mercoledì 8 giugno 2022

LA CORSIA N. 6 Estratto da Anton Pavlovic Cechov "Racconti"

 




LA CORSIA N. 6


 Estratto da Anton Pavlovic Cechov "Racconti"


Recensione 

Ludovica Ceolin

Pubblicato nel 1892, il racconto interessa il lettore non solo perché è una chiara analisi, oltre che una denuncia della situazione sociale e culturale della società russa di fine Ottocento (malasanità, mancanza di strumenti per operare, malattie infettive incurabili) e della disumanità dell’Istituzione psichiatrica ma anche perché lo scrittore vi riversa, contemporaneamente, sia la propria esperienza di medico sia di paziente, cioè di malato tubercolotico.

    In Corsia n.6 vediamo come un medico diligente e stimato diventi un malato disperato ed entri in uno stato di profonda crisi spirituale. Il cambiamento psicologico del protagonista si avverte sin dalle prime battute, ed è indissolubilmente legato al cambiamento “fisico” che ricade su ogni paziente al momento dell’ingresso in ospedale: infatti, dopo esser stato ricoverato nella famosa corsia n.6, viene spogliato dei suoi abituali vestiti e gli viene imposta la “divisa dell’ospedale” che mal si adatta all’individuo e che non si adatta al paziente, ma è per sua stessa definizione uguale per tutti. L’abito uguale rende uguali e definisce, in questo caso, uno stato univoco, quello di malato. Si lascia al difuori la società dei vivi e si entra, spogliandosi dei propri comuni abiti, in una zona sospesa dove alla propria identità è sovrapposta quella di paziente. Chiunque tu sia, chiunque tu sia stato, adesso sei uno dei tanti pazienti. E i malati vengono trattati tutti allo stesso modo, mancando del tutto una terapia specifica e personalizzata per paziente.  Si assiste quindi ad una sorta di selvaggia omologazione che porta il malato a sentirsi spaesato e privo di riferimenti: spogliato dei propri averi e dei propri effetti personali, sprofonda in un luogo senza tempo dove altro non gli rimane che l’assenza dei suoni, il totale silenzio, l’angoscia delle pareti nelle stanze che lo comprimono. L’ospedale diventa non un luogo di cura e di speranza ma una tetra prigione dove medici, privi di ogni passione per il proprio lavoro, non credono nella scienza ed agiscono svogliatamente in modo meccanico.

    Il protagonista, Andrej Efimyc, non può che provare angoscia a stare in un luogo del genere: non trova pace, non riesce a riposare sul letto neppure per poco. Si sente in gabbia. Vorrebbe fuggire, ritornare alla vita, alla sua attività. Il medico-paziente sta male inoltre al pensiero che da lì a poco il suo ex paziente Ivan Dmitric si possa svegliare e lo possa vedere lì in quella veste. Paradossale e significativo questo ribaltamento di ruoli, che non solo tende a mettere in discussione una delle problematiche chiave della medicina moderna, ovvero il rapporto medico-paziente, ma sottolinea il sentire di un medico calato direttamente nelle vesti di un paziente con gravi problemi psichiatrici.

   Interessante e stimolante risulta la patologia presentata anche in rapporto all’evoluzione del personaggio.  La pazzia in Dmitric si manifesta principalmente attraverso la sua mania di persecuzione, in un continuo parallelismo e in una continua alternanza tra razionalità e follia fino a quando non decide di abbandonarsi e di arrendersi definitivamente a quest’ultima. 

 

La pazzia viene vista in questo contesto storico come una patologia che il medico non è in grado di curare e di gestire motivo per cui si tende ad allontanare ed a emarginare colui che ne è affetto.  Il medico così strutturato, istruito ed educato non è però in grado di accorgersi di questa sua mancanza, ne viene a conoscenza solo quando subisce, in una sorta di gioco, lo stesso destino, solo quando i ruoli si ribaltano e da medico si ritrova a paziente. Allora e solo allora può comprendere la sua mancanza, il suo errore avendo toccato con mano. E in questa catarsi, in questo tragico ribaltamento avviene una sorta di “evoluzione” da medico a paziente.  E sii tratta effettivamente di una “evoluzione” in quanto il medico divenuto paziente è ora in grado di rendersi conto ciò che subisce il malato, come egli si senta spaesato e come vi sia totale assenza di rispetto nei confronti di un altro esser umano in difficoltà. 

   Dal momento che la figura del medico è influenzata dal contesto storico, ciò che colpisce il lettore e in particolar modo lo studente del corso di Medicina e Chirurgia, è il fatto che questa realtà sia effettivamente esistita ed accaduta in tempi non troppo lontani dai nostri. E’ importante quindi oggi giorno ripristinare e ricercare il rapporto umano tra medico e paziente: qualunque sia lo stato del paziente e qualunque sia la sua patologia è necessario ed indispensabile che il medico si interessi della totalità delle problematiche del malato, che cerchi di immedesimarsi nel suo essere uomo malato e che pur con la necessaria distanza diventi una figura di riferimento e di conforto. Del resto già Ippocrate aveva posto I' attenzione al malato nella sua interezza, guardando alla malattia e alle sue motivazioni più profonde. Lo sforzo scientifico del medico, allora come ora, deve quindi volgersi a ricostruire la storia personale del paziente attraverso un'anamnesi che possa fungere da base per intervento proiettato nel futuro, alla ricerca di quella cura che abbracci la totalità dell’essere e che toccando anima ed il corpo conduca alla prognosi più fausta.

 

LA CORSIA N.6

I

 

 

Nel cortile dell'ospedale c'è un piccolo padiglione, circondato da tutto un bosco di lappole, di ortica e di canapa selvatica. Il suo tetto è rugginoso, il tubo del camino è a metà crollato, gli scalini della scala principale sono marciti e c'è cresciuta l'erba, e dell'intonaco son rimaste soltanto le tracce. La facciata anteriore è rivolta verso l'ospedale, quella posteriore guarda nella distesa dei campi verdi da cui lo separa il grigio recinto dell'ospedale, tutto chiodi. Questi chiodi, con le punte rivolte all'insù, e il recinto e lo stesso padiglione hanno quello speciale aspetto triste che da noi hanno soltanto le costruzioni ospedaliere e carcerarie.

Se non avete paura di bruciarvi alle ortiche, andiamo per lo stretto sentiero che porta al padiglione e guardiamo che vi si fa dentro. Aperta la prima porta, entriamo nel vestibolo. Qui lungo le pareti e accanto alla stufa sono ammucchiate intere montagne di rifiuti d'ospedale. Materassi, vecchie vesti da camera a brandelli, pantaloni, camicie a righe azzurre, scarpe logore, inservibili - tutto questo cenciume gettato alla rinfusa, calpestato, mescolato, marcisce ed esala un odore asfissiante.

Su questo mucchio di rifiuti, sempre con la pipa tra i denti, sta sdraiato il custode Nikíta, vecchio soldato in congedo, dai galloni diventati rossicci. Egli ha una faccia dura, smunta, delle sopracciglia spioventi, che dànno al suo viso l'espressione di un montone della steppa, e il naso rosso; è di piccola statura, d'aspetto magro e muscoloso, ma il suo portamento è imponente e i suoi pugni solidi. Appartiene al numero di quegli uomini semplici, positivi, buoni esecutori e ottusi, che più di tutto al mondo amano l'ordine e perciò son convinti che bisogna picchiare. Egli picchia sulla faccia, sul petto, sulla schiena, su quel che gli capita, ed è convinto che altrimenti qui non ci sarebbe ordine.

Più in là entrate in una grande, spaziosa sala che occupa tutto l'edificio, se non si calcola il vestibolo. Le pareti vi son dipinte in una tinta blu sporca, il soffitto è affumicato come in una capanna senza camino, è chiaro che qui d'inverno le stufe fumano e ci si sente asfissiare. Le finestre sono deturpate all'interno da grate di ferro. Il pavimento è grigio e tutto echeggiato. C'è puzzo di cavolo acido, di stoppino fumoso, di cimici e d'ammoniaca, e questo puzzo nel primo momento vi dà l'impressione di entrare in un serraglio.

Nella sala ci sono dei letti avvitati al pavimento. Su di essi stanno seduti o coricati degli uomini, con l'azzurra veste da camera dell'ospedale e, all'uso antico, coi berretti da notte. Sono dei pazzi.

Ce ne sono in tutto cinque. Solo uno di condizione nobile, gli altri borghesi. Il primo venendo dalla porta, un borghese alto, sparuto, coi baffi rossicci, gli occhi luccicanti e lacrimosi, sta seduto tenendosi il capo e guarda fisso in un punto. Giorno e notte egli è triste, scrolla la testa, sospirando e sorridendo amaramente; di rado prende parte alle conversazioni e alle domande: di solito non risponde. Mangia e beve macchinalmente, quando gliene danno. A giudicare dalla tosse tormentosa che lo scuote, dalla magrezza e dal rosso delle guance, ha i primi sintomi della tubercolosi.

Dopo di lui sta un vecchietto piccolo, vivace, assai mobile, con una barbetta a punta e i capelli neri e ricciuti come quelli di un negro. Di giorno passeggia per la sala da una finestra all'altra o se ne sta seduto sul letto, con le gambe incrociate alla turca, e irrequieto, come un fringuello, fischietta, canta sotto voce e ridacchia. La sua gaiezza infantile e il suo carattere vivace egli li rivela anche di notte, quando si alza per pregar Dio, cioè per battersi il petto coi pugni e grattare la porta col dito. È costui l'ebreo Mojsèjka, uno scemo, impazzito una ventina d'anni fa, quando andò in fiamme la sua fabbrica di cappelli.

Di tutti gli abitanti della sala n. 6, soltanto a lui è permesso di uscire dal padiglione e perfino dal cortile dell'ospedale sulla strada. Di tale privilegio egli gode da gran tempo, probabilmente come vecchio ospite dell'ospedale e scemo tranquillo e innocuo, trastullo della città che da un pezzo si è abituata a vederlo per le strade circondato dai monelli e dai cani. In una miserabile veste da camera, un ridicolo berretto da notte e in pantofole, a volte scalzo e perfino senza pantaloni, egli gironzola per le strade e si ferma ai portoni e alle bottegucce a chiedere una copeca. In un posto gli danno del kvas, in un altro del pane, in un terzo una copeca, cosicché di solito egli ritorna al padiglione sazio e ricco. Tutto quel che egli porta con sé, glielo toglie Nikíta a proprio vantaggio. Il soldato fa ciò brutalmente, stizzito, rivoltandogli le tasche e chiamando Dio a testimonio che mai più lascerà uscire l'ebreo sulla strada e che il disordine è per lui quanto c'è di peggio al mondo.

A Mojsèjka piace essere servizievole. Porge l'acqua ai compagni, li copre quando dormono, promette di portar dalla strada una copeca per ciascuno e di cucire a ciascuno un berretto nuovo; dà anche da mangiare col cucchiaio al suo vicino di sinistra, un paralitico. Agisce così non per compassione, non per una qualsiasi considerazione d'indole umanitaria, ma per imitare e sottomettersi involontariamente al suo vicino di destra, Gròmov.

Ivàn Dmítrič Gròmov, un uomo sui trentatré anni, nobile, ex-usciere giudiziario e segretario al governatorato, soffre di mania di persecuzione. Egli o giace sul letto raggomitolato su se stesso, o cammina da un angolo all'altro, come per fare del moto; seduto ci sta assai di rado. È sempre eccitato, inquieto e in uno stato di tensione, in attesa di qualcosa di confuso, d'indefinito. Basta il più piccolo fruscìo nel vestibolo o un grido nel cortile perché egli sollevi la testa e tenda l'orecchio: vengono a chiamar lui? Non cercano lui? E il suo viso esprime un'estrema inquietudine e ripugnanza.

Mi piace il suo viso largo, con grandi zigomi, sempre pallido e addolorato, che riflette, come in uno specchio, l'anima tormentata dalla lotta e dal persistente terrore. Le sue smorfie sono strane e morbose, ma i tratti delicati, impressi al suo viso da una profonda e sincera sofferenza, sono ragionevoli e intelligenti, e gli occhi hanno un riflesso caldo e sano. Mi piace anche lui come persona, così affabile, servizievole e oltremodo delicato nei suoi rapporti con tutti, eccetto che con Nikíta. Se qualcuno lascia cadere un bottone o il cucchiaio, egli salta in fretta giù dal letto e lo raccatta. Ogni mattina dà il buon giorno ai compagni; andando a dormire augura loro la buona notte.

