IL VOLO DELL'OCCASIONE
Filippo Tuena
Recensione
"Il volo dell'occasione" è una storia di spettri, ma è anche una meditazione sul tempo e sulle sue trappole di ciclicità, sulla distruttività della passione, sul suo potere travolgente. La storia raccontata fonde l'atmosfera del romanzo noir con le suggestioni della magia e del mistero. Il tutto avviene in una Parigi fine secolo, con i suoi sfondi e i suoi interni, dove strani personaggi vivono incontri, unici e irripetibili, ("occasioni") che modificheranno la loro vita: un vecchio giornalista di cronaca nera, un collezionista maniacale, una bella avventuriera, un arabo scorbutico, un commissario emulo di Maigret, e poi negozianti, inquilini, passanti, portieri d'albergo, ed altri ancora...
IL VOLO DELL'OCCASIONE
Non era un antiquario. Piuttosto un rigattiere. Non fa molta differenza, comunque. Un rigattiere, so riconoscere il tipo: giaccone largo di pelle nera, rovinato ai gomiti; pantaloni di velluto a coste, gualciti, con l’affossatura alle ginocchia; capelli unti; modi bruschi ma sottomessi. E i soldi tenuti assieme da un elastico, che rigonfiano la tasca interna del giaccone.
Grandi pagatori, vanno sempre di fretta e non c’è bisogno di blandirli. I migliori. Fanno affari e li fanno fare a te. Non occorre mentire, non occorre recitare. Sanno quello che vogliono. Ma non devi incontrarli a un’asta. Sotto i capelli unti, dietro lo sguardo ebete da montone, ti fregano sempre. Quasi sempre.
Quel giorno ce n’era uno seduto proprio accanto a me, alla mia destra. Nella sala numero 7 dell’hôtel des ventes di rue Drouot.
Mezza Parigi compra e mezza vende, lì dentro. Quasi una stazione affollata del metrò, Strasbourg-Saint Denis, per esempio. Le scale mobili, i due flussi della folla: salire scendere, andare venire, comprare vendere.
La moquette consunta. I telefoni a gettoni sempre occupati, la toilette sporca. La fila dei venditori con i pacchi sotto il braccio, lo sguardo verso il basso. I capannelli degli antiquari di provincia, i “napoletani”, i galoppini dei grandi mercanti, sempre in giacca blu. E poi le anziane signore con la coda di volpe attorno al collo, i ragazzi magri e curvi con il pomo d’Adamo sporgente che osservano le vetrine e cercano l’affare. E tutto il resto. Tutta la malinconia della gente che spera, e sogna di modificare il proprio destino in un istante. Simile in questo ai ciechi frequentatori di una sala da gioco.
La «Gazette» annunciava la vendita come una “varia”. Oggetti alla rinfusa, senza catalogo, senza numeri. I crieurs, un paio di omaccioni sgradevoli con una giacca blu unta bisunta, magnificavano i pezzi cercando di far salire le offerte, mentre i fattorini li mostravano svogliatamente alla folla di curiosi.
Ero seduto in prima fila, alla mia destra avevo il rigattiere, quello volgare, col giaccone di pelle. Alla mia sinistra c’era invece un signore distinto, silenzioso, che perdeva forfora in piccole squame biancastre che si depositavano sul bavero del cappotto nero.
Puzzava d’aglio. Quella puzza francese, di aglio francese misto a Pernod francese, che si sposa così bene con la provincia e con la puzza che ci si aspetta da un vicino di un’asta dozzinale del Drouot.
Una puzza di muffa. Di aglio muffito.
Be’, io ero in mezzo a questi due. Erano lì dall’inizio dell’asta. Il signore puzzolente e distinto leggeva il giornale. Il rigattiere si mostrava interessato a tutti i pezzi, sbirciava in continuazione il battitore, gli oggetti in vendita, i crieurs, gli acquirenti. Era impaziente. Scalpitava. Ogni tanto alzava la mano, per comprare gli oggetti più dozzinali.
Poi, quando fu il turno di un orologio da tavolo art déco, anche il forforoso sembrò destarsi.
L’orologio era molto brutto. Il quadrante ovale era laccato bianco, con la cornice e i numeri di ottone dorato. Il vetro era incrinato e le lancette ferme alle ore 12. Il corpo dell’orologio era in alabastro verdino e una donnina in bronzo, un po’ sbilenca e goffa, vi saltellava sopra, con le braccia lunghe lunghe e le gambe sottili sottili. Il viso allungato ma le labbra carnose. Forse l’artista si era ispirato a Joséphine Baker.
Sotto il quadrante si trovavano tre finestrelle bordate di ottone, con un datario che non veniva più aggiornato da un bel po’ d’anni:
18 mars 1948
Il mio vicino con la forfora, il muffoso, senza scomporsi, incominciò ad alzare il dito. Il battitore incrociò il suo sguardo e ne accettò l’offerta. Il rigattiere, alla mia destra, agitò la «Gazette» arrotolata che teneva in mano ed entrò in gara.
Il battitore e i crieurs li sollecitavano tutti e due, i miei vicini. Io mi sentivo di troppo. L’orologio d’alabastro verdino saliva. A diecimila franchi il rigattiere si fermò, scosse la testa e disse «no». Il forforoso accennò un sorriso, convinto di aver vinto l’asta. Ma il rigattiere alzò un’altra volta la mano:
«Diecimila e cinquecento», disse mentre sudava e aspettava l’aggiudicazione. Il forforoso lo guardò annoiato, alzò di nuovo la mano verso il battitore, che scandì: «Undicimila», guardando verso il rigattiere. Questa volta non ci fu replica. Il signore distinto ricevette il tagliando di aggiudicazione e pagò subito al fattorino, sfilando da un vecchio portafogli di coccodrillo le banconote. Il rigattiere lo guardò con disprezzo e tastò la tasca interna del giaccone. La sentì rigonfia e continuò a seguire l’asta.
L’altro s’era alzato e raggiunse il bancone, aspettò che un inserviente gli impacchettasse l’orologio con la carta di giornale e, guardando sempre verso il basso, uscì col pacco sotto braccio.
Lo rividi qualche settimana dopo. Sempre al Drouot. Questa volta alla vendita di una collezione di 78 giri di jazz.
Era una raccolta importante. Vi trovai un Tiger rag dei Wolverines di Bix; le prime incisioni di Fletcher Henderson con gli assolo di Jimmy Smith; la versione Victor di Black and tan fantasy, quella con il famoso assolo di Bubber Miley.
“Monsieur Renant”, così lo chiamava il banditore, che evidentemente lo conosceva, acquistò alcuni 78 giri di Jimmy Blanton e Duke Ellington e un gruppo d’incisioni del Quintet de l’Hot Club de France, di Django e Grappelly. Le prime incisioni, quelle anteguerra, del ’39.
I gusti musicali di Monsieur Renant erano sofisticati.
Il terzo incontro, quello decisivo, accadde diversi mesi dopo.
Lo incontrai al Marché aux puces. Curiosava davanti al box di un rigattiere.
Cercava qualcosa.
Riconobbi subito quello che cercava: l’orologio d’alabastro, con la donnina di bronzo dorato, era proprio lì, dentro una vetrina impolverata, accanto a due vasi di opalina celeste e un piatto di vetro soffiato.
Il padrone della bancarella, un anziano rigattiere, stava vendendo una poltrona di mogano a una coppia di turisti americani. Renant chiese a una ragazza dai capelli rossi – forse la figlia del rigattiere. Lei si avvicinò alla vetrina e l’aprì. Renant prese l’orologio in mano mentre la ragazza guardava nel vuoto.
Mi accostai.
Renant inforcò un paio d’occhiali, rigirò l’orologio, guardò il fondo, aprì lo sportello posteriore e ispezionò la macchina. Passò la mano su un angolo sbeccato.
«È caduto», disse.
La ragazza annuì.
Renant continuò l’ispezione.
«L’orologio è rotto».
La ragazza alzò le spalle.
Renant passò le dita sulle rotelle zigrinate che azionavano il datario.
«Anche questo è rotto. Non si può più cambiare la data. Vede?».
«Si può aggiustare», disse la rossa interrompendo il suo mutismo.
«Dev’essere caduto. Un vero peccato. Che ne chiede?».
La ragazza prese l’orologio in mano, lo rivoltò e controllò un’etichetta adesiva.
«Dodicimila».
«È caro».
La ragazza, indispettita, fece per rimettere l’orologio dentro la vetrina.
«Diecimila», propose Renant.
«Dodici».
«Diecimila», ripeté mettendo le mani in tasca.
«Dodici».
Renant contò venti banconote da cinquecento franchi. Poi ne aggiunse altre due, fino ad arrivare a undicimila, e diede il denaro alla ragazza.
«Me lo incarti, per favore», chiese.
La ragazza prese due pagine del «Figaro», ci avvolse l’orologio e lo mise dentro una busta di plastica della Samaritaine.
«Grazie», disse Renant e andò via.
Io lo seguii lungo gli affollati sentieri del mercato. Si guardò ancora attorno. Curiosò tra le chincaglierie di altri banconi, ma non comprò più nulla. Si teneva stretto il suo involto di cellophane e arrivato al crocevia di place de Clignancourt, scese le scale della stazione del metrò.
Lo seguii anche lì sotto. E anche dentro il treno, la linea 4, direzione porte d’Orleans.
Non mi domandavo perché lo stessi pedinando nei sotterranei di Parigi. Mi domandavo perché mai avesse comperato quel brutto orologio, identico a quello che aveva comprato tempo addietro al Drouot.
Li collezionava, forse. Collezionava brutti orologi da tavolo art déco.
Oppure quegli orologi non erano né brutti né simili. Forse era un esperto di grande valore e sapienza e in grado di riconoscere da un minimo particolare costruttivo la rarità e il valore di un oggetto altrimenti dozzinale.
Sì, era questo che lo aveva convinto. Aveva guardato dentro la macchina, per controllare la marca della fabbrica, il numero di serie degli ingranaggi, la firma dell’artigiano. E aveva trovato quello che cercava: quell’orologio non era proprio uguale a quello del Drouot.
Qualcosa di diverso c’era. C’è sempre per i collezionisti.
O forse l’orologio era proprio lo stesso del Drouot, che Renant aveva acquistato in un momento di euforia o di benessere e che, poi, s’era visto costretto ad alienare per un altrettanto inaspettato caso di ristrettezza.
La povertà. Succede.
Succede che talvolta l’agiatezza e la miseria compiano rivoluzioni così rapide e impreviste che può accadere di riacquistare i beni che un tempo si è stati costretti a cedere.
Li conosco quei tipi, quelli che vanno in cerca del passato. Quelli che inseguono una sorta di rivalsa, di vittoria contro le avversità. Innamorati del passato, vorrebbero tornare a quei tempi felici. Illusi. Non sanno che nulla è ripetibile, nulla ritorna. Perdiamo tutto, né ripossedere qualcosa che abbiamo amato ci restituisce il tempo in cui abbiamo amato.
Tutto, perdiamo tutto.
Renant era succube di quel sentimento, vittima di quell’errore.
Lo avevo colto, il suo sguardo eccitato, davanti a quella vetrina. Non era stato capace di mentire, di dissimulare la sua passione. Inutilmente aveva cercato di trattare il prezzo, di far notare gli inconvenienti, i difetti dell’orologio. Se la rossa fosse stata davvero brava, sarebbe riuscita a ottenere molto di più degli undicimila franchi che aveva ricavato.
Renant, quella mattina, al mercato, s’era imbattuto in un’occasione perfetta: riprendersi parte del passato che, chissà come e perché, aveva perso. Era questo il suo destino di collezionista: tornare a possedere quell’orologio. Si era lasciato beatamente travolgere dalla sua passione e certo aveva considerato quel caso quasi come un invito della sorte, o meglio, una prova della capacità di piegarla ai propri desideri. Una dimostrazione della propria forza.
Che importa allora il prezzo che si paga? Può la felicità fare i conti? Sottostare ai freddi calcoli della contabilità, del dare e dell’avere? Il caso, l’occasione, l’imprevisto sopraffanno la ragione. Ci si lascia cullare dalla meraviglia di una specie di musica delle sfere. E quasi si crede di essere stati capaci di possederlo, il caso, l’occasione.
E nell’acquisto si rinnova il piacere del potere. Sembra quasi di ripercorrere il tempo, replicare gli istanti passati, tornare indietro, e correggere, potendolo, il passato.
Per questo si è disposti a pagare volentieri un prezzo due o tre volte superiore alla cifra che ad altri appare alta, inavvicinabile. Non ha prezzo la possibilità di riavvolgere il tempo in senso inverso, di tornare indietro seguendo il filo d’Arianna, d’ingannare il labirinto dei giorni trascorsi. Non ha prezzo rivivere le emozioni del passato.
Essere capaci di ripeterle.
A questo pensava Renant seduto nel vagone di seconda classe della metropolitana di Parigi mentre vedeva scorrere davanti agli occhi la sequenza delle stazioni della linea 4. Renant sedeva, e teneva sulle ginocchia l’orologio d’alabastro. Di tanto in tanto ne accarezzava le forme geometriche e squadrate. La testolina della danzatrice di bronzo spuntava da una lacerazione del cellophane, e Renant vi passava sopra il pollice, come se volesse lucidarla.
Scese a Saint-Germain-des-Prés. Salì la breve scala e, una volta all’aria aperta, si fermò al crocevia, proprio davanti alla chiesa. Guardò i manifesti dei concerti di musica sacra affissi alla cancellata e poi si diresse verso rue Jacob. All’incrocio con rue des Saints-Pères voltò a destra, in direzione del fiume. Dopo pochi metri s’infilò in un portone, attraversò il cortile interno dove si trovavano alcuni negozi e salì le scale.
Probabilmente abitava lì. Guardai la cassetta della posta. Grande, laccata di blu. Il suo nome
RENANT
campeggiava su un cartoncino immacolato, messo di recente. Guardai dentro la fessura della cassetta e mi trovai, meravigliandomi di tanta audacia, a cercare di allungare le dita per pescare qualche lettera che mi rivelasse di quell’uomo più di quanto avessi fino ad allora scoperto.
Il mio gesto risultò vano; la cassetta vuota.
Al café de Flore.
Non la solita folla. Per fortuna non la folla di un sabato sera d’inverno. Il traffico dei boulevard scorreva tranquillo.
Aspettavo Renant seduto a un tavolo della veranda e mangiavo un club sandwich.
Aspettavo? Speravo che si facesse vedere.
È il crocevia di Saint-Germain, il luogo che offre le più alte possibilità di un incontro casuale. Quando si cerca qualcosa che non si sa dove sia, è da qui che bisogna incominciare. Il punto d’inizio di ogni storia. O dove le storie s’incrociano, dove slittano verso soluzioni inaspettate, verso finali imprevedibili.
L’Aleph dev’essere qui intorno, a poche centinaia di metri. Il Lapis Niger, il Milarum Aureum, l’origine di tutto, l’imbuto che ingoia ogni cosa, il sottoscala che mostra l’universo, voglio dire.
Se ne respira l’odore, se ne sente il fremito. Non so spiegarlo. Ma è qui che accadono le cose che altrove si sognano.
La gente di Parigi, i turisti grossolani, gli intellettuali, tutti i passanti che camminano su questi marciapiedi, che sembrano andare in luoghi reali, diretti ad appuntamenti reali, vanno invece incontro a storie a volte accadute, a volte ancora da compiersi.
È bello guardarli seduto al tavolino di un caffè. Soltanto il guardarli presuppone che almeno un briciolo del loro fare si trasferisca negli occhi di chi guarda.
Così se Renant non si fosse fatto vedere quella sera, sarei rimasto lì comunque felice a mangiare il mio club sandwich, a bere la mia Stella Artois, a guardare i passanti. Avrei trovato altre storie da seguire; avrei preso altri appunti; schizzato immaginari ritratti di persone che ignare sarebbero finite nelle mie pagine.
