SUICIDIO OCCIDENTALE
Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori
Federico Rampini
Recensione Molly Monari
Ho apprezzato moltissimo questo libro perché mi ha dato modo di contestualizzare la mia sensazione di vivere in un mondo che ha perso ogni contatto con la realtà fino a scadere nel paradosso. Rampini offre una chiave di lettura della crisi del mondo occidentale, trovandola nella progressiva demonizzazione dei valori fondanti della nostra civiltà nell'ottica di una loro progressiva sostituzione con il mito di una società aperta, votata all'idolatria delle minoranze e ad un culto ambientalista al limite del fanatismo. In quest'ottica si collocano gli eccessi della cancel culture, un'immigrazione incontrollata perfettamente funzionale al neo-schiavismo, l’utopia no-border e l’appiccicoso conformismo del politically correct. Capitolo dopo capitolo, Rampini analizza i diversi aspetti del suicidio occidentale, frutto di scelte politiche e legislative ben precise e di modelli culturali ed educativi talmente incisivi da essersi incistati nel nostro quotidiano. I valori occidentali hanno ceduto il passo a distorsioni come il complesso di colpevolezza che fa dell'uomo bianco il responsabile dell'arretratezza degli altri popoli, un predatore schiavista che deve solo flagellarsi e stendere tappeti rossi davanti ai discendenti delle sue vittime. Poco importa che lo schiavismo fosse praticato anche dagli imperi africani e dai popoli arabi! La storia viene sistematicamente stravolta e piegata ad uso e consumo di questa nuova ideologia distruttiva, nata in seno all’Occidente, che porta ad aberrazioni come l’abbattimento delle statue di Colombo e gli attacchi a ricorrenze come il Columbus Day e il Thanksgiving Day, per non parlare della messa al bando di film, libri o di qualsiasi altra manifestazione culturale nell’ottica di una difesa fanatica di minoranze etniche e sessuali che passa il segno e sfocia nella discriminazione delle maggioranze. È in corso un disarmo culturale che ricorda i meccanismi che si producono ogniqualvolta un sistema religioso si sovrappone ad un altro: la messa al bando dei valori fondanti della civiltà che si va a sovrascrivere. Per fare un esempio basta ricordare come l’avvento del cristianesimo pose lo stigma del peccato sul divorzio e l’omosessualità che la civiltà romana praticava. Ed è proprio questo che sta succedendo: l’ideologia dominante, di cui sono portatrici le elite, si muove verso la colpevolizzazione della cultura occidentale che non ha più valori da proporre al mondo, ma solo crimini da espiare. Al contrario, la cancel culture non ha nemmeno sfiorato i regimi autoritari di Putin e Xi Jinping che sono ben consapevoli della nostra debolezza.
Rampini sottolinea come questo processo sia già ben avviato in America. In Europa, per quanto siamo solo agli inizi, già si percepisce la censura feroce che investe chi è portatore di un pensiero diverso da quello politicamente corretto e si allunga la lista delle personalità silenziate, cacciate, licenziate.
L'ambientalismo estremo demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l'Apocalisse imminente, senza tenere in minima considerazione i moniti degli istituti che da sempre si occupano di clima e che esortano ad un ambientalismo che non perda il contatto con la realtà e che, soprattutto, sappia adattarsi alle nuove condizioni climatiche. Il catastrofismo con cui ci bombardano non porta a nulla di costruttivo e condanna a morte l’Occidente che non può sopravvivere alla decrescita felice di certi cantori.
I giovani in balia dei social e vittime di una scuola sempre meno capace di offrire loro il pensiero critico necessario per muoversi in questa giungla di suggestioni, sono manipolati dai miliardari del capitalismo digitale, essi stessi portatori del political correct in un’alleanza tra capitalismo finanziario e Big Tech che ha portato prima alla globalizzazione, che ha sventrato la classe operaia e impoverito il ceto medio, ed ora abbraccia le élite intellettuali nella crociata in favore delle minoranze e dell'ambiente. La questione sociale viene cancellata e negletta perché conta solo salvare il pianeta ed esaltare le minoranze! In America questo conformismo ecologico è il Vangelo delle multinazionali e dei divi di Hollywood, mentre in Europa ha il volto di Greta Thunberg e Carola Rackete.
Altri sintomi del suicidio occidentale sono un complottismo imperante, alimentato da fake news e disinformazione, una burocratizzazione che toglie slancio al saper fare e alla creatività, una stagnazione economica soffocante ed avvilente. Questo pamphlet vuole essere un monito, un grido di allarme per la parte sana della società che subisce quanto sta succedendo, ma non lo accetta. Non tutto è perduto...
SUICIDIO OCCIDENTALE
Introduzione
Il declino dell’Occidente è uno spettro che ci angoscia da tempo. Ora, però, succede qualcosa di nuovo: è in corso la nostra autodistruzione. L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica, non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale. Tutto ciò che accade ai nostri confini, come la tragedia Ucraina, si spiega con questo retroscena interno: i nemici dell’Occidente sanno che ci sabotiamo da soli, rinunciando alle nostre certezze, cancellando la fiducia in noi stessi.
Può sembrare un’esagerazione? Ma sta già accadendo in America, la culla di un esperimento estremo. Questo pamphlet è una guida che vi offro per esplorare il disastro in corso; è un avvertimento e un allarme.
Gli europei stentano ancora a capire tutti gli eccessi che sono all’ordine del giorno negli Stati Uniti, eppure il contagio del Vecchio Continente è già cominciato. In molte scuole americane, ai bambini bianchi si insegna che sono portatori della tara genetica del razzismo: vi racconto i dettagli più antistorici, nonché immorali e aberranti, di questo lavaggio del cervello. Nelle maggiori università domina una censura feroce contro chi non aderisce al pensiero politically correct, si allunga la lista di personalità (anche progressiste) che vengono zittite, cacciate, licenziate. Solo le minoranze etniche e sessuali hanno diritti da far valere; e nessun dovere. L’ambientalismo estremo, trasformato nella religione neopagana del nostro tempo, demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.
Quel pezzo di America che non si riconosce nel nuovo establishment progressista soffre della sindrome dell’accerchiamento, è tentata da vie di fuga eversive: abbiamo visto i reazionari all’attacco ed è uno spettacolo mostruoso che può ripetersi quando meno ce lo aspettiamo. Anche le nuove forme di fascismo, i ribellismi di massa, l’antiscienza rientrano nella patologia di una civiltà che odia se stessa. Gli opposti estremismi si nutrono a vicenda, in una spirale perversa che ricorda gli anni Sessanta e Settanta, ma rischia di essere molto peggiore in questa nuova versione.
Il dinamismo a cui gli Stati Uniti ci avevano abituati resta vivo in alcuni campi, per esempio nel mondo delle imprese. Anche il giacimento di creatività e innovazione, però, è minacciato: dalla sclerosi burocratica e da un’oligarchia di privilegiati che hanno fatto secessione dalla comunità nazionale.
Altrove avanza un ordine mondiale alternativo, quello di Xi Jinping e Vladimir Putin. L’Ucraina rischia di essere solo un assaggio di quel che potranno fare. La loro analisi sul nostro declino terminale è confortata da tutti i segnali di decomposizione interna che racconto in questo libro. L’America, stanca di avventure imperiali, stremata da troppe guerre, vede nell’isolazionismo un’opzione realistica. L’Occidente, orfano di una nazione guida, senza più certezze, deve solo sperare che i suoi avversari siano meno forti di quel che sembrano. Ma qui a casa nostra i nuovi dogmatismi vogliono accelerare la resa finale di quello che si chiamò (un po’ ingenuamente) «il mondo libero».
Il vecchio marxista-gramsciano in me inorridisce di fronte allo spettacolo attuale. Le giovani generazioni schiavizzate dai social media sono manipolate dai miliardari del capitalismo digitale. Il vero potere forte del nostro tempo, questo establishment radical chic, si purifica con la catarsi del politically correct. È il modo per cancellare le proprie responsabilità: l’alleanza fra il capitalismo finanziario e Big Tech ha pianificato una globalizzazione che ha sventrato la classe operaia e impoverito il ceto medio, ha creato eserciti di decaduti. Ora quel mondo impunito si allea con le élite intellettuali e si rifà una coscienza: abbracciando la crociata per le minoranze e per l’ambiente. La questione sociale viene cancellata dall’orizzonte umano. Non ci sono più classi, né diseguaglianze economiche, né ingiustizie di massa nell’accesso alla ricchezza. Ci sono solo «un pianeta da salvare» e un mosaico di identità etniche o sessuali da eccitare perché rivendichino quote colorate e risarcimenti.
In America questo è il Vangelo che si recita tutte le mattine nei consigli d’amministrazione delle multinazionali, dalla Silicon Valley a Wall Street; negli uffici marketing; a Hollywood e tra le celebrity milionarie dello sport. In Europa il conformismo totalitario può avere il volto seducente di Greta Thunberg e Carola Rackete. Il filo conduttore è lo stesso.
È una storia familiare per chi ricordi qualcosa degli anni Sessanta e Settanta: delle avanguardie militanti si autoeleggono a guida di un popolo che in realtà diffida di loro, perché non si sente affatto difeso dal politically correct. Ma le frange radicali di oggi non hanno bisogno di conquistare un consenso sincero e di massa; hanno imparato a corteggiare l’establishment, a fare incetta di cattedre universitarie, a occupare i media. Possono rimanere minoritarie e stravincere, imponendo dall’alto un nuovo sistema di valori.
Troverete tanti accenni alla storia moderna e antica, maestra di vita. Da quella dell’Impero romano estraggo presentimenti inquietanti ma anche ragioni di conforto: seppe prolungare una dignitosa decadenza per quattro secoli; instillò rispetto e perfino un timore reverenziale negli avversari che lo prendevano d’assalto.
Perciò queste pagine possono essere anche lette in controluce. Oltre a decifrare l’attacco finale sferrato all’Occidente dal suo interno, vi propongo qualche speranza di sopravvivenza. A cominciare da questa provocazione che sottopongo al vostro giudizio: la maggioranza di noi subisce quel che sta accadendo, al suicidio non abbiamo acconsentito. New York, 1° marzo 2022
I
Columbus Day o la storia come fiaba: il Demone Bianco contro gli Angeli
C’è un giorno all’anno in cui ci vergogniamo di essere italiani, negli Stati Uniti: è la nostra festa, il Columbus Day, ormai equiparata alla celebrazione di un genocidio. Capire come quella data sia diventata il simbolo di un’atrocità è essenziale per aprire gli occhi sulla nuova società multietnica che è l’America di oggi. Il problema dell’immigrazione, su cui la società americana si spacca, ha avuto un’evoluzione che traspare nella parabola dell’«infame» Cristoforo Colombo. Gli europei devono prenderne nota, perché l’evoluzione della sensibilità etnica negli Stati Uniti precede, ispira, guida molte società del Vecchio Continente. La giovane deputata newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, la più popolare leader della sinistra democratica, ha come sua alleata naturale sull’altra sponda dell’Atlantico Carola Rackete, l’eroina tedesca dei no border, la capitana di Sea-Watch 3 che con un atto di disobbedienza civile nel giugno 2019 aiutò lo sbarco di quaranta migranti a Lampedusa e per quel gesto fu insignita di varie onorificenze.
L’immigrazione è stata a lungo una delle forze di crescita sociale degli Stati Uniti; oggi si è trasformata in una malattia corrosiva, uno dei fattori dell’autodistruzione. Per capire come sia accaduto, è utile partire dalla «nostra» ricorrenza, ormai dolorosa e lacerante. Da qualche anno il secondo lunedì di ottobre è la festa più controversa d’America. Per lungo tempo quella festività ufficiale ha celebrato lo sbarco di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo, il 12 ottobre 1492. Di recente è diventata l’occasione per attaccare la memoria del navigatore genovese, accusandolo di essere l’iniziatore della strage dei nativi (nome politicamente corretto di quelli che un tempo noi chiamavamo «gli indiani», a seguito del colossale equivoco in cui incorse lo stesso navigatore: credeva infatti di essere arrivato in India). In alcuni striscioni e manifestazioni di protesta Colombo è stato addirittura equiparato a Adolf Hitler, il pianificatore della «soluzione finale» per eliminare gli ebrei dalla faccia della terra.
In molti Stati e città Usa, dove governano i progressisti, oggi il Columbus Day non esiste più. È stato sostituito nello stesso giorno del calendario da un’altra festività i cui nomi sono varianti sul tema dell’Orgoglio Indigeno, oppure Día de la Raza (la festa della razza ispanica, come viene chiamata da alcuni latinos).
La demolizione politica del mito di Colombo è il rovesciamento di un’operazione speculare compiuta quasi un secolo fa, quando avvenne la costruzione politica del mito positivo di Colombo. Da eroe a criminale nello spazio di pochi decenni è stata la sua singolare traiettoria, che accompagna una metamorfosi della società americana.
Il personaggio vero è un’altra cosa, ha poco a che fare con i due miti contrapposti. Consiglio di leggere l’autorevole e spassionata biografia dello storico Giulio Busi della Freie Universität di Berlino. Tra gli studiosi seri come Busi si è consolidato un consenso su alcuni fatti. Colombo fu un magistrale navigatore e pilota, un capitano coraggioso e un intelligente studioso di geografia. All’occorrenza seppe solcare anche le acque insidiose del sistema politico spagnolo, per conquistare fondi e sostegno alle sue spedizioni. Fu invece un pessimo governatore dell’isola su cui sbarcò (Hispaniola, oggi divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana), spietato e brutale nel trattamento inflitto alla popolazione locale. Fu quasi altrettanto feroce verso alcuni compagni di viaggio spagnoli, una volta che si insediarono sull’isola e divennero soggetti alla sua autorità. Molti dei crimini di cui si macchiò governando Hispaniola furono denunciati durante la sua vita dagli avversari politici (che non gli mancavano). Venne incriminato, processato, condannato, detenuto. Tuttavia, il suo impatto reale sulla vita degli indigeni fu breve e limitato.
Nella costruzione politica del mito positivo di Colombo, la storia è solo un inizio e un pretesto. La genesi della venerazione ufficiale, e quindi del Columbus Day, si colloca secoli dopo la sua morte. Celebrare un italiano come scopritore delle Americhe, quindi iniziatore di un’impresa da cui sarebbero nati gli Stati Uniti, serviva a integrare definitivamente una comunità d’immigrati divenuta massiccia dalla fine dell’Ottocento. Come spesso accade, la storia diventa una fabbrica di leggende, propaganda utile per costruire un’identità nuova. Così nel 1934 il presidente più progressista della storia, Franklin Delano Roosevelt, lancia la festa del Columbus Day per rendere omaggio alla comunità italo-americana e conquistarne il consenso. Avrebbe avuto più fortuna, a posteriori, se avesse scelto un’altra icona dell’identità italiana? Giuseppe Verdi? Ne dubito. Aida, Nabucco, Otello oggi non passerebbero gli esami etnici del politically correct. Dante? Da cancellare: mise all’Inferno musulmani e gay.
In ogni caso, dopo poco più di un anno della sua lunga presidenza, Roosevelt volle segnalare con un gesto simbolico che noi italiani eravamo diventati a tutti gli effetti «bianchi», cioè accettati e assimilati alla maggioranza, dopo essere stati a lungo ai margini della comunità Wasp, white anglo-saxon protestant, in quanto «scuri e cattolici». La figura dell’esploratore genovese era la prova più evidente che noi avevamo avuto un ruolo decisivo nell’origine del Nuovo Mondo, benché da vivo la sua italianità fosse secondaria, visto che serviva la corona di Spagna. (A parte quello fallito da Ferdinando I de’ Medici, nel XVII secolo, non ci fu mai un tentativo di costruire colonie italiane su questa sponda dell’Atlantico.)
Nella più recente distruzione politica del mito di Colombo il suo ruolo trascurabile nella vera operazione di conquista delle Americhe è irrilevante. Chi ogni anno imbratta e vandalizza le sue statue, o ne rivendica la rimozione, chi contesta la festività e la sostituisce con una controcelebrazione lo ha trasformato nel mostro ideale. L’Abominevole Uomo Bianco. Per ragioni cronologiche è accusato di aver iniziato il genocidio dei nativi, una colonizzazione violenta, secoli di oppressione e di sfruttamento, incluso il crimine dello schiavismo e tutte le sue eredità nella società americana di oggi.
Cosa manca a questa nuova narrazione? Quasi ogni aggancio con la realtà storica; a riprova che le scuole, i licei, le università, i media negli Stati Uniti sono ormai luoghi d’indottrinamento propagandistico, dove la cultura seria è messa al bando. Il genocidio degli indiani – com’è ampiamente documentato dalle ricerche più recenti, che ho riassunto in Quando inizia la nostra storia – avvenne perlopiù attraverso un’involontaria guerra batteriologica. Le armi segrete degli europei viaggiavano dentro i loro organismi e negli animali domestici trasportati nelle stive delle loro navi. Non potevano saperlo. Ora lo sappiamo, però. Per millenni la separazione tra la biosfera delle Americhe e quella dell’Eurasia aveva contribuito a differenziare le specie umane e animali. I nativi americani erano stati risparmiati dalle nostre malattie, ma per questa ragione erano privi di qualsiasi immunità naturale. Contro i rudimentali moschetti spagnoli o inglesi potevano difendersi, contro il vaiolo e il morbillo no. All’origine della rivoluzione che è stata chiamata «Scambio colombiano» – la ricongiunzione dei continenti in un’unica biosfera – ci fu anche quello: il viaggio globale delle nostre malattie. Le vittime, innocenti e inconsapevoli, furono i nativi sterminati da batteri e virus contro i quali non avevano difese. I conquistadores spagnoli e portoghesi, poi francesi e inglesi, ben più efficienti e aggressivi di Colombo, con le loro offensive militari, i lavori forzati e lo schiavismo furono capaci di uccidere ferocemente, e tuttavia molto meno rispetto alle stragi causate dalle epidemie. Sul campo di battaglia non sempre i nativi erano inferiori a noi; su quello sanitario erano impotenti.
La realtà storica non interessa i nuovi crociati etnici. La demonizzazione di Colombo serve a dare un volto e una data d’inizio a un’invasione in cui l’Abominevole Uomo Bianco rivela i suoi peccati: razzismo, aggressività, xenofobia, sessismo.
Lo schiavismo è il più orribile dei crimini generati dalle tare del Bianco, secondo l’ortodossia dominante e insegnata nelle scuole progressiste. Ma era una pratica diffusa fra tutti i popoli indigeni e questo non appare nei manuali scolastici politically correct o nei syllabus dei corsi di laurea che vanno per la maggiore. Inca, maya, aztechi: tutti lo praticavano (oltre ai sacrifici umani). Anche gli imperi precoloniali dell’Africa avevano un’antica consuetudine con lo schiavismo. Come pure gli arabi, e le successive potenze islamiche, che furono tra i più spietati mercanti di uomini. «Così fan tutti» non è una scusa, non procura un’assoluzione etica: alla nostra coscienza moderna ripugna lo schiavismo sia che lo praticassero gli ateniesi o i persiani, i romani o i saraceni, gli africani o gli aztechi. Condannarlo anche sui banchi di scuola è sacrosanto; così come è giusto ricordare che dopo la colonizzazione delle Americhe fece un salto dimensionale, per la vastità della sua applicazione. Ma è un falso ideologico ciò che s’insegna nelle scuole medie, nei licei e nelle università dell’America progressista, sulla specificità dell’Uomo Bianco come supremo artefice dello schiavismo. E da questa menzogna derivano conseguenze serie.
Oggi nel Nordamerica, laddove il Columbus Day viene sostituito dall’Indigenous Peoples’ Day, una nuova fiaba viene raccontata alle giovani generazioni: narra che con il genocidio dei nativi, noi, Razza Bianca, abbiamo distrutto delle civiltà pacifiche, rispettose dei diritti umani, capaci di vivere in armonia con la natura. Un esempio della narrazione politically correct lo ritrovo in un ampio reportage sulla tribù Wampanoag, apparso sul «Washington Post» in occasione della Festa del Ringraziamento 2021. Vi si legge: «Il loro nome significa Popolo della Prima Luce. I loro antenati risalgono a diecimila anni fa e risiedevano nel Massachusetts sudorientale. Nel XVII secolo vivevano in 69 villaggi, ciascuno con un capo (sachem) e un santone-medico. Avevano dei messaggeri, che correvano a piedi da un villaggio all’altro per comunicare. Occupavano una terra di abbondanza, piena di cervi, alci e orsi da cacciare nelle foreste, aringhe e trote da pescare nei fiumi, conchiglie con frutti di mare nelle baie. Seminavano mais e usavano i resti del pesce come fertilizzanti».
La descrizione poetica di quest’Arcadia prosegue con toni romantici, che sembrano fatti per incantare tutte le Greta Thunberg del nostro tempo. I nativi erano i veri ambientalisti ante litteram, capaci di vivere in un’incantevole simbiosi con la natura, di rispettarne gli equilibri, di curare amorevolmente l’ecosistema. Dal riciclaggio all’economia circolare, loro sì che sapevano come risparmiare le risorse del pianeta. Questo mito non è nuovo. Ebbe la sua prima fioritura all’epoca del movimento hippy. I figli dei fiori, la cui celebrità divenne globale con la Summer of Love di San Francisco nel 1967, cominciarono a vestirsi alla foggia dei nativi, crearono delle comuni in mezzo ai boschi e sui monti, dove volevano replicare i modi di vita degli indigeni prima della conquista. Il culto dei nativi lanciato dagli hippy oggi è più forte che mai. La generazione Greta, senza saperlo, recita un copione che appartenne alla vena ludica dei sessantottini, cioè agli attuali nonni.
Anche questo mito dell’Arcadia non regge alla prova dei fatti. Le ricerche scientifiche sulla storia agricola delle civiltà precolombiane rivelano che quei popoli praticavano con disinvoltura la manipolazione genetica e modificarono in profondità l’ambiente naturale che avevano trovato in Nordamerica (dove sbarcarono anch’essi come conquistatori, venuti dall’Asia). La natura «selvaggia» che apparve agli invasori bianchi non era affatto incontaminata, bensì il frutto di millenni di interventi umani, alcuni dei quali non furono affatto rispettosi dell’ecosistema. Jared Diamond, insieme ad altri esperti, ha fatto risalire il collasso della civiltà maya a un dissennato sfruttamento delle ricchezze naturali, una devastazione dell’ambiente che portò al tracollo delle risorse necessarie per il sostentamento della popolazione.
L’Arcadia non era tale neanche per i diritti umani. Non era in mano ai pacifisti quel giardino dell’Eden dei nativi che oggi viene esaltato nelle scuole politically correct. Nella realtà, i nativi ebbero diversi imperi, potenze aggressive e dominatrici, tutt’altro che tenere verso le vittime della loro oppressione. Uno di questi lo costruirono i Comanche e fu così forte da tenere a bada per molto tempo le potenze coloniali europee. I Comanche perseguirono una dominazione sistematica e crudele, fino al genocidio dei loro nemici Apache, per sgominare i quali praticarono astute alleanze internazionali e un massiccio commercio di armi da fuoco con i bianchi. Conoscevano l’arte della diplomazia, della Realpolitik, delle coalizioni d’interessi fra nazioni.
Questa è la storia vera, non la favola per bambini in cui tutti i buoni sono da una parte e i cattivi dall’altra. Non toglie nulla agli orrori di cui furono capaci i bianchi. Durante la conquista del Far West gli indiani si videro togliere le loro terre, con un’operazione che oggi almeno negli Stati Uniti sarebbe illegale (non così in Cina, l’altra superpotenza, dove gli espropri di terreni «per ragion di Stato» sono tuttora possibili). Nella storia le leggi le fa il più forte. A mano a mano che gli indiani diminuivano di numero – per le epidemie o per le sconfitte negli scontri armati –, vennero emarginati, cacciati da una parte all’altra del continente, trattati come criminali anche se erano a casa loro. Uno degli episodi più terribili risale agli anni Trenta del XIX secolo, quando alcune popolazioni native furono deportate dall’esercito federale statunitense sotto la minaccia delle armi, costrette ad attraversare a piedi territori vastissimi, e molti morirono in quella marcia a tappe forzate che fu chiamata «la pista delle lacrime».
In due secoli, per fortuna, siamo cambiati molto, in meglio. Invece oggi questi episodi atroci, al pari dello schiavismo, vengono insegnati nelle scuole come se facessero tuttora parte del modus operandi nazionale. Cito da un articolo pubblicato sul «Los Angeles Times» da tre native (Joely Proudfit, Dina Gilio-Whitaker, Nicole Lim), tutte docenti universitarie: «L’America mente sistematicamente sul genocidio che è il fondamento di questa nazione. … Le ingiustizie inflitte ai popoli nativi sono incise nel tessuto sociale e nel sistema legale degli Stati Uniti». Eppure, le stesse autrici elencano una serie di miglioramenti avvenuti nel tempo: restituzioni di terre federali ai nativi a titolo di risarcimento per gli abusi subiti dai loro avi; nuovi programmi scolastici che includono lo studio di quegli abusi; insegnamento delle lingue e delle tradizioni etniche ai discendenti degli sconfitti. Tutte queste vengono celebrate come conquiste dei nativi, senza spostare di un millimetro la condanna inappellabile contro i bianchi di oggi, geneticamente razzisti. Si fa fatica a immaginare in quale mondo vivremmo se i cinesi Han fossero impegnati in un analogo processo di risarcimento e compensazione verso tibetani, uiguri, mongoli; o se le nazioni islamiche facessero ammenda per il loro ruolo secolare nel commercio di schiavi africani. Solo in America, guida dell’Occidente, ogni tentativo di ricompensare le vittime viene considerato sempre inadeguato, nonché una prova di colpevolezza.
Cerchiamo di capire qual è l’impatto della demolizione della figura di Colombo tra altri americani, per esempio quelli di origine italiana. Immaginiamo una bambina di dodici anni, discendente di migranti dal nostro paese. I suoi bisnonni dovettero fuggire dalla miseria dell’Italia nel primo Novecento. Magari erano contadini poveri in Sicilia. Sbarcarono negli Stati Uniti un secolo fa, dopo aver attraversato l’Atlantico stipati nei dormitori di terza classe su un piroscafo. Furono accolti da una diffusa ostilità, fatti segno del razzismo rivolto contro gli europei del Sud. Dovettero svolgere lavori umili, sottopagati. Furono sfruttati e discriminati. Fecero sacrifici e sforzi enormi per diventare «veri americani», per essere accettati nella terra adottiva. Infine, Roosevelt regalò loro il Columbus Day come riconoscimento che ce l’avevano fatta.
Adesso alla loro bisnipote, questa ragazzina dodicenne di origini italiane, viene insegnato che lei in quanto bianca è parte di un’eredità di razzismo. Deve pentirsi ed espiare i peccati della sua razza, a cominciare dallo schiavismo, anche se i suoi avi non possedevano schiavi. Se vive nell’America di sinistra, per esempio a New York, Washington, Boston, Filadelfia, Seattle, Portland, San Francisco, Los Angeles, San Diego, nella classe che frequenta le si insegna anche a rendere omaggio alle «vittime», tra le quali figurano degli immigrati ispanici. Non importa se nel Dna di questi figli di messicani c’è al massimo il 10 per cento di sangue indio, mentre per il resto discendono dai colonizzatori spagnoli. In quella stessa classe, l’insegnante politically correct mette tra le categorie degli oppressi, vittime di xenofobia, i figli di immigrati dal Medio Oriente, cioè arabi i cui antenati prosperarono sul commercio di schiavi: ma nel mondo arabo la storia dello schiavismo non viene insegnata, non viene criticata, non entra a far parte di una cultura della colpevolezza. La dodicenne italo-americana del mio esempio impara che se hai la pelle bianca, allora per te esiste una cosa che si chiama colpa razziale collettiva. Devi assumerti la responsabilità etica di quel che fecero (o forse non fecero) i tuoi antenati o gli avi di coloro che hanno il tuo stesso colore.
Quando Cristoforo Colombo era vivo, quel criterio esisteva già e veniva applicato, ma agli ebrei. «Deicidi», fu la giustificazione dell’antisemitismo. Eredi di una colpa collettiva, etnica: l’uccisione di Gesù Cristo. Quell’idea di una macchia razziale che si eredita per generazioni e si tramanda nell’infamia per secoli ora ha una spettacolare rinascita. Colpisce coloro che si ostinano a celebrare il Columbus Day.
La narrazione che ricostruisce la storia degli Stati Uniti come la lotta di un ceppo etnico intrinsecamente malvagio – i bianchi – contro tutti gli altri, idealizzati ed esaltati, ha conseguenze politiche ad ampio raggio. L’atteggiamento verso gli immigrati ne è una diretta conseguenza. Nella versione che domina tra le élite progressiste americane – e spesso fa scuola anche in Europa – bisogna accogliere gli stranieri a braccia aperte per almeno tre ragioni. La prima è umanitaria, è il dovere etico di riceverli per solidarietà. Questa in fondo sarebbe la più trasparente, a condizione di poter esplicitare la nostra generosità: invece la sinistra umanitaria di Alexandria Ocasio-Cortez, come vedremo, ci ingiunge di esercitare la solidarietà perché siamo noi i veri colpevoli delle sofferenze dei poveri. La seconda motivazione è utilitaristica: gli immigrati fanno bene alla nostra economia, ci rendono tutti più ricchi. È stata smentita nei fatti, da un’evoluzione recente su cui tornerò più avanti in questo capitolo. La terza motivazione è quella che si collega più direttamente al suicidio dell’Occidente: è la convinzione profonda (anche se non sempre dichiarata apertamente) che loro siano «meglio di noi», che vengano da una sorta di Età dell’Innocenza, non contaminata da tutte le brutture immorali del capitalismo. Anche questo è un mito dalle origini antiche: è il Buon Selvaggio del filosofo illuminista svizzero Jean-Jacques Rousseau. Mai come oggi, però, questo mito è diventato parte integrante dell’ideologia dominante, con cui l’Occidente punta all’autodistruzione. Ho già confutato questi argomenti nel mio pamphlet La notte della sinistra, ma nel frattempo la sinistra americana li ha abbracciati con un fervore ancor più fanatico. In pochi anni la sua pulsione suicida è diventata dominante.
Le posizioni di Alexandria Ocasio-Cortez, ormai abbreviata in AOC per i suoi numerosi e appassionati fan, sono un concentrato di quegli argomenti a favore dell’immigrazione incontrollata. La Ocasio-Cortez attacca a ogni piè sospinto le politiche dell’amministrazione Biden, secondo lei troppo simili a quelle di Donald Trump (in effetti lo sono). Quando Biden cerca di frenare l’esodo di migranti dall’America latina, ecco la replica di AOC: «Per decenni gli Stati Uniti hanno destabilizzato l’America latina. Gli abbiamo incendiato la casa, poi non vogliamo che fuggano». Le politiche di Washington verso i vicini del Sud hanno spesso avuto effetti deleteri, su questo è difficile dissentire dalla giovane radicale. Tuttavia descrivere le colpe degli Usa come la causa dominante dell’emigrazione è una forzatura. Intanto, perché ci sono fior di regimi antiamericani da cui si fugge in cerca di scampo: l’elenco vede in testa Cuba e Venezuela. Viceversa, alcuni tra i più grandi paesi del Sudamerica che hanno attraversato crisi economiche a ripetizione e hanno anche subito alcune interferenze negative da Washington – Brasile, Argentina – non sono affatto delle fonti significative di migranti. Ricondurre all’imperialismo yankee tutti i problemi dell’America latina, inclusa la profonda corruzione di molte classi dirigenti, fa parte degli stereotipi veteromarxisti che ebbero larga diffusione negli anni Sessanta. Erano, a dire il vero, ben più plausibili allora di quanto non lo siano oggi. Né spiegano come possa sorgere un Costa Rica – pacifico, non segnato da povertà e violenza, con pochissima emigrazione – circondato da regimi brutali e predatori.
Continuo l’esame delle posizioni della Ocasio-Cortez. Ha chiamato «campi di concentramento» i centri di detenzione dei richiedenti asilo alla frontiera. Come per Cristoforo Colombo, rispunta l’ombra dei nazisti e dell’Olocausto. In questo caso l’analogia con Hitler colpisce nel mucchio: Obama, Trump, Biden, tutti hanno mantenuto quei «campi di concentramento». La stampa è stata autorizzata a visitarli abbastanza spesso per verificare le condizioni di vita; non accadeva proprio la stessa cosa ad Auschwitz, Dachau e Buchenwald. AOC continua pertanto a proporre l’abolizione della polizia di frontiera e di tutta l’agenzia federale che ha la responsabilità di far rispettare i confini nazionali. Ha proposto a tal fine un referendum popolare per abrogare l’Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale che gestisce anche la lotta al contrabbando e al narcotraffico. Vuole che vengano depenalizzati tutti gli attraversamenti di frontiere, di fatto spalancando il territorio Usa a chiunque voglia prendervi residenza. Il 17 maggio 2021 AOC ha preso la guida di un gruppo di 34 parlamentari democratici che hanno chiesto a Biden di modificare le istruzioni date alla polizia, laddove le forze dell’ordine hanno la direttiva di arrestare quegli «immigrati incriminati per reati gravi, o sospettati di attiva partecipazione alle gang e di partecipazione alla criminalità organizzata». Il testo di questa mozione parlamentare è ben visibile sul sito della deputata e chiunque può controllare: per lei è un abuso di autorità anche dare la caccia alle bande che delinquono.
Infine, a coronamento di questo vasto programma, AOC chiede che «vengano estesi agli immigrati senza documenti tutti i benefici del Welfare». Un nesso stringente collega questa piattaforma no border con la cultura del razzismo nei confronti del Bianco che si afferma nel Columbus Day. Perfino i membri delle gang violente meritano il beneficio del dubbio, e qualche forma di comprensione o indulgenza: dopo tutto il male che abbiamo fatto noi a quei popoli, a quelle culture, alle loro terre di provenienza, dobbiamo riconoscergli fior di attenuanti. Se ammazzano e seminano il terrore in alcune metropoli per controllarvi il business del narcotraffico, non è davvero colpa loro. Ammetterli fra noi, senza condizioni e senza limiti, non potrà che renderci migliori, emendarci dalle tare della razza bianca. Estendere a loro tutti i benefici del Welfare – benché non abbiano mai pagato tasse o contributi negli Stati Uniti – è un minimo gesto di civiltà e anche un piccolo risarcimento della loro miseria, per la quale in ultima istanza siamo sempre noi i veri responsabili. Gli eredi di Cristoforo Colombo – capitalisti, razzisti, sfruttatori, rapaci predatori di risorse naturali – non possono che guadagnarci dall’essere finalmente messi in minoranza con l’arrivo di masse affamate dal Sud. Il discorso pubblico di AOC riecheggia sull’altra sponda dell’Atlantico. Carola Rackete, l’eroina della Sea Watch 3, ha avuto parole altrettanto esplicite nell’esprimere il suo disgusto di essere tedesca, cioè portatrice della macchia ereditaria del nazismo. L’Occidente è l’orrore supremo, nel pensiero di AOC-Rackete. Il fatto che tanti diseredati sognino il benessere, l’ordine e la sicurezza dell’Occidente si spiega solo con la nostra ricchezza; della quale dobbiamo vergognarci, perché è figlia del peccato, è il bottino di una rapina planetaria.
Il passaggio successivo, nell’ideologia della sinistra no border, consiste nel dare a questi immigrati senza permesso di soggiorno anche il diritto di voto. Negli Stati Uniti questo già accade, o è in procinto di accadere. Alla fine del 2021 il consiglio municipale della città di New York ha votato a larga maggioranza una mozione per concedere il diritto di voto a oltre 800.000 stranieri residenti da almeno un mese e molti dei quali senza permesso di soggiorno stabile (Green Card). In una metropoli di quasi nove milioni di abitanti (minorenni inclusi) questo significa allargare di colpo l’elettorato aggiungendovi più di un decimo di votanti. Si tratta naturalmente del diritto di esprimersi alle elezioni locali, non a quelle statali o federali. Nondimeno, è dubbio che sia legale. Perfino l’allora sindaco di sinistra, Bill de Blasio, obiettò che quella misura (trasformata in legge dal suo successore Eric Adams nel gennaio 2022) era incostituzionale. Ma gli stranieri senza documenti legali possono già votare negli scrutini locali in altre città: a San Francisco e in molti centri della California, in Maryland, in Vermont. Provvedimenti analoghi sono avviati verso l’approvazione in Illinois, Massachusetts, Maine. Dettaglio curioso: a New York tra i beneficiari ci sarebbero anche i figli di 117.500 immigrati clandestini dalla Cina, paese nel quale il «diritto di voto» è considerato un’aberrazione della decadente liberaldemocrazia occidentale. L’inclusione degli immigrati nelle nostre democrazie è avvenuta anche in diverse nazioni europee, dal Belgio alla Danimarca: si tratta però di stranieri con regolare permesso di soggiorno, che pagano tasse e contributi. Il passo compiuto negli Stati Uniti è ben più audace: riconosce un’influenza politica a chi si trova illegalmente sul territorio nazionale. Si inserisce in perfetta coerenza nella visione di AOC: «loro» voteranno meglio di «noi», la democrazia americana ne uscirà rafforzata quando avrà incluso tutte le minoranze oppresse.
Di nuovo, i progressisti riesumano una tendenza preesistente. È l’idea che allargando il più possibile la partecipazione politica agli stranieri, questi modificheranno gli equilibri a favore della sinistra, in modo irreversibile. È un passaggio verso la costruzione di una società nuova. Un esempio di questa teoria risale a vent’anni fa. Fu il celebre saggio di Ruy Teixeira e John Judis, The Emerging Democratic Majority, pubblicato nel 2002. Vi si pronosticava appunto un cambiamento demografico – con ondate di nuove migrazioni – tale da lanciare l’America verso una nuova Età Progressista. Sempre più stranieri, sempre più voti democratici. In verità, un simile retropensiero ispirava Roosevelt quando istituì il Columbus Day. Anche FDR voleva cementare una grande coalizione progressista nella quale fossero cooptati i nuovi arrivati: lavoratori poveri di origine italiana e greca, irlandese e polacca. Roosevelt, però, si riferiva a quelli che c’erano già, l’idea di aprire le frontiere a nuovi arrivi non lo sfiorò neppure, anzi.
Di fronte a questo vasto progetto d’ingegneria sociale, che punta a relegare i repubblicani in uno status di minoranza permanente, si può capire che la destra diventi paranoica. Le farneticazioni di Trump sui brogli elettorali dietro l’elezione di Biden sono menzogne irresponsabili, gravissime; tanto più dopo che queste bugie hanno ispirato la violenza sediziosa del 6 gennaio 2021 con l’attacco criminale al Campidoglio. Ma se quelle falsità sono risultate credibili a tanti repubblicani, qualche influenza l’hanno avuta i progetti d’ingegneria sociale della sinistra. Non risulta la minima prova su brogli di massa nelle elezioni americane, né a livello locale né a livello federale. Resta il fatto, però, che perfino un radicale di sinistra come l’ex sindaco de Blasio ha visto con preoccupazione l’incostituzionalità di una misura che vuole regalare a più di 800.000 stranieri illegali il diritto di voto.
Va aggiunto che in una roccaforte progressista come New York, anche alle elezioni presidenziali è rigorosamente vietato chiedere un documento d’identità all’elettore. Provare per credere: ogni volta che mi reco in un seggio elettorale per compiere il mio dovere di cittadino, se provo a esibire la mia patente di guida o qualsiasi altro documento personale, i responsabili del seggio si voltano schifati dall’altra parte. Vade retro. Sembra incredibile a noi europei, abituati a non poter votare se non abbiamo con noi un documento che provi la nostra identità. Per la sinistra americana una simile pretesa equivarrebbe a una violazione di diritti fondamentali. La giustificazione storica è nota: nel profondo Sud, anche dopo le conquiste del movimento per i diritti civili, a volte agli afroamericani venne negato l’accesso ai seggi elettorali usando come filtro i documenti d’identità. Ne è derivato un principio generale, un dogma dei progressisti, per cui chiedere qualsiasi prova d’identità è una discriminazione a danno dei poveri. La destra, con eccessi simmetrici e speculari, tenta di introdurre ogni sorta di controlli negli Stati in cui governa e comanda. Il risultato è un’ulteriore dissociazione della liberaldemocrazia più antica della storia. A New York, un repubblicano può legittimamente sospettare che stiano votando fior di non elettori, anche se non ne ha le prove; in Texas e in Mississippi si tenta di rendere difficile l’esercizio del diritto di voto anche agli afroamericani che sono cittadini al cento per cento.
La teoria della Grande Sostituzione (dei bianchi con tutti gli altri) ha contribuito in Francia all’ascesa di Éric Zemmour, l’imitatore transalpino di Donald Trump. Ma è negli Stati Uniti che quel progetto d’ingegneria sociale è stato proclamato apertamente da oltre due decenni, perlomeno da quando il saggio di Teixeira e Judis sulla futura maggioranza progressista divenne un best seller. In realtà si è rivelato un boomerang. La sinistra americana ha sognato un paese dove i bianchi saranno una minoranza ridotta all’impotenza, perché tutte le altre etnie si coalizzeranno per far vincere il Partito democratico fino all’eternità. Questo ha esasperato la paranoia della destra, ha disseminato paure e sospetti, ha creato una sindrome «sudafricana» da accerchiamento e da stato d’assedio in certi ambienti bianchi: se davvero il progetto è la Grande Sostituzione, prima dovrete passare sui nostri cadaveri, e venderemo cara la pelle. Di qui le iniziative che negli Stati americani di destra attaccano frontalmente il principio «un cittadino, un voto». Il corrispondente del «Corriere della Sera» Massimo Gaggi (Usa, democrazia e regole: i pericoli che corre l’America, 12 dicembre 2021) ha documentato «il tentativo di alcuni Stati ma anche di tante amministrazioni locali (in certi casi già riuscito, in altri ancora in corso) di sottrarre a funzionari indipendenti e a organismi tecnici la conta dei voti e la scelta dei delegati degli Stati che poi eleggeranno il presidente. Verranno trasferiti ad assemblee politiche nelle quali la maggioranza di un partito potrebbe invalidare l’elezione del candidato del partito avverso».
A parte l’effetto galvanizzante sull’estrema destra, la teoria della Grande Sostituzione, con il suo corollario di un dominio eterno della sinistra, si è rivelata un’illusione. Proprio come accadde per gli italo-americani, anche le ondate migratorie più recenti hanno smentito gli stereotipi sulla fedeltà politica alla sinistra. Il voto degli immigrati ispanici per Trump ha sfatato le previsioni, con forti progressi del Partito repubblicano dal 2016 al 2020. Nei sondaggi compiuti alla fine del 2021 la comunità ispanica era ormai equamente suddivisa tra repubblicani e democratici. Come si spiega? In parte la storia della stessa comunità italiana è istruttiva. Via via che gli immigrati si integrano, e con i loro sforzi conquistano un successo economico, il miglioramento del tenore di vita li allontana da certe predilezioni della sinistra per l’alta pressione fiscale e l’assistenzialismo. Gli immigrati che hanno qualche modesto benessere da preservare sono attratti da chi difende l’ordine pubblico e la sicurezza. Inoltre, le migrazioni recenti dall’America latina sono avvenute in un contesto di crescente radicalizzazione della sinistra. La Ocasio-Cortez piace ai giovani ispanici, ma spaventa quella parte della comunità che ha profonde convinzioni religiose e una visione tradizionale della famiglia e dei ruoli sessuali. La stragrande maggioranza degli ispanici dissente dalle campagne contro i pronomi tese a favorire generi sessuali fluidi, e dall’uso del termine Latinx che respinge ogni identità sessuale. La campagna di AOC per abolire la polizia di frontiera non è popolare tra molti stranieri: non perché siano banalmente degli «egoisti» che vogliono richiudere il portone dopo essere entrati, ma perché tra i valori che li hanno attratti verso gli Stati Uniti ci sono proprio lo Stato di diritto, il rispetto della legalità, l’ordine pubblico, la sicurezza.
Il clima culturale che si è affermato dove domina la nuova sinistra americana aiuta a capire le sorprese dell’ultimo censimento demografico, realizzato nel 2020 ma i cui dati hanno cominciato a essere analizzati circa un anno dopo (Covid permettendo). La popolazione degli Stati Uniti ha raggiunto quota 331,4 milioni. Per la prima volta il numero dei bianchi è diminuito non solo come percentuale sul totale, ma anche in assoluto: rispetto a dieci anni prima sono scesi dell’8,6 per cento, a quota 204,3 milioni. Anche dopo questo calo i bianchi restano pur sempre una chiara maggioranza pari a oltre il 61 per cento del totale. Questo dovrebbe indurre alla cautela chi proclama il progetto esplicito di ridurli in minoranza e castigarli per tutto il male che hanno fatto. Come minimo bisognerebbe mettere in conto che vogliano difendersi prima che sia troppo tardi.
I dati del censimento contengono altri insegnamenti. Tra la rilevazione del 2010 e quella del 2020 molti hanno scelto di cambiare la definizione della propria appartenenza etnica. Poiché il questionario distribuito dal Census Bureau ammette le risposte multiple, certi bianchi hanno deciso di aggiungersi altre definizioni, scoprendosi di colpo qualche antenato o genitore di altre etnie. La campagna «bianco è brutto» ha finito per riflettersi anche sul censimento. È il fenomeno della vergogna per la propria razza, che oggi colpisce il gruppo maggioritario. Chi può, tenta di farsi una nuova verginità o legittimità scovando radici etniche che diminuiscono i propri legami con il ceppo razziale processato ogni giorno nelle aule scolastiche e sui media. Non a caso Trump, che fra le sue perverse abilità ha un fiuto per le contraddizioni dell’avversario, ridicolizzò l’esponente della sinistra democratica Elizabeth Warren chiamandola «Pocahontas» quando si scoprì che la senatrice si era autodefinita parzialmente «nativa», pur avendo solo l’1 per cento di sangue indigeno nella sua famiglia.
Ogni epoca ha avuto i propri riti d’iniziazione, gli esami d’appartenenza ai gruppi dominanti. Nell’Ancien Régime i borghesi facevano carte false pur di appropriarsi di qualche quarto di nobiltà. Nell’Unione Sovietica di Stalin e nella Cina di Mao era meglio non avere un antenato imprenditore (nemico di classe, categoria maledetta) e potersi fregiare di un Dna operaio o contadino. A ogni epoca cambiano i segni esteriori premiati dall’establishment e dalle élite. L’importante è che sia chiaro: oggi negli Stati Uniti avere la pelle bianca sta diventando un handicap, invece essere membro di minoranze etniche ti mette dalla parte dei Giusti nella nuova nomenclatura dominante.
Quali sono le conseguenze sulla tenuta nazionale, e sulla salute della democrazia? Insieme alla demonizzazione del Columbus Day, che aliena la comunità italo-americana, un’altra campagna è perfino più insidiosa. È l’assalto al Thanksgiving Day, la festa più nazionalpopolare degli americani. Per i lettori italiani è utile ricordare l’origine della Festa del Ringraziamento, per metà storia e per metà leggenda, forse. La versione tramandata da generazioni recita così: nella tarda estate o nel primo autunno del 1621, in quella che oggi è la cittadina di Plymouth (Massachusetts), una comunità di 52 coloni inglesi, inclusi donne e bambini, partecipò a un festino con 90 guerrieri della tribù Wampanoag. Gli inglesi erano i sopravvissuti tra i Padri Pellegrini del Mayflower, veliero di emigranti sbarcato su quella costa l’anno prima. Gli wampanoag li avevano aiutati donando loro del cibo quando i coloni avevano rischiato di essere sterminati dalla fame (di mezzo c’era stato un inverno tremendo, con raccolti deludenti). Le due comunità firmarono un trattato di pace, che venne rispettato per mezzo secolo.
Fin qui la genesi ufficiale, che dà un significato al Ringraziamento: è una festa che celebra la ricchezza delle risorse naturali dell’America ma ancor più la solidarietà, la misericordia, la carità umana e divina. È così che l’abbiamo spesso vissuta io e i miei familiari, americani adottivi e recenti. Ci stabilimmo per la prima in volta in California nel luglio 2000. Da allora, per ventidue anni di seguito, spesso all’avvicinarsi del Thanksgiving Day rischiavamo di sentirci soli. Anche se per noi il significato di quella celebrazione era astratto, attorno avvertivamo un’atmosfera di calore, di preparativi, di aspettative, perché per gli americani è importante quanto il Natale come festa di famiglia, riunione con le persone care. Quando qualche conoscente, vicino di casa o collega di lavoro intuiva che noi quattro italiani rischiavamo di trascorrere quella giornata da soli, ci invitava a casa sua. E così molto spesso ci siamo trovati al centro di un affetto caloroso, sperimentando sulla nostra pelle il significato «vissuto» del Ringraziamento. È tradizione, in quel giorno, guardarsi attorno in cerca di persone sole e impedire che soffrano ancora di più l’isolamento. Festa inclusiva per eccellenza, si direbbe nel gergo contemporaneo. Da quando siamo cittadini americani e mia moglie è attiva come volontaria nella Comunità di Sant’Egidio di New York, per il Thanksgiving Day ha spesso partecipato a una festa con i senzatetto. Il Ringraziamento, nella sua unicità americana, e proprio perché ha messo radici in una sorta di leggenda formativa dell’identità nazionale, per qualche secolo è diventato un momento di unione.
Oggi non lo è più. La campagna di demolizione è cominciata. Nel Thanksgiving Day 2020, per esempio, in diverse città alcune bande di giovani si sono lanciate in atti di vandalismo e perfino saccheggi, con il pretesto di promuovere i diritti dei nativi. Hanno deturpato statue storiche, hanno sfondato vetrine di negozi, lasciando dietro di sé slogan dipinti con lo spray: «No grazie», «Basta genocidio», «Decolonizzare», «Restituire le terre». I teppisti hanno la copertura di prestigiosi intellettuali, che da anni usano il Thanksgiving Day per scrivere editoriali di fuoco contro l’ipocrisia e l’ingratitudine dei coloni, che prima furono salvati dai nativi ma più tardi ripresero la conquista. Anche questa ricorrenza è finita nel catalogo del genocidio. E con essa l’idea che esista un momento – per quanto artificiale, per quanto lacunoso nell’esattezza storica – in cui tutti gli americani possono sentirsi parte di un destino e guardare a un futuro comune.
Lo storico David M. Kennedy, un progressista che ha vinto il premio Pulitzer nel 2000 per il suo lavoro sul New Deal di Roosevelt, è preoccupato per «la perdita di un senso di scopo condiviso», e aggiunge questa constatazione amara: «Le società che hanno profonde e croniche divisioni etniche e generazionali non hanno storie incoraggianti».
Sono tornato alle origini della mia vita americana, nel luglio 2000, rileggendo quello che scrivevo allora (in una rubrica sulla «Repubblica», poi raccolta nel volume San Francisco - Milano) e ho ritrovato, nella mia prima impressione di residente stabile in America, lo scorcio di una società multietnica che ancora sembrava funzionare abbastanza.
Dopo quattordici ore di volo da Milano arrivammo a San Francisco un po’ appannati. Con 18 valigie, due figli e un barboncino al seguito, in previsione di trasferirsi per qualche anno, la stanchezza era normale. E così la prima sera nella nostra nuova casa mia moglie fece scattare per sbaglio l’allarme antifurto. Quattro minuti dopo arrivarono tre pattuglie della polizia. Non ero abituato a reazioni così sollecite (a Milano avevo passato notti insonni per l’allarme di qualche vicino senza che la polizia si facesse viva). Ma non fu questo ad attirare la mia attenzione. Mi colpì piuttosto il fatto che dalle tre auto della polizia scese un gruppo di agenti composto da due bianchi, due asiatici, un latinoamericano e un nero. Un campionario molto politically correct, specchio fedele della società multietnica di San Francisco. Ero già stato in America e naturalmente avevo visto poliziotti di colore, ma quella era la mia prima notte da residente stabile in California e interpretai questo episodio come una sorta di benvenuto ufficiale nello Stato Usa dove gli immigrati costituiscono ormai la maggioranza degli abitanti.
La composizione delle pattuglie di polizia intervenute quella sera a casa mia era, a mio avviso, un buon esempio di come l’America avesse fatto dell’immigrazione una sua grande forza e un indicatore del suo metodo d’integrazione. Scrivevo: «Il sistema di reclutamento delle forze dell’ordine dà due messaggi agli immigrati. Il primo è un messaggio di eguaglianza: nessuno ce l’ha con te per il colore della tua pelle, visto che uno dei tuoi indossa la divisa. Il secondo è un messaggio disciplinante: non hai alibi per non rispettare la legge del paese che ti ha accolto, e se fai il furbo uno dei tuoi è pronto a metterti le manette. L’America non ha mai confuso tolleranza e lassismo. Uno strumento antico per integrare le minoranze è stato la cooptazione delle loro élite nella classe dirigente». Una volta ammessi nel ceto di governo, infatti, i leader delle comunità polacca o messicana, italiana o irlandese diventavano al tempo stesso difensori e sorveglianti dei propri connazionali. Sostenevano i loro interessi, ma al tempo stesso li incanalavano nella logica del sistema. E concludevo le mie riflessioni con questa osservazione: «Proprio per l’estrema varietà etnica della società americana, il rispetto maniacale delle regole è sempre stato imposto come la condizione fondamentale per integrarsi. La tolleranza zero, molto prima che qualcuno le desse questo nome trasformandola in slogan, è stata il baluardo implicito contro il caos».
Com’è lontana l’America di oggi dal quadretto – forse già allora idilliaco, un po’ idealizzato – che mi accoglieva ventidue anni fa! La cultura del rispetto delle regole è presa d’assalto da chi teorizza che le regole siano state scritte dal Bianco per opprimere tutti gli altri. L’idea che gli stranieri abbiano qualche dovere verso la comunità che li accoglie è contestata da AOC, Carola Rackete e tutta la sinistra no border, secondo cui i disperati della terra hanno solo diritti. Le élite delle minoranze etniche che entrano a far parte della classe dirigente – inclusi i coniugi Obama – devono continuamente «scusarsi» presso la propria comunità per avere avuto successo, e devono combattere contro il sospetto di essersi venduti al Bianco (esemplare è la polemica di Black Lives Matter e diversi radicali afroamericani contro Barack per il fatto di non essere «abbastanza nero»).
Disciplinare chi arriva in America è un messaggio che non viene più trasmesso. Perfino nel dettaglio linguistico, che è importante. Ai tempi in cui arrivavano gli italiani poveri, «cafoni, morti di fame» e venivano messi in quarantena a Ellis Island, una volta approdati sulla terraferma i genitori dissuadevano i figli dal parlare il proprio dialetto o l’italiano. Bisognava anglicizzarsi, la lingua era un passaggio fondamentale dell’assimilazione. Oggi, ogniqualvolta chiamo al telefono un ufficio pubblico americano, o il servizio clientela di un’azienda privata, scatta questa messaggeria automatica: Para continuar en español, oprima el dos, «Premi il tasto due per continuare in spagnolo». Lo status dell’inglese come lingua degli Stati Uniti non solo viene apertamente contestato, ma è accantonato a favore di un bilinguismo di fatto. Il nuovo codice di comportamento dice agli immigrati dell’ultima ora proprio quel che pensa AOC: la vostra cultura è superiore alla nostra, quindi tenetevela stretta.
Neppure l’Impero romano, nell’ultima fase della sua decadenza, era arrivato a dire ai goti: siete molto meglio di noi, guardatevi bene dall’imparare il latino.
Di nuovo cito lo storico progressista David M. Kennedy, esperto dell’era rooseveltiana. Intervistato dal «Wall Street Journal» (Does America Still Have a Common Creed?, 27 novembre 2019) dice: «La visione dominante in America fino alla fine del XX secolo era che noi accogliamo tante genti diverse ma ci aspettiamo che assimilino un ventaglio di valori, comportamenti, ambizioni, aspirazioni. Ora che la diversità è diventata il valore dominante in molte parti della cultura americana, questa celebrazione della differenza si sostituisce ai valori fondamentali che sono libertà, senso delle regole, rispetto della Costituzione. Il progetto di assimilazione viene rovinato».
Ho lasciato per ultima l’altra motivazione con cui l’immigrazione è stata difesa, dai grandi capitalisti quanto da AOC. È l’argomento economico: l’afflusso di stranieri aumenta la nostra ricchezza. È una tesi insidiosa, perché da un certo punto di vista è fin troppo ovvia. Il Prodotto interno lordo (Pil) è calcolato addizionando tutti i redditi che vengono generati in una nazione. Se la popolazione cresce, naturalmente il Pil cresce. Una demografia positiva grazie agli immigrati è un segno «più» per la ricchezza nazionale. Ma questo non ci dice nulla sulle conseguenze per le categorie sociali e per i singoli. Non ci illustra, per esempio, l’impatto dell’immigrazione sulla distribuzione dei redditi, su quanto viene catturato dai ricchi, quanto va al ceto medio, quanto agli operai.
Il biennio 2020-21 ha offerto una confutazione nei fatti alla tesi sull’immigrazione che «fa bene a tutti». C’è un enorme tabù, aggirato con pudore sospetto dai media: dopo una prolungata riduzione dei flussi in entrata (prima le restrizioni di Trump, poi quelle dovute al Covid), le aziende americane hanno lamentato penuria di manodopera in molti settori, ma al tempo stesso questa scarsità d’immigrati ha fatto salire i salari delle classi lavoratrici di ogni genere, e questo è accaduto per la prima volta da decenni.
