sabato 2 luglio 2022

SU UNA CIVILTÀ' ESAUSTA Estratto da E.M. Cioran La tentazione di esistere

 

SU UNA CIVILTÀ' ESAUSTA

Estratto da E.M. Cioran 

La tentazione di esistere



Chi appartiene organicamente a una civiltà non può identificare la natura del male che la mina. La sua diagnosi non conta gran che; il giudizio che ha su di essa lo concerne; se le usa dei riguardi è per egoismo.
Meno coinvolto, più libero, l'estraneo la esamina senza calcolo e meglio ne coglie i punti deboli. Se la civiltà cade in rovina, accetterà all'occorrenza di cadere con essa, di constatare gli effetti del "fatum" su di essa e su di sé. Quanto ai rimedi, non ne possiede e neppure ne propone. Poiché sa che non si può "curare" il destino, non si spaccia per guaritore con nessuno. La sua unica ambizione: essere all'altezza dell'Incurabile...

Di fronte all'accumularsi dei loro successi, i paesi d'Occidente non fecero fatica ad esaltare la storia, ad attribuirle un significato e una finalità. La storia apparteneva a loro, loro ne erano gli agenti: doveva dunque seguire un percorso razionale... Così la posero di volta in volta sotto il patronato della Provvidenza, della Ragione o del Progresso. Mancava loro il senso della fatalità; finalmente cominciano ora ad acquisirlo, costernati dall'assenza che li aspetta in agguato, dalla prospettiva della loro eclissi. Da soggetti che erano eccoli diventati oggetti, per sempre spossessati di quello splendore, di quella mirabile megalomania che finora li aveva resi inaccessibili all'irreparabile. Ne sono a tal punto coscienti, oggi, che misurano la stupidità di un'intelligenza dal suo grado di attaccamento agli avvenimenti. Che c'è di più normale, dal momento che gli avvenimenti avvengono "altrove"? E' solo se si mantiene l'iniziativa negli avvenimenti che ci si sottomette ad essi. Ma per poco che si serbi il ricordo di un'antica supremazia, si sogna ancora di eccellere, non fosse che nello smarrimento.

Francia, Inghilterra e Germania hanno alle spalle il loro periodo d'espansione e di follia. E' "la fine dell'insensato", l'inizio di guerre difensive. Non più avventura collettiva, non più cittadini ma individui esangui e disingannati, pronti ancora a rispondere a un'utopia, a patto che venga dall'esterno e li esenti dal fastidio di concepirla. Se in altri tempi morivano per il nonsenso della gloria, ora si abbandonano a una frenesia rivendicatrice. La «felicità» li tenta; è il loro ultimo pregiudizio, da cui quel peccato d'ottimismo che è il marxismo trae la sua energia.

L'abbacinarsi, il servire, il consacrarsi al ridicolo o alla insulsaggine di una causa, sono tutte stravaganze di cui non sono più capaci. Quando una nazione comincia a sfiorire, si instrada verso la condizione di massa. Se anche disponesse di mille Napoleoni, si guarderebbe bene dal compromettere la propria tranquillità o quella degli altri. Chi terrorizzare, e come, se si hanno riflessi vacillanti? Se tutti i popoli si trovassero allo stesso grado di fossilizzazione o di codardia, si intenderebbero facilmente: alla insicurezza subentrerebbe la stabilità di un patto fra pusillanimi...

Puntare sulla scomparsa degli istinti guerrieri, credere alla generalizzazione della decrepitezza o dell'idillio significa vedere lontano, troppo lontano: utopia, presbitismo dei vecchi popoli. I popoli giovani al contrario, rifuggendo dalla scappatoia di un inganno, vedono le cose dal punto di vista dell'azione: la prospettiva che scelgono è proporzionata alle loro imprese. Sacrificando la comodità all'avventura, la felicità alla efficacia, non ammettono la legittimità di idee contraddittorie, la coesistenza di posizioni antinomiche: che cosa vogliono se non sminuire le nostre inquietudini con il... terrore, e rinvigorirci stroncandoci? Devono tutti i loro successi alla loro selvatichezza, giacché quel che conta per loro non sono i sogni ma gli impulsi. Sono attratti da un'ideologia? Questa ravviva il loro furore, valorizza il loro fondo barbarico, li tiene all'erta. Quando i vecchi popoli ne adottano una, questa li intorpidisce, pur dispensando quel poco di febbre che consente loro di credersi in qualche modo vivi: lieve accesso d'illusione.

Una civiltà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione. Comincia a rinsavire? Segno che si sgretola. I suoi momenti culminanti sono dei momenti temibili, durante i quali la civiltà, lungi dall'immagazzinare forze, ne prodiga.