E invece Renant non mancò al tacito appuntamento che ci eravamo dati: lo vidi entrare e sedersi a pochi tavoli dal mio.
Chiese un Pernod. Mentre aspettava l’ordinazione, di tanto in tanto guardava verso la scala che porta alla saletta superiore del caffè. Scuoteva la testa disperato. Quando arrivò il Pernod, diede due grandi sorsate e prese a giocare con i bordi della caraffa d’acqua come lo avevo visto fare con l’orologio d’alabastro.
Controllava continuamente l’ora, come se attendesse qualcuno che tardava. Non glaciale come l’avevo visto al Drouot; né determinato come lo era stato al Marché aux puces. Era agitato, nervoso. Sembrava che gli mancasse il terreno sotto i piedi.
Si guardava attorno, gli occhi arrossati, la schiena curva: un lupo braccato.
Allo scoccare delle nove e trenta pagò il conto e, con la stessa rapidità con cui era sceso dal vagone della metropolitana, uscì dal caffè. Attraversò il boulevard. Pensai che volesse prendere un taxi dall’altra parte della strada, ma proseguì ed entrò da Lipp.
Trovò un tavolo libero nella veranda e si sedette. Dal mio posto continuavo a spiarlo, e continuavo a vedere la sua testa, grigia e sottile, muoversi a scatti, come quella di un gallinaceo, piccola e nervosa.
Mangiò in fretta. Alle dieci e venti era di nuovo sul boulevard. Riattraversò la strada e passò davanti a me. Mi alzai e lo seguii. Fece il giro di tutti i ristoranti di Saint-Germain sbirciando dalle vetrine; a place Danton si fermò davanti alla fila delle persone che aspettavano per entrare al cinema. Le guardò tutte, una a una, nel viso.
Infine tornò sui suoi passi. Entrò in una libreria solitamente aperta sino a tarda notte.
Aspettai fuori.
Sfogliò i volumi esposti nel banco delle novità e acquistò un tascabile dalla copertina bianca.
Uscì e si diresse verso la sua abitazione. Aprì il portone e lo vidi scomparire nel buio dell’androne.
Approfittai del lento ritorno del portone e d’un balzo l’afferrai prima che si richiudesse. Aspettai che Renant attraversasse il cortile illuminato dalle vetrine del giocattolaio e della rilegatoria. Entrai, mi nascosi in un rampicante che s’addossava al muro e guardai in alto. Poco dopo uno degli abbaini s’illuminò. Era forse quella, un’umile chambre de bonne, l’abitazione di Renant?
Mi avvicinai ancora una volta alla cassetta delle lettere. L’etichetta bianca su cui era scritto il suo nome era stata sgorbiata per creare un gioco di parole.
Un’anonima, forse adolescente, mano aveva inserito una “V” e una “E” dopo la prima sillaba del cognome del mio misterioso amico, talché sul cartoncino ora si leggeva:
REVENANT
ovvero ‘fantasma’, ‘spirito’.
Apprezzai il gioco di parole e l’astuzia dello sconosciuto autore di sciarade. Il viso magro e grigio di Renant ben si poteva paragonare a quello di un silenzioso spirito vagante parigino.
Tornai a guardare in alto, alla finestra illuminata. M’immaginai il mio fantasma rilassarsi al suono di un 78 giri di Django. Seduto su una vecchia e comoda poltrona, con un bicchiere di Pernod in mano, si lasciava cullare dalle note di I’m confessin’ e pensava a un amore lontano.
Tornai in istrada. Entrai nella libreria e comperai il libro che Renant aveva acquistato: i racconti del terrore di E.A. Poe nella traduzione di Baudelaire.
La commessa mi disse:
«È il secondo in pochi minuti. Stanotte sembra che tutti vogliate restare svegli dalla paura».
«Dall’emozione», replicai.
Lo rividi un sabato mattina, sempre da Flore. Ancora al centro del mondo, dove le storie s’incrociano.
Io facevo colazione: express e croissant. Leggevo il giornale, ma soprattutto godevo del lieto andirivieni dei miei parigini. Mi sentivo lieve, distante e libero. Non pensavo a Renant. Seguivo qualche trama che mi facesse innamorare; mi beavo della mia fantasia, la lasciavo correre.
So che succede quando mi lascio sospendere così dal sogno, che talvolta i sogni accadono.
Renant è entrato da Flore, con il suo cappotto nero e la sciarpa di seta color crema, vestito da sera, come se avesse passato la notte in bianco. Aveva le occhiaie e la barba lunga. È andato verso il suo solito tavolo e dopo essersi seduto si è voltato verso di me. Mi ha guardato con attenzione, come se mi riconoscesse. Ho risposto al suo sguardo senza abbassare gli occhi.
Si è avvicinato il cameriere e Renant ha ordinato il solito Pernod.
Questa volta non era nervoso. Non si guardava attorno, come se cercasse qualcuno. Sembrava stanco, disilluso. Una delusione d’amore, pensai.
Sono rimasto a guardarlo a lungo, forse di più d’un’ora. Poi, a metà mattinata, è apparsa lei: la dama bianca.
Sapevo che doveva esistere per un uomo come Renant una dama bianca. Una donna bella, giovane e misteriosa. Scendeva dalla saletta del primo piano. Correva quasi. Indossava un abito da sera di seta bianca. Piangeva. Il rimmel le era colato dalle palpebre, solcandole le gote di nero.
Non credo che avesse visto Renant. Ma lui si alzò:
«Blanche», disse tendendo la mano verso di lei. «Blanche!», ripeté.
Lei gli era passata accanto senza voltarsi. Correva verso l’uscita.
Ha urtato una sedia vicino al mio tavolo e la borsetta da sera di perline argentate le è scivolata di mano. È caduta a terra, aprendosi.
Blanche ha mandato un’esclamazione volgare, inaspettata: merde, o qualcosa del genere, non ricordo. Si è chinata a raccogliere il rossetto, il portacipria, quel che era uscito dalla borsa.
Mi sono avvicinato per aiutarla. Il cameriere ha fatto lo stesso.
Renant era immobile, in piedi, al suo tavolo, con il braccio teso, la bocca socchiusa. Una statua di ghiaccio. Credo che ripetesse il nome di lei. Ma non guardava verso di noi, piuttosto guardava lo spazio che Blanche aveva percorso correndo. Era rimasto impietrito a osservare il vuoto.
Io non gli prestavo molta attenzione. Ero vicino alla ragazza, ne respiravo l’odore mentre, sotto i tavoli, andavamo ginocchioni alla ricerca degli oggetti catapultati fuori dalla sua borsetta.
Blanche bella come una torta nuziale. Ero completamente preso da lei, dal suo profumo, quando mi resi conto che stava accadendo qualcosa.
Io la conoscevo. L’avevo sempre conosciuta, anche se era la prima volta che l’incontravo. La riconoscevo, come se qualcosa di lei appartenesse al mio passato.
Mentre Blanche raccoglieva le sue cose, finalmente riconobbi il profumo. L’odore, meglio. Un sapore di muffa, mascherato da un profumo forte, orientale. Lo stesso odore di Renant, lo stesso odore di quella volta al Drouot, quando eravamo stati accanto. Lo stesso odore dopo tanto tempo.
Talvolta i particolari attraggono a sé l’insieme. Mi tornò alla mente l’orologio. La ballerina di bronzo che vi ballava sopra. Lo sguardo di Renant. Le sue carezze e il viso bianco e perfetto della ragazza che mi stava accanto. Lo stesso odore.
Ero certo che avevano passato la notte assieme. L’una nelle braccia dell’altro. Così tanto avvinti da scambiarsi i profumi, gli odori.
Poi era accaduto qualcosa. Lei era rimasta nella saletta, a piangere. Lui era uscito e poi, pentito, era tornato da Flore, senza avere il coraggio di salire. Forse neppure s’immaginava che lei fosse rimasta tanto tempo nella saletta del primo piano.
Avevano consumato l’ultima lite, quella che sanciva una fine e quel gesto di Renant, quel suo braccio fermo a mezz’aria, era il timido e sterile tentativo di ricucire la relazione; l’ultimo gesto che rischiava di diventare inutile, goffo, patetico.
Dalla saletta del primo piano è sceso un uomo giovane, robusto, in smoking. Un bel tipo. Forse un orientale. Un arabo, credo.
S’è fatto silenzio. Ho capito allora che la lite non era stata tra Blanche e Renant, ma tra lei e l’arabo. Che erano stati loro ad aver passato la notte assieme e che, al mattino, stavano vivendo quel piccolo dramma d’amore.
E perché, allora, il profumo di Renant sugli abiti di Blanche? Non trovavo una spiegazione. Tuttavia l’intrigo mi stava prendendo e pensai che non dovevo concentrarmi su un particolare, quando c’era da assistere a una probabile scena madre.
L’arabo è passato accanto a Renant, senza che accadesse nulla; degnandolo appena di uno sguardo di disprezzo. Quanto a Blanche, l’ha ignorata; come se non esistesse. Poi è uscito.
In quei pochi istanti ogni cosa s’è fermata: il caffè, il boulevard, noi tutti. Solo, sembrava di ascoltare, forti come i passi di un gigante, i battiti del cuore di Renant.
Blanche è ritornata a raccogliere le sue cose alla rinfusa dentro la borsetta ed è scappata via.
Pensavo che seguisse l’uomo in smoking, invece è andata dalla parte opposta. Renant, non appena lei è uscita dal caffè, si è seduto. È tornato a bere il Pernod. Io ho ripreso la mia colazione interrotta. E tutto è sembrato ritornare finalmente al proprio posto. Il caffè, gli avventori avevano già dimenticato quanto avevano visto: la coda malinconica di una notte d’amore.
Sarebbe forse finita lì. Se non fosse stato per il portasigarette che lei, nella fretta, aveva dimenticato di raccogliere.
Il portasigarette l’ho notato soltanto qualche istante dopo, troppo tardi perché potessi raggiungere Blanche per restituirglielo. Era per terra, sotto un tavolino vicino al mio.
L’ho raccolto.
Era d’argento vermeil. Una cosa di classe. Molto costosa. Sul dorso era applicata una coppia di iniziali in brillanti: una “B” e una “F” intrecciate. All’interno l’etichetta dell’argentiere: «H. Mariette – 14, passage Verdeau – Paris». Non so se fosse un artigiano famoso, ma l’oggetto era molto elegante, anche se un po’ fuori moda.
Renant era sempre seduto al suo tavolo. Mi sono avvicinato.
«È permesso?», ho chiesto.
Taceva. Guardava in basso.
Mi sono seduto.
«La ragazza», ho detto, «ha perso questo».
Ho posato il portasigarette sul tavolo. Soltanto allora Renant è sembrato liberarsi dal suo torpore. Ha preso in mano il portasigarette, l’ha rigirato, l’ha aperto.
«È di Blanche. Della mia Blanche».
«È molto bello».
«Oh, sì. Molto. Molto bello. Prezioso».
«È un suo regalo?».
«Sì. Le regalerei l’universo intero, se potessi. Sì, è un mio regalo. L’unico che le ho fatto. L’ultimo, probabilmente».
«Avete litigato?».
«Ha visto?».
Ho abbassato il capo e mi sono seduto.
«Sì. Tutta colpa dell’arabo?», ho chiesto.
«Turco. Altay è turco. Sì. È tutta colpa sua. O forse è solo un malcapitato in questa faccenda, un agente del destino, inconsapevole. Capisce quel che voglio dire?».
«Sì».
«Tuttavia», ha aggiunto alzando il tono della voce, «me la porta via. Giorno per giorno me la sta portando via».
Posò il portasigarette sul tavolo e lo spinse verso di me:
«L’ho regalato a lei. È destino che perda tutto di me. Io non lo riprendo indietro. Non lo voglio più».
Guardai l’uomo che mi stava di fronte e pensai al turco che aveva attraversato la sala poco prima. Come potevo dar torto a Blanche? Renant era distrutto. Prossimo alla disperazione, si stava lasciando andare. Lei era giovane e bella, perché mai avrebbe dovuto rovinarsi con lui quando aveva un nobile turco che le faceva la corte?
«Ieri sera siamo usciti assieme, Blanche e io. Siamo andati a mangiare da Vagenande. Lui era lì, al ristorante. Era stata Blanche, a volerci andare. Poi ho capito perché: si erano dati appuntamento. Potevo vederlo riflesso allo specchio, mentre guardava verso noi, mentre fissava la mia Blanche, mentre le faceva l’occhiolino e la salutava agitando le sue dita scure, ornate d’oro e diamanti. Glieli faceva luccicare, quel maiale!».
«E Blanche?».
«Blanche? Non sa dire di no al lusso. Non ci riesce».
Renant è arrivato al sesto, settimo bicchiere di Pernod. Come può tollerare tutto quell’anice nello stomaco? Di che cosa è fatto per non sentire le ustioni dell’ulcera? O forse le cerca, perché cancellino quelle dell’anima.
Blanche è bella. Molto bella. Un ovale perfetto, un viso infantile, due occhi neri e grandi e un corpo da donna che ancora non ha sviluppato tutte le sue arti, i suoi sortilegi; che non ha svelato i suoi misteri. Un corpo che può ottenere tutto quello che vuole, che le permette di soddisfare ogni capriccio, ogni voglia. Non l’ho vista sorridere, ma so che cosa può ottenere con uno sguardo.
Una giovane donna, bella, fresca, e spietata.
Renant era allo sbando, con una come lei. Un uomo di cinquant’anni, dimesso, che forse vive dando lezioni di musica agli studenti del conservatorio, che si è innamorato di una ragazzina che può essere sua figlia. Un uomo dimesso che ha perso la testa per il profumo della gioventù che assapora in lei. Che crede di poter fermare il suo tempo.
Il tempo. Ancora una volta. Come l’orologio e la ballerina. E le mani di Renant che accarezzano il portasigarette mentre sussurra sempre quel nome: Blanche, Blanche, Blanche...
Perché mi lascio coinvolgere da quella storia malinconica, da quest’uomo triste che ha perso la testa per una ragazzina che non sa resistere al luccicare dell’oro? Perché sento questa stretta della gelosia, della disperazione, anche dentro di me?
Una troietta. Una belle dame sans merci. Una delle peggiori, penso. Perché dev’essere bella e stupida. Persino cattiva.
Lo stesso profumo, che in Blanche sapeva di passione, in Renant diventava muffa, lussuria, disprezzo. Ritornai a quell’istante quando s’era chinata a raccogliere la borsa, quando i nostri sguardi s’erano incrociati, quando avevo respirato il suo profumo e penetrato nella scollatura dell’abito di seta. Il suo seno, piccolo e candido.
Ricordai l’indifferenza del turco, quando le era passato accanto. L’indifferenza che si prova per una sgualdrina che ha lavorato male. Pensai a Renant che le piagnucolava dietro e sentii un vuoto allo stomaco, e ghiaccio e gelo e desiderio mentre l’immaginavo nuda e distante nel letto di Altay, in quello di Renant, nel mio.
Renant continuò a raccontarmi la storia di quella sera, della sua lenta distruzione:
«Lei faceva finta di nulla. Era carina, con me. Servizievole. Lo è sempre se la si porta nei ristoranti di lusso. Ma io non ne potevo più di quegli sguardi; di quegli ammiccamenti. Poi, come Dio ha voluto, la cena è finita. Mi ha preso sottobraccio e mi ha chiesto d’andare al cinema, alla Pagode. Conosce il posto? Quel cinematografo a rue de Babylone, decorato all’orientale». Lo conoscevo.
«E Altay?», chiesi.
«Speravo che non ci avesse seguito. Siamo entrati al cinema. Proiettavano Les enfants du paradis. Guardavo il film e vedevo Blanche in Arletty e paragonavo me stesso al Pierrot di Barrault. Mi domandai se non lo avesse fatto apposta, a portarmi a vedere quel film.
