Seguiamo la cernia, amica mia!
scendiamo nel fondo del desiderio
dietro a molto di più che la fantasia
e accettiamo perfino un bacio dalla cernia,
se non con amore, almeno con allegria…
In ciascuno di noi nuota la cernia,
quasi sempre mentita e dimenticata
in acqua silenziosa di passato
nuota la cernia: tradito
pesce represso
Sì, seguiamo la cernia, prima che salga,
morta, a boccheggiare a fior d’acqua,
a fior d’occhi,
quando, rinnegata la cernia tutta la vita,
non siamo altro che solitudine e dolore…
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Anche se il dottor Freud non ne ha mai indicato l’esatta collocazione geografica, ci pare ovvio pensare che l’Inconscio stia sul fondo. Anzi, nel “profondo”. Comunque, nei fondali della coscienza, laddove le acque sono limacciose e torbide, dove cresce una strana flora che fluttua nel liquido della coscienza, con piante grasse e tentacolari, alghe attaccate al fango, forse spettrali, non di rado velenose.
I Padri della Chiesa erano persone originali: elaborarono l’Anima e poi non seppero dove collocarla con certezza, il che dette un bel daffare ai teologi e ai filosofi posteriori. Nel cuore? Nell’ipofisi? Nel cervello? Nelle amigdale o nella glottide che regola la voce? Nelle ghiandole surrenali? Mistero. Anche il dottor Freud, padre della sua chiesa, ha inventato l’Inconscio, ma non ci ha detto dove esattamente si trovi. Tuttavia ha avuto l’accortezza di collocarlo nel profondo di ciò che chiamiamo Io.
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Ma l’Inconscio, o i fondali dell’Io, non lo hanno scandagliato solo Freud e i suoi seguaci. In quelle acque profonde si sono immersi soprattutto gli artisti, e da molto prima che Freud aprisse il suo gabinetto nella sua Vienna elegante e asburgica. Già ci aveva pensato Gilgamesh, al tempo degli Assiri-Babilonesi, con un poema che è un viaggio interiore. E, per non voler essere tediosi, facciamo un salto di qualche migliaio di anni. Lasciando da parte tutti gli impavidi palombari che hanno navigato nelle nostre profondità, conviene passare all’epoca nostra, quest’incosciente epoca tanto preoccupata dell’Inconscio.
Rammento Jackson Pollock, per esempio. Quando lo scoprii lui era già defunto da qualche anno, e non aveva avuto una vita allegra. Che del resto non poteva permettersi un artista come lui, con un Inconscio così tumultuoso, e selvatico, e furibondo, riportato sulle sue tele in grovigli e filamenti di colore, e in turbini, e in gorghi: una Action painting dove l’Inconscio diventava immediatamente azione nel rivelarci il suo volto.
Quando conobbi Henry Miller, invece, lui era ancora vivo e vitale, e parlava con voce flemmatica e distratta di fronte agli acquerelli della sua Big Sur: palmizi e sabbie rosate, fantasmi con sinuose figure femminili nelle quali risaltavano soprattutto gli occhi e i seni: un mondo di Eros e di Sensi che erano i materiali con cui era costruito il pavimento del suo fiume sotterraneo. Di Picasso, invece, il fondale è pieno di ciottoli diversi: vi stanno l’amore sulla spiaggia mediterranea, il fauno malizioso e il toro furibondo, la donna diventata un poliedro ma anche la ferita sanguinante di Guernica.
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Ma i fondali dotati di maggiore fascino, nei quali uno come me si tuffa più volentieri, sono quelli fatti di parole, cioè quelli dei poeti e degli scrittori, che si tende inevitabilmente a considerare fratelli. Magari sciagurati, ma, come direbbe Villon, fratelli umani.
Fra questi Michaux, per esempio, e il miserabile miracolo della sua mescalina che gli fece popolare il suo mondo di creaturine fantasmatiche ottenute col frottage: lemuri, fantasmi, elfi, ombre cinesi, allucinazioni in forma di disegno. E poi Artaud, che subì gli elettroshock praticatigli da medici sadici del manicomio di Rodez, e che elesse se stesso a nostro Cristo moderno, sconvolto, vendicativo e sacrificale. E ancora Baudelaire, che nella sua Chambre double vide entrare lo Spettro sotto la specie di un usciere che veniva a torturarlo in nome della Legge, e un’infame concubina che veniva ad aggiungere miseria e trivialità a quante già egli stesso non avesse. E Rimbaud, il cui battello ebbro, forse trasformatosi in sottomarino, lo trascinò in una stagione all’inferno. E Pessoa, che negli abissi del suo Io trovò così tanti altri Ii che non seppe più venire a galla. E Kavafis, che cercò Dioniso nello squallore delle pensioni di Alessandria, che desiderò sempre aprire la finestra ma si accorse che non c’erano finestre nella camera della sua vita.
Senza dimenticare Giulio Verne che fece viaggiare il suo Capitano Nemo ventimila leghe sotto i mari, che poi sono un’immersione nell’infanzia di tutti noi.
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La Cernia di Fanello parte dai fondali come un siluro e sbuca in superficie. Guardatela, si è depurata da tutte le scorie delle acque limacciose, riluce come un brillante, splendore di splendore. Le sue scaglie d’acciaio sono temprate dalla voglia incandescente di Fanello di aggiungere al mondo un pesce che mancava alla creazione: sono la nostra fragile eppure confortante armatura contro la banalità, la confusione, l’indistinto, la scioccheria che oggi sembrano dominare il mondo. Questo pesce di Fanello non è un pesce, è un simbolo, qualcosa che sa infondere forza e fiducia, come il pesce dei cristiani primitivi. È l’energia primordiale che sta nell’acqua e che rinasce, rinasce sempre nonostante tutto. E se la sua Cernia riluce così è perché ha superato l’oscurità degli abissi, perché rifugge la melma, perché è vera, viva, nuova e antichissima. Come la vita.
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A casa di Fanello c’è una grande pergola d’uva. Sotto quella pergola, d’estate, si mangia melone e si beve vino bianco. Sotto quella pergola si potrebbero immaginare il Gatto e la Volpe insieme a Pinocchio e a Geppetto, tutti insieme, rappacificati, a mangiare melone e a bere vino bianco in santa pace. E invece, lì, inaspettatamente, c’è la fucina di Vulcano: dalle viscere di quell’orto, la terra che nutre il fico, il ciliegio e le radici della vigna arcaica, Fanello tira fuori i suoi pesci pesantissimi e li fa nuotare nell’aria. Anzi: li fa volare come se fossero uccelli