giovedì 23 settembre 2021

IN UN AMORE FELICE Guido Ceronetti

 


IN UN AMORE FELICE

Guido Ceronetti 


INDICE

 

 

 

 

 

Lettrici, lettori miei

 

IN UN AMORE FELICE

 

PARTE PRIMA. L’osteria del Marrano

 

PARTE SECONDA. La Città degli Stracci

 

PARTE TERZA. La foresta


LETTRICI, LETTORI MIEI

 

 

 

 

 

I romanzi corrono col Divenire e il graduale estinguersi della scrittura viva. Si poteva immaginarne la fine una volta scomparsi gli autori con carta e calamaio - i formidabili legati alla sedia del secolo XIX. Ma gli autori della stilografica e della portatile hanno retto bene. Di quelli della mutazione elettronica, che fanno i libri senza errori su tastiere di Buco Nero, non posso che tacere. Non credo averne mai letti. Io appartengo al tempo della stilo e della portatile, non mi sono mai mosso di lì, ma so che nella portatile era già il germe di una diminuzione del comunicare. Dunque c’è da fare per raccontare storie intricate, interpretando il mondo in modi che feriscano la conformità.

Una lunga vita spesa quasi interamente lavorando nel verso, nell’aforisma e nella colonnina di giornale, eccola sboccare, ad un’età avanzata, in questa terra ignota, sponda anomala, patria d’altri, con rischio d’incontrare popolazioni ostili.

La materia di questo «Amore felice» mi ha fornito, per quasi un anno, inesauribili dosi di inebriamenti psichedelici. Che sollievo fuggire malfermo dalla casa, dalle case e caselle solite e mettersi sulla strada maestra, quella che, dice il meraviglioso capitolo dei Demoni (il settimo della Terza Parte) : « contiene un’idea», ed è l’ultimo viaggio di Stepan Trofimovic, che non sa dove sia diretto, ma è atteso a Spassovo - un poema nel grande libro. Né mi sono mancati, aquiloni sfrecciami, gli incoraggiamenti costanti dell’Editore e degli amici.

Centro e motore di tutto è una coppia umana, un uomo, una donna, che volevo ad ogni costo escludere, non dalle prove certamente, ma dagli abissi consueti dell'infelicità. Non c’è vera passione d’amore che non paghi questo debito alla tenebra: idea, forse, recente di secoli, ma chiodo fisso d’Occidente. Ho scritto questa storia per svitarla dalle menti che quella fissazione opprime: dalle menti e dall’esperienza, perché l’esperienza dipende dalla mente. Ma la coppia è immaginaria, nessuno dei suoi due componenti è esistito, sebbene abbiano preso a prestito caratteristiche e circostanze reali, un po’ di arcano delle somiglianze.

L’ufologia, che gli fa da sfondo e da compagno di viaggio, è nata dal tronco fulminato della morte di Dio e dal rinnegamento degli angeli.

Siamo malati di bisogno di Trascendenza. Io certamente lo sono e chissà quanti ignorano di esserlo. Ma lo Spazio indeterminato è meglio delle religioni monoteistiche, dove non c’è più nulla da saccheggiare per toglierci la fame di Dio. Vana è la ricerca astrofìsica di mondi abitati se i significati di tutti i mondi sono contenuti in questo, dove ci sono esseri perfettamente in grado di percepire qualunque segnale per le vie senza fine della mente. Ufologia e contattismo penetrano nei primi capitoli del libro della Genesi come ci venisse aperta una porta blindata lasciata socchiusa: i Nefilìm (Giganti) che concupiscono « le figlie degli uomini » e gli Elohìm soffocatori della conoscenza, usurpatori del vero potere divino, e così l’Adantide platonica, sono realtà palpabile, sotto il velo venerato di Iside.

Può darsi che il nome abscondito di Ada, che nella storia ne ha tre, sia Beatrice. Che il nome segreto di Paolo, che in questa storia è un vaevieni di nomi, sia Virgilio. Può darsi che il misterioso scienziato Nikola Tesla sia nato dal connubio di un Gigante della Genesi (era altissimo), con una « figlia degli uomini » croata. Quest’uomo singolarissimo e solitario merita di essere visto da ben più vicino e su differenti piani: vide Qualcosa, nel vortice della corrente alternata, che forse da lui fu vista pervenire fino ad una delle indecifrate tarlature del mondo.