Poi ho visto un’ombra sedersi a fianco di Blanche, tre o quattro posti più in là. Posava la mano sulla spalliera della poltrona che aveva davanti. E così le luci del film facevano brillare ancora una volta il suo oro. Guardava Blanche. Continuava a guardarla».
«E lei?».
«Ricambiava gli sguardi. “Non lo guardare”, le ho detto. “Non lo guardare. Vuole solo una cosa da te”. Capivo di sbagliare, di darle l’occasione di ferirmi.
Poi, mentre noi bisticciavamo e qualcuno in sala faceva cenno di tacere, Altay si è alzato ed è uscito. Poco dopo anche Blanche ha fatto per alzarsi. L’ho trattenuta. “Dove vai”, le ho chiesto. “Al bagno. O non posso fare nemmeno questo? Aspettami”. Si è liberata della mia presa ed è andata via».
«Che cosa è successo?».
«Ho fatto come mi aveva chiesto: ho aspettato. A occhi chiusi, a testa bassa. Un quarto d’ora, venti minuti. Senza vedere nulla del film; senza sentire nulla. Ho aspettato che passasse quel tempo, terribile, interminabile».
Immaginai Renant nella penombra della galleria della Pagode, chiuso nella sua disperazione, curvo come un ragno ferito.
«È tornata poi, dopo quel tempo che mi era parso eterno. Ha posato la mano sul bracciolo della poltrona. Portava al dito l’anello di Altay. Come se nulla fosse accaduto, ha ripreso a vedere il film. Mi sono alzato per uscire. Ma lei mi ha trattenuto. Ha preso la mia mano, affondando le unghie sul dorso». Guardai la mano di Renant: portava i segni rossastri di un graffio felino.
«Ho fatto per liberarmi e lei ha sussurrato: “Non vorrai fare una scenata”. Mi sono seduto di nuovo. Quando è finito lo spettacolo mi ha detto: “Sono tanto stanca. Accompagnami a casa”. Abita all’angolo della strada, a pochi metri dal cinema. Così l’ho accompagnata. “Ci vediamo domani, o quando vuoi”, mi ha detto e ha richiuso il portone dietro di sé. Non una parola sul turco, sul brillante».
«Ha sbagliato. Dovevate spiegarvi».
«Oh, sarebbe stato fiato sprecato. Se Blanche non vuole parlare, non c’è verso. Sai che mi avrebbe risposto? “Altay è generoso, non è come te. Hai visto che cosa mi regala, per quello che tu ottieni gratis?”. Che le avrei mai potuto ribattere?».
Anch’io non avevo parole da dire.
«Niente», risposi.
«Lo so. Non c’è nulla da dire. Per questo l’ammazzerò».
Ordinò due uova sode.
«Quattro», si corresse indicandomi al cameriere. «E due balons de rouge».
Continuò a raccontare:
«Non me ne sono andato subito. Sono rimasto a passeggiare lì attorno. Era troppo presto perché Blanche terminasse lì la sua notte. Troppo presto. La luna era quasi piena, il cielo limpido: una fresca serata autunnale. Non sarebbe finita lì. E infatti, dopo pochi minuti, un uomo si è fermato davanti al portone. Ha suonato. Gli ha aperto il maggiordomo. Ed è entrato».
«Era Altay?».
«No. Lui è venuto dopo».
«Dopo?».
«Sì. Dopo. Blanche frequenta diversi uomini. Ma lo sconosciuto non doveva rientrare nei suoi desideri di quella sera. S’è fermato soltanto per pochi istanti. Ho visto il portone riaprirsi e lui andarsene di fretta».
«E Altay?».
«Sono passati altri minuti, quando un taxi si è fermato sotto il portone. Altay è uscito dalla macchina e ha citofonato. Blanche è scesa, ha baciato il turco e sono saliti in macchina. Il caso ha voluto che riuscissi a fermare un’auto pubblica proprio mentre i due partivano. Li ho seguiti: ero dilaniato dal desiderio d’ignorare ma eccitato dalla voglia di sapere.
Il taxi li ha condotti in un locale su avenue President Wilson, che conoscevo per avervi suonato alcune volte. In quel luogo, La Femme Bleu, vi è una saletta dove si gioca d’azzardo con grandi poste. Il piccolo ristorante, il piano bar, la minuscola sala da ballo non sono che una schermatura per quella che è la principale attività del locale: il gioco d’azzardo e lo scambio di coppie. Chi perde, oltre ai soldi, cede la compagna.
Blanche e Altay sono entrati. Avrei potuto seguirli dentro, ma avevo paura che mi notassero. Blanche avrebbe riso di me, sarei stato ridicolo. Così ho rinunciato a entrare. Poi, questa mattina, li ho ritrovati qui al Flore».
Renant s’interruppe, non tanto per l’arrivo del cestino con le uova sode, quanto perché mi parve seguire un suo pensiero che non voleva esternare. Infine prese un uovo, lo fece rotolare sul piatto, premendolo con il palmo della mano. Cominciò a sbucciarlo, a togliere la scorza di calcare che s’era appena incrinata. Svolgeva quest’operazione con molta cura, avvicinando l’uovo al viso, ammirando le crepe che vi si formavano.
«È perfetto», disse. «Si sviluppa dall’interno per forme concentriche essenziali e separate. Non ha suture, fratture, cuciture. È perfetto. Nient’altro al mondo è perfetto come un uovo sodo. Forse, soltanto il corso del tempo e l’esito della morte lo sono altrettanto. Non trova?», disse indirizzandomi uno sguardo umido e maligno.
Terminò di sbucciare l’uovo e vi versò del sale, sospirando poche parole.
«Terra bruciata», disse.
Diede un gran morso all’uovo, e senza che io gli rispondessi nulla, con la bocca ancora impastata dal cibo, cominciò a raccontarmi di come, prima di suicidarsi, avrebbe ucciso il turco. E Blanche. Veniva vento di mare, mentre attraversavo la Senna. Le lunghe e nere chiatte risalivano il fiume silenziose e, all’orizzonte, dalla parte di Saint Denis, si vedeva avanzare la nube scura di un temporale. Con il bavero del cappotto rialzato e il cappello ben calzato entrai nel cupo ingresso della gendarmeria sul quai des Orphèvres. L’agente alla portineria mi fermò.
«Dove andate?», mi disse avvicinandosi fin quasi a toccarmi il naso col suo mento.
«Il commissario Robinet».
«Avete un documento?», chiese. Feci un passo indietro per prendere il portafogli dalla tasca interna del cappotto. L’agente era rimasto al centro della portineria, a gambe aperte, le mani sui fianchi. Mi guardava. Gli offrii il passaporto. Continuò a guardarmi. «Straniero», disse finalmente, e prese il documento. Lo sfogliò, controllò la mia fotografia, la scadenza, i timbri d’ingresso e d’uscita.
«Questo lo tengo io», disse affidando il passaporto a un suo collega. «Il primo commissario Robinet ha l’ufficio al secondo piano, stanza 18. Per quella scala».
Lo sbirro mi diede un tesserino di riconoscimento, m’indicò la via e tornò nel suo gabbiotto a vetri.
Diffido dell’arroganza del tutore dell’ordine, della cieca protervia dell’accusatore. E mi spaventa l’abissale distacco dalla realtà che possono dettare le sentenze del giudice mediocre.
Tuttavia quella era una circostanza diversa. Erano in pericolo vite umane; e non si trattava di punire un delitto, ma di impedire che si commettesse. Potevo, senza pesi sulla coscienza, affidarmi a uno sbirro e raccontargli quanto mi era accaduto quel mattino da Flore.
Adolphe Robinet apparteneva a quella parte della mia vita che la vicenda di Renant e Blanche andava cancellando. L’avevo conosciuto in tempi lontani, interessandomi a non ricordo più quale delitto che mi aveva appassionato e che poi avevo smesso di seguire. Era rimasta la singolare amicizia con Adolphe. Avevo trovato in lui un uomo affabile, disponibile, persino spiritoso.
S’interessava di buona cucina, di letteratura e arte. Dunque sembrava un poliziotto per sbaglio. Gli avevo anche accennato alle mie riserve sul suo mestiere. Lui aveva sorriso. «Ti capisco», aveva detto. «È brutto, ma sarebbe più brutto se non ci fosse». Forse aveva ragione.
Pensai che potevo raccontare a lui, in termini confidenziali, la storia di Renant.
Temevo che quanto avevo appreso, sebbene ai limiti dell’incredibile, potesse avverarsi da un momento all’altro. Quell’uomo era esasperato, viveva una dimensione lontana dalla realtà, e soffriva in maniera terribile. Avrei potuto non dargli credito, e attribuire ai fumi del Pernod le sue voglie omicide; sperare che tutto si limitasse allo sfogo malinconico di un amante tradito. Ma in quello sguardo opaco e deciso, io avevo letto una determinazione spaventosa e cieca.
Forse mi lasciavo prendere dalla fantasia. Oh, certo, Parigi era per me luogo di misteri. Uno sfondo perfetto: l’hôtel Drouot, i boulevard, la Pagode, i passages, i baracchini del Marché aux puces, la stazione della metropolitana, la piccola soffitta di rue des Saints-Pères, il café de Flore, la bella dama vestita di bianco.
Adolphe avrebbe potuto pensare che gli andavo a raccontare la trama di un mio racconto. Che, da narratore, non mi limitassi a esporre i fatti, ma ci ricamassi sopra, costruissi la mia bella simmetria affabulatoria, correggendo la realtà con il progetto del mio desiderio. Venivo a raccontargli non quel che mi era successo, ma quel che avrei voluto che accadesse. E glielo andavo a raccontare perché soltanto raccontandolo, o scrivendone, quel fatto si sarebbe finalmente avverato.
Ma poi, anche tutto questo era soltanto una fantasia. Forse Adolphe avrebbe preso la mia storia per quello che era: una delle tante che gli venivano a raccontare ogni giorno.
Eppure Renant mi aveva parlato con una tale freddezza da spaventarmi. Era stato preciso sino alla mania: il luogo, l’ora del delitto, l’arma, la tragica fine di tutti e tre i protagonisti. Troppo preciso il suo racconto, perché non ne restassi segnato.
Il corridoio degli uffici dei commissari terminava con un grande finestrone dal quale si poteva seguire il lento avvicinarsi delle nubi temporalesche. Pur così velata, era quella la maggior fonte d’illuminazione dell’ambiente. Al soffitto pendevano alcune fioche lampade che a mala pena rischiaravano le targhe sulle porte degli uffici con inciso il nome del commissario: Commissario Alfan. Commissario Perac. Vice commissario Bianchi. Commissario Maigret. Vice commissario Renier. Commissario Robinet.
Bussai.
«Avanti!». La voce tonante di Robinet attraversò la porta come fosse di carta.
«Tu qui!», esclamò vedendomi entrare. Tolse di scatto i piedi dalla scrivania, rovesciando, con gran fracasso, quanto vi era sistemato sopra; lanciò indietro la poltrona a rotelle su cui sedeva e corse ad abbracciarmi.
«Buon vecchio amico», ripeté, dandomi delle formidabili pacche sulla spalla con le sue mani ruvide e grandi. Sorrideva e mi squadrava. Chiese da quanto mi trovassi a Parigi e perché non l’avessi cercato prima. Mi mostrò la foto del piccolo che aveva da poco aumentato il suo nucleo familiare.
«Lo vedrai tu stesso, quando verrai a cena. Perché verrai a cena da noi, una di queste sere. Louise sarà certo felice».
«Anch’io», risposi figurandomi quel quadretto di felicità familiare che accompagnava l’invito.
«Bene! Ora che abbiamo risolto queste piccole ma necessarie formalità, sarebbe il caso che tu mi dicessi qual vento ti conduce qui. Non qualche problemuccio con noi della giustizia, voglio sperare».
«No, grazie al cielo, sono candido e puro come un fanciullo».
«Quanto a questo ne dubito. Tuttavia, l’alternativa è forse più spaventosa. Quale storia sei andato a rivangare, adesso?».
«È lunga e difficile, da raccontare».
«Oh, via, non essere modesto. Piuttosto siediti e tira fuori il rospo».
Avvicinò una seggiola di legno alla scrivania e tornò a sedersi al suo posto.
Tirai un sospiro. Mi avrebbe creduto? Avrei raccontato la verità? O era già romanzo quello che stavo per narrare?
«Cos’è, ci ripensi?».
«No. Adesso ti dico. Non so da dove cominciare».
«Oh, questa è bella. Di solito è il contrario: si sa come si comincia, ma non come e dove si finisce».
«Non sempre», dissi. E raccontai di Renant. Del perché mi ero interessato a lui: del ripetuto acquisto dell’orologio d’alabastro; dei suoi giri a vuoto per Parigi; e di come, poche ore prima, ci fossimo ritrovati da Flore, dove avevo assistito alla scena fugace con la dama bianca. Gli narrai di come l’avevo aiutata a raccogliere la borsetta, sotto i tavoli. E di come, una volta andata, mi fossi accorto del portasigarette.
Per convincere Adolphe che non stavo inventando nulla e per dare a me stesso la prova della veridicità della mia storia, tirai fuori dalla tasca della giacca il portasigarette d’argento.
«Vedi, questo lo ha perso lei. Non racconto frottole».
Adolphe prese in mano l’oggetto:
«Non è il mio genere, portasigarette d’argento. Con il mio stipendio. Non è proprio per me. E poi, non so dirti se siano argento, oro e brillanti veri». Adolphe s’era alzato, affacciandosi alla finestra dell’ufficio. La nuvola nera aveva raggiunto la periferia di Parigi.
«È vero, voglio dire. È una cosa reale, concreta. Fosse anche di latta. Ed è soltanto uno dei tasselli del mistero», insistei.
«Fino adesso non ne vedo».
«Aspetta, devo ancora raccontarti il seguito: andai al tavolo di Renant, per restituire il portasigarette».
«Ma bravo!».
«Tu che avresti fatto?».
«Se fossi stato in te, me lo sarei tenuto. E bene avrei fatto, anche commettendo una piccola illegalità. Nulla in confronto ai rischi che stai correndo».
«Quali rischi?».
«Innamorarti anche di questa storia. Scappi sempre dalla realtà che ti appartiene, tu».
«È un delitto?».
«Il peggiore».
«Oh, smettila Adolphe, non ho bisogno di un amico saggio».
«E di chi?», disse. Poi, prima che rispondessi, aggiunse:
«Già, tu hai bisogno di uno che ti stia ad ascoltare. Dimenticavo. Va’ avanti».
«Sono andato al tavolo di Renant».
«A cercar guai. Certamente! Era proprio lì dove volevi andare. A grufolare come un maiale da tartufo. I guai profumano come una bella donna, eh?».
«Ascolta. Il portasigarette era una cosa preziosa. Lui conosceva Blanche, pensai che andasse restituito».
«E poi la storia t’incuriosiva. Volevi sapere. Forse rubare un’idea. Sbaglio?».
Sorrisi.
«No, non sbagli: una storia che vagava senza padrone. Parigi, capisci? Una storia che non c’era bisogno d’inventare. Una storia che mi si svolgeva davanti agli occhi, come una pellicola cinematografica. Lei, la bella fanciulla esangue; lui, il malinconico, el desdichado; l’altro, il ricco e fatuo seduttore turco. Sì, volevo proprio quella storia».
«...e quelli come te, non posso neppure sbatterli dentro. Continua».
«Renant mangiava le sue uova sode. “È semplicissima la soluzione del mio problema”, disse».
«E qual è il suo problema?», chiese Adolphe mentre passava i pollici sotto le sue larghe bretelle di tela elastica grigia.
«Il problema credo sia la gelosia, la follia. Ma questo conta poco. È la soluzione che ha trovato al suo problema che mi spaventa».
«Sarebbe?».
«Il delitto».
«Tu che ne sai?», chiese Adolphe mal dissimulando una certa ironia.
«Me l’ha detto lui: tutto. Come, quando e dove».
«E l’arma del delitto sarebbe quell’orologio d’alabastro...», ripeté Adolphe scandendo le parole.
