LA SAGGEZZA DEL GATTO
Estratto da "Il tempo senza età" di Marc Augé
L’avevamo trovata nella foresta di Marly – l’ex riserva di caccia reale accanto a Parigi – abbandonata già da un bel po’, affamata, supplichevole e ben decisa a non lasciarci ripartire senza di lei. Io ero dello stesso parere e i miei genitori si erano lasciati convincere: ero figlio unico, avevo una decina d’anni e saremmo cresciuti insieme, lei – va da sé – più rapidamente di me.
Questa gattina aveva carattere e unghie robuste di cui faceva uso volentieri, in special modo quando mi intestardivo a insegnarle a girare più volte su se stessa, come se fosse stata un cavallo addestrato per uno spettacolo circense. Ben presto i graffi e i morsi mi avevano coperto le braccia, che, pur tuttavia, sembravano soffrire meno del velluto delle poltrone del salotto sulle quali, con gran disperazione di mia madre, insisteva ad arrotare gli artigli come se volesse essere sicura fossero sempre ben affilati.
Sono cresciuto e lei è invecchiata senza apparentemente cambiare molto nell’aspetto. Con un briciolo di malafede qualche volta mi dicevo che si era calmata, ma in realtà sapevo che ero io ad aver rinunciato a provocarla. Mani e braccia non mi sanguinavano più e i nostri rapporti erano diventati indubbiamente meno ludici, più quieti, si può dire quasi contemplativi. Amava dominare la situazione dalla credenza situata in salotto, giusto dietro a una delle poltrone dall’alto schienale che aveva massacrato. Da giovane vi arrivava in cima in un solo salto, senza sforzo, prima di raggiungere con un altro piccolo balzo elegante il suo punto d’osservazione preferito, la credenza appunto. A volte preferiva rimanere sulla poltrona e allora si accucciava – in equilibrio instabile, zampe prudentemente ripiegate – sulla battuta superiore dello schienale e mi osservava tranquillamente come se mi sfidasse a fare altrettanto. O, almeno, tale era l’impressione che traevo da questo spettacolo stupefacente – un’impressione plausibilmente attribuibile ai miei rimorsi di addestratore fallito. Si cercava da sola le difficoltà: a volte l’ho vista tendere i muscoli, fissare la cima ambita, valutarne l’altezza e riuscire nella sua impresa di un tragitto diretto pavimento-credenza senza la mediazione della poltrona. E poi nel corso degli anni, impercettibilmente, le sue forze hanno incominciato a cedere. Prima ha rinunciato alla credenza, poi non ha più mirato alla cima dello schienale. Per ore rimaneva volentieri acciambellata sulla seduta della poltrona, fedele al luogo, ma, diciamo, al piano inferiore. Dopo ancora non riusciva nemmeno più a saltare sulla poltrona stessa che è allora diventata il soffitto del suo nuovo luogo di riposo.
Un paio di volte ho tentato di aiutarla deponendola sulla credenza. Senza risentirsi – per dirla onestamente – della mia iniziativa, mi è sembrata disorientata e ansiosa di scendere al più presto. Non era più il suo piano. Ho capito di aver fatto, per così dire, una gaffe, un errore di buongusto, o a dir meglio, di educazione. E me ne sono pentito amaramente. La sua indole è rimasta la stessa fino alla fine, godendo del più piccolo raggio di sole; incollata al calorifero in inverno; drizzando le orecchie al primo tubare dei piccioni in primavera; accettando i segni del nostro affetto costante con l’identica benigna indifferenza che aveva sempre fatto parte del suo fascino da quando era giovane.
Mounette – il nome che le avevamo dato senza grandi sforzi di originalità1 – ha avuto una lunga vita da gatto ed è morta a circa quindici anni nell’appartamento dei miei genitori che io avevo lasciato da poco.
Tutti i possessori di animali domestici attribuiscono loro, e volentieri, qualità di cuore e di animo, definendoli fedeli, leali, sinceri e perfino intelligenti. Siffatti giudizi – a parte tradurre il carattere nevrotico che potrebbe attagliarsi, nei due sensi, alla relazione uomini-animali – comportano che, in regola generale, questi ultimi non subiscano le pressioni sociali di qualunque natura che, invece, si esercitano sui primi. Per quanto domestici siano, questi animali sono dunque visti come se incarnassero spontaneamente qualità prettamente naturali. Che non ci si fraintenda: non sto suggerendo che il mio gatto fosse un saggio. Non studio la psicologia felina: qui si tratta dell’immagine che me ne sono fatto.