Si è avuta in quel biennio la conferma di un teorema classico ma ignorato dal pensiero unico politically correct (che si sovrappone al pensiero unico liberista): il mercato del lavoro è, appunto, un mercato. Come tale è regolato dalle leggi della domanda e dell’offerta. Se riduci la quantità di forza lavoro disponibile, l’equilibrio si sposta a favore dei lavoratori, il loro potere contrattuale aumenta, la loro condizione migliora.
I dati americani sono chiari. Il numero di visti d’ingresso rilasciati dagli Stati Uniti è sceso del 60 per cento dal 2016 al 2020. Prima per una scelta deliberata dell’amministrazione Trump, poi perché la pandemia ha fornito a Joe Biden una buona ragione, o un pretesto, per mantenere intatte molte restrizioni del suo predecessore. Risultato: ci sono milioni di stranieri in meno, negli Stati Uniti, rispetto a quelli che ci sarebbero se fossero continuati i flussi d’ingresso pre-2016. Alla fine del primo semestre 2021 c’era una lista d’attesa di 1,4 milioni di richieste di visti per lavoro, bloccati dai ritardi dell’amministrazione Biden. Nell’intero biennio 2020-21, una ricerca condotta dalla Brookings Institution, un autorevole think tank di orientamento progressista, indica che negli Stati Uniti sono entrati 1 milione di lavoratori in meno, per la riduzione delle migrazioni.
Questo dato va incrociato con quello sulla Great Resignation, la Grande Dimissione: un numero elevatissimo di lavoratori americani abbandonano il posto, al ritmo di 4 milioni al mese in media. Le motivazioni sono tante e diverse, alcune legate al Covid. Ma un alto numero di dimissioni – non licenziamenti – è sempre stato un segnale positivo: in buona parte, si tratta di persone che se ne vanno «sbattendo la porta», perché da un lato non sono soddisfatte dall’ultimo lavoro, dall’altro sono ottimiste sulla possibilità di trovare di meglio. Ed è quel che è successo per molti di loro, infatti le assunzioni sono state abbondanti. L’aumento netto degli occupati ha superato i 6 milioni nel 2021. Il tasso di disoccupazione ha continuato a scendere (3,9 per cento a fine anno, dopo aver oltrepassato la soglia del 10 per cento durante la breve recessione da Covid). Attenzione ai settori: i numeri più alti di dimissionari si concentrano in attività come ristoranti e bar, hotel, grande distribuzione. Cioè sono in maggioranza camerieri, inservienti, commesse e cassiere.
Cosa accade in una situazione in cui i datori di lavoro non possono più attingere a un abbondante bacino di nuovi immigrati in arrivo, disposti a lavorare per condizioni molto misere? Le aziende sono costrette ad alzare i salari. È quello che è accaduto. L’aumento medio del 4,6 per cento registrato per i salari americani nel 2021 era già piuttosto elevato rispetto al passato, ma nasconde il fatto che gli stipendi bassi aumentano molto più di quelli medio-alti. Con punte del +15 per cento in alcune mansioni come i camerieri. Per la prima volta si è invertita la forbice, sono i non laureati a spuntare i migliori rialzi salariali, perché è in quel settore dell’economia che si verifica la penuria di manodopera più acuta. Tipico l’esempio di Amazon, che guida la corsa al rialzo avendo già aumentato per fattorini e magazzinieri il salario minimo d’ingresso a 18 dollari orari, più del doppio del minimo federale (7,25 dollari). In un mercato del lavoro improvvisamente «orfano» dei flussi migratori di una volta, i ceti meno abbienti stanno vivendo una rivincita. Ma di questo nesso evidente tra la minore immigrazione e i miglioramenti salariali non v’è traccia nei principali media americani. È troppo scomodo fare i conti con una realtà che contraddice i dogmi, sia quelli del padronato sia quelli di AOC?
Che l’immigrazione impoverisca la classe operaia è una verità antica con la quale Biden ha familiarità. La sinistra storica in America non aveva dubbi su questo. Nell’arco di tempo che va da Roosevelt nel 1933 a Kennedy nel 1963, cioè nell’epoca in cui gli Stati Uniti ebbero una vera «socialdemocrazia» – costruirono il primo Welfare, aumentarono gli investimenti pubblici, potenziarono i diritti dei lavoratori –, le loro frontiere erano semichiuse. Poi arrivò la riforma delle leggi sull’immigrazione (Lyndon Johnson e la Green Card). Fu allora che l’America diventò quella società multietnica dai tratti che conosciamo.
Puntualmente cominciarono, dagli anni Settanta e soprattutto con Ronald Reagan negli anni Ottanta, lo smantellamento del Welfare e dei diritti dei lavoratori, l’aumento dei profitti a scapito dei salari, il peggioramento delle diseguaglianze. E non regge il consueto argomento per cui «gli immigrati vengono a fare lavori che noi non vogliamo fare». Anzitutto abbiamo l’evidenza empirica che in molti mestieri umili e sottopagati coesistono lavoratori stranieri e americani bianchi o black. Basta vivere qui e osservare i fattorini delle consegne, i netturbini, i muratori, i camionisti, per sapere che non ci sono lavori abbastanza poveri da non attirare anche fasce autoctone: bianchi poveri e neri. In particolare negli Stati Uniti, la concorrenza degli immigrati ha sempre depresso i salari dei lavoratori afroamericani nelle mansioni meno qualificate. Infine, quel luogo comune sugli immigrati che riempiono posizioni lasciate vuote dai nostri concittadini prescinde dai livelli salariali: anche la raccolta della frutta e verdura nei campi, tipico settore dove abbonda forza lavoro immigrata, resterebbe «riservato» a loro se la paga fosse doppia, tripla, quadrupla, quintupla? È evidente che ad allontanare i nostri concittadini da certe mansioni ci sono problemi di status sociale, immagine e reputazione, ma c’è anche la libertà per i datori di lavoro di sottopagare finché possono attingere al bacino dei migranti.
Perciò non è un caso se Biden ha evitato di smantellare un solo mattone dal Muro di Trump, e se ha mandato Kamala Harris in America centrale a dire «le frontiere sono chiuse». È proprio questo ruolo della vicepresidente ad averla resa insopportabile all’ala sinistra del suo partito. La parabola di Kamala – da presunta radicale a centrista – si è consumata tutta nella fantasia dei media e della sinistra estrema; chi aveva seguito la sua carriera politica in California sapeva quanto fosse distante da Alexandria Ocasio-Cortez. Ma la frattura tra i radicali e la Harris è uno dei tanti segnali di una lotta intestina che consuma il partito del presidente. Un’altra convulsione che accelera il suicidio americano.
Dove si è persa la brillante Kamala, la guerriera che doveva essere la vera leader nell’amministrazione Biden, o almeno la speranza del futuro? Le aspettative intorno alla vicepresidente erano enormi all’epoca della sua nomina. Il vecchio Joe era considerato già logoro in partenza, lei doveva rappresentare tutto il nuovo e una potente carica di energia. Invece è stata la prima ad affondare nei sondaggi e non ha mai smesso: fa peggio dello stesso Biden. È la più impopolare degli ultimi quattro vicepresidenti. I media hanno ribaltato la narrazione su di lei, ora ne parlano come di una incompetente (non studia i dossier), arrogante, a tratti isterica. Il sessismo abbonda nei commenti; ma è un dato di fatto il fuggi fuggi dal suo staff. La Harris viene ormai paragonata a Dan Quayle, il vice di George Bush senior leggendario per le sue gaffe; o alla «macchietta» Sarah Palin, che come spalla di John McCain nella sfida contro Barack Obama fece le delizie della satira.
Il crollo di Kamala ha un retroscena segreto, insito nelle divisioni nel Partito democratico. I media progressisti voltarono le spalle alla vicepresidente nel giugno 2021. Galeotto fu il suo viaggio in America centrale. Biden le aveva delegato uno dei dossier più esplosivi: la crisi migratoria, la pressione dei profughi al confine meridionale. Il messaggio della Harris fu «aiutiamoli a casa loro». Usò slogan duri, «restate perché non vi accoglieremo». Fu una missione difficile ma indispensabile. La Casa Bianca aveva bisogno di contrastare il messaggio estremista della sinistra no border, dopo che la leader radicale AOC aveva preconizzato l’abolizione della polizia di frontiera. Tanto più con il Covid ancora in agguato, liberalizzare gli ingressi sarebbe stato un suicidio politico per i democratici. Biden è la memoria storica della sinistra classica, socialdemocratica e operaista: le classi lavoratrici americane sono state protette meglio quando le frontiere erano semichiuse e l’immigrazione veniva governata.
Quando la Harris si è immolata per questa causa, la sinistra del suo partito l’ha vista come una traditrice. L’equivoco che aveva segnato la sua nomina si è dissolto. Biden aveva scelto la Harris per ragioni letteralmente estetiche: donna, cinquantasettenne e discendente da ben due minoranze etniche, indiana e afroamericana. Era l’esatto contrario del presidente, vecchio maschio bianco cattolico. Perciò era «rivoluzionaria» per definizione. La vera Harris non corrispondeva a quello stereotipo. Sua madre veniva dall’India, ma dalla casta privilegiata dei bramini tamil, ed era stata una brillante ricercatrice medica all’università di Berkeley. Il padre era giamaicano, ma un noto economista, una celebrity accademica. Come ministra della Giustizia in California, la Harris aveva inflitto pene severe ai criminali, in contrasto con la filosofia delle procure progressiste. La Harris si era prestata a una finzione corteggiando Black Lives Matter, #MeToo e tutte le frange radicali della sinistra. Eppure la sua biografia si prestava a ben altra narrazione: la storia dei suoi genitori è l’apoteosi di un American Dream costruito da élite di immigrati iperqualificati che diventano classe dirigente e adottano le regole del gioco anglosassoni; il contrario dell’attuale ideologia politically correct. Contro Kamala si è consumata la vendetta di coloro che si sono sentiti traditi, perché non è la pasionaria su cui avevano scommesso.
L’idea di confine è antichissima: non appena una collettività umana si è organizzata per controllare un territorio geografico, ha sentito il bisogno di delimitarlo. Finché eravamo tribù di nomadi il «nostro» territorio era fluido e variabile. Quando siamo diventati agricoltori e sedentari, al contrario, marcare il territorio diventava essenziale: dal possesso di quella superficie coltivabile dipendeva la nostra sopravvivenza. Per questo, fino ai nostri tempi, nomadi e sedentari sono in conflitto: i primi tendono a non rispettare i confini dei secondi.
Una volta delineato un territorio, nasce il bisogno di difenderlo. Stati, repubbliche o imperi hanno usato muri e fortificazioni per controllare gli ingressi e impedire le invasioni. Certi confini «solidi» che risorgono nell’Europa dell’Est; il Muro di Trump, la cui costruzione, peraltro, iniziò con Bill Clinton per arginare il narcotraffico da Tijuana a San Diego; queste sono solo piccole e recenti aggiunte a un lungo elenco. I valli romani li conosciamo. La più estesa fortificazione mai costruita dall’umanità è la Grande Muraglia cinese, con la stessa finalità dei valli romani: segnalare il perimetro dell’impero, ostacolare le invasioni. Per grandi imperi con una forte identità culturale, come la Cina e Roma, confini e muri diventavano anche il simbolo di una separazione: tra la civiltà e i barbari. Il termine «barbaro» – che nel greco antico descriveva semplicemente chi parlava una lingua straniera – ha il suo equivalente in molte lingue, incluso il mandarino dei cinesi. Chi è fuori dal confine difeso con le muraglie non appartiene alla stessa civiltà, non ne condivide i valori, non è soggetto alle stesse regole.
Da un lato, le fortificazioni svolgono una funzione amministrativa, politica, militare: segnano il territorio all’interno del quale si applicano le regole di uno Stato. Nel caso di Roma, a un certo punto della storia il limes ha finito per coincidere anche con la sfera della cittadinanza, perché chi abitava entro i confini dell’impero è potuto diventare – a certe condizioni – un cittadino portatore di diritti e doveri. Poi c’è il significato culturale: oltre il confine cominciano altri mondi dove i nostri valori non vengono condivisi. Nella storia della Cina c’è un senso di superiorità legato alla propria cultura, la convinzione che oltre la Grande Muraglia non vi fossero vere civiltà. Le fortificazioni ai confini hanno avuto un’efficacia variabile, come strumenti di contenimento dei flussi migratori. La Grande Muraglia a volte ha dissuaso gli invasori – che si sono rivolti altrove, magari alla conquista dell’Europa –, altre volte è stata superata e i cinesi sono stati assoggettati da dinastie straniere. Lo stesso accadde per i valli romani: hanno contenuto le ondate migratorie solo fino a un certo punto. Ma la forza simbolica dei muri è stata spesso condivisa da chi li oltrepassava.
I barbari che davano l’assalto ai valli romani o alla Grande Muraglia cinese erano attratti da ciò che avrebbero trovato nel territorio protetto da quelle fortificazioni. Nei flussi migratori di oggi, profughi e richiedenti asilo riconoscono l’importanza delle frontiere e cercano di raggiungere il lato «giusto» del confine, quello in cui si aspettano di trovare maggiori diritti, sicurezza e benessere. Che dire, allora, di una civiltà che considera il limes come spregevole, immorale, disumano? Che vuole abolirlo perché non pensa di essere portatrice di valori? Suicidio, è la parola giusta.
II
I nuovi puritani e la caccia alle streghe
Era il maggio 2014. Christine Lagarde – oggi presidente della Banca centrale europea, allora direttrice generale del Fondo monetario internazionale – era stata invitata a chiudere l’anno accademico dello Smith College, un’università di prestigio, per sole ragazze, a Northampton nel Massachusetts. All’ultimo momento dovette rinunciare a tenere la sua conferenza alle neolaureate. La ragione: un gruppo di studentesse militanti l’aveva accusata di «complicità nei sistemi imperialisti e patriarcali», per via dei finanziamenti dell’Fmi in alcune zone del mondo. Già allora, l’evento non fece scalpore. Da tempo nei migliori atenei d’America, luoghi dove l’insegnamento costa dai 50.000 ai 70.000 dollari annui, si celebra questo speciale rito accademico: la censura da parte degli attivisti. Eppure, a pensarci bene, l’episodio non fu banale, per tante ragioni.
Accusare il Fondo monetario di essere il braccio finanziario dell’imperialismo americano fa parte dell’armamentario marxista. Tra i guru che oggi indottrinano i giovani americani una figura di rilievo è Ibram X. Kendi, celebre per lo slogan «il capitalismo è intrinsecamente razzista, il razzismo è essenzialmente capitalista». (Kendi non si è mai occupato del razzismo di cui è impregnato il regime comunista cinese, che ho descritto nel mio saggio Fermare Pechino.) È un linguaggio che era già di moda negli anni Cinquanta del secolo scorso. Poteva avere un senso, allora, applicare quelle analisi stereotipate alle grandi organizzazioni multilaterali fondate dagli Stati Uniti subito dopo la seconda guerra mondiale. Di recente, però, l’Fmi ha avuto una sterzata a sinistra: è accaduto grazie all’impulso di un socialista francese, Dominique Strauss-Kahn. I prestiti dell’Fmi sono spesso linfa vitale per i paesi poveri; hanno condizioni meno stringenti che in passato; rispettano l’impatto ambientale e perseguono obiettivi di giustizia sociale; spesso in sintonia con la Banca mondiale promuovono l’emancipazione femminile. Il patriarcato semmai è parte integrante di quelle società arcaiche, dove le donne aspirano ai valori dell’Occidente. L’alternativa all’Fmi sono i prestiti che la Cina eroga ai paesi emergenti per i suoi progetti delle nuove Vie della Seta: che di regola sono opachi, hanno un impatto ambientale distruttivo e nessun riguardo per i diritti umani. Infine, cancellare la conferenza di Christine Lagarde ha privato le neolaureate dello Smith College di una testimonianza preziosa: una donna leader, una personalità che si è fatta strada in un mondo di maschi, che incarna valori concreti del femminismo nella competizione professionale. Com’è possibile che un pugno di giovani estremiste, ignoranti di realtà globale e indottrinate da una caricatura puerile del marxismo, dettino legge in un’università di élite? Non solo è possibile: è la regola nell’America di oggi.
Fire Disinvitation Database è una banca dati specializzata che registra tutti i casi in cui una conferenza universitaria è stata cancellata perché l’oratore è stato dichiarato «persona non grata» dalle autorità accademiche. Il grafico che registra l’andamento di questi «dis-inviti» mostra un vistoso crescendo negli ultimi anni. Decine di conferenze, lectio magistralis, dibattiti e confronti pubblici sono ormai disdetti ogni anno perché il relatore o la relatrice principale sono finiti su una lista nera: per aver detto in passato qualcosa che è stato giudicato offensivo. Giudicato offensivo… da chi? La stragrande maggioranza degli speaker si è vista negare l’accesso al campus universitario dopo che gruppi militanti dell’estrema sinistra hanno lanciato campagne contro di loro. Rettori e presidi si piegano, intimiditi, revocano gli inviti anche all’ultimo momento pur di evitare il peggio: contestazioni, proteste, boicottaggi che possono degenerare nella violenza. L’estrema destra, che vent’anni fa tentava di replicare queste iniziative, ogni tanto ci prova ancora, ma è ormai ridotta a un ruolo marginale.
Un pensiero unico domina nelle grandi università americane, detta legge negli atenei più prestigiosi come Harvard e Yale, Princeton e Berkeley, ed è allineato sull’estrema sinistra. A decidere chi ha diritto di parola e chi no sono frange radicali dell’antirazzismo di Black Lives Matter, del femminismo di #MeToo. Sono i militanti transgender che impongono un uso politically correct dei pronomi: guai se nelle e-mail i docenti osano utilizzare il maschile o il femminile, solo il neutro plurale è ammesso, perché bisogna rispettare le identità «fluide». È diventato un obbligo rivolgersi agli ispanici non più come latinos o latinas, per non ingabbiarli in una rigida identità sessuale. Vanno chiamati Latinx o, meglio ancora, Latinx+. Gli ultrà delle minoranze hanno deciso che solo questa denominazione è «inclusiva» ed esprime il dovuto rispetto per tutte le identità di genere: bisessuali, trans, o in transizione e alla ricerca del proprio genere. Dagli articoli del «New York Times» fino a Google, tutto il mondo politically correct si è adeguato alla nuova «pulizia» del linguaggio. Eppure un sondaggio apparso su «The Economist» rivela che solo il 4 per cento della popolazione ispanico-americana predilige il nuovo Latinx. È una storia familiare: le avanguardie militanti sostengono di difendere un popolo che in realtà non si sente affatto rappresentato da loro. Nella vasta comunità degli ispano-americani che abitano negli Stati Uniti sono numerosi i cattolici e ancor più i protestanti evangelici, assai conservatori sui temi etici e legati a una visione tradizionale della famiglia. Non importa: nei college comanda la polizia della parola, guai a chi sfida le direttive di questa avanguardia rivoluzionaria.
È il settimanale «The Economist» (in The threat from the illiberal left, 4 settembre 2021) a mettere in luce un paradosso, un’asimmetria nella nostra percezione degli attacchi contro le libertà e i diritti. La minaccia contro la democrazia liberale che viene dalla destra trumpiana è evidente nella sua brutalità. Quella destra populista «denigra la scienza e lo Stato di diritto, subordina i fatti e la ragione alle emozioni tribali». È ben rappresentata, anche se non da sola, nell’area dei no vax e nel negazionismo climatico. Inoltre, il mondo intero ha potuto vedere in telecronaca diretta le violenze eversive dell’estrema destra durante l’assalto al Congresso di Washington il 6 gennaio 2021. Ma c’è un attacco insidioso e sottile contro la democrazia americana che viene dalla «sinistra illiberale» ed è di gran lunga più potente, perché la sua influenza culturale è maggiore e si estende alle istituzioni centrali della società americana.
Dopo aver affermato la sua egemonia nelle università d’élite, una generazione di giovani laureati formati dalla sinistra illiberale ha assunto posizioni di comando nei giornali e nelle Tv, nelle grandi aziende digitali che gestiscono i social media, l’intelligenza artificiale e i motori di ricerca. Le nuove generazioni di insegnanti dei licei e delle scuole medie – soprattutto se pubbliche – sono ideologicamente vicine alla sinistra illiberale, e i manuali di studio che adottano ne riflettono la visione. Nel mondo delle aziende, in particolare Big Tech e tutte le multinazionali il cui marketing si rivolge ai giovani, il management e i consigli d’amministrazione sono stati invasi dalle nuove generazioni formate nei college politically correct dove detta legge la sinistra illiberale.
Il loro credo fondamentale è questo: poiché gli Stati Uniti dalla loro fondazione sono una società intrinsecamente sessista, razzista, xenofoba, oggi non si può perseguire una «parità dei diritti» perché sarebbe fasulla; bisogna invece ridurre i diritti dell’America privilegiata e oppressiva (i bianchi) per riparare le ingiustizie. Togliere la libertà di parola a chi non difende attivamente le minoranze è sacrosanto. Si instaura una piramide di caste rovesciata, in cui gli ex ultimi devono essere sistematicamente i primi. Il vittimismo diventa il criterio ispiratore della vita sociale. Chiunque dissente è una minaccia per i diritti degli oppressi, va zittito, neutralizzato.
Dalle origini, un punto di forza dell’America è sempre stato l’amore per le libertà. Il Primo Emendamento della sua Costituzione offre una protezione vigorosa alla libertà di parola, di stampa, di manifestazione, di fede religiosa. Nelle sue leggi, così come nella tradizione e nel vissuto quotidiano, c’è stata per secoli una tenace avversione alle imposizioni dall’alto. L’autoritarismo che ha attecchito in altre parti del mondo non è riuscito a stravolgere questa Repubblica, la più antica di tutte le liberaldemocrazie.
La tolleranza verso il dissenso, l’abitudine di apprezzare gli anticonformisti, la lunga storia di movimenti trasgressivi, tutto questo fa dell’America anche un terreno fertile per l’innovazione. È un argomento che in passato ci rassicurava nella sfida contro i totalitarismi. Uso questa immagine: Steve Jobs non avrebbe potuto creare Apple in Cina perché era un personaggio troppo irrequieto, individualista, conflittuale, indisciplinato. Il «pensiero unico» imposto da un regime autoritario uccide la creatività, soffoca la vitalità che gli spiriti ribelli offrono a una società libera. In una ricostruzione ideale dei fattori che hanno consentito la nascita in California della Silicon Valley, la culla delle ultime rivoluzioni tecnologiche, è logico includere diversi fenomeni culturali: la Beat Generation letteraria negli anni Cinquanta, il Free Speech Movement all’Università della California di Berkeley (1964), che anticipò il Sessantotto europeo, l’happening musicale-esistenziale Summer of Love a San Francisco nel 1967, il movimento gay, il femminismo, l’ambientalismo. Tutti quegli eventi non erano direttamente collegati con le rivoluzioni elettronica, informatica, digitale, ma hanno contribuito a fare della California una terra ricettiva verso gli spiriti «anarco-libertari» fra i quali si nascondevano anche dei futuri imprenditori geniali. Questa ricostruzione dei fatti è consolante, perché in conclusione la democrazia americana può sembrarci caotica e inefficiente, ma nel lungo periodo ha una marcia in più. Lo conferma la continua capacità della California – e dell’America in generale – di attirare cervelli in fuga da tutto il mondo.
Siamo sicuri che negli anni Venti del terzo millennio l’America sia ancora questa terra ideale, accogliente verso gli spiriti ribelli? Un attacco insidioso rischia di distruggere dall’interno la più preziosa delle tradizioni americane. È stata definita anche cancel culture o «cultura della cancellazione». È l’avanzata di una nuova forma di pensiero unico, solo in apparenza «progressista», che cancella i disobbedienti privandoli del diritto di parola, denuncia pubblicamente persone accusate di avere offeso qualche valore sacro del politically correct e lancia campagne di boicottaggio contro i reprobi. È una sottile forma di dittatura, anche se non ha una singola cabina di regia: non c’è dietro un Mussolini, uno Stalin, un Mao che silenzia chi dà fastidio. Gli effetti sono ugualmente pervasivi e deleteri: le epurazioni avanzano nei campus universitari e nel mondo della ricerca, nelle redazioni dei giornali e delle Tv, nelle case editrici, perfino ai piani alti di molti colossi capitalistici. Non sono purghe indolori: molte persone hanno perso il posto di lavoro, la reputazione e gli amici, sono precipitate nella depressione, nei casi più tragici qualcuno si è tolto la vita. Sono state colpite perché non hanno rispettato i nuovi codici e le nuove convenzioni: magari hanno fatto qualche commento, che altri hanno giudicato offensivo, nei confronti di minoranze etniche o sessuali. Ci sono casi più gravi in cui i «cancellati» sono stati accusati di veri e propri reati, per esempio molestie sessuali; ma sono una minoranza e comunque le condanne arrivano al termine di processi sommari, di solito condotti sui social media, senza che l’imputato o l’imputata abbia avuto diritto alla difesa. Mob justice, così viene definita: «la giustizia della plebaglia», della folla scatenata. Secoli fa, quando nacque, quell’espressione si riferiva ai linciaggi in piazza; oggi l’aggressività di branco si accanisce soprattutto virtualmente, sui social media.
Quella delle università americane è una metamorfosi inquietante. Anziché essere luoghi di libero confronto delle idee, sono il teatro di una caccia alle streghe, con docenti cacciati, intellettuali zittiti e interdetti dall’accesso. Il clima ricorda gli anni Cinquanta, quando pensatori e artisti sospettati di simpatie comuniste venivano inquisiti, denunciati pubblicamente, svergognati e spesso costretti a rinunciare per sempre alle loro carriere. Allora, dietro la caccia ai «rossi», c’era un clima di tensione internazionale (i comunisti americani erano sospettati di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica); c’era una regia politica precisa con personaggi come il senatore repubblicano Joseph McCarthy e il capo dell’Fbi Edgar Hoover; e la caccia alle streghe aveva un’impronta prevalentemente di destra. Oggi le epurazioni procedono, ma non più per contrastare la penetrazione di un nemico esterno (la Cina se la ride nell’osservare il politically correct e la larvata guerra civile che divide le «tribù» americane). La regia è diffusa dentro la società civile. L’impronta dominante è quella di una sinistra radicale che abbraccia le forme più estreme del femminismo, dei diritti delle minoranze sessuali Lgbtq, dell’antirazzismo. La destra americana, da parte sua, osserva, impara, e copia. Nei templi più prestigiosi della cultura – Harvard, Yale, Princeton, Berkeley – viene censurato il pensiero conservatore; sul fronte opposto, in alcune scuole del Texas e del profondo Sud i comitati dei genitori reagiscono chiedendo a loro volta la messa al bando dai licei di libri antirazzisti. Nei social media e sulla stampa prevale la sinistra perché l’establishment è schierato da quella parte; ma anche la «plebaglia scatenata» della destra trumpiana è capace di accanimento persecutorio contro i suoi bersagli.
Il clima d’intolleranza cresce. Si maschera dietro il pretesto di riparare ingiustizie, colpire azioni riprovevoli. L’atmosfera culturale ricorda altre rivoluzioni, altri fanatismi: le Guardie rosse di Mao Zedong in Cina dal 1966 in poi; i pasdaran della rivoluzione islamista in Iran dal 1979 in poi. Non a caso cito due rivoluzioni che ebbero come assoluti protagonisti i giovani, perfino i giovanissimi. Anche in America il dato generazionale è importante. Evocando l’Iran ho scelto anche il paragone con un precedente religioso. Per un osservatore come me – formato in Europa, di origine italiana, la cui educazione iniziale è stata un mix di cattolicesimo progressista e di cultura laica liberale –, è evidente che l’America della cancel culture, con la sua intolleranza e il suo fanatismo, è l’ennesima versione di un «risveglio puritano». In questa nazione dal Settecento in poi si verificarono tre o quattro episodi che presero il nome di «Great Awakening», Grande Risveglio: erano rigurgiti di un fondamentalismo protestante, capaci di contagiare grandi masse di persone. Nell’antirazzismo radicale di Black Lives Matter e nel fervore di riscrivere tutta la storia americana demonizzandola all’insegna del «peccato originario» dello schiavismo; nelle forme estreme di sessuofobia femminista di #MeToo; nella «polizia del linguaggio» con cui i militanti transgender censurano la parola altrui: in tutto ciò è palese il ritorno di forme di puritanesimo, intransigente e punitivo, intollerante e antidemocratico. Condanna, richiesta di pentimento pubblico e quindi espiazione costituiscono il trittico che ricorre nei riti della «cancellazione». È una delle ragioni per cui nell’Europa del Sud di impronta cattolica, benché vengano scimmiottate le mode americane del politically correct, raramente si arriva allo stesso estremismo. Il tema del risveglio si affaccia in un altro termine usato per definire la cancel culture: è woke culture. Participio passato del verbo to wake, svegliarsi, woke indica chi si è risvegliato diventando consapevole dei propri pregiudizi razziali e sessuali, chi è illuminato dalla rivelazione delle proprie manchevolezze. Quindi può avviarsi finalmente verso il pentimento e la redenzione dal peccato.
Il connotato religioso ormai viene riconosciuto anche da alcuni americani. Prendo come esempio Zachary Goldberg, studioso che definisce il marxista Ibram X. Kendi «un evangelista», e che ha coniato il termine Great Awokening con un gioco di parole tra i «risvegli» protestanti dell’Ottocento e la cultura woke dei giovani d’oggi. Altro esempio è un’autrice progressista che scrive su una rivista di sinistra: Anne Applebaum, redattrice del mensile «The Atlantic». A renderla audace nella denuncia della cancel culture può aver contribuito la sua storia personale e professionale: discende da ebrei russi immigrati negli Stati Uniti; tra le sue opere c’è una storia dei gulag, i campi di concentramento in Unione Sovietica. Il 31 agosto 2021 Anne Applebaum ha «osato» pubblicare su «The Atlantic» una ricognizione agghiacciante del nuovo totalitarismo culturale politically correct che imperversa in America. Il titolo è The New Puritans. È una fotografia realistica ed equilibrata della situazione, da parte di una donna che non ha conti da regolare con nessuno, ma ha passato molto tempo a intervistare vittime dell’ondata di purghe: uomini e donne, ivi compresi gli esponenti di quelle minoranze etniche che la cancel culture vorrebbe proteggere. Spesso ha dovuto garantire l’anonimato, perché i «cancellati» vivono in un clima di paura. Qualcuno è uscito allo scoperto: in particolare una scrittrice afroamericana e una asiatica. Sono dettagli importanti per smentire l’idea che si stia facendo pulizia solo di «anziani maschi bianchi», questi ultimi essendo per principio presunti colpevoli di razzismo e sessismo.
Il saggio della Applebaum parte proprio dal Dna puritano dell’America, ricordando il capolavoro letterario che meglio di ogni altro ha raccontato quell’origine: il romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, pubblicato nel 1850. La vicenda è ambientata a metà del Seicento nella colonia del Massachusetts governata in modo totalitario dalla comunità protestante dei puritani. Qui bisogna sottolineare un dato storico: i puritani in Europa (Inghilterra, Olanda) erano una setta minoritaria e oppressa, e fuggirono nel Nuovo Mondo per sottrarsi alle persecuzioni religiose; poi, però, divennero a loro volta degli intransigenti persecutori. È un rovesciamento dei ruoli da vittime a oppressori di cui la storia offre esempi ricorrenti.
La donna protagonista della trama di Hawthorne ha avuto una figlia da una relazione extraconiugale. Il padre – si scoprirà in seguito – è un reverendo, uno dei pastori che guidano la congregazione frequentata dalla «peccatrice». Ma è lei a essere castigata dalla giustizia sommaria dei religiosi e umiliata dalla folla inferocita. Esposta alla gogna pubblica, viene poi condannata a esibire per sempre sul suo vestito la lettera «A», infame simbolo dell’adulterio.
La lettera scarlatta viene studiata nei licei americani come se fosse un reperto archeologico, la reliquia di un passato remoto. Alcuni ingredienti di quella storia si ritrovano nella visione distopica di Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (Mondadori 1988), da cui è stata tratta la popolare serie televisiva The Handmaid’s Tale. Quella storia di fantapolitica illustra una teocrazia patriarcale, un totalitarismo maschilista che porta fino agli eccessi lo sfruttamento del corpo della donna e la sua sottomissione alla servitù riproduttiva: le donne sono proprietà dello Stato, il desiderio e il piacere sono banditi, l’atto sessuale è rigidamente pianificato a fini di procreazione. Una distopia chiaramente ispirata al fondamentalismo puritano dei Padri Pellegrini che furono all’origine degli Stati Uniti. Di quel romanzo è stata data la lettura politically correct: l’oppressione può venire solo dal maschio bianco, soprattutto se è religioso, bigotto, conservatore. Con questa interpretazione a senso unico, The Handmaid’s Tale è rassicurante per la sinistra illiberale: conferma l’idea che il male stia sempre e soltanto dalla parte opposta.
È interessante notare la vicenda personale dell’autrice. Dopo la nascita di un neofemminismo cavalcato da celebrity dello spettacolo, la scrittrice canadese ha criticato pubblicamente i processi di piazza, le condanne sommarie sui social media, la distruzione dello Stato di diritto. Nel giudicare il mondo contemporaneo si è rivelata molto meno politically correct della lettura ortodossa del suo romanzo. Di fronte al fenomeno #MeToo, da cui ha preso le distanze con il risultato di essere sommersa di critiche, Margaret Atwood ha scritto una lettera aperta pubblicata su «The Globe and the Mail». Ne riporto alcuni passaggi: «Sembra che io sia una Cattiva Femminista. Oggi posso aggiungere questa accusa alle altre da cui sono stata bersagliata dal 1972: di aver fatto carriera scavalcando una piramide di teste di uomini decapitati, di essere una dominatrice che soggioga gli uomini, ecc. Ora a quanto pare sto conducendo una Guerra contro le Donne, sono una misogina che permette gli stupri. A che cosa deve assomigliare una Buona Femminista, secondo le mie accusatrici? La mia posizione fondamentale è che le donne sono esseri umani, con tutto il ventaglio di comportamenti santi e diabolici che questo comporta, inclusi gli atti criminali. Non sono angeli incapaci di commettere il male. Se lo fossero, non avremmo bisogno di uno Stato di diritto con il sistema giudiziario. Né credo che le donne siano come bimbi incapaci di prendere decisioni morali. Se lo fossero, ci ritroveremmo nell’Ottocento quando le donne non potevano essere titolari di proprietà, studiare all’università, decidere sulla riproduzione, e votare. Ci sono delle forze che la pensano così in America, ma di solito non sono considerate femministe.
«#MeToo è un sintomo di un sistema legale che non funziona. Troppo spesso, delle donne e altre vittime di abusi sessuali non sono riuscite ad avere giustizia attraverso le istituzioni o dentro le aziende, per cui hanno usato un altro strumento: Internet. Le stelle sono cadute dal cielo. Questo è stato molto efficace, ed è stato visto come un grande risveglio. Ma poi? Si può scegliere di far funzionare meglio la giustizia; oppure di farne a meno. Se aggiriamo il sistema legale, che cosa lo sostituirà? Quali saranno i nuovi poteri? Di certo non saranno le Cattive Femministe come me. Nei tempi estremi vincono gli estremisti. La loro ideologia diventa una religione, chiunque non scimmiotti le loro opinioni è visto come un eretico, un traditore, i moderati vengono eliminati».
La lezione della Lettera scarlatta e del Racconto dell’ancella non si applica solo a un passato lontano in cui il puritanesimo era imposto da un’autorità bianca, patriarcale, maschilista. L’inquisizione fanatica, l’intolleranza bigotta, la gogna pubblica, il conformismo ottuso possono essere voluti da soggetti modernissimi che si considerano agli antipodi rispetto agli antichi puritani, e le cui certezze sono animate da nobili ideali.
Cito la Applebaum: «Proprio qui in America, in questo momento, ci sono persone che hanno perso tutto – lavoro, reddito, amici, colleghi – senza aver violato alcuna legge, talvolta senza neppure aver violato qualche norma aziendale. Hanno infranto (o sono accusati di aver infranto) dei codici sociali che riguardano razza, sesso, comportamento personale o perfino l’umorismo accettabile, codici che magari non esistevano cinque anni fa o cinque mesi fa». Qualche volta, per decretare la gogna pubblica, basta l’accusa di essere stati troppo comprensivi verso un’altra vittima di processi sommari. È il caso di Laura Kipnis, una docente della Northwestern University di Chicago. Il suo crimine: aver preso le difese di un professore accusato di molestie sessuali criticando in un articolo la «paranoia sessuale nei campus». È bastato questo: allieve e allievi della Kipnis hanno chiesto e ottenuto che le autorità accademiche mettessero sotto indagine anche lei. In questo clima è saltato ogni principio dello Stato di diritto, sostiene la Applebaum: presunzione d’innocenza, diritto alla difesa, prescrizione e altre regole costituzionali hanno smesso di valere. Condanne e punizioni non vengono inflitte da regolari tribunali. Il tribunale supremo, scrive la saggista, «è la sfera pubblica digitale, un luogo dove si raggiungono conclusioni rapide, basate su rigide certezze ideologiche, con requisitorie lunghe 280 caratteri [la dimensione di un tweet], dove non c’è posto per sfumature e ambiguità». Questa sfera «domina molte istituzioni americane: università, giornali, fondazioni, musei … impongono l’equivalente di una lettera scarlatta perpetua su persone accusate di cose che non assomigliano neppure lontanamente a reati. Invece dei tribunali, usano burocrazie segrete. Invece di ascoltare testimoni, emettono sentenze a porte chiuse».
Per la sua storia personale – è stata anche corrispondente del settimanale «The Economist» in Europa dell’Est –, l’autrice vede dei paralleli allarmanti con i metodi dello stalinismo. Oppure con il clima oppressivo che regna nella Turchia di Erdoğan, dove molti intellettuali preferiscono autocensurarsi anziché rischiare le ire dell’autocrate islamista. La Applebaum ravvisa un fenomeno familiare: il conformismo di tutti coloro che si adeguano alla dittatura culturale del politically correct, obbediscono senza reagire, fanno terra bruciata attorno alle vittime di persecuzioni. «Quando sei accusata o accusato di aver infranto un codice sociale e ti trovi al centro di una tempesta mediatica per qualcosa che hai detto o che ti è stato attribuito, la prima cosa che succede è che il tuo telefono smette di squillare. La gente non ti parla più. Sei tossica. Molti prendono le distanze per paura di diventare a loro volta vittime collaterali.» La descrizione di tante persone intervistate dall’autrice è una lenta discesa all’inferno. Anche se non sei stato formalmente sospeso, o giudicato colpevole di qualcosa, non puoi più svolgere la tua professione. Se sei una docente o un professore, nessuno vuole più seguire i tuoi corsi o averti come relatore di tesi. Le riviste specializzate non ti pubblicano articoli. Se sei un giornalista, le redazioni ti rifiutano.
Conosco personalmente una delle vittime di questa caccia alle streghe: Ian Buruma. Di origine olandese, giornalista di fama mondiale, Buruma è stato uno dei maggiori esperti anglofoni dell’Estremo Oriente. Dopo una carriera in giro per il mondo era stato nominato direttore della «New York Review of Books», prestigiosa rivista culturale… e tempio del politically correct. Buruma è finito coinvolto in una vicenda di #MeToo in modo molto indiretto. Nessuno lo ha mai accusato di molestie sessuali, ma solo di aver pubblicato sulla rivista l’articolo di un autore che era stato accusato di molestie (e poi scagionato). Per omessa censura contro un autore mai condannato, Buruma ha perso il posto. Subito dopo ha scoperto che anche altre riviste alle quali collaborava lo hanno messo sulla lista nera. A nulla è servito un appello in sua difesa firmato da più di cento scrittori – tra cui Joyce Carol Oates e Ian McEwan – perché editori e direttori delle riviste si sono detti troppo spaventati dalle reazioni dei «giovani redattori».
Un celebre musicista originario di Nashville, Daniel Elder, pur essendo un noto progressista osò criticare un corteo di Black Lives Matter che nella sua città natale aveva incendiato la sede del tribunale dopo l’uccisione di George Floyd: l’editore ha cessato di pubblicare le sue opere, e i suoi brani sono stati tolti dai repertori di diversi cori e orchestre. «I promotori della nuova giustizia della plebaglia» scrive la Applebaum «sostengono che queste sono punizioni lievi. … Ma l’isolamento, la vergogna pubblica, la perdita di reddito sono sanzioni pesanti con ripercussioni personali e psicologiche, tanto più che queste condanne sono a tempo indefinito.»
I tribunali anonimi non devono rendere conto a nessuno, e non ammettono repliche o controargomentazioni. Una lista nera di giornalisti accusati di stupro, intitolata «Shitty Media Men» (traduzione letterale: merdosi uomini dei media), è rigorosamente anonima. Un critico letterario finito su quella lista, Stephen Elliott, ha tentato invano di difendersi con una causa per diffamazione. Una serie di sue pubblicazioni è scomparsa da Internet; gli inviti a conferenze e dibattiti sono stati annullati.
Tra quelli che hanno finito per togliersi la vita figura David Bucci, ex direttore del dipartimento di neurologia e scienze della mente al Dartmouth College. Lui non era stato accusato di qualche malefatta personale, ma come capo di quel dipartimento aveva ricevuto una denuncia contro altri professori per comportamenti sessuali scorretti. In seguito, sette studentesse avevano inserito il suo nome in un’accusa collettiva, rimproverandolo di non averle tutelate. Le autorità accademiche gli avevano chiesto di non difendersi in pubblico: un comportamento tipico delle burocrazie, che in questa stagione politica preferiscono chiudere le controversie in sordina. Non potendo discolparsi né ristabilire la propria reputazione, Bucci era piombato in una depressione fatale. Non c’è da stupirsi, purtroppo. Nell’antica Grecia l’ostracismo era considerato una pena durissima e la distruzione di tutti i legami con la propria comunità poteva condurre al suicidio anche allora.
C’è un altro aspetto in comune con i processi sommari che avvengono nelle dittature oppure, risalendo più indietro, con le cacce alle streghe nel Medioevo o le persecuzioni religiose della Santa Inquisizione. È la richiesta di una confessione-pentimento, sulla quale però pesa il sospetto dell’insincerità. Esiste ormai un business di società di consulenza specializzate, che offrono a pagamento dei consigli su come scusarsi in pubblico per le proprie colpe, vere o presunte. Spesso queste scuse non soddisfano la sete di castigo e vendetta della folla anonima. «The Atlantic» ricorda il caso di Howard Bauchner, ex direttore di una prestigiosa rivista scientifica, il «Journal of the American Medical Association». Anche in questo caso lui non era stato accusato di un’offesa diretta. La colpa che gli veniva imputata era di non aver censurato un suo collega: quest’ultimo, su Twitter e su un podcast, aveva sostenuto che nelle carriere scientifiche certe minoranze etniche non hanno lo stesso successo dei bianchi non perché vittime del razzismo bensì per cause socio-economiche. Apriti cielo. Per mancata censura di un parere (del tutto legittimo), Bauchner ha dovuto profondersi in scuse che sono state giudicate insufficienti. Alla fine è stato costretto a dimettersi.
Un dettaglio interessante: nella canea delle voci che hanno vilipeso Bauchner su Twitter ho rintracciato l’aggressività di una certa Leena Yin, di origine cinese. La minoranza asiatica, in particolare i sino-americani, non rientra affatto nelle categorie sfavorite. Al contrario, nel mondo accademico gli asiatici sono sovrarappresentati, a tutti i livelli. Ma da qualche tempo alcuni di loro hanno deciso di accodarsi al clima di Black Lives Matter per farsi scudo contro gli atti di odio da parte degli afroamericani. Invidia e ostilità dei black verso il «troppo successo» degli asiatici sono antiche e affiorano periodicamente (all’inizio della pandemia c’è stata una recrudescenza di aggressioni contro sino-americani, quasi sempre a opera di neri); ma nella cultura woke il razzismo deve essere per definizione una tara dei bianchi.
Il caso di Bauchner è la punta dell’iceberg: il fenomeno delle scuse respinte perché giudicate insincere è anch’esso intriso del fondamentalismo religioso di questa fase. La tradizionale «confessione dei peccati seguita dal perdono» appartiene alla cultura cattolica, dove fra l’altro c’è un’autorità ecclesiale riconosciuta che può somministrare il perdono. Il puritanesimo preferisce la lettera scarlatta, il marchio d’infamia che perseguita a vita la presunta colpevole. Nella «plebaglia inferocita» che si accanisce attraverso i social media non esiste un’autorità che possa decidere il perdono: ci sarà sempre qualche minoranza più intransigente, assetata di simbolico sangue, che non si accontenta: crucifige, crucifige.
Dalla galleria di vittime illustri del nuovo puritanesimo che Applebaum descrive, scelgo tre personaggi speciali. Due sono donne che appartengono a minoranze etniche; il terzo è un intellettuale afroamericano. Una l’ho frequentata, è Amy Chua. Di origine cinese, è una brillante docente di diritto all’università di Yale. In Italia è stato tradotto uno dei suoi libri più controversi, Il ruggito della mamma tigre (Sperling & Kupfer 2012), che da solo sarebbe sufficiente a… incriminarla. Quel saggio, intelligente e divertente, illustra (pur senza difenderlo a oltranza) il metodo educativo tuttora prevalente nelle famiglie di origine cinese: i figli sono sottoposti a una pressione enorme perché si concentrino a ogni costo sugli studi, il sacrificio e la rinuncia vengono esaltati, il rispetto per i genitori e i professori è sacro, la selezione meritocratica non si discute e un brutto voto in pagella viene rimproverato al figlio, non certo all’insegnante. Tutto questo è ormai agli antipodi rispetto al clima prevalente in America, dove i giovani hanno sempre ragione e urtare la loro sensibilità è un crimine.
La Chua ha fatto di peggio. Dopo «la mamma tigre», in un altro libro firmato a due mani con il marito Jed Rubenfeld ha studiato le specifiche qualità che consentono ad alcuni gruppi etnici di ottenere risultati accademici migliori: un’eresia in quest’epoca in cui chi non ha risultati adeguati dà la colpa al «razzismo sistemico» della scuola. Infine, il suo peccato capitale: la Chua ha difeso un noto giudice conservatore suo amico, Brett Kavanaugh, allorché Donald Trump lo nominò nel 2018 per la Corte suprema e i democratici al Senato cercarono di affondarlo con accuse sconcertanti (una presunta molestia sessuale avvenuta quarant’anni prima, quando era liceale). Questo quadro fa della Chua – benché donna, di origine asiatica, progressista – un’intellettuale scomoda e quindi un bersaglio ideale. La campagna contro di lei è partita dal pretesto di una cena a cui avrebbe invitato degli studenti nonostante i divieti imposti dalla pandemia. Molti hanno visto dietro le accuse di qualche studente moventi quali invidie, gelosie, ripicche, in un ambiente competitivo dove la Chua può avere promosso le carriere di alcuni pupilli; forse anche un piano delle autorità accademiche per liberarsi di una docente non abbastanza allineata con l’establishment di sinistra sul caso del giudice Kavanaugh.
Il secondo esempio è quello della celebre romanziera nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Due scrittrici nigeriane più giovani hanno lanciato una campagna di accuse contro di lei sui social media, denunciandola come una nemica dei transgender. La Adichie, in realtà, si era limitata ad affermare che secondo lei una transgender rimane una transgender, non diventa uguale a una donna biologica dalla nascita. Gli attacchi sono diventati furiosi; fino a quando la Adichie ha pubblicato una serie di e-mail private in cui le stesse giovani scrittrici le chiedevano aiuti, appoggi e raccomandazioni. Anche nel suo caso ricorrono delle costanti. La romanziera nigeriana era già in odore di eresia presso l’orda selvaggia del politically correct, perché nel suo bel romanzo Americanah (Einaudi 2014) aveva osato descrivere con ironia il razzismo dei black americani contro gli immigrati africani (un tabù totale). Altra costante è che la fama, il prestigio e il successo professionale non proteggono affatto. Anzi. Chi lancia campagne di diffamazione contro una celebrity può sperare di ricavarne pubblicità. Si ritrova anche qui un déjà vu, un elemento comune con le grandi purghe dei regimi totalitari, dai fascismi a Stalin e Mao. Nel ruolo dei delatori c’erano spesso degli invidiosi, dei mediocri che cercavano una rivincita e attraverso le calunnie politiche potevano provocare la caduta di chi stava sopra di loro. A compilare le liste nere dei perseguitati, caduti in disgrazia, erano anonimi profittatori con il loro tornaconto, individui che orchestravano vendette private: è celebre il caso del dissidente sovietico Andrej Sacharov spedito in carcere da uno che concupiva sua moglie. Spesso le vittime dei nuovi puritani sono personalità sopra le righe, caratteri forti, autorevoli e carismatici, che nel loro ambiente si sono conquistati degli ammiratori ma anche tanti nemici. Guai, per esempio, a esprimere apertamente giudizi negativi su studenti mediocri, collaboratori improduttivi, colleghi incompetenti: il politically correct impone di essere diplomatici a oltranza, ventiquattr’ore su ventiquattro, la sincerità non viene perdonata.
Un terzo esempio che cito dal reportage su «The Atlantic» è quello di John McWhorter, autorevole intellettuale nero, stimato linguista, studioso delle lingue creole, del cosiddetto «Black English» (la parlata degli afroamericani), della cultura hip-hop. Sul razzismo McWhorter ha sempre avuto una posizione irrituale. Nel 2001, in un articolo che fece scalpore, scrisse che i neri contribuivano alle proprie difficoltà economiche e sociali con atteggiamenti sbagliati: «Vittimismo e separatismo». Nel 2018, di fronte all’emergere di Black Lives Matter, descrisse quel tipo di antirazzismo come un «movimento religioso» (e non era inteso come un complimento). Si scagliò contro l’ammirazione tributata ai teppisti e ai loro atti di violenza. Inoltre, McWhorter non è tenero con quei bianchi che per passare gli esami di politically correct «trattano i black come dei bambini», cioè perdonano anche azioni illecite, giustificano i peggiori aspetti della natura umana quando emergono tra gli afroamericani. Sulle campagne di demonizzazione dell’uomo bianco ha scritto: «Non si capisce come un popolo possa cambiare in positivo, se viene insegnato che qualsiasi cosa dica o pensi è razzista e malvagio». McWhorter è stato un sostenitore di Barack Obama e non ha mai avuto simpatie repubblicane. È stato sommerso di accuse, diffamato come un razzista lui stesso. Il suo ultimo libro, Woke Racism (2021), è stato demolito nelle recensioni di tutti i media liberal. Sui social viene attaccato come uno Zio Tom, cioè un servo dei bianchi, un utile idiota al servizio dei suprematisti trumpiani. Solo un think tank conservatore, il Manhattan Institute, gli ha dato spazio.
E se non fosse lui stesso un afroamericano, sarebbe riuscito a salvare un incarico di docenza alla Columbia University? La stessa domanda vale per i casi della Adichie e della Chua: sarebbero riuscite a contenere entro certi limiti l’aggressività della «plebaglia digitale» se, anziché donne e appartenenti a minoranze etniche, fossero state due maschi anglosassoni? Non sono stati altrettanto fortunati due docenti bianchi, Sandra Sellers e David Batson, della Georgetown University di Washington. Nel marzo 2021 una conversazione tra i due è stata videoregistrata. La docente lamentava – con genuino rammarico – che troppo spesso fra i suoi studenti meno bravi ci fossero degli afroamericani. Il suo collega faceva dei cenni che potevano essere interpretati come una conferma. Quello scambio di vedute è stato denunciato come un episodio di razzismo. Lei è stata licenziata in tronco. Lui è stato sospeso, poi si è dovuto dimettere.
Tra i neopuritani del politically correct, gli ultrà dell’antirazzismo o della comunità Lgbtq, la risposta a questi eccessi spesso è implicita: dopo secoli di oppressioni subite da queste minoranze, esagerare nella direzione opposta non guasta. Anzi, può servire a «rieducare» i bianchi il fatto di trovarsi nell’inedito ruolo delle vittime. Questa è la classica retorica dei fanatici religiosi, o dei rivoluzionari. La Santa Inquisizione poteva mandare al rogo degli innocenti pur di educare altri eretici. Le teste dovevano rotolare dalla ghigliottina nella Rivoluzione francese per terrorizzare i nobili; e se c’era qualche errore era trascurabile alla luce della giusta causa. Le purghe di Stalin o di Mao avevano una logica simile: colpirne uno (anche a casaccio) per educarne cento. «La rivoluzione non è un pranzo di gala» diceva il leader comunista cinese. Lo spargimento di sangue è un piccolo prezzo da pagare visto il radioso futuro che attende l’umanità dopo il trionfo delle idee rivoluzionarie. La grande differenza rispetto alle dittature non è solo che la violenza della cancel culture americana finora è perlopiù virtuale (benché i danni umani siano enormi). C’è anche il carattere decentrato della giustizia sommaria in corso nei campus universitari o nelle redazioni dei giornali americani: è un’applicazione perversa del crowdsourcing, una versione allucinata della «saggezza delle folle», la colpevolezza decisa secondo il modello Wikipedia, Twitter, Facebook.
Un interrogativo importante sulla cancel culture americana riguarda l’atteggiamento dell’establishment. La cultura woke è stata abbracciata con uno zelo sospetto da chi ha in mano le leve del potere: rettori universitari, padroni o direttori di Tv e giornali, editori, e sempre più spesso anche capitalisti e top manager delle grandi aziende. Nel mondo del business a dare la linea sono stati i giganti miliardari di Big Tech, avendo le loro radici in California, che è una roccaforte della sinistra neopuritana. Un ex manager del settore delle biotecnologie che conosce bene quell’ambiente, Vivek Ramaswamy, ha dedicato un saggio al fenomeno del capitalismo neopuritano battezzandolo Woke, Inc. In italiano il titolo equivalente potrebbe essere «Politically correct S.p.a.». La sua tesi è che il neopuritanesimo e «l’apparenza di una giustizia sociale» si sposano bene con gli interessi economici del capitalismo digitale. Sia in termini di reclutamento del personale sia come mercato di consumo, il target demografico di quelle grandi aziende coincide in larga parte con la generazione formata dalla sinistra illiberale.
All’inizio ci furono nelle alte sfere del capitalismo omertà e resistenze, che tutti ricordiamo. Il produttore cinematografico Harvey Weinstein (poi condannato a 23 anni di carcere per stupro, nel 2020) non venne subito mollato dai suoi quando le accuse di #MeToo affiorarono nel 2017. Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere nel 2019 mentre era in attesa di giudizio per traffico di minorenni e altri reati sessuali, fino a poco tempo prima era stato protetto da una rete di amici ricchi e potenti. Il fuggi fuggi dei vip da Weinstein ed Epstein è stato molto tardivo. Ma queste due vicende appartengono quasi alla preistoria, ormai. Sono del tutto anomale nel loro svolgimento, perché Weinstein ha subito un regolare processo e una condanna ineccepibile, Epstein è stato indagato e incriminato, e quando si è suicidato stava per essere giudicato. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, la giustizia americana non viene chiamata in causa: la cancel culture opera al di fuori delle regole dello Stato di diritto. A volte, i tribunali sono i consigli d’amministrazione delle grandi società, che decretano sentenze sommarie e infliggono la gogna perpetua della lettera «A» senza neppure una caricatura di processo.
L’adesione del grande capitalismo alla cancel culture ha diverse spiegazioni ben riassunte nell’espressione Woke, Inc. Tutte sono racchiuse in questo triangolo magico: potere, marketing, politica dell’immagine. Poiché le grandi aziende americane sono ancora in larga parte in mano a maschi bianchi, il capobranco o maschio alfa ha capito le regole per la sopravvivenza: sacrificare qualche capro espiatorio, dare in pasto alla folla il primo che incappa in un’offesa al politically correct (vera o presunta), in modo da salvare e consolidare la propria posizione. Uno scandalo reale o fabbricato è anche una scorciatoia per il licenziamento in tronco di qualche personaggio scomodo, ingombrante. Si risparmiano buonuscite, liquidazioni, indennità. Chi rimane al potere può vantarsi di avere tutelato l’immagine aziendale presso gli azionisti e i consumatori. In un’epoca in cui le multinazionali corteggiano e idolatrano i giovanissimi, l’avanzata del neopuritanesimo nei college consiglia di scimmiottare lo stesso linguaggio nella pubblicità e nel marketing. È un investimento nella reputazione delle grandi marche. Attorno alla dittatura della woke culture fiorisce un vasto business, studi legali specializzati nel giustificare i licenziamenti, società di formazione che insegnano ai top manager la «nuova lingua» politically correct (degna dei romanzi di George Orwell e Aldous Huxley), agenzie pubblicitarie, consulenti strapagati.
Ramaswamy, intervistato da «The Economist», aggiunge un ulteriore vantaggio che interessa il capitalismo digitale: alla sinistra illiberale chiede protezione, uno scambio politico. «Big Tech» dice l’esperto «si aspetta che la nuova sinistra chiuda gli occhi di fronte al suo potere monopolistico.» La storia dell’ultimo ventennio ha premiato questo calcolo politico. Da un lato, i miliardari digitali della West Coast hanno finanziato tutte le cause progressiste: dalla lotta al cambiamento climatico ai matrimoni gay, dai diritti dei transgender a Black Lives Matter. Dall’altro lato, l’antitrust americano è stato lassista e permissivo consentendo ai vari Amazon, Apple, Google, Facebook di costruire posizioni dominanti e di praticare comportamenti predatori.