Smaniosa di estenuarsi, la Francia si prefisse il compito di sperperare le proprie; e vi riuscì, aiutata dal suo orgoglio, dal suo zelo aggressivo (non ha forse fatto in mille anni più guerre di ogni altro paese?). Malgrado il suo senso dell'equilibrio - persino i suoi eccessi risultarono felici - non poté accedere alla supremazia se non a detrimento della sua sostanza. Del proprio esaurirsi fece il suo punto d'onore. Amante della formula, dell'idea esplosiva, dello schiamazzo ideologico, mise il genio e la vanità al servizio di tutti gli avvenimenti sopravvenuti negli ultimi dieci secoli. E dopo essere stata una prima donna, eccola che se ne sta rassegnata, timorosa, a ruminare rimorsi e apprensioni, a riposarsi del suo splendore, del suo passato. Fugge il suo volto, trema di fronte allo specchio... Le rughe di una nazione sono altrettanto visibili di quelle di una persona.

Quando si è fatta una grande rivoluzione, non se ne scatena un'altra della stessa importanza. Quando a lungo si è stati gli arbitri del gusto, non si cerca più, una volta perduto il posto, di riconquistarlo. Quando si desidera l'anonimato, si è stanchi di servire da modello, d'essere seguiti, scimmiottati: a che scopo tenere ancora salotto per intrattenere l'universo?

Queste verità lapalissiane la Francia le conosce troppo bene per doversele ripetere.

Nazione del gesto, nazione teatrale, ha amato la sua recitazione quanto il suo pubblico. Ne è esasperata, vuole abbandonare la scena, e non aspira più che alle "quinte dell'oblio".

Che essa abbia fatto uso di ispirazione e di talento, non v'è dubbio, ma ingiusto sarebbe rimproverarglielo: tanto varrebbe accusarla d'essersi realizzata e compiuta.

Le virtù che fecero di lei una nazione privilegiata, le ha smussate a furia di coltivarle, di valorizzarle, e non è certo per mancanza d'esercizio che oggi i suoi talenti impallidiscono e scolorano. Se l'ideale di una vita di benessere (mania delle epoche declinanti) la possiede, l'assilla, la eccita in maniera esclusiva è perché essa non è più che un nome per una totalità d'individui, una società piuttosto che una volontà storica.

Il disgusto che prova verso le sue antiche ambizioni di universalità e di onnipresenza raggiunge proporzioni tali che solo un miracolo potrebbe salvarla da una sorte provinciale.

Da quando ha abbandonato le sue mire di dominio e di conquista, la malinconia, noia generalizzata, la mina. Flagello delle nazioni sulla difensiva, la malinconia devasta la loro vitalità; piuttosto che correre ai ripari, esse la subiscono e vi si abituano fino a non poter più farne a meno. Tra la vita e la morte, esse troveranno sempre uno spazio sufficiente per schivare l'una e l'altra, per evitare di vivere, per evitare di morire.

Come potrebbero, cadute in una lucida catalessi, sognando un eterno statu quo, reagire all'oscurità che le assedia, all'avanzata di civiltà opache?

Se vogliamo sapere quel che è stato un popolo e perché è indegno del suo passato, non dobbiamo far altro che esaminare i volti che maggiormente lo contraddistinsero.

Quel che fu l'Inghilterra, i ritratti dei suoi grandi uomini lo dicono a sufficienza.

Quale emozione nel rimirare alla National Gallery queste teste virili, talvolta delicate, quasi sempre mostruose, l'energia che ne promana, l'originalità dei tratti, la arroganza e la fermezza dello sguardo! Poi, pensando alla timidezza, al buon senso, all'impeccabilità degli Inglesi d'oggi, capiamo perché non sappiano più rappresentare Shakespeare, perché lo svigoriscano e lo rendano effeminato. Ne sono tanto lontani quanto dovevano esserlo da Eschilo i Greci delle epoche tarde. Più niente di elisabettiano negli Inglesi d'oggi: usano quel che resta loro di «carattere» per salvare le apparenze, per conservare la facciata. Si paga sempre caro l'aver preso «la civiltà» sul serio, l'averla troppo assimilata.

Chi concorre alla formazione di un impero? Gli avventurieri, i bruti, il canagliume, tutti coloro che non hanno il pregiudizio dell'«uomo». Alla fine del Medioevo, l'Inghilterra, straripante di vita, era feroce e triste: nessuno scrupolo di onorabilità veniva a contrariare il suo desiderio di espansione. Da essa emanava quella melanconia della forza così caratteristica dei personaggi shakespeariani. Pensiamo ad Amleto, a quel pirata sognatore: i suoi dubbi non alterano la sua foga: nulla in lui della debolezza di un ragionatore. I suoi scrupoli? Se ne crea per sovrabbondanza di energia, per gusto della riuscita, per la tensione di una volontà "inesauribilmente" malata. Nessuno fu più liberale, più generoso verso i propri tormenti, e nessuno ne fu altrettanto prodigo.

Lussureggianti ansietà! come potrebbero gli Inglesi attuali elevarvisi? Del resto non vi ambiscono molto. Il loro ideale è l'uomo "comme il faut": ne sono pericolosamente vicini. Ecco forse l'unica nazione che in un universo sguaiato s'ostina ancora ad avere dello «stile». L'assenza di volgarità assume lì dimensioni allarmanti: essere impersonale costituisce un imperativo, far sbadigliare il prossimo una legge. A forza di distinzione e di insipidezza, l'Inglese diventa sempre più impenetrabile e sconcerta per il mistero che gli si attribuisce a dispetto di ogni evidenza.

