mercoledì 15 giugno 2022

ELOGIO DELLA MATRIGNA Mario Vargas Llosa

 



 

 

ELOGIO DELLA MATRIGNA 

Mario Vargas Llosa

Il compleanno di donna Lucrecia

Il giorno in cui compì quarantanni, donna Lucrecia trovò sul suo guanciale una missiva dal tratto infantile, ben scritta e molto affettuosa:

«Buon compleanno, matrigna!

Non ho soldi per regalarti qualcosa ma studierò molto, otterrò il primo posto e questo sarà il mio regalo. Sei la più brava e la più bella e io ogni notte ti sogno.

Buon compleanno ancora!

Alfonso»

 

Era mezzanotte passata e don Rigoberto si trovava nella sua stanza da bagno tutto preso dalle abluzioni di prima di coricarsi, che erano complicate e lente. (Dopo la pittura erotica, la nettezza del corpo era il suo passatempo preferito; quella spirituale non lo preoccupava altrettanto.) Emozionata dalla lettera del ragazzino, donna Lucrecia sentì l’impulso irresistibile di recarsi a trovarlo, di ringraziarlo. Quelle righe significavano la sua accettazione nella famiglia, definitivamente. Sarebbe stato sveglio? Che importava! Altrimenti, l’avrebbe baciato sulla fronte, attenta a non svegliarlo.

Mentre scendeva le scale, coperte da una passatoia, della dimora al buio, diretta verso l’alcova di Alfonso, pensava ”L’ho dalla mia parte, ormai mi vuole bene”.

E i suoi vecchi timori sul ragazzino cominciarono a svanire come la lieve nebbia corrosa dal sole dell’estate di Lima. Aveva scordato di buttarsi addosso la vestaglia, era nuda sotto la leggera camicia da notte di seta nera e le sue forme bianche, uberrime, ancora sode, sembravano fluttuare nella penombra trafitta dai riflessi della via. Aveva i lunghi capelli sciolti e non si era ancora tolta gli orecchini, gli anelli e le collane della festa.

Nella camera del ragazzino — certo, Foncho leggeva sempre fino a molto tardi! — c’era luce. Donna Lucrecia bussò con le nocche ed entrò: «Alfonsito!». Nel cono giallo che irradiava la lampada del comodino, dietro un libro di Alexandre Dumas, spuntò, spaventato, un visetto da Gesù Bambino. I riccioli d’oro scarruffati, le labbra socchiuse dalla sorpresa che mostravano la doppia fila di bianchissimi denti, i grandi occhi celesti spalancati nel tentativo di staccarla dall’ombra della soglia. Donna Lucrecia rimaneva immobile, osservandolo con tenerezza. Che bel ragazzino! Un angioletto da presepe, uno di quei paggi delle incisioni galanti che suo marito nascondeva a doppia mandata.

«Sei tu, matrigna?»

«Che bella letterina mi hai scritto, Foncho. E il miglior regalo di compleanno che mi abbiano mai fatto, te lo giuro.»

Il ragazzino era balzato su ed era già in piedi sul letto. Le sorrideva, con le braccia aperte. Mentre avanzava verso di lui, parimenti sorridente, donna Lucrecia colse — indovinò? — negli occhi del figliastro uno sguardo che passava dall’allegria allo sconcerto e che si fissava, attonito, sul suo petto. ”Dio mio, sono quasi nuda” pensò. ”Come ho potuto dimenticare la vestaglia, stupida che sono? Che spettacolo per il povero bimbo!” Aveva bevuto più bicchieri del dovuto?