Infinite cose vengono attirate dal magnete di un Amore Felice che non si perda a propagare la specie.

Lettore, non dimenticare la parola di Artaud: « L’universo è stregato ».

 

15 agosto 2010


PARTE PRIMA

L’OSTERIA DEL MARRANO

1

 

 

 

 

 

Nella memoria di chi c’era si desquama e si riprofila il paesaggio urbano e psicologico delle città e dei modi di vivere italiani poco oltre la metà del secolo XX. Ad abitare allora nelle periferie c’era il piacere di vedere ancora, avviandosi per i prati senza pericolo, prima che l’urbanizzazione implacabilmente li inghiottisse, di notte lucciole e di giorno farfalle, e di udire i grilli cantare, dai balconi del mondo cementificato. Sciaguratamente, la legge permetteva l’uso micidiale dell’amianto nelle costruzioni, e i fumi delle fabbriche, nell’euforia generale per tanta prosperità d’industrie, comunicavano senza ostacoli, abbondantemente, coi polmoni umani.

Se c’erano le depressioni? Ma figuriamoci! Per lo più rubricate come esaurimenti nervosi, visto che spleen ecafard alla lingua corrente non appartengono neppure ora. Gli esaurimenti si tenevano chiusi in casa: contro i disturbi del sonno il Serenol era stato sostituito dai barbiturici amici dei suicidi (Mogadon,Nembutal), i giovani studiosi si sottoponevano a cure periodiche intense, per via intramuscolare, dolenti chiappe, di vitamina B. Non era permesso, neppure alla lontanissima, alludere alle mestruazioni. Le coppie cattoliche praticavano Ogino-Knaus, o nulla. Gli autori più letti erano Pavese, De Céspedes, Soldati, Piovene, Vittorini...

Numerosissimi, provvidi, ma in via di estinzione, i Bagni Pubblici e gli Alberghi Diurni. Il Cobianchi di piazza Duomo a Milano era ritrovo rinomato come il Motta e il Cova. La meravigliosa Casa del Passeggero, a Roma, a pochi passi dalla Stazione Termini - da molti anni sprangata e in via di diventare casa degli Usher -, era in ambiente deliziosamente Art Déco un calorifero ascellare, un alvo materno per orfani senza binari. E alcuni grandi transatlantici da crociera erano ancora sfarzosamente utilizzati per infilare direttamente la vista nei pepli rassicuranti della Statua della Libertà o nel delta della Piata. Il demone del linguaggio era da un pezzo al lavoro nel teatro di Ionesco e di Sam Beckett, per indicarci, genialmente e inutilmente, misteriosi guasti, sconfitte, rivolgimenti, umiliazioni, e la mortale impotenza della Parola. Tutto quel teatro, che Martin Esslin definì « dell’Assurdo », aveva una funzione avvertitrice: nessuno gli faceva domande, ma il Guardiano della Notte era là al suo posto, e gridava che la grande Babilonia era caduta e le sue divinità, in cui era così naturale credere, erano a terra sparse. Ma l’annuncio profetico non sfiorò neppure le nostre città, alle quali la legge che in parlamento avrebbe riportato un’epica vittoria, per cui sarebbero state chiuse le case di tolleranza, importava molto di più.

E la legge Merlin, alla fine, vinse. Strenua era stata la resistenza congiunta dei tenutari e delle madri, i venerologi avevano gridato forte che una pandemìa di sifilide, più o meno come quella del Quattrocento, era alle porte, e nei sussurri a letto le ragazze, prossime allo sfratto, lo ripetevano: «Vedrai che cosa capiterà, prendi il mio indirizzo, io sono sana come un pesce! ».

Ma non erano già da una decina d’anni arrivate le muffe di Fleming? E la scuola medica italiana non aveva ormai pronta la sua cura antisifilitica classica: penicillina e bismuto? Il Nosferatu delle bolle si dileguò, e il balenante prodigio dell’Amore Libero cominciò tra sconfitte e tremori a distillare nei giovanili alambicchi i suoi ambigui farmaci.

