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Labirinto d’amore
Estratto da "ELOGIO DELLA MATRIGNA " Mario Vargas Llosa
[...]Si è immobilizzato il tempo, naturalmente. Lì non invecchieremo né moriremo. [...]
All’inizio, non mi vedrai né capirai, ma devi avere pazienza e guardare. Con perseveranza e senza pregiudizi, con libertà e con desiderio, guardare. Con la fantasia dispiegata e il sesso predisposto — di preferenza, in resta — guardare. Lì si entra come la novizia nel convento di clausura o come l’amante nella grotta dell’amata: risolutamente, senza calcoli meschini, dando tutto, esigendo nulla e, nell’anima, la sicurezza che sarà per sempre. Solo a questo patto, a poco a poco la superficie di viola più scuri e meno scuri comincerà a muoversi, a farsi cangiante, a rivestirsi di senso e a svolgersi secondo quello che, in realtà, è: un labirinto d’amore.
La figura geometrica della frangia centrale, proprio nella metà del quadro, quella sagoma piana di pachidermide a tre zampe è un altare, un’ara, o, se hai lo spirito allergico al simbolismo religioso, una scenografia teatrale. È stata appena officiata una cerimonia eccitante, dai riflessi deliziosi e crudeli, e quelle che vedi sono le sue vestigia e le sue conseguenze. Lo so perché ne sono stata la felice vittima; e, anche, l’ispiratrice, la protagonista. Quelle macchie di rossore sulle zampe della diluviana creatura sono il mio sangue e il tuo sperma che sono sgorgati e stanno raggelandosi. Sì, vita mia, quanto giace sulla pietra cerimoniale (o, se preferisci, sulla scenografia preispanica), quella figura viscosa di piaghe malva e tenui membrane, di neri vuoti e ghiandole che suppurano grige, sono io stessa. Cerca di capirmi: io, vista da dentro e da sotto, quando tu mi calcini e mi spremi. Io, in eruzione e spargimento sotto il tuo attento sguardo libertino di maschio che ha officiato con efficienza e che, ora, contempla e filosofeggia.
Perché lì ci sei pure tu, carissimo. Che mi guardi come se mi facessi l’autopsia, occhi che guardano per vedere e mente all’erta di alchimista che elucubra le ricette fosforescenti del piacere. Quello a sinistra, dritto nel settore di cangianti marroni, quello fra le mezzelune saracene, adorno di un mantello di piume vive, tramutato in totem, quello con gli speroni e il piumaggio vermiglio, quello di schiena che mi osserva, chi potrebbe essere se non tu? Ti sei appena alzato e trasformato in un guardone. Un istante fa eri cieco e in ginocchio fra le mie cosce, lì ad accendere i miei fuochi come un servitore abbietto e diligente. Ora, godi guardandomi godere e rifletti. Ora sai come sono. Ora ti piacerebbe dissolvermi in una teoria.
Siamo impudici? Siamo totali e liberi, semmai, e terrestri al massimo. Ci hanno tolto l’epidermide e ammorbidito le ossa, ci hanno scoperto le viscere e le cartilagini, ci hanno esposto alla luce tutto quello che, nella messa o nella rappresentazione amorosa che celebriamo insieme, è comparso, cresciuto, sudato e sgorgato. Ci hanno lasciati senza segreti, amor mio. Quella sono io, schiavo e padrone, la tua offerta. Sventrata come una tortora dal coltello dell’amore. Spaccata e pulsante, io. Lenta masturbazione, io. Zampillo di giulebbe, io. Dedalo e sensazione, io. Ovaia magica, seme, sangue e rugiada dell’alba: io. Quello è il mio viso per te, nel momento dei sensi. Quella sono io quando, per te, mi tolgo la pelle nei giorni feriali come in quelli festivi. Quella sarà la mia anima, forse. Tua di te.
Si è immobilizzato il tempo, naturalmente. Lì non invecchieremo né moriremo. Eternamente godremo in quella penombra di crepuscolo che già stupra la notte, illuminati da una luna che la nostra ebbrezza ha triplicato. La luna reale è quella nel mezzo, nera come ala di corvo; quelle che la scortano, color del vino torbido, sono finzione.
Sono stati aboliti anche le sensazioni altruiste, la metafisica e la storia, il raziocinio neutro, gli impulsi e le opere di bene, la solidarietà verso la specie, l’idealismo civico, la simpatia per i consimili; sono stati cancellati tutti gli umani tranne te e me. E scomparso tutto quello che avrebbe potuto distrarci o impoverirci nel momento dell’egoismo supremo che è quello dell’amore. Qui, nulla ci frena né ci inibisce, come il mostro e il dio.
Questo spazio triadico — tre zampe, tre lune, tre finestrelle e tre colori — è la patria dell’istinto puro e dell'immaginazione che lo serve, così come la tua lingua serpentina e la tua dolce saliva mi hanno servita e si sono servite di me. Abbiamo perso nome e cognome, viso e capelli, la rispettabile apparenza e i diritti civili. Ma abbiamo guadagnato magia, mistero e godimento corporale. Eravamo una donna e un uomo e ora siamo eiaculazione, orgasmo e un’idea fissa. Siamo divenuti sacri e ossessivi.
La nostra conoscenza reciproca è totale. Tu sei me e te, e tu sono io e te. Una cosa perfetta e semplice come una rondine o la legge della gravità. La perversità viziosa — per dirla con parole in cui non crediamo e che entrambi disprezziamo — è rappresentata da quei tre specchi esibizionisti nell’angolo superiore sinistro. Sono i nostri occhi, la contemplazione che pratichiamo con tanta ansia — come tu ora—, il denudamento essenziale che ciascuno esige dall’altro nella festa dell’amore equella fusione che solo può esprimersi adeguatamente traumatizzando la sintassi: io ti mi offro, mi ti masturbi, succhiatimici.
Ora, smetti di guardare. Ora, chiudi gli occhi. Ora, senza aprirli, guardami e guardati come ci hanno rappresentati in quel quadro che tanti guardano e così pochi vedono. Ora lo sai che, già prima che ci conoscessimo, ci amassimo e ci sposassimo, qualcuno, col pennello in mano, ha anticipato in quale orrenda gloria ci avrebbe trasformati, ogni giorno e ogni notte dell’indomani, la felicità che abbiamo saputo inventare.