venerdì 8 luglio 2022

LA COSCIENZA DI ANDREW E.L. Doctorow


LA COSCIENZA DI ANDREW
 
E.L. Doctorow 

RICORDI

[...] Ci sono ricordi che portiamo dentro, che custodiamo gelosamente, che non vogliamo e non possiamo condividere. Ricordi che sono veri per noi, di cui siamo gelosi. “Riesco ancora a evocare le voci di mia madre e di mio padre dopo tanto tempo dalla loro morte. Riesco a sentirle distintamente anche se solo per un attimo fugace. Ciò che sento è la loro qualità morale. Il pragmatismo di mia madre. La triste evasività di mio padre. Nelle voci ricordate c’è la qualità morale dei morti. È quel che resta di loro che coincide ancora con loro, quel frammento di voce che restituisce una qualità morale sebbene della persona non ci sia più nient’altro.” .[...]

I

Posso dirle del mio amico Andrew, lo scienziato cognitivo. Ma non è una bella storia. Una sera si è presentato alla porta della sua ex moglie, Martha, con in braccio una bambina di pochi mesi. Perché Briony, l’incantevole giovane donna che aveva sposato dopo Martha, era morta.

Di cosa?

Ci arriveremo. Non ce la faccio da solo, disse Andrew con Martha che lo fissava dalla soglia. Si dà il caso che quella sera nevicasse e Martha era ipnotizzata dai fiocchi soffici, animati, che si posavano sulla visiera del berretto degli Yankees di Andrew. Era così, Martha, rapita dai dettagli marginali come se li stesse mettendo in musica. Persino nelle situazioni di normalità reagiva lentamente, guardandoti con quei grandi, mobili occhi sporgenti. Poi arrivava il sorriso, o il cenno di intesa, o il no con la testa. Dalla porta aperta, intanto, fluttuava all’esterno il tepore della casa, appannando gli occhiali di Andrew. E lui, dietro le lenti appannate, se ne stava impalato come un cieco sotto la neve, ed era privo di ogni volizione quando alla fine Martha protese le mani, prese con delicatezza dalle sue braccia la bambina infagottata, indietreggiò e gli chiuse la porta in faccia.

Questo succedeva dove?

Martha viveva a New Rochelle, un sobborgo di New York, in una zona di grandi ville di stile diverso – Tudor, Dutch colonial, neogreco – costruite per la maggior parte negli anni Venti e Trenta, edifici discosti dalla strada e circondati per lo più da alti, vecchi aceri norvegesi. Andrew corse alla macchina e tornò portando un seggiolino, una borsa da viaggio, due sacchetti di plastica con tutto l’occorrente per la bambina. Cominciò a picchiare sulla porta: Martha, Martha! Ha sei mesi, ha un nome, un certificato di nascita. Ce l’ho qui, apri la porta, ti prego Martha, non voglio abbandonare mia figlia, ho solo bisogno di un po’ di aiuto, ho bisogno di aiuto!

La porta si aprì e comparve il marito di Martha, un colosso. Posa quella roba, Andrew, disse. Andrew obbedì e il colossale marito di Martha gli rimise in braccio la bambina. Sei sempre stato un casinista, disse il colossale marito di Martha. Mi spiace che la tua giovane moglie sia morta ma immagino sia morta per qualche tuo stupido errore, una leggerezza al momento sbagliato, uno dei tuoi esperimenti mentali, delle tue famose distrazioni intellettuali. Qualcosa capace in ogni caso di ricordare a tutti noi il dono che hai di seminare sciagure.

Andrew depose la bambina nel seggiolino poggiato per terra, sollevò il seggiolino con la bambina e si avviò lentamente verso la macchina, quasi perdendo l’equilibrio sul viottolo scivoloso. Allacciò la cintura di sicurezza attorno al seggiolino sul sedile posteriore, tornò alla casa, raccolse i sacchetti di plastica e la borsa e li rimise in macchina. Una volta sistemato tutto chiuse la portiera, si tirò su e girandosi si ritrovò Martha davanti, uno scialle avvolto intorno alle spalle. Va bene, disse Martha.

[riflette]

Continui...

No, stavo pensando a una cosa che ho letto sulla patogenesi della schizofrenia e del disturbo bipolare. Prima o poi i neurobiologi ci arriveranno, con il loro sequenziamento genico, troveranno le differenze nel genoma – tutte queste stupide proteine associate alla teleologia. Gli assegneranno cifre e lettere, una lettera sforbiciata di qua, una cifra aggiunta di là e... ammirate, la malattia non è più! Quindi Doc, sono guai per lei che cura con le parole.

Non ne sia troppo certo.

Mi dia retta, finirà col sussidio di disoccupazione. Che altro possiamo fare noi mangiatori del frutto dell’albero della conoscenza se non biologizzarci? Espungere il dolore, estendere la vita. Volete un altro occhio, che so, dietro la nuca? Si può fare. Spostare il retto in un ginocchio? Nessun problema. Anche mettervi le ali se volete, sebbene il risultato più che un volo nel cielo sarebbero giganteschi saltelli, megafalcate radenti come su quei percorsi che sembrano scale mobili appiattite nei lunghi corridoi degli aeroporti. E chi ce lo dice che Dio questo non lo vuole, perfezionare il suo imperfetto, bacato concetto di vita come patologia incurabile? Siamo il suo piano B, la sua polizza assicurativa. Dio opera attraverso Darwin.

Quindi Martha alla fine si prese la bambina?

Penso anche a noi che ci decomponiamo nelle nostre bare marcescenti, e a come ci reincarniamo, ai nostri piccoli frammenti microgenetici risucchiati nell’intestino di un verme cieco che affiora in superficie neanche lui sa perché, e striscia nella terra fradicia di pioggia solo per morire sull’affilato becco di uno scricciolo. Ehi, è la mia carta d’identità vivente, il mio genoma in poltiglia quello che è appena stato cacato dal cielo ed è finito con un plop sul ramo di un albero, e che adesso penzola dal ramo come una benda umidiccia. Ammirate! Mi sono trasformato in sostanza nutritiva per un albero che lotta per la propria vita. È così, sa? Questi immobili, saldi organismi vascolari combattono silenziosamente per la propria esistenza come facciamo noi l’uno con l’altro, alberi che si contendono lo stesso sole, lo stesso suolo al quale si abbarbicano, e spargono i semi che diventeranno i loro nemici nella foresta, come i principi per i re loro padri negli antichi imperi. Ma non sono del tutto privi di moto. Col vento forte eseguono la loro danza della disperazione, gli alberi carichi di foglie che ondeggiano di qua e di là, gettando in alto le braccia nella foga impotente di essere ciò che sono... Eh, dall’antropomorfismo a sentire le voci il passo è breve.

Lei sente le voci?

Ah! Sapevo che avrei attirato la sua attenzione. In genere quando mi addormento. Anzi, so che sto per addormentarmi quando le sento. E quello mi sveglia. Non volevo parlargliene e invece ecco che gliene sto parlando.

Che cosa dicono?

Non so. Cose strane. Ma non è che le sento davvero. Cioè, sono indubbiamente voci, ma al tempo stesso senza suono.

Voci senza suono.

Già. È come se sentissi il significato delle parole che vengono pronunciate senza il sonoro. Sento il significato ma so che sono parole che vengono pronunciate. Di solito da persone diverse.

Chi sono queste persone?

Non ne conosco nessuna. Una ragazza mi ha chiesto di fare l’amore con lei.

Be’, è normale... gli uomini le sognano certe cose.

È più di un sogno. Io poi non la conoscevo. Una ragazza con un vestitino leggero lungo fino alle caviglie. E le scarpe da running. Aveva un accenno di lentiggini sotto gli occhi, sembrava che la luce del sole le schiarisse il volto, anche se stava all’ombra. Talmente carina da spezzarti il cuore! Mi ha preso per mano.

Be’, questo è più di una voce, di certo più di una voce senza suono.

Secondo me succede che produco mentalmente un’immagine da associare al significato che sento...

Bene, possiamo tornare a Andrew lo scienziato cognitivo?

Faccio fatica a dirle che sento le voci senza suono anche da sveglio, nella mia vita quotidiana. Ma sì, perché non dovrei? C’è stata una mattina, per esempio, mentre andavo al lavoro, ero fermo al semaforo con il giornale e il caffè che avevo preso al deli. Stavo osservando il conto alla rovescia dei secondi del rosso. E una voce mi ha detto: Già che sei lì, perché non aggiusti la zanzariera della porta. Era molto, molto reale, talmente vicina a una vera voce sonora che mi sono girato per vedere chi avevo alle spalle. Solo che non c’era nessuno, ero da solo a quell’incrocio.

E qual è stata l’immagine che ha prodotto sentendo quella frase?

Era un’anziana. Ho messo me stesso sulla soglia della porta di servizio, nella sua cucina. Era un edificio rurale, una fattoria in rovina. Ho pensato che potesse essere nella Pennsylvania occidentale. Nel cortile c’era un vecchio camioncino con il cassone senza sponde. La donna indossava un grembiule scolorito. Ha alzato gli occhi dal lavandino, per niente sorpresa, e mi ha detto quella frase. Seduta al tavolo, una bambina stava disegnando con un pastello. Era la nipote della donna? Non lo sapevo. Mi ha guardato un attimo prima di tornare al disegno, poi con improvvisa violenza si è messa a scarabocchiarlo tutto: qualsiasi cosa avesse disegnato ora lo stava distruggendo.

Lei per caso è l’uomo che chiama il suo amico Andrew, lo scienziato cognitivo che ha portato una bambina di pochi mesi a casa della ex moglie?

Sì.

E mi sta dicendo che ha sognato di fuggire e di ritrovarsi sulla porta di servizio di una fattoria in rovina non si sa dove?

Allora. Non era un sogno, era una voce. Cerchi di stare un po’ attento. Questa voce mi ha fatto provare la stessa sensazione di quando avevo sentito il bisogno di scappare dopo che la mia bambina avuta con Martha era morta e con lei la mia vita con Martha. Non mi importava dove sarei andato. Salgo sul primo pullman che vedo a Port Authority. Mi addormento, e al risveglio il pullman si sta inerpicando lungo le strade tortuose della Pennsylvania occidentale. Ci fermiamo davanti alla piccola agenzia di viaggi in uno di quei paesotti e scendo per fare due passi nella piazza: saranno state le due o le tre del mattino, era tutto chiuso di quello che c’era, un drugstore, un negozietto di cianfrusaglie, un corniciaio, un cinema, e a occupare un lato intero della piazza una specie di tribunale in stile neoromanico. Nel quadrato di erba secca ingiallita c’era una statua nero-verdastra di un uomo a cavallo all’epoca della Guerra di Secessione. Il tempo di tornare all’agenzia di viaggi e il pullman è sparito. Così mi avvio fuori dall’abitato, di là dai binari della ferrovia, oltrepassando alcuni magazzini, e due o tre chilometri dopo – ormai era l’alba – trovo questo edificio fatiscente, una fattoria in abbandono. Avevo fame. Entro nel cortile. Nessun segno di vita, così faccio il giro e arrivo alla porta-zanzariera. E ci sono queste due uguali a come me le ero inventate o pensavo di averle inventate, la bambina e la vecchia. E la vecchia è quella che aveva detto quella frase la mattina che stavo con il caffè e il giornale a Washington, in attesa del verde.

Insomma mi sta dicendo di essere scappato e di essersi ritrovato proprio sulla stessa porta di servizio di una fatiscente fattoria della Pennsylvania che aveva precedentemente immaginato?

No, maledizione. Non è questo che sostengo. Sono salito davvero sul pullman e il viaggio è stato esattamente come ho detto. Lo squallido paesotto, la fattoria diroccata. E quando sono arrivato all’edificio è vero che in cucina c’erano quelle due persone, la vecchia e la bambina coi pastelli. C’era anche un foglio di carta moschicida appeso al lampadario, nero di mosche appiccicate sopra. Perciò era tutto molto reale. Solo che nessuno mi ha chiesto di sistemare la porta.

No?

Sono stato io a offrirmi di aggiustarla. Ero stanco e avevo fame. Non vedevo uomini da nessuna parte. Ho pensato che in cambio di qualche lavoretto mi avrebbero permesso di lavarmi, mi avrebbero dato qualcosa da mangiare. Non volevo la carità. Così sorrido e dico: Buongiorno. Mi sono mezzo perso, ma vedo che la porta ha bisogno di essere riparata e penso di riuscire ad aggiustarla se mi offrite una tazza di caffè. Avevo notato che non si chiudeva bene, il cardine superiore veniva via dal telaio, la maglia della zanzariera era lenta. Come porta-zanzariera era del tutto inutile, motivo per cui avevano dovuto appendere la carta moschicida al cordino del lampadario. Vede perciò che non era stata una visione paranormale a condurmi in quel luogo. Ero salito su quel pullman e avevo visto la fattoria e quelle due persone e poi le avevo cancellate dalla mia mente fino a quella mattina a Washington, mentre ero in piedi all’incrocio in attesa che i secondi del rosso arrivassero a zero e ho sentito—

All’epoca lavorava a Washington?

—sì, come consulente del governo, ma non mi chieda a far cosa – e ho sentito la voce della vecchia dire più o meno quello che avevo detto io quando ero comparso sulla porta della sua cucina. Solo che nella sua voce le parole avevano un tono di riprovazione, tanto che l’effetto era: “Visto che non stai facendo niente, perché per una volta non ti rendi utile e aggiusti la zanzariera”. C’è una definizione per questo tipo di esperienza nel suo manuale, giusto?

Sì. Ma non sono sicuro che stiamo parlando dello stesso tipo di esperienza.

Anche noi abbiamo il nostro manuale, sa? Il suo campo è la mente, il mio è il cervello. Si incontreranno mai? La cosa importante di quel viaggio in pullman è che ero arrivato ad avere la sensazione che qualsiasi cosa facessi avrebbe arrecato danno alle persone che amavo. Pensa di sapere cosa si prova, Mr Analista seduto sulla sua poltrona ergonomica? Non mi riusciva di capire per tempo cosa fare per evitare il disastro, come se a ogni mio comportamento dovesse per forza seguire qualcosa di terribile. Così sono salito su quel pullman, per scappare e basta, non mi importava altro. Volevo comprimere la mia vita, dedicarmi a sciocche minuzie quotidiane. Non che ci sia riuscito. Le sue parole ne furono l’evidente riprova.

Le parole di chi?

Del colossale marito di Martha.