Oltre che nel continuo stato di tensione e nel fare smorfie, la sua follia si manifesta anche in qualche altra cosa. A volte di sera egli si avvolge nella sua veste da camera e, tremando in tutto il corpo e battendo i denti, comincia a camminare in fretta da un angolo all'altro e fra i letti. Sembra che abbia la febbre forte. Da come si ferma all'improvviso e lancia sguardi ai compagni, si vede che vorrebbe dire qualche cosa di molto importante, ma evidentemente, considerando che non lo ascolterebbero o non lo capirebbero, scuote con impazienza la testa e continua a camminare. Ma presto il desiderio di parlare prende il sopravvento su qualsiasi considerazione ed egli si abbandona e parla con calore e passione. Il suo discorso è disordinato, febbrile, come un delirio, a scatti e non sempre comprensibile, ma vi si sente, e nelle parole e nella voce, qualcosa di straordinariamente buono. Quando parla, riconoscete in lui il pazzo e l'uomo. È difficile riprodurre sulla carta il suo folle discorso. Parla egli della bassezza umana, della violenza che calpesta il diritto, della vita bellissima che col tempo ci sarà sulla terra, delle inferriate alle finestre che gli ricordano ad ogni minuto la stupidità e la crudeltà degli oppressori. Ne vien fuori un disordinato, sconnesso guazzabuglio di motivi vecchi sì, ma non ancora cantati fino in fondo.

 

II

 

 

Dodici o quindici anni or sono viveva in città, sulla strada principale, in una casa propria, l'impiegato Gròmov, un uomo posato ed agiato. Egli aveva due figli: Sergèj e Ivàn. Quando era ancora studente del quarto corso, Sergèj si era ammalato di tisi galoppante ed era morto e questa morte era stata come il principio di tutta una serie di sventure che a un tratto si erano abbattute sulla famiglia Gròmov. Una settimana dopo i funerali di Sergèj, il vecchio padre era stato rinviato a giudizio per frode e peculato e presto era morto di tifo all'ospedale della prigione. La casa e tutta la mobilia erano state vendute all'asta, e Ivàn Dmítrič e sua madre eran rimasti del tutto senza mezzi.

Prima, quando il padre era vivo, Ivàn Dmítrič, che viveva a Pietroburgo per frequentarvi l'università, riceveva da sessanta a settanta rubli al mese e non aveva saputo cosa fosse il bisogno; e così gli era toccato di cambiare bruscamente il tenore di vita. Aveva dovuto dare dal mattino alla sera lezioni per pochi soldi, occuparsi di copiature e tuttavia soffrir la fame, dato che tutto il guadagno lo mandava alla madre per il suo sostentamento. Ivàn Dmítrič non aveva sopportato una simile vita; s'era perduto d'animo, era diventato malaticcio e, lasciata l'università, se n'era tornato a casa. Qui, nella cittadina, per mezzo di protezioni, aveva ottenuto un posto d'insegnante nella scuola del distretto, ma, non andando d'accordo coi colleghi e non piacendo agli scolari, ben presto aveva lasciato l'impiego. La madre era morta. Per sei mesi egli era rimasto senza posto, nutrendosi soltanto di pane e acqua, poi era entrato come usciere al tribunale. Aveva occupato questa carica fino a che non era stato licenziato per malattia.

Mai, neppure nei suoi giovani anni di studente, egli aveva dato l'impressione di un uomo sano. Era sempre pallido, magro, soggetto a infreddature, mangiava poco, dormiva male. Un bicchierino di vino gli faceva girar la testa e gli provocava una crisi di nervi. Si era sentito sempre attratto dalla compagnia, ma, a causa del suo carattere irritabile e diffidente, non era diventato intimo di nessuno e non aveva avuto amici. Sui concittadini si pronunciava solo con disprezzo, dicendo che la loro grossolana ignoranza e la loro vita animale sonnacchiosa gli sembravano abiette e ripugnanti. Parlava con voce tenorile, alta e calorosa, e non altrimenti che con disgusto e indignazione, oppure con entusiasmo e meraviglia, ma sempre sinceramente. Di qualunque cosa gli si parlasse, metteva sempre capo allo stesso punto, che è opprimente, cioè, e noioso vivere in città, che la società non ha interessi elevati, conduce una vita opaca, assurda, variata soltanto dalla violenza, dalla grossolana depravazione e dall'ipocrisia; i furfanti sono sazi e vestiti, gli onesti invece si cibano delle briciole; ci vogliono delle scuole, un giornale locale di tendenza onesta, un teatro, delle letture pubbliche e la fusione delle forze intellettuali; è necessario che la società prenda coscienza di sé e ne abbia orrore. Nei suoi giudizi sugli uomini adoperava colori densi, solo il bianco e il nero, senza ammettere sfumature; l'umanità si divideva per lui in onesti e furfanti; non c'era via di mezzo. Delle donne e dell'amore parlava sempre appassionatamente, con entusiasmo, ma non era stato mai innamorato.

In città, nonostante l'asprezza dei suoi giudizi e la sua nervosità, gli volevano bene e in sua assenza lo chiamavano affettuosamente Vanja. La sua innata delicatezza, il carattere servizievole, l'onestà, la purezza dei costumi e la redingote logora, l'aspetto malaticcio e le sventure familiari ispiravano un sentimento di bontà, di tenerezza e di tristezza; inoltre egli era ben istruito, aveva letto molto e, secondo l'opinione dei suoi concittadini, sapeva tutto e passava in città per una specie di enciclopedia.

Egli leggeva moltissimo. Spesso sedeva al circolo, tirandosi nervosamente la barbetta, e sfogliava riviste e libri; e dal suo viso si vedeva che non leggeva, ma inghiottiva, senza avere tempo di masticare. Bisogna pensare che la lettura fosse una delle sue abitudini morbose, poiché egli si gettava con la stessa avidità su tutto ciò che gli cadeva sottomano, anche su vecchi giornali e calendari. A casa leggeva sempre stando coricato.

 

III

 

 

Una volta, una mattina di autunno, col bavero del cappotto tirato su e pestando il fango per vicoli e cortiletti sporchi, Ivàn Dmítrič era andato da un certo borghese, per ricevere del denaro in base a una sentenza. Il suo umore era tetro, come sempre la mattina In un vicolo si era incontrato con due arrestati in catene, scortati da quattro soldati coi fucili. Per l'addietro Ivàn Dmítrič aveva incontrato spessissimo degli arrestati, e ogni volta gli avevano ispirato un sentimento di compassione e di disagio, ma questa volta l'incontro gli aveva fatto un'impressione specialmente strana. Gli era parso, tutt'a un tratto, chissà perché, che anche lui avrebbero potuto mettere in catene e trascinarlo per il fango in prigione. Dopo essere stato dal borghese, mentre tornava a casa, aveva incontrato presso la porta un ispettore di polizia suo conoscente che lo aveva salutato e aveva fatto con lui alcuni passi nella strada e, chissà perché, questo gli era sembrato sospetto. A casa, per tutta la giornata, non gli erano usciti di testa gli arrestati e i soldati coi fucili, e una incomprensibile inquietudine dell'animo gli aveva impedito di leggere e di concentrarsi. La sera non aveva acceso il lume, e la notte non aveva dormito, pensando sempre che lo potevano arrestare, incatenare e mettere in prigione. Sapeva di non avere sulla coscienza alcuna colpa e poteva garantire che anche in avvenire non avrebbe né ucciso, né incendiato, né rubato; ma è forse difficile commettere un delitto fortuitamente, senza volere, e non è forse possibile una calunnia e, infine, un errore giudiziario? Non per nulla infatti la secolare esperienza popolare insegna che dalla bisaccia del pezzente e dalla prigione non è garantito nessuno. Quanto a un errore giudiziario, con l'attuale procedura, è possibilissimo e non sarebbe nulla di eccezionale. Le persone che per le loro funzioni vengono a contatto con la sofferenza altrui, per esempio i giudici, i poliziotti, i medici, con l'andar del tempo, per forza d'abitudine, si induriscono a tal punto che, anche senza volerlo, trattano i loro clienti soltanto in modo formale; da questo lato non differiscono per nulla dal contadino che nelle retrocorti sgozza i montoni e i vitelli e non fa caso al sangue. Dato il suo atteggiamento formale, spietato verso la personalità, per privare un innocente di tutti i suoi diritti e sostanze e mandarlo ai lavori forzati, al giudice occorre una sola cosa: il tempo. Solo il tempo di applicare quelle tali formalità per cui a un giudice pagano lo stipendio, e poi tutto è finito. Cerca poi giustizia e difesa in questa piccola, sporca cittaduzza, a duecento verste dalla ferrovia! E non è ridicolo pensare alla giustizia quando ogni violenza è accolta dalla società come una necessità ragionevole e rispondente allo scopo, e ogni atto di clemenza, per esempio un verdetto di assoluzione, suscita una vera esplosione del sentimento di malcontento e di vendetta?

Il mattino seguente Ivàn Dmítrič si era alzato pieno di spavento, col sudore freddo in fronte, ormai convinto che, lo potevano arrestare da un momento all'altro. «Se i penosi pensieri di ieri non mi hanno lasciato per tanto tempo,» pensava, «vuol dire che in essi c'è una particella di verità. Non potevano infatti venirmi in mente senza alcun motivo».

Un poliziotto senza affrettarsi passa sotto le sue finestre: non è per nulla! Ecco, due uomini si sono fermati presso la casa e tacciono. Perché tacciono?

E per Ivàn Dmítrič erano subentrati giorni e notti di tortura. Tutti quelli che passavano sotto le sue finestre e che entravano nel cortile gli parevano spie o agenti di polizia segreta. A mezzogiorno, di solito, il capo della polizia locale passava per la strada, in carrozza a due cavalli; andava dal suo podere fuori città alla direzione di polizia, ma ad Ivàn Dmítrič era cominciato a sembrare che egli andasse troppo in fretta e con una certa espressione speciale, evidentemente per andare ad annunciare che in città era comparso un grosso delinquente. Ivàn Dmítrič sussultava a ogni scampanellata e a ogni colpo bussato al portone, soffriva quando incontrava dalla padrona di casa una persona nuova; imbattendosi in poliziotti o gendarmi, si metteva a sorridere e a fischiettare per sembrare indifferente. Non chiudeva ormai occhio tutte le notti, ma russava forte e sospirava, come addormentato, perché la padrona avesse la sensazione ch'egli dormiva; infatti, se non dormiva, voleva dire che lo tormentavano i rimorsi di coscienza: quale prova evidente! I fatti e la sana logica lo convincevano che tutte queste paure erano sciocchezze e psicopatia, che nell'arresto e nella prigione, a guardar le cose con larghezza, non c'è in sostanza nulla di terribile, purché la coscienza sia tranquilla; ma quanto più egli ragionava con intelligenza e con logica, tanto più forte e tormentosa diventava l'agitazione del suo spirito. Ciò faceva pensare a un eremita che voglia tagliarsi una piccola radura in una foresta vergine, ma quanto più alacremente lavora di scure tanto più folto e rigoglioso il bosco ricresce. Ivàn Dmítrič, alla fin fine, vedendo che era inutile, aveva smesso di ragionare e s'era abbandonato tutto alla disperazione e alla paura.

Aveva cominciato a isolarsi e a fuggire la gente. Il suo impiego già prima gli ripugnava; gli divenne insopportabile. Temeva che in qualche modo lo compromettessero, che a sua insaputa gli ficcassero in tasca del denaro e poi lo accusassero di corruzione, oppure temeva di commettere egli stesso inavvertitamente negli atti legali un errore equivalente a una frode o di perdere denaro altrui. Lo strano è che mai in altri tempi il suo pensiero era stato così flessibile e così inventivo come ora, che ogni giorno escogitava mille diversi pretesti per temere seriamente per la propria libertà e per il proprio onore. In compenso era diminuito in modo sensibile il suo interesse per il mondo esteriore e in particolare per i libri, e la memoria aveva cominciato a tradirlo fortemente.