Reagendo contro la propria intima natura, contro le maniere di un tempo, minato dalla prudenza e dalla modestia, l'Inglese si è forgiato un comportamento, una regola di condotta che doveva allontanarlo dal suo genio. Dove sono le sue manifestazioni di sfrontatezza e di superbia, le sfide, le arroganze di un tempo? Il romanticismo fu l'ultimo sussulto del suo orgoglio. In seguito, diventato modesto e virtuoso, lasciò che si sgretolasse l'eredità di cinismo e insolenza di cui lo credevamo così fiero. Invano cercheremmo in lui le tracce del barbaro che fu: i suoi istinti sono tutti strangolati dalla sua decenza. Invece di spronarlo, di incoraggiarne le follie, i suoi filosofi l'hanno sospinto nel vicolo cieco della felicità. Deciso ad essere felice, lo diventò. E la sua felicità, esente da pienezza, da rischio e da ogni suggestione tragica, lo ha ridotto a questa avviluppante mediocrità in cui si compiacerà per sempre. Dobbiamo stupirci che sia diventato il personaggio che il Nord predilige, un modello, un ideale per Vichinghi avvizziti? Finché era potente lo si detestava, lo si temeva; ora lo si comprende; presto lo si amerà... Non è più un incubo per nessuno. Egli si difende dall'eccesso, dal delirio, in cui vede un'aberrazione o una villanìa. Quale contrasto tra gli antichi eccessi e la saggezza che ora attraversa! E' solo a prezzo di grandi abdicazioni che un popolo diventa "normale".

«Se il sole e la luna si mettessero a dubitare, si spegnerebbero immediatamente» (Blake). L'Europa dubita da tempo... e se la sua eclissi ci sgomenta, Americani e Russi la contemplano sia con serenità sia con gioia.

L'America si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza. Niente la preparava all'egemonia; e tuttavia tende ad essa, non senza qualche esitazione. Al contrario di altre nazioni che dovettero passare attraverso tutta una serie di umiliazioni e di sconfitte, l'America non ha conosciuto finora che la sterilità di una fortuna ininterrotta. Se in avvenire tutto continuerà a riuscirle allo stesso modo, la sua comparsa sarà stata un accidente irrilevante. Coloro che presiedono ai suoi destini, che prendono a cuore i suoi interessi, dovrebbero prepararle dei brutti giorni; perché smetta di essere un mostro di superficialità, ha bisogno di una prova di grande portata. Forse non ne è lontana. Dopo aver vissuto finora ignara dell'inferno, si appresta a discendervi. Se cerca un destino, lo troverà solamente sulle rovine di tutto ciò che fu la sua ragion d'essere.

Quanto alla Russia, non si può esaminare il suo passato senza sentire un brivido, un terrore "di prima qualità". Passato sordo, fatto di attesa, di ansia sotterranea, passato di talpe indemoniate. L'irruzione dei Russi farà tremare le nazioni; intanto hanno già introdotto l'assoluto in politica. E' questa la sfida che lanciano a un'umanità rosa dai dubbi, alla quale non mancheranno di dare il colpo di grazia. Se noi non abbiamo più anima, loro ne hanno da vendere. Prossimi alle loro origini, a quest'universo affettivo in cui lo spirito aderisce ancora alla terra, al sangue, alla carne, i Russi "sentono" ciò che pensano; le loro verità, come i loro errori, sono sensazioni, stimoli, atti. In realtà essi non pensano, deflagrano. Ancora fermi allo stadio in cui l'intelligenza non attenua né dissolve le ossessioni, ignorano gli effetti nocivi della riflessione, così come quegli eccessi della coscienza nei quali quest'ultima diventa fattore di sradicamento e anemia.

Possono dunque incamminarsi tranquillamente. Cos'hanno da affrontare se non un mondo linfatico? Non c'è nulla davanti a loro, nulla di vivo col quale possano scontrarsi, nessun ostacolo: non fu uno di loro ad usare per primo, in pieno diciannovesimo secolo, la parola «cimitero» a proposito dell'Occidente? Presto arriveranno in massa per visitarne le spoglie. I loro passi sono già percettibili a orecchi fini. Chi potrebbe opporre alle loro superstizioni in marcia anche solo un simulacro di certezza?

Fin dal secolo dei Lumi l'Europa non ha cessato di scalzare i propri idoli in nome dell'idea di tolleranza; comunque, finché fu potente, credette in questa idea e si batté per difenderla. I suoi stessi dubbi non erano che convinzioni mascherate; siccome attestavano la sua forza, aveva il diritto di vantarsene e il mezzo per imporli; ora non sono più che sintomi di snervatezza, vaghi sussulti di un istinto atrofizzato.

