La tentazione della neutralità
In Vremeubežište (letteralmente: “rifugio del tempo”) l’autore bulgaro non nasconde il suo debito con La montagna magica di Thomas Mann. Il titolo ha due sensi di lettura, il sentimentale rifugio nel tempo, come caldo cronotopo ideale (il proprio decennio preferito), riparato da una realtà presente straniante e minacciosa, e il rifugio dal tempo, in cui trovare riparo dalla minaccia del passato, che può «essere spietato», «infettarsi» e far male. Il protagonista del racconto, Gaustìn, ha fondato a Zurigo una “clinica del passato” per ospitare chi, a causa di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, ha perso la memoria. Il percorso terapeutico della clinica prevede una graduale ricerca e riappropriazione dei ricordi perduti. Ogni piano dell’edificio che la ospita riproduce filologicamente un decennio del secolo scorso; ma un rifugio dal presente finisce infine per attrarre anche chi è sano, perché la diagnosi di una patologia della memoria ha per Gospodinov una dimensione epocale: il tempo dell’Alzheimer di massa.
Di un tipo di cronorifugio archetipico e intriso di malessere aveva già scritto Carl Gustav Jung – anch’egli svizzero e geloso della neutralità dell’anima elvetica; esemplare il testo La riga svizzera nello spettro europeo (Die Bedeutung der schweizerischen Linie im Spektrum Europas, 1928) – in Psicologia e problemi nazionali (Psychology and National Problems), conferenza in lingua inglese tenuta presso l’Istituto di Psicologia medica (Tavistock Clinic) di Londra nell’ottobre del 1936. Cronorifugio da quale malessere? Dal disagio psicologico delle nazioni sconfitte nella Grande guerra. Somma di spaesamenti generati in una massa aggregata di singoli che, dal loro punto di vista, privato e individuale, hanno perduto e si sono impoveriti. Ex post, la depressione dei vinti in guerra indagata da Jung sarà una metafora anticipatrice del più largo incombere del futuro e del progresso (l’età senza tempo del Settembrini di Mann) nel mondo chiuso e malinconico di un qualunque uomo inattuale e sconfitto da una weltisierung (mondializzazione) livellatrice e senza radici. Sarà questo soggetto spaesato e dalla memoria malata, afflitto da nevrosi e psicosi, a cercare rifugio in un tempo sì ancestrale e primitivo, ma capace di violentare il presente, il futuro e i mostri della democrazia e dell’epoca liberale. Quest’uomo atterrito dalla modernità avrà una doppia natura. In quanto comune mortale – come già lo fu Hitler – sarà un «ometto timido e cortese», «inoffensivo e modesto», ma come esponente delle viscere del suo torbido animo sarà un neopagano (adoratore di Wotan e del ciclo wotanico), un anticristiano, uno sciamano (come il «medium di Braunau», città natale degli spiritisti Willi e Rudi Schneider), capace di far tuonare la sua voce e «spazzar via, come foglie d’autunno, intere folle di milioni di persone».
L’ideale congiunzione tra Jung e Gospodinov è la fine degli anni Trenta e non è solo il termine di un decennio: «il 1° settembre del 1939 la mattina presto, giunse la fine del tempo umano» (G. Gospodinov), giorno dell’invasione tedesca della Polonia. Incubo e trauma destinato a restare senza tempo e a riproporsi angosciosamente in forma attenuata nell’epilogo del romanzo: «Le truppe si ammassano e attendono. I primi colpi partiranno dalla nave Schleswig-Holstein contro i depositi militari della penisola di Westerplatte, presso Danzica. Ci si prepara da tempo, si attende il momento esatto, qualche ricorrenza. Tutto sarà ricostruito, ora per ora. C’è un piccolo disaccordo preliminare sui minuti, alcuni asseriscono che l’inizio è alle 4:44, altri alle 4:48. Cadrà il primo soldato ucciso in questa guerra, il sergente polacco Wojciech Najsarek. La Luftwaffe sosterrà l’aggressione dal cielo… Nel Mar Baltico sono in attesa alcuni sottomarini». E non sarà la sequenza filmica di un documento del passato, ma una risacca potenzialmente perniciosa, camuffata da public history o da historical reenactment: «La più grande ricostruzione di guerra mai fatta, in scala reale, con un milione e mezzo di comparse come soldati della Wehrmacht, disposti lungo tutto il confine con la Polonia, esteso 1.600 chilometri, 62 divisioni, 54 delle quali in assetto di guerra, 2.800 carri armati, 2.000 aerei (i vecchi Junkers e Stuka sono stati riparati), cannoni d’artiglieria attendono nascosti nei boschi, sottomarini, corazzate, una flotta di cacciatorpediniere, una flotta di MAS. Ripetiamo questa guerra perché non si ripeta mai più, dirà qualcuno per radio e questa assurda tautologia sbloccherà tutto». Gospodinov ha intuito che una nazione sconfitta e afflitta dal disagio psichico potrebbe un giorno affidare le sue speranze al cronorifugio di una barbarica guerra di aggressione, generando inevitabilmente l’impressione di una spettacolare messinscena.