In seguito ho avuto altri due gatti, una coppia che – ne ero ben consapevole – era indissociabile. Al pari degli esseri umani, la forza dell’abitudine era certamente il cemento della loro relazione. Da giovani si bisticciavano spesso e il loro giocare incessante finiva rapidamente in rissa. D’altro canto tenevano molto alla loro indipendenza e quando soggiornavamo in campagna partivano all’avventura ognuno per suo conto anche se si ritrovavano presto e ogni sera si accucciavano uno accanto all’altro, gli occhi socchiusi e l’aria complice. Sono invecchiati allo stesso ritmo e quando il primo è morto l’altro non ha dato segno di inquietudine particolare, acciambellandosi da solo al solito posto. E, pur tuttavia, se ne è andato a sua volta qualche giorno dopo.
Il gatto non è una metafora dell’uomo, bensì un simbolo di quella che potrebbe essere una relazione con il tempo che riuscirebbe a fare astrazione dall’età. Noi ci immergiamo nel tempo, ne assaporiamo alcuni istanti; ci proiettiamo in esso, lo reinventiamo, ci giochiamo; “prendiamo il nostro tempo” o “lo lasciamo scorrere”: è la materia prima della nostra immaginazione. Di contro, l’età è la spunta minuziosa dei giorni che passano, la visione a senso unico degli anni la cui somma accumulata, una volta visto il totale, ci può far sprofondare nello stupore. L’età ci perimetra tutti, tra una data di nascita di cui – almeno nel mondo occidentale – siamo certi e una scadenza che, in regola generale, auspicheremmo differire. Il tempo è una libertà, l’età un vincolo. Un vincolo che, apparentemente, il gatto non sa cosa sia.
In queste pagine non si troveranno né un diario, né Memorie e, ancor meno, una confessione, bensì un proposito personale, partendo dalla mia esperienza e dalle mie letture. Per ciascuno di noi la vita rappresenta una lunga e involontaria indagine. Io ho tentato in questo libro di dare sostegno a una conclusione che confermerà certamente l’intuizione di alcuni e stupirà altri, visto che considera in senso opposto i luoghi comuni della saggezza popolare quali “Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait”… sta a dire “Se i giovani sapessero, se i vecchi potessero”. Come fonte di sapere o accumulo di esperienze, la vecchiaia non esiste e per rendersene conto basta arrivarci. Certamente, i malanni e le debolezze che si accompagnano alla vecchiaia si presentano – eccome! – più o meno presto, più o meno crudeli, ma non aspettano sempre l’età per colpire e lo fanno iniquamente sugli uni o sugli altri.
Quanto agli stati d’animo e al comportamento degli anziani si constata spesso quanto siano “patinati” dal linguaggio dei meno anziani, anche, e soprattutto, se questi hanno buone intenzioni. All’epoca, si è sottolineato il linguaggio paternalistico di certi colonizzatori che non sempre erano i più cinici, ma di certo i più miopi. Quale aggettivo trovare per definire chi è a volte responsabile delle persone anziane che si indicano come “dipendenti” in modo da poter loro dimostrare la propria attenzione? Penso ad alcune persone ben intenzionate – uomini o donne che siano –, infermieri, paramedici o ausiliari nell’ambito medico, per esempio, che si prendono delle libertà rivolgendosi alle persone di cui si occupano con un “nonnino” o “nonnina”. In una sorta di inversione del ruolo linguistico così facendo tendono paradossalmente a infantilizzare quelle persone – uomini o donne che siano – di cui appaiono come i nipoti. Lo sdrucciolamento dei termini “Nonnino! Nonnina!” nel termine generico (i nonnini e le nonnine) segue la stessa ottica. La gentilezza e l’affetto possono avere effetti avvilenti su chi ne è l’oggetto: donne o uomini che siano, li invitano e li incitano a penetrare in una categoria esclusiva e che esclude, una sorta di casa di riposo semantica all’interno della quale si sentiranno passivi, tranquilli e comodi, ma in ogni caso alienati agli occhi degli altri.