Quando Andrew varcò la porta d’ingresso vide il colossale marito di Martha che infilava cappotto e berretto e Martha che saliva le scale con la bambina tra le braccia, togliendole il cappuccio, aprendo la lampo della tutina imbottita. Andrew prese nota di una casa spaziosa e ben arredata, molto più elegante di quella in cui avevano vissuto lui e Martha da sposati. L’ingresso aveva un pavimento a parquet di legno scuro. Sulla sinistra intravide un confortevole soggiorno, con soffici divani e poltrone, il fuoco acceso nel camino, e sul muro sopra la mensola il ritratto di quello che gli parve uno zar russo in abito lungo con una croce ortodossa appesa al collo e una corona che somigliava a un copricapo ricamato. Alla sua destra, in uno studio tappezzato di libri, lo Steinway nero di Martha. La scalinata, rivestita da una passatoia rosso scuro con una bacchetta di ottone alla base di ogni gradino, disegnava una curva sinuosa insieme al corrimano, al quale Martha non si stava aggrappando mentre saliva con la bambina in braccio. Era in pantaloni. Andrew notò che aveva conservato la linea e si sorprese a rimarcare, come non faceva da anni, la forma e il vigore elastico del suo sedere. Il cappotto del colossale marito di Martha era di quelli con le spalle arrotondate, il collo a mantellina e le maniche svasate. Un modello che non portava più nessuno. Il berretto, un affarino sportivo indeformabile, era troppo piccolo per la testa del colossale marito di Martha.

Disse Martha senza voltare il capo: Va’ con lui, Andrew, con lo stesso tono di voce pacatamente imperativo che usava quando erano sposati.

Andrew corse ad aprire la portiera del passeggero. Era gratitudine quella che provava mentre il colossale marito di Martha lo raggiungeva e si sistemava sul sedile. Partirono alla volta del pub preferito dal colossale marito di Martha, il quale lo indirizzava senza parlare, segnalando destra o sinistra agli incroci, grugnendo e indicando il parcheggio dopo che furono arrivati. Era un bar in un centro commerciale. Andrew si aspettava una conversazione, una qualche intesa reciproca – dopo tutto condividevano l’esperienza della stessa moglie –, ma una volta seduti al bancone con davanti i drink in alti bicchieri lavorati, e nonostante Andrew attendesse l’inizio della conversazione, il colossale marito di Martha non parlava. Così Andrew disse qualcosa del seguente tenore:

Tutto quello che sei convinto di sapere su di me è vero. È vero che ho accidentalmente fatto morire la mia bambina avuta con Martha: le ho somministrato in buona fede il medicinale che ero convinto fosse stato prescritto dal nostro pediatra. Il farmacista aveva spedito il medicinale sbagliato e io non sono stato attento quanto avrei dovuto, avevo passato tutto il giorno sulla mia tesi in scienza cognitiva, ero stato ore in laboratorio oltre a riunioni al dipartimento eccetera, e ho diligentemente versato il medicinale nella sua piccola bocca con un contagocce. Per tutta la notte l’ho fatto ogni due ore, finché la bambina ha smesso di piangere ed era morta. Non mi ero accorto che fosse morta, pensavo avesse finalmente preso sonno. Ero stanco e mi sono coricato a mia volta, toccava a me restare alzato con la bambina malata perché Martha era esausta, aveva dato le sue lezioni di pianoforte tutto il giorno e l’uomo di casa, dopo tutto, ero io. A svegliarmi è stato l’urlo di Martha, un urlo non umano, il verso di un enorme animale selvatico con la zampa impigliata in una trappola d’acciaio, e forse nemmeno un animale dei nostri tempi, qualcosa di simile alla sua versione paleontologica.

Disse il colossale marito di Martha, lo sguardo fisso sullo specchio blu dietro il bancone: Quando un animale si ritrova la zampa in una trappola lo sai cosa fa per liberarsi? Se la stacca a morsi. Ma resta menomato per sempre, incapace di provvedere a se stesso e condurre una vita normale.

Ti riferisci a Martha, disse Andrew.

Già. E così sono rimasto storpiato per sempre anch’io, avendo sposato per amore una donna irrimediabilmente ferita non più in grado di praticare la propria professione. Grazie a Sir Andrew l’Impostore.

È questo che sono, Sir Andrew l’Impostore?

Già, la cui gentile, bendisposta, generosa, affascinante inettitudine è il modus operandi del più letale dei killer. Facciamocene un altro.

Quando Andrew prese il bicchiere per scolare rapidamente il drink, in modo da onorare il debito morale nei confronti del colossale marito di Martha ordinandone un altro, senza averne davvero voglia, il bicchiere gli scivolò di mano. Nel tentativo di recuperarlo agganciò la ciotola di arachidi con la manica della giacca, e nella smania dell’improvvisa necessità di raddrizzare due cose nello stesso momento le perse entrambe, con il bicchiere e il suo contenuto, cubetti di ghiaccio e spicchio di lime compresi, che seguirono la cascata di arachidi sulle ginocchia del colossale marito di Martha.

Si sentì offeso da quello che disse? Il colossale marito di Martha. Si infuriò?

No, lui è un cantante lirico. La lirica è l’arte delle emozioni incontrollate. Succede una cosa e quelli ci cantano su per ore. Ciò che disse, sebbene espresso in una voce da basso-baritono di grande e minacciosa risonanza zarista, era vero. Non potevo offendermi né infuriarmi, non solo perché era una cosa di me stesso che sapevo già, ma anche perché nel mio cervello c’è una cesura... e perciò l’onore, tra le altre virtù, è qualcosa con cui io non ho alcun legame. Non ce l’ho. Dentro di me, al fondo della mia anima, ammesso che l’anima esista, sono sostanzialmente indifferente a quello che ho fatto. Una pallida sfumatura di rammarico per bambine morte, per mogli morte, per gli incendi che ho appiccato mio malgrado, e nei miei sogni tutte queste sciagure potranno anche farmi fuggire in chissà quale luogo dove io non possa nuocere, ma nella vita di ogni giorno sono sordo al mio rimorso.

Però dopo il terribile evento della morte della piccola salì su un pullman diretto verso la Pennsylvania occidentale. Non è così? O adesso sta dicendo che si è sognato tutto?

No, quello che è successo davvero è come l’ho descritto.

Be’, quindi nella vita di ogni giorno come nei sogni, non stava forse fuggendo? Questo non mi sembra essere sordi al proprio rimorso.

Momenti del genere possono capitare ma non sono caratteristici, sono accidentali rispetto allo stato d’animo prevalente. Rimasugli del po’ di umanità che posso aver avuto.

Capisco.

Perché la verità è che io scrollo le spalle e tiro dritto. Affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene o nel male. Nelle profondità del mio essere, succeda quel che succeda, resto freddo, impenetrabile al rimpianto, al lutto, alla felicità, pur essendo capace di fingere talmente bene da ingannare persino me stesso. Sto cercando di dire che sono, alla fin fine, tremendamente insensibile. La mia anima giace in un profondo, immobile, meraviglioso, imperturbabile, calmo, freddo lago di silenzio. Ma no, non inganno me stesso. Un killer, ecco cosa sono. E, ciliegina sulla torta, sono incapace di punirmi, di togliermi la vita per la disperazione della rovina in cui ho gettato la vita delle persone, bambine inermi o donne che amo. Ed è questo che il colossale cantante lirico marito di Martha non riusciva a capire mentre mi condannava, magari con la speranza che avessi un’illuminazione e la facessi finita. [riflette] Naturalmente non lo farei mai.

Insomma, però Martha aveva una bambina adesso, un surrogato della figlia che aveva perduto.

Io non la vedevo da questa prospettiva. Non era mia intenzione consegnarle la bambina punto e basta. È solo che avevo bisogno di aiuto. Per un anno o due. Ero ancora sotto choc per la morte di Briony. Martha invece prese possesso della bimba come se fosse il legittimo genitore.

Le diede fastidio?

Non ero in condizione di eccepire. Devo farti il disegnino? Sei così duro di comprendonio? Avevo già ammazzato una bambina, volevi che ne ammazzassi un’altra? Comunque ci rincontreremo un giorno. Ha gli stessi occhi azzurri di Briony. Gli stessi colori chiari.

Aveva ragione il colossale marito di Martha nel sostenere che lei fosse in qualche modo responsabile anche della morte di sua moglie?

Non del tutto.

Che significa?

È stato indiretto... non un rapporto di causa-effetto.

E allora come è andata? Si riferisce al parto?

No, non mi riferisco a quello.

Come è morta?

Non voglio parlarne. [riflette] Posso dirti che, dopo aver ammazzato la bambina avuta da Martha, Andrew accettò una poco remunerativa cattedra di professore a contratto in un piccolo college statale del West di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare.

Perché?

Perché, secondo te? Perché era lontano. Perché dopo aver ottenuto il divorzio a Martha piaceva farsi trovare davanti al palazzo quando lui tornava a casa dal lavoro. Faceva un tiro di sigaretta, la buttava per terra, la schiacciava e se ne andava.

Perciò agli occhi di lei la colpa era sua. Sua e soltanto sua.

E di chi altri?

Del farmacista, per esempio? Non pensaste di denunciarlo?

Oddio, tu non hai idea, vero?, di come la realtà sociale si cancelli completamente in seguito a una cosa del genere. Il cervello frastornato dalla consapevolezza che ciò che hai fatto è irreversibile. Denunciare qualcuno? C’era forse riscatto in questo? Cosa ne avrei ricavato, denaro? Cristo, non so che parlo a fare con te. Denunciare qualcuno avrebbe forse riportato in vita la bambina? E chi avremmo dovuto denunciare? Il pediatra che aveva trasmesso la prescrizione per telefono? il farmacista che l’aveva evasa? il pony express che ci aveva consegnato il medicinale? Dov’è che c’era stato l’inghippo? Chi avremmo dovuto denunciare? Avrei potuto leggere l’etichetta. Avrei potuto denunciare me stesso. Ero stato io a somministrare il medicinale. Solo quello Martha vedeva, che ero stato io, indiscutibilmente, io e nessun altro.

E tu eri d’accordo.

Certo. Ero stato io, punto e basta.

Ed ecco allora Andrew in esilio volontario in questo college statale alle pendici di una catena montuosa detta dei Wasatch. All’inizio le montagne mi piacevano. Vi arrivai ai primi di settembre, un finale d’estate ancora caldo con tracce di vecchia neve invernale sulle cime. Mi fece capire in che mondo inumano viviamo. Te ne rendi conto quando esci dalla città. Agli americani piace scroccare un passaggio in quel mondo.

Cos’è che stai dicendo?

Scendere da una montagna con un paio di sci ai piedi – è una corsa gratis, per esempio. Cavalloni del mare, fiumi d’acqua bianca. Un vento cui tenersi aggrappati. Passaggi offerti dal pianeta. Tutti pronti a tua disposizione, puoi salire, scendere, o farti ammazzare.

Capisco. Quindi si rivelò un buon cambio di scenario per te.

Non proprio. Immagino che tu non abbia mai vissuto sotto una montagna. I Wasatch governavano quella cittadina. Ne presi coscienza dopo un paio di giorni. Ti alzavi la mattina ed erano lì. Ti fermavi a fare benzina ed erano lì. Erano lì nella loro stolida immensità, non potevi che subire. Eri colonizzato. Negoziavano la luce, dovevano prima rinunciarci loro perché potesse arrivare a te.

Non capisco.

Erano loro a prendersi la luce, poi la riflettevano giù o la ingoiavano secondo consuetudine. Era una specie di burocrazia montana e nessuno poteva farci niente, men che meno il sole. Il college aveva un accordo con un motel della zona nei cui miniappartamenti alloggiava i docenti a contratto. Angolo cottura con piano di lavoro in formica. Mobili laminati. Tende turchese e ruggine per richiamare il patrimonio culturale dei nativi d’America. Ecco un altro effetto delle montagne: favorire la standardizzazione culturale. Io rappresentavo lo svogliato tentativo del college di diversificare la propria offerta. Ero il Dipartimento di Neuroscienze nella sua interezza. Non avevo nessuno con cui parlare. I miei colleghi, se questo erano, nel loro modo cortese e distante, facevano venire il latte alle ginocchia. Mi sentivo solo e infelice.

Un giorno, passando davanti alla palestra del college, un edificio molto simile all’hangar di un aeroporto, Andrew vide attraverso le porte aperte una popolazione di sportivi dediti alla ginnastica e all’atletica leggera: salto in lungo, salto in alto, ostacoli, lancio del peso, salto con l’asta, cavallo con maniglie, anelli, trave, trampolino elastico. L’impegno, la concentrazione di ciascuno di loro su ciò che stavano facendo, tutti che si muovevano in uno specifico sforzo egocentrico ignorandosi a vicenda, gli fecero venire in mente una coltura di svirgolanti molecole di DNA, convinto che se avesse aspettato abbastanza quei ghirigori saltellanti e volteggianti e piroettanti si sarebbero assemblati formando la doppia elica di un codice genetico. Fu attratto in modo particolare da una ginnasta, una biondina che si allenava alla sbarra, oscillando avanti e indietro in quello che avrebbe potuto essere un costume da bagno intero. Gli pareva più umana degli altri, quasi che ricavasse gioia autentica dall’esercizio. Ma quell’oscillazione era solo una manovra preparatoria: una volta raggiunta la necessaria velocità, eccola slanciarsi nella verticale e tenersi ferma a testa in giù, dritta come un fuso, per poi iniziare pigramente a cadere all’indietro in un’altra rotazione di trecentosessanta gradi con nuova emozionante pausa allo zenit. E ancora una rotazione, poi, in avanti stavolta, come una lancetta d’orologio impazzita. Andrew, non volendo farsi scoprire mentre osservava, si allontanò rapidamente dopo che la ragazza ebbe completato l’esercizio con un ultimo giro e un balzo in aria concluso con un perfetto atterraggio in posizione semiaccucciata, le braccia tese davanti a sé.

Ora che mi torna in mente, una volta vidi una donna eseguire un salto mortale lanciandosi in avanti e facendo un tre e sessanta in aria prima di atterrare agilmente sui piedi nudi. Una cosa che diresti impossibile.

Dove succedeva questo?

Balzò in aria non da un trampolino ma dal pavimento di quella che mi sembrava essere una specie di scuola di danza, si afferrò le caviglie e si raggomitolò per completare la sua straordinaria rotazione aerea. Indossava una canottiera da uomo a coste e un paio di gonfi mutandoni plissettati, e non cercò il mio sguardo di approvazione una volta eseguito l’esercizio. Una donnetta bassa e ordinaria, con i capelli neri, ma con bei polpacci rotondi e piedi sottili che si allargavano in corrispondenza del metatarso. L’uomo invece, presumibilmente il suo allenatore, un tizio grande e grosso che mi aveva portato a vedere questa cosa disse: Che ne pensi? E io dovetti proprio dirgli che il numero andava rimpolpato. La trovata durava appena pochi secondi. Non è sufficiente per un intrattenimento serale, gli dissi. Che bisogno c’era di dirglielo? Erano forse affari miei?

Mutandoni? Era un sogno?

Più tardi venni a sapere che il tizio prendeva abitualmente questa acrobata con la forza. Per averne la prova ero stato accompagnato a guardare dalla finestra di un’attigua camera da letto mentre il tizio si sdraiava su di lei, schiacciandola.