La distruzione degli idoli porta con sé quella dei pregiudizi. Ora, i pregiudizi - finzioni "organiche" di una civiltà - assicurano la sua durata, ne conservano la fisionomia. Essa deve rispettarli, se non tutti, almeno quelli che le sono peculiari e che nel passato ebbero l'importanza di una superstizione o di un rito. Se li considera quali pure convenzioni, se ne disferà sempre più, senza potere, con i propri mezzi, sostituirli. Ha votato un culto al capriccio, alla libertà, all'individuo? Conformismo di buona lega. Basta che smetta di piegarvisi, e capriccio, libertà, individuo diventeranno lettera morta.

Un minimo d'incoscienza è necessaria se ci si vuole mantenere nella storia. Agire è una cosa; sapere che si agisce è un'altra. Quando la chiaroveggenza investe l'atto e vi si insinua, l'atto si disfa e con esso il pregiudizio, la cui funzione consiste appunto nel subordinare, nell'asservire la coscienza all'atto... Colui che smaschera le proprie finzioni, rinuncia alle proprie energie e come a se stesso. Ne accetterà quindi delle altre che lo negheranno, perché queste non saranno scaturite dal suo intimo. Nessun essere che abbia a cuore il proprio equilibrio dovrebbe oltrepassare un certo grado di lucidità e di analisi. Quanto ciò è più vero per una civiltà, la quale vacilla per poco che denunci gli errori che consentirono la sua crescita e il suo splendore, per poco che metta in dubbio le sue verità!

Non senza rischio si abusa della propria facoltà di dubitare. Lo scettico, quando non trae più alcun principio attivo dai suoi problemi e interrogativi, si avvicina al proprio epilogo, anzi lo cerca, gli corre incontro: qualcun altro tronchi le sue incertezze, qualcun altro lo aiuti a soccombere! Non sapendo più qual uso fare delle sue inquietudini e della sua libertà, pensa con nostalgia al boia, anzi lo invoca. Coloro che a nulla hanno trovato risposta, sopportano gli effetti della tirannide meglio di coloro che hanno trovato risposta a tutto. Ed è così che di fronte alla morte i dilettanti fanno meno storie dei fanatici. Durante la Rivoluzione più d'un ex nobile affrontò il patibolo con il sorriso sulle labbra; quando toccò ai giacobini, vi salirono preoccupati e scuri in volto: morivano in nome di una verità, di un pregiudizio. Oggigiorno, dovunque volgessimo lo sguardo, non vedremmo che surrogati di verità, di pregiudizio; quanto a coloro cui anche tale surrogato manca, paiono più sereni ma il loro sorriso è meccanico: un povero, ultimo riflesso d'eleganza...

Né Russi né Americani erano abbastanza maturi, e neppure abbastanza corrotti intellettualmente per «salvare» l'Europa o riabilitarne la decadenza. I Tedeschi, ben altrimenti contaminati, avrebbero potuto conferirle una parvenza di durata, una coloritura d'avvenire. Ma, imperialisti in nome di un sogno ottuso e di un'ideologia ostile a tutti i valori sorti dal Rinascimento, avrebbero compiuto la loro missione alla rovescia, e guastato tutto per sempre. Chiamati a reggere il continente, a dargli un'apparenza di sviluppo, foss'anche per poche generazioni (il ventesimo secolo avrebbe dovuto essere tedesco, nel senso in cui il diciottesimo fu francese), seppero essere così maldestri da affrettarne lo sfacelo. Non contenti di averlo sconvolto e lasciato sottosopra, ne fecero per di più regalo alla Russia e all'America, giacché è per loro che seppero così bene guerreggiare e crollare. Così, eroi per conto terzi, autori di una tragica baraonda, son venuti meno al loro compito, al loro vero ruolo. Dopo aver meditato ed elaborato i temi del mondo moderno, prodotto Hegel e Marx, sarebbe stato loro dovere mettersi al servizio di un'idea universale e non di una visione da tribù. E tuttavia questa stessa visione, per grottesca che fosse, testimoniava in loro favore: non rivelava forse che essi soli in Occidente conservavano qualche residuo di freschezza e di barbarie, e che ancora erano capaci di un grande disegno o di una vigorosa insanità? Ma ora sappiamo che non hanno più il desiderio né la capacità di correre verso nuove avventure, che il loro orgoglio, perduta la sua mordacità, si debilita come loro, e che, vinti a loro volta dal fascino dell'abbandono, finiranno col portare il loro modesto contributo allo scacco generale.

Così com'è, l'Occidente non sussisterà indefinitamente: si prepara alla propria fine, non senza conoscere un periodo di sorprese... Pensiamo a quel che fu tra il quinto e il decimo secolo. Una crisi ben più grave lo attende; un altro stile si delineerà, popoli nuovi si formeranno. Per il momento raffiguriamoci il caos. Già molti vi si rassegnano. Invocando la Storia con l'idea di soccombervi, abdicando "in nome dell'avvenire", essi sognano, per il bisogno di sperare "contro se stessi", di vedersi sviliti, calpestati, «salvati»... Un simile sentimento condusse l'antichità a quel suicidio che fu la promessa cristiana.