2

Ad un incrocio, un anziano signore, uno dei tanti (ma in quel tempo molto meno numerosi) che la terza gamba della Sfinge tiene su, in attesa di attraversare, udì una voce di dentro. Una donna, scattato il verde, passò a qualche metro da lui, assorto in non so che cosa, e l’uomo con tre gambe percepì, nitido, questo messaggio: «Guarda, sta passando l’amore! ». E vide la giovane donna (neppure in faccia la vide, ma soltanto, di lei, il movimento della testa) voltarsi verso di lui, il passo di chi esita a proseguire. All’uomo, per l’emozione, mancarono le rimanenti gambe. Invece di portarlo subito subito sul marciapiedi opposto, raggiungendo la sconosciuta, i piedi gli restarono piantati e fissi. La ragazza, dopo pochi passi, si voltò di nuovo verso di lui.

All’uomo, che chiamerò Aris, fortunatamente venne l’idea naturalissima di far segno alla ragazza di fermarsi, quando per la terza volta, ormai quasi arrivata dalla parte dei numeri pari del grande viale alberato, si voltò verso di lui, preda dell’irresolutezza. Ma l’amore non è la forza delle forze? Anche quando ci tocca senza toccarci, anche quando ci guarda senza guardarci, e di lontano?

« Si volterà ancora? ». Una quarta volta, pensava; sarebbe stata impossibile. Invece, da una distanza ormai di una sessantina di metri, la figura lontanante gli parve voltarsi ancora, e dentro di lui la voce stavolta era quella di lei, su un pentagramma di chi sembra implorare: «Dimmi “aspettami”, non proseguirò... ». L’uomo, con fatica, alzò il braccio destro verso quello sguardo fuggitivo: la donna comprese, non proseguì.

Le arrivò davanti con affanno, gli era ormai impedito di accelerare il passo, e di colpo, di fronte a lei, tutto il suo dannato sovraccarico di vergogna e di timidità andò via. Provò la gioia di essere simile a uno appena disincarnato, che sperimenta l’ebbrezza di dondolarsi su una giostrina invisibile, la sicura dolcezza di essersi liberato dal suo corpo disseccato e curvato di settantacinquenne tambureggiato dai mazzuoli della vita, la gemellarità indistruttibile di Amore e Morte, di Amore e Psiche. La voce interna all’incrocio non gli aveva mentito.

Riuscì finalmente a parlare: «Eccomi. Mi chiamo Aris. Ho sentito che mi chiamavi, è così? ».

Sentì gli occhi della sconosciuta scrutarlo, ma senza diffidenza. Ci fu un silenzio.

«Avrai un nome anche tu, no?».

«Ada... ma non Ada-lgisa. Ada soltanto... ».

«Perché ti sei voltata? Ti pareva di avermi già visto? ».

«Visto no, mai... Ma avevi un’aria di perso, di abbandonato, che mi ha incuriosita... Eri come uno che aspetta un’elemosina e non osa chiederla, un vero povero. Se però non mi facevi segno di fermarmi, dopo la quarta volta avrei proseguito... Con dispiacere, perché chiedevi aiuto».

« Siamo in tanti. Anche senza bastone e con molto meno peso di anni. È vero però che ho sentito subito il bisogno di fermarti, benedico di averlo fatto, Ada».

« Non abito vicino, ma stavo andando a casa a piedi. Hai tempo per accompagnarmi?». Aris le prese la caldissima, umida mano, stringendola forte, con una sensazione di viso rialzato.

Così cominciò questa storia, che si vedrà non essere stata ordinaria, vissuta da una coppia umana che non s’incontrò per caso.

3

 

 

 

 

 

Attirava gente, al di sopra della via Gustavo Modena, passaggio del nuovo fìlobus 8 rosso e di numerosi camion che trasportavano merci alle botteghe della zona, un evento insolito. Tra due finestre sui lati opposti, all’altezza dell’ultimo piano, era teso un cavo come un esilissimo ponte, e un paio di vigili facevano deviare il traffico. La radunata guardava tutta in alto, dove un funambolo si accingeva ad attraversare sul filo, senza rete sottostante, la strada, larga una trentina di metri. Una donna, giovane ma un po’ appassita, vestita da clown bianco, sull’angolo, a pochi passi da una delle due case unite dal filo (il vento lo faceva leggermente oscillare), raccoglieva le monete, certo sperando non mancassero i bei cinquecento lire d’argento, ringraziando, anche per molto meno, con un sorriso triste del faccino imbiancato.