In primavera, quando la neve si era sciolta, in un burrone presso il cimitero erano stati trovati due cadaveri semiputrefatti - di una vecchia e di un ragazzo, - con tracce di morte violenta. In città non si era parlato che di questi cadaveri e degli ignoti assassini. Ivàn Dmítrič, perché non pensassero che li aveva uccisi lui, andava per le strade sorridente e, incontrando dei conoscenti, impallidiva, arrossiva e cominciava ad affermare che non c'è delitto più infame dell'assassinio di persone deboli e indifese. Ma questa menzogna ben presto lo aveva stancato e, dopo qualche riflessione, aveva deciso che nella sua situazione meglio di tutto era nascondersi nella cantina della padrona di casa. In cantina era rimasto un giorno, poi una notte e un altro giorno, soffrendo molto per il freddo; infine, atteso il crepuscolo, s'era introdotto di soppiatto, come un ladro, nella propria camera. Fino all'alba era rimasto in piedi in mezzo alla camera senza muoversi, in ascolto. Il mattino presto, prima dello spuntar del sole, erano venuti dalla padrona di casa dei fumisti. Ivàn Dmítrič sapeva bene che erano venuti per spostare la stufa in cucina, ma la paura gli aveva suggerito che erano poliziotti travestiti da fumisti. Quatto quatto se n'era uscito dall'appartamento e, preso dal terrore, senza berretto né soprabito, s'era messo a fuggire per la strada. I cani lo avevano inseguito abbaiando, un contadino gli aveva gridato dietro qualcosa, negli orecchi gli fischiava l'aria, e a Ivàn Dmítrič sembrava che tutta la violenza del mondo si fosse abbattuta sulla sua schiena e lo perseguitasse.

Lo avevano fermato, lo avevano portato a casa e avevano mandato la padrona di casa a chiamare il medico. Il dottore Andréj Efímyč, del quale parleremo più innanzi, gli aveva prescritto delle compresse fredde sulla testa e delle gocce di lauroceraso, poi aveva scosso tristemente il capo e se n'era andato dicendo alla padrona di casa che non sarebbe ritornato perché non c'è ragione di impedire alla gente di impazzire. Poiché a casa Ivàn Dmítrič non aveva di che vivere e di che curarsi, ben presto lo avevano mandato all'ospedale dove lo avevano messo nella sala delle malattie veneree. Egli non dormiva tutta la notte faceva i capricci e disturbava gli ammalati e di lì a poco, per ordine di Andréj Efímyč, era stato trasferito nella sala N. 6.

Dopo un anno, in città si erano già dimenticati di Ivàn Dmítrič, e i suoi libri, ammucchiati dalla padrona di casa in una slitta sotto la tettoia, erano stati portati via dai monelli.

 

IV

 

 

Il vicino di sinistra di Ivàn Dmítrič è, come ho già detto, l'ebreo Mojsèjka; il vicino di destra è un contadino tutto un pezzo di grasso, quasi sferico, dalla faccia ottusa e priva di ogni espressione. È un bruto inerte, vorace e sudicio, che già da un pezzo ha perduto la facoltà di pensare e di sentire. Emana da lui incessantemente un fetore acuto, soffocante.

Nikíta, che deve pulire dov'egli sporca, lo picchia terribilmente, con tutta la sua energia, senza risparmiare i pugni; e il terribile non è che lo battano - a questo ci si può abituare - ma che questo bruto inebetito non risponda ai colpi né con un suono, né con un movimento, né con un'espressione degli occhi, ma si dondoli soltanto leggermente, come una pesante botte.

Il quinto e ultimo inquilino della sala N. 6 è un borghese, un tempo già impiegato come ripartitore alla posta, un biondo piccolo, sparuto, con un viso buono ma un po' scaltro. A giudicare dai suoi occhi calmi, intelligenti, che guardano sereni ed allegri, egli deve avere una grande opinione di sé e nascondere un segreto molto importante e piacevole. Tiene sotto il guanciale e sotto il materasso qualcosa che non mostra a nessuno, non per paura che gliela possano portar via o rubare, ma per ritrosia. A volte si avvicina alla finestra e, voltata la schiena ai compagni, si attacca sul petto una cosa e la guarda a testa china; se in questo momento ci si avvicina a lui, si confonde e si strappa qualche cosa dal petto. Ma non è difficile indovinare il suo segreto.

«Congratulatevi con me,» dice egli spesso a Ivàn Dmítrič, «sono stato insignito dell'ordine di S. Stanislao di seconda classe con la stella. La seconda classe con la stella si dà soltanto agli stranieri, ma, per me, non so perché, hanno voluto fare un'eccezione,» e sorride, stringendosi perplesso nelle spalle. «Sì, lo confesso, non me l'aspettavo!»

«Io in queste cose non ci capisco niente,» dichiara cupo Ivàn Dmítrič.

«Ma sapete che cosa otterrò presto o tardi?» continua l'ex-ripartitore strizzando furbescamente gli occhi. «Otterrò senza fallo ‹La Stella Polare› svedese. È un ordine, che mette conto di darsi da fare per averlo. Croce bianca e nastro nero. È bellissimo.»

Probabilmente in nessun altro luogo la vita è così monotona come nel padiglione. La mattina i malati, ad eccezione del paralitico e del contadino grasso, si lavano nel vestibolo in un bigoncio e si asciugano con le falde della veste da camera; dopo bevono nelle ciotole di stagno il tè che Nikíta porta loro dall'edificio principale. Ne spetta una ciotola a ciascuno. A mezzogiorno mangiano la minestra di cavoli acidi e la zuppa di legumi; la sera la zuppa di legumi che è rimasta dal pranzo. Negli intervalli stanno coricati, dormono, guardano dalle finestre e camminano da un angolo all'altro. E così ogni giorno. Anche l'ex-ripartitore parla sempre delle medesime decorazioni.

Ospiti freschi se ne vedono raramente nella sala N. 6. Il dottore da lungo tempo non accoglie più nuovi pazzi, e di gente che ami visitare i manicomi ce n'è poca a questo mondo. Una volta ogni due mesi viene nel padiglione Semën Làzarič, il barbiere. Di come egli tosi i pazzi e come Nikíta lo aiuti, e da quale costernazione siano presi i malati ad ogni apparizione del barbiere ubriaco e sorridente, non parleremo neppure.

Eccettuato il barbiere, nessuno getta uno sguardo nel padiglione. I malati sono condannati a vedere ogni giorno soltanto Nikíta.

Del resto non è molto che per l'ospedale è corsa una voce abbastanza strana.

Si è sparsa cioè la voce che il dottore ha cominciato a frequentare la sala N. 6.

 

V

 

 

Strana voce!

Il dottore Andrèj Efímyč Ràgin è un uomo eccezionale nel suo genere. Dicono che nella sua prima giovinezza fosse molto pio e si preparasse alla carriera ecclesiastica, e che, terminati nel 1863 i corsi del ginnasio, si proponesse di entrare all'accademia ecclesiastica, ma che suo padre, dottore in medicina e chirurgia, si fosse fatto beffe di lui velenosamente, dichiarandogli in modo categorico che non lo avrebbe considerato più suo figlio se si fosse fatto prete. Sino a che punto ciò fosse vero, non so, ma lo stesso Andrèj Efímyč più di una volta confessò che non aveva sentito mai vocazione per la medicina e in generale per le scienze speciali.

Comunque fosse, finiti i corsi della facoltà di medicina, egli non si fece prete. Devozione non ne manifestava e ad un uomo di chiesa, al principio della sua carriera di medico, assomigliava tanto poco quanto ora.

Il suo aspetto esteriore è duro, rozzo, contadinesco; con la sua faccia, la sua barba, i capelli lisci, la complessione robusta e goffa, fa pensare a un oste di strada maestra, mangione intemperante e duro. Il suo viso severo è solcato di vene azzurre, gli occhi son piccoli e il naso rosso. All'alta statura e alle larghe spalle egli unisce mani e piedi enormi: un pugno e vi ammazza - almeno così sembra. Ma il suo modo di fare è calmo e la sua andatura circospetta, furtiva; incontrando qualcuno in uno stretto corridoio, è sempre il primo a fermarsi, per lasciare il passo, e con una voce non di basso, come ci si aspetterebbe, ma sottile e delicata di tenore, dice: «scusate!». Ha sul collo un piccolo gonfiore che gli impedisce di portare i colletti duri inamidati, e perciò porta sempre delle camicie flosce di tela o di indiana. In generale, non veste come un dottore. Va in giro col medesimo vestito per dieci anni, e il nuovo, che di solito egli compera nella bottega di un ebreo, sembra addosso a lui non meno usato e sgualcito del vecchio; sempre con la stessa redingote riceve i malati, pranza e va a far visita; e ciò non per avarizia, bensì per assoluta noncuranza del proprio aspetto esteriore.

Quando Andrèj Efímyč era arrivato in città per occupare il suo posto, l'«istituto di carità» si trovava in una situazione terribile. Nelle sale, nei corridoi e nel cortile dell'ospedale era difficile respirare per il fetore. Gli inservienti, le infermiere e i loro bambini dormivano nelle sale insieme coi malati. Si lamentavano che la vita era impossibile a causa degli scarafaggi, delle cimici e dei topi. Nel reparto chirurgico non si riusciva a debellare la risipola. Per tutto l'ospedale c'erano soltanto due bisturi e nemmeno un termometro; nelle vasche da bagno si tenevano le patate. Il custode, la guardarobiera e l'aiuto-chirurgo saccheggiavano i malati, e del vecchio dottore, il predecessore di Andrèj Efímyč, si raccontava che vendesse di nascosto l'alcole dell'ospedale e che con le infermiere e le malate si fosse creato un harem. In città si conoscevano benissimo questi disordini e perfino si esageravano, ma li si considerava con indifferenza; alcuni li giustificavano col fatto che all'ospedale ci vanno soltanto i piccoli borghesi e i contadini, i quali non possono essere scontenti, dato che a casa vivono molto peggio che all'ospedale; non si possono certo trattare a fagiani! Altri poi, come giustificazione, dicevano che una città senza l'aiuto del consiglio provinciale non era in grado di mantenere un buon ospedale; grazie a Dio, uno c'era, sia pur cattivo. E il consiglio provinciale di recente fondazione non apriva una casa di cura né in città né fuori, perché la città aveva già il suo ospedale.

Esaminato l'ospedale, Andrèj Efímyč era arrivato alla conclusione che si trattava di una istituzione immorale e al massimo grado nociva alla salute degli abitanti. Secondo la sua opinione, la cosa più saggia sarebbe stato di mettere in libertà i malati e chiudere l'ospedale. Ma rifletté che per questo non bastava la volontà di uno solo e che sarebbe stato inutile: la sporcizia fisica e morale cacciata da un posto, passa in un altro; bisogna attendere che se ne vada da sé. Inoltre, se degli uomini avevano aperto un ospedale e lo tolleravano, vuol dire che era loro necessario; i pregiudizi e tutte le brutture e turpitudini della vita sono utili, perché col tempo si trasformano in qualche cosa di utile, come il letame in humus. Sulla terra non vi è nulla di tanto buono che non abbia avuta la sua prima origine da qualche porcheria.

Assunta la carica, Andrèj Efímyč si era comportato con evidente indifferenza per quanto riguardava gli abusi. Aveva chiesto soltanto agli inservienti e alle infermiere di non dormir nelle sale dei malati e aveva fatto fare due armadi per gli strumenti; il custode, la guardarobiera, l'aiuto-chirurgo e la risipola erano rimasti ai loro posti.

Andrèj Efímyč ama straordinariamente l'intelligenza e l'onestà, ma non ha abbastanza carattere e fede nel suo diritto per instaurare attorno a sé una vita intelligente e onesta. Comandare, proibire, insistere, positivamente non sono per lui. Come se abbia fatto voto di non alzar mai la voce e di non far uso del modo imperativo. Dire: «da'!» o «porta!» gli è difficile; quando vuol mangiare, tossicchia indeciso e dice alla cuoca: «Se mi si desse del tè...» oppure: «Se potessi pranzare...».Dire poi al custode che smetta di rubare, o scacciarlo, o sopprimere del tutto questa funzione inutile e parassitaria, è assolutamente al di sopra delle sue forze. Quando ingannano Andrèj Efímyč o lo adulano, oppure gli presentano per la firma un conto che sanno falso, egli diventa rosso come un gambero e si sente colpevole, ma il conto lo firma; quando i malati si lamentano con lui per la fame o contro le infermiere grossolane, si confonde e come un colpevole borbotta:

«Bene, bene, vedrò poi... Probabilmente qui c'è un malinteso...»