Recentemente la stampa ha portato a conoscenza del pubblico la creazione di corsi di formazione rivolti all’attenzione del personale di alcune case di riposo per aiutarlo “ad accettare la necessità d’intimità degli ospiti dalla sessualità viepiù liberata”. È stata istruttiva la lettura di un articolo di Manon Gauthier-Faure dedicato al tema e pubblicato dal quotidiano Le Monde il 9 agosto 2013. Ha rivelato gli stati d’animo del personale medico e paramedico e dunque, indirettamente, le modalità organizzative di queste case di riposo. Un aiuto infermiera confessa che i corsi di formazione le sono stati grandemente utili: “Non è cosa comune o scontata vedere una persona anziana che ne bacia un’altra. Prima ci scioccava un po’, ora li lascio fare”. È proprio questa forma di autoritarismo che potrebbe essere giudicata scioccante. Tuttavia c’è di peggio. In effetti, a cosa dovrebbero condurre i colloqui, gli scambi, le scelte di linguaggio e altri incontri del personale in formazione? Il direttore di un istituto suggerisce che “sarà fatto” e cioè che le coppie o i coniugi dei residenti potranno essere accolti “in camere comunicanti o camere a due letti”. In altri termini la regola vigente stabilisce una separazione autoritaria delle coppie una volta che abbiano messo piede in questa sorta di “riserva” per persone anziane “dipendenti”. Il problema non sta nel diritto all’amore e al sesso, come sembrava concludere l’articolo, ma in quello ben più fondamentale alla libertà individuale. Senza fare dell’ironia su provvedimenti che cercano di “andare nella direzione giusta”, come si usa dire, si può prendere il polso della situazione che tentano di modificare. Le persone anziane dipendenti devono esserlo in tutto e per tutto? Sono forse meno sensibili dei miei gatti? C’è da temere grandemente che, con le migliori intenzioni del mondo, le si spinga a perdere – e più presto possibile – qualunque velleità d’indipendenza per abbandonarsi a uno stato di servitù volontaria.
Nell’ottica contraria abbiamo da tempo testimonianze che sopravvalutano le virtù della vecchiaia. Ormai da molto gli stereotipi sulla saggezza che scaturisce dall’esperienza fanno parte della retorica dell’età. L’allungamento della durata media della vita ha inferto un colpo fatale: almeno in Occidente, l’età avanzata è divenuta banale e ha perso la sua caratteristica di eccezionalità. Non è più la sola a detenere prestigio. Per ottenere un beneficio mediatico, nella nostra società che verte sull’immagine, è necessario battere dei record di longevità (gloria effimera per definizione), o giungere a prestazioni – siano sportive, teatrali, letterarie o politiche – malgrado l’età – e fatta eccezione per alcuni che confermano, tutto sommato, la regola comune del nonnino/nonnina. Oggigiorno il vegliardo prestigioso non deve dimostrare la sua età. Si colloca immediatamente sotto il segno del diniego.
Senza negare alcunché e, soprattutto, non certo l’evidenza, non si può mettere dunque in questione una, diciamo, categoria di pensiero – l’età – che sotto le vesti di un’obiettività correlata alla quantificazione può sfociare in esclusioni drastiche dalla vita sociale effettiva, cioè del singolo e consapevole. È forse possibile sentenziare sulla lucidità e l’intelligenza di un essere umano?
La questione dell’età, vissuta da tutti sotto ogni aspetto… e in qualunque età… rappresenta l’esperienza umana essenziale, il luogo di incontro tra noi stessi e gli altri ed è comune a tutte le culture. Resta tuttavia un luogo complesso e contraddittorio, in cui ciascuno di noi – ammesso che ne avesse la pazienza e il coraggio – potrebbe commisurare le mezze-menzogne e le mezze-verità che affollano la sua vita. Prima o poi, ognuno è condotto a interrogarsi sulla sua età, che sia sotto un aspetto o un altro, e dunque a diventare così l’etnologo della sua propria vita.
1 Probabilmente derivato da moue, in francese fare una smorfia, dunque si potrebbe leggere come un affettuoso Smorfiosetta. [NdT]