Sul pubblico gravava un silenzio di attesa stuzzicata. Da un altoparlante, una voce maschile dall’accento straniero raccomandava superfluamente la calma e legittimamente la generosità nelle offerte: « Siate generosi! State per assistere ad una delle famose traversate della morte del celébre equilibristo Ralph Cunningham di Edimburgo! Un piccolo passo falso ed è per lui un volo mortale, sebbene una corda salvavita, scorrendo con lui, dovrebbe trattenerlo in prossimità del suolo. Senza neppure questo il signor Cunningham ha attraversato spazi giudicati impossibili, tra grattacieli, a New York, Chicago e Shanghai, riportandone, oltre la vita salva, gloria su giornali locali e radio internazionali... Consigliamo alle persone impressionabili e soferenti di non assistere alla traversata mortale del signor Cunningham, potrebbero rimanere sticchite... Attention, please! Il celébre equilibristo ha già messo i piedi sul cavo, lo potete vedere lassù immobile come una statua sublime, un vero Apòlo!! ». Seguì una irruzione di cornamuse da battaglia che elettrizzò il pubblico. Due o tre donne con bambini si allontanarono svoltando in fretta, i bambini tirati via a forza strillavano, col cono del gelato che colava.

Oh le cornamuse scozzesi! Oh il formidabile impeto delle armate britanniche dietro al loro Tirteo in kilt! Impossibile, con quei fantasmi a precederlo (la Somme! E1 Alamein!), per il non apollineo funambolo, non arrivare vittoriosamente alla finestra opposta.

Un largo sorriso del clown bianco: Aris le getta nella tuba addirittura due di quelle prelibate monete da cinquecento lire! Ora c’era nella strada un silenzio da sala operatoria. Si intravedeva dietro l’angolo il muso bianco di un’ambulanza, e due uomini in tuta crociata fumavano, guardando in su. Era arrivato anche un mezzo con la scala dei Vigili del Fuoco, mentre cessavano le cornamuse.

Il funambolo cominciò la traversata. Seguirne l’evoluzione metteva i brividi: anche di piacere, perché certamente molti spettatori nascondevano una piccola speranza di vederlo precipitare, per emozionarsi di più e poterlo, poi, raccontare.

Arrivato a metà parve esitare. Era un trucco per guadagnare più plauso. Era fermo su un piede solo, l’altro nel vuoto, molti sguardi di spasimo si abbassarono. Un istante e la marcia riprese.

«Cosa dici, cadrà?» Aris sussurrò, la mano sulla spalla di Ada.

«No,» rispose lei tranquillamente «non l’ho visto cadere ».

A lui pareva di udire, come provenisse da una delle due finestre, il ticchettìo dell’orologio della Morte, un rumore che gli segnalava i momenti e le situazioni di pericolo.

A circa un metro dall’arrivo lo stregato Cunningham regalò al pubblico l’ultima emozione, simulando con imprendibile bravura uno smarrimento repentino, di quelli che ci manda il Dio delle Cadute per fare uscire di strada le auto o sprofondare in un mulinello il subacqueo. La gente, in basso, aveva in gola pronto l’urlo, eccolo, sta per uscire... No, è ricacciato!! L’omino è al sicuro nel vano della finestra e agita verso la folla le gambe da balletti russi, gli arriva da sotto un boato di approvazione.

«Incredibile! » dice un operaio risalendo sulla bicicletta. «Incredibile...». Il filobus 8 rosso suona il clacson per far sgomberare al più presto. «Bisognerebbe proibirglielo! » grida alla fioraia di fronte un vecchio barbiere sulla porta della bottega. «Impressiona troppo la gente, è un miracolo se non è svenuto nessuno! ». Intanto il povero clown bianco insegue qua e là con la tuba, dove i cinquecento d’argento sono soltanto due, i non pochi che si stanno allontanando senza aver dato niente. «Bis! Bis! » si sgolano tre o quattro giovani imbecilli in Vespa. «Rifallo, poltrone! ». Un gelataio col carrettino snocciola i coni di crema-cioccolato-pistacchio come grani di rosario.