Questo era il tuo sogno, insomma.

Muori dalla voglia che sia un sogno. Se lo fosse, potrebbe essere successo dopo che vidi Briony alla sbarra. Se fosse successo prima, addirittura prima che mi trasferissi all’Ovest, potrebbe non essere stato un sogno. Ho vissuto nell’Europa dell’Est, ma tu che cosa ne vuoi sapere? Ho studiato un anno a Praga. Erano senza soldi, i cecoslovacchi. Avevano la gigantesca Russia a vegliarli. Gli agenti della loro polizia segreta avevano l’abitudine di saltar fuori dai cespugli in tuta celeste e scattarti una foto mentre te ne stavi seduto su una panchina del parco. Ho vissuto anche in Ungheria, a Budapest. C’è una strada da cui è arrivata la Seconda guerra mondiale, prima in un senso, mentre i tedeschi avanzavano e i russi si ritiravano, poi nell’altro, mentre i russi avanzavano e i tedeschi si ritiravano. Quell’unica strada perché la guerra potesse scorrerci avanti e indietro. E in un grande spiazzo, vicino a una scuola superiore, un’enorme fossa comune, crani e femori appena sotto lo strato di terra. Perciò potrebbe non essere stato un sogno. D’altro canto, non ricordo questo salto mortale come si ricordano le cose in uno specifico contesto. Esattamente dove e quando. Forse perciò è stato un sogno. Tutto quello che posso dire è che me lo ricordo scuro e rovinato, come un tremolante film muto, e che si svolgeva in una stanza squallida con i pavimenti scheggiati e le finestre sporche, e dunque non una cosa successa sia pure in sogno negli sconfinati spazi a cielo aperto del lontano West democratico. Ma il legame con Briony attraverso la ginnastica mi fa ricordare quanto fossimo distanti, non solo per età e posizione sociale ma anche nel modo in cui pensavamo la nostra vita o, più esattamente, le nostre aspettative di cosa offriva la vita in base alla sua natura per come la comprendevamo.

Di chi stiamo parlando adesso?

Fu strano vedere sul volto di questa incantevole giovane universitaria eccezionalmente viva qualcosa di simile a una luce interiore, un tramite per comprendere la mia umbratile esistenza parte della quale potrebbe essersi svolta anni prima in una squallida scuola di danza dove ero stato condotto a guardare una donna in mutandoni e canottiera trasformarsi in un missile volante.

Poi la vedesti di nuovo, l’atletica studentessa?

Aveva un nome, sai?

Briony.

La mia futura moglie.

Il primo giorno del corso elementare di Neuroscienze, Andrew stava scrivendo il proprio nome sulla lavagna quando il gessetto si spezzò in due. “And—”, non aveva scritto più di questo, e quando si girò a cercare il pezzo di gesso vagante che gli aveva sfiorato l’orecchio urtò il leggio facendo scivolare a terra i libri che ci aveva appoggiato sopra. Sentì ridere gli studenti. E poi Briony, in questa luminosa aula fluorescente con le montagne che osservavano dalla finestra, si alzò dalla sedia in prima fila e raccolse i libri e il pezzo di gesso. Non era in blue jeans come gli altri, indossava un vestito lungo paglierino con le bretelline e le scarpe da running che portavano tutti. La combinazione gli strappò un sorriso. Era una snella bellezza dai capelli color frumento, la pelle chiarissima come se una sua proprietà fosse la luce del sole. Andrew la ringraziò per la gentilezza e andò avanti con la lezione. Lei era seduta con le scarpe da running puntate una contro l’altra sotto quel vestito lungo e la testa rivolta verso il portatile mentre digitava i propri appunti, una studentessa seria, che ascoltava con la testa china sullo scrittoio della sedia. Andrew pensò alle sue gambe sotto quel vestito.

E poi si accorse che era la stessa ragazza della sbarra.

Buongiorno, classe. Buongiorno, vestito paglierino e scarpe da running. Oggi inizieremo la nostra indagine della coscienza, il campo di ogni significato, la condizione necessaria e sufficiente del linguaggio, l’inizio di ogni buon giorno. La coscienza, non ciò con cui quel buzzurro ebete stravaccato nella sedia accanto alla tua affronta il mondo, ma ciò che rimane dopo aver cancellato ogni presunzione, sacrificato gli affetti, dimenticato la famiglia, la scuola, la chiesa e la nazione in cui avete parcheggiato il vostro essere... dopo aver buttato via il ciarpame tecnologico della civiltà, tagliato i fili di tutti i circuiti, compresi i collegamenti con i vostri meccanismi interni, i disturbi intestinali, gli appetiti, ciò che prude, ciò che sanguina e produce lacrime, o lo scricchiolio delle articolazioni quando abbandonate la postura seduta, quando abbandoni, seppur a malincuore, la tua emozionata contemplazione a labbra dischiuse di me, di come la mia voce risuona in te, di come il laser del mio sguardo penetra i tuoi anfratti, e aleggiate liberi e sconnessi nel vostro spazio virtuale nero e senza stelle. E così non avete nulla su cui fissarvi, nulla su cui far aderire il vostro pensiero, niente immagini, niente suoni, niente odori, nessuna sensazione fisica di alcun genere. Non siete in un luogo, siete il luogo. Non siete qui, siete ovunque. Non siete in rapporto con qualcos’altro. Non c’è un qualcos’altro. Non c’è niente che possiate pensare se non voi stessi che pensate. Siete nella forra senza fondo della vostra anima.

O incantevole acrobata, è vero, potremmo essere presenza immateriale nel nostro essere, mere correnti nell’oceano delle nostre molecole. Ma rincuorati! Lascia che i tuoi desideri più sfrenati ti riportino alla terra, alla cultura, alla cittadinanza, alle tue esigenze corporali. A me. Ho tanto da insegnarti! E l’amore è il sordo trauma cranico che ci rende insensibili alla disperazione.

Questo non mi sembra l’Andrew che conosco.

Di fronte a una classe sono un’altra persona.

Insomma eri innamorato.

Be’, ammetto che ero vulnerabile. Ma lei era davvero uno splendore. Succede qualcosa nel cuore, sai? Riconosci la vita per come dovrebbe essere. E che ciò che consideravi vita erano solo le ombre nella caverna.

Quale caverna?

Non hai letto Platone, Doc. Dove vive la maggior parte della gente, la maggior parte di noi, immaginando che sia il vero mondo baciato dal sole mentre è solo una caverna illuminata dai fuochi baluginanti dell’illusione. Briony era là fuori sotto il sole. Cominciai come mandrillo arrapato, subii un’istantanea evoluzione in fervente adoratore e poi, quando si mise male sul serio, sentii che non potevo vivere senza di lei.

Buongiorno, classe. Buongiorno ginocchio roseo e angolino di coscia inclinata oggi in minigonna di jeans. Dalla nostra ultima lezione potreste aver desunto che la mia argomentazione fosse solo teorica, che ovviamente non c’è esistenza senza il mondo e di conseguenza non c’è mente avulsa dalla sua interazione con il mondo. La coscienza senza il mondo è impossibile, così come non c’è vista senza la luce grazie a cui vediamo. È questa l’obiezione, tesoro mio? China sul portatile, il volto incorniciato dalla cascata di capelli. D’accordo allora, diamo un’occhiata a questo vostro concreto mondo reale. Ha una piattaforma nello spazio e questa piattaforma ha una storia di vita animata. Fin qui nessun problema. Notate, però, che non sembra esserci una condizione necessaria o sufficiente per la vita, essa si verifica a prescindere dalle condizioni. Verrebbe da pensare che necessiti d’aria e invece no, verrebbe da pensare che abbia bisogno di vedere, sentire o avanzare a falcate, o nuotare, volare, appendersi per la coda al ramo di un albero e invece no. Non richiede forma o dimensione particolari né particolari approvvigionamenti dall’universo minerale per essere vita, riesce a farsi a partire da qualsiasi cosa. Può vivere sott’acqua o su un granello di polvere, nel ghiaccio o nella ribollente acqua del mare, può avere occhi o orecchie ma anche non averli, può avere i mezzi per ingerire ma anche non averli, i mezzi per muoversi ma anche non averli, può avere un organo riproduttivo ma anche non averlo, può essere senziente ma anche non esserlo, e persino quando è dotata di intelligenza può non esserlo a sufficienza, come per esempio il bradipo scimunito che chissà com’è riesce sempre a sedertisi vicino... quando sbadiglia gli spariscono gli occhi, ci hai fatto caso, mia fragolina di bosco? Dunque la vita è tassonomicamente senza limiti ma con un’unica intenzione comune alle sue infinite varietà – siano esse pesci, mosche, scarabei stercorari, vermi, acari o batteri –, un’unica intenzione che la definisce in tutte le sue manifestazioni dotate o meno di intelletto: la patetica intenzione di sopravvivere. Perché ovviamente non ci riesce mai, vero, mia bonazza boscosa?, perché se la vita è un’unica cosa definibile che assume una infinità di forme, dobbiamo allora affermare che si nutre di se stessa. Che consuma se stessa. E questo non è molto rassicurante se pensate di dipendere dal mondo per la vostra coscienza. No? Se la coscienza esiste senza il mondo, non è niente, e se ha bisogno del mondo per esistere, non è niente lo stesso.

Questi erano i miei esperimenti mentali preliminari: partire da un sostanziale vicolo cieco filosofico per poi cercare soccorso nei primi ad aver fornito risposte, Emerson, William James, Damasio e gli altri. Ma dovetti passare per nient’altro che un depresso.

Chi era il buzzurro?

Non aveva chance, davvero. Alto, magro, indolente, i capelli bagnati pettinati all’indietro, tipo Tarzan. Il campione dell’istituto, il quarterback della squadra di football. Era fuori gioco dal momento stesso del mio ingresso in scena.

E “bonazza boscosa”?

Sì, quello fu la distrazione di un momento, un residuo di pensiero per la mia ragazza delle superiori che era piuttosto boscosa da quelle parti. Briony no. Briony, per una questione di comodità quando faceva gli esercizi con il suo body elasticizzato, teneva il monte di Venere in ordine.

Al college c’erano un sacco di biondine del West ma per lo più del tipo smaccatamente riconoscibile, con l’aria frivola o smaliziata, o forse era la faccia che anticipava troppo chiaramente il tracollo cosmetico. Briony aveva i lineamenti delicati, l’aspetto sobriamente aristocratico, avresti detto che veniva da una villa di campagna nelle Cotswolds o magari da uno shtetl polacco. Per un motivo o per l’altro continuavo a incrociarla nel campus. In bici, in coda al bar, mentre parlava con le amiche. Non significava qualcosa? Ogni volta che arrivava in aula mi salutava con un sorriso. Le chiesi se voleva offrirsi volontaria come soggetto di un esperimento di laboratorio e rispose di sì. Perciò una mattina, mentre fissavo il caschetto di elettrodi sulla sua bellissima testa – non l’avevo rasata, naturalmente, non era medicina questa, solo un modo per illustrare l’attività elettrica del nostro cervello – ebbi il pretesto per ravviarle i lunghi capelli dietro le orecchie. Inalai la sua limpida freschezza. Mi sentivo come in un prato baciato dal sole. Produssi un sommario grafico cerebrale usando un vecchio elettroencefalografo che mi ero portato dietro trasferendomi dall’Est. Una specie di macchina della verità, molto primitiva, ma utile per Neuroscienze 1. Le mostrai immagini in rapida successione, vidi dove il grafico aveva un picco, dove era spaventata, dove le tornava in mente qualcosa, dove aveva fame, dove un’allusione sessuale la accendeva. Era un esercizio dimostrativo, robetta elementare, nulla a che vedere con le localizzazioni. Gli altri studenti si limitavano a osservare e a fare battute. Il buzzurro era lì con uno stupido sorriso di sufficienza sulle labbra. Decisi che lo avrei bocciato, per quello che contava. Io invece vedevo cose che i suoi compagni non potevano vedere. Vidi cose di Briony più intimamente che se fosse stata nuda. Non era banale voyeurismo, era cefalico-invasivo, lo ammetto, ma, in fondo, non tanto logica inferenza scientifica quanto fantasia di un professore.

Che cosa vedesti?

Tra le immagini che le mostrai c’era un circo giocattolo. Un circo a una pista con al centro il direttore col cappello a cilindro e i pantaloni da cavallerizzo, donne in tutù in piedi sulla groppa di pony che galoppavano intorno alla pista e in alto un uomo in calzamaglia appeso a testa in giù al trapezio e una donna con la stessa calzamaglia aggrappata alle sue mani. Quella staccò letteralmente il pennino dal foglio. Mi procurò grande imbarazzo che le gioie di una bambina fossero ancora così evocative.

E poi la disperazione del mio campo di studi. Devi essere coraggioso quando ti occupi di scienze. Reagii malamente alla pubblicazione di un esperimento che dimostrava come il nostro cervello riesca a prendere una decisione alcuni secondi prima che ne siamo coscienti.

Questo è allarmante. E tu dissenti?

Sarebbe facile dissentire. Dire “Aspettate un attimo. È ripetibile? Sta in piedi?”. Invece il mio cervello prese in pugno le redini e si dichiarò solidale con i risultati dell’esperimento. Ce ne saranno di ancora più sofisticati e verrà stabilito che il libero arbitrio è un’illusione.

Ma di certo—

Una mattina mi ritrovai ad abbandonare improvvisamente il filo della lezione per dire una cosa che non avevo previsto di dire. Una specie di preambolo a un corso di scienze cognitive che non avevo ancora organizzato... [riflette]

E che cosa dicesti?

Eh?

Dicesti improvvisamente qualcosa alla classe.

Feci la seguente domanda: come posso pensare al mio cervello se è il mio cervello che pensa? Questo cervello finge ossia di essere me che lo penso? Oggigiorno non ci si può fidare di nessuno, figuriamoci di se stessi. Io sono una coscienza generata misteriosamente, e non mi dà alcun conforto sapere che è solo una tra miliardi. Dissi questo, raccolsi i miei libri e uscii dall’aula.

Uhm.

Cos’è questo “Uhm”? Te lo ricordi come mai il grande Heinrich von Kleist si suicidò? Aveva letto Kant, il quale sostiene che non possiamo mai conoscere la realtà. Sarebbe dovuto venire nel West, il buon Heinrich. Gli avrebbe risparmiato la vita. Non c’è disperazione intellettuale possibile da queste parti. Dev’esserci qualcosa nelle montagne e nel cielo. Dev’esserci qualcosa nella squadra di football.

Perciò tu con la tua crisi intellettuale eri un’anomalia.