Nei primi tempi Andrèj Efímyč lavorava con molto zelo. Riceveva ogni giorno dal mattino fino all'ora di pranzo, faceva operazioni e si occupava perfino di ostetricia. Le signore dicevano di lui che era pieno di attenzioni e che diagnosticava a meraviglia le malattie, specialmente quelle dei bambini e delle donne. Ma con l'andar del tempo la professione gli era venuta manifestamente a noia per la sua monotonia e la sua evidente inutilità. Oggi visita trenta malati, e l'indomani son diventati trentacinque, posdomani quaranta, e così di giorno in giorno, di anno in anno, e la mortalità in città non diminuisce e i malati non cessano di venire. Portare un serio aiuto a quaranta malati che vengono a farsi visitare dalla mattina fino all'ora di pranzo è fisicamente impossibile, quindi senza volerlo s'inganna il prossimo. Se nel corso dell'anno si sono ricevuti dodicimila malati, vuoi dire, ragionando alla buona, avere ingannato dodicimila persone. Quanto a mettere i malati gravi nelle sale e occuparsi di loro secondo le regole della scienza, è pure impossibile, perché le regole ci sono, ma la scienza no; e se si lascia la filosofia e si seguono pedantescamente le regole, come gli altri medici, prima di tutto occorrono pulizia e ventilazione e non sporcizia, un cibo sano e non una minestra di cavoli acidi puzzolenti, buoni collaboratori e non dei ladri.

E perché impedire agli uomini di morire, se la morte è la fine normale e legittima di ognuno? Che si guadagna se un mercante, un funzionario vive cinque o dieci anni di più? E se si vede lo scopo della medicina nell'alleviare le sofferenze coi farmaci, involontariamente si insinua la domanda: perché alleviarle? In primo luogo, a quanto si dice, le sofferenze portano l'uomo alla perfezione, e in secondo luogo, se l'umanità impara realmente ad alleviare le proprie sofferenze con pillole e gocce, essa rigetta in pieno e religione e filosofia, nelle quali finora ha trovato non soltanto una difesa contro tutti i mali, ma persino la felicità. Puškin prima di morire provò dei tormenti orribili; il povero Heine rimase paralizzato per alcuni anni; perché dunque non dovrebbero soffrire un qualsiasi Andrèj Efímyč o una Matrëna Sàvišna la cui vita è priva di contenuto e sarebbe del tutto vuota e simile a quella delle amebe, se non ci fosse la sofferenza?

Oppresso da tali ragionamenti, Andrèj Efímyč aveva lasciato cader le braccia e aveva smesso di andare all'ospedale tutti i giorni.

 

VI

 

 

La sua vita scorre così. Di solito si alza la mattina verso le otto, si veste e prende il tè. Poi si siede nel suo studio a leggere o va all'ospedale. Lì, all'ospedale, in uno stretto e buio corridoio stanno i malati dell'ambulatorio, in attesa della visita. Davanti a loro, picchiando gli stivali sul pavimento di mattoni, passano correndo gli inservienti e le infermiere, passano gli sparuti malati in veste da camera, si portano via i morti e i vasi sporchi, dei bambini piangono, soffia una corrente d'aria. Andrèj Efímyč sa che per i febbricitanti, i tubercolotici e in generale per i malati impressionabili un simile ambiente è un tormento, ma che farci? Nella sala delle visite gli viene incontro il suo aiutante Sergèj Sergèič, un uomo piccolo, grasso, dal viso gonfio raso e ben lavato, dai modi morbidi e affabili, e nel suo nuovo e ampio costume più simile a un senatore che a un aiuto-chirurgo. In città egli ha un'immensa clientela, porta la cravatta bianca e si ritiene molto più competente del dottore che non ha affatto clientela. In un angolo dell'ambulatorio, in una edicola, è una grande immagine sacra con una pesante lampada, e lì accanto un grosso cero coperto di un velo bianco; alle pareti sono appesi i ritratti dei vescovi, la veduta del monastero di Svjatogòrsk e delle corone di fiordalisi secchi. Sergèj Sergèič è religioso e ama le cose sacre. L'immagine sacra è stata posta per sua iniziativa; alla domenica nell'ambulatorio uno dei malati, per ordine suo, legge ad alta voce un canto sacro, e dopo la lettura Sergèj Sergèič fa il giro di tutte le sale con un piccolo turibolo e le incensa.

I malati sono molti, ma il tempo è poco, e perciò tutto si limita ad un breve interrogatorio e alla distribuzione di qualche medicina, come un unguento o l'olio di ricino. Andrèj Efímyč sta seduto con la guancia appoggiata al pugno e, meditabondo, pone le domande macchinalmente. Sergèj Sergèič sta anche lui seduto, si frega le mani e di tanto in tanto interloquisce.

«Ci ammaliamo, e ci troviamo alle prese col bisogno,» dice, «perché preghiamo male Iddio misericordioso. Sì!»

Durante l'ambulatorio, Andrei Efímyč non fa alcuna operazione; da tempo ne ha perduto l'abitudine e la vista del sangue gli procura un'emozione spiacevole. Quando deve aprir la bocca a un bambino per guardargli in gola, e il bambino grida e si difende con le manine, a causa del rumore agli orecchi gli gira la testa e gli spuntano le lacrime agli occhi. Egli si affretta a prescrivere una medicina e fa un gesto perché la donna porti via il bimbo al più presto.

La timidezza dei malati e la loro stupidità, la presenza del pio Sergèj Sergèič, i ritratti alle pareti e le sue stesse domande, che ripete immutabilmente da più di vent'anni, ben presto lo annoiano. Ed egli se ne va, dopo aver visitato cinque o sei malati. I rimanenti li visita senza di lui il suo assistente.

Col gradito pensiero che, grazie a Dio, da tempo non ha alcuna clientela privata e che nessuno verrà a disturbarlo, Andrèj Efímyč, arrivato a casa, si siede immediatamente a tavolino nel suo studio e si mette a leggere. Legge moltissimo e sempre con gran piacere. Metà del suo stipendio se ne va in libri e di sei stanze del suo alloggio tre sono ingombre di libri e di vecchie riviste. Più di tutto egli ama le opere di storia e di filosofia; quanto poi alla medicina, è abbonato soltanto a «Il Medico» che comincia sempre a leggere dalla fine. La lettura si prolunga ogni volta parecchie ore senza interruzione e non lo affatica. Non legge con quella fretta e con quella foga con cui leggeva un tempo Ivàn Dmítrič, ma lentamente, con penetrazione, fermandosi spesso nei punti che gli piacciono o che non capisce. Accanto al libro c'è sempre una piccola caraffa di vodka e un cetriolo salato o una mela in conserva, messa direttamente sul panno senza piattino. Ogni mezz'ora, senza levar gli occhi dal libro, egli si versa un bicchierino di vodka e lo beve, poi, senza guardare, cerca a tastoni il cetriolo e ne mordicchia un pezzetto.

Alle tre si avvicina con circospezione alla porta della cucina e, tossendo, dice: «Dàr'juška, se potessi pranzare...»

Dopo il pranzo, abbastanza cattivo e grossolano, Andrèj Efímyč cammina per le sue stanze, con le braccia incrociate sul petto, e pensa. Suonano le quattro, poi le cinque, ed egli continua a camminare e a pensare. Di tanto in tanto stride la porta della cucina e ne spunta il viso rosso, assonnato di Dàr'juška.

«Andrèj Efímyč, non è tempo di bere la birra?» domanda con aria preoccupata.

«No, non è ancor tempo...» risponde. «Aspetterò... aspetterò...»

Verso sera arriva abitualmente il direttore della posta, Michaíl Aver'jànyč, l'unica persona, in città, la cui compagnia non pesi ad Andrèj Efímyč. Michaíl Aver'jànyč era un tempo un ricchissimo proprietario e serviva nella cavalleria, ma si era rovinato e per bisogno, già sotto la vecchiaia, era dovuto entrare nell'amministrazione delle poste. Ha un'aria arzilla e sana, delle magnifiche fedine grigie, delle maniere educate e una voce forte e piacevole. È buono e sensibile, ma irascibile. Quando alla posta qualcuno reclama, non si dichiara mai d'accordo o semplicemente comincia a discutere, ma diventa scarlatto, trema in tutto il corpo e grida con voce tonante: «Tacete!», e così l'ufficio delle poste s'è da un pezzo acquistata la fama di un ufficio in cui è terribile capitare. Michaíl Aver'jànyč stima e ama Andrèj Efímyč per la sua cultura e per la sua nobiltà d'animo; gli altri abitanti invece li tratta dall'alto in basso come subordinati.

«Eccomi!» grida, entrando da Andrèj Efímyč. «Salve, mio caro! Forse vi sono già venuto a noia, eh?»

«Al contrario, son felicissimo,» gli risponde il dottore. «Sono sempre felice di vedervi.»

I due amici si siedono sul divano, nello studio, e per qualche tempo fumano in silenzio.

«Dàr'juška, se ci portasse della birra!» dice Andrèj Efímyč.

La prima bottiglia la vuotano pure in silenzio: il dottore soprappensiero, Michaíl Aver'jànyč con l'aria allegra e vivace di un uomo che ha da raccontare qualcosa di molto interessante. La conversazione la comincia sempre il dottore.

«Che peccato,» egli dice con voce lenta e piana, scotendo la testa e senza guardare negli occhi il suo interlocutore (egli non guarda mai negli occhi), «che gran peccato, stimatissimo Michaíl Aver'jànyč, che nella nostra città non ci sia proprio nessuno che sappia e ami tenere una conversazione intelligente e interessante. È per noi un'immensa privazione. Neppure l'intelligencija si solleva al disopra della banalità; il livello del suo sviluppo, ve l'assicuro, non è per nulla superiore a quello delle classi basse.»

«Perfettamente vero. D'accordo.»

«Voi stesso vi degnate di riconoscere,» continua piano il dottore dopo una pausa, «che a questo mondo tutto è insignificante e senza interesse, fuorché le supreme manifestazioni astratte dello spirito umano. Lo spirito traccia un limite netto fra l'animale e l'uomo, fa pensare alla divinità di quest'ultimo e in certo grado supplisce anche all'immortalità che gli manca. Partendo da ciò lo spirito è l'unica sorgente possibile di godimento. Noi invece non vediamo né sentiamo intorno a noi l'intelligenza; vuol dire che siamo privati dal godimento. A dire il vero, abbiamo dei libri, ma questo è tutt'altra cosa che la conversazione viva e le relazioni con gli uomini. Se mi permettete un paragone non del tutto felice, i libri sono le note musicali e la conversazione è il canto.»

«Perfettamente vero.»

Subentra il silenzio. Dalla cucina esce Dàr'juška e con una impressione di ottusa afflizione, appoggiando il viso sul pugno, si ferma sulla porta ad ascoltare.

«Eh!» sospira Michaíl Aver'jànyč. «Vorreste dell'intelligenza dalla gente d'oggi!»

Ed egli racconta come un tempo si vivesse in modo sano, allegro e interessante, quale saggia intelligencija ci fosse in Russia e come avesse posto in alto le idee di onore e d'amicizia. Si davan denari a prestito senza ricevuta e si stimava un'infamia il non tendere una mano soccorrevole al compagno bisognoso. E che imprese, che avventure, che battaglie c'erano, quali compagni e quali donne! E il Caucaso, che meravigliosa regione! La moglie di un comandante di battaglione, donna strana, si vestiva da ufficiale e andava di notte sulle montagne, sola, senza guida. Dicono che in un aúl avesse un romanzo con un certo principotto.

«Regina del cielo...» sospira Dàr'juška.

«E come si beveva! Come si mangiava! E che liberali temerari c'erano allora!»

Andrèj Efímyč ascolta e non sente; egli pensa a qualche cosa e centellina la birra.

«Io sogno spesso delle persone intelligente e le conversazioni che ho con loro,» dice egli a un tratto, interrompendo Michaíl Aver'jànyč. «Mio padre mi diede un'istruzione eccellente, ma sotto l'influenza delle idee del Sessanta mi costrinse a farmi medico. Mi pare che, se allora non l'avessi ascoltato, mi troverei ora proprio al centro del movimento intellettuale. Probabilmente sarei membro di qualche facoltà. Certo, nemmeno l'ingegno è eterno e passa, ma voi sapete già perché io abbia un debole per esso. La vita è una spiacevole trappola. Quando un uomo che pensa arriva all'età virile e raggiunge la maturità della coscienza, involontariamente, si sente come in una trappola senza uscita. Infatti egli è chiamato contro sua volontà, per certe circostanze fortuite, dal nulla alla vita... Perché? Egli vorrebbe conoscere il senso e lo scopo dell'esistenza, ma non glielo dicono, oppure gli dicono delle assurdità; egli picchia, ma non gli si apre; e sopravviene la morte, anch'essa contro la sua volontà. Ed ecco che, come in una prigione gli uomini, legati da una comune sventura, si sentono più sollevati quando si riuniscono, così anche nella vita non ci si accorge della trappola quando degli uomini portati all'analisi e alle generalizzazioni si riuniscono e passano il tempo a scambiarsi delle idee libere e ardite. In questo senso l'intelligenza è un godimento incomparabile.»