Ma già Alfonsito l’abbracciava. «Buon compleanno, matrigna!» La sua voce, fresca e spensierata, ringiovaniva la notte. Donna Lucrecia si sentì contro il corpo la svelta sagoma dagli ossicini fragili e pensò a un uccelletto. Le passò per la testa che, se l’avesse serrato con troppo slancio, il ragazzino si sarebbe spezzato come un giunco. Così, lui in piedi sul letto, erano della stessa altezza. Le aveva intrecciato le sottili braccia intorno al collo e la baciava amorevolmente sulla guancia. Donna Lucrecia lo abbracciò anche lei e una delle sue mani, scivolando sotto la giacca del pigiama azzurro mare, dagli orli rossi, gli passò lungo la schiena e l’accarezzò, sentendo sulla punta delle dita il delicato digradare della spina dorsale. «Ti voglio tanto bene, matrigna» sussurrò il vocino accanto al suo orecchio. Donna Lucrecia sentì due brevi labbra fermarsi davanti al lobo inferiore dell’orecchio, riscaldarlo col loro fiato, baciarlo e mordicchiarlo, per gioco. Le sembrò che, nel momento stesso in cui la vezzeggiava, Alfonsito ridesse. Il petto le traboccava di emozione. E pensare che le sue amiche le avevano vaticinato che quel figliastro sarebbe stato l’ostacolo maggiore, che per colpa sua non sarebbe mai stata felice con Rigoberto. Commossa, lo baciò anche lei sulle guance, sulla fronte, sugli scarruffati capelli, mentre, vagamente, come venuta da lontano, senza che se ne accorgesse bene, una sensazione diversa stava penetrandola da un confine all’altro del suo corpo, concentrandosi soprattutto in quelle parti — i seni, il ventre, il dorso delle cosce, il collo, le spalle, le guance — esposte al contatto del ragazzino. «Davvero mi vuoi tanto bene?» domandò, cercando di scostarsi. Ma Alfonsito non la lasciava. E, al contrario, mentre le rispondeva, cantando: «Tantissimo, matrigna, più che a tutti», si aggrappò a lei. Poi, le sue manine la presero per le tempiee le spinsero indietro il capo. Donna Lucrecia si sentì becchettare sulla fronte, sugli occhi, sulle ciglia, sulla guancia, sul mento... Quando le sottili labbra sfiorarono le sue, strinse i denti, confusa. Fonchito capiva quello che stava facendo? Doveva scostarlo con una spinta? Ma no, no, come poteva esserci la minima malizia nello svolazzare salterino di quelle labbra discole che due, tre volte, errando sulla geografia del viso, si posarono per un attimo sulle sue, premendole con avidità?

«Bravo, e ora a nanna» disse, infine, sottraendosi all’abbraccio del ragazzino. Si sforzò per apparire più disinvolta di quanto non fosse. «Altrimenti, non ti sveglierai in tempo per la scuola, bimbo mio.»

Il ragazzino si infilò nel letto, annuendo. La guardava gaio, con le guance arrossate e un’espressione di rapimento. Quale malizia poteva esserci in lui? Quel faccino limpido, gli occhi rallegrati, il piccolo corpo che si avvolgeva e si contraeva fra le lenzuola, non erano la personificazione dell’innocenza? Sei tu a pensar male, Lucrecia! Lo rimboccò, gli sistemò il guanciale, lo baciò sui capelli e spense la luce della lampada. Mentre usciva dalla camera, lo udì trillare:

«Otterrò il primo posto e te lo regalerò, matrigna!». «Promesso, Fonchito?»

«Parola d’onore!»

Nell’intimità complice della scala, mentre ritornava in camera da letto, Lucrecia si accorse che ardeva da capo a piedi. ”Ma non è febbre” si disse, smarrita. Era possibile che la carezza inconsapevole di un ragazzino le facesse quell’effetto? Stai diventando una viziosa, cara mia. Era il primo sintomo della vecchiaia? Perché stava proprio fiammeggiando e aveva le gambe bagnate. Che vergogna, Lucrecia, che vergogna! E d’improvviso le venne in mente il ricordo di un’amica licenziosa che,durante un tè destinato a raccogliere fondi per la Croce Rossa, aveva suscitato rossori e risolini nervosi al suo tavolo raccontando che, quanto a lei, fare la siesta nuda con un suo figlioccio in tenera età che le grattava la schiena, l’accendeva come una torcia.