Nel libro si parla molto della Svizzera, come Paese del «grado zero del tempo», eppur disposto a ospitare surrogati di ogni tempo. E si parla di Zurigo, come città buona per viverci e soprattutto per morirci. Una città tranquilla come un cimitero, capitale occidentale della noia, del tempo e dell’invecchiamento. Lì «si sono annoiati Canetti, Joyce, Dürrenmatt, Frisch e anche Thomas Mann». Non a caso due grandi scoperte del XX secolo, legate al tempo, si sono verificate in Svizzera: «la teoria della relatività di Einstein e La montagna magica di Thomas Mann». Il cronorifugio innominabile e privo di qualunque tasso di figuralità è la morte, l’utopia disvelata, l’epilogo ineluttabile di ogni malattia, vita compresa. «La maggior parte andava in un ospizio e restava in vita ancora per un po’ grazie alle apparecchiature, malgrado i segnali che il corpo ormai rifiutava di sostenere la vita. Si suicida un pezzo dopo l’altro, un organo alla volta, cellula dopo cellula. E i corpi non ce la fanno più, si stancano, vogliono pace. Solo in alcune parti del mondo questo desiderio del corpo può essere ascoltato». Oltre che per i vivi, la Svizzera è un paradiso anche per i moribondi. Zurigo ha tanti primati, ad esempio è la prima delle città al mondo per morire, l’eldorado dell’eutanasia: Switzerland as eutanasiland. «I dati indicano circa 1.000 stranieri all’anno, soprattutto tedeschi, ma anche inglesi. E non solo persone incurabili. Coppie di anziani che hanno deciso in anticipo di andarsene insieme, se uno dei due è già un malato terminale. Li immagino arrivare, docili e impacciati, mano nella mano. Per affrontare così, mano nella mano, l’intera procedura. Non vogliono perdersi di vista negli infiniti campi elisi». C’è però una ragione occulta, che Gospodinov coglie in modo fulmineo, e che rende la Svizzera capitale naturale dell’eutanasia. Dopo la carneficina della Seconda guerra mondiale e l’industria nazista della morte, l’Europa non può permettersi di offrire una buona morte con leggerezza ed è così che la plurisecolare neutralità elvetica ha trasformato la Svizzera in monopolista dell’affare.
