposto ad ammettere che le creature dalle quali era statoeretto il monolito avessero avuto laggiù le loro origini. Come dimora di vita, Saturnoera ancor più ostile di Giove, e le sue tante lune erano congelate da uninverno eterno, con trecento gradi sotto lo zero. Solamente una di esse, Titano,possedeva una atmosfera; e si trattava di uno strato sottile di metano velenoso.

Così, forse, le creature che avevano visitato la lunaterrestre un’infinità di tempo prima erano non soltanto extraterrestri, maextrasolari… visitatori provenienti dalle stelle, i quali avevano stabilitobasi ove più loro conveniva. E ciò poneva subito un altro problema: poteva maiuna qualsiasi tecnica, per quanto progredita, gettare un ponte sull’abissospaventoso frapposto tra il sistema solare e il più vicino sole estraneo?

Molti scienziati negavano decisamente tale possibilità.Facevano rilevare che la Discovery, l’astronave più veloce mai progettata,avrebbe impiegato ventimila anni per raggiungere Alfa del Centauro… e milionidi anni per percorrere una distanza apprezzabile nella galassia. Anche se, nelcorso dei secoli a venire, i sistemi di propulsione fossero migliorati in modoinconcepibile, in ultimo avrebbero incontrato la barriera insormontabile dellavelocità della luce, che nessun oggetto materiale poteva superare. Perconseguenza, i costruttori del AMT-1 dovevano aver condiviso lo stessosole dell’uomo; e, non essendo apparsi nei tempi storici, erano probabilmenteestinti.

Una insistente minoranza si rifiutava di ammetterlo. Anchese occorrevano secoli per viaggiare da una stella all’altra, sostenevano coloroche ne facevano parte, questo non poteva rappresentare un ostacolo peresploratori dello spazio sufficientemente decisi. La tecnica dell’ibernazione, impiegatasulla stessa Discovery, costituiva una possibile soluzione. Un’altra eral’ambiente artificiale autosufficiente, impegnato in viaggi che potevanoprotrarsi per molte generazioni.

In ogni caso, perché si doveva presumere che tutte lespecie intelligenti avessero una vita breve come quella dell’uomo? Potevanoesservi nell’universo creature per le quali un viaggio di mille anni non eraniente di più grave di un breve periodo di noia…

Questi argomenti, per quanto teorici, concernevano unproblema della massima importanza pratica; implicavano il concetto del «tempodi reazione». Se il AMT-1 aveva trasmesso un segnale alle stelle, forse con l’ausiliodi qualche ulteriore congegno in prossimità di Saturno, poteva darsi che quelsegnale non giungesse a destinazione prima di alcuni anni. Anche se la reazionefosse stata immediata, pertanto, l’umanità avrebbe avuto un periodo di respiroche senz’altro poteva essere misurato in decenni… e più probabilmente in secoli.Per molte persone, questo era un pensiero rassicurante.

Ma non per tutte. Alcuni scienziati, la maggior partedei quali frugavano i lidi più selvaggi della fisica teorica, ponevano l’interrogativopreoccupante: «Siamo certi che la velocità della luce sia una barriera invalicabile?»Era vero che la teoria della relatività aveva dimostrato di essere notevolmenteduratura, e di lì a non molto si sarebbe avvicinata al suo primo centenario; maaveva anche cominciato a essere incrinata da alcune crepe. E anche se non erapossibile sfidare Einstein, si poteva eluderlo.

Coloro che adottavano questo punto di vista, parlavanocon speranza di scorciatoie attraverso altre dimensioni, di linee più dirittedella retta, e di connettività iperspaziali. Amavano servirsi di una fraseespressiva coniata da un matematico di Princeton nel secolo precedente: «Tarlinello spazio». Ai critici i quali asserivano che queste idee erano troppofantastiche, si ricordavano le parole di Niels Bohr: «La vostra teoria è pazzesca…ma non abbastanza pazzesca per essere vera.»

Se anche esisteva una disputa tra i fisici, essa nonera nulla in confronto a quella tra i biologi, quando discutevano l’annosoproblema: «Che aspetto potrebbero avere creature intelligenti extraterrestri?»Essi si dividevano in due campi opposti: l’uno sosteneva che tali creaturedovevano essere umanoidi, l’altro era altrettanto persuaso che «esse» nonsarebbero state affatto simili agli uomini.

Favorevoli alla prima tesi erano coloro i qualiritenevano che la struttura di due gambe, due braccia e dei principali organidi senso nel punto più alto era così fondamentale e così ragionevole da far sìche fosse difficile immaginarne una migliore. Naturalmente, vi sarebbero statedifferenze trascurabili, come ad esempio sei dita invece di cinque, epidermideo capelli dai colori bizzarri, e singolari fattezze del viso, ma gliextraterrestri più intelligenti, indicati di solito con la sigla E.T., sarebberostati così simili all’uomo da non giustificare che si indugiasse a guardarlidue volte con poca luce, o da lontano.

Questo modo di pensare antropomorfico veniva posto inridicolo da un altro gruppo di biologi, autentici prodotti dell’era spaziale, iquali si sentivano esenti da tutti i pregiudizi del passato. Costoro facevanorilevare che il corpo umano era il risultato di milioni di scelte evolutive, fattedal caso nel corso di ere di tempo. In ognuno di questi innumerevoli momenti didecisione, il dado genetico sarebbe potuto cadere in modo diverso, e forse conrisultati migliori. Il corpo umano, infatti, era un bizzarro esempio diimprovvisazione, pieno di organi deviati da una funzione all’altra, non semprecon molto successo… e contenente persino organi abbandonati, come l’appendice, ormaipiù nociva che utile.

V’erano altri pensatori, constatò inoltre Bowman, chesostenevano punti di vista ancora più singolari. Essi non credevano che esseridavvero progrediti possedessero un corpo. Prima o poi, man mano che le loroconoscenze scientifiche fossero progredite, si sarebbero liberati dalle fragilidimore, portate alle malattie e agli incidenti, date loro dalla natura, che licondannavano a una morte inevitabile. Avrebbero sostituito i loro organismi, manmano che si logoravano, o forse ancor prima, con strutture di metallo o diplastica, riuscendo così a conseguire l’immortalità. Il cervello avrebbe potutoessere conservato ancora per qualche tempo come ultimo residuo dell’organismo, percomandare le membra meccaniche e osservare l’universo attraverso organi disenso elettronici… di gran lunga più sensibili e sottili di quelli cui la ciecaevoluzione avrebbe mai potuto dar luogo.

Persino sulla Terra erano già stati compiuti i primipassi in questa direzione. Esistevano milioni di uomini, condannati in etàgiovanile, che ora conducevano esistenze attive e serene grazie ad artiartificiali e a organi artificiali come i reni, i polmoni e il cuore. Questoprocesso poteva avere una sola conclusione… per quanto remota ancora essa fosse.

E in ultimo anche il cervello sarebbe potutoscomparire. In quanto sede della coscienza non era essenziale; i progressi dell’intelligenzaelettronica lo avevano dimostrato.

Il conflitto tra mente e macchina poteva essererisolto infine con una tregua eterna di simbiosi completa…

Ma, anche questo, era la mèta ultima? Alcuni biologidalle inclinazioni mistiche andavano ancora più oltre. Sostenevano, attingendoalle credenze di molte religioni, che la mente si sarebbe liberata in ultimodella materia. Gli organismi simili a robot, come quelli fatti di carne e sangue,non sarebbero stati altro che un trampolino verso qualcosa cui, già da moltotempo, gli uomini avevano dato il nome di «spirito».

E se esisteva qualcosa di là da questo, il suonome poteva essere soltanto Dio.

 

AMBASCIATORE

 

 

Durante gli ultimi tre mesi, David Bowman si eraadattato così completamente al suo solitario sistema di vita) che gli riuscivadifficile ricordare un’esistenza diversa. Aveva varcato i confini delladisperazione e della speranza e si era abituato a una routine in vasta misuraautomatica, punteggiata da crisi occasionali man mano che l’uno o l’altro degliimpianti della Discovery dava segni di un funzionamento irregolare.

Ma non aveva varcato i confini della curiosità, e avolte il pensiero della mèta alla quale si stava avvicinando lo colmava di un sensodi esaltazione… e anche di un senso di potenza. Non soltanto era ilrappresentante dell’intero genere umano, ma le sue azioni nelle settimanesuccessive avrebbero potuto determinare l’avvenire dell’umanità. Nel corso dell’interastoria non si era mai determinata una situazione simile a questa. Egli era l’ambasciatorestraordinario dell’intero genere umano.

Questa consapevolezza lo aiutava in molti modi sottili.Si manteneva lindo e pulito; per quanto si sentisse stanco, non mancava mai diradersi. Il Controllo Missione, egli lo sapeva, lo stava tenendo attentamente d’occhioper scoprire i primi indizi di un comportamento anormale; Bowman era deciso afar sì che questa sorveglianza fosse inutile… almeno per quanto concernevasintomi realmente gravi.

Si rendeva conto di alcuni mutamenti intervenuti nellesue abitudini; sarebbe stato assurdo aspettarsi qualcosa di diverso incircostanze come quelle. Non riusciva più a sopportare il silenzio; trannequando stava dormendo o parlando con la Terra mediante il collegamento radio, faceva funzionare l’impianto sonoro dell’astronave a un volume quasidolorosamente alto.

A tutta prima, sentendo la necessità della compagniadi voci umane, aveva ascoltato le opere teatrali classiche… in particolare i drammidi Shaw, di Ibsen e di Shakespeare… oppure letture poetiche scelte nell’enormenastroteca della Discovery. I problemi cui si riferivano il teatro e lapoesia, però, sembravano talmente remoti, o risolvibili così facilmente con un po’di buon senso, che, dopo qualche tempo, egli se ne spazientì.

Pertanto passò all’opera lirica: di solito in italianoo in tedesco, per non essere distratto neppure da quel minimo contenutointellettuale che poteva esservi nella maggior parte delle opere. Questa fasesi protrasse per due settimane, dopo le quali Bowman si rese conto che il suonodi tutte quelle voci superbamente educate poteva soltanto esacerbare la suasolitudine. Ma in ultimo, a porre termine a questo ciclo, fu la Messa direquiem di Verdi, che egli non aveva mai ascoltato sulla Terra. Il «DiesIrae», rombando con sinistra opportunità nella deserta nave spaziale, lo lasciòcompletamente sconvolto; e quando le trombe del Giudizio Universaleecheggiarono dai cicli, non poté assolutamente più resistere.

In seguito, ascoltò soltanto musica sinfonica. Incominciòcon i compositori romantici, ma rinunciò a essi a uno a uno, man mano che leloro musiche emotive divenivano troppo opprimenti. Sibelius, Ciajkowski, Berliozresistettero per alcune settimane, Beethoven alquanto più a lungo. InfineBowman trovò la serenità, com’era accaduto a molti altri, nelle architettureastratte di Bach, talora ornate da Mozart.

E così la Discovery continuò il suo viaggioverso Saturno, il più delle volte pervasa dalla fresca musica del clavicembalo,i pensieri congelati di un cervello divenuto polvere già da duecento anni.

 

* * *

 

 

Anche dall’attuale distanza di sedici milioni dichilometri, Saturno appariva già più grande della Luna come la si vede dallaTerra. Ad occhio nudo era uno spettacolo fantastico; veduto al telescopio, sembravaincredibile.

La sfera del pianeta sarebbe potuta essere scambiataper Giove in uno dei suoi momenti più tranquilli. V’erano le stesse fasce dinubi, anche se più pallide e meno distinte che in quell’altro mondo un po’ piùgrande, e gli stessi turbini vasti come un continente che si spostavano adagionell’atmosfera. Tuttavia, esisteva una differenza sorprendente tra i due pianeti;anche a prima vista, appariva ovvio che Saturno non era sferico. Era talmenteappiattito ai poli che a volte dava l’impressione di una leggera deformità.

Ma la magnificenza degli anelli continuava adistogliere lo sguardo di Bowman dal pianeta; per la loro complessità di particolarie per la delicatezza delle sfumature, erano un universo di per sé. Oltre algrande varco principale tra gli anelli interni e quelli esterni, esistevanoalmeno altre cinquanta suddivisioni o confini, ove si notavano mutamenti bendistinguibili nella luminosità del gigantesco alone di Saturno. Si sarebbedetto che il pianeta fosse circondato da decine e decine di anelli concentrici,i quali si sfioravano tutti, ed erano tutti così sottili che avrebbero potutoessere ritagliati nel più impalpabile foglio di carta, il sistema di anellifaceva pensare a una delicata opera d’arte, a un giocattolo fragile che potevaessere ammirato, ma non toccato. Nonostante ogni sforzo della volontà, Bowmannon riusciva a rendersi conto delle vere dimensioni di quel sistema e a convincersiche l’intero pianeta Terra, qualora si fosse trovato lì, sarebbe sembrato lasferetta di un cuscinetto a sfere che girasse intorno al perimetro di un piatto.