La conversione politically correct dei miliardari è stata abile e, in certi casi, spettacolare. Ricordiamoci che Facebook, negli anni in cui Mark Zuckerberg era uno studente di Harvard, nacque come un sistema per votare e catalogare le studentesse più carine del campus! Ma questo accadeva all’inizio del millennio… Nel 2021, invece, Facebook, Google, Amazon, Apple e Twitter hanno abbracciato il femminismo e tutte le cause della sinistra illiberale; hanno decretato l’ostracismo contro Trump cacciandolo dai social media e privandolo delle più importanti piattaforme digitali. Un altro neologismo in voga è de-platform: togliere la piattaforma a coloro che vengono marchiati con la lettera «A» dai neopuritani.
Per quanto riguarda le istituzioni pubbliche, oppure private ma non profit come sono la maggior parte delle università americane, un altro meccanismo cruciale è la presa di potere delle burocrazie a cui vengono affidate la censura neopuritana e la caccia alle streghe. Uno studioso di scienze politiche al Sarah Lawrence College di New York, Samuel Abrams, ha fatto un’analisi illuminante sull’evoluzione del personale amministrativo negli atenei americani. La burocrazia universitaria è cresciuta numericamente assai più del corpo docente e di quello studentesco; ed è ancora più egemonizzata dalla sinistra illiberale. Nei vari campus delle University of California, per esempio, dal 2000 il personale amministrativo è più che raddoppiato, allargandosi a dismisura rispetto a docenti e studenti. Nel resto degli Stati Uniti il trend è simile; è perfino più pronunciato nelle università private rispetto a quelle statali. Lo stesso Abrams ha indagato sull’orientamento politico degli impiegati universitari: il rapporto fra sinistra e destra è 12 a 1. È questa pletorica amministrazione ad avere l’ultima parola in fatto di censure, regolamenti interni, sanzioni disciplinari, divieti alle conferenze, in ultima istanza licenziamenti. La sinistra illiberale domina una burocrazia anonima e potentissima, la «polizia universitaria» che dà la caccia ai colpevoli di razzismo, sessismo, discriminazioni etniche o di genere. È quasi superfluo aggiungere questo dettaglio: quando Samuel Abrams ha pubblicato i risultati delle sue ricerche, nel 2018, è partita una campagna per licenziarlo dall’università, ha ricevuto minacce, e diversi atti di vandalismo hanno colpito l’istituto dove insegna.
La professoressa Laura Kipnis, quella che aveva osato parlare di «paranoia sessuale» a proposito dell’ossessione sessuofobica di certe sue colleghe o studentesse, ha raccontato il processo sommario cui è stata sottoposta dalla sua università: «Sono sprofondata in un mondo sotterraneo di tribunali segreti e arbitrari, regole medievali, e non dovevo parlarne con nessuno». Non esistono leggi scritte contro cui si possa tentare un ricorso; non ci sono tribunali d’appello. La mancanza di prove non è mai sufficiente per discolpare l’accusata o l’accusato. La burocrazia trionfa, il suo potere è ai massimi, il suo compito è «salvare l’istituzione», anche se nessuno sa che cosa questo voglia dire. Si salva l’università americana consegnandola al conformismo e alla censura?
La destra non sta a guardare, naturalmente. Anche se il politically correct ha un Dna originario «progressista», i reazionari sanno replicare alla perfezione i suoi metodi d’intimidazione. Uno studente conservatore del Cypress College, in California, si è attrezzato per tendere un agguato a una sua docente, un’insegnante musulmana. In una lezione tenuta a distanza, su Zoom, il ragazzo ha esaltato i poliziotti come degli eroi. La professoressa ha reagito dicendo di non fidarsi della polizia. Lo studente ha diffuso la registrazione del dialogo e l’insegnante è stata lapidata dalla Tv di destra Fox News, ha ricevuto minacce di morte, è stata sospesa dall’ateneo.
La reazione più diffusa a destra è un’altra: è la sindrome di Fort Alamo, del fortino accerchiato dai nemici. Poiché le università più prestigiose sono in mano all’establishment della sinistra illiberale, i conservatori si ritirano nei «loro» Stati, come il Texas e quelli della fascia del Sud. Lì comandano i repubblicani, si attrezzano per resistere all’assedio, e lanciano campagne speculari: per esempio la messa al bando dal mondo dell’istruzione di intere liste di libri antirazzisti (gli stessi che negli Stati di sinistra stanno entrando nei curricula obbligatori). Se i templi del sapere accademico più prestigiosi sono controllati dal politically correct di sinistra, a destra il riflesso neopuritano è lo stesso: «proteggere» le fragili menti dei propri giovani dalla penetrazione di influssi demoniaci.
Nel mondo universitario il modello americano crede di purificarsi dal male; in realtà sta cercando di autosabotarsi. È un lento suicidio, aggredisce i gangli vitali di una società. Al libero confronto tra le idee si sostituiscono le censure contrapposte, i sacrifici rituali dei capri espiatori, le cerimonie di scuse pubbliche. I personaggi scomodi – quelli che una volta erano l’orgoglio degli atenei perché pensavano «fuori dagli schemi» – vengono allontanati nell’infamia. Tutto questo non può che inaridire la creatività, il motore dell’innovazione che è stato uno degli ingredienti dell’American Dream.
Poi c’è la questione giovanile. Come stanno crescendo, in questo clima, le nuove generazioni? A molti di loro si adatta una definizione spietata. Snowflakes, fiocchi di neve: perché al primo contatto con una materia dura si squagliano. Una leva di giovani americani sono stati coccolati per anni dal sistema scolastico, dalle famiglie, dalla comunità intera, per evitargli lo shock, l’incontro con qualcosa di spiacevole. Una prova ne sono le epurazioni dei testi di studio. Molti capolavori della letteratura antica e moderna sono stati cancellati dai programmi degli istituti superiori: per esempio perché vi figuravano stupri, o le donne erano descritte in modo non dignitoso, o trasudavano razzismo. Il mondo va purificato da questi orrori, gli occhi innocenti della gioventù non devono turbarsi alla vista di queste brutture. Ovvero: di quello che si chiama «la realtà». Sul fronte avverso, come si è visto, le mobilitazioni di genitori di destra riescono a far proibire in molti Stati del Sud alcuni testi di chiara ispirazione antirazzista.
Nella guerra incrociata tra le due opposte culture, il curriculum dei giovani si restringe e si impoverisce. Il principio che gli individui crescono grazie al confronto tra idee diverse, perfino opposte e conflittuali, è scomparso. Bisogna evitare di mettere i fiocchi di neve a disagio, potrebbero sciogliersi. «Eppure» osserva la Applebaum «una volta il disagio era considerato pedagogico. Il più grande creatore di disagio si chiamava Socrate.» La critica argomentata delle idee altrui sta ritirandosi dai campus universitari e dalle redazioni di Tv e giornali. Il branco è pronto a colpire chi non si adegua. Ai tempi della Rivoluzione culturale maoista, le Guardie rosse applicarono gli ordini del dittatore, che fece chiudere tutte le università: ne seguì uno spaventoso arretramento dell’istruzione e la Cina soffrì decenni di ritardo nel suo sviluppo. Oggi è l’America a rischiare di avviarsi sul piano inclinato che conduce verso una sorta di analfabetismo di ritorno. La rivoluzione culturale americana viene dal basso, ma chi l’avalla sono dei grandi vecchi, i cattivi maestri che dalle loro cattedre hanno insegnato ideologie estremiste.
Perché i sinceri liberaldemocratici – ce ne sono ancora in America – sono stati così distratti, così poco vigilanti nei confronti del neopuritanesimo che avanza? Perché è stata denunciata con vigore la grave minaccia per le istituzioni democratiche che viene dalla destra trumpiana, mentre invece è tollerata quella della sinistra illiberale? Una spiegazione è che siamo stati abituati a studiare il totalitarismo che procede «dall’alto». Grandi classici come Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt (1951), capolavori della letteratura come 1984 di Orwell (1949) e Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) sono stati scritti avendo come modelli o spauracchi il nazifascismo e lo stalinismo. Come osserva l’esperto di geopolitica Robert Kaplan, queste opere illuminavano una realtà del XX secolo in cui i mezzi di comunicazione di massa erano spesso controllati da Stati forti e autoritari, per cui l’indottrinamento ideologico procedeva dall’alto verso il basso. Le lezioni della Arendt, di Orwell e di Huxley possono tornare utili oggi per studiare Xi Jinping e Vladimir Putin. Di riflesso, le élite liberaldemocratiche hanno colto subito in Trump un archetipo familiare: l’Uomo Forte, il leader di destra che usa il populismo per coagulare consenso attorno a un’idea autoritaria. Le affinità elettive che spingevano Trump a simpatizzare con Putin hanno confermato i sospetti. È scattata una vasta mobilitazione antifascista, di cui si sono impadroniti in molti: dai gruppi paramilitari violenti di Antifa (contigui ai Black Bloc) fino ai giovani giornalisti che hanno egemonizzato le redazioni invocando un’informazione «resistenziale» contro Trump. Il nemico era solo lui, il pericolo veniva solo da destra, ogni mezzo era lecito per contrastare la deriva verso il fascismo.
Ma l’America non è la Russia di Putin, tantomeno l’Italia pre-Mussolini. Il modello di società autoritaria con un regime forte che manipola l’informazione e indottrina il popolo non descrive la realtà di oggi. Gli Stati Uniti vivono nell’era dei social media sregolati – cioè affidati alla sola disciplina del capitalismo privato – e la «nuova intimidazione» viaggia dal basso verso l’alto. Kaplan suggerisce di riscoprire un altro classico, Massa e potere di Elias Canetti (1960). Il potere della folla emerge dal bisogno dell’individuo solitario di trovare sicurezza nella conformità. Il conformismo diventa una disciplina feroce. Le masse che si compattano dal basso possono essere perfino più difficili da sconfiggere dei regimi totalitari. Uno scopo di queste folle – «la plebaglia» dei processi sommari sui social media – è dare la caccia a coloro che non sono abbastanza «virtuosi». Il neopuritanesimo ha una miriade di sacerdoti, spesso giovanissimi e ignoranti di tutto, ma sofisticati manipolatori del linguaggio virale dei social. Un tempo la liberaldemocrazia americana aveva dei contropoteri, degli antidoti, fra cui troneggiava la stampa libera. Ma le redazioni dei giornali sono state prese d’assalto ed espugnate dalla nuova generazione formata nei campus della sinistra illiberale. La stampa oggi fa parte del coro, non lo critica mai.
L’egemonia culturale dei neopuritani è destinata a durare a lungo, visto che dalle università si estende verso licei e scuole medie, quindi ispirerà la formazione delle giovani menti per molto tempo. Tra le campagne della nuova sinistra per rifondare l’insegnamento nella secondaria superiore spicca quella della California, dove si promuove nei programmi una «nuova matematica» tutta orientata alla giustizia sociale. La riforma scolastica californiana impone anche di insegnare ai ragazzi che è falso «il mito della minoranza modello». Si tratta, ancora una volta, dell’imbarazzante successo degli asiatici-americani: primi della classe nei licei, in testa alle graduatorie accademiche e infine premiati dalla selezione meritocratica sul mercato del lavoro, con redditi superiori ai bianchi. La realtà degli asiatici-americani smentisce che il capitalismo americano sia intrinsecamente razzista e strutturato per perpetuare l’oppressione dell’uomo bianco su tutti gli altri; come tale, la realtà va cancellata dalle menti dei liceali. L’Oregon, uno Stato della West Coast perfino più radicale della California, è andato oltre: per le promozioni nei licei ha abolito i requisiti di apprendimento della matematica e di capacità di lettura-scrittura, visto che con quelle regole gli afroamericani e gli ispanici non conseguivano gli stessi risultati dei bianchi.
L’equità viene promossa non migliorando l’istruzione di quelle minoranze etniche, ma con la promozione garantita. È il «voto politico» che ricorda le peggiori nefandezze del Sessantotto europeo. Si riscoprono infatti alcuni teorici del marxismo egualitarista degli anni Sessanta come il brasiliano Paulo Freire (Pedagogia degli oppressi) o lo stesso Mao Zedong, che durante la Rivoluzione culturale chiuse le università e mandò gli studenti a «imparare dai contadini». Nessuno sembra interessato a riscoprire un profeta ben più scomodo degli anni Sessanta, il nostro don Lorenzo Milani, il quale predicava che per liberare i figli degli operai bisognava farli studiare di più e meglio, non regalargli la promozione facile. Il rigore di don Milani nella sua Lettera a una professoressa è improponibile nell’America di oggi. Lui denuncerebbe le promozioni garantite ai black e agli ispanici come una nuova forma di paternalismo, che perpetua l’ignoranza dei meno privilegiati in nome di un illusorio «risarcimento».
Tutto questo non è nato all’improvviso. Gli ingredienti tossici per il suicidio culturale americano erano nell’aria da tempo. Una delle più grandi giornaliste e scrittrici dell’America del XX secolo, Joan Didion, aveva avvistato con largo anticipo i segnali premonitori di questa decadenza. Bisogna rileggere i «rivoluzionari» anni Sessanta e Settanta della California raccontati in presa diretta dalla Didion con una lucidità quasi unica per quel tempo. Le sue opere classiche sono Verso Betlemme (il Saggiatore 2008) e The White Album (il Saggiatore 2015). In mezzo a quell’esplosione di cambiamenti valoriali la Didion mantiene uno sguardo sarcastico su tutto: dalla legittimazione delle droghe al femminismo radicale. Nelle celebrity ideologhe del movimento di liberazione della donna, nella loro intolleranza, la Didion vede affiorare antichi vizi dello stalinismo e del maoismo. Nell’«avversione alla vita sessuale adulta», nell’immagine di una donna «adolescente perpetua da proteggere» riconosce già in quegli anni un revival dell’antica sessuofobia puritana.
Quando andai a vivere in California nel 2000, alcuni segnali del neopuritanesimo erano evidenti. A volte si prestavano al sorriso. Mia moglie, insegnante in un liceo internazionale, raccontava le lamentele delle sue colleghe francesi: «Spendiamo una fortuna in vestiti e cosmetici ma nessun professore maschio osa farci complimenti, per paura di essere accusato di molestie sessuali». Cancellare dal mondo professionale e dalle relazioni di lavoro ogni forma di energia erotica – anche quella che può essere fisiologica, naturale, perfino creativa – è un tratto distintivo della rivoluzione-restaurazione neopuritana. Nei luoghi in cui comanda la sinistra illiberale, come la California, gli unici a cui è consentito esibire orgogliosamente la propria sessualità in pubblico, incluse forme di corteggiamento, sono gay e transgender.
Quando fui invitato a tenere dei seminari alla facoltà di giornalismo di Berkeley, scoprii l’usanza dei docenti di ricevere studentesse e studenti solo a condizione di tenere aperta la porta dell’ufficio, e con un assistente-testimone bene in vista, onde prevenire future accuse. Da allora, è stato un crescendo di inibizioni e tabù. Oggi perfino le relazioni sentimentali tra un dottorando e una studentessa dei primi anni sono sconsigliate: ovunque si possa ravvisare un dislivello di autorità, gerarchia o prestigio, dietro l’angolo c’è il sospetto di avere abusato della propria posizione.
Un altro segnale premonitore lo aveva lanciato nel 1987 il filosofo Allan Bloom quando scrisse The Closing of the American Mind. La chiusura della mente americana stava cominciando nelle università dove la sinistra e la destra si contendevano le cattedre ed esplodevano le guerre tribali. Chi vinceva silenziava gli oppositori. Era iniziata anche la demolizione delle statue, in senso virtuale: la caccia ai «vecchi maschi bianchi» come Platone, Aristotele, Shakespeare, da sostituire con autori appartenenti a minoranze etniche, donne, gay dichiarati. L’assedio contro l’intero pensiero occidentale aveva preso avvio, benché fosse un fenomeno elitario. Dopo l’11 settembre 2001 e l’invasione dell’Iraq (2003), scrissi un saggio sulla destra americana intitolato Tutti gli uomini del presidente – George W. Bush e la nuova destra americana. Quell’analisi torna utile oggi: l’ascesa dei neoconservatori avveniva, già allora, come reazione agli eccessi del politically correct. La sinistra radicale ha il dono di aiutare la riscossa della destra, questa è una storia che si ripete a cicli ricorrenti e sotto ogni latitudine. Perciò è utile ricordare quell’antefatto: la sinistra illiberale aveva cominciato a costruire la sua egemonia nei campus delle università d’élite perfino quando l’America era governata dalla destra. Riprendo alcune osservazioni che feci vent’anni fa, quando alla Casa Bianca c’era Bush figlio.
Il saggio di Allan Bloom era uscito nell’anno in cui Ronald Reagan era in procinto di concludere il suo secondo mandato alla Casa Bianca per essere sostituito da George Bush padre. I repubblicani, quindi, erano saldamente insediati al potere. Tuttavia, mass media, mondo intellettuale e università subivano la forte influenza della sinistra, codificata in regole di pensiero e di comportamento definite politically correct. Tra queste regole c’era un rispetto per le minoranze etniche – eredità delle lotte degli anni Sessanta per i diritti civili dei neri – che portava a rifiutare ogni giudizio di valore sulla superiorità o inferiorità di civiltà e culture diverse. Nelle sue forme più estreme il rispetto delle minoranze era diventato una forma di scontata colpevolizzazione del maschio bianco, e dell’intera cultura occidentale indelebilmente macchiata dal peccato dell’imperialismo. Per non essere tacciate di razzismo, sessismo, discriminazione, le università rimaneggiavano i curricula di studi: la cultura afroamericana non poteva valere meno di Platone e Kant, i corsi sul femminismo dovevano avere la stessa importanza di quelli di economia.
Scrivevo all’epoca: «Bloom scatena la sua campagna contro la “chiusura della mente americana”, sostenendo che gli Stati Uniti attraversano una grave crisi intellettuale provocata da un eccesso di tolleranza che sconfina nel relativismo. La rivoluzione sessuale, l’introduzione della diversità etnico-culturale come criterio fondante dell’insegnamento, producono secondo lui generazioni di studenti ignoranti, privi di spirito critico e di valori morali. L’apertura indiscriminata verso tutte le culture maschera un’abdicazione dell’intelligenza, una rinuncia a difendere il meglio dell’Occidente. Equiparare l’opera di Shakespeare al lavoro delle contadine africane che intrecciano cesti, scrive nel suo saggio, è un’aberrazione».
Quando Bloom, accademico elitario e sofisticato che tra i suoi allievi vantava il futuro «falco» della politica estera Paul Wolfowitz, nel 1987 pubblicò The Closing of the American Mind si aspettava di vendere poche migliaia di copie. Il libro ebbe invece un successo travolgente e rimase in testa alla classifica dei best seller per molti mesi, trasformando il suo autore in un guru corteggiato dai mass media, gradito ospite di Reagan e Margaret Thatcher. Bloom diventò il vate del riflusso neoconservatore, l’ispiratore di una riscossa contro il politically correct determinata a ristabilire una gerarchia di valori. La destra trovò il coraggio di contestare in modo sistematico l’egemonia della sinistra nel mondo delle idee. Il rigetto contro il relativismo morale, la grande Restaurazione puritana dei valori tradizionali, già in atto nell’America profonda del fondamentalismo cristiano, trasse nuova energia e credibilità da un autore di indiscusso prestigio accademico. «The Closing of the American Mind» concludevo nel mio libro del 2004 «resta il più noto manifesto contro le mode e i tic intellettuali della generazione degli anni Sessanta, una requisitoria spietata contro il “nichilismo radical chic” che secondo Bloom corrode la democrazia americana.»
Nel decennio successivo un quasi omonimo, Harold Bloom, nel saggio Il canone occidentale (Bompiani 1996) segnalava l’avanzata di una «cultura del risentimento». Oggi quella cultura ha stravinto. Non è più il caso di parlare di relativismo culturale come ai tempi di Allan Bloom. Ormai nei campus delle grandi università si teorizza non l’equivalenza bensì la superiorità degli «studi etnici» su qualsiasi capolavoro della cultura occidentale. L’insegnamento di Platone o Dante, Shakespeare o Beethoven, tutti maschi bianchi, va ridimensionato per dare spazio alle civiltà superiori in quanto pure e innocenti, come vengono descritte le minoranze etniche.
L’ultimo capitolo di questa evoluzione viene catturato da altri due autori, Greg Lukianoff e Jonathan Haidt, in un brillante saggio del 2018. Parafrasando il primo Bloom, l’hanno intitolato The Coddling of the American Mind riferendosi alla mente dei giovani americani che viene «coccolata e viziata». Il sottotitolo, tradotto in italiano, recita così: «Come le buone intenzioni e le cattive idee preparano una generazione al fallimento». Sotto accusa finisce anche la generazione dei Baby Boomer e dei Millennial: sono loro ad aver inventato la figura del «genitore elicottero», cioè iperprotettivo, sempre pronto a intervenire in soccorso del figlio. Allontanando sempre più il modello anglosassone da quello oriental-confuciano, quei genitori hanno dato la priorità alla tutela dei figli, inclusa quella emotiva. La scuola è stata costretta a ribaltare principi e gerarchie secolari: il pupo ha sempre ragione, guai a esporlo a esperienze «traumatizzanti» come, per esempio, un brutto voto, o una lettura sgradevole perché non conforme agli stereotipi ideologici politically correct. La scuola è stata costretta a reinventarsi per diventare un luogo amorevole, rassicurante, dove tutti i preconcetti della sinistra illiberale vengono rinforzati con un indottrinamento sistematico.
Gli spazi della scuola e dell’università, che dovrebbero essere un terreno fecondo per la creatività e il pensiero critico, sono occupati da «tribù» gonfie di risentimento, permalose, suscettibili e iraconde. I giovani fiocchi di neve portano con sé gli stessi riti woke anche nei luoghi di lavoro, pronti a denunciare come «tossiche» le aziende dove qualche loro ipersensibilità viene offesa. I top manager imparano a coccolare una generazione delicata. L’irruzione di queste giovani generazioni nel mondo del lavoro impone il neopuritanesimo ovunque, dal linguaggio pubblicitario alle politiche di reclutamento del personale. In un colloquio per l’assunzione, è molto più utile presentarsi come appartenente a una minoranza oppressa che usare una sintassi corretta. L’adesione fanatica alla woke culture diventa il codice identitario di una generazione, un’arma per farsi strada nel mondo adulto, cacciando i personaggi scomodi. È anche, in fondo, una rivincita dei giovani sugli anziani: proprio come lo fu in Cina la Rivoluzione culturale degli anni Sessanta, quando le Guardie rosse adolescenti umiliavano in pubblico i propri professori, e la delazione contro i genitori era incoraggiata dal Partito comunista.
Un effetto collaterale di questa rivoluzione neopuritana è la sistematica distruzione di ogni stima verso gli Stati Uniti, la loro storia, i loro valori. La pensatrice cattolica Mary Eberstadt ha pubblicato sul «Wall Street Journal» questo accorato appello ai giovani: «È ora di parlare alle nuove generazioni del futuro dell’America. Il messaggio può essere distillato in una sola frase: siete stati derubati. Siete stati privati di qualcosa che è stato prezioso per milioni di americani meno colti, prima di voi: la conoscenza e l’apprezzamento della vostra nazione, della sua storia sinfonica, tumultuosa, talvolta lacerata, sempre illuminante. Se si ascoltano le voci più rumorose e influenti del nostro tempo, gli Stati Uniti sono un’insanabile fogna di razzismo e pregiudizi. Nel 2020, secondo un sondaggio, meno di un quarto dei democratici erano fieri di essere americani; meno di un terzo di tutti i giovani [democratici o repubblicani] lo erano. Chiedetevi perché. La maggioranza di noi non diffamerebbe la propria famiglia. La maggioranza di noi non insulterebbe il quartiere in cui abita. Pensateci la prossima volta che sparlerete della vostra casa nazionale e dei vostri concittadini. Un’autrice del “1619 Project” del “New York Times” [la rivisitazione della storia americana come segnata esclusivamente dallo schiavismo, di cui parlo in un altro capitolo] dice di non essersi mai considerata patriottica. Un altro, il cui antirazzismo razzista e tossico influenza le università di élite, dice che non si è mai sentito libero negli Stati Uniti: benché ogni sua denuncia sia celebrata e finanziata. … Il neomarxismo odierno e la politica identitaria cercano di arruolare le vostre energie giovanili in una vita di recitazione del rancore. … vi dicono che i vostri concittadini sono razzisti, fascisti, sessisti, bigotti e carichi di odio. Questa implacabile negatività distrugge le speranze della giovinezza. Riduce la vostra immaginazione. Peggio ancora, rimpicciolisce i vostri cuori».
Altrove, molto lontano da qui, le «mamme tigri» asiatiche stanno allevando dei guerrieri: allenati a considerare la scuola e l’università come luoghi di un tirocinio duro, senza coccole né indulgenze; fieri di essere cinesi, orgogliosi della loro storia patria. Quando una parte di quei giovani cinesi – l’élite privilegiata – va a studiare nelle università americane, il risultato è clamoroso. Lungi dall’assorbire influenze occidentali, lo spettacolo cui assistono nei campus li rafforza nelle loro certezze: l’Occidente è malato, è una civiltà immonda. Lo dicono i loro stessi coetanei americani, perché non credergli?
Nei miei frequenti viaggi in Europa ho spesso incontrato scetticismo di fronte alle mie descrizioni del neopuritanesimo americano. Chi non ha dimestichezza con il mondo delle grandi università o dei licei; chi non legge ogni giorno le pagine dei commenti del «New York Times» o del «Washington Post»; chi non ascolta regolarmente i talk show della Cnn e della Msnbc, stenta a misurare gli eccessi della sinistra illiberale nel suo dominio sulle istituzioni americane. Il politically correct è arrivato anche nel Vecchio Continente, però paesi di cultura cattolica come Italia e Francia, Spagna e Portogallo, Belgio e Austria sono parzialmente immunizzati contro le forme estreme del neopuritanesimo.
L’unico paese in cui la cancel culture comincia ad attecchire in forme analoghe agli Stati Uniti è quello che ne condivide la lingua e alcune radici religiose: il Regno Unito. Prendo come esempio la vicenda di una docente di filosofia alla Sussex University, Kathleen Stock. La Stock è una nota femminista, lesbica dichiarata, progressista. Non abbastanza allineata con il neopuritanesimo della sinistra illiberale, però. Ha osato sostenere, nel suo saggio Material Girls, che il sesso biologico esiste e che in alcune circostanze dovrebbe avere la priorità sul sesso prescelto. Ha criticato il fatto che dei maschi transessuali autoidentificatisi come donne possano avere accesso agli spogliatoi femminili, gareggiare come donne nello sport o essere detenuti nelle carceri femminili. La sua opinione è allineata con quella della stragrande maggioranza della popolazione britannica, ma per aver osato esprimerla si è attirata una persecuzione simile alle cacce alle streghe dei campus Usa. Squadracce minacciose hanno manifestato nella sua università chiedendo che la Stock fosse licenziata. La polizia le ha consigliato di attrezzare casa sua con telecamere di sorveglianza per prevenire aggressioni, e di avere bodyguard quando passeggia nel campus. Un diluvio di aggressioni perfino più massiccio – vista la notorietà – ha colpito un’altra donna inglese, l’autrice della saga di Harry Potter. Le ragioni sono simili. Anche la scrittrice J.K. Rowling è una femminista e da giovane ha subito aggressioni sessuali. Tuttavia non si è schierata con il «movimento» sul tema dei trans; ha osato sostenere che il sesso biologico è una realtà di cui occorre tenere conto. Pure lei è stata accusata di «transfobia» e ha ricevuto una tale quantità di lettere di minacce che – ha rivelato – «ci potrei tappezzare le pareti di casa mia».
Il suicidio americano è pronto a fare scuola altrove. La diffusione della cultura «anglo» gli offre una platea di dimensioni intercontinentali.
III
Antirazzismo
È il 29 aprile 2015 – penultimo anno della presidenza di Barack Obama – quando mi avventuro dove comandano le gang afroamericane di Baltimora. Incontro Jamal, con la bandana rossa come il sangue perché sta nella banda dei Bloods. E poi Charles Shelley, barba a pizzo, codino rasta, berretto da baseball blu: lui è dei Crips. Dietro ci sono due della Black Guerrilla Family. Le potenze rivali di Baltimora. Eccole riunite in una sorta di summit d’emergenza, alleate per «riprendersi la città». E ristabilire un ordine, dopo il caos e il terrore. Forse solo loro possono farlo? «La polizia è arrivata qui,» dice Mo Jackson, 22 anni «ha preso possesso del nostro quartiere come una forza di occupazione, ha fermato tutto. Un animale braccato e bloccato, se non ha via d’uscita, diventa aggressivo.» Non sono sicuro se stia parlando dei suoi compari o degli agenti di polizia.
West Baltimore, Sandtown, l’incrocio tra Pennsylvania Avenue e North Street sono i teatri di una fragile tregua. Il coprifuoco è in vigore fino al weekend, dalle 22 alle 5, per impedire nuove fiammate di violenza. Quest’area della città è stata devastata, con assalti ai negozi, saccheggi, violenze, dopo la morte del venticinquenne afroamericano Freddie Carlos Gray jr. Arrestato perché in possesso di un pugnale, Gray aveva subito lesioni fatali durante il trasporto al commissariato su un furgone della polizia. La perizia medica aveva evocato un omicidio colposo (in seguito i sei poliziotti coinvolti verranno incriminati, processati e assolti).
Il coprifuoco non rappresenta un controllo stabile del territorio. Quello è nelle mani di Black Guerrilla Family, Bloods, Crips non appena l’emergenza finisce e la Guardia nazionale schierata dal governatore si ritira. «I ragazzi che si sono lanciati nell’assalto ai negozi» dice Shelley «non li abbiamo aizzati noi. Erano cani sciolti, adolescenti esasperati dagli abusi della polizia. Bisogna capirli. Qui nei nostri quartieri, quando gli agenti vedono un gruppo di neri per strada, sfoderano le armi per primi.»
Il summit dell’armistizio dopo l’orgia di violenza del 2015 ha dei protagonisti sconcertanti per chi viene da fuori, da un’America dove governano le istituzioni, la legge e l’ordine. Un’America che può essere anche vicinissima, a pochi chilometri in linea d’aria, la Baltimora ricca del porto turistico o della Johns Hopkins University. Qui a West Baltimore, invece, si ritrovano da una parte i ministri delle Chiese più importanti (battisti), dall’altra i capi delle tre gang: tatuati, con anelli e catene, le loro divise di guerra. La pace delle gang viene siglata a New Shiloh, la stessa chiesa dove si è celebrato il funerale di Freddie Gray. Sono presenti alcuni politici locali, tutti afroamericani. Il presidente del consiglio comunale, Bernard Young, elogia i capigang: «Sono coraggiosi a farsi avanti». L’ex sindaco Sheila Dixon: «Sono un pezzo della nostra comunità, una voce da ascoltare». Tutti sperano che «i ragazzi» – quegli adolescenti che pochi giorni prima hanno trasformato West Baltimore in un inferno, terreno di incendi, rapine di massa, raid di guerriglia urbana contro la polizia impreparata – vengano ascoltati. Il reverendo Errol Gilliard jr ne è convinto pure lui: «Non sono state le gang a orchestrare il caos, ma ragazzini sconvolti».
Il meccanismo messo in atto è esemplare, tutto affidato ai social media. Poco prima dell’orario di chiusura delle scuole, parte questo messaggio: «A tutti i licei, alle tre parte lo sfogo, da Mondawmin all’Avenue». È proprio lo shopping mall Mondawmin che dalle tre in poi viene assaltato, quindi le razzie dilagano verso Pennsylvania Avenue. Lo «sfogo» del messaggio è il titolo di un film di fantapolitica con Ethan Hawke – The Purge, in italiano La notte del giudizio –, cult-movie degli adolescenti che narra un futuro distopico dove per una notte ogni anno c’è il blackout della legalità, rapine, stupri e omicidi sono permessi per sfogare rabbie represse.
«Tutto è gratis!», le videocamere del drugstore Cvs rimandano l’immagine di una ragazzina che lancia questo urlo di guerra, trascinando i compagni nel saccheggio. Quando visito il quartiere, del Cvs restano solo pareti fumanti, un soffitto pericolante, calcinacci carbonizzati. La speranza dei maggiorenti afroamericani è che le gang possano «rimettere il genio dentro la bottiglia», riprendere il controllo della situazione dal basso. È quello che loro non riescono a fare, perché non sanno come raggiungere i ragazzi della rivolta. È impressionante il gap generazionale, balza agli occhi. All’incrocio tra Pennsylvania e North Street vedo schierati i capi della Nation of Islam, la comunità musulmana radicale che fu di Malcolm X e ora è di Louis Farrakhan: un tempo (una o due generazioni fa) era influente proprio tra la gioventù più arrabbiata. Oggi quei capi islamici scesi in piazza, elegantissimi, in giacca e cravatta, sembrano dignitari stranieri in visita: un’era geologica li separa dai teenager, non sanno in che linguaggio parlarsi.
Kevin Shurd, ventenne che si autodefinisce «ex spacciatore», ha un’idea precisa sulla manovalanza dei saccheggi: «Sedicenni. E non chiamateli teppisti o delinquenti. Conosco le facce dei delinquenti, quelli lì erano diversi. Inutile criminalizzarli, se si usano questi termini si perde di vista il problema vero». Il reverendo Gregory Perkins, pastore battista, è convinto che la pace concordata dalle gang abbia una chance: «Loro hanno le orecchie in strada. Possono aiutarci a calmare il quartiere». Dalle testimonianze affiora la vera situazione di West Baltimore: in questi isolati, dove si susseguono le case abbandonate, pignorate, con vetri e porte sfondate, tavole di legno compensato al posto delle pareti, l’economia che tira è la droga. Il governo ombra che controlla alcuni isolati sono le gang, perché gestiscono il business più profittevole. La biografia di Freddie Gray è la norma: figlio di una eroinomane analfabeta, il ragazzo non aveva mai avuto lavori regolari; aveva collezionato arresti, fino a due anni di carcere, per spaccio. Shelley della gang dei Crips parla il linguaggio del capitalista: «A noi non convengono il caos e il saccheggio, con quest’armata di poliziotti che ci portano in casa. Abbiamo un business da gestire». Un altro membro di gang, Trey, conferma l’armistizio siglato sotto gli occhi dei notabili: «Noi possiamo unirci per qualcosa di positivo. La maggior parte dei giovani qui ha bisogno di un lavoro, è questo che bisogna capire».
In quella primavera del 2015 l’emergenza Baltimora entra nella campagna presidenziale. Ne parla Hillary Clinton: «Va riformata la nostra giustizia penale, è malata». Mille americani muoiono uccisi dalla polizia, ogni anno. Il 96 per cento sono neri. Il repubblicano Rand Paul prende spunto dalla mamma resa celebre per aver trascinato via dalle razzie suo figlio sedicenne a suon di ceffoni, la Toya Graham immortalata su YouTube. «Fantastica madre,» ha detto il candidato conservatore «ma dove sono i padri di quei ragazzi?» Giusto, dove sono gli uomini di casa? I membri delle gang rispondono con un ghigno. I padri? Disoccupati, spariti nell’impossibilità di pagare gli alimenti alle ex mogli. Spesso in carcere. Lo conferma Hillary: «Un milione e mezzo di maschi neri sono missing in action, scomparsi».
Nel 2015 la questione razziale è già uno dei temi caldi nella campagna elettorale, molto prima dell’insediamento di Trump. La sua importanza non si limita agli Stati Uniti. Il dramma dei black americani è una macchia permanente sull’immagine della superpotenza occidentale nel resto del mondo. Negli anni seguenti nutrirà una corrente polemica che è diventata dominante all’interno dell’America stessa; la Critical Race Theory e il «1619 Project» (di cui parlerò più avanti) dettano legge in molti programmi scolastici e condensano tutta la storia americana in una sola dimensione: lo schiavismo delle origini. Da Mosca a Pechino questa narrazione viene ripresa con enfasi per delegittimare l’intero Occidente, alla cui guida, secondo la propaganda dei regimi autoritari, c’è una «superpotenza immorale». Era stato così negli anni Sessanta, quando il leader delle battaglie per i diritti civili Martin Luther King aveva vinto il premio Nobel per la pace e aveva girato il mondo denunciando la piaga della segregazione. Nella prima guerra fredda russi e cinesi, cubani o algerini denunciavano la «finta democrazia» che trattava i neri come cittadini di serie B. L’Occidente, con le sue tare del colonialismo e dello schiavismo, veniva processato tutti i giorni dalla stampa comunista come un monumento d’ipocrisia e falsità: altro che «mondo libero». Sono passati altri sessant’anni, gli Stati Uniti hanno eletto e poi rieletto il loro primo presidente afroamericano, che nel 2015 inizia il suo settimo anno alla Casa Bianca, eppure sembrano risucchiati verso un passato che non passa mai.
Nei commenti di Hillary e di Rand Paul affiora un tema tabù, lo sfascio delle famiglie nella comunità nera, le troppe madri single, i ragazzi che crescono senza un padre e quindi senza un modello maschile, con il rischio di cercare quella figura paterna in un capogang che li inizia al business criminale. Cito un’indagine ormai classica compiuta nel 1996 per la Brookings Institution da due economisti di sinistra, non ideologicamente propensi a enfatizzare il valore della famiglia tradizionale: «Nel 1965 il 24 per cento dei bambini neri e il 3,1 per cento dei bianchi nascevano da una madre single, in una famiglia monoparentale. Nel 1990 queste percentuali erano salite al 64 per cento per i bambini neri e al 18 per cento per i bianchi». Oggi tra gli afroamericani siamo al 70 per cento di nascite senza un padre ufficiale. Ogni anno almeno 1 milione di bambini americani nascono da una madre single e non conosceranno il padre, o avranno con lui rapporti sporadici, difficili, dal tenore educativo a dir poco problematico. La maggior parte di questi bambini sono black. La conseguenza? Cito ancora lo studio della Brookings Institution: «Se c’è una sola cosa che dovremmo aver imparato negli ultimi venticinque anni è questa: per chi nasce al di fuori di una famiglia con due genitori la probabilità di una vita nella povertà è molto alta». Gli autori di quello studio sono una coppia celebre: il marito, George Akerlof, ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2001; la moglie è Janet Yellen, nominata presidente della Federal Reserve da Barack Obama, poi segretaria al Tesoro di Joe Biden.
Il tema della disintegrazione familiare viene sollevato ancora più di recente dall’opinionista afroamericano Jason Riley sul «Wall Street Journal», partendo da un tragico fatto di cronaca avvenuto nel 2021 nella città degli Obama, Chicago. Un ragazzino di tredici anni, Adam Toledo, è morto in uno scontro a fuoco con la polizia. Girava alle due di notte su un’auto guidata da un pregiudicato ventunenne, con una fedina penale carica di crimini di sangue. Erano armati tutti e due, sparavano a casaccio su altri automobilisti, prima che qualcuno chiamasse la pattuglia di polizia. «Quando un ragazzo di seconda media» scrive Riley «gira armato in piena notte con un criminale, non dovrebbe essere lecito discutere il ruolo dei genitori? Ma oggi dire la verità è proibito, quando si parla di minoranze etniche come le vittime della sparatoria di Chicago. Dobbiamo far finta che gli alti livelli di violenza criminale siano da attribuire interamente a un razzismo sistemico, mentre gli individui non avrebbero alcuna responsabilità. È difficile capire come potremo affrontare le più gravi ingiustizie sociali, se ci è vietato avere una conversazione onesta sulle loro cause.» Intanto le minoranze etniche, quando possono, votano anche «con i piedi»: abbandonano città e quartieri dove le regole del gioco sono stabilite dai clan dell’antirazzismo militante. Chicago nel decennio 2010-20 ha perso 85.000 residenti afroamericani.
La disintegrazione familiare è un dramma che venne studiato all’epoca di Martin Luther King, quando il presidente Lyndon Johnson lanciò il maggiore programma di lotta alla povertà nella storia; poi fu accantonato perché evocare il ruolo formativo della famiglia tradizionale non era politically correct nemmeno allora. Inoltre, spostare l’attenzione sui modelli educativi, sull’etica dello studio e del lavoro rischiava di intralciare il grande accaparramento di spesa pubblica in nome dell’antirazzismo. Fin dagli anni Sessanta alcune élite si sono specializzate nel captare fondi statali da destinare agli afroamericani, con risultati molto simili alle politiche meridionaliste in Italia: corruzione, sprechi, parassitismo e clientele, consolidamento di culture assistenziali.
La coppia Barack e Michelle ha provato a proporsi nei comportamenti e nella comunicazione come una «famiglia modello» per i valori trasmessi alle figlie; ma lo ha fatto a suo rischio e pericolo: attirandosi l’ostilità delle frange radicali del movimento Black Lives Matter. Di nuovo, nelle tensioni razziali che esplodono durante l’era Obama, riaffiora un’altra analogia con gli anni Sessanta. È il ruolo delle élite più radicali, i «parassiti» della questione nera: quelli che vivono di rendita sulle sofferenze degli afroamericani più poveri o emarginati, ne fanno il trampolino di lancio per le loro carriere politiche, mediatiche. Le stesse gang fanno parte del gioco: come per la genesi storica della mafia italiana, si vantano di essere i datori di lavoro e i protettori dei poveri. Come in quel 2015 a Baltimora, a volte garantiscono una sorta di ordine pubblico nelle zone che controllano; altre volte lasciano che la piazza divampi, per sfruttare il caos. C’è un mondo, nella stessa comunità black, che ha interesse a perpetuare la tragedia razziale.
Un altro tabù, tema proibito nel mondo progressista, riguarda la cosiddetta violenza Black on Black, cioè i crimini degli afroamericani contro chi ha la pelle dello stesso colore. Prendiamo una delle città più violente d’America: Chicago. Nel 2021 quattro neri furono uccisi in scontri a fuoco con la polizia (erano tutti armati); sono solo lo 0,5 per cento delle 777 vittime di omicidi in quella città e in quell’anno. Gli afroamericani costituiscono l’83 per cento delle vittime di sparatorie a Chicago ed esattamente la stessa percentuale tra gli assassini, pur essendo solo il 30 per cento della popolazione cittadina. Allarghiamo lo sguardo all’intera nazione. In tutti gli Stati Uniti nel 2021 sono morti 18 neri disarmati, uccisi dalla polizia. (La cifra dei 1000 morti all’anno citata da Hillary Clinton nel 2015 includeva i deceduti in scontri a fuoco in cui ambedue le parti erano armate e quindi non sono da classificare come abusi della polizia.) Nel 2020 sono stati uccisi 9941 neri, per la stragrande maggioranza vittime di criminali dello stesso gruppo etnico. Una percentuale rilevante soccombe alla violenza nel nucleo domestico. Non a caso, il movimento #MeToo ebbe all’origine una precisa identità razziale: fu lanciato nel 2006 da Tarana Burke, un’attivista afroamericana del Bronx, indignata dal fatto che gli abusi sessuali tra membri della sua comunità venissero coperti da un’omertà etnica.
Alla luce di questi dati si capisce perché l’estremismo di Black Lives Matter – con la demonizzazione indiscriminata delle forze dell’ordine – sia ben lungi dal raccogliere consensi unanimi all’interno della comunità nera. Se davvero «le vite dei neri contano», allora tra i problemi da affrontare c’è la cultura della violenza esaltata dai guru giovanili come i rapper; ci sono le organizzazioni criminali che hanno messo radici in quell’ambiente. Quando la «maggioranza silenziosa» degli afroamericani ha l’occasione di esprimersi, vota per moderati come Obama, salva il centrista Biden dalla débâcle delle primarie nel 2020, elegge un sindaco-sceriffo come Eric Adams a New York. Non può dirlo, perché l’élite che vive di rendita sull’estremismo antirazzista scatenerebbe il linciaggio mediatico, ma la maggioranza silenziosa in cuor suo crede allo slogan «Law and Order».
Purché il volto della legge e dell’ordine non sia quello di Derek Chauvin, l’agente bianco che ha torturato e ucciso per soffocamento George Floyd. Il 25 maggio 2020 una pattuglia di polizia ferma questo afroamericano di quarantasei anni, dopo la chiamata del commesso di una tabaccheria che lo accusa di aver pagato con una banconota falsa. Seguono 8 minuti e 46 secondi di una tortura feroce, ripresa in video, una scena angosciante e ormai tragicamente nota: l’agente Chauvin che preme il ginocchio sul collo di Floyd, provocandone la morte. Quelle immagini orrende scatenano proteste in America e nel mondo, segnano una ripresa del movimento Black Lives Matter, entrano nello scontro elettorale Biden-Trump. A esasperare la rabbia, oltre alle immagini della crudeltà di Chauvin, c’è una realtà incontrovertibile: Trump spesso usa toni razzisti, mostra indulgenza verso i suprematisti bianchi, ne accetta il sostegno. Torna in primo piano una situazione agghiacciante: nelle forze di polizia sono incrostati nuclei di veri razzisti, talvolta simpatizzanti delle milizie di estrema destra. Godono di immunità, complicità, indulgenze. Anche perché in un mestiere di prima linea come quello del poliziotto e in una nazione armata fino ai denti, perfino i colleghi non apertamente razzisti possono essere tentati da un’interpretazione brutale della propria missione. Non è raro che a usare le maniere dure siano poliziotti di colore, anche loro esasperati dagli atteggiamenti di sfida e provocazione di tanti ragazzi neri o ispanici. Ma quel che ha fatto Chauvin a Floyd è mostruoso, ha travalicato ogni confine di umanità. Grazie a una testimone che ha immortalato con un telefonino quella lenta morte per asfissia, l’America è rimasta attonita, incredula, tramortita di fronte allo spettacolo di sadismo e crudeltà.
La reazione arriva seguendo un copione tristemente prevedibile. Dal 25 maggio 2020, per molte settimane di seguito, ogni sera in numerose città americane il buio porta il caos e la paura, ogni notte è scandita da scontri con la polizia, violenze e saccheggi. Dal focolaio originale di Minneapolis, in Minnesota, la rabbia per la morte di George Floyd dilaga in settantacinque città. Più di venti finiscono sotto coprifuoco, una situazione che si verificò solo nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King. Bruciano alcuni quartieri di Los Angeles, si spara a Detroit e Indianapolis, auto della polizia vengono incendiate a Chicago, la tensione assedia New York. Un’America che in quella tarda primavera del 2020 è già stremata da oltre centomila vittime del coronavirus, e ha visto salire a 40 milioni i disoccupati per la pandemia, assiste sgomenta a questo terzo fronte di crisi. Nella protesta s’infiltrano i provocatori, le gang, i professionisti degli scontri di piazza e del furto organizzato. Molte catene della grande distribuzione devono chiudere e lanciano appelli accorati: siamo rovinati, dopo i lockdown ci mancavano solo le razzie.
I leader storici delle comunità afroamericane tentano di contenere le frange estreme al proprio interno. Le scene di Los Angeles, dove le razzie svuotano i negozi di lusso, riportano su tutti gli schermi una storia antica, la criminalità locale che approfitta dei disordini. Un importante punto di riferimento degli afroamericani, il deputato John Lewis, che fu compagno di battaglie di Martin Luther King, poco prima di morire aveva rivolto un appello accorato ai suoi: «Conosco la vostra rabbia e la vostra disperazione, ma incendiare e saccheggiare non è la soluzione». A New York il sindaco di sinistra Bill de Blasio tenta di minimizzare ma poi è costretto a cambiare versione sulla matrice delle violenze. All’inizio sostiene che le bande scatenate nelle aggressioni «vengono da fuori e non appartengono alla comunità di colore». Poi deve correggersi: «Sono anarchici organizzati, anche di New York, gente che ha ideologie distorte. Aggrediscono i poliziotti, che sono lavoratori».
Il sacco di quella città spacca i democratici. Il governatore Andrew Cuomo attacca il sindaco, suo compagno di partito, per le razzie che hanno sconvolto la Grande Mela: «È stata una vergogna». Cuomo punta il dito contro il New York Police Department e chi ne è alla guida: «Il sindaco e le forze dell’ordine non hanno fatto il loro lavoro». Tra le accuse del governatore democratico: nella serata dei saccheggi ai negozi era in piazza solo un quarto degli organici di polizia, mentre ne occorrevano molti di più. Le telecamere hanno ripreso bande di predatori all’assalto del grande magazzino Macy’s che agivano indisturbate svuotando la celebre sede di Herald Square, senza che la polizia fosse visibile nelle vicinanze. Ma se la presenza di troupe televisive ha mostrato al mondo intero il sacco dei quartieri celebri di Manhattan – da Soho alla Fifth Avenue –, il giorno dopo è risultato chiaro che vandalismo e furti in massa erano ben più estesi. Non hanno colpito solo le grandi catene o i negozi di lusso nei quartieri centrali; tra le zone più devastate dai saccheggi c’è il Bronx, dove risiede un’alta concentrazione di afroamericani e dove gli stessi proprietari di negozi depredati sono neri. Un giovane consigliere comunale del Bronx, l’afrolatino Ritchie Torres, si è fatto interprete dello sgomento di quel quartiere popolare. «Le nostre autorità» ha detto Torres «hanno perso il controllo della situazione.» L’associazione degli esercenti della Trentaquattresima Strada, l’area che include il grande magazzino Macy’s di Herald Square, ha calcolato che solo in quel pezzetto di Manhattan 20 negozi sono stati svuotati e il bottino è stato di centinaia di milioni di dollari.
Trump è svelto ad accusare chi governa la sua città, twittando: «Hanno lasciato che New York fosse fatta a pezzi». Alla fine Cuomo e altri leader democratici locali danno ragione al presidente repubblicano, per non lasciargli il monopolio della rappresentanza dei tanti newyorchesi derubati o spaventati dal caos. Lo stesso de Blasio finisce per ammettere che troppe cose sono andate storte: le forze di polizia sono state concentrate a vigilare su cortei pacifici, mentre ai margini si scatenavano le razzie indisturbate di altri gruppi. «Erano membri di gang,» dice il sindaco «queste erano operazioni organizzate.» Si è scoperto che nel viavai delle bande che svuotavano i negozi, molti si erano recati sui luoghi da saccheggiare noleggiando da Uber lussuosi Suv neri.
Il meccanismo è classico, ha molti precedenti nella storia: dai tumulti degli anni Sessanta a quelli del 1992 a Los Angeles. Prima c’è un’ingiustizia atroce ai danni di qualche afroamericano. Poi scatta la protesta. Questa viene strumentalizzata da frange estremiste o dalla criminalità, o da tutt’e due. Una gioventù frustrata, educata nella sottocultura del vittimismo, pensa di avere il diritto di rubare come risarcimento. Obama ha avuto parole severe su questo fenomeno. Ma le critiche di Obama sono oscurate da un’élite intellettuale che legittima le violenze. Un esempio significativo è una star del giornalismo black, Nikole Hannah-Jones, la principale autrice del «1619 Project» per il «New York Times». Come guru dell’antirazzismo radicale, la Hannah-Jones viene intervistata sulle manifestazioni violente da diversi canali tv e il suo messaggio è di comprensione, benevolenza, assoluzione. «Certo che mi disturba vedere persone che assaltano negozi e rubano,» dice «ma distruggere le proprietà altrui non è violenza, perché la proprietà può essere sostituita. I saccheggi non sono violenza, sono un reato contro la proprietà privata. Il saccheggio consente ai neri di appropriarsi di beni di consumo che il bianco compra usando il portafoglio.» Si ritrova qui, a mezzo secolo di distanza, l’ideologia della «spesa proletaria» che fu praticata da alcuni gruppi estremisti negli anni di piombo italiani, con la benedizione di illustri maître-à-penser. La Hannah-Jones ignora le conseguenze di lungo periodo: quartieri prevalentemente black dove il tessuto economico viene indebolito, le sofferenze del ceto medio nero impoverito dalla «spesa proletaria» dei teppisti di strada, infine il beneficio politico per la destra. Sul canale della Tv conservatrice Fox News gli assalti di Antifa e Black Lives Matter che incendiano auto della polizia, commissariati e altre sedi delle istituzioni serviranno come una sorta di assoluzione anticipata per l’attacco al Campidoglio da parte degli estremisti trumpiani il 6 gennaio 2021.
La protesta civile e pacifica dopo la morte di Floyd viene oscurata da questa anarchia delinquenziale, che proiettata in diretta tv sugli schermi delle famiglie americane genera degli shock multipli. Compreso l’ennesimo colpo sferrato all’immagine dell’America nel mondo. I media cinesi e russi sono solerti nel riprendere le immagini di queste tragedie: prima la morte sotto tortura di George Floyd; poi le orde selvagge delle proteste, la violenza di piazza, gli incendi, le città depredate. Ecco cos’è l’Occidente, gongolano Xi Jinping e Vladimir Putin.
Il 29 marzo 2021 si apre a Minneapolis un processo a cui guarda tutta l’America, e con lei il mondo intero. Sono in gioco lo Stato di diritto, la credibilità della democrazia americana: verso i propri cittadini, verso gli amici o i nemici stranieri. A chiedere giustizia sono prima di tutto i familiari di George Floyd. Davanti alla giuria popolare si dibattono dettagli scabrosi: l’accusa è certa di avere le prove che la causa del decesso di Floyd fu l’asfissia da strangolamento; la difesa cerca di dimostrare che la vittima morì per una tragica coincidenza fra malattia cardiaca, uso di stupefacenti, l’adrenalina della colluttazione. Una famiglia, una comunità, una città attendono giustizia. Dal verdetto finale, la nazione trarrà delle conclusioni gravide di conseguenze: se gli afroamericani possano fidarsi della giustizia penale del loro paese; se le forze dell’ordine debbano rispondere dei loro atti davanti alla legge; se la questione razziale sia una piaga incurabile perché «scolpita» dentro le istituzioni, un peccato originale nel Dna degli Stati Uniti. Sui giurati di Minneapolis e sul giudice che li guida pesa una responsabilità enorme. A seconda di come ne uscirà l’immagine della giustizia, si potrà tentare di abbassare l’intensità della «guerra civile permanente» che attraversa il paese? Oppure, al contrario, le lacerazioni saranno più insanabili di prima?
Le frange radicali di Black Lives Matter, appoggiate dai media progressisti, hanno imposto in molte città lo slogan «Defund the police», tagliare fondi alla polizia. (Negli Stati Uniti la maggior parte delle forze dell’ordine sono alle dipendenze dei sindaci.) Proprio la città di Minneapolis è uno degli epicentri di questo esperimento sciagurato. In pochi mesi i risultati sono tremendi: dopo che l’intera polizia cittadina è stata delegittimata e semiparalizzata, Minneapolis ha subito un aumento del 25 per cento di omicidi, stupri, aggressioni, rapine a mano armata. Ancora peggiore è il bilancio nei quartieri attorno alla ribattezzata George Floyd Square, la zona più afroamericana di Minneapolis, che i militanti hanno definito «uno Stato libero»: +66 per cento di crimini violenti.
Il lento degrado verso il disordine e la criminalità è accaduto anche altrove. Le vittime sono in prevalenza afroamericani e minoranze etniche. Non è un caso se nel novembre 2020, pur perdendo rispetto al rivale democratico, Donald Trump ha avuto quasi 12 milioni di voti in più rispetto al 2016, e il suo consenso è salito tra gli afroamericani e gli ispanici, quelli che hanno molto da perdere quando la legge batte in ritirata. La sentenza di Minneapolis può essere un passo verso la ricostruzione di una credibilità della giustizia, a cui segua una ricostruzione dello Stato di diritto. Affermare il principio che la polizia non è libera di calpestare i diritti dei cittadini, che non ha licenza di uccidere impunemente, è la premessa perché torni a fare rispettare quella legge nelle zone del paese da cui si è ritirata o dove applica una sorta di «sciopero bianco» come risposta alla diffusa delegittimazione.
«Colpevole. Colpevole. Colpevole.» Per tre volte, per tre capi d’imputazione, il 20 aprile 2021 la giuria popolare nel tribunale di Minneapolis raggiunge la stessa conclusione unanime. Floyd non potrà tornare in vita, ma la prima reazione è quasi unanime: giustizia è fatta. L’ex agente Chauvin è condannato per tutti e tre i reati per i quali la pubblica accusa lo aveva incriminato. Dall’omicidio di secondo e terzo grado all’omicidio colposo. L’ex poliziotto sconterà una pena di 22 anni e 6 mesi di carcere. Una rarità rispetto alla – poco edificante – tradizione dei tribunali americani. Giustizia è fatta, questa è una vittoria che va suddivisa equamente tra il sistema giudiziario e il movimento Black Lives Matter. Un’istituzione fondamentale della liberaldemocrazia americana – il tribunale con giuria popolare – ha superato la prova. D’altra parte, senza la pressione di massa difficilmente la procura di Minneapolis si sarebbe mostrata così severa nelle indagini e poi nell’istruttoria. I dodici giurati, per metà di colore, hanno vissuto anche loro in un’atmosfera carica di sgomento, risentimento, volontà di giustizia. La prima reazione della piazza, a Minneapolis, è stata un grido: non di trionfo ma di sollievo. Non si può immaginare cosa sarebbe successo nel caso di una condanna per il più lieve dei reati, o addirittura un’assoluzione. Il peggio è scongiurato.