Il climax del romanzo è la notizia dell’indizione del primo referendum europeo sul passato, con relativa campagna elettorale per eleggere un decennio ideale: piccola patria temporale adatta ai desideri di ciascun popolo. Ad esempio gli anni Ottanta per Austria, Francia, Germania, Spagna e Polonia, i Settanta per Portogallo, Svezia e Danimarca, i Novanta per la Repubblica Ceca e, caso isolato, gli anni Sessanta per l’Italia. Anche gli svizzeri, a sorpresa, prenderanno parte al voto. Sceglieranno forse gli anni Quaranta? Forse, con orrore di tutti, ma fedelmente alla loro secolare divergenza dal banco di macelleria del resto d’Europa. In un continente insanguinato la Svizzera sarà stata o no un’isola di pace? Tutt’altro, osserva Gospodinov, la fine del mondo incombeva anche lì, e con angoscia crescente, mista a gioia del male. Gli aerei rombavano lungo i confini e Hitler aveva anche un piano per conquistarla, città dopo città. «Ascoltare tutte le atrocità fatte ai tuoi vicini, dormire col fucile e in pieno assetto di guerra. Scavare le Alpi per costruire bunker, li chiamavamo “ridotte”, nasconderti nelle ridotte, continuare ad aumentare crediti e concessioni per il Reich». All’ultimo minuto però gli antichi maestri rousseauiani del referendum, proprio gli elvetici, prenderanno una decisione di buon senso e del tutto inattesa: la neutralità cronologica. Vale a dire l’attimo, l’anno, il mese e il giorno stesso del referendum, destinato a diventare immediatamente e inesorabilmente asincrono. Conservare la neutralità, del resto, è sempre stato un gioco fuori dal tempo, un perfetto cronorifugio dal passato in un territorio neutrale. Sul tempo oggettivo e legale della Svizzera tutti avrebbero potuto regolare i propri orologi, trovando «uno standard aureo del tempo, al quale gli altri avevano rinunciato». E se qualcuno avesse patito un improvviso attacco di claustrofobia del passato? Avrebbe trovato temporaneo rifugio in Svizzera. Rese angosciate e nevrotiche dal terrore del passato, proprio le istituzioni europee indipendenti – nel rispetto della nuova geocronia continentale disegnata da un nuovo “congresso di Vienna” del sovranismo storico (cuius regio, eius tempus) – sceglieranno inaspettatamente di localizzarsi in quel Paese anodino, al riparo da risacche del passato potenzialmente infette.
CRONORIFUGIO
“Nessuno ha ancora inventato una maschera antigas
e un rifugio antiaereo contro il tempo.”
GAUSTÌN, Cronorifugio, 1939
“E qual è il nostro organo per il tempo?
Potresti dirmelo?”
THOMAS MANN, La montagna magica
“L’uomo è l’unica macchina del tempo
di cui disponiamo.”
GAUSTÌN, Contro le utopie, 2001
“Dove si può vivere se non nei giorni?”
PHILIP LARKIN, Giorni
“Oh, yesterday came suddenly...”
LENNON/McCARTNEY
“...se la strada fosse il tempo e lui fosse là
al fondo della strada.”
T.S. ELIOT, The Boston Evening Transcript
“Questo nostro eterno ieri, ieri, ieri...”
GAUSTÌN/SHAKESPEARE
“Il romanzo viene per urgenza coi fari accesi
e a sirene spiegate.”
GAUSTÌN, Emergency Novel.
Brief Theory and Practice
“...e Dio riconduce ciò che è passato.”
ECCLESIASTE, 3,15
“Il passato si differenzia dal presente
per una cosa essenziale
– non scorre mai in un’unica direzione.”
GAUSTÌN, Fisica del passato, 1905
“Una volta, quand’era piccola,
aveva disegnato un animale
assolutamente irriconoscibile.
Cos’è questo? le ho chiesto.
A volte è un pescecane, a volte un leone
e a volte una nuvola, mi ha risposto.
Ah, ma ora cos’è di preciso?
Ora è un nascondiglio.”
G.G.,Inizi e finali
1
CLINICA DEL PASSATO
E così il tema è la memoria. Tempo: da andante ad andante moderato, sostenuto*. Forse la sarabanda con la sua solennità controllata e con un prolungato secondo tempo andrebbe proprio bene per l’inizio. Piuttosto Händel che Bach. Rigorosa ripetizione unita a un movimento in avanti. Sostenuto e solenne come conviene per un inizio. Poi tutto può – e deve – dissolversi.
1.
A un certo punto decisero di calcolare quando fosse cominciato il tempo e quando precisamente fosse stata creata la terra. Il vescovo irlandese Ussher, della metà del XVII secolo, calcolò non soltanto l’anno preciso, ma anche la data d’inizio: il 22 ottobre del 4004 avanti Cristo. Era di sabato, ovvio. Secondo alcuni Ussher indica anche l’ora esatta: le 6 del pomeriggio. Sabato pomeriggio, non ho il minimo dubbio. In quale altro momento della settimana un annoiato creatore avrebbe cominciato a costruire il mondo e a cercare compagnia. Ussher dedicò tutta la vita a questo scopo, la sua relazione conta 2.000 pagine in latino, escludo che in tanti si siano presi la briga di leggerla per intero. Ma poi divenne straordinariamente popolare, non proprio la sua relazione, ma la sua scoperta. Le Bibbie dell’Isola cominciarono a uscire a stampa con la data e la cronologia indicate da Ussher. Questa teoria di una terra giovane (e, secondo me, di un tempo giovane) conquistò il mondo cristiano. Bisogna dire che perfino scienziati come Keplero e sir Isaac Newton per datare l’opera divina indicano anni concreti all’incirca prossimi a quelli di Ussher. Ma per me la cosa più sbalorditiva non è l’anno tanto recente, ma il giorno concreto.