"L'intellettuale stanco" riassume le deformità e i vizi di un mondo alla deriva. Egli non agisce, patisce; se si volge all'idea di tolleranza, non vi trova l'eccitante di cui avrebbe bisogno. Il terrore, sì, glielo procura, così come le dottrine delle quali è il risultato. E' forse la sua prima vittima? Non se ne lamenterà. La sola a sedurlo è la forza che lo stritola. Voler essere libero significa voler essere se stesso; ma è esasperato di essere se stesso, di camminare nell'incertezza, di vagare attraverso le verità. «Mettetemi le catene dell'Illusione», sospira, mentre dice addio alle peregrinazioni della Conoscenza. Così, si getterà a capofitto in qualsiasi mitologia che gli assicuri la protezione e la pace del giogo. Poiché rinuncia all'onore di addossarsi le proprie ansie, egli si imbarcherà in imprese dalle quali si aspetta sensazioni che non può attingere da se stesso, di modo che gli eccessi della sua stanchezza consolideranno le tirannie. Chiese, ideologie! polizie: cercatene l'origine nell'orrore che egli nutre verso la propria lucidità piuttosto che nella stupidità delle masse. Quest'aborto si trasforma, in nome di un'utopia da menefreghista, in becchino dell'intelletto, e, persuaso di far cosa utile, prostituisce quell'«inebetitevi» che fu la tragica esortazione di un genio solitario come Pascal.

Iconoclasta sconfitto, disgustato dal paradosso e dalla provocazione, alla ricerca dell'impersonalità e della consuetudine, semiprostrato, maturo per il dozzinale, egli abdica alla propria singolarità e si riconcilia con la moltitudine. Più nulla da rovesciare se non se stesso, ultimo idolo da abbattere... Le proprie rovine lo attirano.

E mentre le sta a guardare, modella le fattezze di nuovi dèi o ripristina gli antichi battezzandoli con nomi nuovi. Non più in grado di sostenere la dignità di essere difficile, sempre meno incline a soppesare le verità, si contenta di quelle che gli vengono offerte. Sottoprodotto del suo io, striscia ormai -demolitore infiacchito - davanti agli altari o a ciò che li sostituisce. Al tempio come al meeting il suo posto è là dove si canta, dove la sua voce è sovrastata, dove non sente più se stesso. Parodia del credere? Poco gliene importa poiché comunque non aspira che a desistere da se stesso. A un ritornello e approdata la sua filosofia, in un "Osanna" è naufragato il suo orgoglio!

Siamo giusti: al punto in cui sono le cose, cos'altro potrebbe fare? Il fascino e l'originalità dell'Europa risiedevano nell'acutezza del suo spirito critico, nel suo scetticismo militante, aggressivo; questo scetticismo ha fatto il suo tempo. Così l'intellettuale, frustrato dai suoi dubbi, cerca una compensazione nel dogma. Giunto ai confini dell'analisi, costernato dal nulla che vi scopre, torna sui suoi passi e cerca di appigliarsi alla prima certezza che incontra; ma gli manca l'ingenuità per aderirvi pienamente; da quel momento, fanatico "senza convinzioni", non è più che un ideologo, un pensatore ibrido come se ne trovano in tutte le epoche di transizione.

Partecipe di due stili differenti egli è, per la forma della sua intelligenza, tributario dello stile che scompare e, per le idee che difende, di quello che si profila. Per meglio comprenderlo, raffiguriamoci un sant'Agostino convertito solo a metà che vacilla e si destreggia, e che del cristianesimo abbia fatto proprio soltanto l'odio per il mondo antico. Non viviamo forse in un'epoca simmetrica a quella che vide nascere "La città di Dio"? Difficilmente si potrebbe concepire un libro più attuale. Oggi come allora gli animi hanno bisogno di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba.

I momenti di raffinatezza nascondono un principio di morte: niente è più fragile della finezza. L'abuso che se ne fa conduce ai catechismi, conclusione dei giochi dialettici, cedimento di un intelletto non più assistito dall'istinto. La filosofia antica, impelagata nei suoi scrupoli, aveva involontariamente aperto la via al semplicismo dei bassifondi; le sette religiose pullulavano, alle scuole seguirono i culti. Un'analoga disfatta ci minaccia: già imperversano le ideologie, mitologie degradate, da esse saremo impoveriti, annullati. Non potremo sostenere ancora per molto il fasto delle nostre contraddizioni. Molti sono coloro che si accingono a venerare un qualsiasi idolo e a servire una qualsiasi verità, purché l'uno e l'altra siano loro imposti e non debbano compiere lo sforzo di scegliere la propria vergogna o il proprio disastro.

Quale che sia il mondo a venire, gli Occidentali vi sosterranno la parte dei "graeculi" nell'impero romano Ricercati e disprezzati dai nuovi conquistatori, essi non avranno a disposizione, per ispirare rispetto, che le acrobazie della propria intelligenza o l'artificio del proprio passato. Già si distinguono nell'"arte di sopravvivere a se stessi". Ovunque sintomi di esaurimento: la Germania ha già dato prova di sé nella musica: come pensare che vi eccellerà ancora? Ha consumato le risorse della sua profondità, come la Francia quelle della sua eleganza. L'una e l'altra - e insieme ad esse tutto questo angolo di mondo - sono giunte al fallimento, il più prestigioso dai tempi dell'antichità. In un secondo tempo verrà la liquidazione: prospettiva non trascurabile, tregua la cui durata non si lascia calcolare, periodo di facilità nel quale ciascuno, di fronte alla liberazione finalmente giunta, sarà felice di lasciarsi alle spalle i tormenti della speranza e dell'attesa.