A volte una stella passava dietro gli anelli e perdevaallora soltanto un poco della sua luminosità. Continuava a splendere attraversoil loro materiale traslucido… anche se spesso ammiccava appena quando qualchepezzo più voluminoso dei frammenti in orbita la eclissava.

Gli anelli, infatti, come si sapeva sin daldiciannovesimo secolo, non erano compatti; questa sarebbe stata un’impossibilitàmeccanica. Consistevano di innumerevoli miriadi di frammenti: forse i resti diuna luna che, dopo essersi avvicinata troppo, era stata fatta a pezzi dall’enormeforza di attrazione del pianeta. Comunque, quale che fosse la loro origine, ilgenere umano era stato fortunato ad aver veduto una simile meraviglia; essa sarebbepotuta esistere soltanto per un breve momento di tempo nella storia del sistemasolare.

Sin dal 1945, un astronomo inglese aveva fattorilevare che gli anelli erano effimeri; stavano agendo forze gravitazionali cheben presto li avrebbero distrutti.

Facendo quindi lo stesso ragionamento all’indietro neltempo, ne conseguiva che essi erano stati creati soltanto di recente, appenadue o tre milioni di anni prima.

Ma nessuno si era mai sognato di riflettere su unacoincidenza curiosa; gli anelli di Saturno erano apparsi contemporaneamente algenere umano.

 

IL GHIACCIO IN ORBITA

 

 

La Discovery era ormai penetrata in profonditànel vasto sistema di lune, e lo stesso grande pianeta si trovava a meno di un giornodi distanza. L’astronave aveva varcato ormai da tempo il confine segnato dallapiù esterna Febe, che ruotava in senso retrogrado lungo un’orbita follementeeccentrica, a dodici milioni di chilometri dal suo pianeta. Davanti all’astronavesi trovavano ora Giapeto, Iperione, Titano, Rea, Dione, Teti, Encelado, Miniantee Giano… nonché gli anelli. Tutti i satelliti rivelavano al telescopio unlabirinto di particolari superficiali, e Bowman aveva trasmesso alla Terratutte le fotografie che era riuscito a scattare. Il solo Titano, che, con undiametro di quattromila ottocento chilometri era grande quanto il pianeta Mercurio,avrebbe tenuto impegnato per mesi un gruppo di ricognizione; Bowman potérivolgere a esso, e a tutti i suoi compagni, soltanto il più fuggevole deglisguardi. Non occorreva niente di più; egli era già assolutamente certo cheGiapeto fosse effettivamente la sua mèta.

Tutti gli altri satelliti erano butterati da alcunicrateri di meteoriti, sebbene questi ultimi fossero di gran lunga meno numerosiche su Marte, e vi si vedevano disposizioni in apparenza casuali di ombre e diluci, nonché, qua e là, alcuni punti luminosi, consistenti, con ogniprobabilità, di animassi di gas gelato. Il solo Giapeto possedeva una geografiaben distinta, e una geografia, invero, assai strana.

Un emisfero del satellite che, al pari dei suoicompagni, voltava sempre la stessa faccia verso Saturno, era estremamente buioe lasciava intravedere ben pochi particolari superficiali. In netto contrasto, l’altroemisfero era dominato da un brillante ovale bianco, lungo circa centosessantachilometri e largo trecentoventi. In quel momento, soltanto una parte dellacosì sorprendente formazione veniva illuminata dalla luce del giorno, ma ilmotivo delle straordinarie variazioni di luminosità di Giapeto appariva ormaidel tutto ovvio. Sul lato ovest dell’orbita della luna, la vivida ellisse erarivolta verso il Sole… e la Terra. Sul lato est dell’orbita, l’ovale rimanevarivolto nella direzione opposta, e si poteva osservare soltanto l’emisfero cherifletteva fiocamente la luce.

La grande ellisse era perfettamente simmetrica e si trovavaa cavallo dell’equatore di Giapeto, con il suo asse maggiore orientato verso i poli;aveva orli così netti da dare quasi l’impressione che qualcuno avesse moltoaccuratamente verniciato un enorme ovale bianco sulla superficie della piccolaluna. Appariva completamente piatta, e Bowman si domandò se non potesse trattarsidi un lago di liquido ghiacciato… anche se ciò difficilmente avrebbe potutospiegare il suo stupefacente aspetto artificiale.

Ma gli rimase ben poco tempo per studiare Giapeto, mentrel’astronave si addentrava nel cuore del sistema di Saturno, poiché il momentoculminante del viaggio, l’ultima manovra di perturbazione della Discovery,andava avvicinandosi rapidamente. Rasentando Giove, la nave spaziale avevasfruttato il campo gravitazionale del pianeta per aumentare la velocità. Oradoveva fare l’opposto; doveva diminuire il più possibile la propria velocitàper non sottrarsi al sistema solare continuando così il volo verso le stelle. Lasua orbita attuale era stata studiata in modo da intrappolarla, affinché essadivenisse un’altra luna di Saturno e continuasse a oscillare avanti e indietrolungo una stretta ellisse lunga tre milioni e duecentomila chilometri. Nelpunto più vicino avrebbe quasi sfiorato il pianeta; in quello più lontano, avrebbetoccato l’orbita di Giapeto.

I calcolatori sulla Terra, sebbene le loroinformazioni giungessero sempre con tre ore di ritardo, avevano assicurato a Bowmanche tutto era in ordine. Velocità e altezza risultavano esatte; non rimanevanull’altro da fare, fino al momento del massimo avvicinamento.

L’immenso sistema di anelli si estendeva ormaiattraverso tutto il firmamento e già l’astronave stava passando sul suo margineestremo. Contemplando gli anelli dall’altezza di circa sedicimila chilometri, Bowmanpoté constatare, attraverso il telescopio, che erano formati in vasta misura dighiaccio, splendente e scintillante alla luce del Sole. Si sarebbe detto cheavesse sorvolato una tormenta di neve, la quale di quando in quando cessavarivelando, là ove avrebbe dovuto trovarsi il suolo, deludenti squarci di nottee di stelle.

Mentre la Discovery seguiva una traiettoriacurva, ancor più vicina a Saturno, il Sole calò adagio verso i multipli archidegli anelli. Ormai erano divenuti un esile ponte argenteo che scavalcava l’interofirmamento; sebbene fossero troppo tenui e offuscassero appena la luce del Sole,le loro miriadi di cristalli rifrangevano e disperdevano quest’ultima dandoluogo ad abbacinanti spettacoli pirotecnici. E mentre il Sole passava dietroalle fasce, larghe milleseicento chilometri, di ghiaccio in orbita, pallidispettri dell’astro si spostavano e si fondevano nel firmamento, e i cieli eranocolmi di lampi e bagliori mutevoli. Poi il Sole calò dietro gli anelli, per cuiessi lo incorniciarono con i loro archi, e i fuochi artificiali celesticessarono.

Poco tempo dopo, la nave spaziale entrò nell’ombra diSaturno mentre arrivava nel punto più vicino all’emisfero del pianeta su cuiregnava la notte. In alto splendevano le stelle e gli anelli; in basso sistendeva un mare di nubi appena visibile. Non si scorgevano affatto i misteriosiricami di luce che avevano avvampato nella notte gioviana; forse Saturno eratroppo freddo per simili spettacoli. Lo screziato paesaggio di nubi erarivelato soltanto da un bagliore spettrale riflesso dagli iceberg in orbita, tuttorailluminati dal Sole nascosto. Ma al centro dell’arco esisteva un ampio varcoscuro, simile alla luce centrale di un ponte incompiuto, là ove il cono d’ombradel pianeta oscurava gli anelli.

Il contatto radio con la Terra si era interrotto e non avrebbe potuto essere ripreso fino a quando l’astronave nonfosse emersa da dietro la mole di Saturno. Fu forse un bene che Bowman fossetroppo occupato, in quel momento, per pensare alla sua solitudineimprovvisamente sottolineata; nelle poche ore successive, ogni secondo sarebbestato impegnato mentre egli eseguiva le manovre di frenaggio, già programmatedai calcolatori terrestri.

Dopo mesi di inattività i getti principaliincominciarono a espellere le cateratte, lunghe alcuni chilometri, di plasmaluminoso. La gravità tornò, sia pure fuggevolmente, nel mondo senza peso delponte di controllo. E centinaia di chilometri più in basso le nubi di metano e diammoniaca congelata rifulsero di una luce che non avevano mai conosciuto primadi allora, mentre la Discovery saettava, splendente e minuscolo sole, attraversola notte di Saturno.

Infine, dinanzi all’astronave, emerse la pallida alba;la Discovery, che si spostava ora sempre e sempre più adagio, stavagiungendo nella luce del giorno. Non sarebbe più potuta sfuggire al Sole, e nemmenoa Saturno… ma continuava a muoversi abbastanza velocemente per sollevarsirispetto al pianeta fino a sfiorare l’orbita di Giapeto, lontana tre milioni e duecentomilachilometri.

La Discovery avrebbe impiegato quattordicigiorni per compiere quell’ascesa mentre, una volta di più, tagliava, anche senella direzione opposta, le orbite di tutte le lune interne. A una a unaavrebbe intersecato le orbite di Giano, Miniante, Encelado, Teti, Dione, Rea, Titano,Iperione… mondi ai quali erano stati dati i nomi di dèi e di dee scomparsiappena ieri, in base al metro con cui veniva misurato il tempo lassù.

Poi avrebbe incontrato Giapeto, per il suo rendez-vousnello spazio. Se non vi fosse riuscita, sarebbe ricaduta verso Saturno perripercorrere all’infinito l’ellissi di ventotto giorni.

Qualora la Discovery avesse dovuto fallire inquel tentativo, non vi sarebbe più stata alcuna possibilità di un secondo rendez-vous.Al suo ritorno in quel punto, Giapeto si sarebbe trovato lontanissimo, quasi allato opposto di Saturno.

Era vero che si sarebbero incontrati di nuovo e che leorbite della nave spaziale e del satellite si sarebbero intersecate una secondavolta. Ma quell’appuntamento era lontano di un così gran numero di anni che, qualunquecosa potesse accadere, Bowman sapeva di non poter essere presente.

 

L’OCCHIO DI GIAPETO

 

 

Quando Bowman aveva osservato per la prima voltaGiapeto, la curiosa chiazza ellittica di luminosità si era trovata in parte inombra, illuminata soltanto dalla luce di Saturno; ora, mentre la Luna si spostava adagio lungo la sua orbita di settantanove giorni, l’ovale stava emergendonella piena luce del giorno.

Osservandolo espandersi, man mano che la Discoverysi sollevava sempre e sempre più pigramente verso il suo inevitabileappuntamento, Bowman divenne conscio di una sconvolgente ossessione. Non viaveva mai accennato nelle sue conversazioni, o meglio nei suoi regolaricommenti, con il Controllo Missione, perché sarebbe potuto sembrare chesoffrisse già di allucinazioni.

Forse era effettivamente così; infatti, si era quasipersuaso che la brillante ellissi splendente contro lo sfondo scuro del satellitefosse un enorme e vacuo occhio intento a fissarlo, mentre si avvicinava. Era unocchio senza pupilla, poiché in nessun punto egli riusciva a scorgere qualcosache ne turbasse la perfetta uniformità.

Soltanto quando l’astronave si trovò ad appenaottantamila chilometri di distanza, e quando Giapeto era due volte più grandedella familiare Luna della Terra, egli notò il minuscolo puntino nero al centroesatto dell’ellissi.

Ma mancò il tempo, allora, per ogni esame particolareggiato;doveva ormai occuparsi delle manovre terminali.

Per l’ultima volta, il motore principale della Discoveryliberò le proprie energie. Per l’ultima volta la furia incandescente di atomimorenti avvampò tra le lune di Saturno. In David Bowman, il lontano bisbiglio ela crescente spinta dei getti causò una sensazione d’orgoglio… e di tristezza.I superbi motori avevano compiuto il loro dovere con impeccabile efficienza. Eranoriusciti a portare l’astronave dalla Terra a Giove e a Saturno; questa eraormai l’ultimissima volta in cui avrebbero funzionato. Una volta che la Discoveryavesse vuotato i serbatoi di propellente, sarebbe stata indifesa e inerte comeogni cometa e ogni asteroide, prigioniera senza scampo della gravitazione. Anchequando l’astronave di soccorso fosse arrivata, di lì ad alcuni anni, nonsarebbe stato economico rifornirla, in modo che potesse tornare sulla Terra. Sarebberimasta un monumento eternamente in orbita, destinato a ricordare i primi tempidelle esplorazioni planetarie.