Alla lezione successiva si presentò un solo studente ed era Briony. Andammo al centro ricreativo e bevemmo caffè. Era corrucciata, mi guardò da capo a piedi con espressione compassionevole. Mentre la vedo adesso mi rendo conto che Briony non si tocchicchiava di continuo come fanno le giovani donne, passandosi le mani tra i capelli, legandoseli se sono sciolti, sciogliendoseli se sono legati, tutti quei piccoli gesti come se si guardassero allo specchio. Briony non faceva nulla del genere, stava seduta immobile, serenamente presente nel momento senza tracce sotterranee di vanità. Il semestre era ancora abbastanza agli inizi perché gli studenti potessero mollare un corso e passare a un altro e lei sapeva che questo avrebbe potuto procurarmi dei guai. Naturalmente il preside mi avrebbe fatto vedere i sorci verdi ma cosa volevi che me ne fregasse con quella splendida creatura davanti. Mi crogiolavo nella sua solidarietà. Assunsi un’espressione affranta. Briony allungò la mano dall’altra parte del tavolino come per consolarmi. Non voleva dare a vedere che mi trovava strano. Era il genere di persona che si sente obbligata a scambiare due chiacchiere persino con un lebbroso.

Cosa aveva alle spalle?

Alle spalle? I monti Wasatch.

No, intendo dire—

Vuoi sapere da dove veniva, questa fanciulla straordinaria, chi erano i genitori, quale famiglia l’aveva generata?

Esatto.

Perché è importante? Mica nei film ti dicono dove è cresciuta la gente, a meno che il film non parli del crescere. Non ti dicono mai da dove vengono i tuoi eroi, chi hanno per genitori, te li trovi così come sono, nel momento presente. Sei chiamato a fremere per loro in base a come vivono sullo schermo e tutto quello che sai di loro coincide col tempo in cui stanno lì. Nessuna storia, nessun passato, soltanto loro.

Questo è un film?

Questa è l’America. Dopo aver fatto la nostra reciproca scoperta andammo a camminare in montagna, io e Briony. Arrivavi in fondo a una strada e ti ritrovavi all’inizio di un sentiero. I Wasatch tenevano a ricordarti che c’erano sempre, persino quando avevi le spalle girate, persino quando guidavi la macchina in direzione opposta li percepivi. Cambiavano in continuazione in base alla luce che negoziavano ma anche alla temperatura, il colorito era come un cambiamento d’umore, eppure costituivano presenze costanti, una famiglia di dèi, bassi monti dalle vette frastagliate, questo più alto, quest’altro più basso, ma tutti collegati, un’alleanza di venerabili poteri, sfregiati dai sentieri, implacabili con neve capace di uccidere o spensieratamente vivi di fogliame primaverile in tutte le tenui sfumature di verde o di azzurro sempreverde, ma ancora con i rimasugli giallo-marrone dell’anno prima. E poi la loro pendenza, il levarsi all’indietro fino alla vetta nel cielo come per repulsione verso qualcosa che noi supplici avevamo fatto e li aveva indispettiti, perché coloro che abitavano da un po’ in quella città sapevano che quei monti li governavano, li muravano dentro, sapevano di essere il loro popolo. Briony con i pantaloncini bianchi e la bottiglietta d’acqua alla cintura e il berretto da baseball con la coda bionda infilata nell’apertura posteriore, e gli scarponcini da trekking e i fantasmini e i sodi guizzosi polpacci arrotondati... Briony si arrampicava davanti a me, energica, e io con la necessità di tenere il passo – in alcuni momenti temetti che stesse cercando di staccarmi – non riuscivo a godermi la contemplazione delle sue gambe e lo splendore dei suoi pantaloncini bianchi aderenti mentre si issava oltre un masso, a volte posando la mano a terra per sorreggersi, o afferrando uno spuntone di roccia, arrampicandosi così sempre più in alto, più che un percorso una serie di criptici passi tibetani verso l’accettazione buddista di come sono davvero le cose quando non ne parli.

Be’, era solo una domanda.

Tu manchi di empatia, non capisci quando è il caso di smetterla di chiedermi certe cose. Non puoi immaginare cos’era avere lei lì senza dimenticare neanche per un istante la mia inettitudine omicida. Che nell’estasi della felicità sarei stato massimamente pericoloso. Il dovermi concentrare momento dopo momento, esaminare le mie azioni, tutto ciò che facevo, vivere nell’attenzione alle minuzie, tenermi d’occhio ogni minuto della giornata, controllando con zelo ritualistico tutto ciò che facevo pur di non trasformarmi in Andrew l’Impostore. Non riesco più a parlare con te, è troppo doloroso. Tu non capisci. Soltanto pronunciare il suo nome mi annienta. Non sento più la sua voce.

Tu, con l’orecchio per le voci?

Riesco ancora a evocare le voci di mia madre e di mio padre dopo tanto tempo dalla loro morte. Riesco a sentirle distintamente anche se solo per un attimo fugace. Ciò che sento è la loro qualità morale. Il pragmatismo di mia madre. La triste evasività di mio padre. Nelle voci ricordate c’è la qualità morale dei morti. È quel che resta di loro che coincide ancora con loro, quel frammento di voce che restituisce una qualità morale sebbene della persona non ci sia più nient’altro.

E invece la sua voce, la voce di Briony, non c’è più, dici? Non la senti? Forse è per questo che da parte mia non mi pare di riuscire a coglierla. Sento la tua voce, il tuo provare ciò che pensi di lei e provi per lei. È come se si mettesse di mezzo, la tua voce. Che aspetto aveva, al di là del fisico sportivo? Ed era iscritta alla facoltà di matematica, giusto? Vanno insieme, magari, la matematica e la ginnastica. Fare geometria alle parallele.

Chi ha detto che era iscritta a matematica? Come lo sai?

Non hai detto—?

Sei della CIA?

Per favore, Andrew.

Non so perché parlo con te.

Martha è come se la conoscessi, dalla tua descrizione di come si è comportata. Briony invece non mi arriva.

Era una persona più giovane, Briony, ancora in divenire. Ingenuamente brillante. Spontanea. Non si comportava come se si sentisse particolarmente carina. Aveva l’esuberanza fisica dei figli ormai grandi. Quando le piaceva qualcosa le piaceva appassionatamente. Aveva i suoi libri preferiti, i suoi gruppi preferiti. Si impegnava nello studio. Riusciva a scrivere una frase grammaticalmente corretta... lo sai quanto è raro in uno studente universitario? Credeva nella propria vita, nel proprio futuro.

Capisco.

Martha era, Briony stava diventando. Che razza di strizzacervelli sei se bisogna dirti anche questo? Hai la crudeltà di uno che vive per interposta persona. È questo che stai facendo, vero, vivere per interposta persona attraverso me. Io sono grano per il tuo mulino. Cristo! Non hai una vita tua?

Non esattamente.

Non mi sono chiari i tempi qui. Quand’è che tu e Briony vi siete sposati?

Non ci siamo mai sposati.

Era tua moglie.

Certo che era mia moglie, ma non ci siamo mai sposati. Non ce ne demmo mai la pena. Non superammo mai l’intenso sentimento reciproco che si deve superare se ci si vuole sposare legalmente. Non avevamo bisogno che qualcun altro ci dicesse che lo eravamo. Eravamo Andy e Bri. Un giorno andai alla partita di football del sabato e lei era lì, ovviamente, in cima alla piramide delle cheerleader, a concludere la coreografia con un volo d’angelo in mezzo a tutte quelle braccia.

Lo sapevo...

Nel frattempo era lì pure lui, il buzzurro, con tanto di casco e imbottiture, a guidare i suoi in uscita dal time-out, uno sguardo strafottente rivolto agli avversari, a eseguire uno schema dopo l’altro con serena autorità e far avanzare efficacemente la propria squadra lungo il campo. Gli vidi lanciare il pallone in aria per quaranta yard, una perfetta spirale dritta nelle braccia del ricevitore. Touchdown. Ventimila persone balzarono in piedi, ruggirono, la banda del college attaccò una marcetta di vittoria, un cretino vestito da scimmione cominciò a ballare come un ossesso di fronte agli spalti e io mi resi conto di essere entrato in una potente cultura tribale, e che se volevo tirarla fuori dovevo studiare qualcosa.

Se non ricordo male hai detto che il buzzurro non aveva chance una volta che eri entrato tu in scena.

Be’, ero pur sempre Andrew, l’uomo dai cupi occhi tristi. Per quanto fossero provocatorie le lezioni che tenevo, nei miei occhi balenava un grido di aiuto. Per Briony questo era uno sfoggio di personalità. L’insegnante vulnerabile dietro il leggio rappresentava per lei un’esperienza scolastica nuova. Mi fissava, pendeva dalle mie labbra. [riflette] Lo sapevo fin dalle superiori che le donne erano attratte da me. La mia prima ragazza era una patita di zoologia della Bronx High School of Science. Diceva che avevo gli occhi di un langur. Dopo la scuola andavamo nel suo appartamento, quando i genitori non c’erano, e pomiciavamo.

A causa dei tuoi occhi languidi.

Be’, quelli e la zazzera di riccioli, anche se ormai hanno perso il loro colore. Sono sempre stato avvenente di quell’avvenenza da mascella floscia. E avevo faccia tosta. Ero uno di quegli studentelli insolenti, sciolti e sprezzanti di tutto. Il fatto, Doc, è che ho avuto molto successo con le donne. Con Briony però fu una cosa diversa. Travolgente. Un improvviso reset neuronale nel quale mi ritrovai con una smisurata capacità di amore. Molto più tardi, quando ormai vivevamo insieme – anzi, eravamo usciti a cena per festeggiare, avevamo appena scoperto che era incinta – Briony confessò di aver vissuto a sua volta un’esperienza rivoluzionaria: Andy, mi disse, un giorno in aula mi sono accorta che fino ad allora avevo aspettato proprio te. Ed eccoti qui. C’è stato proprio un riconoscimento del genere. Era come se questa fosse solo la più recente delle nostre vite, disse.

In quel momento, però, mentre eravamo in cima ai Wasatch, sapevo solo cosa provavo io. Non era il caso di commettere imprudenze. Dovevo scoprire altro prima di fare la mia mossa. Altro di che, non lo sapevo. [riflette]

Come?

Emil Jannings.

Eh?

Non volevo essere Emil Jannings nell’Angelo azzurro. Ti ricordi quel film? Il professore che si innamora di questa cantante di cabaret, Marlene Dietrich, e finisce a fare il clown nel suo sordido spettacolo, gracchiando uno straziato “chicchirichì!”. Rinuncia a tutto per sposarla e ovviamente lei gli mette le corna. La vita del professore è distrutta, lavoro, dignità, tutto perduto. Una sera si trascina nella sua aula vuota e muore sulla cattedra. Mi vuoi dire che non l’hai mai visto?

No.

Almeno lui aveva una cattedra.

Briony non poteva naturalmente essere paragonata a una decadente cantante della Germania di Weimar. Tuttavia, io mi sapevo in grado di compiere qualsiasi cosa fosse necessaria per distruggermi. Immaginavo lei che mi guardava con una specie di mestizia da fine di tutto mentre facevo l’equivalente Far West del chicchirichì lanciandomi in picchiata dalla cima della montagna. Seduti a riprendere fiato – o meglio, ero io che riprendevo fiato – e a bere l’acqua della bottiglietta, le dissi: Briony, non molte persone avrebbero potuto convincermi a salire fin quassù.

Ma professore, fa bene, e non è contento di averlo fatto? Non si sente felice? Perché un’arrampicata come questa mette in circolo gli ormoni buoni del cervello.

Le dissi: Ti prego, non chiamarmi professore, chiamami Andrew. In fondo mi chiamano così anche gli altri studenti.

Sorrise. D’accordo, allora, lo farò. Andrew. Non so cosa pensare di lei, ehm, di te, Andrew. Non ho mai conosciuto una persona come te.

In che senso, dissi.

Boh. Con te non mi annoio. No, non è quella la parola, io nella vita non mi annoio, ho troppo da fare per annoiarmi—

Era vero, aveva le lezioni, la ginnastica, il gruppo delle cheerleader, serviva ai tavoli nella mensa dei docenti e nel weekend prestava servizio in una casa di riposo della città.

—ma la tua malinconia, disse, boh, è così insolita, una cosa potente, quasi fosse uno stile di vita. Ed è un modo così personale di stare di fronte alla classe. Sembra quasi una forza, come di chi ha un cruccio e lo affronta con coraggio. Quando invece è soltanto, boh, una visione del mondo molto solenne.

Al che le dissi: Briony, credo che se andremo avanti fin dove vorrei arrivare, finirò per deprimerti talmente tanto che sarai costretta a sposarmi.

Oh, quanto rise! E io con lei. In quel momento non eravamo più studente e insegnante. Dovette accorgersene perché si fece silenziosa, distolse lo sguardo. Con gesti cerimoniosi svitò il tappo e si portò la bottiglietta alle labbra. Colsi sulla sua gola il più vago accenno di rossore. [riflette]

Sì? Dicevi?

No, stavo solo riflettendo. Supponi che ci sia una rete di computer più potente di qualsiasi macchina si possa immaginare.

Che c’entra adesso?

Ricordo che testai l’idea su di lei. E lasciamo pure perdere la rete, diciamo un unico prodigioso computer. E visto quello che è, supponi che abbia la capacità di registrare e archiviare le azioni, i pensieri, le emozioni di tutte le persone viventi sulla terra una volta ogni millisecondo. Sì, insomma, come se l’intera esistenza fosse una massa di dati, questo computer il deposito di tutte le azioni mai compiute, i pensieri mai pensati, le emozioni mai provate. E poiché il cervello umano contiene i ricordi, questa macchina registrerebbe anche quelli e tornerebbe quindi indietro nel tempo pur continuando ad andare avanti con il presente.

Un bell’impegno, anche per un computer.

Non per questo drago. Valuta la possibilità che esistano cose che non sai, Doc.

La valuto ogni giorno.

Ora ti dico una cosa che forse non sai: il genoma di ogni cellula umana ha memoria. Sai che significa? In quanto esseri frutto di evoluzione abbiamo nei nostri geni il ricordo di tempi lontani, di generazioni passate da un pezzo, il ricordo di esperienze non nostre. Qui non si tratta di chimere, te lo potrebbe confermare qualsiasi neuroscienziato. E ci serve soltanto il codice giusto per estrarre ciò che la cellula sa, ciò che ricorda.

Sembra poetico.

Sto parlando di scienza, ti sto dicendo che il mio computer soppiantatore di tutti i computer capace di ingurgitare le attività mentali e fisiche di ogni essere vivente – dài, mettiamoci dentro anche gli animali – potrà allora necessariamente tornare anche indietro nel tempo, spostarsi nel passato con la stessa facilità con cui segue il presente. Me lo concedi?

Ok, Andrew.

Perciò questo significa, questo significa...

Sì?

... che almeno a livello microgenetico non potrebbe forse esserci la possibilità di ricomporre un’intera persona a partire da questi frammenti e ricordi genomici di vite passate?

Non intenderai la clonazione.