«Ci ucciderà Altay. Con Blanche userà le mani. Quanto a lui, s’impiccherà con la corda del contrabbasso».
Adolphe era tornato a sedersi dietro la scrivania. Si era slacciato il colletto della camicia e allentato la cravatta.
«Sta diventando una storia triste, questa», disse accendendosi un sigaro. «E ti diverti molto a raccontarla. Ho un sospetto».
«Su Renant?».
«No. Su te. La dama bianca ha colto nel segno, immagino».
«Credi che diventerò il quarto della compagnia?».
«Se è per questo, già ci sei. Proprio dentro la storia. Non è quello che volevi? Entrare di soppiatto in un bel dramma parigino. Persino in un dramma banale come questo».
Volevo rispondere, difendermi, per ribattere ai ragionamenti di Adolphe, quando il temporale esplose in un tuono dalle parti del Palais Royal. I vetri della finestra vibrarono e subito si coprirono di striature d’acqua piovana che scendeva veloce.
«No», dissi. «Non è come pensi».
Adolphe non mi ascoltava e guardava la finestra e il temporale che prendeva forma e potere sulla città.
Lo distrasse il telefono interno che prese a squillare in quel momento. Afferrò la cornetta, stette ad ascoltare attento, pochi istanti soltanto. Aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse un’automatica che infilò dentro la fondina. Si alzò e indossò la giacca.
«Devo andare», disse. «È un’emergenza. Una cosa seria, questa».
Renant aveva detto che Blanche abitava a poche decine di metri dalla Pagode, in una traversa di rue de Babylone.
Avevo ancora il portasigarette che Renant aveva rifiutato e a cui Adolphe aveva dato scarsa importanza, come del resto a tutta la storia.
Dovevo rintracciare Blanche, restituirle quell’oggetto e avvisarla che Renant minacciava, foss’anche soltanto fantasia di ubriaco, i malsani progetti di un assassino.
Adolphe mi aveva rassicurato: Renant non avrebbe mai ucciso Blanche. Forse avrebbe subito tutta la vita le angherie di quella donna e, ben contento di subirle, le avrebbe cercate. «Can che abbaia non morde», aveva sentenziato accompagnandomi alla porta del suo ufficio.
La rassicurante semplicità con cui Adolphe aveva chiuso il caso, lungi dal tranquillizzarmi, dimostrava soltanto che non ero stato capace di trasmettere la mia preoccupazione. Non riuscivo a calmare la mia ansia. Mi ritrovavo davanti agli occhi, giorno e notte, quella vertigine di ragazza che scendeva le scale della saletta di Flore e che, attraente come una sirena, trascinava nel suo vortice uomini e cose verso uno spaventoso oblio. Ricordavo lo sguardo freddo e spento di Renant, mentre minacciava e raccontava ogni particolare degli omicidi che avrebbe commesso.
Non è facile figurarsi i particolari di un evento di là da venire. Lo avevo sperimentato su di me, praticando l’arte del narratore, gratuita ma impervia. Facile è la trama, la sequenza dei fatti, la semplice enumerazione degli eventi. Difficile ambientarli; rendere credibili i colori, le immagini. Ma in questo Renant era perfettamente riuscito. Aveva previsto immagini inconsuete, e le aveva descritte recuperandole da un inaspettato luogo della sua mente: la memoria. Raccontò proprio come se tutto fosse accaduto. Parlò al passato, o forse fui io che, in seguito, coinvolto dalla sua storia l’immaginai così vivida perché la credevo accaduta. Vidi la collana di perle di Blanche rompersi mentre Renant l’aggrediva. Seguii le piccole sfere bianco argentee cadere per terra, a decine. Le vidi rimbalzare silenziose al contatto con la moquette blu del piccolo appartamento, mentre Renant, sopra il corpo della ragazza, avrebbe stretto quel candido collo, fino a spegnere l’ultimo anelito di vita.
Per un mese intero cercai Blanche. Volevo avvisarla ma, soprattutto, volevo rivederla. Nella speranza di un incontro, quasi tutte le sere passeggiavo lungo rue de Babylone, davanti alla Pagode, dove proiettavano sempre il film di Carné, che narrava gli amori dei teatranti. Sarebbe dovuta passare, prima o poi, davanti a me.
Accanto al cinema era in funzione un’accogliente piccola sala da tè, anche quella arredata all’orientale. Presi l’abitudine di frequentarla.
Una sera, tra la folla che usciva dal cinema, al termine dello spettacolo delle venti, vidi finalmente Blanche. Mi mancò il fiato. Era ancora più bella dell’unica volta che l’avevo vista e delle mille che l’avevo sognata. Renant la seguiva a pochi metri di distanza. Si dirigeva a passo rapido verso l’incrocio con rue Vaneau. Entrambi muti, covavano un rancore che balzava alla vista con tale forza che la folla degli spettatori gli si teneva distante. Li seguii.
Presero la prima traversa a sinistra e si fermarono davanti a un palazzo fine Ottocento. Un piccolo ed elegante hôtel particulier. Blanche estrasse dalla borsetta le chiavi. Le infilò nel grande portone di rovere ed entrò. Renant rimase sorpreso, come se lei si fosse congedata mentre lui ancora le parlava. Attese un istante, fu sul punto di alzare il grande batacchio di ghisa nera che decorava il portone, poi si fermò, scosse la testa e si diresse verso la fine della via.
Aspettai che scomparisse nel buio, attraversai di corsa la strada e suonai al campanello d’ottone.
Quasi subito sentii una voce maschile chiedere da dietro al portone:
«Chi è mai, a quest’ora?».
«Sono un amico della signorina Blanche», dissi senza pensarci, e senza neppure molte speranze che il portone si aprisse. Aggiunsi che avevo con me il portasigarette che apparteneva alla ragazza.
«Lo ha smarrito. Volevo renderglielo». Mi parve che da dietro la spessa porta di rovere giungesse un risolino nervoso, seguito da un bisbigliare sommesso e fitto. Mi parve poi di udire uno scalpiccio di passi leggeri. Mentre seguivo queste mie fantasie, il portone si aprì. Il maggiordomo che mi si presentò indossava un gilet a righe nere e gialle e aveva il collo della camicia sbottonato. Mostrai il portasigarette. Il maggiordomo lo scrutò.
«Accomodatevi, vado a chiamare la signorina Blanche».
Aspettai alcuni istanti seduto sulla cassapanca dell’ingresso. Contavo le losanghe di pietra bianca e nera che decoravano il pavimento, quando Blanche scese di corsa dalla grande scala circolare che immetteva nell’atrio. Sorrideva.
«Buonasera. Ci conosciamo?», chiese avvicinandosi.
«Non proprio. Conosco Renant».
«Ah», fece lei cancellando il sorriso che mi aveva regalato. Indietreggiò e assunse un atteggiamento rigido e scostante.
«Volevo solo renderle questo», dissi mostrandole il portasigarette.
«Oh. È il mio. Mi domando come lo ha avuto».
«Il mese scorso, lei... si ricorderà... una mattina, al café de Flore. Scendeva dalla saletta del primo piano e ha urtato la sedia del mio tavolo. Così le è caduta la borsetta. Io e il cameriere l’abbiamo aiutata a raccoglierla. Il portasigarette dev’essere caduto più lontano e l’ho notato soltanto qualche istante dopo, quando lei era già uscita. È passato del tempo, ma finalmente l’ho trovata. L’ho riconosciuta mentre usciva dal cinema. Lo stesso abito di quel giorno...».
«Mi scusi», fece lei allontanandosi. «Ma io non ricordo tutto questo che lei dice. Non vado quasi mai da Flore».
«Aveva quest’abito», insistei.
«Meno che mai ci vado di mattina vestita da sera. Quanto al portasigarette, è mio, ma non credo di averlo perso lì».
«Non può non ricordarsi. C’era Renant, seduto al tavolino. E Altay che è sceso dopo di lei. Avevate litigato, lei piangeva». Attesi che lei rispondesse. Ma Blanche era immobile e mi guardava spaventata.
«Ma tutto questo non ha importanza», aggiunsi. «Avrei bisogno di parlarle... una cosa urgente... che riguarda lei e Renant».
Blanche indietreggiò e chiamò a gran voce:
«Pa’! Pa’!». Il maggiordomo accorse. «Fa’ uscire questo signore. Io non lo conosco. Non so che cosa vuole. Mandalo via».
«Sì, Blanche. Subito», disse rivolto alla ragazza e poi a me: «Avete sentito? Volete andarvene con le buone o devo chiamare la polizia?».
Accennai a un «sì» piegando la testa.
«Vado».
L’uomo mi accompagnò all’uscio e aprì il pesante portone. Blanche era risalita. Si era voltata in cima alle scale, appoggiandosi al mancorrente di ferro battuto.
«Signorina, devo parlarle», supplicai ancora una volta, mentre il maggiordomo mi spingeva fuori.
Tornai a piedi verso casa ed ebbi a ripensare all’atteggiamento di Blanche. Il suo negare il piccolo dramma del Flore era forse una conseguenza del desiderio di cancellare la memoria di quell’evento doloroso.
Avevo conosciuto donne così forti da saper dimenticare quel che non volevano ricordare. Sezionare il passato, depurarlo dei dispiaceri, fino a farlo combaciare con il proprio volere. Blanche forse aveva quella rara capacità. La lite con Altay, dalla quale era uscita piangente, forse sconfitta, doveva essere stata rimossa.
Si era rivista con Renant; dovevano essersi riappacificati. Lui l’aveva condotta un’altra volta a vedere quella pellicola, Les enfants du paradis, la cui visione era stata turbata, il mese precedente, dalla presenza del turco, dal dono dell’anello, dalla lite. L’aveva fatto forse proprio per sottolineare la sua vittoria nei confronti del bellimbusto turco, sparito chissà dove.
Tuttavia, non era stata una buona idea. I due amanti erano usciti dal cinema ancora una volta adombrati, distanti, incattiviti. Vittime dell’impossibilità di amarsi.
O forse aveva finto di non ricordare per la presenza di quell’uomo che lei aveva chiamato «pa’». Era suo padre? Chi l’avrebbe detto, Blanche figlia di un maggiordomo. La ragazza se ne doveva vergognare. E forse anche il padre. Sicuro. Un padre umile ma dignitoso, quale sembrava quel servitore cui la sorte aveva destinato una meravigliosa figlia, mal avrebbe sopportato la scenata da Flore. Eppure, quell’uomo apparentemente integerrimo, severo, perché mai aveva aperto il portone di casa non appena avevo accennato alla figlia. Neppure aveva chiesto il mio nome.
Già. Neppure questo: il mio nome.
Come se le visite notturne fossero un’abitudine in quella casa. Non solo! Tollerava che la ragazza possedesse abiti da sera costosi, pochettes preziose, solitari grossi come noci e luminosi come fari nella notte, e portasigarette in argento vermeil tempestati di brillanti. Non poteva certo permettersi di offrirle lui quei doni, con il suo lavoro.
Sapeva che Blanche frequentava uomini ricchi; che nella scalata al lusso, sua figlia aveva dovuto accettare qualche compromesso. Con che spirito lo sopportava? Tutto era lecito, pur di non dover subire – come lui aveva fatto per l’intera esistenza – l’umiliazione della povertà? Chi mai potrebbe desiderarla per i propri figli? La ricchezza valeva il prezzo della moralità? Era stato lui a suggerirle quel modo di vivere? L’aveva volontariamente introdotta nel mondo del faubourg, cosciente dell’indicibile bellezza della ragazza? Sapeva che Blanche avrebbe dominato i fatui uomini che l’avrebbero posseduta? Che, concedendosi a tutti, non si sarebbe umiliata con nessuno? Nella più perfetta tradizione delle cortigiane, Blanche era una regina a cui ogni uomo giurava dedizione per poter godere per poche ore del possesso di un essere perfetto.
Dunque il padre sapeva dell’impalpabile leggerezza di Blanche. Ma tra loro era stabilito un tacito accordo. Blanche, la meravigliosa figlia dell’inappuntabile maggiordomo; Blanche, vestita di bianco, di lussuria e di mistero, non avrebbe mai potuto ammettere, lui presente, il periglioso procedere delle sue notti. Spesso il peccato non è negli atti, nell’attitudine, nel gesto che si compie, quanto nella pubblicità, nello scandalo che vi si dà. La scenata al Flore non poteva essere ammessa. Non era nello stile della ragazza: piangere in pubblico per amore. Non era nei termini dell’accordo.
Era vero. Come diceva Adolphe, è difficile entrare nella vita degli altri, valutare il bene e il male, giudicare i comportamenti. Blanche, il padre, Renant, Altay, gli altri uomini, innumerevoli, di cui ignoravo l’esistenza ma che sapevo esistere, erano un perfetto microcosmo che abitava la città.
Mi domandavo quale fosse il mio posto, in quel girotondo d’amore.
Mentre tornavo a piedi, le mani dentro le tasche del soprabito, e prestavo scarsa attenzione ai manifesti dei teatri dei boulevard, e scansavo con fatica i frettolosi parigini che affollavano i marciapiedi di Saint-Germain, pensai che sarebbe stato saggio abbandonare quella faccenda. Avevo provato a metterla in guardia, Blanche non mi aveva dato ascolto. Non voleva darmi ascolto.
Eppure, il silenzioso saltellare delle perle della collana di Blanche lungo la moquette blu della camera di Renant produceva nei miei incubi il fragore di un terremoto. Non vengono in mente certi particolari, a meno che quelle immagini non appartengano al mondo dei ricordi, a un universo già accaduto.Passavo spesso al portone di rue des Saints-Pères. A volte entravo nel cortile e guardavo in alto verso la piccola finestra di Renant. Gli scuri erano sempre serrati.
Unico segno del passaggio di Renant era la targhetta della cassetta delle lettere, sempre candida e nuova, dopo che, quello che pensavo fosse un adolescente dispettoso, l’impiastricciava continuamente aggiungendovi quel “VE” che trasformava in fantasma il grigio contrabbassista.
Un mattino mi fermai a parlare con i negozianti della cour. Scoprii che il rilegatore di libri era un’anziana signora che fumava il sigaro. I giocattolai erano una coppia di giovani sposi. Stavano cambiando la vetrina del negozio, bisticciando come fa una coppia felice.
Chiesi se conoscessero Renant e se l’avessero visto di recente. La rilegatrice grugnì un «no» che valeva come risposta a entrambe le domande. La coppia di giovani sposi fu più disponibile. Ma, a sentir lei, con il signor Renant, non si erano mai scambiati nulla più di un generico buon giorno. Anzi, il ragazzo dubitava che la persona che gli avevo sommariamente descritto corrispondesse all’uomo che loro credevano essere Renant.
«Non è così alto come dice il signore, cara. Il nostro Renant è forse più basso e robusto. O no?».
«Ma tu dici che Renant sia quel signore che viene ogni tanto ad acquistare i Marklin?».
«Ma no! Quello non abita qui. È nel palazzo accanto. Ti ricordi che gli vendemmo un cavallo a dondolo? Quello che comprammo a Neully?».
«No. Il Renant che dico io è quell’altro», diceva la ragazza mentre spolverava una litografia che raffigurava una serie di figurini della legione straniera.
«Ne sei davvero sicura?».
«No», disse lei scotendo il capo. «Forse hai ragione tu. Non è lui».
Infine, i ragazzi si scusarono. Ma non erano proprio sicuri di conoscere alcun Renant. Consigliavano di chiedere piuttosto a chi abitava in quel palazzo da più tempo di loro.
«La signora Gasset».
«O il dottor Pascal».
«Ti sbagli sempre. Il dottor Pascal è venuto qui soltanto l’anno scorso. Molto dopo noi».
«No, caro. Sei tu che ti sbagli e confondi il dottor Pascal con il professor Marigny. Lo fai spesso. Confondi tutto... Lo scusi», disse infine lei, congedandomi.