Le migliaia di chilometri si ridussero a centinaia, e nelfrattempo gli indicatori del propellente discesero rapidamente verso lo zero. Alquadro di comando, gli occhi di Bowman scattavano ansiosi dall’uno all’altrostrumento, e osservavano le carte improvvisate che egli doveva ora consultareprima di ogni tempestiva decisione. Sarebbe stata una delusione spaventosa se, dopoessere sopravvissuto a tanti pericoli, non fosse riuscito ad arrivare al rendez-vousper mancanza di pochi chilogrammi di propellente…

Il sibilo dei getti si spense e la spinta principalecessò, mentre soltanto i getti direzionali continuavano a spingere dolcementela Discovery in orbita. Giapeto era ormai una falce gigantesca checolmava il cielo; fino a quel momento, Bowman l’aveva giudicato un minuscolo e insignificanteoggetto celeste, come effettivamente era in confronto al mondo intorno al qualeruotava. Adesso, mentre campeggiava minacciosamente sopra di lui, sembravaenorme… un maglio cosmico pronto a schiacciare la Discovery come un gusciodi noce.

Giapeto si stava avvicinando così adagio che quasi nonsembrava muoversi, e fu impossibile stabilire il momento esatto in cui sideterminò il mutamento sottile da un corpo celeste a un paesaggio, situato aottanta chilometri appena sotto di lui. I fedeli getti direzionali emisero leultime spinte, poi cessarono per sempre di funzionare. L’astronave si trovavanella sua orbita finale e completava una rivoluzione ogni tre ore, allavelocità di appena milleduecento ottanta chilometri all’ora… non occorreva dipiù in quel debole campo gravitazionale.

La Discovery era divenuta il satellite di unsatellite.

 

FRATELLO MAGGIORE

 

 

«Sto girando di nuovo intorno al lato illuminato dallaluce del giorno, e tutto è come ho riferito durante l’ultima orbita. In questoluogo sembrano esservi due soli tipi di materiale di superficie. Il materialenero appare bruciato, quasi come carbone, e ha lo stesso genere di struttura, aquanto posso vedere attraverso il telescopio. In effetti, mi ricorda moltissimoil pane abbrustolito…

«Ancora non riesco ad avere un’idea chiara della zonabianca. Incomincia con un margine assolutamente netto, e non rivela alcunparticolare superficiale. Potrebbe anche trattarsi di un liquido… è abbastanzapiatta. Non so quale impressione abbiate potuto ricavare dalle immagini videoche vi ho trasmesso, ma, se vi raffigurate un mare di latte congelato, ve nefarete un’idea precisa.

«Potrebbe anche essere qualche gas pesante… no, pensoche questo sia impossibile. A volte ho l’impressione che si stia muovendo, moltoadagio; ma non posso averne la certezza…

«… Mi trovo di nuovo sulla zona bianca, durante laterza orbita. Questa volta spero di passare più vicino al segno che avevoindividuato proprio nel centro, mentre mi stavo avvicinando. Se i miei calcolisono esatti, dovrei passare a ottanta chilometri di distanza da esso… diqualunque cosa si tratti.

«… Sì, c’è qualcosa davanti a me, precisamente doveavevo calcolato. Sta salendo all’orizzonte, proprio come Saturno, nello stessosettore di cielo… Passerò adesso al telescopio.

«Pronto! Sembra una sorta di edificio… completamente nero…difficile a vedersi. Non vi sono finestre, né altri particolari visibili. Èsoltanto un enorme lastrone verticale… deve avere un’altezza di almenomilleseicento metri, per essere visibile da questa distanza. Mi ricorda… masì, certo! È identico all’oggetto che voi trovaste sulla Luna! È ilfratello maggiore del AMT-1!»

 

ESPERIMENTO

 

 

Chiamiamolo la Porta delle Stelle.

Per tre milioni di anni aveva ruotato intorno aSaturno, aspettando un momento del destino che avrebbe potuto non presentarsimai. Per costruirlo, una luna era stata frantumata, e i residui dellacostruzione si trovavano ancora in orbita.

Adesso la lunga attesa stava terminando. In un altromondo ancora l’intelligenza era nata e fuggiva dalla propria culla planetaria. Unantico esperimento era sul punto di arrivare al momento culminante.

Coloro che lo avevano iniziato, tanto tempo prima, nonerano stati uomini, e nemmeno remotamente umani. Ma si era trattato di esserifatti di carne e di sangue, e contemplando le profondità dello spazio avevanoprovato timore reverenziale, e meraviglia e solitudine. Non appena in grado difarlo, erano partiti verso le stelle.

Nel corso delle loro esplorazioni avevano incontratola vita sotto molte forme, e osservato il corso dell’evoluzione su un migliaiodi mondi. Era stato loro possibile constatare quanto spesso i primi fiochibarlumi di intelligenza baluginassero e si spegnessero nella notte cosmica.

E siccome, nella galassia, non avevano trovato nulladi più prezioso della Mente, ne avevano incoraggiato ovunque gli albori. Eranodivenuti gli agricoltori dei campi delle stelle; seminavano, e a voltemietevano.

E talora, imparzialmente, dovevano estirpare.

I grandi dinosauri si erano estinti da tempo quando l’astronaveesplorante aveva raggiunto il sistema solare dopo un viaggio protrattosi peralmeno mille anni.

Era passata accanto ai gelidi pianeti esterni, soffermandosibrevemente sopra i deserti di Marte morente, e infine aveva esaminato la Terra.

Disteso sotto di loro, gli esploratori avevano vedutoun mondo brulicante di vita. Per anni e anni si erano impegnati a studiare, acollezionare, a catalogare.

Una volta appreso tutto quello che potevano, avevanocominciato a modificare, influenzando i destini di molte specie, sulla terra e neglioceani. Ma non avrebbero potuto sapere per almeno un milione di anni quale deiloro esperimenti sarebbe riuscito.

Erano pazienti, ma non erano ancora immortali. Esistevanoinnumerevoli cose da fare in quell’universo di cento miliardi di soli, e altrimondi li chiamavano. Perciò si erano lanciati di nuovo nell’abisso, sapendo chenon sarebbero mai più tornati da quella parte.

Né del resto era necessario. I servi che avevanolasciato indietro avrebbero fatto il resto.

Sulla Terra, i ghiacciai avanzavano e indietreggiavano,mentre in alto la Luna immutabile continuava a conservare il proprio segreto. Conun ritmo ancor più lento di quello dei ghiacci polari, le maree della civiltàsi alzavano e si abbassavano nella galassia. Strani e splendidi e terribiliimperi si affermavano e tramontavano, tramandando quanto avevano accumulato infatto di conoscenze ai loro successori. La Terra non era stata dimenticata, mauna nuova visita sarebbe servita a ben poco. Era uno tra milioni di mondisilenziosi, pochi dei quali avrebbero mai parlato.

E ora, tra le stelle, l’evoluzione stava conducendoverso nuove mete. I primi esploratori della Terra erano arrivati da tempo ailimiti della carne e del sangue; non appena le macchine da essi costruiteavevano superato le prestazioni dei loro organismi, era giunto il momento ditraslocare. Avevano trasferito dapprima i loro cervelli, e poi soltanto i loropensieri, in nuove splendenti dimore fatte di metallo e di plastica.

In esse, vagabondavano tra le stelle. Non costruivanopiù navi spaziali. Erano essi stessinavi spaziali.

Ma anche l’era delle entità-macchine aveva avuto unadurata assai breve. Con esperimenti incessanti, essi erano riusciti adaccumulare la conoscenza nella struttura stessa dello spazio e a conservare i loropensieri per l’eternità in rappresi tralicci di luce. Erano riusciti a divenirecreature di radiazione, esenti finalmente dalla tirannia della materia.

In ultimo, per conseguenza, si erano trasformati inpura energia; e in mille mondi i vuoti gusci da essi abbandonati avevanoguizzato per qualche tempo in una ottusa danza della morte, per crollare poirosi dalla ruggine.

Ormai essi erano i padroni della galassia, di là dallaportata del tempo. Potevano vagare a loro piacere tra le stelle e calare cometenue nebbia tra gli interstizi stessi dello spazio. Ma, nonostante le lorofacoltà divine, non avevano dimenticato del tutto le loro origini, nella melmatiepida di un mare scomparso.

E continuavano a seguire gli esperimenti iniziati dailoro antenati, tanto tempo prima.

 

LA SENTINELLA

 

 

«L’aria nell’astronave sta diventando molto viziata, eio soffro quasi continuamente, di mal di capo. Rimane ancora parecchio ossigeno,ma i purificatori non hanno mai realmente eliminato tutti i veleni quando i liquidicontenuti nella nave spaziale avevano incominciato a bollire nel vuoto. Ognivolta che la situazione diventa troppo critica, scendo nella rimessa e lasciosfuggire un po’ di ossigeno puro dalle capsule…

«Non vi è stata alcuna risposta a tutti i miei segnali,e a causa dell’inclinazione orbitale, mi sto allontanando sempre più dal AMT-2.Sia detto di sfuggita, il nome che voi gli avete attribuito non è affattoappropriato… non esiste qui ancora alcuna traccia di un campo magnetico.

«Attualmente, il mio massimo avvicinamento è di novantaseichilometri; questa distanza aumenterà fino a circa centosessanta chilometri manmano che Giapeto continuerà a ruotare sotto di me, e poi diminuirà fino a zero.Passerò direttamente sopra l’oggetto fra trenta giorni… ma è un periodo d’attesatroppo lungo, e d’altro canto l’oggetto sarà allora immerso nelle tenebre.

«Già adesso è visibile soltanto per pochi minuti primadi scomparire di nuovo dietro l’orizzonte. È deludente, maledizione… non possofare alcuna osservazione approfondita.

«Sicché, vorrei che approvaste questo piano. Lecapsule dispongono di propellente a sufficienza per arrivare fino al suolo delsatellite e tornare all’astronave. Voglio uscire dal veicolo e fare unaricognizione ravvicinata dell’oggetto. Se non risulterà pericoloso, atterreròaccanto a esso, o anche sopra a esso.

«L’astronave sarà ancora sopra il mio orizzontedurante la discesa, e pertanto non interromperò il contatto per più di novantaminuti.

«Sono persuaso che questa sia la sola cosa da fare. Hopercorso un miliardo e seicento milioni di chilometri… non voglio esserefermato dagli ultimi novantasei.»

 

* * *

 

Per settimane, guardando eternamente nella direzione delSole con i suoi strani sensi, la Porta delle Stelle aveva osservato la navespaziale che si avvicinava.

I suoi costruttori l’avevano preparata in vista dimolte cose, e questa era una di esse. La Porta delle Stelle riconobbe ciò chestava salendo nella sua direzione dal caldo cuore del sistema solare.

Se fosse stata viva, si sarebbe sentita eccitata, maun’emozione del genere era completamente estranea alle sue capacità. Anche se l’astronavese la fosse lasciata indietro, non avrebbe provato la benché minima delusione. Avevaaspettato per tre milioni di anni; era preparata ad aspettare per tutta l’eternità.

Osservò, notò e non agì, mentre il visitatore frenavala propria velocità con getti di gas incandescente. Di lì a poco sentì ilcontatto dolce delle radiazioni che tentavano di sondare i suoi segreti. Eancora non fece nulla.

Adesso la nave spaziale era in orbita, e ruotava bassasopra la superficie di quella luna stranamente calva. Incominciò a parlare, conemissioni di radioonde, contando i numeri primi, dall’uno all’undici, ripetutamente.Ben presto i numeri furono sostituiti da segnali più complessi, su moltefrequenze… l’ultravioletta, quella dell’infrarosso, quella dei raggi X. LaPorta delle Stelle non diede alcuna risposta; non aveva nulla da dire.

Seguì allora un lungo silenzio, poi la Porta delle Stelle notò che qualcosa stava scendendo verso di essa dall’astronave in orbita. Frugònelle proprie memorie e i circuiti logici presero le loro decisioni, a secondadegli ordini impartiti loro molto, molto tempo prima.

Sotto la fredda luce di Saturno, la Porta delle Stelledestò le proprie capacità assopite.

 

ENTRO L’OCCHIO

 

 

La Discovery era precisamente come l’avevaveduta l’ultima volta dallo spazio, galleggiando in orbita lunare con la Luna che occupava una metà del cielo. Forse esisteva un piccolo cambiamento; non potevaesserne certo, ma una parte della vernice degli avvertimenti esterni, chespiegavano lo scopo dei vari portelli, collegamenti, spine e altri accessori, siera sbiadita durante la lunga esposizione al Sole non schermato.

Quel Sole era ormai un oggetto celeste che nessun uomoavrebbe riconosciuto. Aveva una luminosità di gran lunga troppo intensa perpoter essere una stella, ma si poteva guardarne direttamente il minuscolo discosenza che gli occhi ne soffrissero. Non emetteva alcun calore; quando Bowmanespose ai suoi raggi la mano priva di guanto, non sentì nulla sulla pelle; fu comese avesse tentato di riscaldarsi alla luce della Luna.

Nemmeno il paesaggio estraneo, ottanta chilometri piùin basso, poteva ricordargli in modo più vivido quanto fosse infinitamentelontano dalla Terra.

Ora stava abbandonando, forse per l’ultima volta, ilmondo di metallo che era stato la sua dimora per tanti mesi. Anche se non vifosse più rientrato, l’astronave avrebbe continuato a compiere il propriodovere, trasmettendo alla Terra le indicazioni degli strumenti, fino a quandonon si fosse determinato qualche guasto catastrofico e definitivo nei suoicircuiti.