Eppure, il verdetto esemplare di Minneapolis cade presto nell’oblio. Non diventa l’occasione per riflettere su ciò che funziona ancora, in uno Stato di diritto. Non si placa affatto la rivoluzione che si presenta sotto il segno dell’antirazzismo. Lo slogan «tagliare i fondi alla polizia» continua a fare proseliti dalla West Coast alla East Coast, viene abbracciato da esponenti radicali come la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez. Lo applicano nelle proprie città i sindaci di sinistra che governano New York, Los Angeles e molte altre metropoli. A Portland, nell’Oregon, come a Minneapolis, il centro cittadino si autoproclama «liberato dalla polizia», diventa una no man’s land gestita da anarchici e Antifa, dove le forze dell’ordine non possono mettere piede. Il bilancio è catastrofico. Il 2020 è segnato dal 30 per cento di aumento di omicidi in tutta l’America. Alla ritirata delle forze di polizia segue un’ecatombe, di cui nessuno si prenderà la responsabilità. Nel 2021 è iniziato un ripensamento: molti sindaci fanno una veloce retromarcia, rinunciano allo smantellamento delle polizie. Sono prevalse le voci della ragione, come quella del reverendo Brian Herron, pastore afroamericano della Zion Baptist Church della zona nord di Minneapolis: «Quelli che chiedevano di tagliare i fondi alla polizia non avevano la minima idea delle conseguenze». Lo studioso Rob Henderson, citato da «Quillette», ha coniato il termine «convinzioni lussuose», che definisce come «le idee e opinioni che sono degli status symbol a buon mercato per i ricchi, ma costano care alle fasce sociali meno privilegiate». Studenti universitari di buona famiglia, attivisti e giornalisti che hanno invocato lo smantellamento delle polizie abitano in quartieri sicuri. I poveri no. Per questo sono le classi lavoratrici che dopo il folle esperimento del 2020-21 hanno voluto che la polizia tornasse a presidiare le loro strade.
Ma indebolire la polizia è più facile e veloce che ricostruirla. Ormai, tantissime città americane sono tornate a conoscere i picchi di violenza e i bilanci di sangue degli anni Novanta: oltre a Chicago, Portland, Baltimora e Minneapolis, vi figurano Austin (Texas) e Tucson (Arizona), Indianapolis (Indiana) e Louisville (Kentucky). Anche a prescindere dai tagli di fondi, le forze dell’ordine subiscono una tale delegittimazione che sono colpite da dimissioni in massa. Da New York alla California, così come a Washington, migliaia di agenti abbandonano la professione. Le accademie di polizia non riescono ad attirare un numero sufficiente di reclute per riempire i vuoti enormi negli organici. Alla fuga contribuisce una recrudescenza di atti violenti contro i poliziotti. Che il clima instaurato dalle proteste di Black Lives Matter ne sia la causa o meno, nel 2021 sale del 50 per cento il numero di agenti uccisi nell’esercizio delle loro funzioni.
Tra i luoghi in cui dilaga la violenza rientra anche la scuola. In molte città diventa politically correct smantellare i corpi di polizia scolastica specializzata: sono stati accusati di brutalità, alle prese con ragazzini non solo indisciplinati e violenti, ma che talvolta arrivano a scuola armati. Poiché una quota rilevante degli alunni colpiti da misure disciplinari è di colore, anche la polizia scolastica viene sfiduciata in quanto razzista. Il bilancio della sua ritirata è nei dati di New York. Tra agosto e ottobre 2021 vengono denunciate 108 aggressioni in istituti scolastici della città, e 16 vittime delle violenze finiscono ricoverate in ospedale. La polizia (esterna) chiamata dai presidi sequestra 44 armi in mano ad alunni.
Oltre alla delegittimazione nella società civile, la polizia si trova a combattere contro il boicottaggio di una certa magistratura. Nelle città governate dai democratici, le cariche giudiziarie elettive sono andate spesso a nuove generazioni di procuratori progressisti. Alcuni di loro abbracciano un «Vangelo sociale»: il criminale non è mai il vero colpevole, è vittima di una società ingiusta. Hanno come obiettivo primario quello di svuotare i penitenziari, una finalità degna di rispetto vista la sovrappopolazione carceraria degli Stati Uniti, nonché l’alta incidenza di errori giudiziari. Inoltre, la tragedia penale interseca la questione razziale, per l’elevata percentuale di black dietro le sbarre. Ma i procuratori progressisti si macchiano di leggerezze gravi, scarcerano a ripetizione criminali incalliti, violenti e pericolosi, che tornano a colpire appena liberi. La nuova strategia penale politically correct infligge ulteriori danni alle vittime innocenti della delinquenza.
La contraddizione esplode a New York dopo l’elezione nel novembre 2021 di un sindaco nero, Eric Adams, che per vent’anni ha lavorato come poliziotto e promette un ripristino della sicurezza. Lo hanno votato non i quartieri ricchi, ma proprio quelli dove si concentrano minoranze etniche e classi lavoratrici: Queens, Brooklyn, Bronx, Staten Island. Tra i primi atti della sua amministrazione, all’inizio del 2022 il sindaco nomina a capo della polizia un personaggio che più politically correct non potrebbe essere: la nuova Police Commissioner del New York Police Department, la più grande forza di polizia degli Stati Uniti, si chiama Keechant Sewell. Lei stessa agente di carriera, è piuttosto giovane (49 anni), è donna, è nera. Eppure la sua prima uscita pubblica è proprio un duro attacco contro il procuratore distrettuale di Manhattan, Alvin Bragg, fautore di una strategia giudiziaria ultralassista. La nuova capa della polizia contesta pubblicamente una circolare con cui il procuratore ha detto ai suoi collaboratori di usare il meno possibile la detenzione, di non perseguire per esempio gli oltraggi a pubblico ufficiale o chi resiste con la violenza a un arresto. La Sewell è indignata: la procura di Manhattan sta invitando a tollerare il disprezzo nei confronti di chi indossa la divisa. La Sewell, essendo afroamericana, sa che cosa significhi quel messaggio: esprime la complicità dei radical chic con la sottocultura del ribellismo, del vandalismo che alligna tra gli adolescenti della sua comunità. È un piano inclinato molto scivoloso, che porta nuove reclute alla delinquenza di strada.
Dalla parte opposta degli Stati Uniti, sulla sponda del Pacifico, le procure progressiste hanno già raccolto i frutti delle stesse politiche lassiste, abbracciate nel nome dell’antirazzismo. Pochi giorni prima del Thanksgiving Day e del Black Friday del 2021, Union Square, piazza turistica e commerciale nel cuore di San Francisco, è teatro di un flash mob di gang giovanili all’assalto dei negozi di lusso. A distanza ravvicinata, ventiquattr’ore dopo, sull’altra sponda della magnifica baia, a Oakland un’ottantina di giovani danno vita a un saccheggio organizzato: di preferenza griffe celebri. Il ricco bottino scatena l’emulazione, flash mob spesso armati si estendono fino all’altro capo della California, dove il celebre quartiere di Beverly Hills non è risparmiato. Da San Francisco a Los Angeles, alcuni saccheggiatori si accaniscono in particolare sulle vetrine di Louis Vuitton. La stragrande maggioranza rimarrà a piede libero e impunita.
Nella sola città di San Francisco in quel novembre 2021 mancano 400 agenti di polizia. Riempire gli organici è arduo. La città del Golden Gate, celebre per il suo orientamento radicale, ha eletto un procuratore generale, il quarantunenne Chesa Boudin, che esibisce ostilità verso le forze dell’ordine. Figlio di terroristi rossi (membri della milizia armata Weather Underground, quarant’anni fa i suoi genitori furono condannati per l’omicidio di due agenti e di una guardia giurata), Boudin condusse una vittoriosa campagna elettorale nel 2019 promettendo di non perseguire «i reati senza vittime con cause socioeconomiche», che secondo lui includono lo spaccio di droghe. La sera in cui celebrò l’elezione, nel suo quartier generale una folla entusiasta scandiva lo slogan «Fuck the Police Officer’s Association!» (Fottete l’associazione dei poliziotti). Per Boudin, il crimine è causato solo dalla povertà, dalle diseguaglianze, dall’inadeguata spesa pubblica nel Welfare; rubare in un negozio è sintomo di un disagio economico e sociale che va affrontato a monte, curando le storture del capitalismo. Sotto la sua giurisdizione, solo il 19 per cento dei taccheggiatori viene fermato; gli agenti non sprecano inutilmente fatica sapendo che la procura non incrimina per così poco. La catena di farmacie-supermercati Walgreens denuncia: i furti si sono quintuplicati, i costi per la sicurezza privata sono cinquanta volte superiori rispetto a quelli sostenuti in altre zone d’America, e molti punti vendita vengono condannati alla chiusura. Tra i cittadini di San Francisco sono in aumento i corsi di autodifesa; i più ricchi hanno cominciato a reclutare bodyguard. Il procuratore ha mantenuto la sua promessa di svuotare i penitenziari cittadini, la popolazione carceraria è scesa da 2850 persone a 766 nel suo primo biennio; più di metà dei detenuti rilasciati, e tre quarti dei condannati per crimini violenti, commettono nuovi reati dopo il rilascio.
Michael Shellenberger è un esponente di punta di una frangia minoritaria: la sinistra disgustata dagli eccessi del politically correct. Sanfranciscano di adozione, specializzato nel giornalismo investigativo sui temi ecologici, fu definito «un eroe dell’ambiente» dal magazine «Time» nel 2008, poi cominciò a prendere le distanze dall’ambientalismo apocalittico. Shellenberger ha dedicato un saggio lucido e terribile alla sua città e per il titolo ha coniato il neologismo San Fransicko (giocando sul termine sick, malato). Cataloga un lungo elenco di mali che gli abitanti della città patiscono da anni, e che i turisti scoprono con angoscia quando sbarcano per la prima volta nel centro storico. I sintomi sono ben visibili. Il cuore di San Francisco è occupato in permanenza da accampamenti di senzatetto, uno spettacolo di miseria e devianza sconcertante nella «Dubai sul Pacifico» che ospita i miliardari della Silicon Valley. La povertà si accompagna a un disastro sanitario, homeless che defecano sui marciapiedi, siringhe abbandonate ovunque, epidemie di epatite. Le cause profonde? Shellenberger punta l’indice contro «una cultura permissiva e di disprezzo della legalità», insieme con una visione errata di quel che costituisce una politica «moralmente giusta». Molti a sinistra pensano che non perseguire chi calpesta certe norme sia una forma di tolleranza o di compassione. Risultato: San Francisco non applica le leggi contro le sostanze stupefacenti, neppure quelle rivolte a colpire gli spacciatori. Chi ne paga la conseguenza sono i tossicodipendenti. Nel 2020 in questa città le overdose hanno ucciso 713 persone, più del doppio del bilancio di morti per Covid. «Che razza di città» s’indigna Shellenberger «impone più regole sui suoi gelatai che sugli spacciatori di droga che sterminano settecento persone in un anno?»
Fiera della propria fama di città trasgressiva e innovativa, in realtà San Francisco è prigioniera di un conformismo paralizzante. L’élite di sinistra che la governa e l’opinione pubblica progressista che continua a eleggerla pensano che il dramma dei senzatetto non venga risolto per mancanza di risorse. La spesa pubblica destinata a loro aumenta senza fine; e senza alcun risultato. Tutta la California è nella stessa situazione: i suoi homeless aumentano da un decennio, mentre si riducono nel resto degli Stati Uniti… con l’eccezione di New York, altra metropoli governata da una sinistra prigioniera dei suoi preconcetti. L’anno 2022 non fa eccezione: il governatore della California Gavin Newsom aumenta poderosamente gli stanziamenti di bilancio per i senzatetto, pur avendo già il record nazionale di spesa per questa voce. Accanimento terapeutico: si insiste a riproporre la stessa ricetta senza fare i conti con i fallimenti del passato. Chi osservi questa tragedia senza il paraocchi è costretto a riconoscere che la piaga della miseria è peggiorata non «malgrado» le politiche progressiste, ma come loro diretta conseguenza.
San Francisco, Los Angeles e l’intera California, così come New York, Seattle e Portland, sono andate ben oltre la «tolleranza» verso vagabondaggio, furti e spaccio: di fatto li consentono. Alla radice non c’è affatto una mancanza di denaro pubblico per l’assistenza o per gli alloggi. Il problema, secondo Shellenberger, è un’ideologia che definisce alcune persone come vittime – per la loro identità etnica o sessuale, o per il loro vissuto – e perciò ne legittima qualsiasi comportamento distruttivo. Il risultato è «una distruzione di tutti quei valori che rendono possibile la convivenza in una città e in una civiltà». Ricordiamoci dove siamo: San Francisco è la capitale della Silicon Valley, per il resto del mondo rappresenta un simbolo di vitalità, creatività, innovazione, cioè il meglio dell’American Dream. È l’Estremo Occidente, il luogo che per decenni ha sfornato rivoluzioni tecnologiche e di costume. Il suo degrado, il lento scivolamento verso qualcosa che assomiglia al contrario di una «civiltà», esprime in modo micidiale il suicidio occidentale.
I danni spaventosi dell’antirazzismo politically correct e la sua metastasi nel mondo dei media incrociano il 2 dicembre 2021 la tragica morte di un giovane ricercatore piemontese a New York: Davide Giri. È un caso che io sollevo pochi giorni dopo sulle colonne del «Corriere». Rimane emblematico per le reazioni che ha suscitato, ma ancor più per quelle che non ha suscitato.
Il venticinquenne Vincent Pinkney, il killer che ha troncato la vita di Giri, appartiene a una delle più feroci gang newyorchesi. Era un pregiudicato, più volte arrestato per crimini violenti, condannato a una pena lieve, rilasciato prima di averla scontata. Era a piede libero nonostante fosse sospettato di aver commesso un’aggressione di recente. Si sa quasi tutto di colui che ha selvaggiamente aggredito il ricercatore italiano mentre rientrava alla Columbia University dopo una partita di calcio. Ma nessuna di queste notizie compare sul «New York Times» nei giorni e nelle settimane successive. Giornale di riferimento per la città e per la nazione, eppure distratto e reticente su una tragedia avvenuta nel cuore di Manhattan. Nome, cognome, età dell’assassino sono le scarne notizie fornite ai lettori. L’articolo di cronaca è stato confinato nelle pagine locali, con scarsa visibilità. Sul sito del giornale, alla prima versione non è seguito alcun aggiornamento. Brevi testimonianze dei colleghi di Giri, una dichiarazione del rettore della Columbia University, compongono un articolo evasivo e lacunoso. Zero notizie sull’autore di quella che poteva essere una strage. Un quarto d’ora dopo aver pugnalato Giri all’angolo fra Amsterdam Avenue e la Centoventitreesima Strada, Pinkney feriva un turista italiano ventisettenne, Roberto Malaspina, a breve distanza, in Morningside Drive; ancora pochi minuti e tentava l’aggressione a una coppia in Central Park.
Perché su Pinkney i lettori del «New York Times» non hanno mai saputo nulla, a parte l’età e il cognome? L’interesse del quotidiano e il vigore investigativo messo in campo sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato un membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina, un team di reporter sarebbe stato mobilitato per indagare l’ambiente dell’omicida, la sua storia e le sue motivazioni.
Pinkney è un afroamericano residente a Washington Heights, un’area nelle vicinanze di Harlem. La polizia lo ha riconosciuto come un membro di Ebk, acronimo di Everybody Killas (Uccidiamo tutti), una gang la cui base operativa è nel quartiere di Queens. Ebk è nata da altre bande criminali con le quali mantiene stretti rapporti: i Bloods, i Crips, i Nightingale. Il raggio d’azione di Ebk si estende fino alla California, dove un rapporto della procura di San Joaquin la descrive come «una gang che ha come politica la guerra aperta». Si finanzia con il narcotraffico; è coinvolta in una lunga serie di sparatorie. Pinkney era stato arrestato undici volte dal 2012 per crimini gravi. Nel 2018 era stato scarcerato dopo aver scontato quattro anni per aver partecipato a una feroce aggressione di branco.
Per trovare queste notizie, diffuse dalle forze dell’ordine, nel dicembre 2021 bisogna andare sui siti di qualche Tv locale, oppure di un tabloid populista, il «New York Post». Il «New York Times» ha scelto una reticenza che sconfina nell’autocensura, coerente con la linea editoriale degli ultimi anni. I canoni del giornalismo americano sono stati stravolti, in particolare durante gli anni di Trump, quando nelle redazioni dei media progressisti è diventato un vanto praticare il «giornalismo resistenziale». La ricerca di equilibrio o imparzialità è stata considerata una debolezza: se è vero che bisogna difendere la democrazia dal fascismo incombente, allora tutti i colpi sono leciti, il fine giustifica i mezzi, la ricerca dell’obiettività è una debolezza.
Dopo l’omicidio di Floyd, anche il «Times» aveva abbracciato lo slogan «tagliare fondi alla polizia». Gli episodi di saccheggi e violenze avvenuti con il pretesto dell’antirazzismo sono stati descritti nelle sue pagine, ma senza trarne alcuna lezione. Il quotidiano si è fatto promotore di un’iniziativa, il «1619 Project», che rilegge l’intera storia americana come una derivazione dello schiavismo che condizionerebbe tuttora ogni istituzione, l’intero sistema legale, la cultura e la scuola. Una purga all’interno della redazione ha allontanato diversi reporter che non erano allineati con il radicalismo di Black Lives Matter. Qualche voce dissenziente resiste isolata, come l’opinionista Bret Stephens, che ammonisce: in passato, quando la sinistra americana è stata lassista sull’escalation del crimine, ha favorito una potente riscossa della destra. A New York gli omicidi sono aumentati del 42 per cento dal 2019 al 2021. «Le vite dei neri contano» è uno slogan che anche per il «New York Times» sembra applicarsi solo quando gli assassini sono bianchi e razzisti; la stragrande maggioranza delle morti violente, tra i black come tra gli ispanici, meritano meno visibilità se i killer appartengono allo stesso gruppo etnico.
La reticenza del «Times» include il tema della scarcerazione facile. Il giornale appoggia le procure progressiste che mettono in libertà anche criminali pericolosi, professionisti della violenza che rappresentano una minaccia costante per la comunità. All’indomani della morte di Giri un editoriale della direzione confermava questa linea, attaccando i procuratori che non procedono abbastanza speditamente a svuotare le carceri.
Il dolore dei familiari e degli amici per l’assurda morte di Giri non sarebbe stato risarcito da una diversa attenzione della stampa; però questa vicenda offre uno sguardo inquietante sul «nuovo giornalismo», militante e condizionato dalla sua agenda ideologica. Anche la cronaca cittadina si piega a questa logica tribale.
Dopo il mio articolo sul «Corriere della Sera» che denuncia questa omertà, la redazione del «New York Times» tace: nessuna reazione. Non risponde neppure quando viene sollecitata da altri media stranieri. In Germania, «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e «Die Zeit», il maggior quotidiano e il più diffuso settimanale, in quel dicembre 2021 riprendono ampi estratti del mio articolo, mi intervistano, poi chiamano la redazione del giornale newyorchese per avere la sua versione dei fatti. Silenzio. Chiunque può verificare – se non sa il tedesco c’è Google Translator – che i colleghi dalla Germania ci hanno provato, senza scalfire l’indifferenza dei loro omologhi americani. La sensibilità tedesca verso i rischi di una stampa che non fa più il proprio mestiere ha una genesi precisa: il Capodanno di Colonia del 2016, quando tante donne furono molestate (e alcune stuprate) da bande di immigrati mediorientali e nordafricani, ma per giorni il silenzio dei media coprì la vicenda, per timore di ferire la tolleranza multietnica politically correct.
Non sono sorpreso dall’autocensura americana. Negli ultimi anni la redazione del «New York Times» è cambiata profondamente. Quello che fu un tempio del giornalismo autorevole è stato il teatro di uno scontro, una caccia alle streghe che ha portato all’allontanamento degli elementi moderati e alla presa di potere da parte degli estremisti dell’antirazzismo (che lo trasformano in razzismo anti-Bianco).
Un antefatto per capire l’autocensura e l’omertà del quotidiano sulla morte di Giri risale a un anno e mezzo prima. All’inizio del giugno 2020, nel mezzo delle proteste violente dopo l’uccisione di Floyd. La campagna elettorale è ormai avviata alla conclusione e ogni fatto di cronaca viene interpretato alla luce dello scontro Trump-Biden. Il presidente in carica, di fronte alle immagini televisive delle città devastate dalle proteste, propone di mandare l’esercito nelle piazze. Non lo farà. Ma un senatore repubblicano moderato, Tom Cotton dell’Arkansas, invia un articolo alle pagine delle opinioni del «Times» in cui spiega che ci sono dei precedenti nell’uso dei militari per riportare l’ordine pubblico, e sostiene che sarebbe sensato farlo. Il caporedattore delle pagine dei commenti fa una cosa che un tempo sarebbe stata obbligatoria ma oggi è inaudita: lo pubblica. Benché solo sull’edizione online, non su quella cartacea. Scoppia un putiferio, la maggioranza della redazione si rivolta. L’insurrezione interna nel più importante quotidiano d’America mescola diverse tensioni razziali, e il «giornalismo resistenziale» prevale sul dovere d’informazione. Il giornale progressista viene accusato, dall’ala più militante dei suoi redattori, di non essere abbastanza battagliero nella crociata contro Donald Trump. Eppure il quotidiano è schierato con i democratici, per quattro anni ha fatto una guerra senza quartiere a Trump. Per alcuni non è mai abbastanza resistenziale. Hanno deciso di contestare la direzione quando sulla homepage è apparso quel titolo in contrasto con il tono generale del sito: Mandate le truppe. Nell’articolo il senatore Cotton paragona la situazione del 2020 ai disordini violenti degli anni Sessanta; sostiene che le polizie locali «hanno disperato bisogno di rinforzi». Conclude spiegando che l’Insurrection Act (legge del 1807) invocato dal presidente «non equivale a una legge marziale». Cotton aggiunge che gli assalti ai negozi sono «un Carnevale per ricchi in cerca di emozioni e altri elementi criminali». Chiama in causa Antifa, la galassia di gruppuscoli violenti di estrema sinistra. Alcune delle sue descrizioni si basano sui reportage dello stesso «New York Times» sulle razzie avvenute nel Bronx ai danni di tanti esercenti afroamericani.
Dopo l’articolo del senatore repubblicano diversi giornalisti e giornaliste contestano la direzione e twittano un’accusa grave: «Pubblicare questo mette in pericolo i dipendenti neri del “New York Times”». Alla contestazione reagisce il caporedattore delle pagine dei commenti, James Bennet. Ricorda che il quotidiano «si batte da anni contro le crudeltà sistematiche che hanno portato a queste proteste». Spiega che la pagina delle opinioni «ha il dovere verso i lettori di mostrare i controargomenti, soprattutto se vengono da persone in grado di dettare politiche». Bennet dice di capire che «molti lettori troveranno pericolosa la tesi del senatore Cotton, ma è una buona ragione per sottoporla al dibattito e alla critica in pubblico». L’articolo in questione, però, sparisce velocemente anche dal sito. Passano pochi giorni e Bennet viene costretto a dimettersi. La base più giovane ha stravinto, gli ultrà della redazione hanno fatto rotolare una testa importante, in nome dell’antirazzismo a oltranza.
A nulla serve l’ultima resistenza dei «moderati». L’opinionista Bret Stephens non lesina le critiche al giornale su cui scrive: «La decisione di non pubblicare l’intervento del senatore Tom Cotton è un regalo ai nemici di una stampa libera. Abbiamo tradito il nostro obbligo di descrivere il mondo così com’è: mezza America la pensa come Cotton. Licenziare giornalisti di qualità mentre si censurano opinioni controverse è codardia intellettuale». Un altro opinionista moderato, Ross Douthat, sempre sul «Times» rimpiange Bennet per la sua capacità di «costruire pagine dei commenti pluraliste e variegate». A difendere Bennet interviene anche l’ex inviato internazionale Roger Cohen. Queste, però, sono voci minoritarie e diventano sempre più marginali. Nelle pagine dei commenti ha stravinto l’ala rivoluzionaria, meglio rappresentata da titoli come Sì, vogliamo letteralmente abolire la polizia (Mariame Kaba); o un’implacabile requisitoria di Keeanga-Yamahtta Taylor contro i neri moderati alla Obama: La fine delle politiche black.
Un altro retroscena per capire il clima di caccia alle streghe dentro il «New York Times», che impone un nuovo conformismo a favore di Black Lives Matter, è il «1619 Project». È un progetto di giornalismo long-form lanciato dal quotidiano nel 2019, nel quattrocentesimo anniversario dallo sbarco in Virginia della prima nave carica di schiavi dall’Africa. Il progetto punta a riscrivere l’intera storia degli Stati Uniti mettendo al suo centro lo schiavismo quale evento dominante che ha segnato tutto il resto. A guidare l’impresa, come ho già accennato, è stata la giornalista afroamericana Nikole Hannah-Jones. Sostenuta dalla potenza mediatica del più grande quotidiano statunitense, l’operazione «1619 Project» ha partorito articoli, numeri speciali del magazine settimanale del «Times» e un libro che da anni è in cima alla classifica dei best seller. Questi testi vengono adottati in numerose scuole e licei, diventano materia d’insegnamento, con il duplice sostegno delle autorità locali (negli Stati governati dalla sinistra) e dei sindacati dei docenti.
Autorevoli storici sono insorti: il «1619 Project» è un manifesto ideologico, infarcito di falsità e forzature. Tre affermazioni centrali sono contestate dagli studiosi. La prima è che la Rivoluzione americana, cioè la guerra d’indipendenza contro la Gran Bretagna nel 1776, sarebbe stata combattuta per salvaguardare lo schiavismo che i britannici volevano abolire. La seconda affermazione è che il sistema delle piantagioni fondato sul lavoro degli schiavi negli Stati del Sud sarebbe l’origine e il fondamento del moderno capitalismo americano. La terza: Abraham Lincoln era un razzista che non aveva la minima intenzione di riconoscere i diritti di cittadinanza agli ex schiavi. Queste tre affermazioni sono false, e chi vuole scorrere un riassunto di tutte le critiche degli storici seri può trovarlo nel saggio di Peter Wood 1620: A Critical Response to the 1619 Project. La Gran Bretagna nel 1776 non aveva l’intenzione di abolire lo schiavismo nelle proprie colonie; in seguito, il movimento abolizionista sarebbe diventato una forza politica negli Stati Uniti. Erano i latifondisti del Sud che per assolversi tentarono di affermare un’equivalenza tra il capitalismo moderno fondato sul lavoro salariato e lo sfruttamento degli schiavi. Anche le fake news e le calunnie su Lincoln facevano parte della propaganda del Sud razzista.
Il lavoro della Hannah-Jones riprende tesi estremiste, che anni addietro venivano sostenute solo dalle frange più radicali del nazionalismo nero. Ma l’egemonia ideologica del nuovo antirazzismo è così forte che quell’opera è diventata un Vangelo della sinistra. L’autrice ha vinto un premio Pulitzer. La valanga di confutazioni venute dagli storici imparziali è stata accolta dal «New York Times» con fastidio. Dopo avere difeso strenuamente l’autrice, la direzione del giornale ha ritrattato almeno un punto: la tesi infondata secondo cui la guerra d’indipendenza dall’Impero britannico sarebbe stata motivata soprattutto dalla volontà di preservare lo schiavismo. Nonostante le controversie, o forse proprio a causa di quelle, la Hannah-Jones – che ama definirsi «la Beyoncé del giornalismo» – è riuscita a ottenere «a furor di media» una cattedra alla Howard University.
Molti altri contenuti del «1619 Project» sono evidenti forzature, a partire dalla scelta delle date: nel corso del XVII secolo la tratta degli schiavi era molto più consistente verso gli Imperi spagnolo e portoghese nei Caraibi e nell’America del Sud, ma questo viene ignorato dall’autrice perché non si sposa con l’obiettivo ideologico di processare solo gli Stati Uniti. Nessun cenno viene fatto all’origine dello schiavismo: tra i più grandi profittatori c’erano da secoli potenze africane come l’Impero del Benin nonché gli intermediari arabi specializzati nel traffico di carne umana. Ma la Hannah-Jones vuole imbastire un processo contro l’Uomo Bianco e quindi cancella tutto il resto della storia. La vera specificità dell’Uomo Bianco lei la ignora: è nella civiltà occidentale che si afferma alla fine del Settecento il principio rivoluzionario che tutti gli esseri umani sono uguali e portatori degli stessi diritti, delle stesse libertà. Le rivolte degli schiavi, che esistono almeno dai tempi di Spartaco nell’antica Roma, solo con le idee dell’Illuminismo europeo ricevono una legittimità universale. È in Occidente che lo schiavismo viene combattuto da un movimento abolizionista di massa, fino a rendere moralmente ripugnante e illegale la proprietà e il commercio degli esseri umani. Da Gandhi a Martin Luther King, i massimi protagonisti delle battaglie contro le ingiustizie dell’Occidente hanno trovato giustificazioni filosofiche e alleati politici dentro l’Occidente stesso. Questa parte della storia viene cancellata.
La Critical Race Theory è l’ideologia che ispira il «1619 Project». Dalle origini ai nostri giorni, la storia degli Stati Uniti viene reinterpretata alla luce del razzismo «sistemico, intrinseco» dal quale questa «pseudodemocrazia» sarebbe segnata fin dalla sua nascita. La Critical Race Theory sostiene che il razzismo è scolpito dentro le istituzioni repubblicane. Dalla cultura alla politica: diversi Stati del Sud o del Midwest governati dai repubblicani stanno cercando di bloccare con leggi locali questa riscrittura dei programmi scolastici e universitari. La sinistra grida alla censura; la destra denuncia l’indottrinamento e il lavaggio del cervello. È una battaglia che mobilita forze poderose da ambo le parti. Trump ha cominciato a impadronirsene per i suoi progetti di riscossa.
La Critical Race Theory, abbreviata in Crt, non è recente. Le origini risalgono agli anni Settanta, è l’erede di frange ultraradicali come il Black Power. Gli intellettuali che l’hanno diffusa pretendono di aver adattato la lezione del marxista Antonio Gramsci sull’egemonia culturale. La Crt esamina leggi e istituzioni, rapporti sociali e culture sotto l’angolatura esclusiva del razzismo. Quest’idea di un razzismo sistemico travalica l’individuo e le sue scelte. Conquistare per gli afroamericani l’eguaglianza formale davanti alla legge – come fece il movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King negli anni Sessanta – è inutile, perfino ipocrita. Riaffiorano temi familiari all’estremismo di sinistra di mezzo secolo fa: la critica alla «democrazia borghese» come fasulla. Tra i seguaci della Crt c’è il movimento che si batte per le reparations, risarcimenti economici da versare ai discendenti degli afroamericani che arrivarono negli Stati Uniti come schiavi. Almeno una città della California ha già approvato quei pagamenti. L’amministrazione Biden è stata accusata da destra di fare qualcosa di simile quando ha predisposto che nell’assegnazione di alcuni sussidi Covid per l’agricoltura avessero la precedenza i coltivatori neri.
La rivolta contro la teoria critica della razza è diventata legge in Texas, Tennessee, Idaho, Iowa e Oklahoma. Le maggioranze repubblicane nei Parlamenti locali vogliono fermare l’introduzione di quelle dottrine nei programmi delle scuole. I think tank di destra come la Heritage Foundation e gli opinionisti conservatori del «Wall Street Journal» denunciano il tentativo di colpevolizzare collettivamente i bambini bianchi come eredi di un peccato originario, portatori di una colpa razziale congenita. Anche in campo democratico affiora il dissenso. Andrew Sullivan, ex direttore di «The New Republic» e fondatore della newsletter «The Weekly Dish», accusa l’indottrinamento antirazzista nelle scuole di «presentare come obiettiva una versione faziosa della storia». I commentatori progressisti del «New York Times» Bret Stephens e Ross Douthat hanno preso le distanze dal nuovo razzismo, che vuole istigare i ragazzi bianchi al pentimento e all’espiazione in nome di una colpa etnica collettiva. Molti genitori hanno scoperto con sgomento questa colpevolizzazione dei figli durante la pandemia, perché l’insegnamento a distanza ha consentito per la prima volta agli adulti di assistere alle lezioni.
La Crt insegnata nelle scuole equivale alla demolizione organizzata, pianificata dell’identità nazionale americana. È un esperimento unico nella storia: le élite di governo abbracciano un’ideologia che criminalizza le origini della loro nazione e punta un indice accusatore contro il gruppo etnico maggioritario. È difficile trovare analoghi tentativi di suicidio di un’intera civiltà: quando l’Impero romano subì quella convulsione fatale che fu la conversione al cristianesimo dettata da Costantino, non arrivò a demonizzare in modo così sistematico tutta la storia precedente di Roma.
Sul «Financial Times» Edward Luce sottolinea altre conseguenze dell’ideologizzazione dilagante nella scuola pubblica: in due anni è aumentato dell’11 per cento il cosiddetto home schooling, cioè la scuola fai-da-te, a domicilio; c’è anche un boom d’iscrizioni alle scuole private religiose, che conservano un curriculum più tradizionale. «Una maggioranza di genitori di tutte le razze» osserva Luce «non desidera che ai propri figli venga insegnato che il loro destino sta scritto nella pigmentazione della pelle. Purtroppo la voce della cosiddetta “maggioranza esausta” degli americani è soverchiata da coloro che promuovono il conflitto delle identità razziali.» Nella resistenza dei moderati si distinguono gli stessi afroamericani. Tra questi, la prima donna nera eletta al governo di uno Stato: Winsome Sears, vicegovernatrice della Virginia. La Sears è di origine afrogiamaicana, si vanta di discendere da una principessa africana che guidò le prime rivolte di schiavi contro gli inglesi in Giamaica nel XVIII secolo. Nata a Kingston, emigrò con i genitori a New York nel 1963. «L’America di oggi non è certo quella del 1963» dice «e ai nostri figli dobbiamo insegnare la storia tutta intera, le parti brutte e cattive insieme con quelle buone. Oggi abbiamo avuto un presidente nero eletto due volte, abbiamo avuto segretari di Stato afroamericani, abbiamo fior di miliardari black. Non ha senso descrivere l’America come un paese che non può migliorare.»
Il richiamo agli anni Sessanta è istruttivo. La campagna d’indottrinamento sulla Crt rappresenta la rivincita di quelle frange estremiste – i musulmani di Malcolm X, i marxisti delle Black Panther – che osteggiarono il movimento non violento di Martin Luther King. Proprio come gli ex sessantottini dei gruppuscoli extraparlamentari europei che flirtavano con il terrorismo rosso, anche gli ultrà dell’antirazzismo non hanno mai conquistato un consenso di massa, ma in compenso hanno saputo coltivare le élite. A sessant’anni di distanza, il loro bottino di cattedre universitarie è ragguardevole, così come la loro influenza a Hollywood e nelle redazioni dei media. I miliardari progressisti sulle due coste abbracciano con fervore la nuova moda, assoldano consulenti specializzati nella triade DEI – «diversità, equità, inclusione» – per accantonare la questione sociale, le diseguaglianze economiche, le ingiustizie di classe. Aprire i consigli d’amministrazione delle multinazionali a qualche ricco black costa molto meno che alzare i salari o limitare la libertà dei chief executive di assegnarsi da soli stipendi faraonici.
Per capire il punto di vista dei neri moderati che hanno memoria degli anni Sessanta, si può leggere l’autobiografia di Colin Powell, scomparso nell’ottobre 2021 (Nato nel Bronx. Una storia americana, Mondadori 1996). Capo di stato maggiore artefice della vittoria nella prima guerra del Golfo (1991), poi primo black a diventare segretario di Stato, il generale Colin Powell ebbe una sola macchia nella sua carriera: si prestò a raccontare all’Onu per conto di George W. Bush le bugie sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Quel grave errore, del quale poi fece pubblica ammenda, non ha intaccato il suo enorme prestigio. Fino alla fine è rimasto un simbolo di emancipazione, di successo, la prova che un afroamericano può raggiungere i vertici del potere negli Stati Uniti di oggi. La sua autobiografia è un capolavoro di saggezza e di equilibrio. Nato da genitori giamaicani immigrati a New York per lavorare come operai tessili, cresciuto nel Bronx, Powell ricorda due episodi della sua giovinezza: quando sua sorella s’innamorò di un ragazzo bianco, «furono i Powell a opporsi, mentre i genitori del fidanzato erano un po’ più tolleranti di noi». A sua volta, quando lui corteggiò la futura moglie, un’afroamericana «pura», il padre di lei boicottò l’unione perché disprezzava i neri giamaicani. Colin Powell sperimentò l’orrore della segregazione razziale agli inizi della sua vita militare, quando fu mandato in una caserma del profondo Sud, Fort Bragg in North Carolina. Via via che la sua carriera straordinaria procedeva in parallelo con le conquiste dei diritti civili, cercò sempre di sottrarsi ai due opposti estremismi: da una parte i bianchi di cattiva coscienza che volevano usare il suo successo per dimostrare che «il razzismo non esiste»; dall’altra le élite nere specializzate nel vittimismo, che dovevano sminuire il suo successo perché «non è possibile un vero progresso razziale in America». Colin Powell fino all’ultimo ha creduto nella missione positiva del suo paese, anzi: della sua patria. Ma è una figura che i giovani ultrà dell’antirazzismo mettono nell’elenco infame dei collaborazionisti. Uno Zio Tom, un servo dei bianchi.
Un’altra personalità «maledetta», la cui scomparsa è stata celebrata con autocensure e imbarazzo, è l’attore Sidney Poitier. Morto nel gennaio 2022 all’età di 94 anni, Poitier è stato il precursore, lo scopritore, il protettore di generazioni di artisti neri. Il suo ruolo pionieristico ha spianato la strada ai Denzel Washington e Will Smith, Whoopi Goldberg e Halle Berry. Regista e produttore, talent scout oltre che attore, Poitier fu il primo black a sfondare in grandi ruoli da protagonista. Tra i più celebri: La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena? Un tratto distintivo della sua straordinaria carriera fu la sua capacità di selezionare le proposte che riceveva, per scegliersi dei personaggi positivi, che potessero aiutare i black a vincere pregiudizi e a conquistarsi un’ascesa sociale. È esattamente per la stessa ragione che già sul finire degli anni Sessanta gli estremisti della comunità black cominciarono a diffamarlo, definendolo un lacchè. Un altro Zio Tom.
L’ala rivoluzionaria dei black, con i suoi alleati negli ambienti bianchi radical chic che agognano a purificarsi delle colpe ancestrali, cavalca l’egualitarismo e una politica identitaria con effetti nefasti sugli stessi afroamericani. Un esempio: la campagna per l’abolizione degli esami-test come risposta ai bassi livelli di apprendimento degli alunni neri nelle scuole. Il disastro della scuola pubblica americana è sconvolgente: in 27 distretti scolastici tra i più importanti della nazione, i ragazzi afroamericani al termine della terza media non raggiungono il 20 per cento di padronanza dei programmi scolastici, dalla capacità di lettura alla matematica. Eppure i fondi pubblici erogati a queste scuole sono notevoli: New York spende 28.000 dollari all’anno per ogni alunno di scuola pubblica, Boston 25.600. Anziché affrontare le cause strutturali d’inefficienza della scuola pubblica, oggi la soluzione in voga nell’America progressista è l’abolizione dei test. Anche questo è un ritorno alle mode radicali degli anni Sessanta, come il «voto politico». L’università non è immune.
Un episodio celebre è accaduto in una delle più prestigiose business school americane, l’Anderson School of Management della University of California - Los Angeles. Dopo l’uccisione di George Floyd e le manifestazioni di protesta, il 2 giugno 2020 uno studente (bianco) ha intimato al professore di diritto Gordon Klein di promuovere tutti gli afroamericani di quel corso «per tenere conto delle circostanze traumatizzanti, e per salvaguardare la salute fisica e mentale dei nostri compagni black». Il docente si è rifiutato e ha respinto la promozione politica su basi razziali bollandola come una forma di paternalismo. Una petizione con 20.000 firme lo ha condannato come «razzista». L’università ha dato ragione ai ragazzi e lo ha licenziato. In seguito Klein ha fatto ricorso e ha vinto, ma solo dopo aver subito un processo di piazza che lo ha bollato come un infame.
Ci sono genitori afroamericani costernati da quel che sta avvenendo, dal messaggio che si trasmette ai loro figli. Lo racconta la scrittrice Danzy Senna in un saggio su «The Atlantic» intitolato I bianchi progressisti alla ricerca della virtù razziale. La Senna è etnicamente mista, suo padre è un afromessicano, ed è sposata con un black. Con il marito si è trasferita in California, a Pasadena, dove hanno iscritto il figlio a una scuola privata dalla pedagogia notoriamente progressista. Risultato: il figlio è stato incasellato in un gruppo di lavoro Bipoc, cioè riservato a «Black, Indigenous, and People of Color». È la ghettizzazione razziale, che per promuovere le vittime di una volta le trasforma in vittime per sempre, le coccola in una cultura delle recriminazioni, della lamentela e della richiesta di risarcimenti. «Quella scuola non era interessata a mio figlio,» commenta la scrittrice «ma solo a ciò che lui rappresenta. Mio marito e io, invece, non volevamo che lui diventasse una cavia del grande pentimento bianco.» Il ragazzino avrebbe voluto socializzare di preferenza con i compagni di scuola che condividono i suoi interessi, per il cinema e le graphic novel, a prescindere dal colore della pelle. Invece è stato inserito in seminari etnici, dove i Giusti devono frequentarsi tra loro e studiare i manuali dell’antirazzismo di Ibram X. Kendi. Il quadretto illustrato dalla Senna è esemplare: restituisce il clima dell’autoflagellazione dominante nell’élite bianca di privilegiati che hanno scelto l’espiazione.
Sullo sfondo c’è il generale declino della scuola americana, demolita dalla furia politically correct. A San Francisco, il provveditorato agli studi ha passato gran parte dell’anno 2021 a discutere la cancellazione di «nomi di razzisti» da alcuni edifici scolastici; mentre la didattica a distanza generava ulteriori disastri nei livelli di apprendimento.
L’entusiasmo sospetto con cui le élite radical chic delle due coste abbracciano i guru più estremisti della comunità black coincide con la rimozione della questione sociale. In una visione del mondo in cui conta solo l’identità etnica o sessuale, scompaiono le differenze di classe. Le stesse élite globaliste sono quelle che hanno difeso strenuamente l’apertura delle frontiere al commercio con la Cina e all’immigrazione, le due politiche che negli ultimi trent’anni hanno danneggiato gli afroamericani più del razzismo. Il declino dell’industria americana e la sua delocalizzazione, come dimostra la giornalista Farah Stockman in American Made, hanno allargato del 12 per cento il dislivello salariale tra lavoratori neri e bianchi distruggendo proprio quei posti di lavoro su cui si era costruita un’emancipazione economica dei black.
Il pensatore afroamericano Shelby Steele descrive nel suo libro Shame un’America contemporanea – e con essa l’intero Occidente – prigioniera di una «realtà poetica». In italiano sappiamo cos’è la licenza poetica: consente di prendersi delle libertà rispetto alla realtà oggettiva. Steel intende la realtà poetica come una costruzione di miti e leggende, che prescinde dalla verità, ma costruisce il potere di un establishment proclamatosi progressista. Uno dei dogmi fondamentali in questo antirazzismo è l’impotenza e l’irresponsabilità del singolo. «Il mio destino non è nelle mie mani», secondo Steele, è il messaggio che le élite black e i loro alleati bianchi inculcano nella comunità afroamericana. «Questa formula» scrive lo studioso «mantiene l’America nera in uno stato di sottosviluppo, benché abbia nuove libertà e una moltiplicazione delle opportunità. Non può esserci rovina peggiore, per un gruppo che fu oppresso, di quel che sta accadendo oggi a noi neri d’America. Siamo finiti sotto il controllo di militanti del vittimismo, secondo i quali la giustizia consiste nel rendere altri responsabili per il nostro progresso.»
Merita attenzione la particolare censura del linguaggio etnico. Nigger, letteralmente «negro», è un termine usato con orgoglio da milionari rapper afroamericani e chiunque appartenga all’opulento business della hip-culture black; viene mescolato regolarmente con incitazioni alla violenza e allo stupro nei brani musicali più popolari fra i giovani. Lo stesso termine può stroncare per sempre una carriera, se viene pronunciato da un bianco. «Le regole del linguaggio americano» osserva il critico Christopher Caldwell in The Age of Entitlement «assomigliano alle rigidità del Medioevo, quando … la legge impediva a certe classi di sudditi di rivolgersi ad altri con un certo nome.»
I paradossi dell’antirazzismo sono ben visibili da anni nel mondo della cultura, e producono una di quelle «inversioni valoriali» o rovesciamenti di paradigma che sono sintomi di una civiltà al collasso: dove una maggioranza deve sottomettersi al volere di minoranze che impongono dall’alto una brutale revisione di tutto il passato, da sacrificare sull’altare di una nuova religione.
Ricordiamo per esempio, nel 2008, l’incidente emblematico di Margaret B. Jones, giovane autrice di Love and Consequences, autobiografia di una ragazza per metà indiana (cioè nativa) adottata da una famiglia black e cresciuta tra le gang di Los Angeles. Dopo l’iniziale successo letterario scoppia lo scandalo. Si scopre che l’autrice del libro non è di colore. È una trentatreenne bianca, figlia di una famiglia del ceto medio, educata in scuole private protestanti. Dalla gloria alla vergogna, Margaret B. Jones (il cui vero nome è Margaret Seltzer) viene additata al pubblico disprezzo come una bugiarda. Ma dove sta esattamente lo scandalo? La giovane scrittrice ha barattato la propria identità di bianca in cambio di «autorità morale, senso di appartenenza, legittimità», osserva Caldwell. La Jones aveva deciso di nascondere la sua vera origine perché legata al gruppo etnico ormai meno prestigioso.
Uno scandalo analogo si ripete sette anni dopo. Stavolta accade nel mondo politico anziché sulla scena letteraria. Protagonista è di nuovo una giovane donna, Rachel Dolezal, allora trentasettenne. All’epoca è una leader della National Association for the Advancement of the Colored People, è una celebrity negli ambienti più radicali dell’antirazzismo. Finché si scopre che non è affatto «di colore» come l’associazione che dirige. Lo rivelano i suoi genitori, due fondamentalisti cristiani: Rachel Dolezal è bianca, la famiglia ha origini germanico-svedesi. Dopo il colpo di scena viene denunciata come un’infame da intellettuali black quali l’opinionista Charles Blow del «New York Times»: come osa una bianca «appropriarsi» dell’identità nera! Eppure, la stessa corrente del politically correct difende il diritto di ciascuno di noi di scegliersi un sesso, o nessuno, e sostiene la campagna per imporre pronomi neutri o plurali nelle scuole, in nome della fluidità di genere. Questa libertà viene vietata invece in materia di razza: essere bianchi è una macchia morale incancellabile, ereditaria, incurabile: quella sì, biologica per sempre.
IV
Il Nuovo Paganesimo: l’ambientalismo come religione
«Non voglio che abbiate speranza, voglio che proviate panico.» Così parlò Greta Thunberg al World Economic Forum di Davos nel 2019. All’epoca la giovane militante ambientalista svedese aveva 16 anni. Il suo desiderio si è realizzato. Il panico è il sentimento più diffuso, quando si parla di cambiamento climatico e di emergenze ambientali. Altri hanno obbedito all’ingiunzione di Greta. La trentenne deputata newyorchese della sinistra democratica, Alexandria Ocasio-Cortez, ha parlato di «miliardi di vittime», se non interveniamo con cambiamenti drastici. L’estinzione della specie umana viene evocata da più parti come una possibilità reale. Anche i leader di generazioni anziane hanno finito per adeguarsi ai toni apocalittici di Greta. Il premier britannico Boris Johnson nel 2021, aprendo la conferenza di Glasgow sul clima, ha definito il riscaldamento ambientale «la macchina a orologeria verso il giudizio finale». Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres gli ha fatto eco dicendo che la specie umana «si suiciderà con le emissioni carboniche». In Occidente, e in modo particolare tra le giovani generazioni, è diffuso il timore che siamo vicini a un disastro irreversibile, una catastrofe climatica che potrebbe rendere la vita impossibile sulla terra. Chiunque cerchi di smorzare i toni apocalittici viene accusato di essere un «negazionista». Come gli antivax: oscurantisti che rifiutano la scienza.
Ma la scienza dice davvero che siamo alla vigilia della fine del mondo? Dà ragione a Greta, che ci vuole tutti nel panico? No, la scienza vera non ha mai detto nulla di simile, anche se alcuni scienziati si prestano a fare da megafoni dell’allarmismo, per ragioni non sempre nobili.
I negazionisti, ignoranti o in malafede che siano, non m’interessano. Invece leggo e ascolto uno scienziato autorevole, che crede senza riserve nel cambiamento climatico provocato dall’attività umana, cioè dal nostro inquinamento. Si chiama Steven Koonin, è un fisico, ed è stato sottosegretario alla Ricerca scientifica nell’amministrazione Obama. È un democratico, un progressista, non è sospetto di collusioni con i negazionisti trumpiani. Koonin studia da anni tutti i rapporti che la comunità scientifica ha elaborato e che sono stati raccolti dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) sotto l’egida dell’Onu. La sua conclusione, riassunta nel saggio Unsettled del 2021, è inequivocabile: la temperatura media del pianeta sta salendo; una causa di questo aumento (anche se non l’unica) siamo noi; dobbiamo fare il possibile per frenare il riscaldamento. Questo è il verdetto della scienza, che non include scenari né di fine del mondo né di inabitabilità del pianeta. Aggiunge Koonin: l’allarmismo, i proclami apocalittici, gli annunci di stragi che vengono lanciati dagli ambientalisti radicali e ripresi dai media, non hanno alcun fondamento scientifico.
Koonin è severo nel denunciare alcune distorsioni di cui siamo tutti vittime. Per esempio, è diventato obbligatorio sui media occidentali spiegare qualsiasi variazione meteorologica, in particolare gli eventi atmosferici più estremi (come gli uragani), collegandoli al riscaldamento climatico. Questa è una falsificazione della scienza, spiega Koonin. Usando gli stessi rapporti ufficiali dell’Ipcc, gli stessi studi della comunità scientifica avallati dall’Onu, Koonin estrae da questi documenti le confutazioni dello sciocchezzaio quotidiano che dilaga sui media. Per esempio: le ondate di caldo estremo che colpiscono il pianeta non sono più frequenti di quanto lo fossero all’inizio del Novecento (centovent’anni fa), quando l’attività industriale aveva accumulato nell’atmosfera solo una frazione delle emissioni carboniche odierne. E ancora: non esiste un legame preciso tra il cambiamento climatico e gli uragani o le siccità. I ghiacci della Groenlandia non si stanno sciogliendo più rapidamente oggi rispetto a ottant’anni fa.
Un’altra bugia ricorrente, da sfatare, riguarda gli incendi: quelli che devastano la California, per esempio, vengono regolarmente attribuiti al cambiamento climatico. Un coro unanime unisce gli ambientalisti, i politici a loro vicini, i media, e si ripete ogni estate: la California brucia perché il pianeta si riscalda. È falso e gli scienziati californiani lo sanno bene. La California brucia perché gli incendi vengono appiccati da tralicci elettrici insicuri, che non hanno nulla a che vedere con il cambiamento climatico. Inoltre, questi incendi non sono più vasti di quelli del passato. Possono essere più dannosi, ma solo perché abbiamo costruito abitazioni sempre più vicine alle zone forestali suscettibili di bruciare. C’entra una cattiva urbanistica, non il cambiamento climatico.
Un’altra bugia che è diventata un dogma nel discorso ambientalista – sempre ripreso con totale conformismo dai media – è quella secondo cui il cambiamento climatico provocherà danni enormi ai raccolti e quindi carestie che contribuiranno all’ecatombe mondiale. Falso pure questo: la produttività agricola del pianeta continua a migliorare, nonostante l’aumento medio delle temperature. Con le tecniche agricole attuali, oggi saremmo in grado di sfamare dieci miliardi di persone, cioè più della popolazione terrestre. Se esiste ancora il dramma della fame in alcune zone del mondo, la causa è la loro povertà, non il clima. Nell’elenco delle menzogne bisogna ricordare che perfino la pandemia è stata strumentalizzata da certi ambientalisti: si sono sentite teorie farneticanti sul fatto che la nostra manipolazione dell’ecosfera rende più frequenti e letali i contagi dall’animale all’uomo. Queste teorie assurde – mai avallate dalla vera scienza – prescindono dal fatto che virus e batteri popolavano la terra milioni di anni prima che vi apparissimo noi umani; di pandemie globali è ricca la storia antica, tant’è che un paio di queste contribuirono ad accelerare la caduta dell’Impero romano.
Un segnale del suicidio occidentale è questo: oggi proprio coloro che si dichiarano «seguaci della scienza» danno credito a scenari apocalittici che con la scienza non hanno nulla a che vedere. La civiltà dell’Occidente, che fin dall’antica Grecia si era fondata sull’adesione alla razionalità, e aveva visto il trionfo del metodo scientifico con l’Illuminismo, il Positivismo, la Rivoluzione industriale, oggi regredisce e si allontana sempre più dalla fiducia nella ragione. E non solo per colpa dei no vax o dei negazionisti: il fronte opposto è altrettanto dogmatico, irrazionale, oscurantista. I due estremismi si alimentano a vicenda. Da una parte c’è una destra che promuove l’ignoranza e il pregiudizio antiscientifico, anche perché legata a interessi economici retrogradi (il business petrolifero): questa ci ha regalato l’idiozia di Trump che decise di uscire dagli accordi di Parigi sul clima. Ma alla destra oscurantista si contrappone un ultra-ambientalismo che è altrettanto ideologico, settario, fazioso, e che con le sue forzature tradisce continuamente l’obiettività scientifica.
Questa deriva antirazionale dell’ambientalismo non fa danni solo all’Occidente. Tra le sue vittime c’è il Terzo Mondo. Rischiamo di rovinare le nazioni più povere del pianeta con il nostro neocolonialismo ambientalista, o imperialismo «verde». Seguendo gli slogan di Greta e di Greenpeace, i governi dei paesi ricchi e istituzioni internazionali come la Banca mondiale cercano di imporre ai paesi sottosviluppati il balzo prematuro alle energie eolica e solare, saltando a piè pari altri stadi della transizione energetica (centrali idroelettriche, a gas, nucleari). Questo significa bloccare il loro sviluppo. E non c’è nulla di più pericoloso della povertà per rendere vulnerabili al cambiamento climatico. La prova: basta confrontare due Stati egualmente esposti all’innalzamento delle acque, l’Olanda e il Bangladesh. La ricchezza degli olandesi consente di pianificare da generazioni tutte le opere necessarie per difendere il proprio paese dalle acque; la povertà del popolo bengalese fa sì che lo stesso fenomeno neutralizzato dagli olandesi sia per loro mortale.
Crescere, svilupparsi, arricchirsi è la migliore polizza assicurativa contro i danni del cambiamento climatico. La crescita economica, inoltre, è il terreno favorevole all’innovazione tecnologica, che può abbassare i costi delle energie rinnovabili. La ricchezza può diventare la nostra alleata per ridurre l’inquinamento. Ma l’ambientalismo radicale, da Greta a Greenpeace, dice l’esatto contrario: è intriso di una profonda ostilità allo sviluppo, idealizza le società precapitaliste, sogna un’Arcadia dove la povertà è associata a una meravigliosa qualità della vita. Un momento altamente simbolico è stato nel 2019 il viaggio di Greta dall’Europa agli Stati Uniti, che scelse di fare in barca a vela anziché in aereo. I media trasudavano ammirazione per un gesto arrogante, snobistico, offensivo verso i poveri della terra: se ci spostassimo tutti in barca a vela, lo sviluppo si fermerebbe e i primi a soffrirne sarebbero loro. Una delle vittime delle farneticazioni estremiste è lo Sri Lanka: in quest’isola dell’oceano Indiano nel 2021 il governo ha avuto la malaugurata idea di seguire le mode ambientaliste dei paesi ricchi e ha convertito quasi tutta la sua agricoltura perché fosse «biologica». I raccolti sono crollati. I prezzi di alimenti essenziali sono saliti del 30 per cento. Le masse contadine sono state impoverite. Dopo sette mesi di quel folle esperimento il governo dello Sri Lanka ha dovuto fare marcia indietro abbandonando i consigli irresponsabili degli ambientalisti radical chic.
L’Occidente, però, sta pagando prezzi quasi altrettanto preoccupanti. Il 2021-22 ha inflitto all’Europa uno shock energetico, che i cittadini hanno pagato sotto forma di forti rincari delle bollette. Tra le cause di questo fenomeno, oltre alla ripresa economica post-lockdown e all’attacco di Putin contro l’Ucraina, c’è una transizione mal governata verso le energie rinnovabili. Eolico e solare non sono ancora pronti a sostituire a tappe forzate il carbone e il gas naturale per alimentare le centrali elettriche. L’Europa ha dovuto fare una precipitosa marcia indietro; perfino la «verde» Germania ha riaperto alcune centrali a carbone; e tutti si sono scoperti pericolosamente dipendenti dal gas russo.
Ma ci sarebbe stata un’alternativa: il nucleare. La Cina lo sa, ci crede, e sta sviluppando le sue centrali nucleari a una velocità senza precedenti nella storia. In Europa e negli Stati Uniti prevale l’antiscienza. Il nucleare, soprattutto quello di nuova generazione, è molto più sicuro di altre forme di energia e garantisce emissioni zero. Non esiste una seria obiezione scientifica al nucleare. Esistono paure emotive, angosce perfettamente comprensibili ma irrazionali, che risalgono all’epoca delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, e sono state poi rilanciate dai pochissimi incidenti (Cernobyl’, Fukushima), il cui bilancio finale di vittime è molto meno grave rispetto a quello dei morti nelle miniere di carbone. Però, l’antiscienza che è l’ambientalismo radicale ha imposto in molti paesi occidentali il congelamento dei piani nucleari e in certi Stati addirittura lo smantellamento delle centrali già esistenti. Fondandosi sulla scienza, la Commissione europea nel 2021 ha tentato di mettere il nucleare tra le fonti rinnovabili da sviluppare; ma ha dovuto fare marcia indietro di fronte alle pressioni politiche. L’antiscienza ha vinto anche quella battaglia e ha reso più problematico il futuro energetico dell’Occidente. Non è la prima volta che l’antiscienza trionfa in Europa: è stato così anche per i divieti agli organismi geneticamente modificati.