Don Rigoberto stava disteso supino, nudo sulla trapunta granata con disegni che sembravano scorpioni. Nella camera senza luce, appena rischiarata dal riflesso della via, la sua lunga sagoma bianchiccia, vellosa sul petto e sul pube, rimase ferma mentre donna Lucrecia si toglieva le pantofole e si distendeva accanto a lui, senza toccarlo. Dormiva già suo marito?

«Dove sei stata?» lo udì mormorare, con la voce pastosa e lenta dell’uomo che parla nel crepitare dell’illusione, una voce che lei conosceva tanto bene. «Perché mi hai abbandonato, vita mia?»

«Sono andata a dare un bacio a Fonchito. Mi ha scritto una lettera di auguri che non puoi immaginare. Per poco non ho pianto, tant’era affettuosa.»

Intuì che lui l’ascoltava appena. Sentì la mano destra di don Rigoberto sfiorarle la coscia. Bruciava, come una compressa di acqua bollente. Le sue dita frugarono, goffe, tra una piega e l’altra della sua camicia da notte. ”Si accorgerà che sono tutta bagnata” pensò, a disagio. Fu un malessere fuggevole, perché la stessa onda veemente che l’aveva assalita sulla scala ritornò al suo corpo, facendolo rabbrividire. Le sembrò che tutti i suoi pori si aprissero, ansiosi, in attesa.

«Fonchito ti ha visto in camicia da notte?» fantasticò, infiammata, la voce del marito. «Avrai fatto venire brutte idee a quel bambino. Questa notte farà il suo primo sogno erotico.» Lo udì ridere, eccitato, e anche lei rise: «Che dici, sciocco?». Al contempo, finse di picchiarlo, lasciandoricadere la mano sinistra sul ventre di don Rigoberto. Ma quello che toccò fu un’asta umana che si ergeva e pulsava.

«Ma che cos’è questo? Che cos’è questo?» esclamò donna Lucrecia, stringendola, tirandola, lasciandola, riprendendola. «Guarda che cos’ho trovato, be’, che sorpresa!»

Don Rigoberto se l’era già fatta montar sopra e la baciava con diletto, succhiandole le labbra, separandogliele. A lungo, con gli occhi chiusi, mentre sentiva la punta della lingua del marito esplorarle la cavità della bocca, lambirle le gengive e il palato, affannarsi per gustare e conoscere tutto, donna Lucrecia rimase preda di un rapimento felice, sensazione densa e palpitante che sembrava rammollirle le membra e annullarle, lasciandola galleggiare, sprofondare, ruotare. In fondo a quel vortice voluttuoso che erano lei, la vita, come affacciandosi e scomparendo in uno specchio che perde la sua limpidezza, si delineava a tratti un faccino intruso, di angelo rubicondo. Il marito le aveva sollevato la camicia da notte e le accarezzava le natiche, con un movimento circolare e metodico, mentre le baciava i seni. Lo udiva mormorare che l’amava, sussurrare teneramente che con lei era iniziata la sua vera vita. Donna Lucrecia lo baciò sul collo e gli mordicchiò i capezzoli fino a udirlo gemere; poi, leccò piano piano quei nidi che tanto lo esaltavano e che don Rigoberto aveva lavato e profumato accuratamente per lei prima di coricarsi: le ascelle. Lo udì far le fusa come un gatto viziato, mentre si contorceva sotto il suo corpo. Frettolose, le sue mani separavano le gambe di donna Lucrecia, con una sorta di esasperazione. La rannicchiarono su di lui, la sistemarono, l’aprirono. Lei gemette, di dolore e di piacere, mentre, in un vortice confuso, scorgeva l’immagine diun san Sebastiano trafitto, crocefisso e impalato. Aveva la sensazione di essere stata presa da una cornata in mezzo al cuore. Non si trattenne più. Con gli occhi socchiusi, con le mani dietro il capo, spingendo avanti i seni, cavalcò su quel puledro d’amore che si cullava con lei, al suo ritmo, ruminando parole che a stento riusciva ad articolare, fino a sentir che veniva meno.

«Chi sono io?» indagò, cieca. «Chi dici che sono stata?»

«La moglie del re della Lidia, amor mio» esplose don Rigoberto, smarrito nel suo sogno.