E se vi fosse rientrato? Be’, avrebbe potutomantenersi in vita, e forse anche sano, per qualche altro mese. Ma questo eratutto, gli impianti di ibernazione non erano utilizzabili senza un calcolatoreche li regolasse. Non gli sarebbe stato possibile sopravvivere fino al giornoin cui la DiscoveryII sarebbe giunta al rendez-vous con Giapeto,di lì a quattro o cinque anni.

Si lasciò alle spalle queste riflessioni, mentre lafalce d’oro di Saturno si alzava nel cielo dinanzi a lui. In tutta la storiadell’umanità, era il solo uomo che avesse assistito a questo spettacolo. Agliocchi di tutti, Saturno aveva sempre mostrato tutto il proprio disco illuminato,rivolto completamente verso il Sole. Adesso era un arco delicato, con glianelli che gli formavano intorno una linea sottile… simili a una freccia sulpunto di essere scoccata nella direzione del Sole stesso.

Sulla stessa linea degli anelli c’era la vivida stelladi Titano, e le più fioche scintille delle altre lune. Prima che quel secolo fossetrascorso per metà, gli uomini le avrebbero visitate tutte; ma lui non avrebbesaputo mai quali segreti potevano nascondere.

L’orlo nettissimo del cieco occhio bianco gli stavavenendo incontro; gli rimanevano soltanto centosessanta chilometri dapercorrere, e in meno di dieci minuti si sarebbe trovato sopra il suo obiettivo.Si augurò che vi fosse qualche modo di sapere se le sue parole stavanoarrivando sulla Terra, ormai lontana un’ora e mezza alla velocità della luce. Sarebbestato il colmo dell’ironia se, per qualche guasto nel sistema di comunicazioni,fosse scomparso nel silenzio e nessuno avesse mai potuto sapere che cosa gliera accaduto.

La Discovery continuava a essere una fulgidastella nel cielo nero più in alto. Egli se ne stava allontanando velocementementre acquistava velocità durante la discesa, ma presto i getti frenanti dellacapsula lo avrebbero rallentato e l’astronave avrebbe proseguito scomparendo… elasciandolo solo su quella pianura splendente, con lo scuro mistero al centro.

Un blocco d’ebano stava salendo all’orizzonte ed eclissavale stelle dietro di sé. Bowman fece ruotare la capsula intorno ai giroscopi e siavvalse di tutta la spinta dei getti per ridurne la velocità orbitale. Percorrendoun arco lungo e piatto, discese verso la superficie di Giapeto.

In un mondo dalla gravità più intensa, la manovraavrebbe implicato un consumo di propellente pericolosamente eccessivo. Ma lì lacapsula pesava soltanto una decina di chilogrammi; egli poteva manovrare e farlalibrare per parecchi minuti prima di ridurre in modo allarmante la riserva dipropellente e non avere più alcuna speranza di tornare sulla Discoveryancora in orbita. Ma forse la differenza non sarebbe stata poi molta…

Si trovava ancora a un’altezza di ottomila metri, e andavadirettamente verso l’enorme, scura massa che svettava con così geometricaperfezione sulla pianura uniforme. Era liscia come la piatta e biancasuperficie sottostante; fino a quel momento Bowman non aveva potuto benrendersi conto di quanto fosse enorme in realtà. Sulla Terra esistevano benpochi edifici così grandi; le sue fotografie misurate con cura indicavano un’altezzadi quasi seicento metri. E, a quanto poteva giudicare, le proporzioni eranoidentiche a quelle del AMT-1… con quel curioso rapporto di uno a quattro a nove.

«Mi trovo a soli quattromila ottocento metri didistanza, adesso, e mi mantengo alla quota di milleduecento metri. Ancoranessun indizio di attività… nulla su nessuno degli strumenti. Le superficisembrano assolutamente lisce e levigate. Certo sarebbe logico aspettarsiqualche danno da meteorite, dopo tutto questo tempo!

«E non vi sono detriti sul… presumo che si possadefinirlo tetto. Non vedo neppure alcuna traccia di aperture. Speravo proprioche potesse esservi qualche varco…

«Ora mi trovo proprio sopra l’oggetto, acentocinquanta metri da esso. Non voglio perdere tempo, in quanto la Discoverysarà presto fuori di portata. Sto per atterrare. Il suolo è senza dubbioabbastanza compatto… e se non lo è risalirò immediatamente.

«Un momento… questo è strano…»

La voce di Bowman si spense nel silenzio di unassoluto sbalordimento. Non era allarmato; ma non riusciva a descrivere quelche poteva vedere. Aveva tenuto la capsula sospesa sopra un vasto e piattorettangolo lungo duecentoquaranta metri e largo sessanta metri, fatto di unmateriale che sembrava solido come roccia. Ma adesso esso sembrava indietreggiarerispetto a lui; era esattamente come una di quelle illusioni ottiche in seguitoalle quali un oggetto tridimensionale, grazie a uno sforzo della volontà, puòdare l’impressione di rovesciarsi dall’interno all’esterno con una sostituzionecontinua tra i suoi lati vicini e lontani.

La stessa cosa stava accadendo a quell’enorme e in apparenzacompatta struttura. Per quanto sembrasse impossibile, incredibile, non era piùun monolito svettante su una piatta pianura. Quello che aveva avuto l’aspettodi un tetto era affondato in profondità senza fondo; per un attimo distordimento gli parve di guardare in un pozzo verticale… in un viadottorettangolare che sfidava le leggi della prospettiva, perché le sue dimensioninon diminuivano con la distanza…

L’Occhio di Giapeto aveva ammiccato, come per liberarsida un irritante corpuscolo di polvere. David Bowman ebbe appena il tempo dipronunciare una frase balbettante che gli uomini in attesa al ControlloMissione, lontani millecinquecento quaranta milioni di chilometri e ottantaminuti nel futuro, non dovevano mai dimenticare:

«L’oggetto è vuoto… non finisce mai… e… oh, mio Dio!… èpieno di stelle!»

 

 

 

 

USCITA

 

 

La Porta delle Stelle siaprì. La Porta delle Stelle si chiuse.

In un attimo di tempo troppo breve per poter esseremisurato, lo Spazio si voltò e si rovesciò su se stesso.

Allora Giapeto rimase solo una volta di più, come loera stato per tre milioni di anni… solo, tranne un’astronave deserta, ma nonancora abbandonata, che trasmetteva ai suoi costruttori messaggiincomprensibili, cui essi non potevano credere.

CAPITOLO SESTO
ATTRAVERSO LA PORTA DELLE STELLE

 

 

 

STAZIONE CENTRALE

 

 

Non v’era alcuna sensazione di movimento, eppure stavacadendo verso quelle stelle impossibili che splendevano laggiù, nel cuoreoscuro di una luna. Ma no… non si trovavano realmente là, ne era certo. Siaugurò, adesso che era di gran lunga troppo tardi, di aver prestato maggioreattenzione alle teorie sull’iperspazio, sui condotti transdimensionali. PerDavid Bowman non si trattava più di teorie.

Forse quel monolito su Giapeto era vuoto; forse il «tetto»era soltanto un’illusione, o una sorta di diaframma apertosi per lasciarlopassare. (Ma entro che cosa?) Se poteva credere ai propri sensi, sembrava chestesse precipitando verticalmente entro un enorme pozzo rettangolare, profondoparecchie centinaia di metri. La caduta diventava sempre e sempre più veloce, male dimensioni dell’estremità opposta non mutavano mai e rimanevano sempre allastessa distanza da lui.

Soltanto le stelle si mossero, a tutta prima cosìadagio che solamente dopo qualche tempo egli capì come stessero sfuggendo allastruttura che le conteneva. Di lì a non molto, comunque, apparve ovvio che ilsettore stellato si espandeva, come se egli si stesse avventando verso di essoa una velocità inconcepibile.

L’espansione non era uniforme; le stelle al centrosembravano quasi immobili, mentre quelle periferiche acceleravano, sempre e semprepiù rapide; in ultimo, prima di scomparire del tutto, divennero striature diluce.

Ma altre stelle le sostituivano, scorrendo nel centrodel campo stellato da una fonte in apparenza inesauribile. Bowman si domandòche cosa sarebbe accaduto se una stella fosse venuta direttamente verso di lui;avrebbe continuato a espandersi fino a quando egli si sarebbe tuffato nella superficiedi un sole? Ma nessuna di esse si avvicinava abbastanza per apparirgli come undisco luminoso; prima o poi deviavano tutte, fuggendo come striature di luceoltre gli orli della cornice rettangolare.

E ancora l’estremità opposta del pozzo non siavvicinava. Si sarebbe detto quasi che le sue pareti si stessero muovendo insiemea lui, portandolo verso una ignota destinazione. O forse in realtà egli rimanevaimmobile e lo spazio gli stava passando accanto…

Non soltanto lo spazio, se ne rese conto a un tratto, eracoinvolto in quanto gli stava accadendo adesso. L’orologio, sul piccolopannello degli strumenti della capsula, si stava comportando in modo strano.

Di norma, i numeri nella finestrella dei decimi disecondo, scorrevano così rapidamente che riusciva quasi impossibile leggerli; maadesso essi stavano apparendo e scomparendo a intervalli discreti, e luiriusciva a contarli a uno a uno senza alcuna difficoltà. I secondi, poi, passavanocon una lentezza incredibile, come se il tempo stesso fosse sul punto difermarsi. Infine, il contatore dei decimi di secondo si immobilizzo tra ilcinque e il sei.

Eppure Bowman riusciva ancora a pensare, e persino a osservare,mentre le pareti di ebano gli scorrevano accanto a una velocità che avrebbepotuto avere un valore qualsiasi, tra zero e un milione di volte la velocitàdella luce. In qualche modo, egli non si sentiva minimamente sorpreso, e nemmenoallarmato. All’opposto, provava una sensazione di calma aspettativa, come lavolta in cui i medici spaziali lo avevano assoggettato alla prova dei farmaciallucinogeni. Il mondo circostante era strano e meraviglioso, ma non contenevaalcunché di temibile. Egli aveva percorso quei milioni di chilometri in cercadi un mistero; e adesso, a quanto sembrava, il mistero stava venendo verso dilui.

Il rettangolo che aveva dinanzi stava diventando piùluminoso. Le striature di luce delle stelle impallidivano sullo sfondo di un firmamentolattiginoso, il cui splendore aumentava a ogni momento. Si sarebbe detto che lacapsula fosse diretta verso un banco di nubi illuminato uniformemente dai raggidi un sole invisibile.

Stava uscendo dalla galleria. L’estremità opposta, chefino a quel momento era rimasta alla stessa indeterminata distanza, senzaavvicinarsi e senza allontanarsi, improvvisamente aveva cominciato a ubbidirealle leggi normali della prospettiva. Andava avvicinandosi e si ampliava semprepiù dinanzi a lui. Al contempo, egli sentì che stava spostandosi verso l’alto eper un attimo fuggevole si domandò se non fosse precipitato fino al centro diGiapeto e se non stesse ora salendo verso il lato opposto. Ma ancor prima chela capsula prorompesse all’esterno, si rese conto che quel luogo non avevanulla a che vedere con Giapeto o con ogni altro mondo nell’ambito dell’esperienzadell’uomo.

Non esisteva alcuna atmosfera, poiché poteva scorgereogni particolare non offuscato, limpido e chiaro fino a un orizzonteincredibilmente remoto e piatto. Doveva trovarsi sopra un mondo dalledimensioni enormi… forse molto più grande della Terra. Eppure, nonostante lasua estensione, tutta la superficie che Bowman riusciva a scorgere eratassellata a mosaici ovviamente artificiali che dovevano avere lati dellalunghezza di parecchi chilometri. Era come il gioco di pazienza a incastro diun gigante che si divertisse con i pianeti; e al centro di molti di queiquadrati e triangoli e poligoni si aprivano neri pozzi… gemelli dell’abisso dalquale era appena emerso.

Eppure, il cielo sovrastante era estraneo… e, a suomodo, persino ancor più sconvolgente di quell’improbabile suolo. Poiché non visi scorgevano stelle, e nemmeno le tenebre dello spazio. V’era soltanto unalattiginosità morbidamente luminosa, tale da dare l’impressione d’una distanzainfinita. Bowman ricordò la descrizione che gli era stata fatta un tempo delpaventato «biancore» antartico… «come trovarsi all’interno di una pallina daping-pong». Tali parole potevano applicarsi perfettamente a questo luogoirreale, ma la spiegazione doveva essere del tutto diversa. Quel cielo nonpoteva essere un effetto meteorologico di nebbia e di neve, là esisteva unvuoto perfetto.

Poi, mentre gli occhi di Bowman andavano abituandosial chiarore madreperlaceo che colmava il cielo, egli notò un altro particolare.Quel cielo non era, come aveva creduto a prima vista, completamente vuoto. Inalto lo punteggiavano, del tutto immobili e formando in apparenza disegnicasuali, miriadi di minuscole chiazze nere.