Un’altra voce fuori dal coro che è interessante ascoltare oggi è quella di Michael Shellenberger. Non è un negazionista trumpiano, al contrario: è un noto militante ecologista, definito «un eroe dell’ambiente» dal magazine «Time». Ha promosso campagne in difesa dell’ecosistema, ha esplorato il mondo intero e in particolare l’emisfero sud, dal Brasile al Congo, per indagare le soluzioni giuste al cambiamento climatico. Ne ha tratto le prove che la ricetta più salvifica sia lo sviluppo economico. È altrettanto convinto che la maggioranza degli ambientalisti non vogliano aprire gli occhi davanti alla «vera» scienza. L’ambientalismo che oggi prevale in Occidente, quello che ha costruito il personaggio di Greta come la celebrity per eccellenza, secondo Shellenberger è una religione. Nel suo saggio L’apocalisse può attendere (Marsilio 2021), descrive la cultura verde che domina l’Occidente come «una ricerca di sollievo emotivo e di soddisfazioni spirituali». Un capitolo del suo libro s’intitola «Falsi dèi per anime perdute».
Il tema religioso è importante, per capire il suicidio dell’Occidente. Come accadde con la caduta dell’Impero romano, il crollo di una civiltà si accompagna con il passaggio da una religione a un’altra. Il cristianesimo attraversa una crisi profonda in quasi tutto l’Occidente, e tra le giovani generazioni la pratica della liturgia cristiana è ormai minoritaria. Il vuoto di credenze, di valori e di riti viene riempito dal Nuovo Paganesimo che è l’ambientalismo. È un ritorno al panteismo dei primitivi: Dio è ovunque, Dio è tutto, Dio è la natura. L’ascesa del Nuovo Paganesimo è stata preparata almeno dagli anni Sessanta, con fenomeni come la filosofia New Age in California, i figli dei fiori, il salutismo estremo, l’attrazione verso le religioni ateistiche dell’Estremo Oriente o le credenze astrali degli antichi Maya. In duemila anni di storia il cristianesimo aveva già conosciuto degli assalti e delle crisi importanti: da parte dell’Illuminismo tra Settecento e Ottocento, del comunismo nel Novecento. L’offensiva finale, che potrebbe essere quella decisiva, riporta in auge una religione naturalistica che ha fra i suoi antenati recenti il Romanticismo tedesco e poi il nazismo.
Greta Thunberg si offenderebbe a sentirsi definire una nipotina ideologica di Adolf Hitler, ma le affinità sono indiscutibili. A differenza del fascismo, che strinse alleanza con la Chiesa cattolica, il nazismo era fondamentalmente ateo e naturalista, andava a cercare ispirazione nelle religioni panteistiche ancestrali, le tradizioni delle tribù germaniche prima della conversione cristiana. Il suicidio dell’Occidente è nei fatti, quando una civiltà colta e raffinata decide di seguire le divinazioni di un’adolescente come Greta, la nuova sacerdotessa pagana del culto di Madre Natura. E sia chiaro che la ragazza svedese non ha colpe: come tanti di noi quando fummo adolescenti, è attratta dalle utopie. È dotata di un’intelligenza fuori dal comune, ha carattere e carisma. Ma è l’ambiente adulto intorno a lei che l’ha costruita come una moderna Giovanna d’Arco, una santa laica da adorare. Panteismo e paganesimo avevano le loro sacerdotesse fanciulle, oracoli capaci di leggere da oscuri segnali il volere degli dèi. Come la Sibilla Cumana, sacerdotessa del culto del dio Sole e della dea Luna nelle popolazioni italiche preromane, o la Pizia, sacerdotessa greca del culto di Apollo a Delfi.
Per la sua natura religiosa, è logico quindi che l’ambientalismo radicale adotti toni apocalittici, annunci la fine del mondo, esiga pentimento, sacrificio, espiazione: sono tutti gli ingredienti tipici di un movimento fideistico, magico e per nulla razionale, che fa presa su emozioni profonde. Altrettanto tipico di una religione è il settarismo, l’intolleranza: chi si discosta dalle profezie apocalittiche di Greta, chi non aderisce al suo imperativo del «panico» va demonizzato. In cerca di un senso da dare alla propria vita, uno scopo nobile per l’esistenza, masse di giovani si accodano così a un pensiero totalitario.
Ma come si spiega il conformismo dei meno giovani, quegli adulti che venerano Greta e si genuflettono di fronte a vere e proprie idiozie? Penso, per esempio, a fior di opinionisti anziani che hanno esaltato la critica di Greta ai politici: hanno applaudito la giovane svedese quando ha accusato gli statisti di fare solo «bla bla bla». In tempi migliori, quel tipo di critica semplicistica e banale si sarebbe definita come puro qualunquismo. È anche fuorviante: i politici non fanno «bla bla bla», visto che i governi dell’Occidente hanno preso e stanno prendendo misure significative per indirizzare le nostre società verso certi consumi energetici (si pensi per esempio agli incentivi per l’auto elettrica). Quel «bla bla bla» di Greta, anziché essere liquidato dal mondo adulto come un’intemperanza tipica dell’estremismo adolescenziale, è stato trattato con il rispetto che si deve a una nuova filosofia politica. È un segnale di imbarbarimento culturale, l’appiattimento del mondo adulto verso un linguaggio infantile.
E come giustificare il silenzio degli scienziati? Koonin, lo studioso progressista e obamiano, ha una spiegazione illuminante. Si rifà a un dilemma esposto da Stephen Schneider, un esperto climatologo della Stanford University, nel lontano 1989. «Da una parte,» scriveva Schneider in Global Warming: Are We Entering the Greenhouse Century? «come scienziati siamo eticamente obbligati a usare il metodo scientifico. Promettiamo di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, e questo significa che dobbiamo esplicitare tutti i dubbi, le cautele, le obiezioni. Dall’altra parte, non siamo solo scienziati ma esseri umani. Vorremmo vivere in un mondo migliore. Per questo lavoriamo a ridurre i rischi di un cambiamento climatico potenzialmente disastroso. Per riuscirci è necessario un sostegno di massa, ci serve catturare l’immaginazione dell’opinione pubblica. Questo a sua volta richiede di conquistare visibilità sui media. E così ci sentiamo costretti a offrire scenari spaventosi, a fare dichiarazioni drammatiche, semplificate, mettendo da parte tutti i dubbi che abbiamo.» Il dilemma, concludeva Schneider oltre trent’anni fa, è «tra essere onesti o essere efficaci».
Koonin osserva che certi scienziati oggi tradiscono la propria etica professionale pur di conquistare visibilità e titoli sui giornali, diventare dei guru, delle star che indottrinano le masse. Anch’essi, tentati dal Nuovo Paganesimo, sono attratti dal ruolo sacerdotale che questa religione panteistica offre loro. È un patto mefistofelico: lo scienziato che accetta di tradire la sua etica professionale, che vende la sua anima e si trasforma in guru apocalittico in cambio della celebrità, entra a far parte di una casta a cui la nuova religione riconosce enorme autorevolezza. È l’attrazione del potere, a cui non tutti sanno resistere. «Non m’importa cosa è vero, importa solo ciò che la gente crede sia vero» ha detto il fondatore di Greenpeace Paul Watson, rivelando un pensiero che è comune a molte religioni. Se il tuo Credo ti consentirà di salvare l’umanità dalla dannazione, di purificarla dal Male, allora ogni mezzo è lecito per promuoverlo: anche la menzogna. Questa deriva viene confermata da un altro scienziato illustre, l’ex direttore del dipartimento di Studi ambientali alla University of California - Santa Barbara, Daniel Botkin: «Alcuni colleghi che condividono i miei dubbi sostengono che l’unico modo per costringere la nostra società a cambiare è spaventare la gente con la possibilità di una catastrofe, e quindi è giusto e perfino necessario che gli scienziati esagerino».
Se alcuni scienziati, investiti del nuovo ruolo sacerdotale, decidono che è giusto mentire alle masse per motivarle (proprio come in tante altre religioni antiche accadeva di dire il falso per una ragione superiore), un meccanismo simile è all’opera nei media. Anche i giornalisti hanno un’occasione di diventare gli eroi di una causa nobile: salvare il pianeta. Gli sforzi per indottrinare i media e spingerli verso un linguaggio apocalittico sono in atto da anni, e uno dei più efficaci mi ha coinvolto personalmente. È quello del consorzio internazionale Covering Climate Now: con sede a New York, promosso dal magazine «The Nation» e dalla Columbia School of Journalism, riunisce oltre un centinaio di quotidiani, settimanali, canali tv e siti Internet americani ed europei. Animato dalle migliori intenzioni – sempre la missione trascendentale di salvare l’umanità e la terra –, Covering Climate Now «istruisce» i giornalisti perfino sui dettagli del linguaggio da usare: da tempo raccomanda di sostituire «cambiamento climatico» (troppo neutro) con «emergenza climatica».
Un’idea geniale di questo consorzio è stata quella di sensibilizzare gli annunciatori delle previsioni meteorologiche. In passato, chi leggeva il meteo in Tv aveva un ruolo ancillare, non molto autorevole. Gli attivisti radicali dell’ambientalismo hanno capito che quello era un segmento dei media reclutabile e plasmabile. Grazie alla militanza, l’annunciatore meteo può diventare un guru, a sua volta membro della casta sacerdotale che guida la religione panteistica della salvezza universale. E così le previsioni del tempo sono diventate un momento d’indottrinamento delle masse: su molti network sentirete ripetere a ogni evento atmosferico estremo (uragano o nubifragio, picchi di temperature, incendi) che «è il cambiamento climatico». La scienza, quella vera, non lo ha mai dimostrato, e in effetti non c’è scritto nulla di simile nei voluminosi rapporti dell’Ipcc, come ci ricorda Koonin. Ma, di fronte a un fenomeno di conversione in massa a una nuova religione, la scienza è debole.
Nelle migliaia di pagine che condensano le conclusioni consegnate all’Ipcc, non c’è nulla che giustifichi le tesi sull’estinzione di massa, sul disastro agricolo o sui «miliardi di morti» di Alexandria Ocasio-Cortez, che fanno parte del discorso apocalittico ricorrente. Invece, tra le varie strategie per far fronte al cambiamento climatico, la comunità scientifica include sempre «l’adattamento», ossia tutto quanto si può e si deve fare per rendere le nostre comunità capaci di sopravvivere in un clima più caldo. L’adattamento richiede investimenti, cioè ricchezza, cioè sviluppo economico. New York sta investendo molto in previsione di un innalzamento degli oceani: basta chiedere a un grande architetto italiano come Renzo Piano quanto è cambiata la progettazione degli edifici (il suo Whitney Museum è un brillante esempio di costruzione «resiliente»). Solo la crescita economica può consentire alle grandi metropoli asiatiche o africane vicine alle coste di proteggersi quanto una città nordamericana. Lo stesso vale per un mondo futuro in cui l’energia eolica e solare possa essere immagazzinata in nuovi tipi di batterie, superando così un serio limite delle fonti rinnovabili (che smettono di generare elettricità quando il sole o il vento non ci sono): anche il traguardo di nuove batterie richiede investimenti per l’innovazione tecnologica, quindi la mobilitazione della ricchezza. Mentre la religione ambientalista è pauperistica, descrive il benessere materiale come il peccato supremo dell’umanità.
Il Nuovo Paganesimo vuole una catarsi, impone dei riti collettivi di espiazione e di autoflagellazione che con il sapere scientifico non hanno nulla a che fare. Papa Francesco ha cercato il dialogo con i neopagani: la sua enciclica Laudato si’ ha tentato di usare l’ambientalismo di san Francesco applicandolo alla società moderna, per costruire un ponte con la sensibilità delle nuove generazioni. È stato un gesto impegnativo, ma privo di risultati. I militanti dell’ambientalismo non si sono convertiti in massa al cattolicesimo. Le chiese cattoliche rimangono semivuote la domenica, soprattutto di giovani. La versione cattolica dell’ecologia non è competitiva con l’approccio radicale degli ultrà. E, soprattutto, in quel mondo giovanile è ormai evidente il distacco dal monoteismo in favore del panteismo: la Dea Madre è più vicina all’induismo, a certe religioni sciamaniche dell’Africa subsahariana, o ai culti maya. Papa Francesco, nonostante sia sudamericano, paga il fatto che il cristianesimo è irrimediabilmente associato con la storia dell’Occidente, una storia che i neopagani rigettano in blocco.
Le prediche di Greta Thunberg e dei suoi giovani seguaci, mentre sono riprese con venerazione acritica dai media occidentali, non hanno invece alcuna visibilità a Pechino. Quale significato e quali conseguenze ha l’assenza di una Greta in Cina? La superpotenza più inquinante del pianeta è governata da un regime che lascia pochi spazi di autonomia alla società civile. Xi Jinping diffida delle organizzazioni non governative (ong), e negli ultimi anni gli spazi per i movimenti ambientalisti cinesi si sono ristretti ancora di più. Questo significa che nel perseguire la lotta al cambiamento climatico Xi può proclamare le sue buone intenzioni davanti alla comunità internazionale, ma ha pochi conti da rendere in casa propria. Non esistono né i Verdi né una stampa libera, le proteste dal basso in occasione di catastrofi ambientali vengono represse o incanalate rigidamente dentro le strutture del Partito comunista. Questa mancanza di una vigilanza diffusa contribuisce a spiegare, tra l’altro, il fatto che il governo di Pechino ha pubblicato il suo ultimo rapporto esaustivo sulle emissioni di CO2 nel lontano 2014, poi basta. Per colmare le lacune di trasparenza della Repubblica popolare, il resto del mondo deve usare metodi indipendenti, come le foto satellitari. Sappiamo comunque che le emissioni carboniche della Cina sfiorano il 30 per cento del totale mondiale, più del doppio degli Stati Uniti, più della somma tra Stati Uniti e Unione europea.
Il primato assoluto del Partito comunista e la subordinazione della società civile non sono le uniche ragioni per cui non c’è una Greta cinese. Un leader come Xi, comunista e confuciano al tempo stesso, osserva il «fenomeno Greta» come una delle perversioni occidentali, una conferma eclatante del nostro declino. L’autorevolezza che i media occidentali riconoscono all’ambientalismo adolescenziale è inaccettabile in un paese di tradizioni confuciane. Nella cultura cinese sono gli anziani che vanno ascoltati e rispettati, la loro saggezza è un valore, nei rapporti gerarchici l’età è un fattore significativo. In un’ottica cinese, «il mondo salvato dai ragazzini» non è solo un miraggio del giovanilismo occidentale: peggio, è una pericolosa allucinazione. Un mondo governato dai ragazzini più che a un’Utopia felice rischia di assomigliare a Il Signore delle Mosche, il romanzo distopico di William Golding che nella banda di adolescenti finiti su un’isola deserta vede risorgere le pulsioni più feroci della barbarie adulta.
Nella storia della Cina stessa le rivoluzioni animate dai giovani sono associate al caos, alla violenza, allo spargimento di sangue. L’ultimo esempio fa parte della storia del Partito comunista: nella Rivoluzione culturale il vecchio Mao Zedong, per consolidare il proprio potere, aizzò i giovanissimi contro i loro insegnanti e genitori. Una generazione smise di studiare, le università vennero chiuse. Le Guardie rosse furono un fenomeno generazionale, contemporaneo al Maggio ’68 parigino ma molto più violento, una vera guerra civile. Lasciò traumi così terribili che, nel post-maoismo, un’altra rivoluzione giovanile, la protesta di Piazza Tienanmen (1989), fu soffocata nel sangue proprio paragonando quei giovani alle Guardie rosse. Che i giovani vengano idolatrati in Occidente, per Xi è un segno certo che la nostra civiltà è in una decadenza terminale e irreversibile.
L’allergia di Xi al giovanilismo occidentale misura anche l’immensa distanza fra il pragmatismo di chi deve gestire la transizione energetica di 1,4 miliardi di persone e le fughe in avanti delle utopie ambientaliste nei paesi ricchi. Xi crede davvero nelle energie rinnovabili, al punto che i suoi sostegni all’industria dei pannelli fotovoltaici hanno fatto piazza pulita di molti concorrenti occidentali e hanno consentito alla Cina di dominare il settore dell’energia solare. È numero uno anche nelle pale eoliche. Ambisce a conquistare un dominio globale sull’auto elettrica, le batterie e i componenti essenziali della loro produzione, inclusi i minerali rari. Ha il parco centrali nucleari più vasto del mondo, e lo considera a pieno titolo fra le fonti rinnovabili. Tutto questo non basta ancora, però. Messo alle strette nel 2021, con un boom delle esportazioni cinesi verso il resto del mondo, Xi ha dovuto prendere atto che la chiusura di tante miniere di carbone era stata prematura. Di fronte all’alternativa secca tra la disoccupazione e l’inquinamento, nel breve termine ha scelto di riaprire le miniere di carbone per far funzionare le fabbriche minacciate dai blackout elettrici. Xi non accetterebbe il rimprovero di un’ipotetica Greta cinese. Lui deve bilanciare il suo impegno per l’ambiente con la realtà energetica di oggi, con le tecnologie esistenti. La Cina è sempre meno una nazione emergente e sempre più una nazione avanzata, ma non ha dimenticato che si muore più di fame che di inquinamento. Tutto il Sud del pianeta guarda al modello cinese e riconosce che bruciare le tappe nella messa al bando del carbone avrebbe costi umani insopportabili.
In questo approccio realista, Joe Biden non è molto diverso da Xi. Anche l’America ha sofferto lo shock energetico del 2021, uno dei motori dell’inflazione che intacca il tenore di vita delle famiglie. È in una posizione più forte rispetto all’Europa e alla Cina, perché l’America è autosufficiente a livello energetico. Un’intesa inconfessata e poco pubblicizzata fra Biden e Xi ha portato a un boom di esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti alla Cina: nel 2021 sono più che triplicate. Il gas è un carburante fossile che emette CO2, ma in misura molto minore rispetto al carbone. È quindi una tappa intermedia per ridurre le emissioni, in attesa che fonti pulite siano pronte a subentrare. In questo senso Xi e Biden sono sulla stessa barca: devono governare il mondo reale, scendere a compromessi, bilanciare le priorità. Il loro ruolo non si addice alla logica del «tutto e subito». Ma tra i due è il presidente americano quello che subisce l’assedio del Nuovo Paganesimo, l’ambientalismo religioso che lo accusa di non fare mai abbastanza perché la fine del mondo è dietro l’angolo. L’Occidente è strattonato fra le fughe in avanti degli ultrà verdi e i riflussi negazionisti che vengono dagli strati sociali più colpiti dai rincari energetici: la rivolta dei gilets jaunes in Francia è stato un esempio di contraccolpo. Il tecnocrate elitario Emmanuel Macron, espressione della grande finanza globale, aveva disegnato una politica ambientalista radical chic, fatta per i ricchi che abitano nel centro di Parigi e si spostano in bicicletta; l’onere economico della carbon tax gravava sulle classi lavoratrici costrette a lunghi pendolarismi. Ha dovuto fare marcia indietro dopo che la Francia era scivolata nel caos per le prolungate proteste. Se Trump o un repubblicano simile a lui dovesse riconquistare la Casa Bianca nel 2024, avremmo un altro episodio di rivincita dei negazionisti. L’Occidente procede barcollando così, lacerato da opposti oscurantismi.
L’ambientalismo come culto irrazionale che ci risucchia verso un passato pagano è al centro della riflessione di un’importante studiosa francese delle religioni, Chantal Delsol. Nel suo saggio La fin de la chrétienté, la Delsol scrive: «L’ecologia oggi è una credenza, una religione. Credenza non significa che il problema ecologico non abbia dimostrazioni scientifiche. Ma dalle certezze scientifiche vengono estratte convinzioni irrazionali, con tutte le manifestazioni della religione. Oggi l’ecologia è una liturgia: è impossibile non citarla in ogni discorso. È un catechismo: viene insegnata ai bambini fin dalla scuola materna. È un dogma: chi osa dubitare è considerato un pazzo o un delinquente. … La Terra Madre diventa una dea pagana, non più solo per gli indigeni della Bolivia, ma per gli europei». La Delsol rintraccia la stessa origine culturale – la valorizzazione estrema della vita naturale – nei due pensatori più autorevoli cui si è ispirato il nazismo: Friedrich Nietzsche e Ludwig Klages. «Il vitalismo di Klages restituiva all’anima umana il suo senso più atavico: non più un’istanza immortale, bensì un principio vitale, come lo era per gli antichi romani.» Per Klages, tutto lo spirito occidentale, dominatore e scientifico, era «un attacco spaventoso che sterminerà la vita sul pianeta». La Delsol usa anche il termine «cosmoteismo» – insieme a panteismo o politeismo – per descrivere l’afflato religioso dietro la difesa della natura. «I nostri contemporanei occidentali» sostiene la studiosa francese «non credono più all’aldilà o alla trascendenza. Il Sacro è qui: è il paesaggio. … È un mondo incantato, la cui magia sta al suo interno, non in un aldilà ipotetico e angosciante.»
Nell’analisi della studiosa non è solo l’ambientalismo il sostituto del cristianesimo. La Delsol vede un rovesciamento valoriale completo. Elenca i segnali di un trapasso di civiltà, da un sistema di credenze religiose a un altro, simile a ciò che accadde nel IV secolo d.C., quando l’Impero romano abbandonò il paganesimo per adottare il cristianesimo. In questi trapassi da una religione all’altra, spiega la Delsol, avviene un’«inversione normativa»: tutto ciò che nella religione precedente era un valore diventa un male, tutto ciò che prima era proibito diventa lecito e perfino ammirevole. Ciò che accade oggi nei paesi occidentali sul piano dei valori, della morale, del costume sembra speculare alla rivoluzione religiosa del IV secolo. Gli antichi romani consentivano il divorzio, il nuovo ordine cristiano lo proibisce; l’Occidente nel XX secolo torna alla regola pagana. I cristiani avevano vietato aborto e infanticidio, che erano pratica comune nella Roma pagana; oggi l’Occidente cancella le norme cristiane e riprende quelle pagane, salvo l’infanticidio, naturalmente. L’omosessualità, il suicidio vennero criminalizzati dalla Chiesa rompendo con la tolleranza pagana; oggi ritorniamo al sistema di valori precristiano. Facciamo questa inversione senza essere consapevoli della sua storicità. L’inversione normativa viene vissuta dai suoi più ardenti sostenitori come un trionfo della giustizia sul Male, mentre è solo il prevalere della nuova religione, che «marca il territorio» attraverso la demolizione sistematica del passato.
Molti di noi sono convinti di assistere alla marcia trionfale del Progresso, anche se questa «evoluzione» consiste nel tornare indietro di duemila anni. In nome del Progresso, nelle scuole americane vengono proibiti libri come La capanna dello zio Tom e Via col vento perché considerati razzisti, gli spettacoli di Broadway escono in versione censurata perché ritenuti sessisti, a Hollywood e nel catalogo di Amazon certi film classici scompaiono perché non rispettano i gay e le minoranze etniche: tutto questo rappresenta un déjà vu, è il processo morale al passato giudicato con i nuovi standard etici di un presente che si definisce Progresso e pertanto diventa assolutista, totalitario, intollerante. «Immaginiamo» scrive la Delsol «che la nuova morale di oggi sia perfetta, e che tutte le epoche passate debbano essere giudicate in base ai nuovi criteri.» Nel IV secolo d.C., invece, il Progresso erano (credevano di essere) i cristiani, che con la stessa violenza si adoperavano a distruggere le vestigia dei modelli etici che avevano governato per secoli la Roma pagana (inclusi certi diritti delle donne come il divorzio).
Il filo rosso che unisce molte riforme valoriali dell’Occidente contemporaneo non è il Progresso – nozione priva di radici storiche – bensì l’individualismo. Tutte le nuove regole sui rapporti fra i sessi (o sulla libertà di non scegliersi un sesso preciso), sull’identità etnica, sui rapporti tra giovani e adulti, sulla procreazione trovano una coerenza nel dare a ciascun individuo la massima libertà di agire in base ai propri desideri. La legittimazione data all’uso di massa delle droghe a partire dagli anni Sessanta fu un segnale chiaro dell’ascesa di una mentalità edonista, fondata sulla ricerca del piacere liberata da ogni freno inibitorio, che ha continuato a conquistare terreno. L’unico limite è la tecnologia, e questa si evolve aprendo continuamente nuove possibilità, per esempio nel campo della procreazione. Ma la Delsol qui vede una contraddizione: il Nuovo Paganesimo che è l’ambientalismo pone di colpo un limite feroce alle nostre libertà, quando si tratta della natura. Si possono fare a pezzi l’istituzione della famiglia, le distinzioni di ruoli sessuali, il rispetto verso gli anziani o verso il patrimonio culturale dell’Occidente. Ma non si può tagliare un albero. «La passione per la natura» scrive la studiosa delle religioni «fa accettare tutto ciò che era rifiutato dall’individualismo onnipotente, cioè la responsabilità personale, il dovere verso le generazioni future e verso la comunità.» La nuova religione pagana impone un’inversione valoriale completa rispetto al cristianesimo e promette una disintegrazione sociale, salvo quando interviene la Dea Madre, che esige sacrifici spietati. Lei sì ha il diritto di fermare il progresso con la p minuscola – economico, tecnologico – e di imporre un ritorno a modi di vita premoderni. Come la barca a vela di Greta.
Chi scrive non ha una fede religiosa da difendere. Educato come tanti italiani al cattolicesimo da bambino, me ne sono allontanato in età adulta. Ho vissuto abbastanza a lungo in Asia da osservare da vicino alcune religioni orientali, per le quali ho provato tanta curiosità culturale, ma nessuna voglia di convertirmi. Trapiantato ventidue anni fa in America, ho imparato a misurare il peso delle sue origini puritane: oggi osservo che la tradizione puritana degli americani li rende ancor più ricettivi verso il balzo nel Nuovo Paganesimo. Non mi stupisce, visto che il mondo protestante aveva già generato il Romanticismo tedesco, che preparava la strada al ritorno del culto di Madre Natura.
Osservo la fede degli altri con rispetto. Noto che raramente le religioni muoiono senza conseguenze. Spesso la fede – intesa come sistema di valori condiviso, che regola la vita delle società, il costume, i doveri degli individui – ha accompagnato il cammino dei popoli, di intere civiltà, di grandi imperi. Se l’Occidente si è considerato l’erede di valori giudeo-cristiani, questo non significa che non vi siano state battaglie tra sistemi concorrenti al suo interno. Il dibattito sulle «radici cristiane» dell’Europa, giunto fino all’Europarlamento, conteneva delle semplificazioni.
Una tradizione alternativa, estratta dalla filosofia greca, ha sempre convissuto in cooperazione o in concorrenza con quella giudeo-cristiana. Il paganesimo non è mai morto del tutto: nelle versioni popolari la fede cristiana ha spesso recepito eredità politeiste, come il culto dei santi, gli ex voto, lo scambio tra adorazione e protezione. La Riforma protestante è stata una frattura valoriale forte; così come l’ateismo illuminista e la rivoluzione comunista. Eppure, nessuno di quei rivali del cristianesimo dominante aveva generato la sistematica «inversione normativa» che la Delsol descrive con efficacia: per cui nel giro di pochi decenni stiamo legalizzando tutto ciò che era proibito e demonizzando tutti i valori di una volta. È questo un segnale aggiuntivo che il suicidio dell’Occidente non è un’immagine esagerata. Di sicuro la pensano così Xi Jinping, Putin e altri leader di società autoritarie che continuano a difendere sistemi valoriali diversi dai nostri: fondati sui doveri dell’individuo, sulle gerarchie, sul rispetto dell’autorità, sul valore della tradizione.
La transizione verso il Nuovo Paganesimo, che sostituisce quasi due millenni di tradizione cristiana, non ha bisogno di un consenso maggioritario per imporsi. Qui viene in aiuto un altro autorevole studioso francese, il classicista Paul Veyne, riconosciuto come uno dei massimi esperti dell’antichità romana. Nel suo saggio Quando l’Europa è diventata cristiana (Garzanti 2008), Veyne ricorda che la sostituzione della fede cristiana al paganesimo, come religione di Stato, non avvenne per spontanea conversione delle masse. Il proselitismo dei cristiani incontrava forti resistenze nel popolo romano, affezionato al paganesimo e a tutte le sue tradizioni. Fu decisivo un atto del sovrano, la conversione dell’imperatore Costantino, che diede al cristianesimo uno status privilegiato. Dopo Costantino altri imperatori (con l’eccezione di Giuliano l’Apostata) favorirono i cristiani. Prima della conversione delle masse ci fu quindi un cambio di religione voluto dall’alto e adottato, spesso per opportunismo e carrierismo, dall’establishment imperiale.
Questa storia potrebbe ripetersi. Negli Stati Uniti certe avanguardie radicali – che si definiscono «progressiste» per vantarsi di avere la Storia dalla propria parte – hanno già stabilito un’egemonia sul mondo dei media, dell’editoria, dell’università e dei vertici del capitalismo digitale. Non importa se Alexandria Ocasio-Cortez rappresenta solo una piccola frangia dell’elettorato democratico americano e la maggioranza del partito resta moderata. Quel che conta, alla lunga, è se la nuova religione con la sua «inversione normativa» diventa il credo delle élite, riconosciuto come tale. Conta se al credo ultra-ambientalista si convertono star di Hollywood come Leonardo DiCaprio, Ben Affleck e Angelina Jolie, la top model Gisele Bündchen, il calciatore Cristiano Ronaldo. Gli influencer sono l’élite che va convertita, il popolo seguirà. Come ai tempi di Costantino, una transizione religiosa può procedere dall’alto.
Lo storico inglese Edward Gibbon fu il più autorevole fra i tanti sostenitori della tesi che il passaggio dalla religione pagana al cristianesimo accelerò la fine dell’Impero romano. È una tesi contrastata. Oggi molti storici hanno una visione più variegata delle concause che hanno portato al crollo di Roma: iperdilatazione delle spese militari, collasso fiscale, crisi dello spirito civico, impatto delle immigrazioni, pandemie, perfino un cambiamento climatico. L’abbandono del paganesimo non fu decisivo, tanto più che il cristianesimo non impedì all’Impero d’Oriente di sopravvivere per molti altri secoli. La questione religiosa, però, non può essere cancellata completamente. In che misura, per esempio, il cristianesimo al quale si convertirono tante tribù barbariche contribuì a rendere l’Impero più permeabile, meno determinato nella difesa della propria cultura e dei propri valori? In che misura il cristianesimo può avere indebolito il senso dello Stato, sostituendogli la fedeltà a un’autorità superiore? Non essendo uno specialista, posso solo consigliare di proseguire nelle letture degli esperti. La fine di Roma continuerà ad appassionare: la studiano i dirigenti cinesi così come quelli americani. I primi sono sicuri di leggervi il destino dei secondi. Gli avversari dell’Occidente puntano su uno scenario analogo: il suicidio degli Stati Uniti e dell’Europa agevolato dalla nuova religione che professa la sua ostilità verso tutto ciò che l’Occidente è stato.
V
Stremati dalla burocrazia: la crisi del «saper fare»
L’America, la Germania, l’Italia hanno in comune un problema sorprendente. Lo Stato ha perso la capacità di fare. Dell’Italia sappiamo. Ci fu un’epoca (la ricostruzione postbellica, il miracolo economico) in cui realizzò grandi opere, come l’Autostrada del Sole, in tempi ragionevoli; in quel periodo l’industria pubblica era un fiore all’occhiello del made in Italy. Lontano ricordo. Ora l’Italia rischia di non riuscire a spendere presto e bene qualche centinaio di miliardi di fondi europei, cruciali per sfide strategiche come la modernizzazione del fisco e della giustizia civile, la digitalizzazione e la conversione a un’economia postcarbonica. Lo Stato italiano è diventato un pachiderma che blocca e rallenta le decisioni. Più il burocrate è scadente più è invasivo, prepotente, ai limiti dei comportamenti sociopatici. L’orgia di microregolamentazioni durante la pandemia ha inflitto vessazioni esagerate, contribuendo ad alimentare un ribellismo anti-Stato. Ma per quanto la burocrazia italiana sia in fondo alle classifiche dell’efficienza tra i paesi ricchi, molti altri non stanno veramente meglio di noi. Ricordate la saga del nuovo aeroporto a Berlino? Accumulò per anni ritardi «italiani» e poi fu colpito da sconcertanti problemi tecnici all’inaugurazione. In quanto agli Stati Uniti, chi pensa che abbiano una burocrazia efficiente è rimasto fermo a un ricordo di altre epoche.
Quando si parla di suicidio dell’Occidente, Xi Jinping vede in cima ai nostri problemi proprio questo: non riusciamo più a decidere grandi piani per il futuro e a realizzarli con la velocità che sarebbe necessaria. Tutto è lento, complicato, talvolta impossibile. La sfiducia dei cittadini nelle liberaldemocrazie si spiega anche così. Un sistema politico non viene giudicato su valori astratti; la pagella quotidiana dei cittadini è legata ai risultati visibili dell’azione di governo. Questa azione, con rare eccezioni, ci delude o ci irrita. Tanto più che rispetto agli anni Sessanta lo Stato – in tutto l’Occidente – è diventato elefantiaco, spende e ci costa molto di più.
Come l’Italia o la Germania, anche l’America ha bisogno di investire nella propria modernizzazione, a cominciare dalle infrastrutture; pure Biden ha dei fondi disponibili, nel suo caso grazie a una legge varata dal Congresso, ma riuscire a spenderli presto e bene è una scommessa ardua, quasi impossibile. Agli italiani può sembrare strano veder paragonare il proprio paese agli Stati Uniti su terreni come le lungaggini dei permessi per aprire i cantieri, l’assurda complessità delle regole che sembrano scritte da sadici, gli ostacoli che rallentano o bloccano le grandi opere in nome di un ambientalismo sincero o pretestuoso, nonché la tendenza delle ditte appaltatrici a gonfiare i costi finali sforando tutti i preventivi. L’America è molto più simile all’Italia di quanto si creda, sotto questo aspetto. Per cominciare: anche qui crollano i ponti. Uno degli ultimi è venuto giù a Pittsburgh, Pennsylvania, nel gennaio 2022 proprio mentre Joe Biden era in visita per parlare di investimenti in infrastrutture. Per fortuna, una nevicata aveva limitato il traffico e ci sono stati solo dei feriti, altrimenti sarebbe stata una tragedia. In America come in Italia, passare dallo stanziamento di fondi pubblici alla loro spesa è difficile; i cantieri che aprono non si chiudono mai; il conto per il contribuente sale a dismisura, alimentando sfiducia sui benefici degli investimenti statali. Il problema è drammatico per Biden, che proprio a questi investimenti lega il destino della sua amministrazione (anche per l’Italia, ovviamente, la capacità di spesa dei fondi europei è il test più importante).
Ho un ricordo personale su questo tema. Risale al capitolo iniziale della mia vita americana, quando mi trasferii da Milano a San Francisco nel luglio 2000. Poiché ero stato in precedenza corrispondente a Parigi per «Il Sole - 24 Ore», avevo visto svilupparsi in tutta la sua efficienza la rete dei Tgv francesi, la ferrovia ad alta velocità che era stata la pioniera in Europa. Conoscevo anche il Giappone e i suoi treni-proiettile che sfrecciavano a velocità record già da molti anni. In California scoprii che le autorità locali stavano finalmente progettando di recuperare il loro ritardo. La distanza tra San Francisco e Los Angeles è di 617 chilometri su strada, cioè poco più della distanza Milano-Roma, quindi l’ideale per l’alta velocità ferroviaria. Finora la si può percorrere in tempi ragionevoli solo usando l’auto privata o l’aereo: i due mezzi più inquinanti. Eppure l’America è «nata» con le ferrovie! La vera unificazione degli Stati Uniti si ebbe soltanto grazie ai binari e alle locomotive a vapore, quando venne ultimata la costruzione della linea intercontinentale che univa la East Coast alla West Coast, a metà dell’Ottocento. Coincise con la «febbre dell’oro» (dal 1848) che trasformò San Francisco in una vera città.
La ferrovia fa parte del Dna della California e non c’è motivo perché non torni a esserlo. Evitando la costa del Pacifico, troppo frastagliata, la Central Valley offre ampi spazi per un tracciato ferroviario pianeggiante. E nel tragitto fra le due metropoli non ci sono città di un’importanza paragonabile a Firenze e Bologna, sicché il servizio potrebbe essere non-stop, senza fermate intermedie. Per uno Stato come la California, che si vanta di essere all’avanguardia dell’ambientalismo, offrire finalmente un’alternativa al trasporto aereo e su gomma sarebbe doveroso. L’iter nell’assemblea legislativa locale un ventennio fa sembrava ben avviato e si parlava di passare all’esecuzione. Ci vollero ben otto anni, invece, per compiere un primo e modestissimo passo: i cittadini della California approvarono con un referendum popolare l’emissione di bond locali per finanziare l’inizio dei lavori.
Nel frattempo io mi ero trasferito in Cina (dal 2004). La Repubblica popolare si era lanciata nella costruzione della sua Tav e ne aveva già in servizio migliaia di chilometri, con treni iperveloci che sfrecciavano soprattutto nella fascia costiera da Pechino a Shanghai, Hangzhou, Guangzhou, Shenzhen. Tornai in America nel 2009 e di Tav si continuava a discutere. Senza fare niente. Da allora la California ha costruito un pezzettino minuscolo del tracciato, tra mille difficoltà e polemiche. Le previsioni sul budget continuano a gonfiarsi: all’origine la Tav da San Francisco a Los Angeles si sarebbe dovuta aprire nel 2020 e la previsione di spesa finale era di 33 miliardi di dollari; l’obiettivo è stato spostato al 2033 e il budget è triplicato a 100 miliardi; con ogni probabilità non saranno rispettati né l’uno né l’altro. Il governatore democratico Gavin Newsom ha di nuovo inserito generosi stanziamenti (e sovvenzioni federali) nel budget 2022. I contribuenti pagano, la Tav resta un miraggio. L’ambientalismo è uno degli imputati, non l’unico e forse neppure il principale. Non ci sono movimenti anti-Tav violenti, però ci sono microresistenze locali che con mobilitazioni politiche o ricorsi giudiziari riescono a bloccare, sabotare, rallentare ogni minimo passaggio. Con spese faraoniche è stato costruito un tratto ridicolo, che non va da nessuna parte, una cattedrale nel deserto fatta di binari che stanno sdraiati in mezzo alla Central Valley, monumento a un’America indecisa a tutto. Per adesso, chi vuole viaggiare in treno da Los Angeles a San Francisco – cioè quasi nessuno – deve affrontare un’odissea di 9 ore e 35 minuti, con due cambi di convoglio. Sono tempi degni delle ferrovie indiane – un’altra democrazia afflitta dalla metastasi burocratica –, non di quelle cinesi.
La Tav californiana fu solo uno dei disastri che mi colpirono nel 2009 al mio ritorno da Pechino. La Cina stava facendo balzi in avanti prodigiosi nella qualità di tutte le sue infrastrutture. Per le Olimpiadi del 2008 aveva inaugurato il magnifico aeroporto intercontinentale ristrutturato dall’archistar Norman Foster, uno fra i tanti gioielli non solo estetici bensì di efficienza al servizio del paese. Volare da Pechino a New York era come trasferirsi dal futuro al passato, visto lo stato penoso di un aeroporto come il JFK: fatiscente, disorganizzato, caotico. Il confronto era imbarazzante anche per il sistema stradale e autostradale. La rete di distribuzione elettrica? In molte città americane è ancora fatta di cavi penzolanti, quelli che provocano gli incendi in California. Intemperie tutt’altro che eccezionali – nevicate abbondanti o nubifragi – fanno scattare blackout prolungati, privando di energia elettrica per giornate di seguito centinaia di migliaia o perfino milioni di abitazioni, dal New England al Texas. Su Internet e il wi-fi di lì a poco la Cina avrebbe surclassato l’America in svariati campi, dai pagamenti digitali al 5G. Ma quando al mio ritorno dalla Cina, nel 2009, confidai agli amici americani le mie preoccupazioni per il divario che si stava allargando nella qualità delle infrastrutture, li trovai scettici, o distratti, o addirittura apertamente irritati. Alcuni mi dissero in faccia che ero diventato «filocinese e antiamericano». L’establishment era ancora afflitto da un anacronistico complesso di superiorità; prendere lezioni dalla Cina sembrava umiliante.
Da allora è passata tanta acqua sotto i ponti. La drammatica decadenza di tutte le infrastrutture americane – più avanti parlerò dei porti, epicentro di micidiali strozzature nella catena logistica – è diventata un luogo comune nei discorsi dei leader, da Donald Trump a Joe Biden. Tutti ne parlano, finalmente con un po’ di autocritica. Biden nel 2021 ha incassato il sì del Congresso che gli ha consentito di varare un piano di spesa da 1200 miliardi di dollari in dieci anni, tutto dedicato alle infrastrutture: 555 miliardi sono destinati a progetti nuovi, il resto a rifinanziare cantieri in attesa di fondi. Il successo politico può ancora trasformarsi in una vittoria di Pirro. Quei 1200 miliardi sono soldi sulla carta. Biden ora affronta lo stesso problema che l’Italia ha con i fondi europei: riuscire a spenderli.
L’elenco dei cantieri «eterni» non si ferma alla Tav in California. A New York, un disastro simile affligge il potenziamento degli accessi ferroviari da est verso la Grand Central Station, indispensabile per decongestionare il traffico pendolari in una delle stazioni più grandi del mondo. Il contratto per i lavori fu assegnato nel 2006 e il cantiere doveva concludersi nel 2011, per un costo di 2,2 miliardi. Ora la promessa è di chiuderlo nel 2022, cioè con oltre un decennio di ritardo, ma potrebbe essere disattesa anche questa. Nel frattempo i costi sono già quintuplicati, a 11 miliardi. Sulla East Coast settentrionale, l’unica parte del paese che s’illude di avere una sorta di treno ad alta velocità, il servizio Acela della compagnia federale Amtrak è un reperto storico, un ferrovecchio lento e rumoroso, ma carissimo. Eppure collega una tecnopoli con le migliori università del mondo (Boston), la capitale della finanza (New York) e la capitale federale dell’impero americano. In tutto il resto del paese, dalle Hawaii allo Stato di Washington, è una triste litania. L’America due generazioni fa era all’avanguardia nella modernità delle sue infrastrutture, per esempio quando il repubblicano Dwight Eisenhower guidò la costruzione delle autostrade federali nel 1956. Ora sembra incapace di rinnovarle o perfino ripararle quando è necessario.
L’elenco delle cause non si ferma agli studi d’impatto ambientale, sempre più complicati e interminabili. Il professor Bent Flyvbjerg dell’università di Oxford ha analizzato varie motivazioni concatenate fra loro, che spiegano i ritardi crescenti e l’iperinflazione nei costi. L’amministrazione pubblica è sempre meno capace, a livello sia locale sia federale, di seguire con efficienza e celerità i processi d’investimento. Le normative sono sempre più complesse e offrono appigli infiniti a chi ha qualche ragione (ambientalista e non) per voler bloccare un cantiere. Il decadimento burocratico porta i governi ad affidarsi a eserciti di consulenti esterni. Cresce così un’industria del parassitismo legale, che succhia risorse senza velocizzare i progetti. I consulenti strapagati hanno un’unica funzione: garantire ai burocrati di non essere perseguibili per qualche errore legale. Il sottobosco delle ditte appaltatrici ha spesso l’ultima parola, perché i suoi lobbisti e avvocati sono ancora più abili delle squadre legali assoldate dai governi. Molti contratti sembrano scritti su misura per rafforzare i diritti delle ditte appaltatrici; l’obbligo di usare manodopera sindacalizzata aggiunge un altro strato di burocrazia, quelle Union che nel pubblico impiego sono paralizzanti. La trasparenza agli occhi dell’opinione pubblica è inesistente. Un ex sindaco di San Francisco, Willie Brown, proclama questa scomoda verità: «I budget iniziali delle grandi opere sono solo un acconto di pagamento. Tutti sanno che sono falsi. Se fossero veritieri, gli elettori si rifiuterebbero di finanziare quei progetti». Il risultato è che gli Stati Uniti sono scivolati al tredicesimo posto nel mondo per la qualità delle infrastrutture. Per migliorare la situazione, non è detto che bastino i 1200 miliardi decennali che il Congresso ha concesso a Biden, visto che quegli stanziamenti teorici rischiano di fare la stessa fine dei fondi già inghiottiti dalla Tav californiana.
Il collasso delle infrastrutture americane si è manifestato nel 2021 in due fenomeni che hanno toccato ogni consumatore: l’inflazione e la scarsità di alcuni prodotti. Un luogo che condensa questi problemi è il porto di Long Beach - Los Angeles. L’epicentro di un ingorgo globale. Tra gli altri danni ha provocato perfino un nuovo rialzo dei livelli di inquinamento in California. L’allarme è finito in prima pagina sul «Los Angeles Times» con corredo di foto sulla «nebbia» sospetta che vela il cielo. La più grande città della West Coast è un laboratorio storico dell’ambientalismo americano. Ai tempi di Blade Runner (1982), il cult movie di fantascienza diretto da Ridley Scott e tratto da un romanzo di Philip Dick, era descritta come un inferno di fumi, piogge acide, cieli sempre oscurati. Poi per quarant’anni la California ha preso misure antinquinamento e Los Angeles è diventata sinonimo di cieli azzurri, aria tersa, palmizi al sole.
Una battuta d’arresto alla fine del 2021 è stata provocata dalla congestione di maxinavi in rada. Per mesi le foto aeree hanno ripreso uno spettacolo insolito: oltre il porto di Long Beach, un pezzo di oceano Pacifico trasformato in un gigantesco parcheggio galleggiante. In media dalle 70 alle 100 navi sostano al largo, ogni giorno, perché non ci sono banchine libere per attraccare e scaricare container. L’attesa per ogni King Kong degli oceani supera spesso le due settimane, durante le quali i mostri marini bruciano carburanti fossili. Questo ingorgo è un concentrato dei problemi che hanno rallentato la ripresa. Le navi al largo di Long Beach perdono tempo prezioso e i ritardi si scaricano a valle, su chi aspetta le merci. Dagli ipermercati alle aziende in attesa di componenti, fino al consumatore finale, il 2021 ha visto penurie in molti settori: semiconduttori, automobili, pneumatici, giocattoli, apparecchiature mediche. Alcuni prodotti scarseggiano per ragioni specifiche come la guerra fredda Usa-Cina nelle tecnologie; quasi tutti risentono anche delle strozzature logistiche. «La madre di tutti gli ingorghi» affligge proprio il porto di Los Angeles, in prima fila nell’accogliere il vigoroso interscambio tra le due sponde del Pacifico. Il contributo del trasporto marittimo all’inflazione è sostanziale: in media le tariffe navali sono aumentate del 450 per cento e in alcuni casi di rotte «calde» come Shanghai - Los Angeles affittare un container può costare fino al decuplo rispetto a due anni fa. I giganti della distribuzione americana Amazon e Walmart sono costretti a noleggiare le navi in proprio per non dipendere troppo dal cartello delle grandi compagnie (tra cui figurano l’italiana Msc insieme con la danese Maersk, la francese Cma Cgm, la cinese Cosco, la tedesca Hapag-Lloyd).
L’ingorgo globale dei mari si ripercuote sull’inflazione. In America, alla fine del 2021 i prezzi al consumo sono aumentati del 7 per cento, il massimo da quarant’anni. Fioccano i paragoni di malaugurio, sulla stampa americana Joe Biden viene comparato a due presidenti sfortunati degli anni Settanta: Gerald Ford, che esibiva all’occhiello il distintivo Win (iniziali di whip inflation now, frusta l’inflazione adesso), e Jimmy Carter, che in Tv lanciò un appello a ridurre la temperatura del termostato in mezzo allo shock energetico. Né l’uno né l’altro furono rieletti. La loro epoca rimase segnata dalla stagflazione, perverso intreccio di stagnazione e inflazione.
I container di merci bloccati al largo di Long Beach, e i rincari dei prezzi, possono scatenare una sindrome simile? Una parte dell’inflazione si spiega con un «effetto imbuto» creato dalla pandemia. Nel 2020 l’economia mondiale si è fermata per mesi. Nel frattempo i consumatori chiusi in casa, ma generosamente aiutati da sussidi statali (5000 miliardi di dollari nelle tre manovre varate da Trump e Biden), ordinavano online ogni sorta di prodotti. Quando le fabbriche hanno ricominciato a funzionare, gli ordini arretrati da smaltire hanno creato disservizi dappertutto e hanno intasato infrastrutture poco elastiche. Biden ha convinto i portuali di Los Angeles a lavorare anche di notte; però il numero di banchine è fisso, non se ne costruiscono di nuove in pochi mesi. Da anni i grandi scali navali delle due coste sono penalizzati da strozzature. Armatori e spedizionieri italiani che lavorano con l’America e con la Cina ripetono in questo caso un ritornello familiare: i porti di Tianjin, Shanghai, Ningbo, Shenzhen sono ben più moderni ed efficienti rispetto a quelli di New York, Savannah, New Orleans, Los Angeles, Seattle. Il livello di automazione più avanzato spiega il «miracolo» dell’export cinese che ha sfidato i lockdown. Il 2021 si è chiuso con il record storico assoluto per l’attivo commerciale cinese, 676 miliardi di dollari di surplus. La macchina da guerra delle esportazioni made in China avrebbe potuto soffrire per la politica «Covid zero» applicata da Xi Jinping: a ogni minimo focolaio di contagio si sono abbattute restrizioni implacabili. Alcune hanno colpito i porti. Mai abbastanza drastiche, però, da fermare l’invasione di prodotti cinesi nel resto del mondo. L’automazione ha aiutato a ovviare alle carenze di personale quando le restrizioni hanno colpito portuali cinesi. È un altro caso in cui l’America perde colpi, le sue autorità pubbliche hanno smarrito la capacità di pianificare, i guai dei porti andavano accumulandosi da anni senza che nessuno facesse niente.
La burocrazia è invasiva anche in un settore che consideriamo giustamente un fiore all’occhiello della superpotenza americana: l’università e la ricerca scientifica. È un segreto di Pulcinella: un bravo scienziato, un capodipartimento di un’università, un ricercatore con cattedra oggi negli Stati Uniti devono impiegare una parte considerevole del proprio tempo a compilare application per ottenere grant. Cioè domande di sovvenzioni. Soprattutto se i finanziatori hanno qualcosa a che vedere con il governo federale, queste pratiche con il passare degli anni sono diventate sempre più complicate, la documentazione richiesta è cresciuta, compilarle porta via tanto tempo, rubato alla ricerca scientifica. Una dimostrazione «per assurdo» si è avuta all’inizio del 2022 quando un colpo di scena ha concluso un’inchiesta per spionaggio contro un professore del Massachusetts Institute of Technology (Mit). Gang Chen, ingegnere esperto di energia, di origine cinese, era stato arrestato dall’Fbi con l’accusa di collaborare illegalmente con Pechino. Lo spionaggio a favore della Cina negli ambienti accademici americani è una realtà, e in diversi casi le indagini hanno incastrato vere spie, poi condannate in via definitiva con regolari processi. Nel caso di Gang Chen, invece, dopo molti mesi il castello di accuse è crollato. Si è scoperto che i detective dell’Fbi si erano letteralmente persi nei meandri delle pratiche universitarie per ottenere finanziamenti e avevano frainteso la documentazione amministrativa del Mit. La burocrazia che rischia di soffocare la ricerca scientifica è troppo complicata perfino per l’Fbi.
Se lo Stato ha smesso di funzionare come una volta, l’America può essere salvata dal suo capitalismo? La gara dei vaccini nel 2020-21 ha dato una risposta rassicurante. L’ha stravinta il modello americano: una mescolanza di pubblico e privato, visto che l’operazione Warp Speed voluta da Donald Trump è stata generosa di fondi federali per le aziende farmaceutiche. Si è ripetuto il sodalizio tra Stato e capitalismo, che aveva funzionato bene in passato. Per esempio: nel 1956, quando il presidente Eisenhower – un ex generale – aveva lanciato la costruzione della grande rete autostradale, la prima finalità era strategico-militare: poter spostare velocemente truppe e armamenti in caso di guerra con l’Unione Sovietica. L’alleanza tra governo, ricerca scientifica e capitalismo portò nuovi benefici negli anni Sessanta, all’epoca della corsa allo spazio. In una fase iniziale la gara vide gli americani in difficoltà, subirono lo «shock Sputnik», il sorpasso a opera di un satellite sovietico in orbita. Poi i massicci sforzi della scienza americana consentirono agli astronauti Usa di tagliare per primi il traguardo dell’allunaggio. Al di là degli aspetti simbolici e di prestigio, la gara spaziale, oltre alle finalità militari, divenne un terreno proficuo di cooperazione tra lo Stato e il mercato. La ricerca finanziata con i fondi federali, il ruolo di agenzie statali come la Nasa disseminarono scoperte e invenzioni che l’industria capitalistica privata usò per tante applicazioni utili nel settore civile e nell’economia di consumo. Infine c’è il modello Internet: l’embrione della Rete nacque da ricerche ed esperimenti finanziati dalla Darpa, un ramo del Pentagono che sostiene start-up e inventori-imprenditori. La Darpa, che è una specie di fondo d’investimento in venture capital a fini militari, è stata poi copiata nel campo biomedico, e da un’agenzia simile sono venuti tanti finanziamenti federali per la ricerca sull’immunizzazione dal coronavirus.
La sfida del vaccino anti-Covid è stata strategica, data la posta in gioco. L’Occidente ha trionfato sui suoi principali avversari. Big Pharma, l’industria farmaceutica americana, ha realizzato i due vaccini più efficaci, Pfizer e Moderna. Lo ha fatto a velocità record, un exploit senza precedenti nella storia. Le nuove tecnologie mRna potranno avere ricadute benefiche in altri campi della medicina. Il trionfo è stato prevalentemente americano: il laboratorio tedesco della BioNTech, infatti, ha dovuto appoggiarsi al gigante Pfizer perché dalla scoperta si potesse passare alla produzione industriale di miliardi di dosi. L’Europa si è trastullata nelle polemiche contro i profitti del capitalismo farmaceutico, ha vagheggiato campagne improbabili sulla gratuità dei brevetti, poi ha finito per accodarsi all’exploit americano. La Cina, con i suoi campioni di Stato Sinopharm e Sinovac, ha prodotto vaccini scadenti. Russia e India, altri protagonisti della ricerca farmaceutica penalizzati da modelli troppo statalisti, non hanno retto la competizione con l’Occidente.
Se una lezione provvisoria si può trarre dalla tragedia della pandemia – ancora in corso mentre scrivo –, riguarda uno dei punti di forza dell’America: il suo capitalismo. Su terreni meno essenziali delle vaccinazioni, si possono ricordare i trionfi di altre aziende americane come Zoom, una piattaforma digitale per videoconferenze che prima della pandemia era conosciuta solo in California o da addetti ai lavori; poi ha avuto una diffusione globale per smart working e insegnamento a distanza. Gli esempi dal capitalismo digitale statunitense sono innumerevoli: se l’economia americana ed europea non hanno subito danni molto più pesanti dalla pandemia e dai lockdown, in buona parte lo dobbiamo alla creatività del settore digitale, che ci ha consentito di continuare a svolgere molte attività. A fianco di Zoom, le piattaforme digitali di Microsoft o di Google non si sono schiantate quando di colpo hanno dovuto accogliere un’utenza che si era ingigantita in modo esponenziale. Prima di dare per certo il suicidio dell’Occidente, bisogna prestare attenzione a questa risorsa che è l’imprenditoria. Lo faccio focalizzandomi su alcuni protagonisti emblematici del capitalismo americano in questi anni Venti del terzo millennio.
Il primo è Elon Musk. La «progressista» Hollywood lo mette in scena nel ruolo del malvagio, il miliardario che salva se stesso e pochi intimi dall’Apocalisse planetaria fuggendo nello spazio. La Cina lo tratta come una superpotenza a sé stante, protesta presso le Nazioni Unite per le sue presunte prevaricazioni spaziali. Musk ha chiuso il 2021 come l’uomo più ricco del mondo (273 miliardi di dollari) ma non solo. È l’unico magnate-guru che riesce ad affascinare e irritare al tempo stesso i giovani. È all’avanguardia nelle nuove tecnologie, incluse le criptovalute, ma sfacciatamente ostile al politically correct; esibisce un’ideologia libertaria di destra. Il cinema non poteva ignorarlo. Nel film di fantasatira Don’t Look Up di Adam McKay il miliardario tech Peter Isherwell (Mark Rylance) è un’evidente parodia di Musk. Malevola: fallisce nel suo progetto di smembrare un meteorite per ricavarne minerali rari, poi abbandona la Terra al suo triste destino. Il vero Musk, in effetti, ha detto: «Voglio morire su Marte, ma non schiantandomi all’impatto». Sembra capace di trasformare lo spazio in un business credibile, non solo un gioco per miliardari egomaniaci. La Nasa ha una tale fiducia in lui che usa la sua società SpaceX per trasportare astronauti e apparecchiature sulla stazione spaziale internazionale. Con ventisette lanci in dodici mesi, nel 2021 SpaceX ha superato tutti i concorrenti americani. Sempre la Nasa lo ha scelto per costruire il prossimo Moon Lander, modulo lunare per lo sbarco.