Fra tante sue perplessità e indolenze, l'Europa serba tuttavia una convinzione, una sola, che nulla al mondo le farebbe abbandonare: quella di aver un avvenire di vittima, di immolata. Una volta tanto risoluta e intransigente, si crede perduta, vuole esserlo e lo è. Del resto, non le è stato detto da tempo ormai che verrà assoggettata e schernita da nuove razze? Nel momento in cui sembrava in pieno sviluppo, nel diciottesimo secolo, l'abate Galiani constatava già il suo declino e glielo annunciava.

Rousseau, da parte sua, vaticinava:

«I Tartari diventeranno i nostri padroni: questa rivoluzione mi appare ineluttabile».

Diceva il vero. Quanto al secolo seguente, è noto il detto di Napoleone sui Cosacchi e le angosce profetiche di Tocqueville, di Michelet o di Renan. Questi presentimenti hanno preso corpo, queste intuizioni sono ormai moneta corrente. Non si abdica da un giorno all'altro: è necessaria un'atmosfera di distacco accuratamente predisposta, una leggenda della disfatta. Ora, questa atmosfera si è creata e così la leggenda. E come i precolombiani, pronti e rassegnati a subire l'invasione di lontani conquistatori, dovettero piegarsi quando costoro arrivarono, così gli Occidentali, troppo edotti, troppo consapevoli della loro servitù a venire, non intraprenderanno nulla per scongiurarla. Non ne avrebbero, d'altronde, né i mezzi, né il desiderio, né l'audacia.

I crociati, diventati coltivatori di orti, sono svaniti in questa posterità casalinga dove non resta più traccia di nomadismo. Ma la storia è nostalgia dello spazio e orrore di casa propria, sogno vagabondo e bisogno di morire lontano... , ma la storia è proprio ciò che più non vediamo dintorno.

Esiste una sazietà che incita alla scoperta, alla invenzione di miti, menzogne istigatrici di azioni: è ardore insoddisfatto, entusiasmo morboso che diventa sano non appena si fissa su un oggetto; ne esiste un'altra che, dissociando lo spirito dai suoi poteri e la vita dalle sue energie, impoverisce e inaridisce. Ipostasi caricaturale della noia, la sazietà disfa i miti o ne falsa l'uso. Una malattia, insomma. Chi voglia conoscerne i sintomi e la gravità, a torto andrebbe a cercarli lontano: si osservi, scopra fin dove l'Ovest lo ha segnato ...

Se la forza è contagiosa, la debolezza non lo è meno; ha il suo fascino; non è facile resisterle. Quando i debilitati sono una moltitudine, vi incantano, vi schiacciano: quale mezzo adottare contro un continente di abulici? E poiché il mal di volontà è per giunta piacevole, di buon grado ci si abbandona ad esso. Niente di più dolce che trascinarsi al di qua degli avvenimenti; e niente di più "ragionevole". Ma senza una buona dose di demenza, nessuna iniziativa, nessuna impresa, nessun gesto. La ragione: ruggine della nostra vitalità. E' il pazzo che è in noi ad obbligarci all'avventura; se ci abbandona, siamo perduti: tutto dipende da lui, perfino la nostra vita vegetativa; è lui che ci invita, che ci costringe a respirare, ed è ancora lui a far sì che il nostro sangue circoli nelle vene. Se ne va via? eccoci soli! Non si può essere insieme "normali" e vivi. Se io resto in una posizione verticale e mi accingo a colmare l'istante che giunge, se insomma concepisco il futuro, un felice guasto della mia mente ne è la causa. Sussisto e agisco in quanto sragiono, in quanto mando ad effetto i miei vaneggiamenti. Se divento sensato, ecco che tutto mi intimidisce: scivolo verso l'assenza, verso sorgenti che non vogliono scorrere, verso quella prostrazione che la vita dovette conoscere prima di concepire il movimento, accedo "a furia di viltà" alla natura intima delle cose, interamente costretto a un abisso di cui non so cosa fare poiché mi isola dal divenire. Un individuo, al pari di un popolo, di un continente, si estingue quando gli ripugnano i progetti e gli atti sconsiderati, quando, invece di arrischiarsi e di precipitarsi verso l'essere, vi si rintana, vi si trincera: metafisica della regressione, dell'al di qua, arretramento verso il primordiale!

Nella sua spaventosa ponderatezza, l'Europa si rifiuta a se stessa, al ricordo delle sue impertinenze e delle sue bravate, e perfino a "questa passione per l'inevitabile", supremo onore della sconfitta. Refrattaria a ogni forma di eccesso, a ogni forma di vita, l'Europa delibera e delibererà sempre, anche dopo aver cessato di esistere: non fa già l'effetto di un conciliabolo di spettri?