Si stentava a scorgerle, perché erano meri puntioscuri, ma, una volta individuate, rimanevano del tutto inequivocabili. Ricordavanoa Bowman qualcosa… qualcosa di così familiare, e al contempo di così folle, cheegli si rifiutò di accettare l’analogia fino a quando la logica non locostrinse a farlo.

Quei puntini neri nel cielo bianco erano stelle; sisarebbe detto che egli stesse contemplando una negativa fotografica della ViaLattea.

Dove mi trovo, in nome di Dio? si domandò; e nelmomento stesso in cui si poneva l’interrogativo, ebbe la certezza che nonavrebbe mai potuto conoscere la risposta. Sembrava che lo spazio fosse statorovesciato: quello non era posto per un uomo. Sebbene la capsula fossepiacevolmente calda, si sentì a un tratto gelato, e lo assalì un tremito quasiirreprimibile. Avrebbe voluto chiudere gli occhi ed escludere il nulla perlaceoche lo circondava; ma questo era il gesto di un codardo, e si ostinò a noncedere alla tentazione.

Il pianeta traforato e sfaccettato ruotava adagio sottodi lui, senza alcun reale mutamento di scenario. Egli suppose di trovarsi acirca sedicimila metri sopra la superficie; avrebbe dovuto poter scorgerefacilmente ogni indizio di vita. Ma tutto quel mondo era deserto; l’intelligenza,arrivata sin lì, aveva esercitato su di esso la propria volontà, e se n’eraquindi nuovamente allontanata.

Poi egli notò, ingobbito sulla piatta pianura, forse auna trentina di chilometri di distanza, un mucchio grosso modo cilindricodi rottami che poteva essere soltanto la carcassa di un’astronave gigantesca. Distavatroppo da lui perché riuscisse a scorgere qualche particolare, e scomparve in pochisecondi; ciò nonostante, riuscì a scorgere centine spezzate e lamiere metallichedai deboli riflessi, che si erano staccate in parte come la buccia di un’arancia.Si domandò per quante migliaia di anni i rottami fossero rimasti lì, su quellascacchiera deserta… e quali creature avessero navigato tra le stelle.

Poi dimenticò il relitto, perché qualcosa stavaspuntando all’orizzonte.

A tutta prima parve un disco piatto, ma questosoltanto perché stava venendo quasi direttamente verso di lui. Mentre siavvicinava e passava più in basso, egli vide che era a forma di fuso e lungoparecchie decine di metri. Sebbene vi fossero bande appena visibili qua e lànel senso della lunghezza, riusciva difficile mettere a fuoco lo sguardo su diesse; l’oggetto sembrava vibrare, o forse ruotare a una velocità altissima.

Si assottigliava appuntito a entrambe le estremità, e nonsi scorgeva alcuna traccia di propulsione. Soltanto un suo aspetto apparivafamiliare allo sguardo umano, ed era il colore. Se si trattava effettivamentedi una costruzione solida, e non di un fantasma ottico, allora i suoirealizzatori condividevano forse alcune emozioni degli uomini. Ma senza dubbionon ne condividevano le limitazioni, poiché il fuso sembrava essere fatto d’oro.

Bowman voltò la testa verso l’apparecchio diosservazione posteriore, per vedere l’oggetto dietro di sé. Esso pareva ignorarlocompletamente, e ora egli notò che stava scendendo dal cielo verso una diquelle migliaia di grandi aperture. Pochi secondi dopo scomparve in un ultimofulgore d’oro mentre si immergeva nel pianeta. Bowman si trovava nuovamentesolo, sotto quel cielo sinistro, e la sensazione di isolamento e di estremalontananza divenne più schiacciante che mai.

Vide poi che anch’egli stava scendendo verso lasuperficie screziata di quel mondo gigantesco, e che un altro degli abissirettangolari sbadigliava proprio sotto di lui. Il cielo vuoto si chiuse in alto,l’orologio rallentò e tornò a fermarsi e, una volta di più, ecco che la capsulastava precipitando tra pareti di ebano senza fine, verso un altro remotograppolo di stelle. Ma ora egli ebbe la certezza che non stava tornando versoil sistema solare e, in un lampo di intuizione che sarebbe potuto essere deltutto spurio, capì che cosa doveva essere senza dubbio quel mondo misterioso.

Era una sorta di congegno di scambio cosmico, cheistradava il traffico delle stelle attraverso dimensioni inimmaginabili dispazio e di tempo. Stava passando attraverso una Stazione Centrale dellagalassia.

 

IL CIELO ESTRANEO

 

 

Molto più avanti, le pareti del pozzo stavanodivenendo una volta di più vagamente visibili, nella luce fioca che sidiffondeva verso il basso da una sorgente luminosa ancora nascosta. E poi l’oscuritàvenne bruscamente eliminata, mentre la minuscola capsula veniva scaraventata inalto in un cielo fulgido di stelle.

Era tornato nello spazio come lui lo conosceva, ma glibastò un’occhiata per capire che si trovava a secoli di luce dalla Terra. Nontentò neppure di individuare una qualsiasi delle costellazioni familiari chesin dagli albori della storia erano state amiche dell’uomo; forse nessuna dellestelle che ora gli splendevano intorno era mai stata vista dall’occhio umanoprivo di strumenti.

Si trovavano quasi tutte concentrate in una fascialuminosa, interrotta qua e là da scure bande di polvere cosmica, che circondavacompletamente il firmamento. Era come la Via Lattea, ma decine di volte piùluminosa; Bowman si domandò se questa non fosse in effetti la sua stessagalassia, veduta da un punto molto più vicino al centro brillante e gremito.

Sperò che fosse così; in tal caso non si sarebbetrovato troppo lontano dalla Terra. Ma questa, se ne rese conto immediatamente,era una riflessione infantile. Distava di una lontananza talmente inconcepibiledal sistema solare, che importava ben poco se si trovava nella sua galassia o nellagalassia più remota mai intravista da qualsiasi telescopio.

Si guardò indietro per vedere l’oggetto dal qualestava salendo e provò un altro choc. Là non v’era alcun mondo gigantesco e multisfaccettato, né alcun duplicato di Giapeto. Non v’era nulla… tranne un’ombracolor inchiostro contro le stelle, simile a una soglia che da una camera buiasi aprisse su una notte ancor più buia. Nel momento stesso in cui guardava, quelvarco si chiuse. Non si allontanò da lui; si colmò adagio di stelle, come seuna lacerazione nel tessuto dello spazio fosse stata rammendata. Poi eglirimase solo sotto il cielo estraneo.

La capsula stava ruotando adagio, consentendogli cosìdi ammirare nuove meraviglie. Anzitutto vide uno sciame di stelle perfettamentesferico, che diveniva sempre e sempre più gremito verso il centro, fino a essereun ininterrotto bagliore di luce. I suoi margini esterni erano mal definiti… unalone di soli che gradualmente si diradava fino a fondersi impercettibilmentecon lo sfondo di stelle più lontane.

Questa apparizione maestosa, Bowman lo sapeva, era unammasso globulare. Egli stava contemplando qualcosa che nessuno sguardo umanoaveva mai veduto, tranne che come una chiazza luminosa nel campo dei telescopi.Non riusciva a ricordare la distanza tra la Terra e il più vicino ammassostellare conosciuto, ma era certo che non ve ne fosse alcuno entro un migliaiodi anni-luce dal sistema solare.

La capsula continuò la sua lenta rotazione e rivelòuno spettacolo ancor più strano… un enorme sole rosso, molte volte più grandedella Luna come è veduta dalla Terra. Bowman riuscì a fissarlo senza provarealcun fastidio; a giudicare dal colore, non doveva essere più caldo di uncarbone ardente. Qua e là, nel rosso cupo, si scorgevano fiumi di un giallobrillante… Rii delle Amazzoni incandescenti, che seguivano corsi tortuosi per migliaiadi chilometri prima di perdersi nei deserti di quel sole morente.

Morente? No… questa era un’impressione completamentefalsa, suggerita dall’esperienza umana e dagli stati d’animo dovuti ai coloridel tramonto o alla luminosità delle braci languenti. Si trattava invece di unastella che si era lasciata indietro le focose stravaganze della gioventù, passandoper l’intera gamma dei viola, dei blu e dei verdi dello spettro in pochifuggevoli miliardi di anni, e adagiandosi poi in una pacifica maturità dalladurata inimmaginabile. Tutto ciò ch’era accaduto prima non rappresentavanemmeno un millesimo di quanto doveva ancora accadere; la storia di quel solepoteva dirsi appena cominciata.

La capsula aveva smesso di ruotare; il grande solerosso si trovava proprio dinanzi a essa. Sebbene non vi fosse alcuna sensazionedi movimento, Bowman sapeva di trovarsi ancora nella morsa delle forzeimperiose, e misteriose, dalle quali era stato portato sin lì da Saturno. Tuttala scienza e le capacità costruttive terrestri sembravano disperatamenteprimitive, adesso, in confronto alle forze che lo stavano conducendo verso undestino inimmaginabile.

Fissò il cielo dinanzi a sé, cercando di scorgere lamèta verso la quale stava andando… forse un pianeta che girava intorno algrande sole. Ma non si vedeva alcunché che mostrasse un disco percettibile o unaluminosità eccezionale; se esistevano pianeti, laggiù, non li distingueva dallosfondo stellato.

Poi notò che qualcosa di strano stava accadendo sull’orlostesso del disco cremisi del Sole. Un bagliore bianco vi era apparso e la sualuminosità andava aumentando rapidamente; si domandò se stesse assistendo a unadi quelle improvvise eruzioni, o brillamenti, che sconvolgono di quando inquando quasi tutte le stelle.

La luce divenne più vivida e più azzurra; incominciò adiffondersi lungo l’orlo del Sole, le cui sfumature rosso-sangue impallidironoben presto al confronto. Sembrava quasi, si disse Bowman, sorridendo dell’assurditàdi quella riflessione, di assistere al levar del sole… su un sole.

Ed era così, effettivamente. Sopra l’orizzonte ardentesi sollevò qualcosa che non sembrava più grande di una stella, ma la cuiluminosità era tale che gli occhi non sopportavano di guardarla. Un mero puntodi radiosità blu-bianca, simile a un arco elettrico, si stava spostando aincredibile velocità sulla superficie del grande astro. Doveva esserevicinissimo al gigantesco compagno, poiché immediatamente sotto a esso, attrattain alto dalla sua forza gravitazionale, si sollevava una colonna di fiamme altamigliaia di chilometri. Si sarebbe detto che una onda di marea infuocata stessemarciando per l’eternità lungo l’equatore di quella stella, nel vanoinseguimento della fulminea apparizione sul suo cielo.

Quella capocchia di spillo di incandescenza dovevaessere una Nana Bianca… una di quelle strane e ardenti piccole stelle, non piùgrandi della Terra, ma contenenti un milione di volte la sua massa. Simili maleaccoppiati binomi stellari non erano rari; ma Bowman non aveva mai sognato di poterneun giorno vedere uno con i suoi stessi occhi.

La Nana Bianca aveva girato intorno a quasi la metàdel disco della sua compagna (doveva impiegare soltanto alcuni minuti perpercorrere un’orbita completa) quando Bowman ebbe infine la certezza che anchela capsula si stava muovendo. Dinanzi a lui, una delle stelle stava diventandorapidamente più luminosa, e incominciava a spostarsi contro lo sfondo. Dovevaessere un corpo celeste piccolo e vicino… forse il mondo verso il quale stavaviaggiando.

Gli fu addosso con inaspettata velocità; ed egliconstatò che non si trattava affatto di un mondo.

Una ragnatela, o un traliccio di metallo, cheluccicava debolmente, e aveva una lunghezza di centinaia di chilometri, apparvecome dal nulla, ingrandendosi fino a colmare il cielo. Sparse sulla suasuperficie vasta come un continente v’erano strutture che dovevano esseregrandi come città, ma che avevano l’aspetto di macchine. Intorno a molte diesse erano riuniti a decine e decine oggetti più piccoli, disposti in file e incolonne ordinate. Bowman era passato accanto a parecchi di questi gruppi primadi rendersi conto che si trattava di flottiglie di astronavi; stava sorvolandoun gigantesco parcheggio orbitale.

Poiché non esistevano oggetti familiari in base aiquali poter valutare le dimensioni della scena che saettava via più in basso, eraquasi impossibile giudicare le dimensioni delle navi spaziali sospese là nelvuoto. Ma sembravano senz’altro enormi; alcune di esse dovevano avere unalunghezza di chilometri. Erano di molte forme diverse… sfere, cristallisfaccettati, esili fusi, ovoidi, dischi. Quello doveva essere uno dei punti diincontro per il commercio delle stelle.

Oppure lo era stato… forse un milione di anniprima. Poiché in nessun luogo Bowman riusciva a scorgere alcun indizio diattività; quello sconfinato spazioporto era morto come la Luna.