No, per la miseria, non intendo la clonazione. Stiamo parlando di come questo computer potrebbe scoprire il codice di ogni cellula di ogni cervello umano e ricostituire i morti a partire dalle loro esperienze. Non è qualcosa di simile alla reincarnazione? Magari non sarebbe perfetta, quella persona potresti non vederla sempre, magari allungando la mano lei sarebbe solo un’ombra di se stessa ma sarebbe comunque una presenza, e ci sarebbe anche l’amore.

Di chi stiamo parlando adesso?

Che mi aveva preso quando dissi tutto questo a Briony? Se questo computer fosse stato in grado di arrivare al codice per leggere la composizione delle nostre cellule, nel momento della nascita, nel momento della morte, nelle ceneri della nostra cremazione, nel marcio delle nostre bare, e ovviamente lo sarebbe stato, visto quello che era, allora avremmo potuto riavere le nostre bambine perdute, le nostre innamorate perdute, il nostro io perduto, richiamarli dai morti, riunirli in una specie di paradiso in terra. Riesci a vederlo?

Be’, forse a livello puramente teorico...

Ma se accetti la premessa, la logica è inattaccabile, me lo concedi?

Te lo concedo.

Però non sai ancora cos’è questo computer, giusto? Oh, Doc, se esistesse un computer del genere potrebbe fare qualsiasi cosa, indubitabilmente. Voglio dire, chiamiamolo col suo legittimo nome. E io potrei vedermi restituire la bambina avuta da Martha. E potrei riavere la mia Briony, e riporteremmo a casa la nostra bambina e saremmo una famiglia.

II

Mi hai chiesto di tenere un diario o un libro di bordo. Scrivere è come parlare da solo, che poi è quello che sto facendo con te fin dall’inizio, Doc. E allora dov’è la differenza? Scrivo dalla costa del Maine: stamattina sembra che la nebbia invernale si sia congelata. Camminare per i campi equivale a sentire che sposti l’aria con il petto, che lasci dietro di te lo scricchiolio del ghiaccio e una traccia tubolare della tua forma. Ma ho bisogno di posti come questo. Qui sono innocuo. Voglio dire, per quanto ne sappiamo ti metto in pericolo ogni volta che entro nel tuo studio.

E adesso, più tardi, il vento si è alzato e soffia la neve contro la mia finestra, devo accendere la luce. Qui non ho niente da leggere a parte il volume del proprietario della baracca con le opere complete di Mark Twain, la M e la T a rilievo sul dorso screpolato. Il modo di Twain di affrontare la vita si esprimeva nella volontà di spiegare i bambini agli adulti e gli adulti ai bambini. Non è così? Oppure di scrivere dei propri vicini con divertita compassione. Andava in chiesa per far piacere alla moglie. Aveva investito in una linotype complicatissima. Frequentava l’alta borghesia di Boston. Infilzava con perfida astuzia i compiaciuti “Bramini” che si godevano i suoi discorsi del dopocena. Additava la consacrata barbarie dei re. Ma sempre, sempre, lo faceva per ammantarsi di società. Starsene al sicuro dentro quella che Searle, un tizio che insegno, chiama “la costruzione della realtà sociale”.

E proprio adesso, fragoroso come un tuono, un povero gabbiano sciocco portato dal vento ha sbattuto la testa contro il vetro. Scambio sguardi con il suo occhio vitreo mentre scivola lungo la neve che ricopre la finestra lasciando uno sbaffo rosso a forma di imbuto.

Un altro giorno: vedo attraverso la nebbia l’ingobbito airone verde, su uno dei pali piantati in mezzo al mare. Tutto raccolto in se stesso, un piccolo uccello tetro, uno di noi.

Adesso, più tardi, il cielo si è fatto freddo e terso, il vento schiaffeggia l’acqua del mare e io immagino una calda palude chissà dove piena dei ranocchi saltatori della contea di Calaveras. Insomma, lo leggi e te la dà a bere. Per me tuttavia, il fantasma sfrenato di Mark Twain si leva dalla sua infanzia popolana e inveisce contro il mostro imperiale che egli stesso aveva contribuito a creare.

Vedo in questi momenti della sua scrittura la sua fragile comprensione della vita, la guardia del dopocena abbassata e le agognate buone maniere messe a repentaglio dalla sua autocreazione. E la donna che amava, perduta, e una figlia che amava, perduta, e allora si guarda allo specchio e odia l’impostura dei baffi e dei capelli bianchi e del completo, tutto raccolto nella saggezza da sedia a dondolo annidata nei suoi occhi torpidi. Lo sconforta che il mondo possa essere soltanto una sua illusione, e lui null’altro che una mente errante in una vana deriva attraverso l’eternità.

Vedete la formica, dice, quanto è stupida e inadeguata, mentre trascina a destra e sinistra un’ala di mosca, trasportandola oltre i sassi che le intralciano il cammino, scalando foglie d’erba perché non sa non farlo, e dove pensa di andare, dice Twain, da nessuna parte, ecco dove.

Un’altra mattina. Sono in spiaggia e il falco pescatore aleggia vibrante sul mare, i piovanelli zampettano lungo il bordo schiumoso dell’oceano mentre il furtivo pesce serra aspetta che la marea li rovesci tra le sue fauci affilate.

Questo sei tu, Dio. E chi avevi detto che era, Giona, che cavalcava l’ossatura del leviatano? Con le tonnellate di pesci che scivolano sotto di lui verso il calderone digestivo mentre pianta un piede su una costola possente, l’altro su un’altra costola, ed è buio a parte la luminescenza dei pesci elettrici che cercano una via d’uscita, contro la marea, contro il risucchio della marea oceanica prodotto dal sasso luna, contro la torsione diurna del rombante pianeta che custodisce l’oceano, che a cenni dirige avanti e indietro le montagne a ritmo metronomico...

... questa terra alla quale ci inchioda la gravità, io, Mark Twain e la mia flava bellezza fiabesca, il mio tesoro che leggeva per me, alla luce di una torcia, mentre di notte guidavo attraverso il continente, leggeva per me le nefandezze imperiali annotate da Twain negli ultimi anni di vita, quando la verità del suo umorismo era diventata livida e nauseabonda, quando alla luce della luna, insieme all’airone notturno tutto incassato nelle spalle, vedeva che l’intollerabile mondo non lo si fronteggia efficacemente con la satira o lo sberleffo.

Perciò, Doc, scrivo per dirti che sono d’accordo: la vita – nel suo essere indecisa, per sempre incompiuta nonostante il conto dei morti sia astronomico – non è un film. Io nella mia mente non vedo un’imperatrice di bianco vestita con due meloni grandi così che rimbrotta una falange di centurioni miei sosia con l’elmo a punta e lo scudo e la lancia e i polpacci avvolti in strisce di cuoio, quei film pieni di comparse che grondano le loro effusioni in Technicolor sui fantasmi di un impero antico così simile al nostro.

Oh, ma com’erano arcani quando non facevano rumore, con i cartelli degli intertitoli a parlare, le parole scritte che ci oscuravano la vista per rendere le cose più chiare. L’intervento di un misterioso servizio traduzioni che ci connetteva nella nostra lingua a un mondo d’ombra dove esseri umani come noi parlavano tra loro portando lo scudo e l’elmo a punta, oppure lo smoking e la sigaretta nel bocchino e l’abito da sera di satin aderente al culo, ma da distanze talmente siderali che non li sentivi, malgrado loro sembrassero riuscire a sentire se stessi.

Una malaugurata disdetta, che tanta parte della vita sia stata uno spreco di tempo, aver vissuto senza ardimento o a disagio sul pianeta delle delizie, degli iceberg che si distaccano tonanti, degli tsunami che sciacquano i litorali, della siccità che avvizzisce i campi di granturco, sempre a disagio in tutto questo, o in cima alle montagne o al largo del mare, tranne che in città, una persona seduta nel vagone della sotterranea tra una vagonata di persone sotterranee, o che corre sotto un ombrello verso il taxi libero, o va a teatro o ascolta Mahler o legge le notizie senza reagire... quello che sembra sempre succedere ad altri altrove. Finché non è successo a me. Quando alla fine successe a me...

Molto interessante, Andrew. Sorprendente.

Sì, be’, da solo in una baracca sono un’altra persona.

Ti avevo quasi dato per perso.

Non so cosa ci faccio qui.

Posso dirti che, da bambino un pomeriggio d’inverno, Andrew comparve sulla porta di una sua amica per restituire il bambolotto che le aveva rubato. La madre aveva insistito perché lo facesse, bussare alla porta e non offrire una scusa o lasciar intendere che l’aveva trovato per strada o qualsiasi altra cosa che non fosse la verità, ma dirle semplicemente che lo aveva preso mentre lei era girata e che gli spiaceva e che non l’avrebbe fatto più. Andrew obbedì. La bambina gli strappò il bambolotto dalle mani e sbatté la porta. Tornando a casa Andrew scivolò su una lastra di ghiaccio e si ruppe gli occhiali.

Questo era dove?

Montcalm, New Jersey. Una cittadina non ricca quanto Glen Vale, quella successiva. Vecchie case a due o tre piani, alcune con il portico vetrato, la maggior parte con giardini spelacchiati sul davanti e il bisogno di una ritinteggiata dietro gli alberi stanchi che fiancheggiavano le strade. Capivi che eri entrato a Glen Vale quando tutto era più sgargiante, i giardini ben tenuti, gli alberi pieni e floridi, le case più grandi e con più spazio a separarle. L’America ti dice sempre quanti soldi ha la gente.

Perché rubasti quel bambolotto?

Per esaminarlo. Era un bambolotto femmina e mi serviva la conferma di ciò che sospettavo.

Da bambino portavi gli occhiali?

Sono sempre stato miope. Perché mi fai queste domande? Sto cercando di dirti una cosa importante. La mia vita era disarmonica. Mi ritrovavo puntualmente in un guaio di qualche genere. Sai cos’è la spanciata? Tieni lo slittino davanti a te, cominci a correre, e quando ha preso velocità ti butti di pancia e parti.

Sul tuo Flexible Flyer direzionabile.

Bravo, Doc, allora sei anche tu di questo mondo. A Montcalm non c’erano vere e proprie discese, la mia strada aveva una pendenza molto dolce e usavamo perciò i vialetti di casa per darci lo slancio, era quella la nostra tecnica, sfruttare la leggera sopraelevazione, dare la spanciata a metà del vialetto e piegare il manubrio dello slittino per svoltare a destra una volta arrivati in fondo. Se giravi troppo bruscamente lo slittino si ribaltava e finivi disarcionato. Così non diedi una sterzata troppo secca la volta di cui sto parlando, ma per gradi, tanto che, a metà della mia curva, avevo finito per trovarmi nell’altra corsia di marcia. Altra cosa da precisare: era il crepuscolo, l’ora in cui dovresti essere in casa. Avevi le guance rosse, ti colava il naso, avevi la neve appiccicata alle sopracciglia, la neve dentro le maniche e gli scarponcini. Si sentì un clacson. Alzai lo sguardo e mi vidi davanti la dentuta griglia del radiatore di una Buick berlina. Il tizio aveva frenato e la macchina descrisse un cerchio perfetto attorno a me di sedere, trecentosessanta gradi. Fu come una specie di balletto, prima era dietro di me poi davanti a me, sempre girando in tondo di sedere. Poi sentii un forte sbem, con la macchina che sbatteva contro un palo della luce più avanti. Per tutto il tempo l’uomo aveva premuto il clacson, un metallico clacson tritonale, quasi che annunciasse un evento festoso, ma adesso con la macchina incidentata era una cacofonia continua, un anticlimax fastidioso. Vidi che aveva colpito il palo abbastanza forte da piegarlo leggermente. Scesi dallo slittino e mi avvicinai. Lo aveva colpito dalla parte del guidatore ed era la testa a premere il clacson, posata sul volante con le braccia penzoloni lungo i fianchi. Ok?

Ok.

Ci trasferimmo a New York, nel Greenwich Village. Mio padre disse che così sarebbe stato più vicino alla NYU dove lavorava. Io però conoscevo il vero motivo, che la nostra famiglia non era più gradita a Montcalm dopo quell’incidente. Dissi proprio questo e mio padre mi rispose: Figliolo, c’erano un sacco di bambini a giocare con lo slittino e sulla traiettoria di quella macchina sarebbe potuto capitare chiunque di loro. È solo capitato a te. Non ci credeva tanto quanto non ci credevo io. Lo sapeva anche lui che se un bambino aveva qualche possibilità di provocare un incidente mortale quello ero io.

Tuo padre insegnava all’università?

Scienze. Biologia molecolare. Diceva che la scienza è come il fascio di una fotoelettrica, che diventa sempre più ampio e illumina una parte sempre maggiore di universo. Ma via via che il fascio si allarga altrettanto fa la circonferenza del buio.

Mi pare che sia stato Einstein a dirlo.

Siccome in città mi sentivo solo e non avevo amici, i miei mi comprarono un cane, un bassotto. Mi dissero che sarebbe stata mia responsabilità prendermene cura, portarlo fuori, addestrarlo per insegnargli a obbedire. Era interessante cercare di vedere che tipo di cervello aveva. Niente di che fu la risposta. Pareva che fosse il naso a funzionare da cervello. Con la funzione primaria, naturalmente, di elaborare gli odori. Avendo quel cane facevo caso anche agli altri cani del parco e tutti andavano in giro ad annusarsi a vicenda e ad annusare i codici urinari che lasciavano alla base delle fontanelle, dei tronchi degli alberi, dei tavoli da scacchi e così via. Come usavano quei segnali non riuscivo a osservarlo. Forse era solo una specie di conversazione. Oppure tipo email. Traducevano il segnale olfattivo, pisciavano la loro risposta e riprendevano il cammino. Questo era al Washington Square Park, ci veniva un mucchio di gente con i cani. C’era un recinto per i cani, come per qualsiasi altra cosa in città: uno spazio delimitato per ciò che volevi fare.

Ti si direbbe un newyorchese purosangue.

In quel recinto il mio cucciolo, con le sue zampette corte, cercava di entrare in partita. Mi piaceva vederlo sgambettare dietro un cagnone che faceva dietrofront e gli sfrecciava accanto nella direzione opposta ancora prima che lui riuscisse a girare quel salsicciotto di corpo che si ritrovava.

Come avevi chiamato il tuo cane?

Non me ne ero mai dato la pena. Stavo scoprendo che non lo stimavo poi tanto. Voglio dire, non potevi nemmeno insultarlo, segno inequivocabile della sua deficienza mentale. Qualunque cosa gli dicessi o quanto forte lo tirassi per il guinzaglio non si offendeva mai. Perciò in questa occasione di cui parlo, stavo attraversando il parco con lui per tornare a casa un tardo pomeriggio, avevamo un appartamento dell’università sul lato ovest della piazza. Il lato con più alberi, il che lo rendeva più buio, più silenzioso, con meno gente. Non è un episodio alla Tom Sawyer quello che sto per raccontare.