«Perfettamente vero.»

Senza guardare negli occhi il suo interlocutore, con voce piana, e con pause, Andrèj Efímyč continua a parlare delle persone intelligenti e delle conversazioni con esse, e Michaíl Aver'jànyč lo ascolta ed annuisce: «Perfettamente vero.»

«Ma voi non credete all'immortalità dell'anima?» domanda a un tratto il direttore della posta.

«No, stimatissimo Michaíl Aver'jànyč, non ci credo né ho fondamento per crederci.»

«Devo confessare che anch'io ne dubito. Ma tuttavia c'è in me come un sentimento ch'io non morrò mai. ‹Ohi,› penso fra me, ‹vecchio barbogio, è tempo di morire!› Ma sento nell'anima non so che vocina: ‹Non crederci, non morrai!›...»

Poco dopo le dieci Michaíl Aver'jànyč se ne va. Indossando in anticamera la pelliccia, egli dice con un sospiro:

«Però in che buco sperduto ci ha cacciati il destino! Il più seccante è che qui ci toccherà anche morire. Eh!...»

 

VII

 

 

Accompagnato l'amico, Andrèj Efímyč si siede al tavolino e si rimette a leggere. Non un suono rompe il silenzio della sera e poi della notte, e il tempo pare si arresti e si irrigidisca insieme col dottore sul libro e pare che nulla esista oltre a questo libro e alla lampada col paralume verde. Il viso rozzo, da contadino, del dottore si rischiara a poco a poco in un sorriso di commozione e di entusiasmo di fronte ai progressi dell'ingegno umano. «Oh! perché l'uomo non è immortale?» pensa egli. «A che scopo i centri e le circonvoluzioni cerebrali, a che scopo la vista, la parola, la coscienza, se tutto questo è destinato a tornare alla terra e, alla fin fine, a raffreddarsi insieme con la crosta terrestre e poi, per milioni di anni, turbinare senza senso e senza scopo con la terra attorno al sole? Perché dovesse raffreddarsi e poi turbinare, non era affatto necessario trarre l'uomo dal nulla con la sua elevata, quasi divina intelligenza, e poi, come per irrisione, trasformarlo in argilla.»

«La trasformazione della materia! Quale bassezza consolarsi con questo surrogato dell'immortalità! I processi incoscienti che si svolgono nella natura sono inferiori perfino alla stupidità umana, poiché nella stupidità c'è tuttavia coscienza e libertà, ma in quei processi non c'è proprio nulla. Solo un vile che ha di fronte alla morte più paura che dignità può consolarsi col fatto che il suo corpo col tempo vivrà nell'erba, in una pietra, in un rospo... Vedere la propria immortalità nella trasformazione della materia è così strano come predire un brillante avvenire a un astuccio di violino quando il prezioso strumento si è spezzato ed è divenuto inservibile.»

Quando battono le ore, Andrèj Efímyč si rovescia sulla spalliera della poltrona e chiude gli occhi per riflettere un poco. E all'improvviso, sotto l'influenza dei buoni pensieri che ha letto nel libro, getta uno sguardo sul suo passato e sul presente. Il passato è odioso ed è meglio non ricordarsene. Ma nel presente c'è lo stesso che nel passato. Egli sa che nel momento stesso in cui i suoi pensieri turbinano con la terra raffreddata attorno al sole, accanto al suo appartamento, nel corpo principale dell'ospedale, degli uomini languiscono nelle malattie e nella sporcizia fisica; forse qualcuno non dorme, alle prese con gli insetti, qualcuno è infetto di risipola e geme per la fasciatura troppo stretta; forse i malati giuocano a carte con le infermiere e bevono vodka. Nel corso dell'anno sono state ingannate dodicimila persone; tutta l'opera ospedaliera, come venti anni fa, è fondata sul ladrocinio, sui litigi, sui pettegolezzi, sul favoritismo, su una grossolana ciarlataneria, e l'ospedale continua ad essere un'istituzione immorale e al più alto grado dannosa per la salute degli abitanti. Egli sa che dietro le grate della sala N. 6 Nikíta batte i malati e che Mojsèika va ogni giorno per la città a chiedere l'elemosina.

D'altra parte, egli sa benissimo che negli ultimi venticinque anni nella medicina si è prodotta una trasformazione favolosa. Quand'egli studiava all'università, gli pareva che alla medicina sarebbe ben presto toccata la sorte dell'alchimia e della metafisica; ora invece, quando legge la notte, la medicina lo commuove e suscita in lui stupore e perfino entusiasmo. In realtà, quale inatteso splendore, quale rivoluzione! Grazie all'antisepsi si fanno delle operazioni che il grande Pirogòv considerava impossibili perfino in spe. Dei comuni medici provinciali si arrischiano a praticare la resezione dell'articolazione del ginocchio; su cento laparatomie un solo caso è mortale e la calcolosi è ritenuta tale sciocchezza che nemmeno se ne scrive. La sifilide si cura radicalmente. Ma la teoria dell'ereditarietà, l'ipnotismo, le scoperte di Pasteur e di Koch, l'igiene fondata sulla statistica, ma la nostra medicina russa provinciale? La psichiatria con la sua odierna classificazione delle malattie, coi suoi metodi di diagnosi e di cura, tutto questo, in confronto con quello che fu, è un vero e proprio El'brus. Adesso ai pazzi non si versa più acqua fredda sul capo, né si fa loro indossare la camicia di forza; si trattano umanamente e perfino, come scrivono sui giornali, si organizzano per loro spettacoli e balli. Andrèj Efímyč sa che, con le idee e i gusti di oggi, un'infamia come quella della sala N. 6 è possibile forse soltanto a duecento verste dalla ferrovia, in una cittadina dove il sindaco e tutti i consiglieri sono dei piccoli borghesi semianalfabeti, i quali vedono nel medico un mago in cui bisogna credere senza alcuna critica, anche se ti versa in bocca del piombo fuso; in un altro luogo il pubblico e i giornali già da un pezzo avrebbero fatto a pezzi questa piccola Bastiglia.

«E che dunque?» si domanda Andrèj Efímyč, aprendo gli occhi.«Che ne vien fuori? Antisepsi, e Koch, e Pasteur, ma la sostanza delle cose non è cambiata. Le cause dei morbi e la mortalità son sempre le stesse. Si organizzano dei balli e degli spettacoli per i pazzi, ma tuttavia non si mettono in libertà. Vuol dire che tutto è assurdità e vanità, e in sostanza non c'è alcuna differenza fra la miglior clinica dì Vienna e il mio ospedale.»

Ma l'afflizione e un sentimento simile all'invidia gli impediscono di essere indifferente. Forse deriva dalla stanchezza. La testa appesantita si china sul libro, egli pone sotto il viso le mani per star più soffice e pensa:

«lo servo ad un'opera dannosa e ricevo uno stipendio dalla gente che inganno; io non sono onesto. Per me stesso io sono un nulla, solo una particella dell'inevitabile male sociale: tutti gli impiegati del distratto sono dannosi e pigliano lo stipendio a sbafo... Della mia disonestà non sono quindi colpevole io, ma il tempo... Se fossi nato duecento anni più tardi, sarei stato un altro.»

Quando battono le tre, egli spegne la lampada e se ne va nella camera da letto. Di dormire non ha voglia.

 

VIII

 

 

Due anni or sono il consiglio provinciale largheggiò nelle spese e stanziò trecento rubli all'anno a titolo di sovvenzione per aumentare il personale medico nell'ospedale cittadino, fino all'apertura dell'ospedale provinciale, e come aiuto di Andrèj Efímyč fu chiamato in città un medico del distretto, Evgènij Fëdorovič Chòbotov. È questi un uomo ancora giovanissimo - non ha neppure trent'anni - è bruno, alto, ha gli zigomi larghi e gli occhietti piccoli; probabilmente i suoi antenati erano allogeni. È arrivato in città senza un centesimo, con una piccola valigetta e una giovane e brutta donna ch'egli chiama la sua cuoca. Questa donna ha un bambino lattante. Evgènij Fëdorovič porta il berretto a visiera e degli stivali alti, e d'inverno una pelliccia corta. Si è stretto in intimità con Sergèj Sergèič e con l'economo, ma gli altri impiegati li chiama, chissà perché, «aristocratici» e si tien lontano da loro. In tutto il suo appartamento non c'è che un libro: «Le novissime ricette della clinica di Vienna per l'anno 1881». Andando da un malato egli prende sempre con sé questo libriccino. La sera al circolo giuoca al biliardo: non ama invece giocare a carte. Gli piace molto adoperare nella conversazione certe frasi come «lungaggine», «mantifoglia con aceto», «smettetela di far venire malinconia» ecc.

All'ospedale si trova due volte alla settimana, fa il giro delle sale e visita i malati. La completa assenza di antisettici e le sanguisughe lo rivoltano, ma non introduce nuovi sistemi per paura di offendere Andrèj Efímyč. Il suo collega Andrèj Efímyč egli lo stima un vecchio furfante, sospetta che possegga grandi ricchezze e in segreto lo invidia. Volentieri ne occuperebbe il posto.

 

IX

 

 

Una sera di primavera, alla fine di marzo, quando già sulla terra non c'era più neve e gli stornelli cantavano nel giardino dell'ospedale, il dottore uscì per accompagnare fino al portone il suo amico direttore delle poste. Proprio in quel momento entrava nel cortile il giudeo Mojsèjka di ritorno dalla questua. Egli era senza berretto, portava delle basse soprascarpe sui piedi nudi e teneva nelle mani un piccolo sacchetto con l'elemosina.

«Dammi una copeca!» si rivolse egli al dottore, tremando da! freddo e sorridendo.

Andrèj Efímyč che non sapeva mai rifiutare, gli diede una moneta da dieci copeche.

«Che cosa triste,» pensò, guardando i piedi nudi, dalle caviglie magre e rosse, del pazzo. «E c'è tanta umidità!» E, spinto da un sentimento simile alla pietà e al disgusto, seguì l'ebreo nel padiglione, guardando ora la sua calvizie, ora le sue caviglie. Nel veder entrare il dottore, Nikíta balzò dal mucchio di cenci e si mise sull'attenti.

«Salute, Nikíta,» disse dolcemente Andrèj Efímyč. «Non si potrebbe dare un paio di scarpe a questo ebreo? prenderà un raffreddore.»

«Sta bene, vostra nobiltà. Ne riferirò all'economo.»

«Ti prego. Domandaglielo a nome mio. Digli che l'ho domandato io.»

La porta che dal vestibolo metteva nella camera era aperta. Ivàn Dmítrič, steso sul letto e appoggiato al gomito, tendeva l'orecchio con, inquietudine a quella voce estranea e a un tratto riconobbe il dottore. Tutto tremante di collera, balzò dal letto e col viso rosso e cattivo, con gli occhi fuori delle orbite, si precipitò nel mezzo della camera.

«È venuto il dottore!» gridò, e si mise a sghignazzare. «Finalmente! Signori, mi congratulo, il dottore ci onora di una visita! Maledetto serpente!» strillò e, in uno stato di esaltazione quale non si era ancora mai veduto nella sala, batté il piede in terra. «Bisogna ucciderlo questo serpente! No, ucciderlo è poco! Bisogna affogarlo nella latrina!»

Andrèj Efímyč, udendo ciò, gettò dall'entrata uno sguardo nella camera e domandò dolcemente: «Perché?»

«Perché?» gridò Ivàn Dmítrič, avvicinandoglisi con aria minacciosa e avvolgendosi convulsamente nella veste da camera. «Perché? Ladro!» proferì con disgusto, atteggiando le labbra come se volesse sputare. «Ciarlatano! Carnefice!»

«Calmatevi,» disse Andrèj Efímyč, sorridendo con aria colpevole. «Vi assicuro che non ho mai rubato niente; quanto al resto probabilmente esagerate. Vedo che siete adirato con me. Calmatevi, ve ne prego, se potete, e ditemi con calma. perché siete adirato?»

«E perché mi tenete qui?»

«Perché siete malato.»

«Sì, malato. Però decine, centinaia di pazzi passeggiano in libertà perché la vostra ignoranza è incapace di distinguerli dai sani. E perché invece io e questi disgraziati dobbiamo stare qui per tutti, come capri espiatori? Voi, aiuto-chirurgo, l'economo e tutto il canagliume dell'ospedale, dal punto di vista morale siete infinitamente più bassi di ognuno di noi; perché dunque noi stiamo qui e voi no? Dov'è la logica?»