Il ragazzetto che stava armeggiando con la cassetta della posta di Renant, lo vidi di scorcio. Portava un basco nero e i calzoni corti; i calzettoni giù con l’elastico slabbrato; ai piedi un paio di scarponi acquistati in crescita.
Con una matita scriveva sopra il cartoncino di Renant.
Gli corsi incontro e lo afferrai per un orecchio prima che si accorgesse di me. Torse il collo gridando mentre lo portavo fuori, sullo stretto marciapiedi della strada.
«Allora sei tu?», chiesi.
«Io che cosa, signore?», fece lui piagnucolando.
«Che vai scrivendo sulla targhetta».
«È la prima volta, signore. La prima volta».
«Bugiardo», dissi e feci per tirargli uno schiaffo.
«Lo giuro. Non abito neppure da queste parti. Oggi ho marinato la scuola. Passavo di qui. Ho letto i nomi sulle cassette. Renant. M’è venuto in mente che bastava aggiungere un “VE” e il signor Renant sarebbe sparito, diventando un fantasma. Voi sapete quel giochetto che facciamo in metropolitana, cancellando gli adesivi che avvisano del funzionamento delle porte scorrevoli.
ACCOSTATEVI ALLE PORTE SCORREVOLI
VI SCHIACCHERETE LE MANI MOLTO FORTE
È divertente. Non trovate?».
Annuii al ragazzo che continuava ad essere preso dalla mia stretta.
«Avete capito?».
«Sì», feci lasciandolo libero.
«Renant – Revenant», ripeté. «Come potevo lasciarmelo scappare?».
Aveva ragione, il ragazzo, soprattutto se avesse conosciuto il nostro signor Fantasma. Grigio e silenzioso, goloso di Pernod e di solitudine. Amante di Blanche e della disperazione.
Aveva ragione. Anche se mentiva.
«Però non è la prima volta che imbratti quel cartellino. Ammettilo, da bravo».
«Lo giuro signore. È la prima volta. Non abito da queste parti. Io sono di Nogent-sur-Marne. È dopo il bois de Vincennes».
«Lo so dov’è Nogent. Ma tu sei già stato qui».
«No», disse indietreggiando.
«No», ripeté mentre si allontanava verso la Senna.
«No. Forse un fantasma che mi assomigliava. Chi può dirlo?», gridò ormai lontano.
Già, chi poteva dirlo. Forse era stato un altro ragazzo. Un buontempone. Il calembour non era poi così complicato e difficile da creare. Ognuno avrebbe potuto. Perché non credere al ragazzo di Nogent?
Quanto a me, quel nome, revenant, suscitava altre immagini. Per assonanza, non credo per corretta etimologia, rimarcavo la medesima radice tra rêve e revenant. Così il revenant che appariva in quella targhetta bianca era per me Colui che torna dal sogno.
M’innamorai di quell’immagine. Vedevo Renant camminare lentamente e venirmi incontro, entrando nella realtà dal silenzioso mondo del sogno.Adolphe abitava in un vecchio edificio di rue Saint-Antoine. Una casa popolare che stavano restaurando in previsione del rinnovamento di tutto il quartiere seguìto all’apertura dell’Opéra-Bastille.
Sicché, anche la sera che mi avevano invitato a cena, mentre mangiavamo un robusto piatto alsaziano di maiale, l’odore di vernice e colla che saliva dalle scale aveva finito per vanificare la cura che Louise aveva dedicato al cibo.
La cena fu turbolenta, poiché il figlioletto dei miei amici non voleva saperne di star quieto mentre un ospite godeva dell’attenzione dei suoi. Così il piccolo Alex ci disturbò continuamente, sin quando Louise non fu costretta a interrompere la cena per portarlo a dormire.
«Hai qualche storiella per far addormentare un bambino capriccioso?», mi chiese prendendo il figlio in braccio.
Adolphe rispose per me.
«In questi giorni il nostro amico ha molta fantasia, ma non sono storie da raccontare ai bambini capricciosi».
«Peccato», fece Louise e, rivolta ad Alex, aggiunse: «Dovrai accontentarti del solito Gatto con gli stivali, piccolo mio». Entrò così nella camera del bambino e non ne uscì che dopo un’ora. Adolphe e io finimmo di mangiare da soli e riprendemmo l’argomento di quei giorni.
«Hai più visto il tuo assassino?», mi chiese accendendo il suo sigaro.
«No. Ma sono stato dalla ragazza, a renderle il portasigarette».
«Non ne dubitavo. Ti avrà ringraziato».
«Ha negato tutto. Di essere stata al caffè‚ di aver litigato. Ha detto che inventavo tutta la storia».
«E se avesse ragione lei? Potrebbe anche darsi. E poi?».
«Nient’altro».
«Quindi, nessuno è morto, almeno per adesso».
«Nessuno. E tu, ti sei informato?».
Adolphe sospirò:
«Sì. A dire il vero, ho fatto una piccola ricerca. Ho guardato nello schedario per vedere se il tuo amico fosse già stato segnalato per qualcosa del genere. Se avesse precedenti».
«E hai trovato?».
«Su di lui nulla. Candido come un giglio. Ma qualcosa d’interessante esce sempre fuori, a guardare nel passato».
«Racconta, allora».
«Di’ un po’, ma tu la sai storia di Renant il vecchio?», mi fece Adolphe dopo aver scostato il piatto sporco che gli era rimasto davanti.
«Renant il vecchio?», chiesi incuriosito. «Il mio uomo non ha più di cinquant’anni. Ce n’è forse un altro che si chiama così?».
Adolphe annuì:
«Ce n’era uno, qualche anno fa. Il protagonista dell’affaire Renant, un dramma della gelosia del dopoguerra. Nel ‘48».
«E che storia era?».
«Una storia banale. Un triangolo. Lui, lei e l’altro. Morti tutti e tre. Un caso di duplice omicidio seguito da suicidio del colpevole. Renant prima uccise gli amanti e poi s’impiccò».
«Scusa, ma allora...».
«Non m’interrompere», fece Adolphe. «Aspetta che finisca. Le coincidenze non terminano qui. Quel Renant era musicista».
«Come il mio!».
«E abitava in rue des Saints-Pères. Che te ne pare?».
«Non so. Io sono perplesso. Tu hai più esperienza di me».
«Ecco quello che penso: il tuo amico sapeva dei delitti, e ha voluto farti uno scherzo. Ti ha raccontato una cosa già accaduta, facendoti credere che sarebbe successa. Ha giocato con il tempo».
«Ma ha lo stesso nome. Tu pensi a un caso di omonimia?».
«Abitando nello stesso palazzo, forse sarà un parente, il figlio. Un erede, può darsi».
«E perché mettersi a raccontare questa storia a me, un sabato mattina, al caffè?».
«Perché era depresso, perché la fidanzata gli aveva messo le corna, perché gli avevi riportato il portasigarette. Magari ti aveva notato, altre volte, al Drouot, al mercato. Gli eri familiare e aveva voglia di sfogarsi».
«Quanto agli altri protagonisti, lei era una ragazza molto giovane. L’altro – l’amante – uno sconosciuto. Non aveva documenti e nessuno ha mai reclamato quel corpo. Succede».
«Come morirono?».
«T’ho detto: Renant si suicidò, impiccandosi dentro la vasca da bagno. La ragazza la strangolò. Come Otello con Desdemona. E l’amante lo massacrò a colpi d’orologio».
«Orologio?».
«Un orologio da tavolo...».
«...d’alabastro verde. Con una figurina femminile di bronzo...».
«Come fai a saperlo?».
«È uguale a quello che Renant ha comprato prima al Drouot e poi al Marchée aux puces», balzai in piedi quasi gridando:
«Lui lo vuole ripetere!».
«Che cosa?», chiese Adolphe.
«L’omicidio».
«Perché mai?».
«Per vendetta forse. O perché non può farne a meno».
«Uno psicopatico?».
«Potrebbe essere. Ne ha l’aspetto. Vive in quella casa, probabilmente sente ancora i fantasmi di quella vicenda. Hai saputo altro? Continua», chiesi ad Adolphe servendomi da bere.
«No. Il caso era semplice, fu chiuso quasi subito. E in archivio non si conservano i pettegolezzi. Ci limitiamo a riportare i fatti, così come te li ho detti. Ci sarà la perizia necroscopica; i dettagli scientifici, freddi e imparziali. Niente che interessi un narratore».
«Perché mi dici queste cose? Prima mi fai venire l’acquolina in bocca e poi tronchi tutto sul più bello».
«Devo essere io a dirtelo? Prova alla Biblioteca Nazionale. I giornali dell’epoca. Può darsi che il caso abbia avuto una certa risonanza». Avrei voluto chiedere ancora molte cose ad Adolphe, ma finalmente vedemmo riapparire Louise che, in punta di piedi, socchiudeva la porta del salotto e si avvicinava al tavolo da pranzo.
«Ormai s’è freddato», disse Adolphe, mostrando l’arrosto di maiale che aveva coperto con un piatto.
«Pazienza», disse Louise accendendosi una sigaretta e bevendo un bicchiere di Côte du Rhone.
«Parlami di te. Che cosa fai?».
Risposi raccontando quello che facevo:
«Niente».Avrei dovuto seguire il consiglio di Adolphe. In realtà me ne aveva dati due. Il primo – andare a spulciare nelle cronache d’epoca – mi apprestavo a seguirlo; il secondo, sicuramente migliore – dimenticare tutta la faccenda –, avevo deciso d’ignorarlo.
Sulla porta di casa, mentre mi accompagnava all’ascensore, mi aveva detto con quel suo tono bonario:
«Lascia perdere quella storia». Ma poi aveva subito aggiunto: «Se proprio ci tieni, metterò un agente di ronda».
Credevo che quest’ultima rimanesse soltanto una promessa. Invece, con mia sorpresa, l’agente di Adolphe, un anziano flic alle soglie della pensione, talvolta passò a piedi davanti a casa di Renant. Dopo una settimana i controlli si diradarono, sino a cessare del tutto. Segno che Adolphe, dopo avermi dato quel contentino, aveva lasciato cadere la cosa.
Al contrario, io continuai a indagare con maggior insistenza.
Andai così alla Biblioteca Nazionale di rue Richelieu. Era un mattino luminoso e la sala illuminata dall’enorme volta del lucernaio, sostenuto dalle esili e lunghissime colonne di ghisa, appariva ancor più vasta. Che cosa ci facevo io lì? Innamorato delle mie curiosità, felice di svolgere le mie sterili indagini, quasi mi sentivo un visitatore sacrilego.
L’addetta alla distribuzione, che sgarbatamente m’inquisiva da dietro il gran bancone rettangolare, sembrava cogliere quella mia perplessità. Tuttavia le chiesi, con voce ferma e sicura, l’annata del «Figaro» del 1948.
Nel numero del 19 marzo di quell’anno, l’affaire di rue des Saints-Pères occupava un trafiletto nell’edizione della sera:
DRAMMA DELLA GELOSIA AL QUARTIERE LATINO
Nel cuore del Quartiere Latino, culla dell’esistenzialismo, si è consumato ieri notte un dramma scaturito da un movente antico quanto la vita: la passione d’amore.
Così almeno è dato pensare al cronista che deve narrare l’accaduto. Albert Renant, di professione contrabbassista, ha ucciso l’amante, tale Blanca Fernandez, di anni 18, originaria di Bourg-en-Bress, domiciliata a Parigi in rue Barbet-de-Jouy, e un uomo sconosciuto, di circa trent’anni, di carnagione olivastra.
Il Renant, dopo il duplice omicidio, vinto dalla disperazione e dal rimorso per l’orrore commesso, si è impiccato con una corda del suo strumento ai tubi del bagno.
Al momento di andare in macchina non si conoscono altri particolari del delitto. Al commissariato di zona, pur continuando le indagini per identificare il terzo cadavere, si ritiene il caso ormai risolto.
R.M.
Rabbrividii quando notai le impressionanti analogie tra quel delitto e i protagonisti della mia storia. Non solo l’identità di Renant, il suo nome, la sua professione che coincidevano. Persino il nome della ragazza, pur se lievemente variato – Blanca anziché Blanche. Inoltre rue Barbet-de-Jouy era una traversa di rue de Babylone. Non ricordavo il numero civico del palazzo a cui avevo bussato, ma la coincidenza era spaventosa. E l’unico dato significativo che il cronista riportava a proposito del cadavere sconosciuto era la sua «carnagione olivastra».
Mi domandai quale fosse lo scopo del mio Renant. Perché aveva ricostruito quel triangolo con tanta perfezione? Dove voleva condurre gli ignari protagonisti di quella vicenda? E che ruolo vi stavo interpretando io?
Continuai a sfogliare il volume. Il giorno successivo il «Figaro» non pubblicò alcun commento al delitto. Il 21 marzo invece appariva un lungo articolo a firma di René Morel – lo stesso giornalista che aveva siglato la prima e piccola nota – che cercava di riassumere l’intera vicenda.
Il cronista innanzitutto riportava l’opinione del commissario che aveva definitivamente chiuso il caso. L’assassino aveva agito sicuramente da solo e con un movente passionale. Si soffermava poi con grande dovizia di particolari in una efficace ricostruzione degli eventi di quella drammatica notte.
Il primo delitto era avvenuto a mezzanotte circa.
A morire, col viso straziato dai colpi di un grosso orologio da tavolo in bronzo e alabastro, era stato l’unico non identificato dei tre. Colui che veniva definito come «lo sconosciuto mediorientale di corporatura robusta e giovane età, e che vestiva in maniera elegante e ricercata». Qualche ora dopo era avvenuto l’omicidio della ragazza. Intorno alle due infatti, un testimone, un vicino di Renant, aveva visto la donna salire affannata le scale del palazzo. Una volta dentro l’appartamento era stata aggredita, soffocata, strangolata con una sciarpa di seta – e qui notai una singolare variante: il mio Renant affermava che avrebbe strangolato Blanche con le proprie mani. La cosa mi rasserenò.
Renant si doveva essere impiccato poco dopo. Tale era il parere del medico legale che aveva constatato un eguale procedere del rigor mortis nei cadaveri.
Tuttavia, a complicare la vicenda, era sopraggiunta la testimonianza di un altro vicino che aveva notato quella sera uno sconosciuto scendere di gran carriera la scala del palazzo a un’ora che poteva essere compatibile con quella dei delitti. In un primo istante al commissariato avevano prestato fede a questa testimonianza che teneva aperta l’inchiesta – insinuando il dubbio che i delitti fossero stati compiuti con l’aiuto di un complice. Ma la morte di Renant, per un conclamato e indubitabile suicidio, risultava una perfetta conclusione alla vicenda, tanto perfetta che qualunque altro elemento che contravvenisse a quella soluzione appariva improbabile, deviante e, soprattutto per la quiete degli investigatori, estremamente dannoso.
Fatta salva questa piccola perplessità, foriera forse d’impensabili e lontane conseguenze, il caso era definitivamente chiuso. Il cronista allora s’era dedicato a una nuova e più approfondita fase della sua indagine: scavare a fondo nella vita privata dei protagonisti del delitto, argomento d’attualità e d’interesse giornalistico.
Nei giorni seguenti vennero pubblicati alcuni articoli dove si notava nel cronista una particolare e sgradevole propensione alle descrizioni macabre e raccapriccianti. Non solo venivano specificati e descritti i modi orrendi delle morti, ma pure s’indugiava con compiacimento su tutte quelle meschinità che affiorano in vicende penose come quella del delitto di rue des Saints-Pères.
Di Renant si scriveva che aveva condotto, sino al delitto, vita ritirata e integerrima. Suonava spesso nelle orchestre da ballo, talvolta rinforzava le parti di contrabbasso all’Opéra. Non gli si conoscevano altre passioni amorose prima dell’incontro con la giovanissima, poco più che fanciulla, che gli aveva dannato l’anima.