Un po’ lo sospettavo.

Notai sotto una panchina qualcosa che somigliava a una Spaldeen, una preziosa palla di gomma rosa. Non ne ero sicuro. Mi inginocchiai per indagare, infilando la mano sotto la panchina, e dovette essere allora che mollai il guinzaglio. Un istante dopo il mio cane emise un grido, un acuto tenorile – un verso strano, innaturale per un cane – e quando mi guardai intorno vidi il guinzaglio che dondolava a mezz’aria. Non mi chiesi come mai ma cercai di afferrarlo – un riflesso automatico – e sentii trasmesso al braccio, come se fosse la pulsazione accelerata del mio cuore, il battito d’ali del falco che l’aveva ghermito. Ecco cos’era, un falco coda rossa. Verrebbe da pensare che avrei potuto liberare il cane con uno strattone, magari tirando giù anche il falco a meno che non lasciasse la povera bestiolina, ma i suoi artigli erano conficcati nel collo del bassotto e per un attimo mi fu chiara l’implacabilità della natura. [riflette] Sì, ero in contatto con un’insistente forza ritmica, meccanica e priva di personalità. Per un attimo tenni il falco bloccato, sbatteva le ali incapace di sollevarsi. Non posso giurarlo ma credo che fui tirato in punta di piedi prima di mollare la presa e vedere l’uccello che schizzava in cima a un albero, il guinzaglio penzoloni come un rampicante, il mio bassotto immobile sotto choc mentre il rapace gli schiacciava il collo contro il ramo e cominciava a beccargli gli occhi.

Perché mollasti la presa, il falco era troppo forte per te? Quanti anni avevi all’epoca?

Sette, otto, non so. Ma sto cercando di ricordare a che punto sentii che era inutile. Avevo troppa paura per continuare a stringere? Mi ero reso conto che il cane era spacciato nel momento in cui quegli artigli si erano piantati nella sua carne? Non sono sicuro. Forse, deferente verso il mondo di Dio, mi ero semplicemente dato per vinto. Feci un passo indietro per vedere meglio ciò che stava succedendo su quell’albero. Il falco non mi degnava di uno sguardo, la nostra lotta non aveva lasciato tracce in lui, stava dilaniando il cagnetto come se io non esistessi. Ricordo il brivido nel sentire il battito di quelle ali nel mio magro piccolo petto. Ciononostante, corsi a casa in lacrime. Era tutta colpa mia. Eccotelo. L’Andrew delle origini. Presumo che le infanzie ti piacciano.

Be’, a volte sono istruttive.

Il giorno prima della nostra partenza per la California, Briony trovò un bastardone randagio e volle portarlo con noi. A proposito di cani.

Quando era questo?

Un sacco di cani per il campus, di proprietà di studenti che li lasciavano liberi e finivano per dimenticarli. Disse che la guardava con un’aria così supplichevole che non aveva potuto resistere. Un cagnone bianco e nero, con le orecchie lunghe. Se ne stava con le zampe contro lo schienale del mio sedile e mi strofinava la nuca col muso umido mentre cercavo di guidare.

Come mai stavate andando in California?

Lo chiamò Pete. È un Pete, non credi?, mi disse. Si era voltata, le ginocchia sul sedile, mentre allungava il braccio oltre la mia spalla per accarezzare quel maledetto coso. Sì sì, disse, è proprio il nome per te.

Dal canto mio provavo un amore talmente possessivo da non sopportare di condividere Briony con nessun altro, nemmeno con uno stupido cane. Volevo la sua attenzione esclusiva. Non dissi niente ma mi sentivo offeso, come se mi avesse invitato ad accompagnarla senza dedicarmi premure maggiori di quelle che aveva impulsivamente rivolto al bastardone.

Perché stavate andando in California?

E non era d’aiuto il fatto che il buzzurro ci avesse salutato, anzi avesse salutato lei, sul marciapiede davanti al pensionato dove dormiva.

Il buzzurro aveva un nome?

Non so. Duke qualcosa. Come volevi che si chiamasse? Gli aveva dato un bacio leggero sulla bocca e una carezza sulla guancia ed era salita in macchina e aveva chiuso la portiera e si era voltata e aveva agitato la mano mentre mi allontanavo. Io avevo sentito una voce nella testa: “Giù a tavoletta!”. Come dice il protagonista di qualsiasi film degli anni Trenta quando sale su un taxi. Una voce nella testa che definiva il momento: non ero di quella generazione. Non ero del loro tempo. Non potevo accampare alcun legittimo diritto su questa ragazza.

Di certo aveva voce in capitolo anche lei.

Ti sto raccontando che cosa provavo. Briony sapeva che ero divorziato ma nulla di più. Mi ero ripromesso assoluta franchezza nei suoi riguardi ma non me la sentivo di dirle proprio tutto. Chiaramente, ero diventato il suo progetto.

Il suo progetto? Perciò non capivi ancora quanto fosse presa?

Percepivo il suo interesse. Mi sentivo assecondato. Più di quello non riuscivo a credere. Non che io fossi senza malizia. Più ero tetro più lei mi prestava attenzione. La cosa era andata avanti per tutto il semestre. Capitava che ostentassi la mia disperazione nichilista, trasformando persino questo in inganno, indossavo la faccia appropriata e intanto dentro di me sorridevo come uno scemo. Che fatica per non saltarle addosso. Lei però stava acquisendo il mio linguaggio, studiava i testi del corso, e dunque ogni frase profondamente ponderata che usciva dalla sua bocca potevo accreditarla al mio insegnamento. Briony aveva la perentorietà intellettuale dei giovani, che fanno proprie le idee imparate. Aveva persino citato il sistema limbico guardandomi con occhi interrogativi. Dovevo fermarla immediatamente.

Perché?

I danni al sistema limbico inibiscono le emozioni, tra le altre cose. Subentra l’indifferenza, la freddezza. Si è vivi a metà. Chi ha subito traumi presenta disfunzioni al sistema limbico.

Tu ritieni di aver subito un’esperienza simile? Eri stato traumatizzato?

Solo dalla vita. Senti, quando stavo con Briony non c’era niente che non andasse nel mio sistema limbico. L’ippocampo e l’amigdala funzionavano a pieno regime. Esultavano, applaudivano. Facevano le capriole. Per fortuna, i testi per il mio corso comprendevano letture di William James, Dewey, Rorty, e poi gli esistenzialisti francesi, Sartre, Camus. Lei ci si tuffò a piè pari.

Per un corso elementare di neuroscienze?

Be’, per quasi tutti era arabo. E quello che capivano non era di loro gradimento. Non mi risultava una particolare religiosità tra quei ragazzi, più che altro Dio era dato per scontato, come qualcosa di preinstallato nei loro computer. Ma se c’era una filosofia adatta allo studio del cervello, del materiale della coscienza, io sostenevo che fosse il pragmatismo o l’esistenzialismo. O magari entrambi. Sai, niente Dio nell’uno e nell’altro. Niente anima. Niente fuffa metafisica. Briony l’aveva capito. Solo che nell’idea di una libertà angosciosa vedeva un pizzico di drammaticità e di esaltazione umana in più. Così aveva optato per gli esistenzialisti. E con pragmatismo applicò su di me le sue conoscenze. Appariva evidente che io fossi della scuola esistenzialista. Che fossi al di fuori dell’ambito della psicologia – avevo un’identità storica. Questo era sembrato cementare il legame tra noi. Briony era contenta con Andrew l’Esistenzialista. Capitava che mi desse un bacio sulla guancia. Mi trovava in ufficio ed entrava con due tazze di caffè. Io avrei voluto mettermi in ginocchio e baciarle l’orlo del vestito. Questa semplice incantevole creatura del West aveva trovato in ciò che stabilì essere il mio esistenzialismo la resurrezione del romantico ottocentesco: Andrew in bilico sul bordo del precipizio con il dorso della mano premuto sulla fronte.

Era solo questione di tempo che finissimo a letto. La prima volta fu nella camera del suo pensionato. Si tolse i vestiti e si distese e girò la faccia verso il muro mentre mi spogliavo. Miodio, stringere questo tremulo esserino tra le braccia... Da allora in poi venne sempre lei da me, in bici. E ricordo il giorno che mi svegliò all’alba, tirandomi giù dal letto come una bambina euforica, trascinandomi barcollante su per le scale fino al tetto del motel per guardare il sole nascente che illuminava la cima dei monti. Dubito che le mie tecniche di seduzione fossero mai state dispiegate in quella terra di cowboy. Avevo portato Briony fuori dal suo tempo, dal suo spazio, ed ero geloso persino del cane randagio che aveva fatto salire in macchina.

Perciò, da quello che capisco, stavi andando in California con la ragazza dei tuoi sogni e per un verso o per l’altro riuscivi a sentirti afflitto.

Stavamo andando a trovare i suoi genitori. Come vuoi che mi sentissi?

Briony gli diede indicazioni per raggiungere una piccola cittadina sul mare un’ora circa a sud di Los Angeles. Uscito dalla Pacific Coast Highway, Andrew imboccò una strada fiancheggiata da case in formato ridotto dai colori pastello. Lo stucco era il materiale edilizio predominante. Davanti a ogni abitazione, un fazzoletto di terra pieno di piante tropicali in fiore assurdamente esagerate. Forse era la stanchezza per i due giorni di viaggio. Persino l’entusiasmo di Briony, mentre additava uno degli angusti vialetti che separavano ciascun edificio dal successivo, gli risultò irritante. E chi era questa che correva verso la porta d’ingresso, la spalancava, spariva dentro? Non certo la spettacolare ginnasta in verticale sulla sbarra con il suo body elasticizzato, né l’incantevole creatura che si lasciava pudicamente scandagliare il cervello durante le esercitazioni di scienze cognitive elementari, né la fidanzata di un uomo più grande di lei. Tornare a casa per una della sua età era una regressione all’infanzia. Andrew rimase accanto alla macchina con le mani sui fianchi e scrutò i dintorni. Niente ombra. Il manto stradale bianco irradiava calore. Non riusciva a confessare a se stesso quanto si sentiva nervoso, quanto fuori luogo, a scortare questa bambina come un vile seduttore.

Capisco che fosse un momento difficile per te.

Già. Non avrei voluto seguirla. La casa era a due passi da un muro di contenimento in fondo alla strada. Mi ritrovai a osservare un pendio tappezzato di vegetazione che digradava verso una spiaggia tappezzata di esseri umani: un bruegel di persone a prendere il sole e giocare a pallavolo, bambini che raccoglievano conchiglie lungo la riva. Altre persone erano in mezzo al blu dell’acqua, a scivolare pazientemente sulle loro tavole da surf. Più in là c’era il Pacifico, punteggiato di barche a vela. Sopra, in un cielo caliginoso, un sole sanguinolento con tutte le intenzioni di tramontare sul mare. L’intera scena mi sembrava innaturale. Da dove vengo io il sole tramonta sulla terra.

Briony lo stava chiamando dalla casa, sorrideva, agitava la mano. Andrew si voltò e fece caso alla macchina dei genitori dietro cui aveva parcheggiato, una Mini Minor rossa. Non se ne vedevano più tante. Sulla porta, Briony lo prese per mano. Sono fuori, sul retro, disse. E nel breve tragitto attraverso la casa per raggiungere il giardino fiorito Andrew ebbe l’impressione di... come chiamarla... una casa posticcia? Al piano superiore si saliva da una scala formata da bassi mezzi gradini, le poltrone e il divano erano muniti di predellini. In cucina l’isola era gradinata. Tutto ciò che doveva essere usato aveva un accesso graduale, corrimani. E la casa profumava di pulito, di disinfettante quasi. Tutto questo Andrew lo percepì perifericamente attraversando l’edificio per arrivare in giardino dove, sorridenti mentre si alzavano per salutarlo, e niente affatto storpi o mutilati, trovò i genitori di Briony. Io sono Bill, disse lui. Io sono Betty, disse lei.

Il fatto che fossi un docente universitario giocò a mio favore. Loro erano gente di spettacolo in pensione, con grande rispetto per l’istruzione che non avevano mai ricevuto. E così amorevoli verso la figlia da fidarsi del suo giudizio. Nemmeno un sopracciglio alzato per quest’uomo con il doppio dei suoi anni. Mi diedero un benvenuto caloroso. Insomma mi ero preoccupato per nulla. Su un piccolo carrello per il tè c’erano bottiglie e un secchiello per il ghiaccio. Chiedi quello che vuoi, ce l’abbiamo, disse Bill. Bevemmo, Briony seduta stretta a me sul divanetto mi lanciava occhiate per valutare la mia reazione. Ma Bill e Betty erano squisiti, avevano il savoir-faire degli attori di lunga data. L’aspetto ancora giovanile, tenuto conto che si erano ritirati dalle scene. Difficile capire l’età dei Minuscoli.

Minuscoli?

Non è il caso di trattarli con condiscendenza. “Nani” è inaccettabile e “persone piccole” non è molto meglio.

Stai dicendo che i genitori di Briony erano nani?

Ma senza farmi sentire.

Caspita. E “Minuscoli” era l’espressione scelta da loro?

Scelta da me. Mica parlavano di se stessi in termini descrittivi. Uno li guarda ed entra in modalità politicamente corretto. Devo riconoscermelo, non battei ciglio nel momento in cui li vidi. Uno dei tanti esempi della velocità sinaptica del cervello. Probabilmente mi aveva detto cosa avrei trovato già mentre attraversavo la casa.

Come mai Briony non ti aveva avvertito?

Non so. Può essere che mi stesse mettendo alla prova? La mia reazione una misura del mio carattere? Ma non poteva essere quello. Briony era incapace di qualsiasi tipo di sotterfugio. Ed era troppo presente a se stessa per mettere in atto comportamenti inconsci. Perché mai, poi, avrebbe dovuto avvertirmi? Stavamo insieme sul serio, perché una cosa del genere avrebbe dovuto avere una qualche importanza? Erano i suoi genitori, li aveva avuti davanti agli occhi fin dal giorno in cui era nata. Li amava. E data l’assiduità con cui Bill e Betty frequentavano altri loro simili, era stata allevata in un’aura di normalità, non essendo l’unica bambina in quella condizione. Mica vai in giro a giustificarti per tua madre e tuo padre.

Ma quale giovane ragazza, magari anche figlia di genitori normalmente proporzionati, non anticipa qualcosa allo scopo di stemperare l’effetto? Un genitore è sempre una persona che ti mette in imbarazzo.