Le sfide si moltiplicano. Musk ha sperimentato il primo missile completamente riutilizzabile per lanci molteplici, disegnato per la missione su Marte. «Segnerà» dice lui «la differenza tra l’umanità come una specie con un solo cammino e l’umanità come una specie dai percorsi multipli.» I costi esorbitanti della spedizione su Marte? Musk li vuole finanziare con la sua più grossa impresa commerciale nello spazio: fino a 30.000 satelliti Starlink per telecomunicazioni a banda larga, l’Internet alla portata di tutti coloro che ancora non hanno collegamenti adeguati (paesi poveri, regioni isolate, navi e aerei, ma anche per le transazioni ad altissima frequenza tra Borse). Ne ha già messi in orbita 1800 ed è qui che nasce il casus belli con Xi Jinping. Pechino sostiene che i suoi astronauti hanno dovuto fare «operazioni d’emergenza» con la stazione spaziale made in China per evitare collisioni con i satelliti di Musk. L’aspetto interessante è che il governo comunista non ha protestato presso la Casa Bianca, ma si è appellato all’Onu: riconoscendo implicitamente che Musk va trattato come uno Stato sovrano. L’imprenditore ha cercato di farsi perdonare da Xi aprendo un luccicante show room della Tesla nello Xinjiang, alla faccia della sinistra umanitaria che chiede boicottaggi contro quella regione musulmana, dove le autorità cinesi «rieducano» la minoranza uigura in campi di detenzione.
Chi continua a sospettare che Musk sia soltanto un imbonitore, un geniale ipnotizzatore delle folle, deve fare i conti con i solidi risultati della sua Tesla. Il 2021 è stato il primo anno pieno all’insegna dei profitti, e la marca di auto elettrica è balzata nel club delle società «trilionarie» (oltre 1000 miliardi di dollari di valore in Borsa). Contro chi la considera una bolla speculativa, ci sono dati commerciali e industriali consistenti. Le vendite Tesla sono aumentate dell’80 per cento nel 2021, mentre i volumi globali di auto vendute scendevano dell’1 per cento. Le altre case automobilistiche hanno sofferto tagli di produzione per la penuria di semiconduttori. Tesla no: ha aggirato il problema perché la sua autonomia nell’ingegneria elettronica è quasi unica al mondo, sicché ha «riscritto» il software delle vetture per integrare microchip alternativi. «Hanno il marchio Tesla i due terzi delle auto elettriche vendute negli Stati Uniti» proclama il chief executive, che si è cambiato qualifica. Ennesima provocazione: ha inoltrato una formale pratica presso l’authority di Borsa per ribattezzarsi «tecno-Re» della Tesla. I problemi non gli mancano. Tra i più seri: gli incidenti gravi in cui sono incappate alcune Tesla in modalità di autopilotaggio e le accuse della Cina (ancora) contro presunte attività di spionaggio di queste auto sul suo territorio. Ma gli investitori sono convinti che Musk supererà ogni ostacolo.
Il cinquantenne tycoon, essendo all’avanguardia nella tecnologia della sostenibilità, affascina i giovani, dai Millennial fino alle generazioni X e Z. Nel 2021, oltre alla copertina di «Time» a lui dedicata, è stato emblematico il suo show personale nel programma televisivo di satira «Saturday Night Live». La sua adesione alle criptovalute coincide con il boom di queste monete alternative, o lo alimenta: nel 2021 il 16 per cento degli americani ne ha avute (contro l’1 per cento di sei anni prima). Musk il politico prende molti giovani in contropelo. Ha duellato via Twitter con due esponenti della sinistra radicale, i senatori Elizabeth Warren e Bernie Sanders, che hanno la loro base tra i Millennial. Dopo che i due hanno proposto nuove tasse sui miliardari accusandoli di elusione, Musk ha reagito: «Sarò l’americano che ha pagato più tasse nella storia». Undici miliardi nel 2021, per la precisione. Rivolto alla Warren: «Non li spendere tutti in una volta». All’ottantenne Sanders: «Continuo a dimenticare che sei ancora vivo». A differenza di Donald Trump, che è stato cancellato dai social media più diffusi, Musk ha oltre 73 milioni di follower su Twitter. Ha inaugurato una sorta di populismo finanziario proprio sulla questione fiscale. Citando le polemiche contro i miliardari che eludono le imposte perché evitano di incassare plusvalenze di Borsa, ha chiesto ai suoi seguaci se doveva convertire stock option e vendere azioni per pagare le tasse. La consultazione su Twitter (con 3,5 milioni di votanti) ha dato il 58 per cento di sì, e lui ha venduto.
Il gesto più provocatorio Musk lo ha fatto «votando con i piedi». È stata la sua scelta di trasferirsi – per il domicilio personale nonché per la sede centrale della Tesla – dalla California al Texas. Ha adottato lo Stato vetrina dei repubblicani, voltando le spalle al bastione della sinistra. Il Texas non impone addizionale Irpef sui redditi, è per molti aspetti un paradiso fiscale, ha meno regole e burocrazia. La California ha una delle pressioni fiscali più alte degli Stati Uniti. Musk considera il modello californiano come un concentrato dei «fallimenti del socialismo»: costo della vita alle stelle, carenza di abitazioni popolari, esodo di residenti. Un tempo, in realtà, la California era il paradiso terrestre delle start-up, il luogo ideale per trasformare un’invenzione in impresa, per passare dal mestiere di scienziato a quello di capitalista. Musk mette il dito sulla piaga. Il Texas, con il suo Stato leggero, da anni ha sottratto alla West Coast il ruolo dell’Eldorado americano. Tra il 2010 e il 2020 ha visto aumentare di 4 milioni i suoi abitanti, oggi 30 milioni, e il 42 per cento si sono trasferiti proprio dalla California. L’immagine dello Stato di «cowboy e petrolieri» è superata. Austin contende a San Francisco le start-up tecnologiche. Fra la Tesla e la miriade di start-up c’è un ampio ventaglio intermedio di imprese che come Musk «votano con i piedi» e scelgono il Texas invece della California.
Un altro esempio è la multinazionale sudcoreana Samsung: investe 17 miliardi di dollari per costruire a Taylor (Texas) una nuova fabbrica di semiconduttori. La scelta è strategica, e ha implicazioni geopolitiche. I semiconduttori, cervello e memoria di ogni apparecchio elettronico, scarseggiano e questa penuria mette in difficoltà molte aziende che li usano come componenti per i loro prodotti finali. Un tempo la sede naturale per una fabbrica di semiconduttori sarebbe stata la Silicon Valley: deve il suo nome proprio al silicio, materiale di base dei microchip, in omaggio a un’epoca in cui il leader mondiale era la californiana Intel. Oggi, invece, i nuovi investimenti per fabbricare semiconduttori vengono insediati in Stati meno dissuasivi nelle regolamentazioni e nel fisco: il Texas, appunto, o l’Arizona (dove investono i taiwanesi e la stessa Intel).
L’argomento tradizionale della sinistra californiana – più tasse e più Stato servono a combattere ingiustizia e diseguaglianze – è contraddetto dai fatti. La California conta il 12 per cento della popolazione nazionale ma la metà di tutti gli homeless d’America. Ha destinato ai senzatetto 12 miliardi di dollari nell’ultimo bilancio, eppure l’enorme spesa pubblica non porta benefici visibili. Un’altra divaricazione tra le aree egemonizzate dalla sinistra e quelle dove prevalgono i repubblicani si è avuta con le scelte scolastiche durante la pandemia. Nelle metropoli in cui comanda il sindacato scuola, dettando legge a sindaci e provveditori, le chiusure si sono protratte e i lunghi periodi di didattica a distanza hanno impoverito l’apprendimento, soprattutto a danno degli alunni di famiglie disagiate. Nell’America meno sindacalizzata, e con un peso maggiore di scuole private o religiose, gli studenti sono stati favoriti. È un altro elemento che ha contribuito all’esodo delle famiglie.
Tra i due modelli alternativi, le due Americhe, Musk ritiene che il Texas con il suo Stato leggero abbia una marcia in più. Alle ultime elezioni (2020) lui ha finanziato equamente democratici e repubblicani, e ha dato il suo endorsement a un candidato democratico alla nomination (l’imprenditore tecnologico Andrew Yang). Eppure, Musk è una spina nel fianco dei democratici, il contraltare dei vari Bill Gates e Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Tim Cook: è l’unica celebrità di Big Tech il cui cuore batte a destra. Quando denuncia la vecchia sinistra statalista «tassa-e-spendi», c’è un’America giovane che lo ascolta, magari digrignando i denti. Musk incarna fisicamente il teorema sulla vera superiorità americana. Il fatto che la superstar dell’auto elettrica abbia prosperato sul territorio degli Stati Uniti sembra suggerirci che è proprio in questa specie capitalistica che bisogna cercare qualche ragione di fiducia sul futuro dell’America (non altrettante su quello dell’Europa, dove lo Stato lascia meno ossigeno agli imprenditori). Un limite di Musk, nato in Sudafrica, è che la sua «appartenenza» agli Stati Uniti sembra occasionale, opportunistica, temporanea come nel film Don’t Look Up. Forse ha ragione Xi Jinping quando lo considera un’entità extraterritoriale, con un’agenda personale che prescinde da quella della nazione americana.
Un altro personaggio simbolo di questa stagione del capitalismo è Larry Fink, 69 anni. «Investiamo nella transizione verde. Non perché siamo politically correct. Ma perché una relazione benefica con la comunità in cui viviamo è la forza del capitalismo.» Così parla il regista più potente del capitalismo finanziario americano, l’unico uomo al mondo che amministra un patrimonio superiore ai 10.000 miliardi di dollari. I fondi gestiti dal colosso BlackRock, di cui Fink è chief executive, valgono ben più della capitalizzazione di Amazon, Apple, Google e Microsoft messe insieme. «Credo nella sostenibilità, non perché sono ambientalista, ma perché sono un capitalista e faccio l’interesse dei miei clienti investitori.» «Una nuova attenzione verso i lavoratori è nel nostro interesse.» Questi e altri proclami progressisti, Fink li ha lanciati nel gennaio 2022 dal suo pulpito più autorevole: all’inizio di ogni anno BlackRock invia una lettera aperta alle aziende in cui investe. È la nuova filosofia del capitalismo americano, espressa da chi regna ai vertici dell’establishment. Per questo quando abbraccia un linguaggio verde, o sembra adottare i toni di un sindacalista, Fink fa scalpore. E suscita altrettante riserve, perplessità, sospetti.
Chi è il finanziere da 10.000 miliardi? La biografia di Fink è esemplare per l’identificazione tra i poteri forti della finanza e la sinistra. Nasce da una famiglia di ebrei americani a Los Angeles, tutta la sua formazione fino all’università e alla Business School avviene in quel bastione dei progressisti che è la California: sulla West Coast, detta anche Left Coast. La sua carriera finanziaria, invece, si svolge sulle rive dell’Atlantico, dalla banca First Boston di New York fino alla creazione di BlackRock. La parabola del finanziere incrocia i percorsi della politica, sempre dalla parte dei democratici. Accade nel 2008 durante lo schianto dei mutui subprime, madre di tutte le crisi finanziarie. Nel mezzo di quel periodo buio Barack Obama arriva alla Casa Bianca, si sceglie Tim Geithner come segretario al Tesoro: quest’ultimo si vede offrire i servizi di BlackRock per un’operazione indispensabile ma controversa, l’acquisto di montagne di titoli svalutati, di attività finanziarie illiquide. È essenziale per rianimare i mercati finanziari, pochissimi hanno le spalle abbastanza larghe per impegnarsi in questa missione, che presenta enormi rischi e altrettanto generose opportunità.
I legami che Fink costruisce con l’amministrazione Obama ne fanno un esponente autorevole della Wall Street progressista, i banchieri vicini al Partito democratico (che sono la maggioranza). Nel 2016 Fink figura in testa al toto-nomine come ministro del Tesoro… nel caso Hillary Clinton avesse vinto la corsa alla Casa Bianca. Ma il peso di BlackRock nella finanza americana è tale che anche Donald Trump sente il bisogno di inserire Fink in un forum di capi aziendali incaricati di consigliarlo sulla politica economica. Un remake del 2008 avviene dodici anni dopo, durante la pandemia: quando la Federal Reserve nella recessione da lockdown del 2020 rilancia massicci acquisti di bond per dare liquidità all’economia americana, la banca centrale si rivolge di nuovo a BlackRock.
La conversione di Fink all’ambientalismo ha inizio nel 2018. Quell’anno, per la prima volta, nella sua consueta lettera ai chief executive li chiama a diventare protagonisti nella lotta per la protezione dell’ambiente, nel promuovere la diversità etnica della forza lavoro e la tutela di tutte le minoranze. È quello che alcuni critici etichettano come la sua conversione alla woke culture, l’insieme di dogmi e tabù della sinistra radical chic che ha un’egemonia culturale nei campus universitari, nelle redazioni dei media, a Hollywood e, sempre più spesso, nei consigli d’amministrazione delle multinazionali.
«Capitalismo adattivo»: il concetto può avere un senso negativo se significa che cambia pelle come un camaleonte, seguendo le mode culturali delle élite che fanno opinione. Nel caso dell’ambiente si parla anche di greenwashing: operazioni di marketing, comunicazione e relazioni pubbliche per darsi una facciata verde senza cambiare la sostanza dei propri comportamenti. Comunque, il ruolo politico di Fink è un catalizzatore di attenzione, ma anche di critiche: sempre nel 2018 diverse organizzazioni pacifiste mettono in dubbio la sua coerenza, denunciando BlackRock come principale investitore nell’industria bellica americana. La protesta diventa pubblica quando l’ong Code Pink organizza una contestazione durante l’intervento di Fink al summit finanziario organizzato da Yahoo nel settembre di quell’anno. Nel frattempo, il pensiero politico di Fink ha conquistato un’influenza sempre maggiore, anche grazie al suo ruolo di opinionista esperto per la Tv Cnbc, i suoi incarichi nei consigli d’amministrazione del World Economic Forum di Davos e nel think tank geopolitico Council on Foreign Relations: due assise dove l’establishment capitalistico globale riflette ad alta voce sulla propria «missione».
Nella lettera di Fink versione 2022 c’è un’idea del nostro futuro, del ruolo che le grandi imprese devono svolgere per renderlo possibile; perfino una sorta di supplenza che il capitalismo può assumere in una fase di sfiducia verso i leader politici delle liberaldemocrazie. Sul cambiamento climatico anzitutto. BlackRock chiede alle aziende in cui investe di programmarsi un percorso credibile di azzeramento delle emissioni carboniche «nell’interesse economico degli stessi azionisti». Fink riprende un termine in voga negli anni Novanta nella sinistra dei Bill Clinton e Tony Blair, cioè il capitalismo degli stakeholder, in cui i capi d’azienda devono rendere conto della propria gestione a diverse categorie di «aventi diritto», gli azionisti così come i dipendenti, i consumatori e la comunità intera. Datare negli anni Novanta la teoria del capitalismo degli stakeholder, accolta con un plebiscito ai raduni del Gotha finanziario a Davos, serve a ricordare i suoi limiti. Non evitò i peggiori eccessi: la bolla speculativa di Internet nel 1999-2000; la crisi dei mutui subprime; vari disastri ambientali; le delocalizzazioni che hanno distrutto strati di classe operaia occidentale; l’arroganza dei chief executive che anche nei momenti di crisi si autoerogano gratifiche e megastipendi.
L’élite di cui Fink è un esponente di punta si è spesso comportata come una casta impegnata a fare secessione dalla comunità, anziché servirla. I peggiori eccessi del populismo, inclusa la rabbia operaia che ha portato Trump alla Casa Bianca, sono figli di una malsana collusione fra l’establishment di sinistra e i capitalisti alla Fink. C’è però una verità scomoda nelle parole che il capo di BlackRock somministra ai chief executive. Fink ricorda che «alle basi del capitalismo c’è un processo di reinvenzione costante». Osserva che «non c’è mai stato così tanto denaro disponibile per finanziare nuove idee e far sì che diventino realtà». Stima che gli investimenti per la sostenibilità, l’economia circolare a zero emissioni abbiano già raggiunto i 4000 miliardi di dollari. Definisce questo uno «spostamento tettonico di capitale», metafora del passaggio da un’era geologica a un’altra. «I prossimi mille unicorni [cioè aziende valutate almeno 1 miliardo in Borsa] saranno start-up che aiutano il mondo a liberarsi delle emissioni carboniche.» In questo senso il capitalismo è per natura adattivo: in cerca di risposte ai bisogni del presente. Joseph Schumpeter esaltava la sua «distruzione creatrice». Se il vecchio mondo basato sulla carbon economy è condannato, chi meglio dei capitalisti può traghettarci verso una rivoluzione energetica che è anche ricca di opportunità di business? A cominciare da questa missione che Fink assegna alle imprese: «Rendere la transizione energetica accessibile a tutti i consumatori». Così hanno funzionato tutte le ultime rivoluzioni tecnologiche. Chi pensa che possa essere lo Stato a sostituirsi s’illude. La gara dei vaccini qualcosa insegna.
Un altro esponente della vitalità creativa dell’America è Mark Zuckerberg, naturalmente. Aveva vent’anni quando nel pensionato universitario di Harvard immaginò il suo social network. Era il 2004 e non esistevano ancora gli smartphone. Pochi lo presero sul serio. Tre miliardi di utenti dopo, nel 2021 Zuckerberg ha una nuova visione. Cambia nome a Facebook, che diventa Meta (dal greco, «oltre»), sdoppia la sua creatura e punta a dominare quello che secondo lui è il mondo del futuro: la realtà virtuale. Metaverse è il termine a cui allude: «universo oltre». Ce lo descrive come «un luogo dove giocare, comprare beni virtuali, collezionare arte virtuale, trascorrere il tempo libero con i sosia virtuali (avatar) degli altri e partecipare a riunioni di lavoro sempre virtuali».
L’annuncio coincide con una grave crisi d’immagine di Facebook, bombardata di accuse per non aver vigilato abbastanza contro fake news, ideologie violente, aggressioni e odio che dilagano sul social media. Nelle rivelazioni che intitola The Facebook Files, il «Wall Street Journal» riferisce anche di uno studio interno all’azienda secondo cui «un utente su otto fa un uso compulsivo del social media con effetti sul sonno, il lavoro, i rapporti con i figli o le relazioni sociali», sintomi di una dipendenza che è ancora peggiore per Facebook rispetto ai social concorrenti. Sui media americani un coro di scettici ha liquidato la metamorfosi di Facebook-Meta come un trucco per distogliere l’attenzione dalle polemiche. Però sulla realtà virtuale il trentasettenne miliardario più famoso del pianeta aveva già messo al lavoro da tempo diecimila ingegneri. Ne assumerà altrettanti (gran parte in Europa) e investirà 10 miliardi di dollari. Facebook stava già conducendo una campagna acquisti in questo settore, assicurandosi il controllo di molte start-up innovative. Un’occupazione del territorio in vista della prossima rivoluzione digitale?
«Realtà virtuale»: per chi non ha contatti quotidiani con questo universo parallelo, immaginarne l’espansione evoca una distopia post-Covid, un mondo artificiale e asettico che cancella per sempre ogni contatto fisico. O magari un’utopia ambientalista: eliminando ogni mobilità fisica è più facile azzerare le emissioni carboniche. In alcuni scenari estremi affiora la pulsione verso qualche forma di immortalità: trasferendo via via caratteri e funzioni ai nostri avatar, un giorno riusciremo a custodire in queste creature virtuali ciò che il deperimento fisico distrugge? La fantascienza gioca con queste visioni da decenni. Di fatto la tecnologia che crea per noi un ambiente virtuale è già onnipresente, perfino banale, in alcune attività.
Un avatar (termine preso in prestito dall’incarnazione delle divinità induiste), nel significato più semplice che il gergo informatico dà a questo termine, è una rappresentazione grafica di noi stessi, proiettata nel mondo digitale. Architetti e costruttori fanno ampio ricorso a un mondo virtuale per progettare edifici ed effettuare test di sicurezza. I militari combattono guerre simulate, wargame, che appartengono a pieno titolo alla realtà virtuale. Formare un pilota in ore di volo vere costa così tanto che una parte dell’addestramento avviene in una cabina più simile a un videogame. Le applicazioni della realtà virtuale alla cura dell’Alzheimer e di altre malattie neurologiche sono in corso da anni. Il cinema ha imparato a sostituire comparse e figuranti con dei sosia grafici (costano meno) e il film Avatar (regia di James Cameron, 2009) appartiene alla preistoria di questo genere. Nell’industria dello spettacolo, Las Vegas ha inaugurato una serie di concerti «live» di Whitney Houston, in scena davanti agli spettatori si esibisce l’ologramma tridimensionale della cantante morta nel 2012. Per gli appassionati di videogame – un’industria che sfiora i 200 miliardi di dollari di fatturato annuo e che solo in Italia ha 17 milioni di adepti –, incarnarsi nella propria identità digitale è parte del gioco.
In futuro questo avatar potrebbe avere una vita sempre più ricca, se riusciremo a dargli i talenti che abbiamo sempre sognato di avere: suonare il pianoforte, dipingere, giocare a calcio come Maradona. Il boom delle criptovalute, che non hanno incarnazione materiale, segue e asseconda lo sviluppo di un universo parallelo a quello fisico.
La banalizzazione della realtà virtuale è a portata di mano nel commercio: per acquistare abbigliamento e calzature online, faremo provare i prodotti a un avatar, dopo avergli attribuito le nostre misure fisiche. In America è realtà: i consumatori Millennial hanno imparato a decidere l’acquisto di un mobile, un arredo, una cucina, simulandone il montaggio dentro la copia virtuale della propria abitazione. Una ricerca compiuta in Germania elenca settori pronti a essere trasformati in profondità dalla realtà virtuale: commercio, industria (in particolare quella dell’auto), servizi informatici, spettacoli, istruzione. La scuola sarà un terreno di sperimentazione grazie alla ricettività dei più giovani: si può immaginare un corso di storia in cui i ragazzi manovrano i loro sosia digitali in una replica dell’antica Roma; imparano la geografia grazie ai loro avatar che viaggiano virtualmente sul Pacifico, sull’Himalaya o nell’era geologica dei dinosauri. Per adesso vediamo solo frammenti sparsi di quello che potrà diventare un metauniverso onnicomprensivo, totalizzante.
Zuckerberg è convinto di poter comporre il mosaico intero e padroneggiarne gli accessi. Quando esalta il «Nuovo Mondo dove potremo lavorare, fare acquisti, giocare come in quello reale», sorvola sui rischi. La sua Meta incontrerà gli stessi problemi che hanno assediato Facebook: a partire da come tutelare la nostra privacy e la sicurezza dei nostri dati. Se la realtà virtuale diventa un luogo di fuga, un videogame moltiplicato all’infinito, fino a risucchiare buona parte delle nostre vite, altri pericoli balzeranno in primo piano: innanzitutto, i danni alla salute mentale, soprattutto dei minorenni. Il fondatore di Facebook si concentra sulle opportunità. Per lui sono tante, confessabili o meno. Nella costruzione di questo nuovo ecosistema, di questo Internet parallelo, può venderci già una parte dell’hardware, strumenti ottici come l’headset Oculus per trasportarci nella realtà virtuale. Sotto la nuova denominazione Meta, potrebbero nascere ben presto negozi fisici che venderanno gli apparecchi ottici elaborati dalla divisione Reality Labs, per assuefarci a frequentare l’universo che sta «oltre». La ricerca spingerà verso soluzioni tecniche sempre più comode, non invasive, a buon mercato.
Zuckerberg assegna a Meta una missione strategica: fermare l’esodo dei giovani, uno dei problemi esistenziali che affliggono Facebook. Proiettato verso il successo iniziale da adolescenti e ventenni, oggi il social media vive su un pubblico sempre più maturo, mentre le nuove generazioni migrano verso TikTok, Snapchat e altre app concorrenti. Questo invecchiamento demografico del suo pubblico è una minaccia grave a cui Zuckerberg deve reagire. Un’altra chiave di lettura dietro la nascita di Meta è tecnologica. Oggi il social media, quando viene usato sui cellulari, dipende da due piattaforme digitali che appartengono a gruppi concorrenti, cioè Apple per gli iPhone e il software Android per tutto l’ecosistema Google, inclusa la maggior parte dei telefonini non Apple. Il prezzo di questa dipendenza si è visto: quando Apple ha cambiato le regole sulla privacy, di colpo ha limitato la capacità di Facebook di raccogliere dati sugli utenti.
Invitandoci dentro la realtà virtuale, Zuckerberg ci sposta nell’universo di cui vuole controllare standard tecnici e coordinate. Il suo business principale resta la pubblicità (98 per cento del fatturato) e la realtà virtuale è un nuovo spazio per la vendita. Un altro obiettivo che gli viene attribuito è una mossa difensiva verso l’antitrust. Joe Biden ha installato alla guida dell’authority antimonopoli una giovane giurista, Lina Khan, che ha posizioni dure contro i Padroni della Rete. Alla sinistra democratica piace la tesi della senatrice Elizabeth Warren, favorevole a uno smembramento dei colossi digitali. Zuckerberg ha già sdoppiato il suo. La critica prevalente liquida Meta come una fuga in avanti – Oculus finora non si è venduto molto al di fuori degli adepti dei videogame – dettata da una strategia di relazioni pubbliche.
Dei tanti scandali che hanno colpito la reputazione di Facebook, l’ultimo nel 2021 ha avuto come protagonista una «gola profonda» interna all’azienda. Frances Haugen, ex manager del social media, è la fonte di una valanga di rivelazioni. Al centro c’è la débâcle di Zuckerberg nella prevenzione di false notizie e aggressioni sul social media. I sistemi di intelligenza artificiale usati a tale fine hanno funzionato poco e male. Facebook ha investito con il contagocce in questo campo, la manodopera umana che ha adibito a vigilanza e censura sui contenuti è insufficiente e troppo concentrata nel mondo anglofono. «Ha dato la priorità ai suoi profitti, rispetto alla sicurezza delle persone e del paese», è un’accusa risuonata nelle audizioni al Congresso. Distogliere l’attenzione dal processo pubblico a Facebook può aver accelerato la transizione verso Meta. Ma un sociologo esperto di social media, Nicholas Carr, prende le distanze dall’ossessione sul ruolo dei social nella lacerazione della società americana: è illusorio attribuire a loro il compito di disciplinare il discorso pubblico, quando una nazione ha perso il senso del bene comune. Un altro autore che si è occupato della polarizzazione culturale, David French, ricorda che gli americani non ebbero bisogno dei social per massacrarsi a vicenda durante la guerra civile o per spaccarsi nelle contese valoriali degli anni Sessanta. In quanto al sogno di traghettarci in un futuro dove la realtà virtuale avrà uno spazio sempre maggiore, l’esperta di tecnologie del «New York Times», Shira Ovide, invita a non sottovalutarlo a priori: «Nell’indovinare il futuro, Zuckerberg ha già avuto ragione una volta».
Il capitalismo americano non è fatto solo di miliardari come Musk, Zuckerberg, Fink. La sua base di massa è perfino più importante, per segnalare una fonte di vitalità del paese. La si è vista all’opera nel 2020, l’anno peggiore della pandemia, quando l’ondata di licenziamenti ha distrutto in pochi mesi 10 milioni di posti di lavoro. Nello stesso periodo sono nate 4,4 milioni di nuove imprese, un record dei tempi moderni. Molti americani che avevano perso l’impiego hanno deciso di darsene uno nuovo da soli, diventando microimprenditori, padroni di se stessi. La rigogliosa natalità delle imprese è un indicatore dell’American Dream.
Lo è anche il fenomeno del venture capital. Uno dei segreti dell’innovazione di successo è questo particolare capitale di rischio, gestito da investitori esperti. Storicamente è stato decisivo per sostenere germogli d’impresa, le start-up, alcune delle quali sono poi cresciute fino a diventare i giganti odierni della tecnologia e dell’economia digitale. Il venture capital ha tuttora la sua capitale globale a San Francisco e nella Silicon Valley circostante. Funziona in base a regole radicalmente diverse rispetto agli investimenti normali di un fondo, di una banca e di tanti investitori privati. Il venture capital cerca degli «estremisti dell’innovazione», degli aspiranti rivoluzionari, ben sapendo che molti di loro si schianteranno. La stragrande maggioranza delle start-up in cui investe falliscono e muoiono. L’investitore perde tutto. La minuscola minoranza che ce la fa, però, ha un successo tale da compensare i fallimenti degli altri, e magari diventa Tesla.
Questo modello è stato appreso e copiato altrove. Il venture capital è stato portato in Cina da investitori americani come Sequoia e Goldman Sachs; nonché da una generazione di giovani cinesi che lo avevano studiato da vicino, andando a formarsi negli Stati Uniti. I campioni cinesi del digitale – Alibaba, Tencent, Baidu, JD.com, ByteDance, Meituan – sono nati così. Un punto interrogativo riguarda il loro futuro. Xi Jinping ha lanciato una campagna per la «prosperità comune» che punta a ridurre le diseguaglianze. Ha preso di mira i miliardari che si sono arricchiti in particolare nel boom digitale. Ha varato politiche in buona parte condivisibili – che Biden vorrebbe fare sue – per ridurre gli eccessi monopolistici e proteggere meglio i lavoratori e i consumatori dalla rapacità di quei colossi. L’interrogativo è se oltre a limitare abusi e comportamenti predatori, Xi vuole mettere fine all’Età dell’Oro di un capitalismo privato cinese che ha emulato e talvolta sorpassato quello americano. È difficile che le aziende di Stato care al Partito comunista possano esprimere la stessa capacità d’innovazione e lo stesso dinamismo.
L’America, benché appesantita da una burocrazia sempre meno competitiva, resta una terra favorevole al capitalismo, all’iniziativa privata e all’innovazione. Questo potrebbe rilanciare la fortuna dell’Occidente, se la Cina tornasse ad abbracciare con determinazione uno statalismo prevaricatore. Ma l’organismo vitale del capitalismo americano contiene il batterio della sua decadenza. È la malattia del Grande Gatsby – facendo un parallelo tra l’involuzione dell’America di oggi e gli eccessi dell’Età dell’Oro (anni Venti del secolo scorso, prima della Grande Depressione) – descritta nel romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Due studiosi di storia economica, Daron Acemoğlu e James Robinson, nel saggio Perché le nazioni falliscono (il Saggiatore 2012), illustrano il criterio che distingue i paesi che hanno successo da quelli che arretrano. I primi sono governati da istituzioni inclusive, sono società aperte, con mobilità dal basso e un rinnovamento continuo delle élite. Il declino colpisce invece le società «estrattive»: quelle dove una minoranza estrae ricchezza dal resto, per il proprio vantaggio prevalente. La transizione dall’una all’altra formula è una ricetta sicura per la decadenza. Nella storia analizzata da Acemoğlu e Robinson, un caso tipico fu la Serenissima Repubblica di Venezia, che all’epoca della sua ascesa aveva promosso la «colleganza», una forma di società per azioni aperta a nuovi membri. Poi si formò un’oligarchia che decise la «serrata», un restringimento degli accessi agli outsider.
L’America sta facendo la fine di Venezia? Uno dei meccanismi decisivi per limitare le aperture agli outsider è all’opera oggi nel capitalismo digitale: sono le migliaia di brevetti con cui i colossi Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft costruiscono Grandi Muraglie legali: impediscono a piccole start-up di innovare e crescere come fecero loro quando Bill Gates e Steve Jobs erano ventenni. È una tentazione ricorrente nella storia delle nazioni: le élite che hanno avuto successo grazie a un sistema inclusivo vorrebbero tanto togliere la scala per quelli che vengono dopo. Le società oligarchiche entrano in stagnazione, i plutocrati minacciano lo stesso sistema che li ha creati. Un tradimento dell’American Dream sta nel fatto che un’élite – in prevalenza top manager – ha fatto secessione dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri emolumenti (stipendi più stock option) in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività.
Un altro fattore è quello studiato dall’economista francese Thomas Piketty: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. È la deriva delle democrazie occidentali verso le società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, si è verificata per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel «trentennio dorato» che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. La successione ereditaria come fonte di diseguaglianze riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso squilibrato all’istruzione di alto livello. Gli americani credono di vivere in una società meritocratica mentre stanno diventando una società di tipo ereditario.
La segregazione economica deriva dagli accessi selettivi alle università e dai matrimoni «endogamici» (tra persone dello stesso ceto sociale e status economico). È significativo che i capitalisti americani illuminati, come si considerano Zuckerberg e Fink, vogliano aprire le loro aziende alle minoranze etniche e sessuali, ma siano meno concilianti sul terreno delle diseguaglianze socio-economiche. Promuovere le assunzioni di afroamericani e ispanici, donne, gay o transessuali può conciliarsi con la loro visione élitaria. Nelle «quote politically correct» rientrano le élite delle minoranze, gli equivalenti degli Obama. È una diversità benefica, non ha svantaggi per i profitti, anzi. Ben diverso è attaccare la macrodiseguaglianza che separa l’oligarchia manageriale da tutto il ceto medio-basso, dove ci sono anche tanti maschi bianchi. Il 2021 è stato un anno cerniera, per un esperimento interessante: un rafforzamento dei lavoratori e una – parziale, momentanea? – riduzione delle diseguaglianze manovrata dallo Stato. La dinamica salariale americana non era mai stata così vigorosa da molti anni. Come ho già detto, nel corso del 2021 le buste paga sono aumentate del 4,6 per cento. La media, però, nasconde una dinamica anomala: egualitaria. A crescere molto di più sono state le paghe dei settori tradizionalmente meno remunerativi: dai camerieri dei ristoranti ai fattorini delle consegne, dai portuali agli autisti dei trasporti, dalle commesse alle infermiere. Il settore della ristorazione e degli alberghi ha aumentato le retribuzioni del 15 per cento, quello dei trasporti e dei magazzini di deposito-smistamento del 9 per cento. Finalmente la classe operaia va in paradiso?
Stando a questi dati è sembrata realizzarsi una delle promesse di Biden: governare nell’interesse dei lavoratori, fermare quella dilatazione delle diseguaglianze che dura da almeno quarant’anni. Un ruolo l’hanno avuto le tre manovre di spesa pubblica che dall’inizio della pandemia hanno distribuito 5000 miliardi di dollari di aiuti alla maggioranza delle famiglie (quasi i tre quarti degli americani hanno ricevuto qualcosa). Due di quelle manovre portavano la firma di Trump, la terza quella di Biden. Proprio l’ultima, approvata dal Congresso in tempi record alla fine di gennaio 2021, subito dopo l’insediamento del nuovo presidente, è stata un’operazione di chiaro intento redistributivo. La crisi economica provocata dalla pandemia era già finita, non c’era bisogno di erogare una terza ondata di sussidi. Così facendo, però, Biden ha consentito ai lavoratori di mettere da parte un cuscinetto di risparmio senza precedenti: nella primavera 2021 le famiglie americane hanno raggiunto un risparmio medio pari al 26 per cento del loro reddito, un livello altissimo.
Questa è una delle chiavi per decifrare il mistero della Grande Dimissione cui ho già accennato: soprattutto nei mestieri più faticosi e meno gratificanti, per la prima volta da generazioni i lavoratori americani hanno visto il loro potere contrattuale migliorare, hanno potuto essere più esigenti, e al ritmo di 4 milioni al mese hanno sbattuto la porta in faccia al datore di lavoro. Trovando quasi subito un altro posto. Il turnover, il ricambio di manodopera, è stato elevatissimo e ha premiato i lavoratori: le leggi dell’offerta e della domanda, per una volta, li hanno rafforzati. Ma ben presto è divampata l’inflazione, che nel dicembre 2021 ha toccato il 7 per cento. L’aumento dei prezzi si è rimangiato una parte del progresso salariale o lo ha cancellato del tutto. È un segnale che il conflitto tra capitale e lavoro sta riesplodendo come negli anni Sessanta e Settanta? Allora l’inflazione fu il termometro di una lotta tra profitti e salari, per la distribuzione del reddito nazionale. Se l’inflazione americana persisterà, sarà la prova che l’oligarchia «estrattiva» non ha intenzione di cedere le posizioni di privilegio con cui ha trasformato il capitalismo americano in un sistema più ossificato, meno mobile, meno aperto al cambiamento.
Mezza America pensa che la risposta a questo decadimento del capitalismo, alla sua deriva oligarchica, la possa dare solo lo Stato. Ma quale tipo di Stato? La reazione alla crisi finanziaria del 2008 fu di varare, due anni dopo, una legge pachiderma, il Dodd-Frank Act: le banche americane sono state sommerse da una valanga di regole nuove. Con il pretesto di impedire gli eccessi speculativi che avevano portato alla crisi dei mutui subprime, con l’obiettivo proclamato di difendere il risparmiatore, si è generata una mole di norme che hanno soprattutto arricchito gli studi legali (consulenti delle banche, non dei risparmiatori). La famiglia del ceto medio che ha bisogno di un mutuo per la casa si è trovata a confrontarsi con tempi più lunghi, chili di carte da riempire (e non cambia se i formulari sono in versione digitale), senza che questo abbia intaccato i profitti delle banche. Il Congresso degli Stati Uniti, sempre più simile al Parlamento italiano o alla fabbrica di Bruxelles delle direttive Ue, ha gonfiato di anno in anno la mole dei suoi testi di legge. Il piano d’investimenti in infrastrutture varato nel 2021 – su cui ho aperto questo capitolo – consta di 1039 pagine. Il codice federale contiene ormai 1,1 milioni di norme. Via via che l’agenda politica si carica di nuovi obiettivi – compresa la tutela delle minoranze etniche e di tutte le identità sessuali, o la decarbonizzazione dell’economia –, nascono altre burocrazie con la missione di applicare, verificare, imporre, punire.
Pensare che questa sia la strada per la rinascita di un American Dream e per la rivincita dell’Occidente è una follia. È più realistico cercare le analogie con altri imperi giunti nella fase della decadenza. Dalla Persia all’antica Roma, dal sultanato ottomano all’Austria-Ungheria degli Asburgo (e di Kafka), quando il capolinea comincia ad avvicinarsi, un sintomo inequivocabile è il sovrappeso di una burocrazia soffocante, inamovibile, autoreferenziale.
VI
Disinformati a morte: non solo fake news
Radio Sputnik, la conoscete? Insieme con RT (che sta per Russian Television) è uno dei principali strumenti che Vladimir Putin usa per diffondere la sua versione dei fatti nel resto del mondo. È una radio di qualità, non fa propaganda in vecchio stile, come ai tempi dell’Unione Sovietica. L’edizione in lingua inglese è realizzata in gran parte da giornalisti americani, professionisti dell’informazione. Radio Sputnik sembra un media americano, la maggior parte dei suoi conduttori e reporter lavorano a New York, Washington e altre città degli Stati Uniti. Chi sono questi giornalisti? Ecco due esempi. Un talk show s’intitola «By Any Means Necessary» (Con tutti i mezzi necessari) ed è animato da Jacqueline Luqman e Sean Blackmon. Tutti e due sono afroamericani, appoggiano il movimento Black Lives Matter, la Critical Race Theory e altre campagne antirazziste. Il filo conduttore del programma è proprio quello: il razzismo negli Stati Uniti, raccontato e denunciato in tutte le sue manifestazioni. Gli ospiti sono americani come i conduttori. Da quando ascolto i programmi di Radio Sputnik non mi sono ancora imbattuto in un russo. Non ce n’è bisogno, sarebbe controproducente, il pubblico verrebbe insospettito. Per esporre i mali dell’America, per descriverla come una società malata, segnata dalle peggiori ingiustizie, gli americani bastano.
Spesso gli intellettuali e opinionisti che vanno in onda su Radio Sputnik si dichiarano marxisti, ma non sono stati formati o indottrinati a Mosca. In Russia l’ideologia marxista è in ritirata dal 1991, e Putin non l’abbraccia. Nelle università Usa, invece, sta guadagnando terreno. Visto che il marxismo è popolare tra i giovani americani, Radio Sputnik gliene offre in abbondanza. Le interferenze di Mosca nella campagna elettorale del 2016 ai danni di Hillary Clinton, poi l’evidente simpatia di Donald Trump verso il leader russo hanno messo in luce le affinità fra una certa destra americana e l’autoritarismo di Putin. Ma anche nella sinistra americana c’è una base – da Black Lives Matter ai radicali dei campus universitari – che non disdegna le convergenze con la Russia. Il fatto che Putin sia apertamente omofobo, il trattamento che riservò ai musulmani nella seconda guerra in Cecenia, e più in generale i valori morali reazionari che il leader del Cremlino difende, tutto questo non disturba i progressisti che frequentano i suoi media.
Per i miei coetanei ascoltare Radio Sputnik è un tuffo nel passato. Negli anni Settanta, quando ero adolescente, era normale che i leader dell’estrema sinistra americana, i capi della contestazione, fossero trattati come degli eroi dal campo avverso. Alcuni leader della formazione armata Black Panther (l’ala più estremista dell’attivismo nero), ricercati per atti di terrorismo nel loro paese, furono ospitati e onorati come alti dignitari stranieri in Algeria, che a quel tempo era un paese satellite dell’Unione Sovietica.
Fin dagli anni Sessanta, la guerra del Vietnam aveva fornito argomenti validi a chi in America voleva tifare per il nemico… o negare che il nemico fosse straniero. Quel conflitto era cominciato in modo illegale già a metà degli anni Cinquanta. L’America di Dwight Eisenhower e poi di John Kennedy era subentrata in maniera strisciante all’esercito coloniale francese sconfitto in Indocina. Eisenhower e Kennedy all’inizio avevano annunciato solo l’invio di consiglieri militari, per appoggiare le forze armate sudvietnamite contro la minaccia di invasione da parte dei comunisti del Nord. Sotto il successore di Kennedy, il democratico Lyndon Johnson, il governo di Washington aveva fabbricato un finto attacco dei nordvietnamiti a una nave americana nel Golfo del Tonchino, per legittimare un impegno diretto degli Stati Uniti. L’escalation diventò inarrestabile e il conflitto «ufficiale» durò un decennio (1965-75). Per il mondo intero, e per molti americani, fu una vergognosa guerra imperialista. Opponeva la superpotenza più ricca del pianeta a un piccolo e povero paese del Terzo Mondo.
Poiché la superiorità tecnologica degli americani non bastava per piegare il Nord, il Pentagono fece ricorso ad armi di distruzione di massa come la miscela incendiaria napalm e alcuni defolianti chimici, che distruggevano i raccolti e avvelenavano le campagne. Stampa e Tv americane rivelarono atrocità commesse contro la popolazione civile: come i massacri di donne e bambini avvenuti nel 1969 nel villaggio di Son My/My Lai. Anche chi pensava che l’avanzata del comunismo fosse nefasta inorridiva di fronte a tutto il male di cui gli Stati Uniti si stavano macchiando. L’indignazione verso una guerra ingiusta alimentò un movimento pacifista che in America si fondeva con la battaglia per i diritti civili. Il leader della protesta non violenta contro le leggi razziali, il pastore nero Martin Luther King, fu uno dei più tenaci avversari dell’intervento in Vietnam. Un campione sportivo afroamericano, il pugile Cassius Clay (ribattezzatosi Muhammad Ali dopo la conversione all’islam), rifiutò la chiamata al fronte e fu arrestato. L’argomentazione di Clay-Ali era condivisa da molti militanti neri: non aveva senso rischiare la vita per «la libertà dei sudvietnamiti», come sosteneva il governo, quando quella libertà era negata agli afroamericani in casa propria, in particolare con le leggi segregazioniste nel Sud degli Stati Uniti.
Ma in Vietnam tanti giovani americani continuarono ad andarci, e a morire. Alcuni credevano nelle finalità proclamate di quel conflitto: difendere il mondo libero. Molti altri partivano al fronte perché non avevano scelta. A quei tempi esisteva ancora la leva obbligatoria, gli Stati Uniti non avevano un esercito professionale su basi volontarie come oggi. Gli obiettori di coscienza finivano in carcere (alcuni scelsero l’esilio). Esisteva un’eccezione importante: gli universitari, quando ricevevano la famigerata cartolina precetto, avevano il diritto di chiedere vari rinvii per concludere gli studi. La spiegazione di quel privilegio era razionale: l’America non voleva privarsi di futuri ingegneri, scienziati, medici e altre professioni preziose anche a fini strategici. Di fatto, per molti anni l’obbligo di morire per la patria fu limitato a chi non poteva permettersi di andare all’università (il privilegio che poteva fare la differenza tra la vita e la morte era così ingiusto che a un certo punto Johnson cominciò a limitarlo). Nelle forze armate i neri erano sovrarappresentati ma lo erano anche i bianchi meno abbienti, i figli della classe operaia. Invece la protesta contro la guerra era forte proprio negli atenei, fra quegli studenti che correvano meno rischi di mettere la divisa.
Accadeva un fenomeno che l’America non aveva conosciuto durante la seconda guerra mondiale: la classe dirigente non rischiava, l’élite proteggeva i propri figli e mandava a morire quelli degli altri. Nella seconda guerra mondiale avevano combattuto al fronte molti giovani bianchi ricchi e privilegiati, tra cui alcuni futuri presidenti: Kennedy, Bush padre. La classe dirigente formatasi negli anni Sessanta e Settanta, invece, sarà fatta di imboscati: Clinton, Bush figlio, Trump, tutti e tre questi futuri presidenti usarono sotterfugi e raccomandazioni per non andare in Vietnam. Il sociologo Todd Gitlin, scomparso nel febbraio 2022, ha notato che dietro la brutalità con cui la polizia americana intervenne a reprimere alcune proteste studentesche nei campus universitari degli anni Sessanta e Settanta c’era anche una rabbia di classe. I fratelli o i figli o i vicini di casa di quei poliziotti stavano combattendo in Vietnam; i figli dei ricchi erano al riparo. Al termine del conflitto, nel 1975, erano morti oltre 58.000 americani.
A differenza della seconda guerra mondiale, il Vietnam non formò una classe dirigente; al contrario, a governare l’America, a dirigere le sue imprese, a produrre la sua cultura furono più spesso quelli che la guerra l’avevano evitata e contestata. È da quel momento, sottolinea lo studioso Christopher Caldwell, che l’élite comincia a nutrire un profondo disprezzo per il popolo. Il patriottismo diventa un valore da cafoni. I bifolchi credevano nella bandiera a stelle e strisce, i privilegiati la bruciavano in piazza nelle manifestazioni pacifiste.
Un’altra novità di quegli anni rafforza la stessa spaccatura. In diverse zone degli Stati Uniti le autorità decidono di mescolare etnicamente la popolazione scolastica, spostando a forza gli studenti da un quartiere all’altro. All’origine c’era una constatazione: avere abolito la segregazione per legge non aveva soppresso la segregazione di fatto. Dopo il Civil Rights Act promulgato da Johnson nel 1964, era illegale negare a un nero i luoghi pubblici, gli accessi, le opportunità di un bianco. Ma continuavano a esserci quartieri con una forte concentrazione di afroamericani e altri prevalentemente bianchi. Sui banchi di scuola le due comunità s’incontravano poco. Cominciarono le operazioni di busing: autobus scolastici che percorrevano lunghe distanze per trasportare e quindi mescolare gli alunni. In questo come in altri casi il prezzo per riparare alle ingiustizie razziali del passato fu fatto pagare solo ai bianchi poveri. I ricchi, se non lo facevano già prima, da quel momento mandarono i figli in costose scuole private dove il governo non poteva intervenire. Esemplare fu il caso di Boston: il busing ebbe inizio nel 1974 e significò trasportare figli di immigrati italiani e irlandesi in quartieri afroamericani, derelitti e violenti. Quando i bianchi poveri di South Boston, la zona operaia, protestarono, contro di loro fu mobilitata la Guardia nazionale, scattarono il coprifuoco e un assedio militare.
La spaccatura si faceva sempre più profonda. Le élite dell’America bianca progettavano gli esperimenti di mescolanza razziale, ma rimanevano a distanza di sicurezza dai loro effetti; osservavano le reazioni della classe operaia bianca con disgusto. I bianchi poveri, oltre che patrioti, cioè guerrafondai, erano anche razzisti. L’élite progressista nel suo disprezzo per il popolo si scopriva sempre più antiamericana. Che c’era di strano, allora, a fare il tifo per il nemico, se il male da abbattere era tutto in casa propria?
Dopo la guerra del Vietnam, questo spiega anche la distrazione verso le guerre imperialiste degli altri: quando il Vietnam comunista aggredì la Cambogia (1978), quando la Cina comunista invase il Vietnam (1979), quando l’Unione Sovietica occupò l’Afghanistan (1979): nessuna di queste aggressioni ebbe lo stesso impatto. Già allora aveva messo radici una certezza che non ci ha mai più abbandonato: il Male supremo è l’Occidente.
Le bandiere bipartisan alle finestre della mia San Francisco mi diedero una breve illusione. Accadde subito dopo l’11 settembre 2001. Mi ero trasferito in California da oltre un anno, quando ci colpì l’attacco terroristico più mortale della storia nazionale. San Francisco, roccaforte della sinistra radicale dagli anni Sessanta, in poche ore fu trasformata. Dalle finestre di tutte le case vidi spuntare bandiere a stelle e strisce. Nel lutto nazionale la sinistra era patriota. La divisione tra le due Americhe fu sospesa, la tragedia faceva dimenticare le differenze ideologiche, ci si aggrappava tutti insieme alla bandiera. Era uno spettacolo commovente e per me stupefacente: venivo da un’Europa più cinica e disincantata. Gli eroi del momento divennero i pompieri e i poliziotti di New York, che scavavano a rischio della vita tra le macerie delle Torri Gemelle. In mezzo a tanta partecipazione corale, in quel momento di unità nazionale in cui gli americani si stringevano come una grande famiglia, c’era spazio anche per la generosità verso gli altri: diversi vicini di casa vennero a testimoniarci il loro affetto, sapendoci italiani, visto che gli aeroporti erano chiusi e tornare a casa nostra sarebbe stato impossibile.
(Con il senno di poi, quelle giornate struggenti mi sono tornate alla memoria durante la cerimonia degli applausi al crepuscolo, nella prima fase della pandemia: quando a New York e in tante altre città d’America, nell’ora in cui il sole tramontava, ci affacciavamo alle finestre per battere le mani in omaggio al personale medico e infermieristico che lottava contro il Covid. Come per l’11 settembre: breve, ingannevole momento di unione nazionale, prima di ricominciare a lacerarci su mascherine e vaccini.)
San Francisco tornò ben presto quella di prima. Altre bandiere, altri striscioni, altri slogan: la piazza di sinistra si mobilitava contro l’America di George W. Bush, contro le leggi speciali antiterrorismo (Patriot Act), contro l’invasione dell’Iraq lanciata nel gennaio 2003. Altro che bandiera a stelle e strisce, nei cortei oceanici che sfilavano in California e in altre città d’America si vide comparire il ritratto-caricatura di un Bush con i baffetti di Adolf Hitler. Tra i miei amici nella San Francisco radical chic, i più militanti dicevano di prepararsi per l’espatrio in Canada o in Europa (gli stessi amici, con qualche capello bianco in più, avrebbero ripetuto la medesima cosa nel 2016 dopo l’elezione di Trump). Anche per la guerra in Iraq, l’antiamericanismo aveva le sue sacrosante ragioni. L’amministrazione Bush mentì sui legami tra Saddam Hussein e al-Qaeda. Il segretario di Stato Colin Powell esibì all’Onu prove false sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq. Nel luglio 2003 ebbe inizio la sospensione dei diritti civili nel carcere speciale di Guantánamo (uno scandalo che dura tuttora). Le foto delle torture ai prigionieri di Abu Ghraib fecero il giro del mondo. Come in Vietnam, l’America in guerra stava calpestando i propri valori. Ma se si concentra la memoria solo su quel che accadde dopo l’attacco a Baghdad del 2003, si dimentica un antefatto cruciale. Per un pezzo di società americana la condanna degli Stati Uniti, e dell’Occidente intero, era cominciata molto prima: nella stessa tragica giornata dell’11 settembre 2001. Quella data fu segnata anche dalla «madre» di tutte le fake news…
È ormai trascorso più di un ventennio, eppure ancora oggi il bilancio di quell’evento inaudito è controverso. Alla mia generazione – nel 2001 avevo 45 anni – sembra accaduto ieri, invece il mondo è pieno di «nati dopo l’11 settembre», oggi adulti. Non è scontato che condividano l’importanza di quell’avvenimento. Perché andrebbe considerato uno spartiacque della storia contemporanea? È forse più importante del 1979, l’anno in cui due rivoluzioni islamiche (quella khomeinista in Iran, quella wahabita in Arabia) precipitarono il Medio Oriente in un nuovo Medioevo e aprirono una stagione di violenza nel mondo? E come paragonarlo al 1989, l’anno in cui cadde il Muro di Berlino e iniziò a disgregarsi il blocco comunista europeo, mentre in Cina si consolidò il comunismo autoritario con il massacro di Piazza Tienanmen?
«Nulla sarà più come prima»: forse questa frase andrebbe evitata. Centinaia di editoriali sono cominciati così. Ogni due o tre anni la sceneggiata si ripete. La pandemia del 2020-21 è stata solo l’ultima replica. Giudizi altrettanto perentori erano stati pronunciati dopo eventi definiti «epocali» come la Brexit e l’elezione di Trump (2016). L’11 settembre a suo tempo aveva oscurato il 1989, che aveva surclassato il 1968. A inseguire certi opinionisti, sembra che si verifichi di continuo qualche svolta «epocale», di quelle che sui libri di storia danno l’impronta a interi secoli. A modo suo, il tempo è clemente: inghiotte nell’oblio intellettuali e giornalisti che hanno creduto di vedere dieci «rivoluzioni senza precedenti» nel corso della propria vita.
«Nulla sarà più come prima»? Che cosa, esattamente, abbia cambiato l’11 settembre è tuttora presto per dirlo. Vent’anni di distanza consentono solo di alleggerire l’inutile retorica, ma non ci rendono necessariamente lucidi. Un elenco delle cose cambiate a causa dell’attacco di al-Qaeda è provvisorio. Partendo dall’origine, dalla causa attiva di quella tragedia: la parabola dell’islamismo è incompiuta. Al-Qaeda e Isis sono in ritirata in molte parti del mondo dov’erano stati forti. Però alcune loro filiazioni restano micidiali mentre scrivo: per esempio Boko Haram in Nigeria e in diversi paesi centrafricani, al-Shabaab in Somalia, più varie milizie filoiraniane tra Palestina, Libano, Siria. In Occidente le analisi e le reazioni all’islamismo sono state confuse. Nel mondo progressista il terrorismo di matrice islamica è stato accolto da teorie giustificazioniste. Con un’apertura mentale notevole, il museo che New York ha dedicato a quella tragedia dà spazio a tutti i punti di vista: c’è un’ampia sezione che descrive le tensioni storiche fra paesi islamici e potenze neocoloniali dell’Occidente, nonché le accuse del mondo arabo alla politica estera americana e la questione israelo-palestinese. Anche questo è un segnale della tendenza occidentale ad abbracciare il punto di vista degli altri, per quanto siano ostili.
Mentre dall’America, dopo il 2001, la strategia del terrore si spostava in Europa e il bilancio delle vittime si faceva via via più terribile con le stragi di Londra, Madrid, Parigi, Bruxelles, Barcellona, Nizza, Berlino, Strasburgo, c’era sempre a sinistra qualcuno che invocava una legittima difesa. Se le Torri Gemelle erano cadute per vendicare i crimini americani in Medio Oriente, i civili innocenti massacrati in Europa (inclusi i bambini straziati sul lungomare di Nizza) erano la «logica» conseguenza delle ingiustizie sociali, dell’emarginazione, del razzismo contro gli immigrati musulmani. L’automatismo ideologico di tanta intellighenzia progressista (e larga parte dei media) prescindeva dalla vera matrice sociale e culturale dell’islamismo: che non ha mai avuto a cuore la condizione degli immigrati, non ha mai preteso di sanare ingiustizie economiche e ha spesso reclutato proseliti fra musulmani benestanti e privilegiati. Con il passare del tempo, il terrorismo islamista è scemato in America e in Europa, senza che sia cambiato nulla nella condizione degli immigrati. Continuano invece le bombe e le stragi nei paesi islamici, ma capita di sentirsi spiegare da qualche presunto esperto che è sempre colpa nostra, anche quando si tratta di faide tra sciiti e sunniti che durano dalla morte del Profeta (anno 632 dopo Cristo).
Nelle nazioni occidentali l’unico cambiamento tangibile, stabile e irrevocabile delle nostre società che si possa attribuire all’11 settembre è l’eredità dei controlli di sicurezza negli aeroporti, molti dei quali ormai assurdi anche perché diversi da un paese all’altro. L’attacco alle Torri Gemelle, come altri shock esterni, ha generato un’ipertrofica burocrazia: in questo caso con l’alibi della sicurezza. Come sempre, questi organismi mastodontici, una volta consolidati, diventano immortali. La loro ragion d’essere originaria può venir meno o essere dimenticata: ma gli stipendi che distribuiscono sono una causa più che sufficiente di vita eterna. Poi c’è l’accumulo di potere ai vertici di queste burocrazie. La costruzione della Homeland Security, il superministero dell’Interno americano, si è accompagnata a una concentrazione di nuovi, immensi poteri in capo alle varie agenzie dell’intelligence. Tanto per cambiare, chi li deteneva ne ha abusato. Il colore politico delle amministrazioni non ha influito su questa tendenza: sotto Barack Obama l’intelligence è stata protagonista dello scandalo sullo spionaggio ai danni del cellulare di Angela Merkel, benché il presidente si dicesse grande amico degli europei. Anche nell’intelligence, lo shock esterno legittima la creazione di sovrastrutture dotate di enormi risorse, e queste diventano immortali. Di nuovo abbiamo visto all’opera le convergenze tra progressisti e Putin. Colui che denunciò le malefatte dei servizi segreti americani, l’ex collaboratore della National Security Agency e della Cia Edward Snowden, fu applaudito come un eroe dalla sinistra occidentale e ottenne asilo a Mosca.