Lei era figlia di un cameriere che prestava servizio in un palazzo del faubourg Saint-Germain. Indagando, s’era scoperto che era una ragazza facile, molto disponibile. Non esercitava la professione, tuttavia si concedeva con facilità, soprattutto a giovani rampolli facoltosi quanto generosi. Il giornalista faceva diversi nomi di noti esponenti dell’alta società che si erano accompagnati alla vittima. Qualcuno fu interrogato. Nessuno partecipò al funerale della ragazza che si svolse in un triste pomeriggio piovoso, ma furono notate molte corone di fiori candidi, tutte decorate da un’unica vermiglia rosa rossa.
Restava il terzo, il cadavere non identificato, del quale nulla si era venuti a sapere. Si dava per certo che fosse uno straniero, probabilmente mediorientale, temporaneamente a Parigi, sicuramente molto facoltoso. La polizia, tuttavia, prometteva d’intensificare le ricerche per dare un’identità alla vittima ignota.
Telefonai al «Figaro». René Morel non lavorava più al giornale da diversi anni. Tuttavia, poiché venni a sapere che abitava ancora a Parigi, non avrei avuto difficoltà a rintracciarlo. Mi feci dare il numero di telefono e l’indirizzo.
Decisi di andarlo a trovare.Morel abitava al primo piano di un fatiscente palazzetto in una delle stradine che s’inerpicano sulla ripida collina di Montmartre. Chiesi di lui a una donna che faceva le pulizie dell’androne.
«Di qua», rispose indicando con il capo il portone accanto. «Attento ai gatti».
Cercai il campanello. Sullo stipite ve n’era uno di bachelite, dal quale pendeva un filo elettrico reciso.
«Bussi forte», disse la donna mentre raccoglieva il secchio e la scopa e scompariva nel sottoscala.
Bussai. Inaspettatamente, la porta si aprì quasi subito. Mi apparve un uomo anziano, curvo, dalla carnagione chiara, e con pochi capelli bianchissimi. Malvestito, s’intabarrava con un plaid sulle spalle.
«René Morel?», chiesi. Il vecchio restò in silenzio. Frattanto, dallo spiraglio della porta, emanava un tanfo penetrante di chiuso, di pelo felino, d’urina, segatura, cibo stantio.
«Lei non mi conosce. Ma io ho letto alcuni suoi articoli, e volevo parlare. Se posso...».
Morel spalancò la porta, si mise da parte e mi fece entrare. Sopra una consolle, un gatto nero dai grandi occhi gialli mi scrutò fino al fondo dell’anima e miagolò.
«Sshh, Dupin! Taci», fece Morel. «Ha l’istinto della pantera e il cuore di leone, il mio caro Dupin», mi disse riferendosi al gatto. «È lui il padrone di casa».
Ci accomodammo nel salotto, ingombro di libri, vecchi giornali, riviste, coperte e cestini di vimini dove sonnecchiavano in numero imprecisato gli altri gatti del giornalista.
Alle pareti, decorate con una carta da parati cadente, erano incollate pagine ingiallite della cronaca del «Figaro». Articoli scritti da Morel, pensai. I titoli erano raccapriccianti, le fotografie sgranate dei vecchi quotidiani, ancora di più. Anche se non erano mai esplicite, suggerivano i particolari più morbosi, le più oscure aberrazioni dell’animo umano: le macchie nere sui lenzuoli bianchi che coprivano i corpi delle vittime; le stanze del delitto messe a soqquadro; le armi del delitto; gli abiti a lutto; le malinconiche immagini dei funerali corredate dalle foto tessera delle vittime e da quelle segnaletiche dei colpevoli.
Le pareti di casa Morel erano un macabro inventario dei passati orrori della città.
La voce del vecchio giornalista interruppe la mia ricognizione:
«Così, lei cerca me. Questo è un fatto curioso. Di solito è sempre avvenuto il contrario. Ero io a inseguire le persone, i fatti. Invecchio, si vede. E dunque è bene se le cose si rivoltano. Mutano prospettive. È giusto».
Dupin, il gatto nero, era silenziosamente salito sulla spalliera della mia poltrona e, poiché stava valutando la novità del mio odore e la freschezza della mia acqua di colonia, non voleva in alcun modo allontanarsi. Annusava il mio viso con sospetto. Non aveva un atteggiamento amichevole. Cercai di scostarlo.
«Non ci provi», disse Morel spaventandomi. «Altrimenti la graffia». Il vecchio giornalista si alzò, andò in cucina e tornò con un piatto di carne sanguinolenta e maleodorante.
«Fegato. Soltanto così se ne libererà». Passò il piatto sotto il naso del gatto e questi finalmente mi abbandonò. Morel sistemò il cibo sotto il tavolo, Dupin gli tenne dietro e prese ad addentare la carne gommosa. Gli altri gatti, immobili, lo seguivano con lo sguardo.
«Non si azzardano. Aspettano che lui finisca». Morel guardò i suoi gatti, il dominatore Dupin, e i sottomessi, che, quasi obbedendo a un comando, si accostavano timidamente al piatto di fegato. Li guardava come un padre ammirerebbe i propri figli.
Sospirò:
«Veniamo a noi», disse e incrociò le mani sopra il plaid che gli copriva le ginocchia. «Che posso fare per lei?».
M’inventai una frottola sul momento. Neanche tanto male:
«Sto scrivendo un libro su alcuni casi di cronaca nera. Drammi passionali, soprattutto. Un delitto per città: Parigi, Roma, New York, Londra, Vienna, Berlino... non so ancora quante altre città entreranno nel progetto».
«E per Parigi che cosa ha scelto?».
«Oh, avevo l’imbarazzo, poi ho pensato a una storia poco nota. Lei se ne occupò».
«Ho seguito molti casi. Di quale si tratta?».
«Il caso Renant».
Morel guardò fuori, verso la finestra.
«Ho fatto il cronista di nera per quarant’anni e mi sono occcupato di così tanti fatti di cronaca...».
«Il caso Renant», ripetei.
«Quarant’anni. Quarant’anni. Anche un solo omicidio a settimana, tra Parigi e dintorni, fanno cinquanta l’anno. Per quarant’anni sono duemila delitti, duemila morti, duemila assassini. Dio mio. I miei ricordi precipitano in questa follia di orrori; in questo passato orribile che brulica di morti. Ma di questo caso Renant di cui mi dice, io non ricordo nulla».
«Nel 1948. A rue des Saints-Pères», incalzai. «In una soffitta, un certo Renant uccise la giovane amante e uno sconosciuto, forse un ricco mediorientale che pare facesse il filo alla ragazza. Poi si suicidò».
«Non ricordo».
«Lei scrisse sul “Figaro” alcuni articoli. Seguì il caso a lungo».
«Non ricordo». Morel chiamò Dupin che, sazio, aveva abbandonato il pasto; lo fece salire sulle ginocchia e prese ad accarezzarlo. Gli altri gatti, silenziosamente, si avvicinarono al piatto di fegato che il loro dominatore aveva lasciato incustodito e presero a dividersi gli avanzi.
«Eppure dovrebbe», insistei.
«Dovrei! Certo che dovrei. Ma lei mi chiede di seguire il percorso di un sasso lanciato nel vuoto, nel precipizio della mia memoria. Attendo il rumore, alla fine della caduta. Ma è tale la profondità smisurata, di questo pozzo abissale, che è inutile attendere un rumore che non arriverà. Ho proprio l’impressione di un sasso che precipita nel vuoto. Capisce? Potrei aspettare giorni in attesa di quell’evento: il ricordo, il rumore».
Mi alzai e mi avvicinai alla parete dov’erano incollati i ritagli dei giornali.
«Forse, cercando tra queste immagini, potrebbe tornare la memoria di quel delitto. Potrei indicarle proprio la pagina di giornale con il suo articolo».
«Non credo. Non si dia pena di cercare. Quelli sono i casi più belli, quelli che mi diedero maggior soddisfazione: pied-noirs tornati dall’Algeria e impazziti nel caos di Parigi; saponificatrici di periferia che imbandivano banchetti ai parenti delle vittime; delitti mistici o omosessuali quando questi erano crimini che scuotevano le coscienze; tragedie dell’alta società, del mondo dello spettacolo o della politica. Il suo caso non rientra fra questi».
«Ma pure, dovrebbe...».
Morel ascoltò le fusa del gatto sazio e continuò:
«No. Non ricordo. Nessun rumore. Duemila morti. Come potrei? Vedo quei giorni, quegli anni, ruotare attorno allo spettro della mia memoria. Un carosello di aberrazioni con cui ho dovuto convivere per tutto questo tempo. Ogni notte mi appaiono stanze vuote, alberghi di periferia, vicoli oscuri, marciapiedi bagnati dalla pioggia e poliziotti indaffarati, e curiosi, e vicini che s’intrufolano e reporter e fotografi assetati di notizie, che cercano di rubarmi l’evento.
Era orribile. All’inizio, quando sei giovane, le prime volte ne hai disgusto, ma poi ti ci abitui. Con gli anni, l’orrore non diminuisce d’una spanna. È che non ci fai più caso: t’incallisci.
Perché lei proprio ora se ne viene fuori con questa storia del caso Revenant?».
REVENANT. Così aveva detto? Oppure ero io ad aver capito male? REVENANT. No. Così aveva detto. Poi, guardando oltre di me, verso la porta del salottino, disse a voce bassa, in un sussurro:
«Blanche. Blanche».
Quel nome sospirato m’illuminò:
«Allora ricorda!».
«Blanche!», ripeté, un’inezia più forte. La porta si socchiuse lentamente. Un persiano bianco, dal pelo gonfio e morbido, candidissimo, e dal muso rosa, evitando le pile di giornali che pericolosamente minacciavano di rovinargli sopra, con un largo giro e un’andatura regale, s’avvicinò a Morel. Si strofinò alle gambe del giornalista e mi guardò con gli occhi socchiusi, ponendosi tra di noi, per affermare il suo possesso, quasi volesse dire: «È mio».
«Se Dupin è il re, Blanche è la regina», disse Morel prendendo la gatta in grembo. Dupin si scostò con silenziosa indifferenza e tornò sul pavimento. Blanche regnò sulle ginocchia del vecchio come un’antica divinità egizia. Morel accarezzò la gatta, le passò le dita nodose sotto il collo, sopra la nuca, lungo il dorso. E poi, rivolto a me:
«È una storia che non ricordo. Forse lei dovrebbe lasciar perdere. Pensare ad altro».
Non ottenni di più da Morel. Soltanto la fumosa promessa che avrebbe cercato di mettere a fuoco nel suo passato, anche se sapevo che non lo avrebbe mai fatto. Mi domandavo se l’apparizione della gatta bianca dai riflessi di seta che portava lo stesso nome della vittima di quell’antico delitto e della ragazza che in quei giorni cercavo di salvare dalla furia omicida di Renant (ero rimasto impietrito da quella triplice omonimia) fosse l’indizio del mistero che quell’uomo conosceva e che non voleva svelare.
Un pomeriggio di febbraio ripassai sotto casa di Blanche. La pietra del palazzetto di rue Barbet-de-Jouy sembrava più grigia e triste di quando l’avevo vista di notte, rischiarata dalla luce gialla dei lampioni di ghisa. O forse ero io ad essere triste e malinconico: un grigio uomo in un grigio pomeriggio parigino.
Suonai.
Il vecchio maggiordomo venne ad aprirmi.
«Cerco la signorina Blanche», chiesi. Fu gentilissimo:
«Prego», mi disse facendosi da parte. «Abbia la gentilezza di seguirmi». Attraversammo l’atrio con la grande scala ellittica e uscimmo nel cortile interno.
«Da questa parte», fece indicandomi il portoncino di una dépendance dai muri ricoperti di vite americana. «La pregherei», aggiunse mentre suonava al campanello, «in seguito, se ne avrà l’occasione, di non usufruire del portone principale. La signorina abita quest’edificio che ha un suo ingresso particolare, come le verrà mostrato dalla signorina stessa, quando avrà terminato la visita».
Restammo in attesa che il portone si aprisse. Quando la serratura scattò, entrammo in un piccolo ambiente. Mi fece sedere su un divano Luigi XVI e aggiunse:
«Ora vado a chiamare la signorina».
Passarono pochi istanti. Blanche apparve da una porta scorrevole, vestita di una vestaglia cinese nera e rossa con un drago bianco ricamato sul collo e le spalle. Sotto la vestaglia era nuda.
Sorrise.
«Lei! Che piacevole sorpresa, questa sua visita», disse avvicinandosi. Sembrava contenta di vedermi.
«Così non le dispiace, se l’ho cercata».
«Ma che dice? Anzi, al contrario. Sono io che avrei dovuto... ma non sapevo come».
M’introdusse nel salottino. Chiuse la porta scorrevole e lasciò che ammirassi l’ambiente.
L’arredamento di quella stanza era, come c’era da aspettarsi in un palazzo del faubourg, di estremo lusso. Se non fosse stato per la circostanza particolare in cui mi trovavo, mi sarei fermato ammirato davanti al secretaire in bois de rose di Roentgen; alle quattro appliques di bronzo dorato Luigi XIV del più fine cesello; alla commode di qualche esperto maître ébéniste che non sapevo individuare, ma di cui apprezzavo i pannelli di lacca cinese.
C’era qualcos’altro che mi attraeva. Ed era un che di ambiguo, persino lascivo nell’insieme dell’arredamento. Forse era il grande dipinto di un seguace di Boucher che era appeso sopra il canapé: raffigurava una fanciulla nuda distesa su un letto sfatto che solleticava un cagnolino che teneva in grembo. O forse un altro dipinto, sulla parete opposta, in cui una coppia di giovani cercava di nascondersi dietro l’alcova, sorpresa dall’improvviso aprirsi di una porta, dietro la quale s’intravedeva un uomo anziano sul punto d’entrare, o colto a spiare i due amanti.
O forse era il paravento Luigi XVI su cui erano state applicate stampe giapponesi di soggetto erotico. O la raccolta di manici d’avorio dall’uso ambiguo, disposta in bell’ordine sopra un guéridon. O, in un angolo, la presenza quasi occasionale di un’antica lanterna magica, con tutto il suo corredo di lastre di vetro dipinto di cui intuivo il soggetto.
Blanche assistette alla mia veloce indagine sull’arredamento della stanza:
«Le piace?».
«Sì, certo».
Risposi quasi sinceramente. Quegli oggetti, il palazzo, tutto l’insieme non si accordavano con la ragazza che avevo di fronte. C’era una discrepanza, un’incongruenza tra la sua età, il suo viso, così fresco e giovanile e la vestaglia di seta cinese, l’arredamento così ricercato, allusivo, il tono erotico un poco passato che velava ogni cosa. Ogni cosa, tranne il sorriso di Blanche.
«Lei mi deve scusare», disse andandosi a sedere sul canapé. M’indicò una poltrona vicino a lei.
«Mi deve proprio scusare, a proposito dell’altra sera. La storia del portasigarette, voglio dire. Io ho negato. C’era vicino il vecchio e sicuramente non apprezzerebbe sentire di scenate in pubblico».
Blanche si accese una sigaretta mentre con lo sguardo cercava complicità per il suo comportamento.
«Così ho negato tutta quella storia del Flore – la lite, gli abiti da sera in un caffè in piena mattinata –, perché lui era lì ad ascoltare. E sapevo che si sarebbe dispiaciuto. Del resto lei era, allora», e sottolineò allora con una lunga pausa, «un perfetto estraneo. Mi perdonerà, adesso».
«Sono qui».
«Dunque, abbiamo fatto pace? Mi perdona?».
«Sì, se mi racconta quel che era accaduto quel giorno».
«Oh, perché non dovrei. Perché negarlo. Era accaduto qualcosa di grave. Almeno per me».
«Tra lei e Renant».
«Sì».
«E Altay».
«Scusi?».
«È stato lui la causa del litigio».
«Chi glielo ha detto?».
«Renant. E poi l’ho visto Altay, scendere dopo di lei, dalla saletta del primo piano. Vestiti da sera tutti e due. Si fa presto a mettere le cose assieme».