Il 22 ottobre dell’anno 4004 avanti Cristo, alle 6 del pomeriggio.
Da qualche parte, nel dicembre del 1910 o pressappoco, il carattere dell’uomo subì un mutamento. Così scrive Virginia Woolf. E ci si può immaginare quel dicembre del 1910, in apparenza uguale agli altri, grigio, freddo e con l’odore della neve appena caduta. Ma qualcosa si era spezzato, qualcosa che solo pochi avevano percepito.
Il 1° settembre del 1939, la mattina presto, giunse la fine del tempo umano.
2.
Anni dopo, quando molti dei suoi ricordi stavano per dileguarsi come colombi spaventati, lui poteva ancora tornare a quella mattina, quando camminava senza alcuna meta per le vie di Vienna e un barbone coi baffi alla García Márquez vendeva giornali sul marciapiede sotto un precoce sole di marzo. Si levò il vento e alcuni giornali si librarono in aria. Provò a essere d’aiuto, ne raggiunse due o tre e glieli restituì.
Potete tenerne uno, gli disse Márquez.
Gaustìn, lo chiameremo così, anche se lui stesso usava questo nome come un cappello che renda invisibili, prese il giornale e porse una banconota di taglio assai grosso rispetto alla circostanza. Il barbone se la rigirò tra le mani e sbottò: Ma... non ho il resto. La frase risuonò in modo talmente assurdo nella precoce mattina viennese che entrambi scoppiarono a ridere.
Gaustìn provava nei confronti dei senzatetto amore e paura, erano queste le sue parole, sempre enunciate assieme. Li amava e aveva paura di loro, come ami e hai paura di qualcosa che sei già stato o che t’aspetti di diventare un giorno. Sapeva che prima o poi sarebbe entrato a far parte del loro esercito, per usare un cliché. Immaginò per un attimo le lunghe file di barboni in marcia per la Kärntner Strasse o il Graben. Sì, per natura lui era uno di loro, anche se un po’ particolare. Un senza tempo, per così dire. Semplicemente, per una serie di circostanze, si era ritrovato con qualche soldo, sufficiente a evitare che un malessere metafisico si trasformasse in sofferenza fisica.
In quel momento esercitava una delle sue professioni, quella di psichiatra gerontologo. Sospettavo che si appropriasse di nascosto delle storie dei suoi pazienti rifugiandosi in esse per fermarsi un po’ nel posto e nel passato di qualcuno. Altrimenti nella sua testa c’era una tale confusione di tempi, voci e luoghi che o avrebbe dovuto consegnarsi senza indugio nelle mani dei suoi colleghi psichiatri o avrebbe combinato cose per le quali questi lo avrebbero fatto rinchiudere.
Gaustìn prese il giornale, fece qualche passo e si sedette su una panchina. Portava un borsalino, un impermeabile scuro, sotto cui si vedeva un dolcevita tirato su, delle vecchie scarpe di cuoio e una cartella di pelle di un rosso che si andava spegnendo nobilmente. Assomigliava a un uomo appena arrivato in treno da un altro decennio, poteva essere preso per un anarchico discreto, un hippy invecchiato o un predicatore di qualche chiesa poco nota.
E così, sedette su una panchina e lesse il nome del giornale, “Augustin”, edizione dei barboni. Una sezione del giornale era scritta da loro e un’altra da giornalisti di professione. Là da qualche parte, nell’angolo sinistro in basso della penultima pagina, nel posto meno visibile di un giornale, come sanno tutti coloro che ci lavorano, c’era una noterella. Il suo sguardo ci cadde sopra. Un sorriso sottile, che esprimeva più amarezza che gioia, gli passò sul viso. Avrebbe dovuto scomparire di nuovo.