Aris e Ada, visto l’uomo al sicuro, si sono scordati di applaudire per abbracciarsi, come loro stessi scampati al pericolo. Dai fìnestroni della Società Legmétal rifluisce all’aperto uno stuolo di dattilografe, cicale della Olivetti.

Ma perché Ada aveva detto «Non l’ho visto cadere » prima che il funambolo di Edimburgo incominciasse la traversata?

Dopo qualche nuova nota di cornamuse, l’altoparlante annuncia che il signor Cunningham ripeterà l’esercizio nel pomeriggio.

4

 

 

 

 

 

Qualcosa stava avvenendo, in loro e tra loro, dopo due o tre giorni da quel primo incontro di sconosciuti attratti l’uno verso l’altra.

Il fatto centrale di un incontro d’amore è l’irruzione del Desiderio: questo, tra una ragazza di venticinque anni e un uomo di settantacinque, è un passeggero clandestino, nascosto dietro una pila di casse di imbarazzati pudori. Nessuno dei due pensava a reprimerlo, lasciava fare agli estri della vita, senza che nel rivedersi frequente i loro cammini verso una intimità crescente cessassero di incrociarsi. Di fortemente carnale e reciprocamente possessivo c’era il contatto delle mani, il loro spasmodico cercarsi e stringersi, mani che nel lasciarsi non si lasciavano mai, seguitando a stringersi nei letti solitari e nel vento notturno che faceva sbattere le imposte malchiuse. L’epoca, del resto, era in Italia tutt’altro che favorevole ai rapporti liberi, il marito poteva denunciare la moglie adultera e farla sorprendere mezza nuda dai poliziotti che la marcavano col verbale; il diritto di famiglia era quello giustinianeo-fascista, non suscettibile certo di attenuazioni da parte del potere democristiano; i ragazzi dei due sessi usavano tra loro il Lei prima di osare spingersi nel Tu, mare ignoto; il cuore aveva pulsazioni incontrollabili quando staccando al telefono toccava dire a una voce di madre: «Pronto, c’è Luciana? », e la voce domandava a sua volta: «Lei chi è, scusi? ». Tutte le madri erano costernate che si stesse andando verso la chiusura delle case di tolleranza: « La Merlin, quella troia! ». Ricordo una vedova poverissima, veneta, che confessava alle vicine di casa di consumare l’incesto, senza troppi rimorsi, col figlio diciottenne, che in caso contrario avrebbe aggredito le ragazzine inviolate dei piani sottostanti. (Le vicine, madri di femmine, approvavano).

Aris e Ada erano mentalmente liberi da simili manette, ma il desiderio non li assillava. E in verità, dopotutto, questa non è una storia realistica: chi è Aris? chi è Ada? In quale città si trovano? Se non la nomino è per non esserne imprigionato, perché le città italiane caratterizzano troppo gli abitanti, e vie e monumenti non possono essere taciuti dal Narratore: «Arrivarono fino al Po...», «Mangiò farinata e comprò due libri in via Gramsci... ». La topografia urbana ti aiuta, ti rende tutto troppo facile, vedi subito dove l’autore ti porta...

Finalmente, Aris si trovò fuori - così, all’improvviso - dal sonnambulismo in cui aveva parlato e agito, dalla visione della sconosciuta Passante all’incrocio, fino a quel momento. Guardava lei con occhi non più annebbiati. Dubitò di esserne innamorato, poiché cominciava ad esserlo davvero; vide il suo volto, e ne fu visto; entrambi ebbero la certezza che, al di là della menzogna e dell’illusione temporale, e della vita e della morte, il mistero della loro unione si sarebbe consumato nel loro corpo carnale, e che dai paesaggi d’ombra era apparsa una luce, la lanterna dell’Eremita della carta numero nove che accennava di seguirlo.

« Mi è venuta fame » disse Ada.


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