«I rapporti morali e la logica qui non c'entrano. Tutto dipende dal caso. Quelli che hanno messo dentro vi stanno, quelli che non hanno messo dentro passeggiano, ecco tutto. Nel fatto che io sia dottore e voi malato di mente, non c'entra né la moralità né la logica, ma soltanto il puro caso.»

«Queste frottole io non le capisco...» proferì sordamente Ivàn Dmítrič, e si sedette sul letto.

Mojsèjka, che Nikíta aveva avuto soggezione di frugare alla presenza del dottore, distribuì sul letto dei pezzettini di pane, di carta e degli ossicini e, ancora tremando dal freddo, prese a dire in fretta e con cantilena qualcosa in ebraico. Probabilmente si immaginava di aver aperto una botteguccia.

«Lasciatemi andare,» disse Ivàn Dmítrič, e la voce gli tremò.

«Non posso.»

«Ma perché? Perché?»

«Perché non è in mio potere. Giudicate voi stesso quale vantaggio ne avreste, se io vi lasciassi andare. Ve ne andate. I cittadini o la polizia vi fermano e vi riportano dentro.»

«Si, sì, è vero...» proferì Ivàn Dmítrič e si asciugò la fronte. «È spaventoso! Ma cosa devo fare dunque? Che cosa?»

La voce di Ivàn Dmítrič e il suo giovane viso intelligente piacquero ad Andrèj Efímyč. Gli venne voglia di accarezzare quel giovane e di calmarlo. Si sedette accanto a lui sul letto, rifletté e disse:

«Voi domandate che cosa fare? La miglior cosa nella vostra situazione sarebbe fuggire di qui. Ma, purtroppo, è inutile. Vi arresterebbero. Quando la società elimina da sé i delinquenti, i malati di mente e in generale gli individui che le riescono incomodi, è inesorabile. Non vi resta che una cosa: tranquillizzarvi al pensiero che la vostra permanenza qui è necessaria.»

«Essa non serve a nessuno.»

«Dal momento che esistono le prigioni e i manicomi, bisogna pure che, qualcuno ci stia dentro. Se non siete voi, sono io; se non sono io, è un terzo qualsiasi. Aspettate; quando in un lontano futuro tesseranno di esistere le prigioni e i manicomi, non vi saranno più grate alle finestre, né vesti da camera per pazzi. Senza dubbio un'epoca simile verrà presto o tardi.»

Ivàn Dmítrič sorrise beffardamente.

«Voi scherzate,» disse, strizzando gli occhi. «A individui come voi e come il vostro aiutante Nikíta non importa gran che dell'avvenire, ma potete essere sicuro, egregio signore, che verranno tempi migliori! Io mi esprimo forse volgarmente, ridete pure, ma splenderà l'alba di una nuova vita, la giustizia trionferà, e nella nostra strada ci sarà festa! Io non lo vedrò, creperò prima, ma i pronipoti di qualcuno lo vedranno. Io li saluto con tutta l'anima e gioisco, gioisco per loro! Avanti! Che Dio vi aiuti, amici!»

Ivàn Dmítrič, con gli occhi scintillanti si alzò È tendendo le braccia alla finestra, continuò con la voce commossa: «Di dietro a queste grate io vi benedico! Viva la giustizia! Io ne gioisco!»

«Non trovo che sia il caso di gioire,» disse Andrèj Efímyč, cui la mossa di Ivàn Dmítrič era parsa teatrale, ma nello stesso tempo era piaciuta assai. «Le prigioni e i manicomi cesseranno di esistere e la giustizia, come voi avete voluto esprimervi, trionferà, ma la Sostanza delle cose non muterà, le leggi della natura rimarranno tali e quali. Gli uomini continueranno ad ammalarsi, a invecchiare e a morire proprio come adesso. Qualunque magnifica aurora non abbia illuminato la vostra vita, alla fin fine vi inchioderanno in una bara e getteranno in una fossa.»

«E l'immortalità?»

«Eh, lasciate stare!»

«Voi non ci credete, ma io ci credo. Qualcuno, in Dostoevskij o in Voltaire, dice che, se Dio non esistesse, gli uomini lo inventerebbero. E io credo fermamente che, se non esistesse l'immortalità, presto o tardi la grande mente dell'uomo la inventerebbe.»

«Ben detto,» proferì Andréj Efímyč, sorridendo per il piacere. «È bene che voi crediate. Con una tal fede si può vivere cantando; anche murati dentro una parete. Voi avete avuto certo in qualche luogo una istruzione.

«Sì, ho frequentato l'università ma non l'ho finita.»

«Siete un uomo che pensa e medita. In qualunque ambiente potete trovar pace in voi stesso. Un pensiero libero e profondo, che tende alla comprensione della vita, il pieno disprezzo della stupida vanità del mondo, ecco i due beni più alti che l'uomo abbia mai conosciuti. E voi li potete possedere anche rinchiuso dietro tre grate. Diogene viveva in una botte, però era più felice di tutti i re della terra.»

«Il vostro Diogene era un babbeo,» proferì cupo Ivàn Dmítrič. «Che mi venite a parlare di Diogene e di non so quale comprensione?» si irritò egli a un tratto, balzando in piedi. «Io amo la vita l'amo appassionatamente! Io soffro di mania di persecuzione, di una continua paura tormentosa, ma ci sono dei momenti in cui mi afferra la sete di vivere, e, allora io temo di impazzire. Ho una terribile voglia di vivere, terribile!»

Agitato, egli si mise a camminare per la sala e disse abbassando la voce:

«Quando sogno, mi fanno visita dei fantasmi. Vengono da me certi uomini, io sento le voci, la musica, e mi sembra di passeggiare per i boschi, lungo la riva del mare, e ho una voglia appassionata di vanità e di preoccupazione... Ditemi, dunque, che c'è di nuovo là fuori? Che accade là?»

«Desiderate sapere cosa c'è in città o così, in generale?»

«Ebbene, parlatemi prima della città e poi in generale.»

«Ebbene? In città ci si annoia mortalmente... Non c'è nessuno da ascoltare. Non ci sono nuovi arrivati. No, è arrivato tempo fa il giovane medico Chòbotov.»

«È arrivato che già c'ero io. E che è? Un becero?»

«Sì, è un uomo senza cultura. È una cosa strana, sapete... A giudicare dal complesso, nelle nostre due capitali non c'è stasi intellettuale, anzi c'è del movimento - perciò dovrebbero esserci anche dei veri uomini; ma, chissà perché, ogni volta ci mandano gente tale che non vorrei neppure vederla. È una disgraziata città la nostra!»

«Sì, una disgraziata città!» sospirò Ivàn Dmítrič, e si mise a ridere. «E in generale come va? Cosa si scrive nei giornali e nelle riviste?»

Nella sala era già buio. Il dottore si alzò e, stando in piedi, cominciò a dire che cosa si scriveva all'estero e in Russia e quale era l'indirizzo che si notava nel pensiero contemporaneo. Ivàn Dmítrič ascoltava con attenzione e faceva delle domande, ma ad un tratto, come se avesse ricordato qualcosa di spaventoso, si prese la testa fra le mani e si coricò sul letto, voltando la schiena al dottore.

«Che avete?» domandò Andrèj Efímyč.

«Voi non sentirete più una parola da me!» disse bruscamente Ivàn Dmítrič. «Lasciatemi!»

«Ma perché?»

«Lasciatemi, vi dico! Che diavolo!»

Andrèj Efímyč si strinse nelle spalle, sospirò e uscì. Passando per il vestibolo disse:

«Bisognerebbe pulire qui, Nikíta... C'è un puzzo terribile!»

«Va bene, vostra nobiltà.»

«Che simpatico giovanotto!» pensava Andrèj Efímyč, tornando al suo appartamento. «Da quando son qui, è questo il primo, mi pare, con cui si possa discorrere. Egli sa ragionare e si interessa appunto di quello di cui bisogna interessarsi.»

Leggendo e poi mettendosi a dormire, egli pensò sempre a Ivàn Dmítrič e, svegliatosi il mattino seguente, si ricordò che il giorno innanzi aveva fatto la conoscenza di un uomo intelligente e interessante e decise di tornar da lui alla prima occasione.

 

X

 

 

Ivàn Dmítrič era coricato nella stessa posa del giorno prima, col capo fra le mani e le gambe ripiegate. Il suo viso non si poteva vedere. «Buon giorno, amico mio,» disse Andrèj Efímyč. «Non dormite?»

«In primo luogo, io non vi sono amico,» proferì Ivàn Dmítrič col viso sul guanciale, «in secondo luogo, inutilmente vi arrabattate: voi non otterrete da me neppure una parola.»

«Strano!» mormorò Andrèj Efímyč, turbato. «Ieri conversavamo così tranquillamente, e ad un tratto, chissà perché, vi siete offeso e avete troncato... Probabilmente io mi sono espresso male o, forse, ho enunciato un pensiero non conforme alle vostre convinzioni...»

«Sì, vi credo proprio!» disse Ivàn Dmítrič, sollevandosi e guardando il dottore ironicamente e con ansietà; i suoi occhi erano rossi. «Potete andare a far la spia e a saggiare il terreno in altro luogo, qui non avete niente da fare. Fin da ieri ho capito perché siete venuto.»

«Strana fantasia!» sorrise il dottore. «Allora voi ritenete ch'io sia una spia?»

«Sì, lo credo... Spia o dottore, al cui esame mi si è sottoposto, è la stessa cosa.»

«Ah, in verità, scusatemi, che... originale siete!»

Il dottore si sedette su di uno sgabello, accanto al letto, e scosse la testa con aria di rimprovero.

«Mettiamo pure che voi abbiate ragione,» disse. «Mettiamo pure ch'io cerchi proditoriamente di cogliervi in fallo per consegnarvi alla polizia. Vi arresteranno e poi vi giudicheranno. Ma forse che in tribunale o in prigione starete peggio di qui? E se vi deportassero o se addirittura vi mandassero ai lavori forzati, sarebbe forse peggio che rimanere in questo padiglione? lo non lo credo... Di che temete dunque?» Evidentemente queste parole agirono su Ivàn Dmítrič. Egli si sedette tranquillo.

Eran quasi le cinque di sera, l'ora in cui di solito Andrèj Efímyč passeggiava per le stanze in casa sua e Dàr'juša gli domandava se non era l'ora di prendere la birra. Fuori il tempo era calmo, sereno.

«Dopo pranzo sono uscito a passeggiare ed ecco che son passato di qui, come vedete,» disse il dottore. «È proprio primavera.»

«Che mese è ora? Marzo?» domandò Ivàn Dmítrič.

«Sì, siamo alla fine di marzo.»

«C'è fango fuori?»

«No, non molto. In giardino ci sono già i sentieri.»

«Ora sarebbe bello andare in calesse in qualche luogo fuori di città,» disse Ivàn Dmítrič, fregandosi gli occhi arrossati, come se si risvegliasse, «poi tornare a casa in un tiepido e comodo studio... e farsi curare il mal di testa da un dottore per bene... È già un pezzo che non vivo più da uomo. Qui è tutto così ripugnante, intollerabilmente ripugnante!»

Dopo l'eccitazione del giorno avanti egli era affaticato e fiacco e parlava malvolentieri. Le dita gli tremavano e dal suo viso si poteva vedere che gli doleva fortemente il capo.

«Fra uno studio tiepido e comodo e questa sala non c'è nessuna differenza.» disse Andrèj Efímyč. «La pace e la contentezza dell'uomo non sono fuori di lui, ma in lui stesso.»

«Come sarebbe a dire?»

«L'uomo comune attende il bene o il male dal di fuori, cioè dal calesse e dallo studio, ma il pensatore lo attende da se stesso.»

«Andate a predicare questa filosofia in Grecia, dove fa caldo e olezza l'arancio, ma qui non è il suo clima. Con chi dunque ho parlato dì Diogene? Con voi forse?»

«Sì, con me ieri.»

«Diogene non aveva bisogno di uno studio o di una stanza riscaldata; laggiù fa caldo lo stesso. Ci si corica in una botte e si mangiano aranci e olive. Ma se avesse dovuto vivere in Russia, non dico nel mese di dicembre, ma nel mese di maggio, avrebbe insistito per avere una camera. Si sarebbe contorto per il freddo, ne son certo.»