Negli equilibri internazionali odierni, nei rapporti di forze tra superpotenze vent’anni dopo, è ragionevole sostenere che l’11 settembre – con la reazione decisa da George W. Bush sotto lo slogan di «guerra al terrorismo» – sia stato soprattutto una grande distrazione, una perdita di tempo, di risorse e di concentrazione. L’America si è lasciata risucchiare in un pantano mediorientale dove non aveva interessi vitali, tanto più alla luce della rivoluzione energetica in corso. Questo ha consentito all’unica rivale planetaria, la Cina, di accelerare i tempi nella sua corsa verso la parità strategica. Le presidenze di Trump e Biden, simili fra loro in politica estera, hanno rappresentato una correzione di rotta: meno attenzione e meno risorse al Medio Oriente, per concentrarsi sulla priorità che è il quadrante dell’Indo-Pacifico, con al centro la Cina.
Ironia della sorte: la Cina ha tratto a modo suo le conseguenze dell’11 settembre, internando in campi di concentramento, lavori forzati e rieducazione un milione di uiguri. In quell’etnia turcomanna e musulmana, che popola lo Xinjiang, si erano effettivamente verificate infiltrazioni di radicalismo islamico. Ci sono stati anche degli attentati terroristici, nello Xinjiang e in altre regioni della Cina, riconducibili a varianti locali dell’Isis. Xi Jinping è stato chiaro con i governi occidentali che gli rimproveravano gli abusi contro la sua minoranza islamica: le vostre chiacchiere politically correct, ha ribattuto il leader cinese, hanno consentito agli islamisti le stragi di Londra, Barcellona, Parigi, Bruxelles eccetera. Sulla sorte degli uiguri colpisce il silenzio assordante di tutti i paesi islamici.
Nei rapporti di forze tra Stati Uniti e Cina, un impatto superiore all’11 settembre lo ha avuto la crisi finanziaria scoppiata a Wall Street nel 2008. Crisi tuttora incompresa, in Occidente, e molto più grave della minirecessione da pandemia. Senza il 2008 non avremmo avuto né Obama né Trump, e forse neppure la diplomazia dei «guerrieri lupo» allevata da Xi Jinping. Per i dirigenti comunisti cinesi, quello è l’anno chiave in cui il modello americano perde credibilità e decidono di rivalutare il loro statalismo. Ne ricavano anche un complesso di superiorità che nutre la nuova vena nazionalista cinese. Meno condiviso, invece, è il parere secondo cui Bush e Obama avrebbero commesso un errore strategico a occuparsi del Medio Oriente. Nell’ottica di Xi Jinping la presenza militare americana nel Golfo Persico e dintorni resta un fattore di superiorità degli Stati Uniti: questi ultimi hanno cessato di dipendere dal petrolio arabo, ma la Cina no.
Un impatto interessante dell’attacco terroristico di al-Qaeda contro New York e Washington riguarda il mondo dell’informazione. L’11 settembre 2001 segna l’inizio dell’era postmoderna nelle fake news: la paranoia entra in una proliferazione digitale. Il complottismo incrocia per la prima volta Internet su vasta scala, e questo innesca una deflagrazione. L’attacco al World Trade Center diventa la madre di tutte le teorie cospirative. Leggende metropolitane, teoremi su trame internazionali, dietrologie deliranti (o magari verosimili ancorché false) vi fanno un salto di qualità eccezionale. Diventano «virali», termine mutuato dalla sfera biomedica e che da allora si utilizza nella comunicazione. Come sempre il fenomeno ha un tenue legame con la realtà, parte da domande basilari, in parte doverose, del tipo: a chi giova distruggere le Torri di New York? E ancora: come mai l’intelligence americana è stata beffata in modo così stupefacente? Da lì si arriva a conclusioni folli, ma capaci di sedimentarsi in alcune fasce dell’opinione pubblica per anni, decenni. Fino a oggi.
Per capire quando vengono poste le premesse delle «teorie del complotto» che hanno agitato l’era di Trump, poi la pandemia e la campagna vaccinazioni, si deve risalire proprio a quella data: 9/11 (così la scrivono gli americani, con il mese che precede il giorno). Con una precisazione. Durante il trumpismo la fabbrica delle fake news ha visto prevalere un’ispirazione di destra. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, invece, fu la sinistra – almeno le sue correnti più radicali – a finire ipnotizzata da farneticazioni su congiure mondiali. Si capisce perché. L’aggressore, al-Qaeda, veniva dal campo dei «buoni» o quantomeno delle «vittime», nel manicheismo della sinistra dogmatica: cioè dal mondo arabo-islamico, per definizione catalogato fra gli oppressi della terra. L’aggredito – l’America di Bush, o New York / Wall Street come capitale della finanza globale, o il Pentagono di Washington – figurava in cima ai nemici storici della sinistra come l’Impero del Male, il colpevole di tutte le sofferenze planetarie. Poiché con l’11 settembre era il presunto «debole» ad attaccare l’odiata superpotenza e a spargere sangue innocente facendo strage di quasi tremila cittadini inermi, per la componente faziosa della sinistra i casi erano due. O si aveva il coraggio di applaudire Osama bin Laden, di celebrare la strage come un trionfo della giustizia, come fecero tanti palestinesi e varie folle arabe che si riversarono sulle piazze nei loro paesi, oppure si trovava un accorgimento più miracoloso per salvarsi l’anima: pretendere che l’orrore fosse stato in realtà ordito dagli americani stessi, magari in combutta con i loro alleati israeliani. È la macabra scorciatoia del pensiero magico che assolve il carnefice e processa la vittima.
Si fece strada, molto presto, la leggenda metropolitana secondo cui quel giorno terribile nessun ebreo americano si era recato al lavoro nelle Torri Gemelle. Evidentemente avvertiti in tempo dai servizi segreti israeliani. Questa fu solo una delle prime fake news, senza alcun fondamento nella realtà, ma che attecchirono su un terreno fertile: c’è chi ci crede ancora oggi. È sterminato l’elenco delle teorie del complotto nate poche ore dopo l’11 settembre e sviluppatesi rigogliosamente con una vita autonoma che prosegue vent’anni dopo. Gli studiosi delle fake news hanno dovuto catalogarle per «famiglie di teorie», tanto sono numerose e complicate.
I grandi filoni del complottismo hanno alcuni elementi in comune. Quasi tutti partono dalla certezza che in America il Potere sapeva in anticipo, o addirittura aveva commissionato e orchestrato quegli attentati. Fior di inchieste, parlamentari e non, hanno dimostrato gravi colpe e omissioni dell’intelligence ma nessuna collusione: tuttavia, questo è irrilevante, perché la paranoia non è mai stata curata con iniezioni di verità. Un sottoinsieme di fake news si basa sull’assunto che lo schianto di due jet passeggeri carichi di carburante non sarebbe stato sufficiente a far crollare le Torri Gemelle, che dunque furono demolite dall’interno, con una regia americana. Le perizie ingegneristiche, indipendenti o dirette dalla massima authority del genio civile, hanno sfatato anche questo mito. In parallelo, altrettante leggende hanno proliferato sull’attacco al Pentagono: la più diffusa è che la sede del dipartimento della Difesa sia stata centrata da un missile – ovviamente americano! – e non da un aereo passeggeri. Infine, tra le varie motivazioni attribuite al «Grande Complotto americano contro l’America» figura la volontà di invadere l’Iraq e l’Afghanistan, mettere le mani sul petrolio del Golfo, riscrivere con la violenza le mappe geostrategiche del potere energetico mondiale. All’interno di queste vaste famiglie di teorie cospirative, le versioni più sofisticate ammettono che al-Qaeda avrebbe potuto pianificare e realizzare l’attacco, ma con il beneplacito o la complicità passiva di qualcuno che a Washington aveva deciso di sfruttare l’opportunità. Lo smarrimento di George W. Bush, Dick Cheney e tutta la squadra della Casa Bianca era evidentemente puro teatro; o la prova che erano stati aggirati da qualcuno ancora più potente di loro.
Le fake news esistono dai tempi antichi, non sono nate nel 2001. Negli Stati Uniti hanno una tradizione così ricca e gloriosa, che uno dei più grandi storici americani del Novecento, Richard Hofstadter, ne ha ricostruito le origini in un saggio pregevole: Lo stile paranoide nella politica americana (Adelphi 2021). La prima versione di questo scritto apparve nel novembre 1963, sull’onda della «caccia alle streghe» maccartista che negli anni Cinquanta aveva portato a violente purghe anticomuniste e in concomitanza con l’assassinio di John Kennedy, che diede un altro forte impulso alle teorie cospirative. Ma Hofstadter trovava materiale abbondante già nel Settecento e nell’Ottocento.
La novità del 9/11 è la tecnologia digitale, già diffusa tra le masse americane al passaggio del millennio e in forte crescita anche in Europa. L’avvento di quella che si chiamava allora la «blogosfera» si rivela un potente disseminatore di fandonie. La sinistra antiamericana del Vecchio Continente vi contribuisce generosamente: in Francia un libro che condensa teorie cospirative e pseudo-controverità sull’11 settembre balza in testa alla classifica dei best seller poco dopo l’attacco e vi rimane a lungo. Una caratteristica della paranoia nell’era digitale ci accompagna tuttora: nella «nuvola» informatica le bugie diventano eterne. A differenza dei secoli passati, per i quali Hofstadter ha dovuto svolgere un lavoro da archeologo, riportando alla luce antiche teorie del complotto che erano state sepolte nell’oblio, oggi the cloud (la nuvola informatica) protegge e conserva le menzogne molto meglio degli unguenti per le mummie degli antichi egizi. Chi vuol credere alla sua verità alternativa può farlo in eterno.
Ritorno indietro al 2004, quando l’America, dopo aver scoperto la grande menzogna di Colin Powell all’Onu sull’atomica di Saddam, ha ripreso a lacerarsi: stavolta sugli interventi militari in Medio Oriente voluti dai Neocon, i neoconservatori che suggerivano a Bush le strategie per rifare il mondo. Rivedo i miei appunti di allora da San Francisco, sulla larvata guerra civile tra due Americhe: un altro capitolo di storia che non va dimenticato se si vuol capire dove siamo oggi.
Nella primavera del 2004, di fronte al divampare dell’insurrezione armata in Iraq, l’opinione pubblica americana è turbata, l’opposizione è all’attacco e George W. Bush sotto assedio. Il 5 aprile il senatore Ted Kennedy (leader storico della sinistra democratica) pronuncia un discorso che contiene richiami a Richard Nixon e al Vietnam. «Questo presidente» accusa Kennedy «ha creato il più ampio vuoto di credibilità dai tempi di Nixon. Ha spezzato il fondamentale legame di fiducia con gli americani. Ha ingannato il popolo americano sulle minacce che il regime iracheno era in grado di esercitare. Un anno dopo l’inizio dei combattimenti gli americani si chiedono perché questa amministrazione ci ha portati in guerra in Iraq quando quel paese non era una minaccia immediata, non aveva armi nucleari, non aveva legami convincenti con al-Qaeda, nessuna connessione con gli attentati dell’11 settembre, e nessun arsenale di armi chimiche o biologiche. Tragicamente l’amministrazione Bush ha lasciato che la propria ostinata ideologia prevalesse sui fatti. Il risultato è una profonda e pericolosa crisi nella nostra politica estera. Abbiamo perso il rispetto di altre nazioni nel mondo. L’Iraq è il Vietnam di George Bush.»
Sul «New York Times» dell’8 aprile 2004 Maureen Dowd traccia il seguente bilancio dell’occupazione irachena: «Per ogni singola cosa che l’amministrazione calcolava sarebbe avvenuta in Iraq si è verificato il contrario. Le armi di distruzione di massa che si supponeva ci minacciassero non esistevano. Il pericoloso dittatore viveva fuori dalla realtà e scriveva novelle romantiche. Il terrorismo che dovevamo schiacciare è proliferato in Iraq e il radicalismo nel mondo arabo aumenta. Donald Rumsfeld ha creduto che invadere l’Iraq avrebbe esorcizzato la nostra sindrome del Vietnam e la titubanza americana a usare la forza. Invece ha generato lo spettro di un nuovo Vietnam, dove i nostri coraggiosi soldati non capiscono la cultura locale, non possono riconoscere chi è il nemico e non hanno una strategia di uscita. Dick Cheney ha creduto che seminare la paura fosse meglio che essere diplomatici, ha creduto che castigando un nemico arabo gli altri si sarebbero impauriti. Sbagliato. L’invasione dell’Iraq ha moltiplicato e rinvigorito i nostri nemici. Cheney e Rumsfeld hanno pensato che l’America dovesse mostrare i suoi muscoli da superpotenza, castrare l’Onu e gettare per aria gli accordi multilaterali. Ora l’amministrazione può essere costretta a chiedere aiuto in ginocchio. I falchi hanno creduto di poter costruire una democrazia in modo da produrre un effetto-domino nel mondo arabo. Sbagliato. I tasselli del domino stanno cadendo nella direzione sbagliata».
Come la vedono i Neocon? Un editoriale dell’opinionista di destra Charles Krauthammer sul settimanale «Time» del 9 novembre 2003, intitolato Al diavolo la vostra simpatia (rivolto al resto del mondo), contiene alcuni passaggi chiave. «È pura finzione l’idea secondo cui dopo l’11 settembre ci sia stato un sentimento pro-americano successivamente dilapidato sotto l’amministrazione Bush. Quel sentimento non è mai esistito. L’invidia per l’America, il risentimento per la nostra forza, l’odio per il nostro successo sono stati una costante per decenni, e in modo particolare da quando la vittoria nella guerra fredda ci ha lasciati come l’unica superpotenza. Bill Clinton era il presidente più disponibile al compromesso, il più sensibile e il più multilateralista che si possa immaginare, eppure sappiamo che al-Qaeda iniziò i preparativi dell’11 settembre proprio durante la sua presidenza. Clinton fece dell’umiltà la sua vocazione, chiese perdono per la schiavitù dei neri, per l’internamento dei giapponesi-americani durante la guerra, per non aver salvato il Ruanda. … Ciò ci fece davvero un gran bene. Bin Laden lanciò la sua dichiarazione di guerra all’America nel 1996, al culmine del buon internazionalismo di Clinton. … Gli europei ci disprezzano per la nostra eccessiva religiosità, mentre il mondo arabo ci disprezza come portatori di secolarismo. Siamo odiati come nemici dell’Islam, eppure negli anni Novanta siamo intervenuti militarmente per tre volte – nel Golfo Persico e nei Balcani – per salvare il Kuwait, la Bosnia e il Kosovo, tutte nazioni musulmane. E nel caso delle ultime due non c’era nessun vantaggio per gli Stati Uniti: era internazionalismo e umanitarismo del più alto livello.»
Krauthammer coglie nel segno quando ricorda che il terrorismo non è stato provocato dalle politiche di Bush. L’escalation degli attentati contro l’America – dal primo attacco al World Trade Center del 26 febbraio 1993, che per puro miracolo fece «solo» sei morti e mille feriti, fino al cacciatorpediniere Uss Cole nel 2000 – coincide con i due mandati presidenziali di Bill Clinton, un presidente al quale l’Europa e la sinistra mondiale riservavano una sorta di venerazione. Il massacro delle Torri Gemelle era in gestazione ai tempi in cui l’America era governata da un leader che incontrava Prodi, D’Alema, Jospin e Schröder nei seminari sulla Terza Via della sinistra mondiale; un leader che si adoperò attivamente per dare uno Stato ai palestinesi. L’11 settembre non è stato un atto di guerra contro l’amministrazione Bush. Quali siano stati gli errori di George W. in Medio Oriente è chiaro; quale strategia alternativa avrebbe adottato l’Europa non lo è mai stato.
L’Europa sperimentò per prima sulla propria pelle gli attentati di matrice mediorientale: dalle Olimpiadi di Monaco nel 1972 al dirottamento dell’Achille Lauro e alle stragi di Parigi negli anni Ottanta. La risposta dei governi europei aveva tentato di placare i terroristi perché volgessero altrove la loro furia: una politica fatta di piccoli espedienti opportunistici, non una strategia. Sulle radici del fondamentalismo islamico il neoconservatore Richard Perle scriveva: «Prendete una vasta area della superficie terrestre, abitata da popoli che ricordano una storia gloriosa. Arricchiteli tanto che si possano permettere la Tv satellitare e Internet, così che possano vedere com’è la vita sull’altra riva del Mediterraneo o oltre l’Atlantico. Poi condannateli a vivere in città miserabili, soffocanti e inquinate sotto il governo di dirigenti incompetenti e disonesti. Ingabbiateli in burocrazie e controlli così opprimenti che nessuno possa sopravvivere senza corrompere qualche funzionario pubblico. Sottoponeteli al dominio di classi dirigenti che sono diventate mostruosamente ricche grazie a un petrolio che in teoria appartiene a tutti. Negate a quella gente ogni istituzione in cui possano liberamente esprimere le loro rimostranze. Uccidete, imprigionate, corrompete o esiliate qualsiasi personaggio politico, artista o intellettuale che possa articolare un’alternativa moderna alla tirannide. Fate sì che le menti delle nuove generazioni siano formate da religiosi impregnati di una teologia medievale e di un’autocommiserazione terzomondista. Mescolate tutti questi ingredienti: e che cos’altro vi aspettate di creare, se non una plebe inferocita?».
Che l’islamismo nascesse non dalle colpe dell’Occidente, bensì dal drammatico fallimento delle classi dirigenti del mondo islamico, era una tesi già ampiamente corroborata dalla controprova di quei paesi che, senza la rendita petrolifera, avevano conosciuto un formidabile sviluppo economico-sociale e offrivano alle loro giovani generazioni la prospettiva di un futuro migliore. Cioè Cina, India, Sudest asiatico. Come osservava allora un neocon dal passaporto britannico, «molti europei si cullano nell’illusione che solo se George W. Bush se ne andrà, ritorneremo tutti in un magico mondo di amore fraterno». Il presidente manicheo che si ostinava a dividere il mondo tra le forze del Bene e del Male finì per trasmettere un atteggiamento simmetrico nei suoi critici e avversari: convinti che il Male fosse lui, e la sua America.
Sono tornato ai miei appunti del 2004 a San Francisco perché la memoria gioca brutti scherzi. L’intera famiglia Bush ha rotto con Trump e questo ha fatto di loro dei «repubblicani buoni», rivalutati e rimpianti. Si dimentica che il fenomeno Trump è nato anche come reazione alle bugie di Bush, al governo dei petrolieri, alle guerre infinite, alla crisi dei mutui nel 2008. Senza i contributi micidiali di Bush alle fake news non si sarebbe sviluppato nella base repubblicana l’attuale livello di diffidenza verso il governo, questo patologico sospetto verso le istituzioni, questo rifiuto istintivo delle verità ufficiali. Il negazionismo sul cambiamento climatico, i no vax, Trump che sostiene di aver vinto le elezioni del 2020 sono figli di un’epoca che dall’11 settembre ha tagliato molti ponti con la realtà.
Alle fake news della destra, la sinistra risponde con le sue, che hanno sempre in comune l’avversione per l’Occidente. Un caso da manuale è l’ecatombe da Covid nell’Africa subsahariana, annunciata regolarmente per due anni e mai cominciata. Di Covid è stato più probabile morire in Italia o negli Stati Uniti anziché nei paesi più poveri del pianeta, malgrado il loro accesso ai vaccini sia rimasto scandalosamente basso. La spiegazione scientifica è limpida: la giovanissima età media li protegge, quasi quanto il vaccino. È una buona notizia. E non valgono sotterfugi per minimizzarla. Fanno testo le statistiche raccolte nella banca dati Our World in Data. Ma l’Africa, noi lo abbiamo deciso da tempo, deve fare notizia solo per le sue tragedie. Ci interessa in quanto epicentro della miseria e sofferenza umana, continente devastato da conflitti armati e guerre civili, nuova frontiera del jihadismo, terra di conquista per il neocolonialismo occidentale o più di recente cinese, bacino di migranti disperati, con l’aggiunta delle prossime ondate migratorie legate alle catastrofi climatiche.
In questo scenario cupo e desolato, quando è iniziata la pandemia abbiamo «deciso» che, ovviamente, avrebbe inflitto danni assai maggiori al continente nero. È scattato il riflesso pavloviano di noi occidentali, l’automatismo umanitario del senso di colpa. Poiché i vaccini, almeno quelli che funzionano, sono prodotti in Occidente e soprattutto in America, la nuova ecatombe africana doveva diventare l’ennesima macchia sulle nostre coscienze. Una strage provocata dall’egoismo dei ricchi. Perché non è andata così? La disparità di accesso ai vaccini esiste; è innegabile e imperdonabile. Questo conferma l’insuccesso di Covax, l’iniziativa promossa dall’Onu e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per far arrivare ovunque i farmaci immunizzanti. Per la verità, il fiasco non è solo una conseguenza dell’egoismo dei ricchi. Un ostacolo serio riguarda la distribuzione e la logistica. I vaccini più efficaci made in Usa spesso richiedono una conservazione a bassissime temperature, che è problematica in aree subsahariane dove la corrente elettrica scarseggia. Per ogni dollaro di costo del vaccino, tocca spenderne altri 5 nel trasporto e conservazione fino al destinatario finale. Bisogna infine fare i conti con un’area no vax che nei paesi poveri è perfino più estesa. Nell’Africa occidentale solo il 39 per cento della popolazione è disposta a farsi inoculare il vaccino: intervengono antichi pregiudizi e diffidenze verso la medicina occidentale o verso i governi locali che la sponsorizzano. Ma lo scarso accesso ai vaccini non è stato così letale come si temeva.
Di fronte ai dati sulla bassa mortalità, molti occidentali storcono il naso: poiché la realtà non coincide con i nostri pregiudizi, allora le statistiche devono essere false. È plausibile che i paesi più arretrati siano meno efficienti di noi nel censire i decessi da Covid, ma c’è un sistema collaudato per aggirare questa lacuna ed è la misurazione delle «morti in eccesso». La si può consultare su diverse fonti, tra cui il settimanale «The Economist». Lo scarto dalla media dei decessi annui tra il 2020-21 e l’era pre-Covid dà indicazioni attendibili. Questa misurazione ineccepibile conferma che la strage africana non è mai avvenuta, anzi, la pandemia è stata più benigna a sud del Sahara. La spiegazione va ricercata nell’età media di quelle popolazioni: è di 20 anni contro i 43 dell’Unione europea. La prorompente vitalità demografica, che abbiamo spesso considerato come una delle piaghe africane, in questo caso rivela un rovescio positivo della medaglia. Alcuni scienziati aggiungono una spiegazione complementare: i paesi più esposti alla malaria potrebbero aver sviluppato anche altre forme di parziale immunità contro il Covid. Quest’ultima rimane un’ipotesi da dimostrare; mentre la protezione offerta dalla giovane età è una certezza. Anche perché di Covid muoiono più spesso persone affette da altre patologie come obesità e diabete, anch’esse diffuse maggiormente in età avanzata. La giovinezza è servita da scudo, supplendo ad altre carenze africane.
In questo quadro anche l’egoismo sanitario dei paesi ricchi è stato razionale: i vaccini sono andati con priorità alle zone fragili, che stavolta coincidevano con le aree ricche del pianeta. Opulenza e vulnerabilità vanno di pari passo, di fronte al Covid. Questo non deve esimerci da nuovi sforzi per una diffusa distribuzione planetaria dei vaccini. Qualche scrutinio supplementare andrebbe esercitato su quelle burocrazie internazionali come l’Oms a cui deleghiamo la missione. Ma la sorpresa positiva dall’Africa racchiude una lezione per noi. Gli automatismi umanitari che ci hanno fatto velo sono, in fondo, l’ultimo retaggio neocoloniale. Per assuefazione, per pigrizia mentale, siamo abituati a pensare che tutto ciò che accade nel mondo dipenda dall’Occidente. Ci consideriamo l’ombelico dell’universo e il motore della storia, anche se da tempo non lo siamo. In questo caso il mea culpa delle coscienze occidentali è scattato a prescindere dai fatti, ci siamo fustigati per aver provocato una tragedia che non è mai avvenuta. Nel frattempo alcuni leader africani, confortati da tutto il male che gli occidentali dicono di se stessi, hanno continuato a spalancare i propri paesi alla penetrazione della Cina, inclusi gli scadenti vaccini made in China.
L’altra faccia del declino occidentale rivelata dalla pandemia è la riluttanza a osservare chi fa meglio di noi. Provincialismo, autoreferenzialità, mancanza di curiosità e di umiltà: sono tutti sintomi che la nostra civiltà ha perso dinamismo. Una parte del mondo – simile per livello di ricchezza e perfino più vecchia di noi – ha dimostrato di avere difese molto più efficaci delle nostre. È l’Estremo Oriente. Un caso a sé stante è la Cina con i suoi metodi autoritari. Ma fior di paesi democratici e rispettosi dei diritti umani, come Giappone, Corea del Sud e Taiwan, hanno registrato tassi di mortalità da Covid microscopici rispetto ai nostri. Ogni tanto si è parlato di qualche «ondata» di contagi anche in quei paesi, e i titoli dei nostri media hanno tentato di drammatizzare, ma i loro numeri percentuali sono rimasti frazioni minuscole e pressoché invisibili in confronto ai nostri. Questa è l’unica eccezione costante, che ha retto a tutte le prove stagionali. I numeri del successo asiatico sono impressionanti, sbalorditivi per chi continua a illudersi che l’Occidente sia sinonimo di modernità e progresso. Non sono piccoli scarti percentuali, sono dislivelli abissali fra noi e loro. Se in Occidente avessimo avuto la capacità di contenimento del Covid dimostrata a Tokyo, Seul e Taipei, non staremmo parlando di una tragedia.
L’Institute for Health Metrics and Evaluation della University of Washington di Seattle ha fatto questa proiezione: se la Corea del Sud avesse fatto scuola, se il resto del mondo avesse avuto i suoi risultati, avremmo contato 440 milioni di infezioni in meno nell’arco di 21 mesi. Eppure non si è mai acceso in Occidente un dibattito pubblico sul «modello asiatico». Perché? Una parte della spiegazione sta in quella particolare forma di provincialismo alimentata da alcuni secoli di dominio occidentale sul pianeta. Continuiamo ad avere un deficit di informazione, perfino una mancanza di curiosità, perché siamo condizionati da un complesso di superiorità, ormai anacronistico. Un’altra spiegazione chiama in causa la Cina. Per dimensione e potenza, la Repubblica popolare ha invaso lo spazio immaginario e ha messo in ombra i suoi vicini. Xi Jinping ha catturato la nostra attenzione: prima quando ha nascosto la pandemia e ha mentito sulle sue origini; poi quando ha dispiegato la potenza del regime per dei lockdown coercitivi e a tratti feroci. È il modello non autoritario quello che dovrebbe interpellarci. Per la loro vicinanza geografica, Taiwan, Corea del Sud e Giappone sono stati i primi a subire l’onda di contagio originata dalla Cina. In parte, proprio la loro prossimità con la Repubblica popolare li ha però resi vigilanti: scottati dal precedente della Sars nel 2003 (nascosta anche allora da menzogne iniziali dei leader cinesi), molti paesi dell’Estremo Oriente e del Sudest asiatico si erano dotati di sistemi di riconoscimento rapido e precoce delle pandemie.
Quando è arrivato il Covid, per limitare il contagio hanno usato un mix di ingredienti: nessun lockdown generalizzato; alto livello di coesione sociale e rispetto delle regole; campagne di vaccinazioni partite tardi ma infine assai efficaci; chiusura delle frontiere. Queste soluzioni sono spesso legate fra loro. Non è stato necessario il ricorso a lockdown duri come in Europa, proprio perché la popolazione e gli esercizi pubblici adottavano con disciplina le mascherine e le misure di distanziamento, igiene e prevenzione. La vicenda dei vaccini è un’altra lezione interessante. L’Estremo Oriente all’inizio ha perso mesi preziosi in attesa delle forniture dall’industria farmaceutica americana. Nel caso del Giappone, il ritardo è stato aggravato perché l’authority sanitaria ha preteso che fossero rifatti tutti i test clinici sulla popolazione locale. Ma questo rigore nazionalista ha contribuito a rassicurare i cittadini sull’efficacia e sicurezza dei vaccini. Una volta partita la campagna vaccinale, il Giappone ritardatario ha raggiunto e superato i paesi occidentali. La democrazia dei confuciani sembra vaccinata non solo contro il Covid bensì anche contro l’iperindividualismo, l’egocentrismo, l’ossessione per i diritti dei singoli, la secessione dalla comunità e la sfiducia nel principio di autorità.
Non potendo diventare confuciani, noi occidentali abbiamo però qualche modello da studiare in casa nostra. Senza arrivare agli exploit giapponesi o sudcoreani, nella pandemia la Danimarca è un successo più vicino a noi. Ci sarebbero stati il 13 per cento di infezioni e decessi in meno, se avessimo fatto come i danesi. La Danimarca è un caso interessante perché è la nostra Corea del Sud: i due paesi hanno una cosa in comune, sono in testa alle classifiche mondiali quando viene misurato il «livello di fiducia generale» della popolazione verso i propri governanti e verso i propri concittadini. La fiducia sociale è un indicatore prezioso sulla salute della democrazia, la coesione della comunità, il rispetto per gli altri. È stata un’arma vincente nella pandemia, come lo è per molte altre sfide. Contro il Covid, i paesi ad alta fiducia verso lo Stato e verso i vicini di casa e di quartiere non hanno avuto bisogno di rigide imposizioni dall’alto, si sono autoregolati senza soccombere all’intrusione burocratica.
In America il termometro della fiducia offre una diagnosi pessima. Nel 1964 toccò il massimo: l’80 per cento degli americani, interrogati nelle indagini demoscopiche, si dichiarava convinto che «il governo avrebbe fatto quasi sempre la cosa giusta». Dopo la guerra del Vietnam e le lacerazioni interne degli anni Settanta, la fiducia nel governo precipitò, e scese ulteriormente in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Oggi la confidence nello Stato è inferiore al livello cui era crollata durante lo scandalo del Watergate (1974). Nei confronti degli «altri» – vicini, colleghi, concittadini – era ancora al 66 per cento nel 1997, oggi è scesa al 40. E l’atmosfera che si respira è inquietante. Per ritrovare fiducia in noi stessi, a quanto pare, la condizione minima è la resa incondizionata dell’avversario politico interno. I baffetti di Hitler che vidi aggiungere alle foto di Bush durante le manifestazioni di sinistra contro la guerra in Iraq nel 2003 li ho ritrovati nelle manifestazioni del Tea Party (destra) quando anche Obama e Nancy Pelosi divennero Hitler; poi, di nuovo, i baffetti sono rispuntati sui ritratti di Trump.
La pandemia non ci ha reso migliori. È diventato normale, quasi banale, leggere titoli sul decesso di un «noto medico no vax, morto di Covid». Arriveremo a scrivere Morto di cancro, fumava sigarette, Ucciso da un infarto, era obeso e rifiutava le diete? Chi sceglie questo tipo di comunicazione spera forse di avere un effetto educativo. Sarebbe bello, ma non accade. I veri no vax sono figli dell’11 settembre, non leggono quei titoli «educativi», oppure li credono falsi, fake news, parte di una congiura. La realtà non li scalfisce. Quei titoli dicono soltanto che «noi Giusti» per una giusta causa possiamo perdere umanità, pietà e compassione; ci abituano solo a scendere sempre un po’ più in basso nel livello della fiducia collettiva. La distruzione della fiducia è stata una malattia terminale per altre collettività: fu tipica di sistemi totalitari come l’Unione Sovietica o la Germania Est, dove nessuno credeva più a nessuno, i proclami di governo erano per principio delle bugie, i vicini di casa potevano essere delle spie. La nostra confidence collettiva sta già toccando livelli di allarme.
L’Occidente, quando credeva in se stesso e nei propri valori, si vantava di essere stato la culla della rivoluzione scientifica, fonte di progresso e di immensi benefici per l’umanità intera. Oggi una fascia non marginale della società occidentale pensa che la scienza sia un inganno, che le sue scoperte siano manipolate dai poteri forti: Bill Gates, per esempio, è stato descritto come il regista occulto e il grande profittatore dell’operazione vaccini. L’avanzata della paranoia ha origini complicate: l’antica abitudine di demonizzare Big Pharma, per esempio, ha creato un terreno favorevole per accusare il capitalismo sanitario e quindi seminare dubbi sui vaccini.
L’establishment progressista, da parte sua, sembra fare ogni sforzo per accreditare la diffusa ossessione popolare sul dominio dei poteri forti: dalle riforme scolastiche che Obama diede in appalto a un club di filantropi miliardari (e sì, c’era anche Bill Gates, insieme a Michael Bloomberg) all’ambientalismo delegato ancora una volta allo stesso club di miliardari filantropi (ancora Bill Gates, stavolta con Jeff Bezos, Larry Fink, George Soros, la Ford Foundation e la Rockefeller Foundation). Infine la decisione compatta dei Padroni della Rete (Facebook, Google, Twitter, Amazon), che sul volgere del 2020 oscurarono Trump dai loro social media, una censura senza precedenti nella storia di un paese dove il Primo Emendamento della Costituzione aveva garantito tutele quasi illimitate alla libertà di espressione (anche per i pazzi, i criminali e i fascisti). La vena paranoica si estende come una metastasi nelle società civili dell’Occidente, osserva questi grandi manovratori e si sente rafforzata nella sua certezza: il Grande Complotto c’è.
VII
Il Blob e il processo alla nostra ritirata globale
Donald Trump arrivò a immaginare un’America che esce dalla Nato e rinuncia alla costosa protezione dei suoi alleati europei. Joe Biden ha abbandonato l’Afghanistan al suo destino dopo vent’anni di guerra, e in Ucraina ha escluso un intervento militare che lo avrebbe portato a combattere la Russia. Un tratto comune unisce le politiche estere sotto due presidenze tanto diverse. È la presa d’atto che l’America «non ce la fa più». Gli oneri accumulati durante l’ormai secolare egemonia sono al di sopra delle sue forze attuali. Sia Trump sia Biden, ciascuno a modo suo, hanno cominciato a gestire una ritirata globale. Fin qui molto disordinata. Tutti e due, per questo, sono stati messi sotto accusa. Il processo alla ritirata globale degli Stati Uniti ci insegna qualcosa sul suicidio occidentale, ma non è facile estrarne le lezioni giuste, perché grande è la confusione sotto il cielo. Nei tribunali che lo istruiscono, siedono i responsabili di una serie di disastri precedenti. Ricostruire il significato del drammatico ritiro da Kabul, per esempio, è complicato dal fatto che i veri colpevoli stanno nella giuria che ha emesso il verdetto contro Biden. Impero rattrappito e assediato, l’America ha bisogno di effettuare una ritirata strategica: ridurre impegni superflui, delegare ad altri alleati certe zone del pianeta dove i suoi interessi vitali non sono in gioco, concentrarsi sulla salute interna della propria democrazia e della propria economia. E tenere «gli occhi fissi sul pallone», cioè non perdere mai di vista l’unica sfida esistenziale: quella con la Cina. L’ultima chance per prolungare i bagliori del «secolo americano» sta in questo riordino: fare meno cose, farle bene. Ma è ancora possibile? La tragedia ucraina ha mostrato che il ridimensionamento dell’impero americano può avvenire in modo tutt’altro che ordinato e indolore. Il fatto che questa ritirata sia storicamente necessaria non impedisce che essa avvenga in forme traumatiche.
Non esistono imperi eterni né civiltà immortali. La nostra non sfuggirà alla regola. La storia procede per cicli di ascesa e declino delle potenze. L’Occidente non farà eccezione. Il filosofo tedesco Oswald Spengler scrisse Il tramonto dell’Occidente fra il 1911 e il 1922, periodo tormentato, ma in seguito la nostra civiltà ha conosciuto tempi migliori. Per chi vive dentro uno di questi cicli è urgente capire: di quale decadenza soffre l’Occidente? Stavolta è irreversibile? Quanto durerà il percorso in discesa? Quali ne saranno le conseguenze, per noi «decaduti» e per tutti gli altri? Quali vincitori ci detteranno nuove regole e ci imporranno nuovi valori?
Noi contemporanei non possiamo individuare con sufficiente chiarezza tutte le cause che decideranno il corso degli eventi. Perciò cerchiamo delle chiavi interpretative: la storia e la geografia sono due strumenti preziosi. La storia: ogni nazione è la sedimentazione del suo passato, la risultante di eventi stratificati nella memoria di generazioni. La geografia: il territorio che occupiamo decide in parte il nostro destino, dalle risorse naturali alla latitudine e al clima, fino alla presenza di vicini ingombranti o pericolosi.
Dentro la storia c’è anche il patrimonio di valori, ideologie, credenze e costumi, religioni e tradizioni. La cultura di un popolo determina quello che i generali in guerra chiamano «il morale delle truppe». Vale anche per la società civile: la fiducia in se stessi, l’attaccamento ai propri principi, la stima e l’affetto verso i propri concittadini, tutto questo può decidere la tenuta di una comunità sottoposta a shock esterni.
L’Occidente ha già vissuto tante crisi politiche, economiche, ideali, che ne hanno intaccato la fiducia nel proprio sistema. Negli anni Trenta del secolo scorso, l’America sprofondò nella Grande Depressione. Le democrazie europee vacillarono. I totalitarismi di Mussolini, Hitler, Stalin per qualche tempo sembrarono più solidi e più efficienti. Negli anni Sessanta, la guerra del Vietnam e le rivolte razziali fecero dell’America un impero sotto processo, con una caduta di credibilità al proprio interno e verso il resto del mondo. L’Unione Sovietica sembrò a molti un’alternativa, prima di crollare sotto il peso della propria tremenda inefficienza e della mancanza di libertà. L’11 settembre 2001 portò un altro colpo al prestigio americano, mostrando la vulnerabilità di una superpotenza che si credeva invincibile. Oggi sta toccando un nuovo minimo. Scegliete pure voi i luoghi che vi paiono più emblematici della perdita di potere globale degli Stati Uniti: la Siria o l’Iran, il Venezuela, Hong Kong, la Crimea e l’Ucraina, l’Afghanistan. Oppure osservate i segnali di sgretolamento interno della più antica liberaldemocrazia occidentale: il pendolo elettorale impazzito, che alterna presidenti impegnati a cancellarsi l’un l’altro e maggioranze congressuali decise a sabotare gli stessi presidenti. La violenza di estrema destra del 6 gennaio 2021 con l’assalto al Congresso di Washington. La violenza di estrema sinistra che ha saccheggiato le città con il pretesto dell’antirazzismo e ha delegittimato le polizie. Due Americhe, ciascuna delle quali vede l’altra come il male assoluto e sembra concepire un futuro accettabile solo se la parte avversa acconsente a una capitolazione, una resa senza condizioni. Oppure potete concentrarvi sulla gestione della pandemia, piena di contraddizioni e sbandate, che lascia in eredità delle società occidentali ancora più divise. Aggiungete pure la specifica situazione dell’Unione europea: indebolita dall’uscita del Regno Unito, ricattata da Putin, indecisa fra un riarmo che l’opinione pubblica non vuole e una debolezza strategica che ne fa terreno di conquista per le potenze autoritarie.
A essere ottimisti si può osservare che l’Occidente, come sistema politico e modello ideologico, include una vasta propaggine asiatica: India, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Indonesia sono democrazie nate sul modello delle nostre. Ma è sconsiderato trattarle come un insieme omogeneo. E se venisse meno il collante dell’America – scenario possibile –, quanta coesione e quanta resistenza opporrebbero alla Cina? Non escludo un’opzione improntata alla fiducia: come conseguenza degli errori e degli eccessi della leadership cinese, arrogante al punto da spaventare i suoi vicini, magari in Asia prenderà forma un’alleanza delle democrazie proprio mentre quella euro-americana s’indebolisce.
I precedenti degli anni Trenta, Sessanta e del 2001 potrebbero rassicurarci: stiamo toccando un nuovo minimo, ma forse ci risolleveremo come abbiamo fatto in passato. Il declino dell’Occidente in tal caso verrà spalmato su tempi lunghi, gli effetti veramente disastrosi potrebbero attendere diverse generazioni. L’idea di una discesa lenta, quasi indolore, ha dei precedenti nobili e non manca di fascino. L’Impero romano, dai primi segnali di crisi fino alla sua caduta finale, impiegò quattro secoli per scomparire. Furono quattrocento anni segnati anche da capitoli positivi, belle vicende che sembrarono preludere alla rinascita. Nel frattempo Roma aveva generato un parente, l’Impero d’Oriente con capitale Costantinopoli-Bisanzio, che sarebbe sopravvissuto per molti altri secoli. Inoltre, per consolarci, ricordiamo che trovarsi nel cuore della decadenza a volte fu piacevole. Vienna dopo la prima guerra mondiale, quando l’Impero austro-ungarico si era ormai disintegrato, restava una delle più belle capitali del mondo, un centro artistico capace di attirare i migliori talenti dell’epoca. La qualità della vita era notevole. Tra gli ingredienti di una decadenza euforica c’è l’accumularsi di debito pubblico. Grazie all’esperimento inaudito delle politiche antirecessione varate durante la pandemia – 5000 miliardi di dollari di spesa pubblica fra Trump e Biden, 8900 miliardi di liquidità immessi nell’economia dalla banca centrale –, gli Stati Uniti hanno raggiunto il club dei paesi con un debito pubblico oltre il 100 per cento del Pil (un club di cui l’Italia è fra i primi membri). La «bella vita in prestito» ha spesso consolato gli imperi al crepuscolo.
Godiamoci il declino, allora? I paragoni storici vanno maneggiati con cautela. L’Impero romano fu conquistato dai barbari con ondate di immigrazioni e campagne militari spalmate su secoli, però i nuovi arrivati ammiravano molte cose di Roma. Una parte di quei migranti erano «profughi climatici»; gli Unni, per esempio, abbandonarono l’Asia in seguito a gravi siccità: la fuga a Occidente era la ricerca della salvezza, la trovarono in una civiltà prospera e ordinata. Per quanto fossero dei valorosi guerrieri, tanti capi barbari avevano una sorta di soggezione nei confronti di Roma, la cui grandezza li seduceva. Cercarono di copiarne diversi valori e istituzioni, ne adottarono la religione (quando questa era diventata il cristianesimo). Non a caso alcuni discendenti di tribù germaniche sognarono di ricostituire un impero «sacro e romano».
Oggi la decadenza dell’Occidente si nutre del fenomeno opposto: il processo ai valori che furono i nostri. Prima ancora che siano le potenze autoritarie a proclamare il loro disprezzo verso il modello occidentale, quest’ultimo è stato ripudiato in casa propria. Da un lato c’è un establishment economico che si definisce globalista: è un eufemismo per non dire che disprezza l’identità nazionale, cioè quello che fu un collante storico delle democrazie. I capitalisti occidentali hanno combattuto i nazionalismi perché con l’abbattimento delle frontiere hanno reciso ogni dipendenza dalla forza lavoro nazionale: hanno sfruttato gli immigrati in casa propria, gli operai cinesi (o messicani, o romeni) all’estero. D’altro lato c’è un establishment culturale – al comando nelle istituzioni educative, nei media, nel mondo dell’arte e dello spettacolo – che rilancia il tema degli anni Sessanta: il Male supremo siamo noi, tutte le sofferenze del mondo hanno la loro radice nell’Occidente.
Il paragone con gli anni Sessanta, però, ha qualcosa di rassicurante: allora ci fu un happy ending, un lieto fine. La «meglio gioventù» (quella che io ammiravo da adolescente e che avrei presto emulato, unendomi al popolo di sinistra come membro del Partito comunista italiano appena compiuti i 18 anni, nel 1974) anche allora vedeva nell’America l’Impero del Male, nella sua democrazia una finzione ipocrita, nel capitalismo un sistema perverso da abbattere. Poi divenne chiaro che l’alternativa da noi esaltata – il comunismo – laddove si era realizzata come sistema di potere aveva generato sofferenze molto maggiori. Il primo a decadere, fino al crollo finale, fu il blocco sovietico con i suoi satelliti o colonie. Tutto accadde a gran velocità, mentre l’America era governata da un leader, Ronald Reagan, che non si vergognava né dell’Occidente né del capitalismo. La febbre estremista dell’autodenigrazione, che imperversa oggi nelle università americane, nelle redazioni dei giornali, a Hollywood, è un remake talmente fedele degli anni Sessanta – anche nello spettacolo degli opposti estremismi – da aprire una speranza: la crisi passerà anche stavolta, e torneremo a credere in noi stessi?
Si aggiungono altre ragioni di ottimismo. L’America continua ad avere l’economia più ricca del mondo, e fino a prova contraria questo significa che il capitalismo funziona ancora (la gara dei vaccini anti-Covid lo ha confermato); perfino nell’abbracciare la lotta al cambiamento climatico il capitalismo occidentale dà prova di duttilità e capacità di rinnovarsi. Le università americane continuano ad attirare i figli dei ricchi cinesi e russi. L’abbondanza di risorse energetiche rende l’America autosufficiente e la mette in condizioni di sicurezza invidiabili. Dopo decenni di flussi migratori prorompenti, il paese vanta un equilibrio demografico migliore di molte altre nazioni: il suo futuro può contare su una forza lavoro più giovane. Lo Stato di diritto («the Rule of Law»), con la certezza delle regole che offre, rende l’Occidente superiore ai modelli autoritari dove il capriccio del despota rende ogni legge aleatoria. Infine, siccome non si vive solo di soft power, l’America (a vantaggio degli alleati che essa s’impegna a difendere dalle aggressioni altrui) ha tuttora una potenza militare impressionante: 750 basi militari in 80 paesi. In questo senso la Pax Americana – che alludeva alla Pax Romana e alla Pax Britannica, e parve avverarsi nel breve «momento unipolare» dopo il crollo dell’Urss, quando gli Stati Uniti non ebbero rivali di stazza – assomigliò a un impero globale su cui non tramontava mai il sole.
Proprio quest’ultimo dato sulle basi militari, però, si presta a essere ribaltato in una causa di debolezza. Il costo «ordinario» per il mantenimento delle forze armate americane ha ormai oltrepassato da tempo i 700 miliardi di dollari annui, senza tener conto di eventuali conflitti, né dei costi collaterali come le pensioni e le cure mediche dei reduci. Altri imperi sono crollati quando hanno sofferto di over stretching, un’iperdilatazione dei territori da difendere e delle spese militari, non più sostenibili. Qui torna preziosa la lezione di un classico della geopolitica, Ascesa e declino delle grandi potenze di Paul Kennedy (Garzanti 1989), un vasto affresco di cicli storici nell’arco di mezzo millennio, dal Cinquecento al Novecento. Il filo conduttore è il rapporto fra potenza economica e militare. Quel che conta, per stabilire le gerarchie fra nazioni, sono i rapporti di forza relativi e la velocità di cambiamento, il ridursi dei vantaggi del numero uno. Anche quando l’Impero britannico godeva ancora di una certa supremazia, la rapidità di ascesa della Germania già lasciava presagire uno squilibrio in costruzione, quindi la premessa di futuri conflitti. Le rivoluzioni economiche e tecnologiche possono alterare in fretta le gerarchie tra nazioni: accadde quando nel Cinquecento apparvero le navi a lungo raggio munite di cannoni, e con lo spostamento del baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico, o più tardi con i motori a vapore e l’economia del carbone. Una rivoluzione tecnologica ha vincitori e perdenti, crea squilibri, accelera lo scardinamento di un ordine internazionale inadeguato.
Oggi l’emergere dell’Indo-Pacifico come il nuovo centro del mondo è una di queste rivoluzioni: l’America ne è consapevole, ma questo non basta a salvarla. Se guardiamo ai rapporti di forza relativi, anziché alla ricchezza assoluta, il peso degli Stati Uniti nell’economia del pianeta ha toccato il suo apice alla fine della seconda guerra mondiale e da allora è su una traiettoria discendente. L’ascesa di «tutti gli altri» continua a ridimensionare l’egemonia americana. Non importa quando accadrà l’aggancio ufficiale del Pil cinese a quello americano: è solo un pezzetto di uno scenario più ampio che vede il primato Usa assottigliarsi su più fronti. Naturalmente, fra «tutti gli altri» figurano anche paesi che al momento sono alleati e amici degli Stati Uniti.
L’instabilità è la regola nelle relazioni internazionali: quello che noi chiamiamo «ordine mondiale» è sempre stato una situazione tutt’altro che ordinata, ai limiti del caos e dell’anarchia. La Pax Americana era un’illusione come a suo tempo lo fu la Pax Romana. La guerra ha avuto un ruolo decisivo nella storia, ed è illusorio pensare che scompaia dal nostro orizzonte. Tutt’al più possono cambiare le sue regole: la spaventosa potenza distruttiva degli arsenali nucleari ne ha fatto un deterrente, che ha generato alcuni conflitti «per procura» (fra piccoli alleati delle superpotenze rivali), ma oggi dirotta energie militari verso armi asimmetriche, poco costose e devastanti, quali droni e altre applicazioni dell’intelligenza artificiale, cyberguerre, fake news virali per la disinformazione, bioterrorismo, usi militari dello spazio.
Tutte queste novità nel campo strategico tendono a sfavorire l’Occidente per almeno tre ragioni. Primo: le nuove armi tecnologiche e non convenzionali costano poco, quindi riducono il vantaggio militare associato al Pil degli Stati Uniti. Secondo: l’America ha investito così tanto e così a lungo nelle armi tradizionali – si pensi al costo di una portaerei –, che i suoi vertici militari sono legati al «capitale» di cui dispongono, mentre altre nazioni in ascesa diversificano più agilmente verso le nuove tecnologie belliche. Terzo (e questo riguarda l’Europa, il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan): una lunga pace sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti ha creato pericolose illusioni pacifiste nell’opinione pubblica delle liberaldemocrazie.
Fra tali illusioni figura l’ambizione dell’Europa di essere una «potenza erbivora», capace di difendersi usando solo strumenti civili. Perché il pacifismo vinca, deve essere condiviso da tutti. Perciò molti occidentali hanno voluto credere alla rappresentazione di una Cina «che non ha il Dna dell’imperialismo», come dice Xi Jinping, e alla sua espansione come un processo win-win, o gioco a somma positiva, in cui tutti hanno qualcosa da guadagnare e nessuno viene danneggiato. Questo ricorda le teorie che nel primo Novecento consideravano impossibile una guerra fra Regno Unito e Germania, visti i troppi legami economici e finanziari di reciproco interesse per le due nazioni. È vero che nell’ascesa di una potenza giovane c’è una fase iniziale in cui essa può scegliere di concentrarsi sulla costruzione di un’economia forte, lasciando in secondo piano la dimensione militare. Prima o poi, però, la potenza in ascesa si trova a dover difendere degli interessi globali e la forza militare diventa una garanzia della ricchezza economica. Il formidabile riarmo cinese ci sta dicendo che quella fase è già cominciata.
Paul Kennedy non riduce tutta la storia dell’ascesa e declino alla sola forza economica. Un’economia prospera e sana è una condizione, almeno nel lungo termine, per avere una potenza militare tale da dissuadere i rivali. Ma non è l’unica condizione. Altri fattori importanti sono la geografia, il talento dei militari, i sistemi di alleanze e quel «morale» a cui ho accennato: fiducia in sé, coesione, adesione a valori. Un’attenzione particolare va dedicata alla qualità della classe dirigente. Un establishment sclerotizzato, uno Stato iperburocratico possono minare le basi di una grande potenza: accadde nella Cina della dinastia Ming, nel Cinquecento, per colpa di una casta di mandarini (alti burocrati imperiali) tradizionalisti, ostili al mercato e all’impresa, avversi all’investimento militare, capaci di soffocare dall’alto la creatività della società civile. Questi rischi esistono in Occidente così come nelle nazioni autoritarie.
L’Occidente – se funzionano gli anticorpi della sua democrazia e dello Stato di diritto – dovrebbe saper eliminare una classe dirigente distruttiva. Nel Cinquecento la piccola Europa, frammentata in staterelli e agitata da conflitti continui, risultò più flessibile e aperta all’innovazione rispetto ai grandi imperi centralizzati dell’Oriente (dagli ottomani ai cinesi). Il particolare pericolo del dispotismo, ricorda Kennedy, è che «un sultano idiota poteva paralizzare l’Impero ottomano come nessun papa o imperatore del Sacro Romano Impero avrebbe mai potuto fare in tutta Europa». L’Occidente del XXI secolo, però, sembra aver perso certe capacità d’innovazione politica, e la sclerosi burocratica lo minaccia almeno quanto insidia i regimi autoritari. È pericolosa anche quella burocrazia che comanda la politica estera americana e controlla il dibattito sulle relazioni internazionali. È stata chiamata «il Blob», perché è un magma dai contorni indefiniti, bipartisan, capace di penetrare in molti ambienti politici e intellettuali, con appoggi decisivi da parte dell’establishment globalista. Il Blob non si arrende alla ritirata americana e ha imbastito il processo contro il ridimensionamento dell’impero.
«Io non manderò un’altra generazione di americani a rischiare la vita in Afghanistan senza una prospettiva, senza una missione chiara e definita. Dopo vent’anni di guerra, 1000 miliardi di dollari spesi, più di 2400 dei nostri militari uccisi, chi di voi è pronto a mandare sua figlia o suo figlio su quel fronte?» Con queste parole nell’estate del 2021 Joe Biden concludeva la più lunga di tutte le guerre americane, che ebbe inizio poco dopo l’11 settembre 2001 come reazione a quell’attacco terroristico. Un ventennio: più delle due guerre mondiali e del Vietnam messe insieme. «E nonostante questo» ha ammesso il presidente «i talebani sono tornati al massimo delle loro forze dal 2001.» Era un Biden realista, che parlava alla nazione con il linguaggio dell’onestà.
I fustigatori dell’imperialismo americano sono colpiti da amnesia: rimproverano agli Stati Uniti l’abbandono di un paese nel quale (secondo quel che loro stessi dicevano vent’anni prima) non sarebbero mai dovuti entrare. Il ventesimo anniversario dell’11 settembre ha coinciso con la rivincita dei talebani e il ripristino del loro potere totalitario, subito esercitato calpestando i diritti umani. Non è stata una sorpresa per Biden. Quando il presidente ha preso la sua decisione sul ritiro, un rapporto dell’intelligence Usa gli preannunciava proprio questo: la partenza delle forze americane e Nato con ogni probabilità avrebbe provocato un ritorno al dominio dei talebani. La «guerra più lunga» è stata dunque del tutto inutile? Biden era diventato scettico sulla guerra in Afghanistan molti anni prima, di sicuro lo era già quando faceva il vicepresidente con Barack Obama e si era opposto (invano) alla pressione dei generali che volevano un nuovo aumento di truppe su quel fronte. Denunciava già allora il fatto che in Afghanistan si fosse verificato il medesimo fenomeno che aveva segnato il conflitto del Vietnam, definito mission creep, cioè la metamorfosi strisciante da una missione a un’altra.
All’origine, gli Stati Uniti e la Nato andarono a combattere in Afghanistan non perché il regime dei talebani si macchiava di orrendi abusi, opprimeva le donne e le minoranze religiose, distruggeva preziosi simboli di altre confessioni come le statue millenarie dei Buddha nella Valle di Bamiyan. Per quanto l’elenco dei crimini dei talebani fosse già abominevole, quello che fece scattare l’intervento militare dell’Alleanza atlantica nei confronti di Kabul fu l’aver dato ospitalità e protezione ad al-Qaeda quando Osama bin Laden preparava l’attacco dell’11 settembre 2001. I dirottamenti multipli, la distruzione delle Torri Gemelle a New York, l’attentato contro il Pentagono di Washington, tutto era stato ordito e preparato dalla base afgana di al-Qaeda. I talebani si erano rifiutati di consegnare bin Laden agli americani anche dopo che si era macchiato della strage di quasi tremila civili innocenti. L’invasione dell’Afghanistan da parte di George W. Bush e degli alleati Nato aveva quindi una legittimità e due scopi precisi: castigare un regime terrorista che aveva colpito la sicurezza nazionale degli Stati Uniti; estirpare al-Qaeda. Questi due obiettivi vennero raggiunti. I talebani offrirono una resa incondizionata nel 2003. Bin Laden fu eliminato nel 2011, anche se nel frattempo si era rifugiato in Pakistan con la protezione dei servizi segreti di un’altra teocrazia islamica.