... Ricordo un povero diavolo che, ancora a letto a un'ora tarda della mattinata, diceva a se stesso con un tono imperioso: «Vuoi! vuoi!». La commedia si ripeteva ogni giorno: si addossava un compito che non poteva realizzare. Per lo meno, opponendosi al fantasma che era, disprezzava le delizie del suo letargo. Non si può dire altrettanto dell'Europa: avendo scoperto, al culmine dei suoi sforzi, il regno del non-volere, esulta perché ora sa che la sua rovina nasconde un principio di voluttà e intende approfittarne. L'abbandono la incanta e la soddisfa pienamente. Il tempo continua a scorrere? Non se ne allarma poi molto; che se ne occupino gli altri, è affar loro; questi altri non hanno idea di quale sollievo si possa provare a sguazzare in un presente che non conduce da nessuna parte...

Vivere qui è la morte; altrove, il suicidio. Dove andare? L'unica parte del pianeta dove l'esistenza sembrava aver qualche giustificazione è raggiunta dalla cancrena.

Questi popoli arcicivilizzati sono i nostri fornitori di disperazione. Per disperare non abbiamo infatti che da guardarli, osservare le macchinazioni della loro mente, l'indigenza delle loro brame, smorzate e quasi spente. Dopo aver così a lungo peccato contro la propria origine e trascurato il selvaggio, l'orda - loro punto di partenza -, sono obbligati a constatare di non possedere più una sola goccia di sangue unno.

Lo storico antico, dicendo di Roma che non poteva più sopportare i propri vizi né i loro rimedi, ha definito meno la propria epoca di quanto non abbia anticipato la nostra. Grande era senza dubbio la stanchezza dell'Impero, ma essa, disordinata e inventiva, sapeva ancora, per ingannare, coltivare il cinismo, il fasto e la ferocia, mentre quella alla quale assistiamo nella sua rigorosa mediocrità, non possiede nessuno di quei prestigi che illudono. Troppo flagrante, troppo sicura, essa evoca un male il cui ineluttabile automatismo rassicurerebbe paradossalmente sia il paziente che il medico: agonia in debita forma, esatta come un contratto, agonia stipulata, senza capricci né lacerazioni, ben degna di quei popoli che, non contenti d'aver respinto i pregiudizi che stimolano la vita, respingono anche quello che la giustifica e la costituisce: il pregiudizio del divenire.

Irruzione collettiva nella vacuità! Ma non inganniamoci: questa vacuità, diversa in ogni punto da quella che il buddhismo definisce «sede della verità», non è né compimento né liberazione, né positività espressa in termini negativi, né ancor meno sforzo meditativo, volontà di spoliazione e di nudità, conquista della salvezza, ma slittamento privo di nobiltà e di passione. Nata da una metafisica anemica, essa non può essere la ricompensa di una ricerca o il coronamento di un'inquietudine.

L'Oriente avanza verso la sua vacuità, vi prospera e vi trionfa, mentre noi ci impantaniamo nella nostra dove smarriamo le nostre ultime risorse. Decisamente, tutto si degrada e si corrompe nelle nostre coscienze: il vuoto stesso vi diventa impuro.

Tante conquiste, acquisizioni, idee, dove andranno a perpetuarsi? In Russia? in Nord America? Entrambe hanno già tratto le conseguenze dal peggio dell'Europa...

L'America Latina? Il Sudafrica? L'Australia? E' da quella parte che bisogna, così sembra, aspettarsi il rimpiazzo. Rimpiazzo caricaturale.

L'avvenire appartiene alla periferia del globo.

Se nelle cose dell'ingegno volessimo soppesare i successi dal Rinascimento in poi, non saranno quelli della filosofia a fermarci, poiché la filosofia occidentale non supera la greca, l'indiana o la cinese, tutt'al più le raggiunge in alcuni punti. Siccome rappresenta solo una varietà dello sforzo filosofico in generale, si potrebbe al limite farne a meno e opporle le meditazioni di Shankara, di Lao-zi, di Platone. Non è così per la musica, questo grande pretesto del mondo moderno, fenomeno che non ha confronti in nessun'altra tradizione: dove trovare l'equivalente di un Monteverdi, di un Bach, di un Mozart? E' attraverso la musica che l'Occidente rivela la sua fisionomia e raggiunge la profondità. Se l'Occidente non ha creato una saggezza né una metafisica che gli fossero del tutto proprie, e nemmeno una poesia della quale si possa dire che non ha esempio, in compenso ha proiettato nelle sue produzioni musicali tutta la sua forza di originalità, la sua finezza, il suo mistero e la sua capacità di ineffabile. Ha potuto amare la ragione fino al pervertimento; eppure il suo vero genio fu un genio affettivo. Il male che più lo onora? L'ipertrofia dell'anima.

Senza la musica l'Occidente non avrebbe prodotto che uno stile di civiltà insignificante, scontato... Se depositerà dunque il suo bilancio, la musica sola testimonierà che non si è sprecato invano, che davvero aveva qualcosa da perdere.