«No. Il freddo, come in generale ogni dolore, si può non sentire. Marco Aurelio disse: ‹Il dolore è una rappresentazione viva del male: fa' uno sforzo di volontà per modificare questa rappresentazione, allontanala, cessa di lagnarti, e il dolore sparirà.› Questo è giusto. Il saggio o, semplicemente, l'uomo che pensa e riflette si distingue precisamente per il fatto che disprezza la sofferenza; egli è sempre contento e non si meraviglia di nulla.»

«Allora io sono un idiota, perché soffro, non sono contento e mi meraviglio della bassezza umana.»

«Voi dite questo a torto. Se mediterete un po' più spesso, comprenderete quanto è insignificante tutto il mondo esteriore che ci turba. Bisogna tendere alla comprensione della vita; solo in essa è il vero bene.»

«Comprensione...» Ivàn Dmítrič fece una smorfia di disgusto. «Esteriore, interiore... Scusatemi, questo non lo capisco. Io so soltanto,» disse egli, alzandosi e guardando irritato il dottore, «io so che Dio mi ha creato di sangue caldo e di nervi, proprio così! E il tessuto organico, se è vitale, deve reagire ad ogni eccitazione. E io reagisco! Al dolore rispondo con un grido e con le lacrime, a una bassezza con indignazione, a una turpitudine col disgusto. Secondo me, è proprio questo che si chiama vita. Quanto più un organismo è in basso, tanto meno è sensibile e tanto più debolmente risponde agli stimoli, e quanto più è in alto, tanto più è impressionabile e più energicamente reagisce alla realtà. Come non saperlo,? È dottore e non sa simili sciocchezze! Per disprezzare la sofferenza, esser sempre contenti e non meravigliarsi di nulla, bisogna ridursi, ecco, in quello stato,» Ivàn Dmítrič indicò il grosso contadino rigurgitante di grasso, «Oppure temprarsi nelle sofferenze al punto di perdere ogni sensibilità, cioè, in altre parole, cessar di vivere. Scusate, ma io non sono né un saggio, né un filosofo,» continuò Ivàn Dmítrič con irritazione, «e in tutto questo non ci capisco nulla. Non sono in grado di ragionare.»

«Al contrario, voi ragionate magnificamente.»

«Gli stoici, che voi parodiate, furono uomini notevoli, ma la loro dottrina si è arrestata a duemila anni fa e non ha fatto più un passo innanzi e non potrà farne, perché non è né pratica né vitale. Essa ha avuto un successo soltanto presso una minoranza che passa la vita a studiare e a centellinare le varie dottrine, ma la maggioranza non la capisce. Una dottrina che predica l'indifferenza verso la ricchezza e le comodità della vita, il disprezzo delle sofferenze e della morte è del tutto incomprensibile per l'enorme maggioranza, poiché questa maggioranza non ha mai conosciuto né la ricchezza né la comodità della vita; e disprezzare le sofferenze significherebbe per essa disprezzare la vita stessa, poiché tutta l'esistenza dell'uomo consiste nella sensazione del freddo, della fame, degli oltraggi, delle privazioni e nella paura amletica della morte. In queste sensazioni è tutta la vita: se ne può sentire il peso, la si può odiare, ma non disprezzare. Sì, lo ripeto, la dottrina degli stoici non potrà mai avere un avvenire; progrediscono invece, come voi vedete, dal principio del secolo ad oggi, la lotta, la sensibilità al dolore, le capacità di reagire allo stimolo...»

Ivàn Dmítrič a un tratto perdette il filo dei pensieri, si fermò e con dispetto si asciugò la fronte.

«Volevo dire qualche cosa di importante, ma mi sono confuso,» disse. «Di che parlavo? Sì! Ecco quel che volevo dire: uno stoico vendette se stesso come schiavo per riscattare il suo prossimo. Ciò significa che anche uno stoico reagiva allo stimolo, perché per un atto così magnanimo come l'annientamento di sé in favore del prossimo è necessaria un'anima sdegnata e compassionevole. Ho dimenticato qui in prigione tutto ciò che ho studiato, se no mi ricorderei di qualche altra cosa ancora. E se prendessimo Cristo? Cristo reagiva alla realtà per il fatto che piangeva, sorrideva, si attristava, andava in collera e perfino provava angoscia; Egli non andò incontro alle sofferenze col sorriso, né disprezzò la morte, ma pregò nel giardino dei Getsemani che fosse allontanato da Lui il suo calice.»

Ivàn Dmítrič rise e si sedette.

«Ammettiamo che la tranquillità e la soddisfazione dell'uomo non siano fuori di lui, ma in lui stesso,» disse. «Ammettiamo che sia necessario disprezzar la sofferenza e non meravigliarsi di nulla. Ma voi con quale fondamento predicate queste cose? Siete voi un saggio? Un filosofo?»

«No, non sono un filosofo, ma predicarle deve ognuno perché sono cose ragionevoli.»

«No, io voglio sapere perché vi stimate competente in fatto di comprensione e di disprezzo delle sofferenze, eccetera. Forse che avete sofferto qualche volta? Avete una nozione delle sofferenze? Scusate: vi hanno frustato nella vostra infanzia?»

«No, i miei genitori nutrivano avversione per i castighi corporali.»

«Mio padre invece mi frustava crudelmente. Mio padre era un duro funzionario che soffriva di emorroidi, dal muso lungo e dal collo giallo. Ma parliamo di voi. In tutta la vostra vita, nessuno vi ha toccato con un dito, nessuno vi ha terrorizzato, né picchiato; voi siete sano come un bue. Siete cresciuto sotto le ali di vostro padre e avete studiato a sue spese, poi subito avete acciuffato una sinecura. Per più di vent'anni avete vissuto in un appartamento gratuito, con riscaldamento, illuminazione e servitù, col diritto di lavorare come e quanto vi piace e anche di non far nulla. Per natura siete un uomo pigro, fiacco, e perciò avete cercato di sistemare la vostra vita in modo che nulla vi disturbi e vi faccia cambiar posto. Le vostre funzioni le avete passate all'aiuto-chirurgo e a tutto l'altro canagliume e ve ne siete rimasto al caldo e nella quiete, avete raggranellato del denaro, leggiucchiato dei libri, vi siete dilettato con ragionamenti su varie elevate assurdità e (Ivàn Dmítrič guardò il naso rosso del dottore) con bevute. In una parola non avete veduto la vita, non la conoscete per nulla e con la realtà non avete avuto che un contatto teorico. Disprezzate le sofferenze e non vi meravigliate di nulla per la semplicissima ragione che la vanità delle cose, il disprezzo interiore ed esteriore della vita, delle sofferenze e della morte, la comprensione, il vero bene, tutto questo è filosofia, la più adatta anzi per un dormiglione russo. Voi vedete, per esempio, che un contadino batte la moglie. Perché intervenire? La batta pure, tanto tutti e due presto o tardi morranno: e colui che batte con le sue percosse non offende il battuto ma se stesso. Ubriacarsi è stupido, è indecente, ma se bevi morrai, e se non bevi morrai. Viene una donna che ha male ai denti... Ebbene? Il dolore è una rappresentazione del dolore; per di più senza malattie non si può vivere a questo mondo e tutti dobbiamo morire, e perciò vattene via, o donna, e non impedirmi di pensare e di bere la vodka. Un giovane vi chiede consiglio su cosa deve fare e come vivere; prima di rispondere, un altro rifletterebbe, ma voi avete già pronta la risposta: sforzati di comprendere, oppure: tendi al vero bene. Ma che cosa è questo fantastico ‹vero bene›? Non c'è risposta, naturalmente. Quanto a noi, ci tengono qui dietro le grate, ci fanno marcire, ci torturano, ma tutto ciò è magnifico e ragionevole, perché fra questa sala e un tiepido studio accogliente non c'è differenza. È, una filosofia comoda: non c'è niente da fare, si ha la coscienza pura e ci si sente saggi... No, signore, questa non è filosofia, non è pensiero, non è larghezza di vedute, ma pigrizia, fachirismo e torpore... Sì!» Ivàn Dmítrič si adirò di nuovo. «Voi disprezzate le sofferenze, ma io credo che, se vi schiacciaste un dito nella porta, strillereste a squarciagola!»

«No, forse non strillerei,» disse Andrèj Efímyč, sorridendo con mitezza.

«Vorrei vederlo! Ecco, se voi foste colpito da paralisi, o un qualsiasi imbecille ed insolente, valendosi della sua posizione e del suo grado, vi insultasse in pubblico e voi sapeste che ciò passerà impunito, beh, capireste, ve l'assicuro, che cosa è questo rimandar gli altri alla comprensione delle cose e al vero bene.»

«Tutto ciò è originale,» disse Andrèj Efímyč, ridendo dal piacere e fregandosi le mani. «Mi sorprende piacevolmente in voi la tendenza alle generalizzazioni, e la caratteristica che vi siete degnato di tracciare di me poco fa è semplicemente brillante. Debbo riconoscere che la conversazione con voi mi procura un enorme piacere. Ebbene, io vi ho ascoltato, adesso abbiate la bontà di ascoltare me...»

 

XI

 

 

Questa conversazione si prolungò ancora per circa un'ora ed evidentemente produsse in Andrèj Efímyč una profonda impressione. Egli cominciò ad andare nel padiglione ogni giorno. Vi andava la mattina e dopo pranzo e spesso l'oscurità della sera lo sorprendeva in conversazione con Ivàn Dmítrič. Nei primi tempi Ivàn Dmítrič lo sfuggiva, lo sospettava di cattive intenzioni e apertamente esprimeva la sua ostilità; poi si abituò a lui e mutò il suo contegno brusco in un contegno condiscendente e ironico.

Ben presto nell'ospedale si sparse la voce che il dottore Andrèj Efímyč si era messo a frequentare la sala numero 6. Nessuno - né l'aiuto-chirurgo, né Nikíta, né le infermiere - potevano capire perché egli vi andasse e vi rimanesse delle ore intere, di che cosa parlasse e perché non prescrivesse delle ricette. Il suo procedere sembrava strano. Michaíl Aver'jànyč spesso non lo trovava a casa, cosa che prima non era mai successo, e Dàr'juška era molto turbata perché il dottore non beveva la birra all'ora fissata e a volte perfino ritardava al pranzo.

Una volta, si era già alla fine di giugno, il dottor Chòbotov passò per una faccenda da Andrèj Efímyč; non trovandolo in casa, andò a cercarlo nel cortile; qui gli dissero che il vecchio dottore era andato dai pazzi. Entrato nel padiglione e fermatosi nella sala d'ingresso, Chòbotov udì la seguente conversazione:

«Noi non andremo mai d'accordo e voi non riuscirete a convertirmi alla vostra fede,» diceva Ivàn Dmítrič irritato. «Voi non conoscete affatto la realtà e non avete mai sofferto, ma vivete soltanto, come una sanguisuga, sulle sofferenze altrui; mentre io ho sofferto ininterrottamente dal giorno della nascita fino ad oggi. Perciò vi dico apertamente: io mi considero più elevato di voi e più competente sotto tutti i rapporti. Non spetta a voi darmi delle lezioni.»

«Non ho affatto la pretesa di convertirvi alla mia fede,» proferì piano Andrèj Efímyč, e con rammarico che non lo si volesse comprendere. «La questione non è qui, amico mio. Non si tratta di sapere che voi avete sofferto e io no. Le sofferenze e le gioie sono passeggere; lasciamole stare, Dio le abbia in gloria. Il fatto è che noi due pensiamo; noi vediamo l'uno nell'altro delle persone capaci, di pensare e di ragionare e questo ci rende solidali, per diverse che siano le nostre opinioni. Se voi sapeste, amico mio, quanto mi urtano la demenza universale, l'incapacità, l'ottusità e con quale gioia io mi intrattengo ogni volta con voi! Voi siete un uomo intelligente e io con voi provo piacere.»

Chòbotov aprì un pochino la porta e diede uno sguardo nella camera; Ivàn Dmítrič, in berretto da notte, e il dottore Andrèj Efímyč sedevano accanto sul letto - Il pazzo faceva delle smorfie, sussultava e incrociava convulsamente la veste da camera, il dottore invece sedeva immobile, a testa bassa, e il suo viso era rosso, smarrito, triste. Chòbotov si strinse nelle spalle, sorrise e scambiò uno sguardo con Nikíta. Anche Nikíta scrollò le spalle.

Il giorno dopo Chòbotov arrivò al padiglione in compagnia dell'aiuto-chirurgo. Tutti e due rimasero nel vestibolo ad ascoltare.