«Ah».
Blanche tornò col pensiero a quella scena:
«Già. Non è stata una serata facile».
«Ha litigato con tutti e due?».
«Oh, le disgrazie vengono sempre in coppia. Lei capirà, litigo con uno, m’innervosisco e così litigo anche col secondo. E poi non è sempre possibile. Anzi quasi mai. Lo so».
«Che cosa?».
«Accomodare le cose come si vorrebbe».
«Con Renant e Altay non ci riesce, vero?».
«No. Proprio no. Sono così caparbi. Tutti e due. Ed è un peccato. Piuttosto, Renant, le avrà parlato di noi. Lo fa appena può, con chiunque».
«Sì. Ha parlato di voi».
«Avrà detto la sua versione, immagino».
«Ognuno racconta la propria. È inevitabile».
«Vuole sentire la mia?». Restai in silenzio. «Non è tenuto a crederci».
«Lo so», e aggiunsi: «Credo alla mia – quella di Renant, voglio dire».
«Si mette già dalla sua parte. Proprio non vuole concedermi nessuna chance?».
«Non ho detto questo. Io stesso sono perplesso. Ma se lei ascolterà quello che sono venuto a dirle senza interrompermi, io prometto di renderle il favore, dopo».
Blanche si distese sul canapé. Posò il gomito sul bracciolo, mi guardò negli occhi e si mise ad ascoltare.
«Prometto di non interromperla», sussurrò mentre si aggiustava la vestaglia di seta.
Difficile dire se lo facesse apposta – ci voleva una certa arte per farlo in maniera così naturale – ma la vestaglia non nascondeva nulla. Potevo seguire l’andamento della curva perfetta dei fianchi, ammirare l’appena accennata protuberanza dei capezzoli, indovinare da impercettibili accenni l’oscura profondità del suo delta di Venere, valutare le perfette proporzioni dell’insieme semplicemente dall’analisi del suo piede nudo, quasi che il corpo di quella ragazza, simile a una divinità scolpita in un candido marmo greco, fosse sottoposto alla splendida legge della bellezza e ogni sua parte fosse perfetta, proporzionata, desiderabile. La seta poi, secondo impercettibili movimenti, sembrava scivolare proprio dove io avrei desiderato che mostrasse la pelle nuda, bianchissima.
Tuttavia Blanche si nascondeva. Mostrava il corpo per celare altro. Imprevedibile era quel che le agitava l’animo. Da quel viso di cera non traspariva un cenno, dal suo corpo non un gesto. Eravamo uno di fronte all’altra; avrei dovuto raccontarle tutta la storia invece, improvvisamente, restavo vinto dal suo corpo, dall’indifferenza della sua bellezza. La volubilità, forse questa era la costante del suo essere. Leggera e vaga essenza volatile. Guai all’uomo che le si sarebbe abbandonato, pensai.
L’ansia di Renant forse nasceva proprio da quella vertigine. Vi stavo precipitando anch’io.
Riuscii a vincere il desiderio di silenzio che mi stava conquistando e, calandomi finalmente nella vicenda che avevo ricostruito, le raccontai quanto mi aveva confidato Renant. Le dissi del fatto di sangue che era accaduto nel lontano 1948; di quanto avevo saputo da Adolphe; delle notizie che avevo ricavato dalla lettura dei giornali dell’epoca; del mio colloquio con il cronista d’allora; della somma incredibile di spaventose coincidenze che finivano per indicare in lei la vittima di un tragico gioco.
Blanche, che era rimasta immobile durante tutto il mio racconto, attenta alle mie parole, ma distante come se in fondo seguisse altro – suoi pensieri forse, o il battito del suo cuore o chissà cosa, eruppe alla fine in una risata liberatoria.
«E così lei vorrebbe per me la parte di una povera ragazza morta quasi mezzo secolo fa. Mi vuole come controfigura di un originale sbiadito? Mi fa così piccola? Meriterei altro, non trova?».
La reazione di Blanche mi aveva sorpreso. Non ero forse stato convincente quanto bastava per metterla in guardia. Prendeva la cosa per uno scherzo, leggero e senza importanza. Provai a insistere. Per tutta risposta s’inquietò:
«Via! È ridicolo! Se ne rende conto? Lei pensa che il mio Renant sia uno psicopatico convinto di rivivere un tempo passato. Lei crede che, in forza di alcune circostanze e coincidenze, quel delitto che mi ha raccontato potrebbe ripetersi? Non posso crederci. Il passato non torna. Non è quello di cui dobbiamo temere».
«Ne sono convinto anch’io. È quello che sta per accadere che è pericoloso. Troppi particolari coincidono. Mi creda, Blanche, Renant sta ricostruendo quella tragedia di tanti anni fa».
Anche se ero profondamente convinto di quel che dicevo, mi rendevo conto di non essere credibile. Era improbabile quel che andavo prospettando, e non ero capace di convincere Blanche. La ragazza rimaneva immobile davanti a me, assente. Mi ascoltava sorridendo.
Non mi davo per vinto:
«Capisce? Lui ha scoperto di chiamarsi come l’assassino del 1948. Immagini che reazione potrebbe provocare in una mente malata una scoperta di questo genere: l’omonimia con un assassino; l’identità del luogo; la coincidenza quasi assoluta dei nomi e dei ruoli; il possesso di un orologio simile a quello del delitto. Renant sta vivendo la terribile angoscia che prova un uomo che si specchia nella sua vera immagine: il complesso di Narciso. Conosce il verso di Ovidio:
Iste ego sum! Sensi! Nec me mea fallit imago.
«No. Le dispiacerebbe tradurre?».
«“Questo sono io! Me ne accorgo! L’immagine mia non m’inganna”. Ma tradotto non rende. Non ha la stessa forza del latino. Le nostre lingue sono dei derivati non proprio perfetti. Dovrà accontentarsi».
«Non si preoccupi. Ho capito il concetto. Lasci perdere il latino e torni a Narciso, prego».
«È la scoperta di sé. Di come si è realmente fatti. Di cosa si è fatti. Shakespeare diceva che siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni. O qualcosa del genere.
Narciso incontra la propria immagine – i suoi sogni, se crede. Quando si specchia alla fonte vede il proprio viso riflesso nell’acqua dello stagno. È travolto dal desiderio di possederlo, di possedere se stesso. Ogni volta che cerca di afferrarla, appena smossa l’acqua, l’immagine svanisce. Narciso finisce per morire di consunzione, vittima dell’assurdo desiderio di cogliere se stesso».
M’interruppi aspettando una reazione di Blanche. Era immobile. Continuai:
«Questo è solo uno degli aspetti del problema. Potrebbe svilupparsi un’altra patologia: il furto dell’identità. Riconoscerci in altri, in un altro più forte, più determinato di noi, ci priva in qualche modo del nostro nome, della nostra storia. È necessario allora un gesto ancora più forte, rumoroso, per ribadire a noi stessi prima che ad altri il nostro diritto a esistere».
«Un omicidio?».
«Anche».
«Se è questo quel che succede a guardarsi allo specchio», rise Blanche, «devo preoccuparmi, allora. Io lo faccio spessissimo».
«Non scherzi. Lei non deve temere se stessa o il suo specchio. Tema piuttosto quel che Renant ha visto dentro la sua immagine».
«Potrebbe aver letto in un vecchio giornale di quella storia. Oppure averla sentita da qualche vicino anziano, anche lui sorpreso da quell’omonimia, dal caso che ripete la stessa situazione a distanza d’anni. Potrebbe. Ma non ci credo». Presi a farneticare:
«C’è un’altra ipotesi. Il suo Renant potrebbe essere strettamente legato a quel fatto. Supponiamo che sia il figlio dell’assassino».
«Il figlio?».
«Ma sì! Immagini: vissuto in un orfanotrofio di provincia, o cresciuto in povertà presso parenti che non lo amavano. Avrà visto il diavolo in quella donna che sedusse suo padre. La causa di tutti i suoi mali. E conoscendo lei, riconoscendola in lei, avrà pensato di potersi vendicare. Lei stessa gliene sta offrendo l’occasione. Facendolo soffrire».
«Io non gli ho mai promesso nulla. È lui che s’intestardisce. Posso dire di no una volta, due o tre. Ma poi, anche per me è difficile. È un uomo che ha il suo fascino».
«E non conosce il limite», aggiunsi.
«Sì. Che sciocco. Mi vorrebbe tutta per sé».
Mentre la guardavo, pensai che anch’io, una volta assaggiato quel boccone, non avrei desiderato dividerlo con nessuno.
«Quando vi siete conosciuti?».
«Poche settimane fa».
«Avete amici in comune?».
Blanche ci pensò un istante. Poi scosse la testa:
«No. Nessuno».
«Non sapete nulla l’uno dell’altra?».
«Nulla al di fuori di noi stessi, quando siamo assieme. È poco?».
«È pochissimo. Poco più che nulla. Lei di Renant ignora tutto. Il passato, ad esempio».
«Conosco il suo corpo. Ho ascoltato il suo sonno. Non basta?».
«No, non basta. Soprattutto se Renant volesse ucciderla».
«Uccidermi! Lei insiste! È una mania questa. Avrebbe potuto farlo mille volte. E non l’ha mai neppure pensato. Renant pericoloso?! Via! Tutt’al più è un noioso».
«Questo conferma la mia opinione».
«E quale?».
«Che Renant sia pericoloso. Lei lo sottovaluta. E altrettanto fa il suo amante».
«Altay?».
«Sì».
«Lasci stare quel ragazzo. Se crede veramente alle storie che Renant racconta, allora...».
«Se le inventa, forse?».
«Diciamo che esagera».
«Io non credo. Mi sembra una persona determinata e precisa. Vorrei che rinunciasse a lui, definitivamente. Lei rischia la vita».
Credevo che Blanche scoppiasse a ridere un’altra volta. E invece disse seria:
«Lo so».
Allora tornai a raccontarle del mio incontro con Renant. Le raccontai della sua espressione fredda e determinata; le sue parole soppesate e studiate; parole che sembravano ricordare, piuttosto che immaginare; parole che sembravano giungere dal più lontano profondo del suo essere.
Restò sorpresa dalla scelta dell’arma del delitto.
«Curioso. Renant non ha un orologio simile. Vede? È tutta una fantasia».
«Mi perdoni. Ma io stesso l’ho visto acquistare quell’orologio. E per ben due volte».
«Due volte?».
«Sì. Non mi domandi perché. Ma l’ha comprato due volte».
«Vuole un consiglio? Quando parla di Renant, si scordi la logica comune. Il suo comportamento risponde a un sistema che lei non può comprendere. Lo constati, senza neppure cercare di avvicinarsi a capire».
«Ma quell’oggetto è l’arma del delitto. Ci sarà pure un motivo per un comportamento così curioso».
«Parliamo di qualcosa che ancora deve avvenire. Non c’è nessun delitto. Io sono viva. Mi guardi».
Blanche si lasciò ammirare.
«Viva», ripeté. Poi riprese:
«Non c’è alcun delitto. Solo una coincidenza, una somma di coincidenze con avvenimenti di mezzo secolo fa, che Renant ha costruito con quella sapienza infernale che gli riconosco. Via, sia ragionevole, non tutte le persone che acquistano orologi di bronzo e alabastro poi li scagliano in faccia ai loro rivali in amore».
Blanche si rifiutava di capire. Prendeva la cosa poco sul serio. Ci scherzava. E io che ripensavo al colloquio che avevo avuto con Renant, al tavolino del Flore, m’innervosivo.
«Non la spaventa morire strangolata?».
Blanche passò la mano sul collo, accarezzandolo. Fece scivolare le dita sulle perle della collana che indossava:
«Ah, strangolarmi? Così ha detto. La collana che si rompe; le perle che cadono sulla moquette senza far rumore. E io che soffoco, poco alla volta, stretta tra le mani del mio amante! Così?». Rise e si avvicinò. Prese la mia mano e l’avvicinò al collo.
«Stringa!», ordinò.
Io ero rimasto senza fiato. Allontanai la mano dal collo.
«Peccato», fece lei.
«Che cosa?».
«La collana. Magari si romperà».
Non le avevo raccontato di quel particolare. Come poteva saperlo?
Blanche colse il mio stupore. Scherzando aggiunse:
«Se mi prende per il collo e stringe... forse si romperà la collana. O sbaglio?».
«Perché l’è venuto in mente proprio questo particolare?», chiesi.
«Non so. Lo spieghi lei, che cerca giustificazioni per ogni cosa».
«Per questo non ho spiegazioni».
«Mi sembra una cosa naturale. M’immagino la scena. Penso che la collana dovrebbe rompersi e le perle disperdersi sulla moquette della camera di Renant».
«Perché dice la camera di Renant?». Blanche restò imbarazzata.
«Non so. Forse è lì che dovrebbe ammazzarmi».
«Io non gliel’ho detto. Non ho raccontato nessun particolare del delitto. Salvo dell’orologio. E lei sembra già conoscere le cose che accadranno».
«È ridicolo. Viene qui, mi racconta una storia assurda che io sono tanto sciocca da ascoltare e poi sospetta di me, di chissà quale inganno».
«Scusi».
«Non so se dovrei. Pure, ormai è qui».
«Perché ha parlato della casa di Renant?».
«Lei conosce quel luogo?».
«No. L’ho visto solo da fuori».
«È molto lugubre. Adattissimo per un delitto. Quasi la vedo, la scena. Le dispiace? Non dovrei? Eppure insiste così tanto, che ho finito per riviverla».
«Riviverla?».
«Ma sì. Via, è da un’ora che mi parla di questo delitto. Me ne sarò fatta un’idea, visto poi che riguarda me. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riesco a spaventarmi. Lo conosco Renant. È un romantico. Abita i sogni. La stessa storia che vive con me... totalmente inoffensivo. Mi creda».
«Poco prima ha detto di no».
«Oh, certamente. È pericoloso con le sue ossessioni. Guardi come ha ridotto lei! Esagera. Geloso com’è non mi lascia mai in pace».
«Ho un amico in questura. Un commissario. Potrebbe aiutarla a liberarsi di lui».
«Da quella gente, si faccia aiutare lei. Questa è una storia d’amore tra me e Renant. E vorrei che rimanesse tale: una storia d’amore che finisce male. Una delle tante».
«È per evitare che finisca male che le suggerisco di chiamare la polizia. Basterebbe farlo convocare in questura. Soltanto un avvertimento. Sono convinto che lascerebbe perdere».
«Che cosa?».
«Lei. La sua ossessione».
«No. Non voglio. Non c’è nulla da lasciar perdere. Le cose tra di noi hanno preso ormai il loro corso. Finirà come le ho detto. Lei, piuttosto. Perché è venuto? Che cosa vuole veramente da me?».
«Questa è una domanda complicata. Ma la risposta lo è ancora di più. Per salvarle la vita».
«Mi dica. Lei crede veramente a questa storia?».
«Sono qui».
«Lei si guarda intorno. Sa: l’ho osservata, mentre l’ascoltavo. Che cosa cerca?».
«È vero. Mi guardavo attorno, prendevo appunti sull’arredamento del suo salotto, sul suo palazzo, sul suo maggiordomo, su di lei. Oh, no. Niente taccuino e matita. Non piglio appunti così. Guardo e ricordo. Ma non c’è niente di male. Io cerco storie. E quando le trovo vado fino in fondo».
«Crede che io sia un personaggio da romanzo?».
«Vive come se lo fosse».
«Non voglio che mi prenda a modello; che mi usi così. Io sono vera. Non sono una fantasia».
Prese a passare le unghie laccate sul portasigarette. E aggiunse:
«Ho paura che sia troppo tardi».
«Per che cosa?».
«Per restare fuori dalla sua fantasia. Mi sono conquistata almeno un posticino? Un posto tranquillo, lontano da tutte quelle brutte cose che lei immagina? A me piace pensare alle cose belle. Ma soprattutto, mi piace possederle».