Se ne rese conto non soltanto dall’assenza di ognimovimento, ma da segni inequivocabili, come grandi squarci aperti nellaragnatela metallica dal cozzare, simile a vespe, di asteroidi che dovevanoaverla sfondata in ere lontane del passato. Quello non era più un parcheggiospaziale: era un cosmico mucchio di rottami.

Aveva mancato di epoche l’incontro con i costruttori e,rendendosene conto, Bowman provò una improvvisa stretta al cuore. Sebbene nonavesse saputo che cosa aspettarsi, aveva almeno sperato di incontrare qualcheforma di intelligenza proveniente dalle stelle. Ora, a quanto pareva, eratroppo in ritardo. Lo aveva catturato un’antica e automatica trappola, predispostaper uno scopo ignoto, e ancora funzionante dopo che i suoi realizzatori eranoscomparsi da molto tempo. Essa lo aveva trascinato attraverso la galassia e abbandonatoli (insieme a quanti altri?) in quel Mare dei Sargassi celeste, condannato amorire ben presto, non appena la sua riserva d’aria si fosse esaurita.

Bene, sarebbe stato irragionevole aspettarsi di più. Avevagià visto meraviglie per assistere alle quali molti uomini avrebberosacrificato la vita. Pensò ai suoi compagni morti; non aveva motivo di lagnarsi.

Poi vide che lo spazioporto abbandonato continuava ascivolargli accanto con non diminuita velocità. Ne stava sorvolando laperiferia marginale; il suo orlo lacerato passò e non eclissò oltre, parzialmente,le stelle. Pochi minuti ancora, ed era rimasto indietro.

Il suo destino non si trovava lì… ma molto più avanti,nell’enorme sole rosso verso il quale la capsula stava ora inequivocabilmentedirigendosi e cadendo.

 

INFERNO

 

 

Adesso esisteva soltanto il rosso sole che colmava ilcielo da un’estremità all’altra. Così vicino che la sua superficie non era piùfermata nell’immobilità dalla pura scala delle proporzioni. Si vedevano noduliluminosi spostarsi avanti e indietro, cicloni di gas ascendenti e discendenti, prominenzeche lentamente si proiettavano verso il cielo. Lentamente? Dovevano sollevarsia milioni di chilometri l’ora perché i loro movimenti gli riuscisseropercettibili…

Non tentò nemmeno di rendersi conto delle dimensionidell’inferno verso il quale stava discendendo. Le immensità di Saturno e diGiove lo avevano sconfitto durante il passaggio della Discovery in quelsistema solare ormai separato da lui da una distanza ignota e sconfinata. Matutto quello che vedeva adesso era cento volte più grande; non poteva farealtro che accettare le immagini dalle quali la sua mente era inondata, senzainterpretarle.

Mentre quel mare di fuoco si espandeva sotto di lui, Bowmanavrebbe dovuto sentirsi atterrito… e invece, per quanto fosse strano, provavasoltanto una blanda apprensione. Non che la sua mente fosse stordita da similimeraviglie; la logica gli diceva che doveva trovarsi senza dubbio sotto laprotezione di una intelligenza dominante e quasi onnipotente. Si trovava ormaicosì vicino al sole rosso che sarebbe bruciato in un attimo se la radiazionedell’astro non fosse stata tenuta a bada da qualche schermo invisibile. Edurante il viaggio era stato assoggettato ad accelerazioni che lo avrebberoschiacciato all’istante… eppure non aveva sentito nulla. Se ci si era data tantapena per salvarlo, poteva ancora sperare.

La capsula stava seguendo adesso un dolce arco quasiparallelo alla superficie della stella, ma che lentamente si abbassava verso diessa. E ora, per la prima volta, Bowman incominciò a percepire rumori. Si udivaun rombo debole e continuo, nel quale si inserivano di quando in quando crepitiicome di carta lacerata o di fulmini lontani. Questa poteva essere soltanto l’ecodebolissima di una cacofonia inimmaginabile; l’atmosfera che lo circondavadoveva essere percorsa da vibrazioni tali da disintegrare in atomi qualsiasioggetto materiale. Eppure era protetto da quel tumulto stritolatoreefficacemente come dall’altissima temperatura.

Sebbene cortine di fiamme alte migliaia di chilometrisi stessero sollevando e riabbassando adagio intorno a lui, egli eracompletamente isolato da tutta questa violenza. Le energie della stella gliinfuriavano accanto come se si fossero trovate in un altro universo; la capsulasi spostava tranquillamente in mezzo a esse senza sobbalzi e senza esseretoccata dal calore.

Gli occhi di Bowman, non più disperatamente confusidalla novità e dalla grandiosità della scena, incominciarono a scorgereparticolari che dovevano essere stati presenti anche prima, ma che ancora eglinon era riuscito a percepire. La superficie di quella stella non era un caosinforme; anche là regnava un ordine, come in tutto ciò che la natura avevacreato.

Notò anzitutto i piccoli vortici di gas, probabilmentenon più grandi dell’Asia o dell’Africa, che si spostavano sulla superficie dell’astro.A volte riusciva a guardare direttamente in uno di essi e a scorgere zone piùscure e più fredde molto in basso. Strano a dirsi, sembravano non esservi macchiesolari; forse le macchie erano una malattia tipica della stella che splendevasulla Terra.

E v’erano di quando in quando nubi, simili a fili difumo spazzati via dinanzi a una tempesta. Forse si trattava effettivamente difumo, poiché quel sole era così freddo che poteva esistervi vero fuoco. Compostichimici potevano formarvisi e resistere per alcuni secondi prima di esserenuovamente disintegrati dalla più ardente violenza nucleare che li circondava.

L’orizzonte stava diventando più luminoso, il suocolore passava dal rosso scuro al giallo, al blu, e a un viola acceso. La NanaBianca stava salendo all’orizzonte e trascinava dietro di sé l’onda di mareaformata di sostanza solare.

Bowman si fece schermo agli occhi per ripararli dal baglioreintollerabile del piccolo sole e osservò la sconvolta superficie della stellache il campo gravitazionale della Nana Bianca stava risucchiando verso il cielo.Una volta aveva visto una tromba marina spostarsi sulla superficie del Mar deiCaraibi; questa torre di fiamma aveva pressappoco la stessa forma. Soltanto chele proporzioni erano leggermente diverse in quanto, alla sua base, la colonnaera probabilmente più larga del pianeta Terra.

E poi, immediatamente sotto di sé, Bowman notòqualcosa che era senza dubbio nuovo, in quanto difficilmente avrebbe potuto nonscorgerlo se fosse già stato lì. In movimento sull’oceano di gas luminoso v’eranomiriadi di perle lucenti; splendevano di una luce madreperlacea che aumentava esvaniva in un periodo di pochi secondi. E andavano tutte nella stessa direzione,come salmoni che risalgano un fiume; a volte si spostavano avanti e indietro, inmodo da intersecare le loro traiettorie, ma senza toccarsi mai.

Ve n’erano a migliaia, e quanto più a lungo Bowman lefissava, tanto più si persuadeva che i loro movimenti dovevano essereintenzionali. Si trovavano troppo lontane da lui per consentirgli di scorgereun particolare qualsiasi della loro struttura; il fatto che riuscisse anchesoltanto a scorgerle in quel panorama colossale significava che dovevano avereun diametro di decine e forse di centinaia di chilometri. Se si trattava dientità organizzate, erano invero leviatani, creati sulla stessa scala del mondoche abitavano.

Forse potevano essere soltanto nubi di plasma, aventiuna stabilità temporanea grazie a qualche combinazione bizzarra di forze naturali…come le sfere a breve durata del fulmine globulare, che ancora lasciavainterdetti gli scienziati terrestri. Era questa una spiegazione semplice, e forsetranquillizzante; ma Bowman, contemplando quel fluire di dimensioni stellari, nonriuscì a credervi realmente. Gli splendenti noduli di luce sapevanodovestavano andando; volutamente convergevano verso il pilastro di fuoco sollevatodalla Nana Bianca in orbita sopra di loro.

Bowman fissò ancora una volta quella colonnaascendente, che ora marciava lungo l’orizzonte, sotto la minuscola e massicciastella dalla quale era comandata. Poteva mai essere pura immaginazione… oppurev’erano davvero chiazze di più vivida luminosità che si inerpicavano su perquell’immenso geyser di gas, come se miriadi di scintille splendenti si fosserounite formando interi continenti di fosforescenza?

L’idea era quasi di là dalla fantasia, ma forse eglistava assistendo, nientemeno, a una migrazione da stella a stella, attraversoun ponte di fuoco. Probabilmente, non avrebbe mai potuto sapere se si trattassedi un movimento di bestie cosmiche prive di intelligenza, guidate nello spazioda qualche cieco impulso simile a quello dei topi artici, o di una vastariunione di entità intelligenti.

Si stava muovendo in un nuovo ordine della creazione, chepochi uomini avevano mai sognato. Di là dai regni del mare e della terra, dell’ariae dello spazio, si stendevano i regni del fuoco, e a lui solo era toccato ilprivilegio di intravederli. Sarebbe stato troppo aspettarsi che potesse anchecapirli.

 

ACCOGLIENZA

 

 

Il pilastro di fuoco si stava spostando oltre l’orlodel Sole, come una tempesta che scompare oltre l’orizzonte. I rapidi punti luminosinon si muovevano più sullo sfondo dell’ardente e rosso paesaggio stellare, ancoramigliaia di chilometri più in basso. All’interno della sua capsula, protetto daun ambiente che avrebbe potuto annientarlo in un millisecondo, David Bowmanaspettava qualsiasi cosa gli fosse stata preparata.

La Nana Bianca si abbassava rapidamente verso l’orizzonte,seguendo velocissima la sua orbita; pochi attimi dopo lo toccò, lo incendiò e scomparve.Un falso crepuscolo discese sull’inferno sottostante e, nell’improvviso cambiamentodi luce, Bowman si accorse che qualcosa stava accadendo nello spazio intorno alui.

Il mondo del sole rosso parve incresparsi, come seegli lo avesse guardato attraverso acqua corrente. Per un momento si domandò senon si trattasse di un effetto di rifrazione, causato forse dal passaggio di un’ondad’urto insolitamente violenta attraverso l’atmosfera tormentata nella quale eraimmerso.

La luce stava dileguando; si sarebbe detto che stesseper scendere un secondo crepuscolo. Involontariamente, Bowman guardò in alto, poi,sonnacchiosamente, corresse se stesso ricordando che lì la principale sorgentedi luce non era il cielo, ma il mondo fiammeggiante sotto di lui.

Parve che le pareti di qualche materiale simile avetro affumicato si stessero ispessendo intorno a lui, escludendo il rossobagliore e oscurando lo scenario, che divenne sempre e sempre più buio; ancheil rombo sommesso degli uragani solari si attenuò. La capsula galleggiava nelsilenzio e nella notte. Un momento dopo vi fu il più sommesso dei tonfi, mentresi posava su una superficie dura e si fermava.

Su che cosa si era fermata? si domandò Bowman, incredulo.Poi la luce tornò; e l’incredulità cedette il posto a una disperazione che glistrinse il cuore… poiché, vedendo quanto lo circondava, si rese conto chedoveva essere impazzito.

Era preparato, si disse, a qualsiasi prodigio. La solacosa che non si sarebbe mai aspettato era la più assoluta banalità.

La capsula poggiava sul pavimento lucidato di unelegante e anonimo appartamento d’albergo che si sarebbe potuto trovare inqualsiasi grande città della Terra. Egli stava contemplando un soggiorno nelquale si trovavano un tavolino da caffè, un divano, una dozzina di sedie, unoscrittoio, varie lampade, una libreria riempita a mezzo di volumi, con alcuneriviste posate su di essa, e persino un vaso di fiori. A una parete figurava Ilponte di Arles, di van Gogh; a un’altra Il mondo di Cristina, diVyeth. Egli fu certo che, aprendo il cassetto di quella scrivania, vi avrebbetrovato una Bibbia…

Se davvero era pazzo, le sue allucinazioni sembravanomirabilmente organizzate. Tutto era assolutamente reale, e nulla scomparivaquando voltava le spalle. Il solo oggetto assurdo in quello scenario, e senz’altrovistosissimo, era la capsula.

Per molti minuti, Bowman non si mosse dal sedile. Siera quasi aspettato che la visione intorno a lui scomparisse; invece continuò arestare concreta come tutto ciò che aveva visto in vita sua.

Era davvero reale… oppure si trattava di un fantasmadei sensi evocato così superbamente che non esisteva il modo di distinguerlodalla realtà. Forse si trattava di una specie di esperimento; in tal caso, nonsoltanto il suo destino, ma anche quello del genere umano potevano benissimo dipendereda come egli avrebbe reagito nei prossimi minuti.

Avrebbe potuto rimanere seduto dov’era e aspettare chequalcosa accadesse, oppure gli sarebbe stato possibile aprire la capsula e uscirneper accertare se la scena dalla quale era circondato fosse reale. Il pavimentosembrava essere solido; per lo meno, stava sopportando il peso della capsula. Nonera probabile che lui vi affondasse… di qualunque cosa potesse trattarsi.