3.
Un tempo, quando il signor Alzheimer veniva ricordato soltanto in qualche barzelletta, che diagnosi ti hanno fatto, mah, era un nome maschile, però me lo sono scordato, comparve un sintetico annuncio su un giornale poco diffuso, di quel tipo di notizie che, su cinque persone che le avevano lette, quattro le avevano dimenticate all’istante.
Ecco l’annuncio riassunto in breve.
Un medico, il dottor G. (viene citata solamente l’iniziale) della clinica geriatrica viennese nel Wienerwald, appassionato dei Beatles, ha attrezzato il suo studio in stile anni ’60. Ha trovato un grammofono di bachelite, ha attaccato alle pareti manifesti della band come il celebre Sgt. Pepper’s... Ha comprato al mercato delle pulci un vecchio scaffale e ci ha sistemato ogni tipo di oggettini e carabattole risalenti agli anni ’60 – saponi, pacchetti di sigarette, una serie di modellini di Maggiolini Volkswagen, Cadillac e Mustang rosa, poster di film, di attori. Si specificava che lo studio era stracolmo di vecchie riviste e che lui stesso sotto il camice bianco indossava un dolcevita. Ovviamente non c’erano fotografie, l’intero annuncio era di una trentina di righe, seminascosto nell’angolo in fondo a sinistra. Secondo la notizia il medico aveva notato che i pazienti con disturbi della memoria rimanevano più a lungo nello studio, diventavano più loquaci, in altre parole si sentivano più a loro agio. Ed erano nettamente diminuiti i frequenti tentativi di fuga da quella clinica comunque assai rinomata.
Non veniva citato il nome dell’autore del pezzo, firmato dalla redazione del giornale.
Avevo avuto un’idea identica, la covavo in mente da anni ma era evidente che qualcuno mi aveva preceduto. (Devo confessare che la mia idea si riferiva a un romanzo, non a una clinica, ma fa lo stesso.)
Quando potevo mi procuravo sempre quel giornale di strada, da un lato per il mio particolare attaccamento a quelli che lo scrivevano, una lunga storia che viene da un altro romanzo, ma anche per la limpida sensazione (superstizione personale) che proprio in quel modo, per mezzo di un pezzo di giornale, quello che devi sapere ti vola addosso e ti colpisce chiaro negli occhi. E su questo non mi sono mai sbagliato.
C’era scritto che la clinica si trovava nel bosco viennese e niente altro. Ho controllato i centri geriatrici nelle vicinanze e almeno tre erano là. Quello che mi occorreva risultò essere l’ultimo, come del resto succede sempre. Mi presentai come giornalista, non era una grossa bugia, avevo la tessera di un giornale per poter entrare gratis nei musei e qualche volta vi pubblicavo qualcosa. Altrimenti esercitavo la più innocua e sfuggente professione di scrittore, per la quale non c’è modo di legittimarsi.
Comunque riuscii, sia pure con qualche difficoltà, a giungere fino alla direttrice della clinica. Quando capì cosa mi interessava, di colpo si fece poco socievole. La persona che cerca da ieri non è più presente. Perché? Si è dimesso, per accordo reciproco, rispose scivolando negli sdrucciolevoli campi del linguaggio impiegatizio. È stato licenziato? mi meravigliai sinceramente. Le ho detto per accordo reciproco. Perché se ne interessa? Ho letto su un giornale una settimana fa un pezzo interessante... Mentre pronunciavo la frase, mi resi conto che stavo facendo uno sbaglio. Quel pezzo con i tentativi di fuga dalla clinica? Per quanto ci riguarda, abbiamo sporto denuncia per smentire la cosa. Capii che non c’era più alcuna ragione per rimanere là e capii anche il motivo delle dimissioni per accordo reciproco. Può dirmi il nome del medico, mi voltai a chiedere mentre uscivo, ma lei stava già parlando al telefono.
Non lasciai subito la clinica, scoprii un settore che ospitava gli studi medici e vidi un addetto proprio intento a smontare la targa della terza porta a destra. Lo sospettavo sin dall’inizio.
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