«Missione compiuta» avrebbe potuto dire Barack Obama nel 2011 e ritirarsi dall’Afghanistan: questa allora era la posizione di Biden. Ma nel frattempo era avvenuto il mission creep, l’allargamento strisciante della missione originaria. La sinistra umanitaria si era messa in testa di trasformare l’Afghanistan in una nazione modello per il rispetto dei diritti umani; per la destra dei neoconservatori era un tassello di un piano geostrategico più vasto teso a ridisegnare gli equilibri del Medio Oriente. Sono quelli che oggi accusano Biden di fallimento. Le critiche al presidente per aver perso la guerra vengono da questi due fronti contrapposti. La sinistra umanitaria, cioè la stessa che era solita denunciare le guerre americane come operazioni imperialiste, gli rimprovera di abbandonare il popolo afgano al suo destino, in particolare le donne, che grazie all’invasione Nato avevano acquisito il diritto allo studio e altre parità. I falchi di destra imputano a Biden un’umiliante ritirata di fronte al nemico, sorvolando sul fatto che già Donald Trump aveva preso le distanze da tutte le guerre imperiali dell’era Bush e aveva firmato un accordo con i talebani. Biden ricorda: «Non siamo andati in Afghanistan per costruire una nazione. Nemmeno per unificarla. Non ci è mai riuscito nessuno, neppure gli imperi del passato». Non ebbe successo neppure Alessandro Magno; molto prima che l’Afghanistan fosse definito «la tomba degli imperi» britannico e sovietico.
26 agosto 2021: attentato con strage all’aeroporto di Kabul, 13 soldati americani uccisi (e molti più morti tra i civili afgani) nel mezzo della caotica evacuazione. Quella giornata tragica conferma che non esistono ritirate eleganti o gloriose. Non poteva essere un bello spettacolo, l’abbandono della periferia di un impero che è ormai al di sopra della forza reale dell’America, nonché inadeguato alle sfide dell’oggi. Biden appare come una figura di transizione, con la missione quasi impossibile di ridimensionare il ruolo globale degli Stati Uniti senza che questo appaia troppo umiliante. Qual è la vera genesi della débâcle di Kabul? A sguarnire il dispositivo militare Usa nei giorni concitati dell’evacuazione, chiudendo la base aerea di Bagram, sono stati i generali. Gli stessi che per vent’anni hanno «allevato» un esercito afgano che poi si è squagliato in venti giorni. La trappola per Biden è classica: per dare seguito a una decisione rischiosa e traumatica come il ritiro e l’evacuazione, in quell’estate 2021 ha dovuto affidarsi alla classe dirigente che aveva voluto e applicato la strategia opposta. Il Pentagono non ammetteva di aver sbagliato, ha continuato a favoleggiare di un esercito regolare afgano che avrebbe resistito almeno uno o due anni. Con 715 miliardi di budget «ordinario» nel bilancio del 2021, e trentatré livelli di burocrazie stratificate ai suoi vertici, il dipartimento della Difesa è un organismo autoreferenziale, che nutre se stesso, seleziona per cooptazione, premia il conformismo, rifiuta di ammettere i propri errori.
Attorno alla lobby militare ne sono cresciute altre. Biden viene processato dai colpevoli del disastro afgano, che allignano in tutto l’establishment di politica estera: l’élite globalista, repubblicana e democratica, che pratica il groupthink, il conformismo del pensiero unico internazionalista. È l’establishment organico a una visione «imperiale» degli Stati Uniti, è il Blob. La compattezza bipartisan dell’establishment globalista ebbe come simbolo la decisione di Obama di confermare come segretario alla Difesa un repubblicano dell’era Bush, Robert Gates. Lo shock dell’elezione di Trump nel 2016, la rinascita di una corrente isolazionista di destra nella politica estera hanno fatto uscire allo scoperto anche un anti-Blob di sinistra, una nuova leva di democratici con una visione strategica molto diversa da quella che dominò sotto Roosevelt, Truman, Kennedy, Carter, Clinton. Il ricambio generazionale e culturale ha portato ai vertici del National Security Council il quarantacinquenne Jake Sullivan, fautore di «una politica estera nell’interesse dei lavoratori americani». Lo slogan dell’anti-Blob può sembrare trumpiano, in realtà attinge a una corrente teorica che ha solide radici in campo democratico. L’anti-Blob è la corrente vaccinata contro i pericoli della hybris imperiale: ricorda quanti imperi del passato morirono di collasso per l’eccessiva dilatazione della presenza militare.
Nella squadra di Jake Sullivan una lettura obbligata è The Long Game di Rush Doshi. È la ricostruzione della lunga marcia della Cina verso la sua potenza attuale: per decenni Pechino ha dissimulato le sue intenzioni, ha esibito modestia nello stile diplomatico, ha concentrato gli sforzi sulla creazione della sua ricchezza, ha evitato ambizioni irrealistiche e spese inutili, ha minimizzato le aspettative degli avversari. Nello stesso periodo l’America sprecava il suo «momento unipolare», la stagione irripetibile 1991-2001 in cui fu l’unica superpotenza globale; proprio allora fece concessioni fatali a Pechino; per poi lasciarsi risucchiare negli estenuanti conflitti mediorientali. Un’altra lettura della nuova generazione ai comandi della politica estera con Biden s’intitola Le guerre commerciali sono guerre di classe di Matthew C. Klein e Michael Pettis (Einaudi 2021): è un riesame feroce del trentennio globalista in cui le grandi strategie di Washington furono dettate dagli interessi del suo capitalismo, non delle classi lavoratrici.
Ma il Blob che non vuole la ritirata globale dall’impero è più forte, è onnipresente. Ne fa parte anzitutto quello che un ex generale, il vincitore della seconda guerra mondiale sul fronte europeo, definì nel 1961 «il complesso militare-industriale». La formula, coniata dal presidente repubblicano Dwight Eisenhower, è stata riesumata da Obama nel suo libro di memorie Una terra promessa (Garzanti 2020), a proposito degli scontri indimenticabili che si consumarono alla Casa Bianca dal 2009 in poi sulla guerra in Afghanistan. Il «complesso militare-industriale» è molto più di una lobby. Il Pentagono gestisce una macchina bellica le cui risorse superano di gran lunga quelle dei dieci paesi che la seguono in questa classifica (esclusa la Cina, che si sta avvicinando ai livelli americani); ancora più immenso è l’indotto economico di tutte le aziende che le gravitano attorno; poi c’è l’indotto politico creato dall’abile disseminazione di basi militari e aziende belliche in quasi tutti i collegi elettorali del Congresso. In parallelo c’è l’élite che attorno a questo sistema ha costruito un mondo di think tank, consulenze private, cattedre universitarie.
Dentro il Blob c’è il grosso della diplomazia. C’è la stragrande maggioranza degli opinionisti che si esprimono su questioni internazionali sui media. Ci sono i vip delle «porte girevoli», che alternano incarichi nel business, nella politica, nell’analisi. È un mondo che per tre quarti di secolo ha voluto e assecondato tutte le avventure imperiali dell’America, per esportare libertà e democrazia, per consolidare l’Occidente, nelle varie versioni con cui la destra o la sinistra hanno declinato questi obiettivi. Carriere professionali, potere, prestigio, business: tutto crollerebbe se la ritirata globale dovesse ridurre il ruolo imperiale degli Stati Uniti. Perciò è vietato ammettere gli enormi errori compiuti dal Blob, le guerre sbagliate, le sofferenze inutili, la perdita di prestigio dell’America. L’autocritica è vietata. Poi ci sono gli interessi materiali del capitalismo guidato dall’Uomo di Davos: ha costruito una globalizzazione su misura per le multinazionali, e il ruolo dell’America come guardiano del sistema fa parte del quadro. Infine ci sono i Blob alleati: in tante capitali straniere, europee o asiatiche, sono attive diverse lobby a cui conviene la presenza americana. Il parassitismo di tanti paesi «pacifisti», che campano di rendita sotto l’ombrello delle forze armate Usa, impone di gridare a gran voce contro i segnali della ritirata globale dello Zio Sam.
Il Blob ha una teoria delle relazioni internazionali. È la dottrina sui benefici universali dell’egemonia liberale. Ha versioni di destra e di sinistra, e si è spesso basata su tre dogmi.
Primo dogma: è impossibile una guerra fra democrazie (principio ispirato dal filosofo tedesco Immanuel Kant). Conseguenza: se vogliamo un mondo pacifico, dobbiamo esportare democrazia in ogni angolo del pianeta. Con le buone o con le cattive? Questo dipende dalle inclinazioni di chi governa al momento. I problemi di questa apologia delle democrazie sono tanti. Può legittimare aggressioni contro paesi non democratici e i loro popoli. Inoltre non ci rassicura in un mondo dove i confini delle democrazie indietreggiano. La mostruosità delle torture inflitte dai soldati americani ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, lo scandalo delle detenzioni illegali a Guantánamo, le stragi di civili e altre vittime collaterali degli «errori» della Nato: una lunga litania di crimini e abusi ha dimostrato che le crociate per esportare democrazia hanno macchiato la credibilità dell’Occidente.
Secondo dogma: quando tra le nazioni si sviluppano legami economici importanti, la guerra diventa un controsenso perché i danni sarebbero insopportabili per tutti. Questo postulato ha avuto varie declinazioni pittoresche, come l’idea che Internet avrebbe portato la democrazia in Cina (Bill Clinton e Bill Gates ne erano certi negli anni Novanta), o che non possa scoppiare un conflitto fra due paesi gratificati entrambi dalla presenza dei fast food McDonald’s (questa la lanciò l’opinionista del «New York Times» Thomas Friedman nel 1996). Il teorema dello scontro impossibile per ragioni economiche era già crollato allo scoppio delle due guerre mondiali: Regno Unito e Germania intrattenevano una fitta rete di rapporti commerciali e finanziari poco prima di combattersi.
Un terzo dogma è tale per la sinistra globalista: è l’idea che una robusta architettura di istituzioni multilaterali sia una garanzia forte di pace, sicurezza, stabilità e giustizia. Non regge di fronte all’incapacità dell’Onu di evitare guerre, all’impotenza dell’Organizzazione mondiale del commercio nel far rispettare le regole, al fallimento dell’Organizzazione mondiale della sanità davanti alla pandemia.
Condannato dal Blob per la débâcle di Kabul, Biden si è ritrovato in una situazione per lui familiare. La stessa del 2009-10. Era vicepresidente quando il Pentagono pretese di ovviare ai tanti segnali di fallimento in Afghanistan con una massiccia escalation di truppe. Obama ricorda quella vicenda nelle sue memorie, anche negli aspetti imbarazzanti: «Fu la più gigantesca operazione di lobbying e relazioni pubbliche scatenata dai militari verso la presidenza degli Stati Uniti». Riuscirono a piegarla, e Obama ammette oggi di non avere avuto la forza politica (eletto da un anno, giovane, afroamericano, «e non avevo mai fatto il servizio militare») per resistere alla pressione del Pentagono. Con un decennio di ritardo l’ex presidente ha dato ragione a Biden. Prolungare l’avventura militare in Afghanistan era sbagliato già allora. Nel 2021 Biden si è convinto che l’opinione pubblica americana abbia abbandonato le illusioni imperiali, i sogni di gloria su un’America iperpotente, capace di raddrizzare i torti e guarire le ingiustizie in ogni angolo del pianeta. Già Obama nel 2009 aveva promesso ai suoi che «il nation-building si farà a casa nostra, è qui che abbiamo una nazione da ricostruire dalle fondamenta».
Trump sotto accusa per aver offeso gli alleati, Biden per avere abbandonato l’Afghanistan: la maggioranza dell’opinione pubblica non partecipa a questo processo inscenato dal Blob o non lo condivide. La popolazione americana era già stanca di impero da tanto tempo, l’ultima guerra vissuta con trionfalismo era stata quella del 1991, Desert Storm, per liberare il Kuwait dopo l’invasione di Saddam Hussein. I democratici hanno votato Obama perché si era opposto alla guerra in Iraq, i repubblicani hanno eletto Trump ben sapendo del suo isolazionismo e del suo nazionalismo. È l’establishment che si aggrappa all’impero. Lo scontro è ancora aperto: la disastrosa gestione del ritiro da Kabul, l’avanzata di Cina e Russia su altri quadranti strategici hanno messo sulla difensiva le forze che sostengono Biden.
Un’umiliazione in politica estera qualche volta può essere irrimediabile, per Jimmy Carter lo fu la presa di ostaggi americani all’ambasciata di Teheran da parte dei khomeinisti iraniani nel 1979. Ma le sconfitte militari o d’intelligence non sempre sono fatali, altrimenti la Baia dei Porci (1961) avrebbe chiuso la neonata presidenza di John Kennedy, la caduta di Hanoi (1975) avrebbe finito Gerald Ford, i 241 marines uccisi a Beirut (1983) avrebbero segnato la crisi di Ronald Reagan. Già pochi mesi dopo la débâcle di Kabul e la strage di soldati Usa all’aeroporto, l’Afghanistan era un ricordo distante, per quanto tragico.
Se c’è una speranza di arrestare la decadenza degli Stati Uniti, è curando i mali interni, non finanziando spedizioni fallimentari per esportare democrazia e diritti. Si può etichettare la politica estera di Trump come «isolazionista», quella di Biden come improntata a un realismo che impone rinunce. I due campi concordano che il ventennio delle guerre contro il terrorismo ha regalato tempo e risorse alla Cina per accelerare la corsa verso la supremazia.
Anche ai tempi di Roosevelt, Truman e Marshall, quando si trattava di ricostruire l’Europa dalle macerie della seconda guerra mondiale, un’America «profonda» avrebbe preferito ripiegarsi orgogliosamente su se stessa. Ma allora aveva i mezzi, economici e politici, per un Piano Marshall; o per trapiantare la liberaldemocrazia in Giappone. Oggi la maggioranza degli americani ha una visione disincantata sui limiti della propria potenza. Pur senza credere alla propaganda trionfalistica di Xi Jinping, bisogna aprire gli occhi su questa realtà: la Cina potrà anche incappare in qualche crisi grave come l’America ne ha avute nel 1929 o nel 2008, ma nel lungo periodo la sua stazza rende inevitabile l’aggancio e il sorpasso degli Stati Uniti. Le spese militari cinesi seguono la stessa traiettoria. In questa situazione, un ripiegamento americano è la cosa più saggia. Anziché inseguire un ruolo globale spropositato, gli Stati Uniti devono concentrarsi sulla gara con Pechino, quindi tagliare impegni militari periferici e non essenziali. Anziché sprecarle in guerre lontane, le risorse vanno usate per copiare le scelte di successo della Cina: più fondi alla ricerca scientifica e all’innovazione, una politica industriale che aiuti a vincere le prossime sfide tecnologiche, una ricostruzione del tessuto produttivo smantellato dalle delocalizzazioni. Per raggruppare le proprie forze a tutela di un nucleo duro di interessi vitali, gli americani devono chiamare gli alleati a farsi carico di funzioni e spese per la difesa molto superiori.
Il tentativo di evitare il suicidio geopolitico dell’Occidente, come è stato quello di scongiurare la fine degli imperi romano o britannico, passa attraverso sacrifici dolorosi: gli imperi non hanno nel proprio Dna l’attitudine a ridimensionarsi da soli. Di solito è un aggressore esterno a costringerli. La ritirata di Londra dalle proprie colonie fu poco pianificata e ancor meno spontanea; perfino il «passaggio delle consegne» ai cugini americani nel periodo Churchill-Roosevelt fu doloroso.
Un conto è voler abbandonare il ruolo di gendarme mondiale (su questo gli americani la pensano come Trump e Biden), altra cosa è l’essere davvero preparati allo spettacolo che verrà. La ritirata globale può produrre ulteriori umiliazioni in stile Kabul. Le operazioni antiterrorismo continuano a dilatare la presenza militare americana: Siria o Yemen, Somalia o Sahel, il rischio costante è che qualche incidente risucchi gli Stati Uniti verso il passato, dando al Blob i pretesti per rivendicare il ruolo di gendarme mondiale. In quanto ai rivali più temibili, fanno leva su una fondamentale ingenuità delle democrazie. Le opinioni pubbliche dell’Occidente non sono attrezzate neppure sul piano psicologico e culturale di fronte alla rinascita degli imperialismi altrui. Cina, Russia, Turchia, Iran-Persia, tutti hanno storie imperiali che dal passato risorgono con prepotenza.
Come si è visto a Kabul, una volta avviata la ritirata globale, tempi e modi non li controlliamo noi. Altri possono appropriarsi con brutalità delle zone d’influenza che stiamo lasciando. Lo spettacolo turba le nostre coscienze. La geopolitica è fatta di rapporti di forza, il mondo è pieno di autocrati che usano la politica estera come fonte di legittimità. Gli atti di prepotenza sui quali noi esercitiamo giudizi morali per loro sono essenziali, nutrono narrazioni di riscatto, rivincita contro l’Occidente. Più sono larghi gli strati di opinione pubblica occidentale che si genuflettono chiedendo scusa per i peccati imperialisti, più i nuovi imperi sentono di avere la storia dalla loro parte.
Nel caso di Vladimir Putin, i tormenti delle coscienze occidentali includono come sempre l’autocolpevolizzazione. Abbiamo sbagliato noi a inimicarcelo? In America e in Europa si riaffaccia un dibattito antico su «chi ha perso la Russia». Ai tempi di Gorbaciov, Eltsin, Medvedev, sembrò possibile un rapporto più amichevole e cooperativo tra l’Occidente e Mosca. È solo colpa dell’autocrate Putin e della sua nostalgia di impero se siamo precipitati in questo clima di ostilità, o abbiamo anche noi qualche responsabilità? A prescindere dalle affinità ideologiche e valoriali che attirano verso Putin alcune destre europee e Trump, c’è una scuola del «realismo politico» che preme per una revisione della strategia nei confronti di Mosca. A Berlino e in altre capitali europee, l’argomento è questo: la Russia è un gigante di cui abbiamo bisogno sia come fornitore di energia (finché il gas sarà necessario, cioè a lungo) sia come sbocco per le nostre merci. L’escalation delle sanzioni ha inflitto forse più danni alle imprese dell’Europa occidentale che non allo stesso Putin. I regimi autoritari hanno una notevole capacità di resistenza alle sanzioni: basti vedere Cuba, la Corea del Nord, l’Iran. Infine, la potenza militare russa impone delle concessioni, visto che le opinioni pubbliche dell’Europa occidentale sono pacifiste e restie a forti aumenti di spese per la difesa.
A questi argomenti del Vecchio Continente si affianca un pensiero che viene dalla tradizione della Realpolitik americana, quella che ispirò Richard Nixon e Henry Kissinger a compiere la svolta strategica del 1971-72: l’apertura diplomatica alla Cina di Mao Zedong. Quella mossa geniale consentì all’America di legarsi all’avversario allora più debole (Pechino) per fiaccare quello che all’apice della guerra fredda era il nemico più forte (Mosca). Oggi alcuni fautori della Realpolitik rimproverano a Washington di aver spinto Putin nelle braccia di Xi Jinping, rafforzando ulteriormente una Cina che è l’unica vera minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti nel lungo periodo. Perfino a Washington c’è chi confessa comprensione verso la tesi dell’accerchiamento tanto cara a Putin: è pur vero che, rispetto agli scenari iniziali del 1989 (caduta del Muro di Berlino) e del 1991 (dissoluzione dell’Urss), l’Alleanza Atlantica si è allargata a dismisura fino a lambire i confini russi creando insicurezza a Mosca. Riaffiora un altro argomento «realistico», che venne citato anche per la Cina di Deng Xiaoping dopo il massacro di Piazza Tienanmen nel 1989: per quanto i regimi autoritari possano essere ripugnanti per i nostri valori, hanno il pregio di essere stabili. Oggi, se la Russia fosse più democratica ma in preda al caos, o se la Cina fosse più libera ma politicamente instabile, forse ci darebbero incubi peggiori.
Alcuni argomenti dei «revisionisti» sono validi, non tutti. Il paragone con la diplomazia di Kissinger trascura il fatto che Mao all’inizio degli anni Settanta temeva un’imminente aggressione militare sovietica; la sua Cina era stremata dalla miseria e da lotte politiche interne, isolata rispetto al blocco comunista. Putin, invece, ha costruito un rapporto proficuo con Xi Jinping. È ovvio che la Cina lo domina sul piano economico, finanziario, tecnologico. La Russia, però, ha materie prime preziose per la Repubblica popolare. Inoltre, Putin ha il coraggio di agire come security provider: a metà fra un mercenario e una polizia privata, è pronto a intervenire con le sue truppe per stabilizzare regimi amici in Asia Centrale, Medio Oriente, Mediterraneo, Africa; mentre le forze armate cinesi, almeno finora, sono state più caute nella loro espansione all’estero.
Il limite del realismo politico è che non fa i conti con gli obiettivi di Putin. Vuole tornare allo status quo ante 1989, ricacciare la Nato entro i suoi confini della guerra fredda, ricostituire una sfera d’influenza russa che riproduca quella sovietica. In nome della sicurezza di Mosca, l’Occidente dovrebbe impegnarsi non solo a non allargare mai più la Nato, ma a ritirarne le forze effettive dai paesi dell’Est che ne sono già membri, abbandonando a un’insicurezza permanente gli alleati baltici o polacchi. Putin non ha nostalgie di comunismo – si circonda di oligarchi miliardari ed è alleato con la Chiesa ortodossa –, però la sua politica estera rivela una continuità geopolitica che va dagli zar a Stalin: la coerenza ancestrale dell’imperialismo russo.
Come i suoi predecessori, sfida il principio per cui nel lungo periodo il peso militare e diplomatico dipende dalla forza economica. La Russia ha un Pil inferiore a quello italiano, soffre di una fuga dei cervelli più grave della nostra, è un petro-Stato cronicamente incapace di modernizzarsi (con l’eccezione delle forze armate). Finché Putin riesce a sottrarsi alle leggi di gravità, però, la Russia manterrà uno status internazionale molto superiore alla sua dimensione economica. E sarà vano illuderci di poterlo attirare verso di noi a poco prezzo. Come il suo alleato Xi, anche l’autocrate russo è convinto di avere di fronte un Occidente debole, diviso, indeciso a tutto. Agisce di conseguenza.
La sensazione di padronanza del gioco geopolitico che Putin riesce a proiettare non deve farci velo. Dietro la solidità apparente ci sono immensi interrogativi sulla successione degli Uomini Forti: né Putin né Xi hanno preparato un «dopo». La determinazione con cui le truppe russe sono intervenute in Bielorussia e in Kazakistan tradisce anche la paura dell’instabilità nella cintura delle autocrazie di cui Putin si è circondato. Lo spettro delle «rivoluzioni arancioni» e del loro contagio tra i cittadini di Mosca e San Pietroburgo non si è mai dissolto. Su quelle popolazioni si direbbe che esercitino ancora qualche fascino i valori dell’Occidente, nonostante la sfiducia nei confronti del modello occidentale che si respira in America e in Europa.
Putin sa che un’Europa dipendente per il 40 per cento dalle forniture russe di gas, con punte oltre il 50 per cento per la Germania, è ricattabile. La questione tedesca è centrale per la tenuta dell’Occidente. Nella Nato, la Germania è il paese più grande e più ricco dopo gli Stati Uniti; rischia di diventare uno dei meno convinti sul futuro atlantico. All’orizzonte c’è uno scenario che ricorda Il tramonto dell’Occidente di Spengler. All’inizio del Novecento, Spengler tendeva a collocare la sua Germania più a Oriente che a Occidente. Se questa prospettiva si ripresenterà nel futuro della Germania, sarà problematico parlare ancora di un asse euro-americano come fulcro dell’Occidente.
Non solo le sanzioni hanno dimostrato la loro inefficacia contro paesi più piccoli della Russia (Cuba, Corea del Nord, Iran, Venezuela), ma a furia di sanzionare i propri avversari l’America sta accelerando un movimento di secessione dall’ordine globale dollarocentrico. Il vero beneficiario di questa crescente autonomia dal dollaro sarà la Cina. Tutti quei paesi che si attrezzano a vivere sotto un regime di sanzioni americane-occidentali finiscono per gravitare attorno a un nuovo centro economico globale: Pechino. I cinesi non fanno mistero di avere un disegno di lungo periodo per intaccare e infine distruggere la supremazia imperiale del dollaro e dei sistemi di pagamento disciplinati dall’Occidente.
La deriva verso Oriente è molto chiara per quel che riguarda la Russia. Dal 2014, quando furono varate le prime sanzioni occidentali per castigare Putin dopo l’annessione della Crimea, Mosca ha «sdollarizzato» la sua economia, cominciando dalle riserve della sua banca centrale. La banca centrale russa tra il 2014 e il 2021 ha aumentato di oltre il 70 per cento le sue riserve, a quota 620 miliardi di dollari, ma di questi solo il 16,4 per cento in dollari, un terzo in euro, il 21,7 per cento in oro e il 13,1 per cento in renminbi. Di questo passo la moneta cinese finirà per superare il dollaro nelle riserve russe.
La capacità di reggere l’urto delle sanzioni è stata rafforzata con la creazione di un nuovo fondo sovrano che accumula redditi dalle esportazioni di gas e petrolio. L’aumento dei prezzi dell’energia ha arricchito questo fondo di 190 miliardi di dollari aggiuntivi nell’ultimo trimestre del 2021. Il debito pubblico federale è sceso al 20 per cento del Pil, secondo l’agenzia Fitch Ratings. La quota di buoni del Tesoro russi in mano a investitori stranieri è scesa al 20 per cento da quando Washington ha vietato agli americani di comprarli. In quanto alle aziende russe, i prestiti che hanno ricevuto da finanziatori esteri sono scesi da 150 miliardi di dollari nel 2014 a 80 miliardi nel 2021. In altri termini: la Russia (come l’Iran e la Corea del Nord) si è adattata con misure autarchiche a sopravvivere in un nuovo mondo in cui deve ridurre il proprio accesso al dollaro e ai mercati finanziari occidentali. Questa autarchia comporta dei prezzi, in particolare un rallentamento della crescita: il Pil russo dal 2013 è aumentato solo dello 0,8 per cento annuo contro un incremento mondiale del 3 per cento. Austerità e autarchia non si conciliano con una crescita forte, di cui il popolo russo avrebbe bisogno.
Sotto Putin e con le sanzioni, l’economia russa è tornata a vivere in un universo separato, con qualche analogia con l’epoca sovietica. Ma c’è una differenza fondamentale. Oggi esiste un centro di gravità alternativo, la Cina. Pechino dal 2008 ha in cantiere molti progetti per costruire un’architettura finanziaria globale alternativa a quella americanocentrica. La Repubblica popolare ignora molte delle sanzioni americane, e così offre altre opportunità: l’Iran, per esempio, dirotta verso la Cina il petrolio che non può esportare in Occidente. Anche il sistema di pagamenti Swift, che è l’architrave dei trasferimenti bancari internazionali, ha sede in Belgio ed è controllato dagli americani, viene insidiato da un’alternativa cinese. Xi Jinping incoraggia tutti i paesi partner della Cina a usare il renminbi per le transazioni internazionali. Chi abbandona la finanza globale americanocentrica per entrare nella sfera d’influenza cinese paga un prezzo: anziché conquistarsi una nuova indipendenza finanziaria, scambierà un’egemonia americana con un’egemonia cinese. Gli svantaggi della seconda rischiano di non essere inferiori. Ma intanto, con ogni ondata di nuove sanzioni, l’America ottiene questo effetto collaterale indesiderato: spinge una parte del mondo a scegliersi la Cina come padrone.
Dai Giochi estivi di Pechino nel 2008 alle Olimpiadi invernali del 2022: il confronto tra i due eventi, a quattordici anni di distanza, rivela tutto ciò che è cambiato nel mondo. Quanto è diversa la Cina di oggi, e la percezione che ne abbiamo noi. Quanto è più debole l’Occidente, che diffida di Xi Jinping ma si rivela incapace di ridurre la propria dipendenza dal made in China. Qualche coincidenza è emblematica. I Giochi del 2008 si aprivano mentre l’America stava per sprofondare nella crisi dei mutui, un tornante decisivo del suo declino. E in quei giorni la Russia attaccava la Georgia sotto gli occhi di un George W. Bush impotente perché impantanato in troppi conflitti (Iraq, Afghanistan).
Ai Giochi del 2008, che seguii come corrispondente da Pechino, la Repubblica popolare fu omaggiata da delegazioni governative di alto livello e vip da tutto il mondo. Era il momento in cui «scoprivamo» la nuova superpotenza in tutto il suo fulgore e, per rendersi bella, la capitale aveva chiamato archistar internazionali a costruire edifici spettacolari. Gli abusi contro i diritti umani erano già ben visibili: pochi mesi prima dei Giochi c’erano state rivolte in Tibet, schiacciate con il pugno duro dell’esercito. Ma il capitalismo occidentale era in piena luna di miele con la «fabbrica del pianeta», dove oltretutto riusciva a delocalizzare le produzioni più inquinanti. In particolare la simbiosi tra l’economia americana e quella cinese sembrava perfetta, una complementarità armoniosa. L’establishment americano teorizzava che a furia di arricchirsi i cinesi sarebbero diventati proprio come noi: più liberi, più democratici.
Le Olimpiadi invernali 2022 si sono svolte in un mondo irriconoscibile. La crisi dei mutui, allargatasi fino a diventare uno schianto finanziario globale nel 2008-09, aveva fatto esplodere contraddizioni enormi negli Stati Uniti: aveva consentito l’elezione di Barack Obama, ma aveva alimentato quella rabbia operaia contro i danni della globalizzazione che avrebbe portato a scegliere Donald Trump. La Cina fu l’unica grande economia a salvarsi, usando con vigore tutti gli strumenti del dirigismo e del capitalismo di Stato. Risale al 2008 una sorta di «epifania» cinese: la rivelazione di tutte le fragilità occidentali agli occhi della dirigenza comunista. Cominciò a manifestarsi un complesso di superiorità, e l’ascesa dell’autocrate Xi Jinping dal 2012 ha confermato una classe dirigente sempre più sicura di sé, fino all’arroganza. È nata nella diplomazia cinese la generazione dei «guerrieri lupo», con un linguaggio nazionalista e bellicoso che spazza via le cautele tradizionali. Dalle Nuove Vie della Seta all’espansionismo anche militare in Asia e in Africa, un progetto egemonico ha preso corpo.
Il Covid avrebbe potuto far deragliare la marcia trionfale della Cina. Il bilancio finale è prematuro, ma Xi è convinto di aver trasformato una potenziale débâcle in una vittoria. Ci sono le condizioni perché la società cinese, sottoposta a oltre due anni di restrizioni severe, sia una «pentola a pressione» pronta a esplodere, ma finora non sono giunti fino a noi segnali di tensioni sociali gravi. Alla pandemia si aggiungono tutti i problemi antecedenti: la crescita economica continua a rallentare; le bolle finanziarie, soprattutto nel settore immobiliare, sono mine vaganti; il crollo della natalità e la rapida decrescita demografica provocano un invecchiamento a cui la Cina è impreparata. Affrontare insieme questi problemi sembra quasi impossibile: terapie d’urto contro le bolle speculative, o per la riduzione delle emissioni carboniche, sarebbero un ulteriore freno alla crescita che Xi non si può permettere. Alle sue debolezze nascoste la Cina risponde con un’esibizione di autostima, che contrasta con lo stato d’animo dell’Occidente angosciato e depresso.
Da un’Olimpiade all’altra siamo diventati più consapevoli delle minacce cinesi, più spaventati, e al tempo stesso più insicuri di noi stessi. I dazi di Trump, le varie forme di embargo e sanzioni, la strategia delle alleanze di Biden non hanno scalfito la macchina da guerra delle esportazioni made in China. Xi Jinping per due anni è riuscito in un’impresa inverosimile: ha «sequestrato» 1,4 miliardi di cinesi con la semichiusura delle frontiere senza indebolire l’apparato industriale del suo paese. Xi ha un mare di problemi e il trionfalismo della sua propaganda non deve farci velo, ma finora quello più facile da gestire siamo noi occidentali. Il record storico dell’attivo commerciale cinese a 676 miliardi di dollari a fine 2021 ha chiuso il secondo anno della pandemia in modo clamoroso. Proprio il 2021 è stato un anno chiave per altre svolte strategiche. Il primo test cinese di missili ipersonici, che accorcerebbero di molto i tempi per un attacco al territorio americano. Il sorpasso della marina militare cinese su quella americana per numero di navi: un traguardo inaudito, che sembrava impossibile un decennio fa. Il primo tentativo cinese di stabilire basi militari nel Golfo Persico e in Africa occidentale dopo il precedente di Gibuti nel Golfo di Aden (Mar Rosso).
Il processo alla ritirata globale degli Stati Uniti continuerà. Non importa quanto sia logico, razionale, forse perfino salvifico, il ripiegamento americano su una definizione più ridotta e sostenibile degli interessi vitali da difendere. Oscilliamo fra il timore che questa ritirata sia il preludio di un caos globale, un mondo G-zero dove la cabina di regia delle relazioni internazionali è vuota, e la paura che stia nascendo un grande ordine alternativo imperniato su un club di potenze autoritarie, che da noi estorceranno concessioni esose. Gli strateghi dell’anti-Blob, le menti più libere e spregiudicate che cercano di ragionare fuori dagli schemi convenzionali, camminano su un sentiero stretto. Devono rifondare una tradizione di politica estera americana che ha quasi un secolo alle spalle. Devono disegnare una strategia credibile per contenere l’avanzata cinese; senza escludere a priori lo scenario alternativo: che tutt’a un tratto il problema diventi una crisi in Russia o in Cina.
Nella scommessa per salvare l’Occidente dalla sorte che condannò altre civiltà prospere e affascinanti, c’è un grande assente. È il sostegno delle giovani generazioni, in particolare nel paese guida. A Hong Kong, nel 2019, i manifestanti per la democrazia – in uno degli ultimi sussulti di protesta prima che la repressione cinese li silenziasse – esibirono le bandiere a stelle e strisce degli Stati Uniti. Non ci fu una risposta entusiasta da parte dei loro coetanei americani. Impegnati a denunciare le turpitudini di un’America schiavista e razzista, xenofoba e sessista, non si sono neppure accorti di quello sventolio di bandiere sull’altra sponda del Pacifico.
Quali lezioni vorrà trarre l’Occidente dalla tragedia ucraina? Ammesso che le nazioni sappiano decifrare gli insegnamenti della storia, forse qualcosa riuscirà a emergere dalle sofferenze di Kiev? Alcune conseguenze devono riguardare in particolar modo gli alleati europei. Energia e difesa sono i temi centrali. L’Europa è in prima linea, però qualche ricaduta riguarda anche il dibattito americano sulla lotta al cambiamento climatico.
La dipendenza europea dall’energia russa (gas e anche petrolio) ha una storia antica. Si allunga fino a John Kennedy, all’inizio degli anni Sessanta, l’elenco dei presidenti americani che ammonirono gli europei sui rischi della dipendenza da Mosca. Più di recente, sia Obama sia Trump sono stati in sintonia nel denunciare il gasdotto Nord Stream 2 come un errore strategico della Germania. La prima lezione dalla guerra ucraina, secondo gli americani, dovrebbe essere una forte spinta alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento europee. Questo implica una resa dei conti con certe ingenuità ambientaliste. Le fonti rinnovabili non sono pronte a sostituirsi subito e in toto alle energie fossili. Gli errori di una transizione frettolosa e prematura sono già diventati evidenti quando l’Inghilterra nel 2021 ha sofferto per un ammanco di energia eolica (i venti hanno soffiato meno del previsto nel Mare del Nord, ricordandoci un limite serio delle rinnovabili), e Londra è stata costretta a improvvisi acquisti di gas che hanno fatto salire i prezzi ancor prima dell’attacco di Putin. Il gas naturale è un’energia intermedia – inquina, ma meno delle altre fossili – che deve avere un ruolo in una transizione realistica. L’Italia si è imposta forti limitazioni sull’estrazione dai propri giacimenti, consegnandosi a una dipendenza pericolosa dalla Russia (o da paesi altrettanto problematici, nonché soggetti a condizionamenti russi: Algeria, Libia, Azerbaijan). Diversificare le fonti geografiche significa anche attrezzarsi per acquistare più gas dagli Stati Uniti e da altri produttori lontani. Il gas che non viaggia nei gasdotti esistenti va trasportato su nave, quindi liquefatto alla partenza e poi rigassificato all’arrivo. Le infrastrutture attuali non bastano, l’Europa dovrebbe investire per la costruzione di nuovi terminali attrezzati per la rigassificazione. Non sono ricette magiche che danno risultati immediati. Ma se lo shock ucraino non smuove l’inerzia oggi, costringendo a intraprendere azioni troppe volte rinviate, il prossimo ricatto di Putin troverà gli europei altrettanto vulnerabili.
La questione del gas impone scelte delicate anche a Joe Biden. L’ala più ambientalista del partito democratico ha costretto il presidente a frenare un’ulteriore espansione dell’estrazione di shale gas negli Stati Uniti. L’America è in una posizione energetica invidiabile, avendo raggiunto da molti anni l’autosufficienza. Se però vuol essere fedele al suo ruolo di leader dell’Occidente (e protettrice degli alleati europei), non può accontentarsi di guardare in casa propria. Oltre all’autosufficienza dovrebbe potenziare la sua capacità di esportazione. Il guaio è che gli ambientalisti americani osteggiano una strategia di sviluppo dell’estrazione e dell’export di gas. Biden deve scegliere tra la vocazione di «guida del mondo libero» e quella di avanguardia nella transizione alle energie rinnovabili che i suoi verdi gli assegnano come priorità.
Il capitolo sulle conseguenze energetiche della guerra ucraina deve includere per forza il nucleare. La fragilità e la ricattabilità dell’Europa sarebbero minori, se Germania e Italia non avessero rinunciato al nucleare. Lo shock ucraino basterà a riaprire la questione? Le ideologie resistono agli assalti della realtà, ed è possibile che non basti nemmeno la guerra ucraina per smuovere i pregiudizi contro il nucleare.
L’altra lezione che gli europei dovrebbero trarre dalla tragedia di Kiev riguarda la difesa. Anche su questo terreno c’è una continuità bipartisan di presidenti repubblicani e democratici che dalla Casa Bianca hanno criticato la passività dell’Europa. Molti paesi membri della Nato, tra cui Germania e Italia, non arrivano a spendere per la propria difesa neppure il minimo indispensabile, che sarebbe il 2 per cento del proprio Pil. Non è un livello imposto da Washington, è un obiettivo concordato con tutti i governi della Nato. Gli inadempienti hanno continuato a ignorarlo pur avendolo sottoscritto. Sono stati criticati con le buone maniere da Obama, con sgarbo da Trump, che ventilò una dissociazione dagli obblighi di solidarietà atlantica. L’aggressione russa all’Ucraina ha ricordato le conseguenze angoscianti di un ridimensionamento delle forze armate: se Putin un giorno dovesse rivolgere i suoi appetiti verso qualche paese della Nato, metterebbe a dura prova un’alleanza dimagrita dai tagli di bilancio.
L’Unione europea si è illusa di poter fiorire come una superpotenza «erbivora» rispettata dal mondo intero per il suo livello di civiltà, proprio mentre Russia e Cina portavano avanti formidabili programmi di riarmo e modernizzazione dei propri eserciti. La filosofia europea viene rimessa in discussione dall’aggressione russa nel cuore del continente. Le opinioni pubbliche vorranno affrontare un riesame delle proprie certezze pacifiste? Basterà l’Ucraina a convincerle che il mondo non è regolato dal soft power, che nei rapporti tra nazioni l’elemento della forza militare continuerà ad avere un peso enorme?
Se l’Europa occidentale ignora la lezione, deve accettarne tutti i prezzi: una decadenza vissuta ai margini di potenze imperialiste come la Russia, la Cina, la Turchia e l’Iran comporterà continue rinunce ai nostri valori. Non ci si mette al riparo dalle autocrazie con le manifestazioni per la pace, facendo sit-in di solidarietà con le vittime dei dittatori. Tanto più che gli europei dovranno interrogarsi sul futuro della protezione americana. Una lezione implicita – e inconfessabile – che Washington trae dall’attacco russo all’Ucraina è questa: per fortuna che non avevamo ammesso Kiev nella Nato, altrimenti saremmo stati obbligati a difenderla. Il passo successivo sarà chiedersi se i soldati americani dovranno morire per difendere la Lettonia o l’Estonia, la Lituania o la Polonia? Non si può escludere che alla Casa Bianca torni Trump, oppure un altro presidente isolazionista, e che rimetta in questione l’articolo 5 della Nato, cioè l’obbligo d’intervenire in difesa di un alleato aggredito. Di sicuro l’America vorrà rinviare sine die ogni progetto di allargamento della Nato, forse in futuro dovremo tornare a interrogarci sulla sua fedeltà atlantica. Tanto più se gli europei continuano a pretendere dai soldati e dai contribuenti americani dei sacrifici che non si vogliono fare né a Roma né a Berlino.
I prezzi da pagare per i pacifisti erbivori dell’Occidente non sono difficili da immaginare. La teoria dell’accerchiamento della Russia, con cui Putin ha giustificato l’attacco all’Ucraina, ha un’origine storica precisa, guai a dimenticarla. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, è possibile che gli allargamenti di Nato e Unione europea siano stati imprudenti, frettolosi, e in parte offensivi per il nazionalismo russo. Va ricordato, tuttavia, che quegli allargamenti ci furono richiesti a gran voce dalle nazioni che uscivano da mezzo secolo di giogo sovietico, e non sarebbe stato facile ignorare i nostri principi occidentali sulla democrazia, la sovranità, l’autodeterminazione dei popoli. Le offese agli interessi strategici e al nazionalismo della Russia non furono così plateali: Bill Clinton offrì a Mosca una partnership con la Nato e parlò perfino d’includerla, George W. Bush allargò il G7 (che divenne G8) ai russi. Tant’è che per la parte iniziale della sua carriera politica Putin non mostrò risentimento né rancore: dopo l’11 settembre 2001 fu tra i primissimi leader stranieri a manifestare solidarietà e offrire assistenza agli americani. La vera svolta di Putin, quella che lo rende furiosamente antioccidentale, arriva dieci anni dopo, con le «rivoluzioni arancioni» e le contestazioni contro il suo dominio autoritario. È quando si sente minacciato nel suo potere personale che comincia a denunciare un complotto americano ai propri danni. Questo è lo stesso Putin che ha fatto uccidere oppositori, che fossero in Russia oppure all’estero. Un’Europa occidentale che si adatta a vivere all’ombra dell’orso russo deve rassegnarsi: non ci saranno zone franche per il dissenso, la longa manus di Putin potrà zittire le voci scomode a Londra, Parigi, Roma, Berlino, Bruxelles. Potrà elargire nuove mance a partiti e leader politici simpatizzanti.
Epilogo
«L’America è finita. Ha perso l’onore, la credibilità, la fiducia degli alleati. È un impero che crolla. Il secolo americano si è chiuso per sempre.» Avete letto questi giudizi in abbondanza, di recente: per esempio dopo l’elezione di Trump nel 2016, o durante l’assalto al Congresso nell’orribile giornata del 6 gennaio 2021, o, ancora, dopo la ritirata da Kabul, quando le donne afgane e gli amici dell’Occidente sono stati abbandonati ai talebani. O dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina.
I miei capelli bianchi e i miei ricordi di giovane comunista mi suggeriscono una punta di scetticismo sui giudizi troppo perentori, definitivi, sovreccitati. Ero bambino quando vennero assassinati John e Robert Kennedy, Martin Luther King. Dagli adulti intorno a me percepii che il sogno di un’America giovane e idealista si era spento nel sangue. Ero adolescente quando le piazze del mondo ribollivano di proteste: gridavamo «Yankee Go Home» contro la guerra ingiusta degli americani in Vietnam; le proteste pacifiste incrociavano la denuncia del razzismo contro i neri. Lo scandalo del Watergate, che costrinse alle dimissioni Richard Nixon, venne percepito come l’agonia di una democrazia corrotta. «L’America è finita» fu detto dopo la ritirata da Hanoi nel 1975. Poi il crollo di autorevolezza della superpotenza fu sancito con la presa di ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran da parte dei khomeinisti nel 1979. Poi ancora subimmo un rigetto quando arrivò alla Casa Bianca quel «cow boy rozzo e ignorante» di Ronald Reagan, guerrafondaio e anticomunista (tale era il giudizio superficiale degli europei su di lui; rimase identico perfino dopo che lui vinse la guerra fredda). Vivevo in California quando George W. Bush rubò un’elezione, e di nuovo parve che più in basso di così la democrazia non potesse precipitare. Invece era solo un inizio.
Molto prima di Trump, già Bush favorì l’industria del petrolio e abbandonò il trattato di Kyoto sul clima. La fine dell’impero americano fu di nuovo annunciata dopo l’11 settembre 2001. La caduta di credibilità, la perdita di ogni onore, la discesa dell’America negli abissi del crimine contro l’umanità venne proclamata dopo le bugie sull’Iraq, Guantánamo e Abu Ghraib. Il tramonto dell’America fu di nuovo una certezza per molti dopo il crac di Wall Street nel 2008. L’umiliazione fu considerata insanabile quando Barack Obama non seppe dissuadere Assad dall’uso di armi chimiche contro il popolo siriano (2013). Poi arrivò Donald Trump: a quel punto «la fine dell’America» venne annunciata ogni tre mesi. Ora tocca a Biden. Quante volte è già morta l’America? E, con lei, una certa idea di Occidente che è inseparabile dal ruolo della sua nazione più forte? Forse dovremmo smetterla di vedere dietro ogni crisi un crollo definitivo?
«Ma stavolta lo è davvero, anche perché c’è la Cina che può sostituirla.» Questa è un’obiezione fondata, può servire a distinguere il tempo presente dalle false profezie del passato. La coincidenza fra le molteplici debolezze americane e l’ascesa di un colosso con 1,4 miliardi di abitanti e tremilacinquecento anni di storia crea una situazione nuova. Da ventidue anni ho piantato le radici in America cominciando da quella West Coast che ha lo sguardo rivolto verso l’Indo-Pacifico, sono diventato residente e poi cittadino degli Stati Uniti, ne osservo in prima linea molti segnali di declino. In questo arco di tempo, ho vissuto cinque anni a Pechino, ho assistito sul posto all’ascesa della potenza rivale. Nel lungo termine non ho dubbi che il baricentro della storia stia tornando a spostarsi in Asia. È in parte inevitabile e dobbiamo farcene una ragione. È in parte angosciante, finché a Pechino siede un regime autoritario. Ma questi scenari geopolitici di lunga durata non interessano a quelli che proclamano «la fine dell’America», come se un’egemonia militare, economica, finanziaria, tecnologica e culturale si dissolvesse nello spazio di un talk show.
Una verità scomoda e imbarazzante posso permettermi di dirla, perché fa parte della mia storia e del mio bagaglio personale. Noi europei abbiamo il Dna dell’antiamericanismo. Ex potenze coloniali – Inghilterra, Germania, Francia e sì, anche l’Italia, che buon’ultima volle il suo piccolo impero africano – hanno subito con livore il proprio declassamento. Per generazioni abbiamo invidiato gli americani e abbiamo mascherato questo risentimento considerandoli presuntuosi e ignoranti, malgrado le loro classi dirigenti abbiano cooptato i nostri migliori talenti emigrati. Le più grandi famiglie politiche del continente, cioè gli ex fascisti, gli ex comunisti e i cattolici, hanno sempre odiato l’America. Gli europei hanno anche subito con irritazione lo spettacolo della propria incoerenza: pacifisti solo grazie alla protezione militare americana, hanno sempre dato lezioni etiche agli Stati Uniti, salvo scoprirsi impotenti e codardi di fronte alla rinascita degli imperialismi russo e cinese. Per questo hanno previsto la fine dell’America cento volte, e fino a ieri hanno avuto torto cento volte. Per questo gli stessi europei che oggi ripetono il ritornello abituale sul tracollo americano non capiscono la vera natura della crisi attuale. Il suicidio occidentale ci coinvolge tutti, ma non per le ragioni che vengono spesso invocate. Per esempio, c’è una tendenza a sovrastimare la svolta di Trump, come se la sua presidenza fosse il concentrato di ogni perversione, e la possibilità che venga rieletto in futuro la conferma che la democrazia americana soffre di un male incurabile.
In questo libro ho raccolto le prove che il decadimento viene da lontano. La destra e la sinistra vi hanno contribuito generosamente. Le derive estremiste hanno deformato ambedue gli schieramenti: la destra moderata è quasi invisibile, la sinistra ragionevole è intimidita dai radicali. La certezza con cui attribuiamo tutta la colpa alla parte politica avversa è uno dei sintomi di una comunità malata. Per una crudele ironia della sorte, proprio quegli europei che più disprezzano l’America oggi ne stanno importando i peggiori difetti in casa propria: dalla censura politically correct nelle università inglesi all’odio per l’Occidente di Carola Rackete, all’ambientalismo pauperistico e antiscientifico di Greta Thunberg.
Ma l’America resta oggi il laboratorio del suicidio occidentale, per una ragione che distingue questa crisi da tutti gli episodi precedenti. Stavolta, quei pezzi di cultura radicale che demonizzano e demoliscono ogni valore dell’Occidente sono cooptati nell’establishment. Mai in passato c’era stato un allineamento così totale fra la cultura antioccidentale e i poteri forti del capitalismo, della cultura, dei media, dell’industria dell’entertainment. L’Europa insegue e cerca di adeguarsi, l’America è all’avanguardia. Black Lives Matter e la colpevolizzazione dei bianchi, l’esaltazione di tutte le minoranze etniche o sessuali, il neopuritanesimo, l’ambientalismo apocalittico, tutti questi movimenti sono sostenuti dai miliardari progressisti e dalle caste privilegiate del capitalismo digitale, dalle élite che siedono nei consigli d’amministrazione, che guidano le università, le case editrici, i media, il business del cinema e della musica. Nelle crisi precedenti del modello americano, le forze che tentavano l’assalto erano antisistema; oggi è «il Sistema» ad aver deciso di perpetuare il proprio potere abbracciando le ideologie antioccidentali.
Ritorno al confronto inevitabile con l’Impero romano per sottolineare una differenza in questo tramonto di civiltà. Quando cominciò quella rivoluzione dall’alto che avrebbe imposto al popolo un’«inversione valoriale» – l’abbandono di tutte le regole del mondo pagano sostituite da controregole cristiane –, l’imperatore Costantino ebbe cura di non demolire la memoria di Roma. Il passato dell’impero, le sue realizzazioni e le sue conquiste, erano beni preziosi e non andavano diffamati. L’imperatore convertito al cristianesimo non trasformava in criminali o demoni i suoi predecessori, anzi, si ergeva a continuatore di una storia nobile e illustre. Anche per questo l’impero durò altri centoquarant’anni prima di esalare il respiro finale. Nell’attuale suicidio dell’Occidente, invece, «l’inversione valoriale» non salva proprio nulla, la furia della distruzione del nostro passato è accecante. L’Occidente-caricatura come viene insegnato oggi nelle università di élite americane, inglesi, e presto europee, è solo una fabbrica di genocidi, una mostruosa fucina di ingiustizie e di sofferenze, che ha soggiogato, sfruttato e violentato l’umanità intera (tutta santa e innocente salvo i bianchi), oltre ad aver dilapidato le risorse naturali del pianeta.
Quello che negli anni Sessanta era pensiero alternativo, controcultura, oggi è la cultura ufficiale, abbracciata dalle autorità americane per opportunismo. Si può ironizzare sull’establishment-camaleonte che cambia pelle per restare aggrappato al potere. Noi italiani possiamo rifugiarci nella celebre citazione del Gattopardo: si vuol cambiare tutto perché tutto resti come prima. Ma stavolta non è così. Non siamo solo di fronte a un’operazione estetica con cui l’establishment cambia linguaggio e apparenze per autoperpetuarsi. Poiché tante forze alternative premono ai nostri confini – le masse di potenziali migranti provenienti da culture diverse; le potenze rivali di Cina e Russia –, il suicidio occidentale è il sabotaggio di ogni difesa immunitaria, è la distruzione dei nostri anticorpi.
Qual è il tornaconto dell’establishment in questa operazione? Cosa ci guadagna ad abbracciare con fervore la woke culture? La politica identitaria consente di ignorare le vere diseguaglianze di massa. L’establishment è felice di promuovere per cooptazione un’élite di afroamericani (alla Barack e Michelle Obama, tanto per intenderci: con lauree e dottorati a Princeton e Harvard) e disprezza quei bifolchi razzisti degli operai bianchi i cui figli non possono andare all’università. Promuovere l’agenda dei transgender, imporre l’uso di nuovi pronomi neutri o plurali dà una visibilità enorme allo zero virgola qualcosa per cento della popolazione e zittisce i «senza laurea» con tutti i loro pregiudizi osceni, i loro bisogni sociali, le diseguaglianze e le ingiustizie sofferte.
La demolizione dei valori tradizionali si addice a quell’élite che ama definirsi meritocratica per nascondere la società che ha costruito: dietro l’idolatria del talento c’è quella delle «credenziali», c’è la dittatura dei tecnici e degli esperti, caste autoreferenziali che non hanno conti da rendere, non devono mai rispondere dei disastri compiuti. La selezione in base alle «credenziali» non ha nulla a che vedere con il talento o con il merito: è quella dei network, delle cordate, dei clan, delle solidarietà mafiose. È un mondo simile alle aristocrazie di una volta e ancora largamente ereditario. È un mondo che si riempie la bocca con il rispetto della scienza e degli esperti, ma dove i tecnocrati non hanno mai pagato un prezzo per i tremendi sbagli commessi: tutta la storia della globalizzazione iniqua, delle crisi finanziarie, fino alla stessa gestione della pandemia, è una collezione di errori di cui i «tecnici» al comando non hanno mai fatto ammenda. Il loro sistema si perpetua facendo finta di rinnovarsi, per questo abbraccia nuove regole di cooptazione, che promuovono i vip delle minoranze «giuste» pur di ricacciare indietro la massa degli impoveriti.
Non è un caso se i più recenti sondaggi Gallup rivelano che l’americano medio sovrastima la percentuale di black sulla popolazione nazionale: pensa che siano il 33 per cento mentre sono solo il 12 per cento. Così come sovrastima in modo ancor più eclatante la percentuale della popolazione Lgbtq pensando che sia il 25 per cento del totale mentre è solo il 3,8 per cento. Questi errori di percezione sono comprensibili: l’ossessione dei politici, dei media, del mondo dello spettacolo ingigantisce il peso e la rappresentanza di tali minoranze. Le rende anche caste intoccabili, cui tutto è permesso: quando la star afroamericana Whoopi Goldberg ha detto che l’Olocausto di Hitler «non era razzismo perché era una vicenda tra bianchi», se l’è cavata con un rimbrotto e una brevissima sospensione dalla Tv in cui lavora. Se fosse stata una bianca a pronunciare un simile insulto alla memoria della Shoah, non sentiremmo mai più parlare di lei: sarebbe cancellata a vita. Per leggere pagine serie, oggettive ed equilibrate, cioè di vera storia, sul razzismo dei neri e degli arabi, io consiglio il saggio Liberation Psychology di Kwame Anthony Appiah sulla vita del rivoluzionario Frantz Fanon, pubblicato nel febbraio 2022 dalla «New York Review of Books». Ma Appiah se lo può permettere perché è africano e gay, riempie tutte le caselle giuste: altri sarebbero già scomparsi dalla vita pubblica per avere osato la metà.
Ross Douthat nel suo libro The Decadent Society (2020) ci ricorda una costante della storia: le civiltà umane più dinamiche e creative sono state inevitabilmente espansioniste. Si sono allargate per dare la propria impronta a un mondo più vasto rispetto alle tribù o alle città da cui provenivano. Qualche volta espandersi ha voluto dire conquistare e colonizzare, altre volte si è tradotto nel proselitismo missionario, altre volte ancora ha soddisfatto la curiosità degli esploratori. L’Occidente moderno è stata la prima civiltà autenticamente mondiale e per questo la sua espansione ha toccato ogni angolo del pianeta. Ma gli espansionismi altrui – quello persiano, arabo-islamico, cinese, ottomano, russo – nelle rispettive età auree avevano avuto caratteristiche simili. Quando invece le civiltà si ripiegano su se stesse, battono in ritirata, scelgono la rinuncia, allora la decadenza è garantita. La decadenza include degrado morale, edonismo ed egoismo, nonché l’incapacità di sacrificarsi per difendere la civiltà dai suoi nemici esterni.
Roya Hakakian è donna, iraniana, immigrata: anche lei ha la fortuna di far parte delle categorie santificate nel catechismo politically correct. Questa scrittrice di squisito talento poetico ha saputo dirci la verità su noi stessi nel libro A Beginner’s Guide to America (2021). Raccontando il suo percorso di straniera approdata in Occidente, ecco come ha visto la massa dei bianchi poveri negli Stati Uniti, la classe operaia disprezzata dalle élite: «Quelli che sono nati qui sono dimenticati dai propri simili. Gli immigrati spesso hanno chance migliori di successo materiale e spirituale. Quelli nati qui non hanno una storia da raccontarsi se non quella di un fallimento, di un tradimento, di una disperazione».
La Hakakian si entusiasma quando ricorda il suo primo impatto con la società americana, appena arrivata dall’Iran. Comincia dalle piccole cose: l’ebbrezza di potersi togliere il velo. Continua con questioni più importanti: l’esperienza del corteggiamento in un mondo dove le donne hanno conquistato tanti diritti, compreso quello di prendere l’iniziativa. Nel costume, nella vita di tutti giorni, respira a pieni polmoni ciò di cui non ci rendiamo più conto. La libertà.
Vorrei che sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti.
Nel catalogo dei segnali di un suicidio occidentale, aggiungiamo dunque questo: nelle ore di quel 23 febbraio 2022 in cui la Russia aggrediva l’Ucraina, i talk show europei erano pieni di angoscia e di paura, ma ospitavano anche infiniti processi all’Occidente. Come al solito: abbiamo sbagliato tutto noi, è sempre colpa nostra. Putin prende nota, da anni, del nostro autolesionismo.