Guardai il portasigarette. Blanche taceva. Anch’io. Ascoltavo il rumore che facevano le unghie laccate sulla superficie zigrinata del portasigarette.
«È nato tutto da questo, vero? Lo abbiamo comperato assieme», spiegò. «Renant e io. Camminavamo per il passage Verdeau. Ci siamo fermati davanti alla vetrina di Mariette. Lo conosce?».
«No».
«È un orafo che adoro. Anche la mia collana di perle è sua. La clip, voglio dire». Blanche si avvicinò a me. Si chinò per mostrarmi il fermaglio della sua collana: un serpente di platino che si mangiava la coda.
«Vede?», disse accostandosi. Mise il fermaglio proprio davanti agli occhi. Eravamo a pochi millimetri l’uno dall’altra. Chinandosi, la vestaglia si era allentata e scorgevo il suo piccolo seno e sentivo il ventre che andava a premere contro le mie ginocchia. Respiravo il suo alito caldo e il suo profumo. Lo stesso profumo che aveva Renant, lo stesso che avevo sentito quando s’era inginocchiata sul pavimento del Flore, a un passo da me. Un’essenza orientale, indiana, che aveva un fondo di muffa, di stantio.
«Vede?», sussurrò lei.
Mi trattenni. Non so perché lo feci. Forse fu proprio il suo profumo. Quella muffetta che penetrava alla base del naso; che bruciava gli occhi.
Lei se n’ebbe a male. Come se l’avessi delusa.
Si allontanò da me. Tornò a sedersi, si aggiustò la vestaglia e riprese a raccontare:
«Ebbene, lui me l’ha regalata. Io non avevo detto nulla, se non un “mi piace”, ma appena un sussurro, sa. Non amo impormi». Mi guardò a lungo aspettando che rispondessi. Ma io tacevo. Continuò:
«Non credevo che Renant potesse permettersi di spendere una cifra simile. Però me l’ha comprata. Perché mi vuol bene. Io non l’ho obbligato. Capisce? Non approfitto degli uomini. Neppure di lui. Gli piaceva farlo. L’ha fatto. Vuol dire che ne valeva la pena. Immagino. Almeno per lui. Nonostante tutto».
Sugli occhi di Blanche cadde un velo, una nebbia impossibile da penetrare.
Feci un ultimo tentativo.
«Lei mi ha detto di temere per la sua vita. Perché? Se poi non crede a quello che le dico?».
«Ho pensato che le piacesse il gioco. Ho creduto di doverla assecondare. Tanti vogliono così: che si creda alle loro fantasie. Forse è lei che dovrebbe aver paura».
«Io ho paura, ma non per me».
«La ringrazio. Credo che ci siamo detti tutto quello che dovevamo dirci».
«Ne è convinta?».
«Sì».
«Ci rivedremo?».
Non mi rispose.
Il mio tempo era finito. Blanche, dall’abboccamento mancato, si era raffreddata, irrigidita. Probabilmente risentita.
Io avevo avuto il tempo di pentirmi, anche se cercavo di giustificare il mio comportamento. Non era il momento, mi dicevo in un improbabile tentativo di autoconvincimento.
Ma non era così.
Qualcosa che luccica e apre subito le gambe.
Questo aveva detto Renant.
A questo pensavo mentre attraversavo il piccolo cortile, sicuro che Blanche, da dietro la finestra, mi osservasse. Attesi che si aprisse il portone secondario e uscii.
Avevo sempre questa possibilità. Passare dall’orefice Mariette e acquistare uno di quei gioielli magici che consentiva di possedere Blanche. Pensai alla sua carnagione diafana, candida, trasparente. Un portacipria laccato. Poteva essere... il mio regalo. La possibilità di tornare indietro. Di ripetere la medesima situazione senza commettere errori. Non mi sbagliavo. Quello era il modo.
Cominciavo ad avere sensazioni simili in quei giorni a Parigi. Cominciavo a credere che le cose si ripetessero e che concedessero la possibilità dell’errore.
Era strano che ciò accadesse quando mi ero ormai convinto, contro tutti e tutto, che Renant stesse preparando un gesto definitivo, assoluto e terminale, un gesto che non consentiva repliche. Un gesto che andava contro quel sistema ripetitivo. Un gesto che doveva infrangerlo per sempre.
Perché mai nessuno coglieva quella cesura, quell’incongruenza? Io stesso, pur convinto, non riuscivo a esporre la mia teoria ad Adolphe, a Blanche, con la necessaria forza. Non li sapevo convincere. Sembrava che tutti, a dispetto della morte che Renant andava evocando, credessero che ci sarebbe stata un’altra possibilità. Che in quel mondo non esistevano eventi definitivi.
Anch’io in quei momenti pensavo a Blanche. Al magico gioiello che mi avrebbe permesso di possederla.
Mi avrebbe fatto sedere sul canapé; avrebbe scartato il pacchetto; avremmo ammirato assieme il regalo; i nostri sguardi si sarebbero riflessi nello specchietto del portacipria; di nuovo saremmo stati a contatto; ci saremmo sfiorati le guance; ci saremmo voltati lentamente e le nostre labbra si sarebbero finalmente toccate.
Sicuro che non mi sarei tirato indietro. Certo che no. Non mi sarei lasciato disgustare neppure dal suo profumo vecchio e muffoso. No, non avrei perso l’occasione.
Meditavo sull’occasione mancata, sul viso di Blanche che si era avvicinato e che adesso si allontanava poco alla volta, seguendo un movimento circolare. Sapevo che quel sorriso si sarebbe di nuovo avvicinato, che di nuovo avrei avuto l’occasione.
L’occasione, la dea rapida e silenziosa che non avvisa, passa accanto e vola via.Uscii da casa di Blanche dall’ingresso indipendente che dava in una viuzza laterale, illuminata soltanto da un lampione scrostato. Ci misi qualche istante per orientarmi. Infine tornai su rue de Babylone.
Mi fermai al bar del cinematografo per bere qualcosa. Accanto a me c’era una coppia di giovani fidanzati. Si tenevano per mano. Erano contenti e lo sarebbero stati per molto tempo, fin quando si sarebbero amati. Provai invidia per loro. Rabbia.
Anch’io volevo essere felice. E dovevo fare qualcosa per esserlo.
Corsi verso la stazione del metrò Sèvres-Babylone e presi il treno per Notre Dame de la Lorette.
Ricordavo perfettamente il nome e l’indirizzo dell’orefice che vendeva i gioielli che conquistavano l’anima di Blanche: Henry Mariette, 14 passage Verdeau. Conoscevo quella piccola galleria poco distante dall’hôtel Drouot e da rue de Provance perché talvolta vi passeggiavo ma non ricordavo l’esistenza di un orefice.
Blanche si era detta entusiasta di quell’artigiano, ne aveva magnificato l’opera e lo considerava tra i più ricercati di tutta Parigi. Dovevo riconoscerlo, i suoi gioielli avevano un’eleganza speciale e suscitavano un’attrazione singolare per una rara commistione di antico e moderno.
Forse la bottega era minuscola, e per questo sfuggita alla mia attenzione. Quasi un corridoio, pensavo, in fondo al quale, dietro un alto bancone di mogano, avrei intravisto, chino sulla lente d’ingrandimento e con in mano il suo cesello, l’abile e paziente orefice.
M’immaginavo i gioielli che avrei potuto regalarle: una spilla, un anello, o una coppia di orecchini che le avrei fatto indossare baciandole il collo, accarezzandole le spalle.
Ma forse il portacipria, per lei sempre così diafana di carnagione, così pallida, sarebbe stato il regalo migliore.
Un portacipria in cui specchiarsi, in cui riflettere la propria bellezza.
Un portacipria di argento vermeil, che facesse pendant col suo portasigarette.
Uscii dalla metropolitana, imboccai rue Cadet e finalmente arrivai davanti all’ingresso del passage.
Entrai.
Al 14 del passage Verdeau c’era una cioccolateria belga. L’insegna in legno inciso e dorato. Gli infissi di rovere lucidati e una tenda a merletti che decorava la vetrina e velava in parte la visione dell’interno.
Sul piano della vetrina erano esposti in bell’ordine, su piatti d’argento decorati con centrini bianchi ricamati, cioccolatini d’ogni sorta, bianchi, al latte, fondente, decorati con noci, nocciole, ciliegie, marzapane, scorze d’arancia; disposti in piccole e multicolori piramidi, oppure in cerchi concentrici, a scacchiera, a ventaglio o alla rinfusa. Ai lati, lungo la scaffalatura, erano esposte scatole da regalo in latta o cartone, confezioni in plastica trasparente decorate con nastri e fiocchi di raso rosso sangue o azzurro salvia.
Un campanellino d’ottone, azionato dalla porta, trillò e avvisò del mio ingresso una ragazza magra e bionda che si trovava dietro il bancone. Portava un paio di guanti di cotone bianco.
«Desidera?», disse modulando una vocina stridula.
«Un’informazione».
«Prego».
«Cercavo l’orefice Mariette. Dovrebbe avere la bottega qui. Al 14».
«Oh, questo non è possibile. Ci siamo noi, al 14». Sorrise.
«Lo vedo». Era una cioccolateria belga, di questo almeno non c’era da dubitarne.
«Vuole?», chiese la commessa porgendomi un cioccolatino al latte decorato con una mandorla dolce.
«No grazie».
«Prego. È un omaggio». Accettai.
«È proprio sicuro dell’indirizzo? La gioielleria è in questo passage e non, magari, in un altro?».
«Oh, no», risposi con la bocca impastata dal cioccolato. «È in questo, ne sono sicuro».
«Forse, più avanti. Ha provato?».
«Andrò», e mostrai alla commessa le mie dita sporche di cioccolata. Lei mi offrì un tovagliolino di carta.
«Provi più avanti. Mi sembra che ci sia un’antica oreficeria. Sa, io sono qui da poco. Qualche mese appena. Ma, adesso che ha trovato la strada, spero di rivederla. Desidera un altro cioccolatino?».
«No».
«Una gelatina?».
«No, grazie».
«Come vuole. Mi faccia sapere di questo Mariette. Ci tengo».
«Promesso».
«L’aspetto».
Percorsi tutto il breve passage. Mi guardai attorno, chiesi ancora ad altri commercianti, ma nessuno conosceva l’orefice Mariette. Ero sicuro di non sbagliare indirizzo. Ricordavo bene il viso di Blanche mentre mi mostrava la collana.
Eppure niente. Forse Mariette non esercitava sulla strada, ma in un appartamento ai piani superiori. Scrutai così le targhe d’ottone e di vetro nero e oro ai fianchi dei portoni.
Niente.
Ripassai di fronte alla cioccolateria. La commessa stava servendo. Mi salutò da dietro il bancone. Fece un gesto interrogativo come per chiedere se avessi trovato la bottega. Scossi la testa. Allora indicò il negozio di fronte e con larghi movimenti delle labbra mi disse di chiedere lì.
Mi voltai.
Le vetrine erano di vetro opaco, gli infissi di alluminio. La porta d’ingresso era oscurata da una tapparella blu. L’insegna riportava soltanto un nome scritto in nero:
SALUTAIRE
Suonai al campanello. La serratura elettrica scattò. Entrai.
Era un piccolo ufficio coi mobili di metallo: due scrivanie e un armadio. Luci al neon e pareti laccate color ocra. Sopra l’armadio tre urne di ottone, bronzo e granito. La signora Salutaire era quasi nascosta dalla scrivania dietro cui sedeva. Minuscola e artritica sollevava a fatica il capo. Le mani, due zampe chiazzate con le dita deformate dalla malattia, tremavano, bianche e contorte, sullo sfondo verde bottiglia del piano della scrivania.
«Si accomodi».
Sulla parete erano appesi un paio di diplomi e una fotografia del cimitero di Père-Lachaise. Ero sul punto di parlare, ma la vecchia mi precedette.
«Noi non facciamo funerali. Cremiamo soltanto e trasportiamo ceneri. Ma lo facciamo dovunque».
Rimasi senza parole. Lei continuò:
«È per un suo parente o per lei? È sempre meglio iscriversi prima, mi capisce? Uno è più tranquillo, dopo».
Madame Salutaire era una donna di carattere. E spiritosa, nonostante l’età e la professione. Era anche così convincente circa il suo lavoro che quasi mi dispiacque spiegarle che non m’interessava farmi cremare e che cercavo notizie dell’orefice Mariette.
«Lei è fortunato. Uno dei nostri migliori clienti, il buon vecchio Henri Mariette».
«Si è iscritto alla vostra associazione?».
«Oh, sì. Certamente! Altrimenti non avrebbe potuto».
«Che cosa?».
«Essere cremato da noi».
Lo sapevo che prima o poi avrei incontrato un cadavere. Polvere di cadavere, mi corressi.
«E quand’è successo?».
«Mi faccia ricordare. È stato uno dei primi. Nel ’48 o nel ’49. Quell’inverno lì. Usavamo ancora i vecchi forni».
«Morto nel ’48? Non è il Mariette che cerco, allora».
«Lei cerca il Mariette orefice del passage Verdeau?».
«Sì».
«E allora c’era solo il buon vecchio Henri. L’unico orefice del passage. L’unico degno di questo nome».
«Ci dev’essere un equivoco. Appena poche settimane fa un mio conoscente ha comprato un portasigarette d’argento vermeil, decorato con iniziali di brillanti. Mi ha detto lui stesso che l’aveva acquistato direttamente dal signor Mariette. Ora, questo non potrà essere successo col suo signor Mariette, e forse il mio amico avrà trattato con un figlio, un nipote, con l’attuale proprietario della ditta Mariette».
«Impossibile! Abbiamo avuto anche il figlio, quello sciagurato di Albert». Rabbrividii a quell’orribile senso di possesso che Madame Salutaire rilevava specificando “nostro”.
«Poi, non faceva l’orefice», aggiunse. «Gli eredi hanno chiuso la bottega nel ’50, o giù di lì. Adesso, come può vedere, c’è una cioccolateria belga. Non si può sbagliare».
«Mi scusi, ma ancora non capisco. Lei vuol dire che la bottega di Mariette è stata chiusa nel 1950».
«Mi sembra ovvio, giovanotto!».
«E dunque?».
«E dunque! Nessuno potrebbe aver comprato un portasigarette dal buon vecchio Mariette il mese scorso. Nessuno, sauf un renant!».
Renant, aveva detto Madame Salutaire. Proprio così: sauf un renant.
Renant.
Re(ve)nant.
Solo un fantasma avrebbe potuto... Continuavo a sentire la voce roca della donna.
Re(ve)nant.
Renant.
Ero forse io che aggiungevo e sottraevo la sillaba rivelatrice? Lo stesso lapsus di Morel, ma opposto. Che cosa univa il vecchio giornalista e la donna che trasformava in cenere i corpi dei morti?
E dov’era finita la bottega di Mariette? Blanche raccontava bugie? E riferiva di un negozio di orefice chiuso da più di quarant’anni. Perché?
Lo stesso Renant m’aveva assicurato di aver acquistato il portasigarette appena qualche settimana prima del nostro incontro. Perché mentiva anche lui su un particolare così marginale – che a me appariva tale?
La vecchia inceneritrice dalle mani artritiche sorrideva del mio imbarazzo. Frattanto, con fare professionale, valutava la mia altezza, il mio peso, la percentuale di acqua e grassi che sarebbe evaporata nella cremazione; la consistenza del mucchietto di polvere che sarebbe avanzato, diventando io uno dei suoi clienti.
Chissà con quali palette, filtri e imbuti avrebbe poi raccolto le mie ceneri e travasate in uno di quei vasi standard che esponeva sugli scaffali del suo ufficio.
La poca polvere che di me, dopo quest’operazione, le sarebbe rimasta tra le pieghe delle mani, l’avrebbe soffiata via, prima di lavarsi con un sapone dozzinale nel piccolo bagno del retrobottega.
Immaginai quel soffio, per me ormai ridotto a così poca cosa, impetuoso e ferale come un turbine di tempesta.
48.00