Be’, Briony era così. Era quella che mi aveva trascinato fin sulla cima della montagna. Enigmatica sotto ogni punto di vista. Io poi ero profondamente radicato nel mondo dei suoi affetti, perché non potevo saperlo già, senza che me lo dicesse, che i suoi genitori erano piccini? Cosa posso dire per farti contento? Durante il viaggio verso la California aveva regalato il cane a un ragazzo che lavorava nel motel dove avevamo passato la notte. Sul momento non mi capacitai che avesse fatto una cosa del genere, dopo averlo impulsivamente portato con noi, averlo chiamato Pete, darlo via a uno sconosciuto insieme a un paio di dollari per comprargli i croccantini. Si era inginocchiata e aveva abbracciato il cane ed era rimasta a osservare con lo sguardo triste mentre il ragazzo lo portava via al guinzaglio. Forse è questa l’indicazione che vai cercando. Quando vidi Briony prendere la madre fra le braccia e stringerla come faresti con un bambino, quando la vidi inginocchiarsi e abbracciare il padre, capii come mai aveva avuto quel ripensamento su Pete il cane. Era un cagnone. Aveva una coda che ti poteva spezzare uno stinco.

Mi sono appena ricordato... In effetti una cosa me l’aveva detta, Briony. Mi aveva chiesto di non parlare di politica con il padre. Le istruzioni dell’ultimo minuto. Ci stavamo giusto avvicinando alla dimora di famiglia. Mi diede un bacio sulla guancia. Ah, e... Andrew, per favore, per favore, niente politica, d’accordo?

Come mai?

Eravamo nell’Orange County, la terra del patriottismo duro e puro.

Come faceva Briony a conoscere le tue idee politiche? Mi riesce difficile immaginare due novelli innamorati che parlano di politica.

Gli innamorati vivono l’uno nella mente dell’altra. Briony aveva scoperto nella mia un livello di passione civica che le ricordava i discorsi del padre. Tranne che io ero di un’epoca diversa.

Capisco.

Non sai tutto di me, Doc, senti solo quello che decido di raccontarti. Ho sempre reagito alla storia del mio tempo. Mi sono sempre interessato al contesto della mia vita.

Il contesto.

Già, che si increspa in onde concentriche e arriva fino alle stelle. Bill era un ometto brillante e io obbedii alla richiesta di Briony, anche se non mi sarebbe venuto in mente comunque, da ospite di quella casa, di mettere in piazza le nostre divergenze politiche. Ma tra me e lui, direi che ero io il patriota più autentico. Se tieni presente il quadro complessivo non puoi credere davvero alla stabilità di questo paese. Non quando sai chi lo governa.

Come lo sai tu?

Esatto. Come lo so io.

Bill e Betty non erano nanerottoli sproporzionati, con la testa o il busto grosso, le gambe corte; erano di proporzioni perfette, ogni cosa in armonia con tutto il resto. Vivevano con quello che immaginavo fosse un reddito fisso e dedicavano grande impegno a vivere scrupolosamente e con dignità. Bill aveva l’avvenenza delle persone di spettacolo, i suoi piccoli tratti delicati e gli occhi azzurri ovvia origine della bellezza di Briony. Era in qualche modo florido, con una chioma di capelli bianchi ben pettinati all’indietro. Betty aveva il volto piatto da bambola che più spesso si riscontra nei Minuscoli. Vestivano da californiani del Sud con colori sgargianti, pantaloni freschi di bucato, camicia e camicetta, mocassini per lui, sandali per lei. Betty era un po’ robusta, ma con i capelli castani portati a caschetto e il sorriso accattivante e un volto la cui espressione standard era di solidale partecipazione. Con il loro carattere estroverso comunicavano proprio la vita da gente di spettacolo che avevano vissuto. Erano stati in tournée con varie compagnie di nani artisti, cantando, ballando o partecipando ai tableau vivant delle esposizioni universali con i diversi costumi originali a seconda dei padiglioni delle varie nazioni. Me ne parlarono diffusamente. Si erano esibiti a Las Vegas. Una parete intera nello studio di Bill era tappezzata di fotografie, primi piani autografati di intrattenitori che non avevo mai sentito nominare. Avevano fatto anche un po’ di televisione e lavorato nel circo itinerante dei Ringling Brothers, c’erano foto di Betty in piedi su un cavallo al piccolo galoppo, di Bill vestito da mazziere alla testa di una banda di pagliacci. Mai però spettacoli da baraccone, disse Bill, non si arrivò mai a questo e se ci si fosse arrivati avremmo rifiutato.

Dimmi, Doc, perché le cose in miniatura ci fanno tenerezza? Come quelle piccole macchinine di metallo con cui abbiamo giocato tutti da bambini e che erano modelli di macchine vere? Quanto era importante per noi che fossero accuratamente in scala. E che dire dei gatti, i gatti non mi sono mai piaciuti ma succedeva che giocassi tutto contento con un micino, mettendo alla prova i suoi riflessi con uno spago. Ed ecco Bill e Betty. Persone giocattolo, micini di persone, accuratamente in scala. Il concetto stesso era affascinante, stare con loro era un susseguirsi continuo di sorprese. Sembrava quasi di visitare un’altra terra, un posto esotico del mondo di cui potevi scrivere a casa, se avessi avuto una casa e qualcuno a cui scrivere. Non è da tutti sperare di essere un giorno accolti a braccia aperte da queste persone e trattati da uguali, per così dire, come se la cosa non fosse già di per sé buffa.

Perciò la tua era la tenerezza di un superiore, di una più alta e grandiosa versione di essere umano.

Non necessariamente. Dopo qualche giorno erano diventati la norma. Seduti tutti e quattro intorno alla tavola, Briony appariva mastodontica ai miei occhi, aveva indossato un abito elegante per cena e raccolto all’indietro i capelli, le arrivavano quasi alle spalle. Un’incantevole ma goffa Alice nel paese delle meraviglie. Quanto a me, ero convinto che se mi fossi alzato di scatto avrei sbattuto la testa contro il soffitto. E le loro voci, di Bill e di Betty, mancando di timbro, simili al suono di una tromba con la sordina, a volte erano difficili da sentire, come se stessero comunicando da una grande distanza.

Quando una mattina Briony e la madre salirono su un taxi per andare a fare shopping al centro commerciale, Bill mi invitò a prendere il caffè nel loro piccolo giardino sul retro, si accese un sigaro, accavallò le gambette e aspettò che io scegliessi un argomento, in modo da potermi dire che cosa ne sapeva. Aveva una certa perentorietà, quasi un imperativo interiore a farsi valere di fronte a qualsiasi persona di statura normale con cui si trovasse. Era una specie di conversatore rapace, pronto a ghermirti in qualsiasi momento. Quando accennai che io e Briony stavamo leggendo Mark Twain ad alta voce scrollò la testa e disse: Cosa ne pensa del finale di Huckleberry Finn, professore? Non trova che sia un maledetto disastro? Per me rovina tutta la storia. Quando Tom rientra in scena è Twain che getta la spugna, che sfodera il suo numero da prestigiatore tanto per concludere, lasciando per giunta impiccata quella cosa grandiosa di Huck e Jim che scendono il fiume. Io ne so un po’ delle crudeltà della vita e, mi creda, è un finale vergognoso, con la sua fretta di finire il racconto a tutti i costi Twain getta alle ortiche quella che poteva essere una storia grandissima, immortale.

Sapevi, Bill, che aveva smesso di lavorare a quel libro per sette anni prima di scrivere il finale?

Certo che lo sapevo, è quello che sto dicendo. Non riusciva a trovarlo e allora disse: Fanculo tutto, voglio togliermi questa roba dalla scrivania. Altro caffè?

In effetti, Andrew, sono d’accordo anch’io con quella critica.

Gli chiesi del Mago di Oz, se aveva mai lavorato magari non nel film, il film era di una generazione precedente, ma in qualche versione teatrale. Prese una boccata profonda dal sigaro e lo poggiò sul posacenere. Professore, lasci perdere il film, deve leggere il libro. Non l’ha letto, vero?

Mi hai beccato, Bill.

Secondo alcuni è tutta una roba comunista.

Che cosa?

Il meraviglioso mago di Oz. Vede, la morale qual è, è non appoggiatevi a me, non fidatevi di me, il mio governo è un imbroglio, avete tutto quello che vi serve per portare avanti le cose da soli. Tu e i tuoi compagni. Per prendere il comando vi basta solo armarvi di coraggio, usare il cervello, tutti sono uguali, tranne qualcuno ai piani alti naturalmente, e il mondo è ai vostri piedi. Un’allegoria comunista, secondo alcuni.

Non lo so, Bill. Un’allegoria... non significa forse che tutto in essa sta per qualcos’altro? E allora chi sono i Mastichini, e perché la Perfida Strega dell’Ovest, e perché il sentiero è di mattoni gialli? Dovrebbero stare a significare qualcosa.

Il sentiero giallo, be’, è la strada che porta all’oro. La Perfida Strega, be’, è l’Occidente, capisci, ossia noi, e con tutte quelle scimmie volanti che sono le sue forze militari, se non fate qualcosa sarà ancora più pericolosa di quel cialtrone di Mago. E so anche cosa rappresentano i Mastichini. Mi creda, sono un’autorità in materia.

Voglio raccontarti della festa che diedero la sera prima della nostra partenza.

Ci fu una festa?

Bill e Betty. Per annunciare il nostro fidanzamento. Per lo più Minuscoli tra gli invitati. Hai presente, come a New York i quartieri diventano greci, italiani, latinoamericani... che i coreani finiscono a gestire i minimarket, i musulmani a guidare i taxi... Allo stesso modo quella cittadina aveva la sua quota di nanerottoli che si guadagnavano da vivere nel mondo dello spettacolo. Un tizio più anziano era seduto in poltrona e veniva ossequiato da tutti gli altri. Lui sì era stato un Mastichino. Forse l’ultimo ancora in vita. Liquori a fiumi e decibel da uccellini. Naturalmente fu arrotolato il tappeto e Bill e Betty fecero uno dei loro numeri da vaudeville, un buon vecchio soft shoe, su un brano di George M. Cohan, “... perché lei era Mary, Mary, nome più comune di così...”. E con che grazia, con che scioltezza, ridendo per questo o quel passo... Bill che a un certo punto si cimentava in una specie di tempo raddoppiato e Betty che rivolgeva lo sguardo al cielo. Uno dei loro amici si era issato sullo sgabello del pianoforte per accompagnarli e cantare il testo, nella sua voce da tenore con la sordina, e fu davvero una meraviglia, io e Briony il pubblico per cui si esibivano, Briony seduta sul pavimento, accanto a me, le gambe ripiegate, la faccia splendente di gioia. “Ma per dignità, la società dirà Marie...” Anche altri si fecero avanti per eseguire i loro classici numeri, ora una finta conferenza, ora una declamazione poetica, tutto molto spassoso, e ricordo a un certo punto il minuscolo pastore della chiesa locale incrociarmi al bar selfservice e chiedermi che cosa avrei fatto, al posto del presidente, per i terribili sconvolgimenti del mondo. Risposi che sarei sceso in guerra per fermarli e lui suo malgrado rise.

A quanto pare ti stavi divertendo.

Be’, vidi la gioia di Briony per il numero dei genitori, come rideva e applaudiva davanti a una cosa che doveva aver visto un centinaio di volte. Osservarla mi trascinò in un analogo stato di felicità. Come trasmessa da un arco elettrico da cervello a cervello. Era un’emozione pura, irriflessiva, spontanea. Mi aveva colto di sorpresa ed era quasi troppo da sopportare – la felicità. La percepivo come una cosa che veniva espressa dal mio cuore e mi sprizzava dagli occhi. E credo che mentre tutti ridevamo e battevamo le mani alla fine del soft shoe forse singhiozzai di gioia. E quello stato d’animo mi rendeva indomito, era una sensazione non avvelenata dall’ansia, in quel momento non ero affatto preoccupato di poter inciampare, cadere su uno di loro e spiaccicarlo a morte.

Perciò quel freddo, limpido, imperturbabile lago di silenzio...

Ne stavo emergendo, pronto a vivere e a respirare, a grandi avide boccate di vita. Stavo trovando un riscatto nelle amorevoli attenzioni di questa ragazza.

Alla fine chiedemmo scusa e Briony mi trascinò fino al fondo cieco della strada. Scavalcammo il muretto in corrispondenza di un sentiero che portava alla spiaggia tagliando il tappeto della vegetazione. In spiaggia ci ritrovammo da soli, non al chiaro di luna, era nascosta la luna, bensì nella fioca luce nebulosa delle città più a nord, l’inquinamento luminoso di Los Angeles che si diffondeva sul mare. Avevo evitato di fare il bagno di giorno, non volendo esibire al mondo il mio petto escavato e le mie braccia secche. Briony mi aveva ovviamente visto nudo, ma la struttura di una persona in camera da letto di notte quando la luce predominante è la tua presenza intellettuale non è quell’immagine vulnerabile che un bianchiccio professore di scienze cognitive, secco e con la pancetta, trasmette al mondo su una spiaggia pubblica. Adesso invece niente poteva fermarmi, scalciammo via le scarpe, gettammo i vestiti sulla sabbia e ci lanciammo nella spuma dei frangenti, nel loro sciabordio caldo. Nuotammo insieme nel mare Pacifico, e ci baciammo, naturalmente, e sentivo la sua pelle liscia, il turgore dei capezzoli nel mare salmastro, passandole la mano tra le cosce, stringendole i fianchi, baciandola mentre avvinghiati l’uno all’altra rotolavamo insieme nella corrente, raccolti nel ricciolo delle onde.

Quando uscimmo la asciugai con la mia camicia, ci rivestimmo e ci mettemmo a sedere su due piccoli troni che avevo costruito con la sabbia. Era un momento di tranquilla riflessione in cui decisi di togliermi una curiosità. Sulla parete dello studio di Bill avevo visto, appesi dentro una cornice, due certificati di naturalizzazione. Bill e Betty non erano nati qui.

Papà è nato in Cecoslovacchia, disse Briony. Oggi è la Repubblica Ceca. Mamma è irlandese, di Limerick.

E come si sono conosciuti?

Ah, rise lei, allora non hai mai sentito parlare di Leo Singer! Con quelle parole, Briony saltò su e mi tirò in piedi. Cominciò a camminare all’indietro tenendomi per le mani e mi raccontò di quest’uomo che girava l’Europa alla ricerca di persone come sua mamma e suo papà, ingaggiandole e addestrandole per farle lavorare nel proprio spettacolo, i Leo Singer’s Lilliputians.

Qui Briony si voltò, scattò in avanti e sentì il bisogno di fare la ruota. Quando fu di nuovo in piedi le dissi: Che genere di spettacolo?

Be’, mamma dice che il tema cambiava ogni stagione, e anche i costumi, ma fondamentalmente era vaudeville, con canzoni, scenette e numeri come quelli che hai visto stasera. Attrazioni circensi come i giocolieri e i funamboli, gente che sapeva suonare il violino dietro la schiena, tutto quello che ti poteva venire in mente. Il motivo di curiosità stava nelle loro dimensioni e nella quantità di cose che riuscivano a fare lo stesso lasciando a bocca aperta la gente che andava a vederli.