All'uomo accade talvolta di sfuggire alle persecuzioni del desiderio, alla tirannia dell'istinto di conservazione. Lusingato dalla prospettiva del decadimento scalza la propria volontà, si ingegna all'apatia, si erge contro se stesso, e chiama in aiuto il suo cattivo genio. Esagitato, in preda a mille attività che gli nuocciono, scopre un dinamismo di cui non aveva sospettato l'attrattiva, il dinamismo del disgregamento.

Ne è tutto fiero: potrà infine rinnovarsi "a sue spese".

Nell'intimo degli individui, come delle collettività abita un'energia distruttrice che permette loro di sgretolarsi con un certo brio: esaltazione acida, euforia dell'annientamento! Nell'abbandonarsi ad essa sperano forse di guarire da quella malattia che è la coscienza. Di fatto, ogni stato cosciente ci estenua, ci sfibra, cospira al nostro logoramento; più cresce il suo dominio su di noi, più vorremmo far ritorno alla notte che precedeva le nostre veglie, immergerci nell'assopimento anteriore alle macchinazioni, all'attentato dell'Io. Aspirazione di menti spossate e che spiega perché mai in certe epoche l'individuo, esasperato di inciampare sempre in se stesso, di rimasticare la propria differenza, si volga verso quei tempi in cui, essendo tutt'uno con il mondo, ancora non aveva piantato in asso gli esseri né era degenerato in uomo.

Avidità e orrore della coscienza, la Storia traduce il desiderio di un animale malato di compiere la propria vocazione e insieme la paura di riuscirvi. Paura giustificata: quale disgrazia lo attende al traguardo della sua avventura! Non viviamo forse in uno di quei momenti in cui, in uno spazio dato, egli ci fa assistere alla sua ultima metamorfosi?

Quando passo in rassegna i meriti dell'Europa, mi intenerisco e me ne voglio per dirne tanto male; se, invece, ne enumero i punti deboli una rabbia mi scuote. Vorrei allora che sparisse al più presto e che ne svanisse il ricordo. Ma altre volte, nell'evocarne e gli onori e le vergogne, non so verso quali inclinare: la amo con rimpianto, la amo con ferocia, e non le perdono di avermi costretto a dei sentimenti fra i quali non mi è consentito scegliere. Se almeno potessi starmene indifferente a guardare la delicatezza, le attrattive delle sue piaghe! Per gioco ho aspirato a crollare con lei, e a questo gioco mi sono appassionato. Nessuno sforzo mi è sembrato troppo grande per riappropriarmi della grazia che fu sua e di cui conserva ancora alcune tracce, per riviverla, per perpetuarne il segreto. Vana fatica! - Un uomo delle caverne impigliato in merletti...

Lo spirito è vampiro. Si fissa su una civiltà? La lascia prostrata, disfatta, senza respiro, priva dell'equivalente spirituale del sangue, la spoglia della sua sostanza, come dell'impulso che la trascinava ad atti e a scandali di prim'ordine. Impegnata in un processo di deterioramento da cui nulla la distrae, essa ci offre l'immagine dei nostri pericoli e la contraffazione del nostro avvenire: è il nostro vuoto, "è noi"; vi ritroviamo le nostre inettitudini e i nostri vizi, la nostra volontà vacillante e i nostri istinti polverizzati. La paura che ci ispira: paura di noi stessi! E se, proprio come essa, giacciamo prostrati, disfatti, senza respiro, è perché anche noi abbiamo conosciuto e subito il vampirismo dello spirito.

Se anche non avessi mai intuito l'irreparabile, un rapido sguardo all'Europa sarebbe bastato a farmene provare il brivido. Preservandomi dal vago, essa giustifica, attizza e lusinga i miei terrori, ricopre per me la funzione assegnata al cadavere nella meditazione del monaco.

Sul letto di morte, Filippo Secondo fece venire suo figlio e gli disse: «Ecco dove tutto ha fine, anche la monarchia». Al capezzale di questa Europa, non so quale voce mi avverte: «Ecco dove tutto ha fine, anche la civiltà».

A che serve polemizzare con il nulla? E' tempo di ricomporci, di trionfare sulla fascinazione del peggio. Non tutto è perduto: restano i barbari. Da dove emergeranno? Non importa. Per il momento, ricordiamoci che presto si metteranno in marcia, e che, pur preparandosi a festeggiare la nostra rovina, meditano sui mezzi per risanarci, per porre termine al nostro raziocinare e ai nostri sproloqui. Nell'umiliarci, nel calpestarci, ci conferiranno energia sufficiente per aiutarci a morire, o a rinascere.

Che vengano a sferzare il nostro pallore, a rinvigorire le nostre ombre, che ci riportino la linfa che ci ha abbandonati. Avvizziti esangui, non possiamo reagire contro la fatalità: gli agonizzanti non si coalizzano né si ammutinano. Come contare sul risveglio, sulle collere dell'Europa? La sua sorte e persino le sue rivolte sono decise altrove. Stanca di durare, di intrattenersi ancora con se stessa, l'Europa è un vuoto verso il quale muoveranno ben presto le steppe... un altro vuoto, un vuoto "nuovo".