Ma rimaneva pur sempre l’interrogativo dell’aria; perquanto ne sapeva lui, quella stanza poteva trovarsi nel vuoto, o contenere un’atmosferavelenosa. Gli parve molto improbabile: nessuno si sarebbe dato tanta pena senzaprovvedere a un particolare così essenziale; ma non intendeva esporsi a rischiinutili. In ogni caso, gli anni di addestramento lo rendevano diffidente dellacontaminazione; era riluttante a esporsi a un pericolo ignoto, fino a quandonon fosse stato certo che non rimanevano altre alternative. Quel luogo sembravauna camera d’albergo in qualche località degli Stati Uniti. Ma ciò nonmodificava il fatto che, in realtà, egli doveva trovarsi a centinaia dianni-luce dal sistema solare.

Chiuse il casco della tuta, sigillandovisi dentro, quindiazionò l’apertura automatica del portello della capsula. Si udì il sibilo brevedell’equalizzazione della pressione; poi egli uscì nella stanza.

A quanto poteva capire, si trovava in un normalissimocampo di gravità. Alzò un braccio, poi lo lasciò cadere liberamente. Andò aurtare contro il suo fianco in meno di un secondo.

Ciò fece sì che tutto sembrasse doppiamente irreale. Indossavauna tuta spaziale ed era in piedi, mentre avrebbe dovuto funzionare a doveresoltanto in assenza di gravità. Tutti i suoi normali riflessi di astronautaerano sconvolti; doveva riflettere prima di compiere qualsiasi movimento.

Simile a un uomo in stato di trance, avanzò adagiodalla metà della stanza nuda e non arredata in cui si trovava, all’altra metà. Nonscomparve, come si era quasi aspettato, mentre si avvicinava, ma rimanevaperfettamente reale… e in apparenza del tutto solida.

Si fermò accanto al tavolino da caffè. Su di esso sitrovava un normale videotelefono sistema Bell, con tanto di elenco telefonicolocale. Si chinò e prese il volume con le goffe mani guantate.

Nei caratteri familiari che aveva veduto migliaia divolte lesse il nome WASHINGTON D.C.

Esaminò allora l’elenco più da vicino; e, per la primavolta, ebbe la prova obiettiva del fatto che, anche se tutto ciò poteva esserereale, non si trovava sulla Terra.

Riusciva a leggere soltanto la parola Washington;il rimanente testo a stampa era offuscato, come se fosse stato copiato dallafotografia oli un giornale. Aprì l’elenco a caso e ne sfogliò le pagine. Eranotutti fogli bianchi di una sostanza lievemente increspata e biancastra chesenza dubbio non era carta, anche se le somigliava moltissimo. Alzò ilricevitore del telefono e lo premette contro la plastica del casco. Se vi fossestato il segnale di linea libera, avrebbe potuto udirlo attraverso il materialeconduttore. Ma, come si era aspettato, udì soltanto il silenzio.

Sicché… era tutta una finzione, anche sefantasticamente accurata. E ovviamente non aveva lo scopo di ingannarlo, ma piuttosto,o almeno lo sperò, di rassicurarlo. Era questa una riflessione molto consolante;ciò nonostante, non si sarebbe tolto la tuta fino a quando non avessecompletato l’esplorazione.

Tutti i mobili sembravano abbastanza robusti e solidi;provò le sedie e sostennero il suo peso. Ma i cassetti dello scrittoio nonvollero aprirsi; erano finti.

Finti erano inoltre i libri e le riviste; come nelcaso dell’elenco telefonico, si potevano leggere soltanto i titoli. Quei volumiformavano una strana biblioteca… si trattava, quasi soltanto, di best-sellerpiuttosto insignificanti, con alcuni testi di divulgazione sensazionali, e alcuneautobiografie cui era stata fatta molta pubblicità. Tutti quei libri risalivanoad almeno tre anni prima e avevano un ben scarso contenuto intellettuale. Nonche la cosa importasse, perché non potevano nemmeno essere tolti dagli scaffali.

V’erano due porte che si aprirono abbastanza facilmente.La prima lo condusse in una piccola, ma comoda camera da letto, con unoscrittoio, due sedie, interruttori della luce che funzionavano effettivamente eun armadio per i vestiti. Bowman aprì quest’ultimo e vide quattro abiti, unaveste da camera, una dozzina di camicie bianche e parecchi capi di biancheria, iltutto appeso in bell’ordine alle grucce.

Prese uno dei vestiti e lo osservò attentamente. Aquanto poté giudicare con le mani guantate, era fatto di una stoffa più similea pelliccia che a lana; era inoltre un po’ fuori moda; sulla Terra, da almenoquattro anni, nessuno aveva più indossato giacche a un solo petto.

Adiacente alla camera da letto si trovava un bagno alcompleto di impianti igienici che, lo constatò con sollievo, non erano finti, mafunzionavano in modo normalissimo. E dopo il bagno veniva un cucinino, con fornellielettrici, frigorifero, mensole, vasellame e posate, acquaio, tavolo e sedie. Bowmanincominciò a esplorare tutto ciò non soltanto con curiosità, ma anche con uncrescente appetito.

Dapprima aprì il frigorifero e ne uscì un’ondata digelida nebbia. I ripiani erano pieni zeppi di scatole di cartone e di barattoli,tutti assolutamente familiari da una certa distanza, anche se da vicino leetichette risultavano offuscate e illeggibili. In ogni modo, appariva ovvia l’assenzadi uova, latte, burro, carne, frutta, o di ogni altro genere commestibile nonlavorato; il frigorifero conteneva soltanto viveri conservati.

Bowman prese la scatola di cartone di una nota marcadi cereali e pensò intanto che era strano tenerla in frigorifero. Non appenasollevò la scatola, seppe con certezza che non conteneva fiocchi di granoturco;era di gran lunga troppo pesante.

Aprì il coperchio ed esaminò il contenuto. Nellascatola si trovava una sostanza blu lievemente umida, che aveva pressappoco lostesso peso e lo stesso aspetto del pudding di pane. A parte il colore bizzarro,sembrava molto appetitosa.

Ma questo è ridicolo, pensò Bowman. Mi sorveglianoquasi certamente, e devo sembrare un idiota con questa tuta spaziale. Se sitratta di una sorta di test dell’intelligenza, probabilmente ho già fattofiasco. Senza più esitare, tornò nella camera da letto e incominciò adallentare la chiusura del casco. Poi sollevò il casco di una frazione dicentimetro, spezzò il sigillo e fiutò con cautela. A quanto poteva capire, stavarespirando aria perfettamente normale.

Lasciò cadere il casco sul letto e incominciò consollievo, ma alquanto rigidamente, a togliersi la tuta. Quando ebbe finito, sistiracchiò, trasse alcuni profondi respiri e, con cautela, appese la tutaspaziale tra gli indumenti più convenzionali nell’armadio. Aveva un aspettoalquanto bizzarro là dentro, ma il senso dell’ordine che Bowman condivideva contutti gli astronauti non gli avrebbe mai consentito di metterla altrove.

Tornò poi rapidamente in cucina e incominciò a esaminaremeglio la scatola di «cereali». Il pudding di pane azzurro aveva un lieve odorearomatico, alquanto simile a quello di un amaretto. Bowman lo soppesò nellamano, poi ne staccò un pezzo e prudentemente lo fiutò. Sebbene fosse ormaicerto che non sarebbe stato fatto alcun tentativo deliberato di avvelenarlo, sussistevapur sempre la possibilità di errori… specie in un campo complicato come quellodella biochimica.

Rosicchiò alcune briciole, poi masticò e inghiottì ilpezzo di cibo; era eccellente, sebbene avesse un sapore così elusivo da esserequasi indescrivibile. Chiudendo gli occhi, poteva immaginare che fosse carne, opane integrale, o anche frutta fresca. A meno che non vi fossero stati effettiritardati e imprevisti, non c’era da temere la morte per inedia.

Dopo aver inghiottito pochi altri bocconi dellasostanza, sentendosi già completamente sazio, cercò qualcosa da bere. V’era unamezza dozzina di barattoli di birra, anche quelli di una marca notissima, infondo al frigorifero, ed egli premette la linguetta di uno di essi per aprirlo.

Il coperchio metallico cedette lungo le lineeprestabilite, esattamente come il solito; ma il barattolo non conteneva birra. Constupore e delusione di Bowman conteneva anch’esso il cibo azzurro.

In pochi secondi egli aveva aperto una mezza dozzinadi altre scatole e di altri barattoli. Comunque fossero le etichette, il contenutoera sempre identico; sembrava che la sua dieta sarebbe stata un po’ monotona, eche avrebbe dovuto limitarsi a bere acqua. Riempì un bicchiere al rubinettodella cucina e sorseggiò con cautela.

Sputò subito le prime poche gocce; il sapore eraterribile. Poi, vergognandosi alquanto della propria reazione istintiva, si costrinsea bere il resto.

Il primo sorso gli era bastato a riconoscere illiquido. Era pessimo perché non aveva alcun sapore; dal rubinetto usciva acquapura e distillata. Gli ignoti anfitrioni dai quali era ospitato non intendevanoovviamente correre rischi per quanto concerneva la sua salute.

Sentendosi molto rinfrescato, fece alla svelta ladoccia. Non c’era sapone, un’altra piccola scomodità, ma esisteva un efficientissimoasciugatore ad aria calda nel cui soffio si crogiolò per qualche tempo prima diprovarsi la biancheria e la vestaglia tolte dall’armadio. In seguito si distesesul letto, fissò il soffitto e si sforzò di capire qualcosa in quella situazionefantastica.

Aveva progredito ben poco, quando fu distratto da unnuovo corso di pensieri. Immediatamente sopra il letto si trovava il solitoschermo televisivo tipo-albergo, applicato al soffitto; egli aveva presunto chefosse finto, come il telefono e i libri.

Ma il quadro di comando sul braccio girevole accantoal letto sembrava così realistico, che non seppe resistere alla tentazione ditrastullarsi con esso; e quando sfiorò con le dita il disco sensorio ACCESO, loschermo si illuminò. Febbrilmente incominciò a fare scattare a caso ilselettore dei canali e quasi subito ottenne la prima immagine.

Era un noto commentatore africano che parlava dei tentativicompiuti per preservare gli ultimi residui della fauna nel suo paese. Bowmanascoltò per qualche secondo, così affascinato dal suono di una voce umana, danon curarsi minimamente di quanto l’uomo stava dicendo. Poi cambiò canale.

Nei cinque minuti che seguirono passò da un’orchestrasinfonica che suonava il Concerto per violino di Walton, a una discussionesulle tristi condizioni del teatro, a un western, a una dimostrazione sullanuova terapia contro il mal di capo, a un gioco di gruppo in qualche linguaorientale, a un dramma psicologico, a tre diversi telegiornali, a una partitadi calcio, a una conferenza sulla geometria solida (in russo), a numerosi monoscopi.Si trattava, in effetti, di una scelta perfettamente normale tra i programmitelevisivi normali e, a parte il conforto psicologico che gli diede, confermòun sospetto già formatosi nella sua mente.

Tutti i programmi risalivano a circa due anni prima. Pressappocoal periodo, cioè, in cui era stato scoperto il AMT-1, e si stentava a credereche si trattasse di una pura coincidenza. Qualcosa aveva sorvegliato le onderadio; quel blocco di ebano si era dato molto più da fare di quanto gli uominiavessero sospettato.

Continuò a passare da un programma all’altro, e a untratto riconobbe una scena familiare. Ecco il suo stesso appartamento, sulloschermo televisivo occupato da un celebre attore intento a scagliarsifuriosamente contro un’amante infedele. Bowman contemplò e riconobbe trasalendoil soggiorno dal quale era appena uscito… e quando la telecamera seguì la coppiaindignata verso la camera da letto, involontariamente guardò nella direzionedella porta per vedere se qualcuno stesse entrando.

Sicché, così avevano preparato per lui il luogo in cuiera stato accolto; i suoi anfitrioni avevano basato le loro idee in merito allavita dei terrestri sui programmi televisivi. La sua sensazione di trovarsi inuno scenario cinematografico aveva corrisposto quasi letteralmente al vero.

Per il momento aveva saputo tutto ciò che gli premeva,e spense il televisore. Che cosa faccio adesso? si domandò, intrecciando ledita dietro la nuca e fissando lo schermo spento.

Era fisicamente ed emotivamente esausto, eppure gli sembravaimpossibile che si potesse dormire in un ambiente così fantastico, e piùlontano dalla Terra di quanto si fosse mai spinto ogni altro uomo nella storia.Ma il comodo letto e la saggezza istintiva dell’organismo vinsero la sua volontà.

Cercò annaspando l’interruttore della luce e la stanzapiombò nell’oscurità. Pochi secondi dopo egli era affondato di là dalla portatadei sogni.

E così, per l’ultima volta, David Bowman dormì.