Com’era infervorata mentre mi raccontava questa storia di famiglia... la viveva, quasi, punteggiando il racconto di verticali, ruote, balzi con la rincorsa, salti mortali all’indietro. Lì sulla spiaggia quella notte al ritmico sciabordio delle onde.

Li portò in tournée in tutte le capitali europee e fu così che mamma e papà si conobbero. Vivevano nella Lilliputstadt di Leo Singer.

Allora, Doc, hai mai sentito parlare di questo Singer?

No.

Siamo in due. Ma sta di fatto che a lui si rivolse la MGM quando ebbe bisogno dei Mastichini per il suo film. Singer insomma era un trafficante internazionale di Mastichini.

Sento una nota di disprezzo nella tua voce.

Chiaramente un maneggione che infantilizzava queste persone, ne faceva uno spettacolo, accumulando nel frattempo una fortuna.

Non dicevi che le cose in miniatura ci fanno tenerezza? E adesso non se ne stavano forse in California, i suoi genitori, ritirati dalle scene nella loro confortevole casetta, una bella famigliola?

Lo so, lo so. Cosa avrebbe riservato loro il futuro nei rispettivi villaggi se il tizio non li avesse presi con sé? Per i genitori era probabilmente solo un sollievo. Doveva esserci anche passaggio di denaro, immagino. Bill e Betty saranno stati giovani, adolescenti o poco più che ventenni. E quello diede loro una professione, uno strumento di dignità, mentre a casa sarebbero rimasti per sempre dei reietti, a malapena tollerati, derisi o trattati con mortificante indulgenza. Ma tutto puzza di Europa, sai? Questa sensibilità. Almeno i Mastichini del film avevano un’identità immaginaria, non erano nanetti che si esibivano, erano creature di fantasia acconciate in modo che non somigliassero a se stessi. Non c’entravano niente con Bill e Betty o gli altri Lillipuziani. Non credi che questo invece porti scritto sopra “Europa”?

Non so se capisco di cosa parli.

Parlo di servitù della gleba, servitù debitoria, e di tutte le loro maledette divise e le guerre monarchiche e le colonizzazioni e gli autodafé. Stuzzicare gli orsi in catene, ecco di cosa parlo, la cultura europea del tormentare. Schernire i deformi, ammazzare gli ebrei. Ecco di cosa parlo.

[riflette] Era così felice. Perciò non dissi niente. Ti ho detto che le avevo regalato un anello di fidanzamento prima di partire per la California?

No.

Eh già. Stavo facendo tutta una serie di cose non da Andrew. Tenerla per mano in pubblico, essere felice. E adesso, sulla spiaggia, fare il pagliaccio, provare la ruota, la verticale, e cadere e rialzarmi con una maschera di sabbia sulla faccia. Quanto rideva. E come succede ai novelli innamorati, eravamo altamente infiammabili. La passione si accendeva per un nonnulla: una risata, l’ardore del momento. Chiudi gli occhi, mi disse, e la sentii che mi puliva il viso dalla sabbia. E poi tutto a un tratto mi spinse a terra, e mentre ero disteso montò sopra di me, bocca contro bocca, tirandomi giù i pantaloni con veemenza e poi rotolando in modo che fossi io sopra di lei. Quand’è che si era tirata su il vestito denudandosi? E poi le due paroline: Ficcalo dentro, disse. Ficcalo dentro!

Non c’è bisogno che entri nei particolari, Andrew.

Può anche iniziare con uno slancio verso l’altro, l’atto sessuale, ma poi sul cervello cala il buio, come una città in blackout, ed entra in funzione un precervello antidiluviano che sa soltanto di dover muovere il bacino. È senza dubbio un comando innato risalente al Paleozoico e potrebbe essere la base di tutto il tambureggiamento.

Tambureggiamento?

Sto cercando di dire che non sei al massimo dell’allerta in quei momenti. Come se quanto ti resta della mente umana, quel po’ di fioca coscienza, si fosse localizzato da qualche parte nelle profondità del tuo essere testicolare. Ecco perché non sentii il motore e non capii immediatamente il motivo per cui la spiaggia sembrava volare via nella tempesta di sabbia che avevamo intorno. Poi però guardai negli occhi di Briony: erano accecati da un bianco terrore – di me, o della innaturale luce abbagliante sopra di noi? Continuo a chiedermelo da allora. Certo, la fotoelettrica, certo, il frastuono delle pale dell’elicottero che falciavano l’aria. Ma dato quello che doveva succedere in seguito, non sono mai riuscito a convincermi che non fosse terrore di me, di quel rutilante essere del Paleozoico con cui aveva giaciuto. In ogni caso, capii immediatamente che la situazione era incongrua. Le coprii la faccia con una mano, per nasconderla a loro, tenendola nascosta col mio corpo, mentre con l’altra tentavo l’impresa di tirarmi su i pantaloni. Forse ti è nota la faccenda delle spiagge di notte, nella California del Sud, che erano pattugliate.

Credo di aver sentito qualcosa del genere.

Già. E l’altoparlante che arrivava tra il ruggito del rotore... Non ci si può credere quanto bassi nel cielo si erano piazzati appena sopra di noi, i piloti di questo mostro nero simile a un insetto, che ci puniva con gli schizzi di sabbia, incombente su di noi che balzavamo in piedi e ci davamo alla fuga, io tenendo la camicia sopra la testa e loro inquadrandoci nel fascio luminoso, accusandoci di imprecisati ma orrendi misfatti, di aver bestemmiato la vita civilizzata, di aver contaminato un prezioso santuario di bambini innocenti e giocatori di pallavolo.

E poi la luce si spense e quell’accidenti si alzò in volo congedandosi con una sventagliata di sabbia in faccia mentre io e Briony, impalati, ci proteggevamo gli occhi con le braccia. Qualche istante dopo fu come se non fosse accaduto niente, la notte era silenziosa, e allora Briony scoppiò a ridere e mi guardò e rise ancora scrollandosi la sabbia dai capelli e scuotendo il capo, affrontando l’umiliazione come le donne in particolare imparano a fare, con riso rassegnato e una specie di spallucce e i palmi comicamente sollevati.

La corsa ci aveva portati al limitare della spiaggia da dove si proiettava un frangiflutti di massi impilati, e in un incavo della struttura, dalla parte della terra, occhi senza corpo in formazione sparsa scintillavano dall’oscurità. Briony disse che era una banda di gatti selvatici che vivevano lì da sempre, a quanto ricordava lei. Sibilavano in agguato. Ci eravamo avvicinati troppo e il sibilo ci avvolse come la tela tessuta da un ragno. Fu allora forse che cominciai ancora una volta a pensare a qualcos’altro al di là di me stesso.

Tipo cosa?

Tipo questo paese di sole eterno e popolazioni di nani e polizia del cielo.

Il mattino dopo, mentre stavamo per ripartire, ero accanto alla macchina, stavo salutando e Betty mi teneva le mani, le faceva ondeggiare delicatamente su e giù in segno di affetto. Siamo tanto felici che abbia trovato te, Andrew. Vogliamo solo il meglio per la nostra bambina. Non ci sono parole per esprimere l’amore che abbiamo per lei. È il trionfo della nostra vita.

Lo ammetto, stavo sperando che questi fossero i suoi genitori adottivi. Come mai, secondo te? Non mi ero ancora ripreso del tutto dalla notte sulla spiaggia e lì, adesso, sotto il sole opprimente, mi venne una sensazione di nausea mentre cercavo di farmi una ragione dei bizzarri avvenimenti della vita del mio vero amore. Erano queste le circostanze fondanti di Briony, la marcavano, erano sue, si era formata a partire da esse, e l’immagine che avevo avuto di lei fino ad allora – la mia splendida studentessa col vestitino lungo baciato dal sole e le scarpe da running – era incompleta se non addirittura illusoria. Sì, lei, fedele alla grande tradizione americana, stava affrontando l’università con le proprie forze – un finanziamento del college qui, un prestito bancario là –, Bill e Betty non potevano ovviamente aiutarla più di tanto, e dunque Briony era davvero fuori dal nido, una persona autonoma. Io però non volevo che fosse cresciuta in questo ambiente, in questa cittadina, tra queste persone, che ogni giorno della sua giovinezza uscendo dalla porta avesse visto questa strada immutabile di piccole case intonacate a stucco e vasi di fiori ricoperti di conchiglie nei piccoli cortili, che fosse cresciuta con l’asfalto slavato di queste strade senza ombra. Com’è evidente, una vita capace di arrostire un cervello perfettamente funzionante. La immaginai bambina scendere in spiaggia e giocare nella sabbia, raccogliere conchiglie sulla riva del mare, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Fu l’ignobile sensazione di un istante, prima che la scacciassi dalla mente: che tutto questo della California fosse un imbroglio. Briony uscì dalla porta col suo zaino e sorrise, magnifica come sempre, e io sentii che in qualche modo ero stato fregato.

Be’, ora sono più tranquillo. Con tutto questo amore, mi stavi diventando una persona noiosa.

Cerca di capire. Lo so che per te è difficile, ma fai finta di essere me. Tutta la faccenda era stata uno choc. Non ti saresti sentito in qualche modo rinnegato? Era me che amava o qualcosa in me che le era fin troppo familiare? Lo aveva intuito il primo giorno di lezione quando scrivendo il mio nome sulla lavagna mi si era spezzato in mano il gessetto e avevo fatto cadere i libri dal leggio? Era stata lei a raccogliere tutto, con un sorriso comprensivo. Cresciuta in questo sole eterno, tra questi fiori mostruosi, i suoi genitori, diciamolo, due scherzi della natura, si era cibata del bizzarro, dell’innaturale. Era questo che conosceva, questa la sua quotidiana realtà sociale. E allora chi avrebbe potuto trovarsi, da chi sarebbe stata morbosamente attratta se non da qualcuno di adorabile quanto un goffo scienziato cognitivo depresso da morire, che di lì a poco avrebbe consolato della nichilistica disperazione delle sue lezioni?

Sento una nota di disprezzo verso te stesso.

Davvero?

Un’altra versione del tuo non essere degno di questa ragazza. Prima c’era Andrew l’anacronismo allo stadio del football e adesso l’opposto, il fin troppo adeguato protomostro che cade a fagiolo.

Ho detto che fu la sensazione di un momento. Abbiamo sensazioni momentanee che non si trasformano in gesti concreti, giusto?

Giusto.

Non penserai che sarei stato talmente stupido da rinunciare all’amore della mia vita a causa di un momentaneo sospetto che in realtà era un rituale di autodenigrazione, vero?

Immagino di no.

Lei si era staccata, giusto?, e adesso mentre ripartivamo, con i genitori che salutavano dalla porta di casa, scoppiò in lacrime. Era come se avesse detto ciao per l’ultima volta. Credo dipendesse da me.

In che senso?

Con me presente non riusciva più a fingere di non essersi emancipata. Poteva amarli, essere grata nei loro confronti, ma non negare che fossero di un mondo non più suo.

Che cosa avevi fatto?

Li avevo incontrati.

Briony era una superba atleta ma senza la forza, la muscolatura femminile. Era un fuscelletto. Gli arti, saldi e armoniosi, non erano tonici come lo sono persino quelli di una ballerina. Al punto che tutta la sua attività fisica mi sembrava non naturale, data la corporatura, ma più frutto di una determinazione, di una disciplina autoimposta. Perciò da dove le venisse, perché sentisse il bisogno di piazzarsi in cima a una piramide di cheerleader, roteare attorno a una sbarra, correre, saltare, allenarsi per uno scopo diverso da una intensamente fisica gioia di esistere, dubito che lo sapesse persino lei. Dopo aver avuto la bimba continuò a fare jogging spingendo la carrozzina. [riflette]

Sì?

Solo una volta il suo risoluto atletismo la tradì. Eravamo tornati all’ombra delle montagne. Per dimostrarle che non ero completamente digiuno di sport comprai un paio di racchette da tennis e andammo a fare due tiri nei campi del college. Avevo giocato un po’ a Yale; non per Yale, a Yale. Non avevo mai preso lezioni ma chissà come mi raccapezzavo e con la mia dinoccolata calma e agilità riuscivo a scattare di qua e di là e arrivare sulla palla, avevo un signor dritto e un meno affidabile rovescio, sapevo fare il pallonetto liftato e in caso di necessità potevo contare su una discreta smorzata. Il gioco era nuovo per Briony ma quando mi offrii di darle qualche suggerimento, come impugnare la racchetta, come posizionare il corpo nel dritto, nel rovescio eccetera, lei non mostrò alcun interesse. Riteneva di poterlo capire da sola. E di fronte all’evidenza che non ce la faceva – con la palla che finiva fuori, oltre la recinzione o contro la rete, o la racchetta che andava a vuoto e lei che correva a destra e a sinistra senza un attimo di tregua (nonostante cercassi sempre di indirizzare la palla in modo che potesse rimandarmela) – alla fine perse la pazienza, sbatté la racchetta per terra e uscì dal campo, imbronciata. Era la prima volta da quando stavamo insieme che la vedevo fuori dai gangheri.

Ci furono altre occasioni?

Durante la gravidanza, non ricordo a che mese. Ebbe delle perdite e la cosa la terrorizzò. Chiamai il medico con lei che si mordeva le nocche. Appurammo comunque che non era niente di grave. Ma quella volta sul campo da tennis... Mi sono sempre chiesto, da allora, se per esibizionismo, magari, non avessi tirato qualche palla là dove sapevo che non poteva arrivare.

[riflette]

Non ti ho mai raccontato del servizio militare. Sotto le armi, alla fine del periodo di addestramento c’erano le manovre notturne. Io dovevo fare la guardia al perimetro e invece mi addormentai nella buca. Fui svegliato da un ufficiale. A me assegnarono un centinaio di flessioni con un Garand sulla schiena ma il mio sergente di plotone, il responsabile della mia condotta, era un militare di professione e fu degradato. [riflette] Una volta ero a una festa tra docenti universitari e mi stavo esprimendo con enfasi nella stanza affollata, agitando le braccia per sottolineare questa o quell’opinione. Il dorso della mia mano centrò la mascella di una collega in piedi accanto a me, sulla destra. La professoressa cacciò un urlo e si accasciò a terra. Tutte le conversazioni si interruppero. Corsi nella cucina dei padroni di casa e mi misi a tastare l’interno del freezer alla ricerca di ghiaccio, scostando e tenendo sollevati un paio di bottiglioni di vodka. Il marito della donna mi era venuto dietro baccagliando e quando mi girai rimasi talmente sorpreso che mi lasciai sfuggire di mano i bottiglioni e gli ruppi il piede. Nell’arco di un minuto avevo fatto fuori un’intera famiglia. [riflette] Studiavo biologia a Yale. Un giorno in laboratorio stavamo facendo un esperimento con gli anemoni di mare...

Andrew, basta.

Eh? Basta cosa?