 

RICAPITOLAZIONE

 

 

Poiché non avevano più alcuno scopo, i mobili dell’appartamentotornarono a dissolversi nella mente del loro creatore. Soltanto il letto rimase…insieme alle pareti che proteggevano quel fragile organismo dalle energie nonancora assoggettate al suo controllo.

Nel sonno, David Bowman si mosse irrequieto. Non sidestò, e non sognò, ma non era più del tutto inconscio. Simile alla nebbiainsinuantesi in una foresta, qualcosa gli invase la mente. La sentì soltantovagamente, perché se l’avesse percepita nella sua interezza la cosa lo avrebbedistrutto immancabilmente come i fuochi che infuriavano dietro quelle pareti. Sottopostoallo spassionato scrutinio, egli non provò né speranza né timore; ogni stato d’animoera eliminato.

Gli sembrava di galleggiare nello spazio vuoto, mentreintorno a lui si stendeva, in tutte le direzioni, un’infinita griglia geometricadi scure linee, o di scuri fili, sulla quale si muovevano minuscoli noduli diluce… alcuni adagio, altri a velocità fantastiche. Una volta egli avevaosservato al microscopio una sezione trasversale di cervello umano, e nella retedi fibre nervosa aveva intravisto la stessa labirintica complessità. Ma quelcervello era morto e statico, mentre questo trascendeva la vita stessa. Bowmansapeva, o credeva di sapere, di assistere al funzionamento di una mentegigantesca intenta a contemplare l’universo del quale egli era una così minimaparte.

La visione, o allucinazione, si protrasse soltanto perun momento. Poi i piani e i tralicci cristallini e le prospettive intersecantisidi luci in movimento baluginarono e cessarono di esistere, mentre David Bowmansi trasferiva in un campo della coscienza che nessun altro uomo aveva mai sperimentatoprima di allora.

Inizialmente, parve che il Tempo stesso scorresse all’indietro.Anche questa meraviglia egli si accinse ad accettare, prima di essersi resoconto della più sottile verità.

Le molle della memoria venivano manipolate; con unricordo controllato, egli stava rivivendo il passato. Ecco l’appartamento d’albergo…ecco la capsula… ecco la superficie in fiamme del sole rosso… ecco il nucleosplendente della galassia… ecco la porta attraverso la quale era rientrato nell’universo.E non soltanto le immagini, ma tutte le impressioni dei sensi, e tutti glistati d’animo provati sul momento stavano scorrendo all’indietro, sempre e semprepiù rapidamente. La sua vita si stava svolgendo come il nastro di unregistratore che riavvolgesse la bobina a velocità crescente.

Adesso si trovava una volta di più a bordo della Discoverye gli anelli di Saturno colmavano il cielo. Poi eccolo ripetere l’ultimodialogo con Hal. Ed ora vedeva Frank Poole partire per l’ultima missione, e udivala voce della Terra assicurargli che tutto andava bene.

E nel momento stesso in cui andava rivivendo tuttiquesti eventi, sapeva che ogni cosa andava bene, effettivamente. Indietreggiavalungo i corridoi del Tempo, veniva svuotato di conoscenza ed esperienza e correvavelocemente verso la propria infanzia. Ma nulla era perduto; tutti gliavvenimenti determinatisi in ogni momento della sua vita venivano affidati auna più sicura custodia. Nel momento stesso in cui un David Bowman cessava diesistere, un altro Bowman diventava immortale.

Più velocemente, più velocemente retrocedette in annidimenticati e in un mondo più semplice. Volti che un tempo aveva amato, voltiche aveva creduto perduti in modo irrecuperabile, gli sorrisero dolcemente. Ricambiòil sorriso con tenerezza, e senza sofferenza.

Ora, finalmente, la regressione a capofitto stavarallentando; i pozzi della memoria erano quasi prosciugati. Il Tempo incominciòa scorrere sempre più pigramente, avvicinandosi a un momento di stasi… cosìcome il pendolo oscillante, giunto al limite del proprio arco, sembra immobilizzatoper un attimo eterno, prima di iniziare il ciclo successivo.

L’istante senza tempo passò; il pendolo invertì lapropria oscillazione. In una stanza vuota, galleggiante tra le fiamme di unastella doppia situata a ventimila anni-luce dalla Terra, un neonato aprì gliocchi e cominciò a strillare.

 

TRASFORMAZIONE

 

 

Poi tacque, constatando di non essere più solo.

Uno spettrale, baluginante rettangolo si era formatonell’aria vuota. Si solidificò in un monolito di cristallo, perdette la propriatrasparenza e si soffuse di luminosità pallida e lattea. Allettanti, maldefiniti fantasmi si mossero sulla sua superficie e nelle sue profondità. Sifusero in sbarre di luce e d’ombra, poi formarono disegni intersecantisi e raggiatiche incominciarono a ruotare adagio, assecondando il tempo del ritmo pulsanteche sembrava colmare adesso l’intero spazio.

Era uno spettacolo tale da monopolizzare e impegnare l’attenzionedi qualsiasi bambino… o di qualsiasi uomo-scimmia. Ma, com’era accaduto tremilioni d’anni prima, esso costituiva soltanto la manifestazione esteriore diforze troppo sottili per poter essere percepite consapevolmente. Era un merogiocattolo per distrarre i sensi, mentre il processo reale veniva attuato a livellidi gran lunga più profondi di quelli della mente.

Questa volta il processo fu rapido e sicuro, mentre lanuova trama veniva intessuta. Perché, nelle ere trascorse dall’ultimo incontro,molte cose erano state apprese dal tessitore; e il materiale sul quale egliesercitava adesso la propria arte era di una fibra infinitamente più fine. Mase al soggetto sarebbe stato consentito di entrare a far parte dell’arazzo informazione, soltanto il futuro avrebbe potuto dirlo.

Con occhi che già erano capaci di qualcosa di più dell’attenzioneumana, il bambino fissò le profondità del monolito di cristallo, vedendo, senzaperò ancora capirli, i misteri che si celavano più oltre. Seppe di esseretornato, seppe che lì era l’origine di molte razze oltre alla sua; ma seppeanche che non poteva rimanere. Di là da quel momento, si trovava un’altra nascita,più strana di ogni altra del passato.

Adesso il momento era giunto; i disegni splendenti nonecheggiavano più i segreti nel cuore di cristallo. Mentre essi si spegnevano, anchele pareti protettive dileguarono nell’inesistenza dalla quale eranofuggevolmente emerse, e il sole rosso colmò il cielo.

Il metallo e la plastica della capsula dimenticata e gliindumenti indossati un tempo da un’entità che si era chiamata David Bowman, avvamparonoin una fiammata. Gli ultimi legami con la Terra erano scomparsi, risolti negli atomi che li componevano.

Ma il bambino quasi non se ne accorse, mentre siadattava alla piacevole luminosità del suo nuovo ambiente. Gli occorreva ancora,per qualche tempo, questo guscio di materia come centro focale delle suecapacità. Il suo corpo indistruttibile era l’attuale immagine mentale che egliaveva di se stesso; e, nonostante tutte le sue capacità, sapeva di essereancora un bambino.

Tale sarebbe rimasto finché non si fosse deciso peruna nuova forma, o non fosse passato oltre le necessità della materia.

E adesso era giunto il momento di andare… anche se, inun certo senso, non avrebbe mai abbandonato quel luogo ove era rinato, perchésempre avrebbe fatto parte dell’entità che si avvaleva della stella doppia peri suoi scopi imperscrutabili. La direzione, anche se non la natura, del suodestino gli appariva chiara, e non v’era alcuna necessità di seguire la viatortuosa lungo la quale era venuto. Con gli istinti di tre milioni di anni, egliintuiva adesso che esistevano altre vie oltre a quella dietro il fondo dellospazio. Gli antichi meccanismi della Porta delle Stelle lo avevano servito bene,ma lui non ne avrebbe più avuto bisogno.

La baluginante forma rettangolare che un tempo erasembrata soltanto una lastra di cristallo continuava a galleggiare davanti alui, indifferente come egli lo era alle fiamme innocue dell’inferno sottostante.Essa racchiudeva segreti non ancora penetrati di spazio e di tempo, ma alcunidi essi, almeno, il bambino adesso li capiva ed era in grado di dominarli. Comeera ovvio, come era necessario, il rapporto matematico dei lati delmonolito, la sequenza dei quadrati, 1 : 4 : 9! E quale ingenuità avereimmaginato che la serie terminasse a quel punto, con appena tre dimensioni!

Mise a fuoco la propria mente su quelle semplicitàgeometriche e mentre i suoi pensieri le sfioravano, la vuota struttura si colmòdelle tenebre della notte interstellare. Il bagliore del sole rosso si attenuò…o, piuttosto, parve indietreggiare in tutte le direzioni contemporaneamente; e là,dinanzi a lui, ecco il vortice luminoso della galassia.

Sarebbe potuto essere uno splendido modello, incredibilmenteparticolareggiato, incluso in un blocco di plastica. Ma era la realtà, percepitacome un tutto mediante sensi ormai più sottili della vista. Volendo, avrebbepotuto accentrare la propria attenzione su una qualsiasi tra i cento miliardidi stelle; e avrebbe potuto fare ancora molto di più di questo.

Adesso era , alla deriva nel gran fiume disoli, a mezza via tra i fuochi arginati del nucleo galattico e le solitarie, sparsestelle-sentinella del margine. E là egli desiderava trovarsi, al lato oppostodi quel baratro nel firmamento, in quella fascia serpentina di tenebre, privadi ogni stella. Sapeva che quel caos informe, visibile soltanto grazie al baglioreche ne miniava gli orli provenendo da fuochi-nebbia molto più remoti, era la sostanzaancora inutilizzata della creazione, la materia prima di evoluzioni ancora avenire. Lì, il Tempo non era cominciato; fino a quando i soli che ardevanoadesso non si fossero spenti da tempo, la luce e la vita non avrebberoriplasmato quel vuoto.

Involontariamente, egli lo aveva attraversato una volta;ora doveva riattraversarlo, quest’altra volta di sua volontà. Il pensiero locolmò di un improvviso, raggelante terrore, e così, per un momento, si sentìcompletamente disorientato e la sua nuova visuale dell’universo tremò e minacciòdi frantumarsi in mille pezzi.

Non era la paura degli abissi galattici a gelargli l’anima,ma un’inquietudine più profonda, che scaturiva dal futuro non nato. Avevalasciato infatti, dietro di sé, i metri del tempo della sua origine umana; ora,mentre contemplava quella fascia di notte senza stelle, ebbe le primeintuizioni dell’eternità che sbadigliava dinanzi a lui.

Ricordò allora che non sarebbe mai stato solo, e ilpanico defluì adagio. La percezione, limpida come cristallo, dell’universovenne restaurata in lui… ma, lo sapeva, non esclusivamente grazie ai suoisforzi. Quando avesse avuto bisogno di una guida nei suoi primi passi esitanti,la guida sarebbe stata là.

Fiducioso una volta di più, come un tuffatoreacrobatico che abbia ritrovato il coraggio, si lanciò attraverso gli anni-luce.La galassia proruppe dalla cornice mentale nella quale l’aveva racchiusa; stellee nebulose gli si riversarono accanto in una illusione di velocità infinita. Soli-fantasmaesplosero e rimasero indietro, mentre egli scivolava come un’ombra attraverso iloro nuclei; il freddo, tenebroso deserto della polvere cosmica che un tempoegli aveva paventato non parve altro che il battito di un’ala di corvo controla superficie del Sole.

Le stelle si stavano diradando; lo splendore della ViaLattea si attenuava e diveniva un pallido spettro dello splendore ch’egli avevaconosciuto… e che, una volta pronto, avrebbe conosciuto di nuovo.

Era tornato, precisamente dove voleva essere, nellospazio che gli uomini definivano reale.

 

BAMBINO - DELLE - STELLE

 

 

Là, dinanzi a lui, luccicante giocattolo cui nessunBambino-delle-Stelle avrebbe potuto resistere, galleggiava il pianeta Terra contutte le sue genti.

Era tornato in tempo. Laggiù, su quel globo gremito, gliallarmi sarebbero balenati sugli schermi radar, i grandi telescopi dipuntamento avrebbero frugato i cicli… e la storia, così come gli uomini laconoscevano, si sarebbe avvicinata al termine.

Milleseicento chilometri più in basso egli si accorseche un assopito carico di morte si era destato e si stava muovendo pigramentelungo la sua orbita. Le deboli energie che conteneva non costituivano per luiuna possibile minaccia; ma preferiva un cielo più pulito. Fece valere lapropria volontà e i megatoni in orbita fiorirono in una detonazione silenziosache portò un’alba breve e falsa su metà del globo addormentato.

Poi aspettò, chiamando a raccolta i propri pensieri e meditandosui propri poteri non ancora posti alla prova. Poiché, sebbene fosse il padronedel mondo, non sapeva bene ancora che cosa fare in seguito.

Ma avrebbe escogitato qualcosa.

 

 

 

FINE