«Il nonnino, a quanto pare, ha perso la tramontana,» disse Chòbotov, uscendo dal padiglione.

«Signore, abbi pietà di noi peccatori!» sospirò il magnifico Sergèj Sergèič, girando attorno alle pozzanghere con molta precauzione per non sporcarsi gli stivali lucidi. «Lo confesso, stimatissimo Evgénij Fëdoryč; me l'aspettavo da un pezzo!»

 

XII

 

 

Da allora Andrèj Efímyč cominciò a notare intorno a sé una certa aria di mistero. Gli inservienti, le infermiere e i malati, incontrandolo, lo guardavano interrogativamente e poi mormoravano fra loro. La piccola Maga, figlia del guardiano, ch'egli amava incontrare nel giardino dell'ospedale, quando ora si avvicinava a lei con un sorriso per carezzarle la testolina, chissà perché, fuggiva lontano da lui. Il direttore delle poste Michaíl Aver'jànyč, ascoltandolo, non diceva più: «Perfettamente vero», ma con un incomprensibile turbamento borbottava: «sì, sì», e lo guardava pensieroso e afflitto; chissà perché, egli cominciò a consigliare al suo amico di astenersi dalla vodka e dalla birra, però, da uomo delicato, non glielo diceva direttamente, ma con allusioni, narrando ora d'un comandante di battaglione, uomo eccellente, ora di un cappellano reggimentale, ottimo giovane, i quali bevevano e s'erano ammalati - avevano smesso di bere ed avevano riacquistata la salute. Due o tre volte venne da Andrèj Efímyč il collega Chòbotov; anche lui gli consigliava di astenersi dalle bevande alcoliche e, senza alcun motivo plausibile, gli raccomandava di prendere del bromuro.

In agosto Andrèj Efímyč ricevette dal sindaco una lettera con la preghiera di favorire da lui per un affare importantissimo. Recatosi il giorno stabilito al municipio, Andrèj Efímyč vi trovò il capo del reclutamento, l'ispettore scolastico del distretto, un membro del consiglio municipale, Chòbotov e un certo signore grasso, biondo, che gli fu presentato come dottore. Questo dottore, dal cognome polacco difficile a pronunciarsi, abitava a trenta verste di distanza in un allevamento di cavalli ed era in città di passaggio.

«Qui c'è un piccolo rapporto che vi riguarda,» disse il membro del consiglio municipale, rivolgendosi ad Andrèj Efímyč, dopo che, scambiati i saluti, tutti si furono seduti attorno alla tavola. «Ecco, Evgénij Fëdoryč dice che la farmacia è piuttosto stretta nell'edificio principale e che bisogna trasferirla in uno dei padiglioni. È certamente una piccolezza e la si può trasferire, ma la causa principale è che il padiglione deve essere riparato.»

«Sì, senza riparazioni non se ne fa nulla,» disse Andrèj Efímyč, dopo aver riflettuto. «Se, per esempio, si vuole adattare la farmacia il padiglione d'angolo, ci vorrà, io credo, un minimum di cinquecento rubli circa. Una spesa improduttiva.» Vi fu un po' di silenzio.

«Ebbi già l'onore di riferire dieci anni fa,» proseguì Andrèj Efímyč con voce sommessa, «che questo ospedale, com'è attualmente, costituisce per la città un lusso superiore ai suoi mezzi. Esso è stato costruito dopo il 1840, ma allora c'erano altri mezzi. La città spende troppo in costruzioni inutili e in cariche superflue. Io credo che con questi danari sarebbe possibile, con altri ordinamenti, mantenere due ospedali modello.»

«Allora introduciamo degli altri ordinamenti,» disse vivacemente il membro del consiglio municipale.

«Io ebbi già l'onore di proporre che si passasse il servizio medico sotto il controllo dei consiglio provinciale.»

«Sì, date i danari al consiglio provinciale, ed esso ve li ruberà,» rise il dottore biondo.

«È la solita storia,» disse approvando il membro del consiglio municipale, e si mise anche lui a ridere.

Andrèj Efímyč gettò uno sguardo fiacco e torbido al dottore biondo e disse:

«Bisogna essere giusti.»

Di nuovo tacquero. Fu servito il tè. Il capo del reclutamento, chissà perché molto turbato, toccò attraverso la tavola la mano di Andrèj Efímyč e disse:

«Ci avete dimenticati completamente, dottore. Del resto, voi siete un monaco: non giocate a carte, non amate le donne. Vi annoiate col prossimo.»

Tutti si misero a dire quanto fosse noioso per una persona come si deve vivere in quella città. Non c'era teatro, né musica, e nell'ultima serata danzante al circolo c'erano una ventina di dame e soltanto due cavalieri. La gioventù non balla, ma si affolla sempre al buffet o giuoca a carte. Andrèj Efímyč, con voce lenta e sommessa, senza guardar nessuno, cominciò a dire quanto rimpiangeva, quanto profondamente rimpiangeva che i concittadini sciupassero le loro energie, il loro cuore e la loro intelligenza nel giocare a carte e nel far pettegolezzi e non sapessero né volessero passare il tempo in interessanti conversazioni e in letture, non volessero godere i piaceri che dà l'intelligenza. Soltanto l'intelligenza è interessante e degna di rilievo, tutto il resto è meschino e basso. Chòbotov ascoltava attentamente il suo collega e a un tratto domandò:

«Andrèj Efímyč, quanti ne abbiamo oggi?»

Ottenuta la risposta, lui e il dottore biondo, col tono di esaminatori che sentono la propria incapacità, cominciarono a domandare ad Andrèj Efímyč che giorno era quello, quanti giorni ci sono nell'anno e se era vero che nella sala N. 6 viveva un insigne profeta.

Nel rispondere a quest'ultima domanda Andrèj Efímyč arrossì e disse:

«Sì, è un giovanotto malato, ma interessante.»

Non gli fu più rivolta alcuna domanda.

Mentre in anticamera egli si metteva il cappotto, il capo del reclutamento gli pose una mano sulla spalla e disse con un sospiro: «Per noi vecchi è tempo di riposarci!»

Uscito dal municipio, Andrèj Efímyč comprese che quella era una commissione incaricata di indagare sullo stato delle sue facoltà mentali. Ricordando le domande che gli erano state rivolte, arrossì e, chissà perché, per la prima volta in vita sua compianse amaramente la medicina.

«Dio mio,» pensava egli, ricordando come i medici poco prima l'avevano esaminato, «costoro sono pure stati or non è molto alle lezioni di psichiatria, hanno sostenuto degli esami; di dove viene dunque questa loro crassa ignoranza? Essi non hanno la, minima idea della psichiatria!»

E per la prima volta si sentì offeso e adirato.

Quello stesso giorno verso sera venne da lui Michaíl Aver'jànyč. Senza salutarlo, il direttore delle poste gli si avvicinò e, presolo per tutt'e due le mani, disse con voce commossa:

«Mio caro, amico mio, datemi la prova che credete nel mio sincero attaccamento e mi stimate vostro amico.. Amico mio!» e, impedendo ad Andrèj Efímyč di parlare, continuò agitato: «Io vi Voglio bene per la vostra istruzione e per la vostra nobiltà d'animo. Ascoltatemi, mio caro. I precetti della scienza impongono ai dottori di nascondervi la verità, ma io da vecchio militare vi dirò la verità nuda e cruda: voi siete malato! Scusatemi, mio caro, ma è la verità; da un pezzo l'hanno notato tutti quelli che vi circondano. Il dottore Evgènij Fëdoryč mi diceva proprio ora che per rimettervi in salute avete assoluto bisogno di riposo e di distrazione. Perfettamente vero! Giustissimo! In questi giorni io prenderò un congedo e me ne andrò a respirare altra aria. Datemi dunque una prova che mi siete amico e andiamo insieme! Andiamo, scrolliamoci di dosso la vecchiaia.»

«Io mi sento in ottima salute,» disse Andrèj Efímyč, dopo aver riflettuto. «Non posso partire. Permettetemi di provarvi la mia amicizia in qualche altra maniera.»

Andare chissà dove, senza sapere perché, senza libri, senza Dàr'juška, senza birra, spezzare bruscamente un ordine di vita che durava da vent'anni - una simile idea nel primo momento gli parve una cosa assurda, fantastica. Ma egli si ricordò della conversazione che c'era stata al municipio e della penosa impressione provata tornando a casa, e il pensiero di andarsene per qualche tempo dalla città, dove degli stupidi lo ritenevano pazzo, gli sorrise.

«Ma voi dove avete intenzione di andare?»

«A Mosca, a Pietroburgo, a Varsavia... A Varsavia ho passato cinque anni felici della mia vita. Che città meravigliosa! Andiamoci, mio caro!»

 

XIII

 

 

Una settimana dopo fu proposto ad Andrèj Efímyč di riposarsi, cioè di andare in pensione, cosa che egli accolse con indifferenza, e dopo un'altra settimana con Michaíl Aver'jànyč era già seduto in una diligenza postale diretto alla più vicina stazione ferroviaria. Le giornate erano fresche, chiare. Le duecento verste fino alla stazione furono percorse in due giorni e durante il viaggio pernottarono due volte. Quando alle stazioni di posta servivano il tè in bicchieri mal lavati o ci mettevano troppo tempo ad attaccare i cavalli, Michaíl Aver'jànyč si faceva di porpora e, tremando in tutto il corpo, gridava: «Silenzio, non si discute!» Seduto poi nella diligenza, senza smettere un momento, raccontava dei suoi viaggi nel Caucaso e nel regno di Polonia. Quante avventure aveva avute; quanti incontri! Egli parlava ad alta voce e intanto faceva degli occhi così meravigliati che si pensava ch'egli mentisse. Per di più raccontando soffiava in faccia ad Andrèj Efímyč e gli rideva all'orecchio. Questo metteva a disagio il dottore e gli impediva di pensare e di concentrarsi.

In ferrovia viaggiarono, per economia, in terza classe, in una vettura per non fumatori. Il pubblico era per metà di persone pulite. Michaíl Aver'jànyč presto fece conoscenza con tutti e, passando di sedile in sedile, diceva forte che era assurdo viaggiare su quelle orribili ferrovie. Una vera marioleria! È meglio andare a cavallo: in un giorno divori cento verste e poi ti senti sano e fresco. E il nostro cattivo raccolto proviene dal prosciugamento delle paludi di Pinsk. In generale il disordine è spaventoso. Egli si scaldava, parlava forte e non lasciava parlare gli altri. Questo cicaleccio senza fine, mescolato con forti risate e gesti espressivi, stancò Andrèj Efímyč.

«Chi di noi due è pazzo?» pensava egli con dispetto. «Io, che cerco di non seccare per nulla i passeggeri, o questo egoista che pensa di essere qui più intelligente e più interessante di tutti e non lascia in pace nessuno?»

A Mosca Michaíl Aver'jànyč indossò una giacca militare senza spalline e un paio di pantaloni con bande rosse. Per la strada camminava in berretto e cappotto militare e i soldati gli facevano il saluto. Ad Andrèj Efímyč egli appariva ora come un uomo che di quanto un tempo aveva avuto di signorile aveva sciupato tutto il buono e conservato soltanto il cattivo. Egli amava di essere servito anche quando ciò non era affatto necessario. Aveva i fiammiferi davanti a sé sulla tavola, e li vedeva, ma gridava al cameriere che gli desse i fiammiferi; non si prendeva scrupolo di passare in mutande davanti alla cameriera; dava del tu senza distinzione a tutti i servi, anche se vecchi, e adirandosi li qualificava di babbei e d'imbecilli. Tutto ciò - così sembrava ad Andrèj Efímyč - era da signori, ma disgustoso.

Prima di tutto Michaíl Aver'jànyč condusse il suo amico alla cappella della Vergine d'Iberia. Egli pregò ardentemente, con inchini fino a terra e le lacrime agli occhi, e quando ebbe finito, sospirò profondamente e disse:

«Anche se non si crede, ci si sente in certo modo, più tranquilli dopo aver pregato. Baciate l'immagine, caro.»

Andrèj Efímyč si confuse e andò a baciare l'immagine, e Michaíl Aver'jànyč, sporgendo le labbra e scotendo la testa, borbottò delle preghiere, e di nuovo gli vennero le lacrime agli occhi. Poi si recarono al Cremlino a vedere il cannone-zar e la campana-zar, e li toccarono anzi con le dita, ammirarono la veduta dell'Oltre Moscova, visitarono la chiesa del Salvatore e il museo Rumjàncev.

Pranzarono da Téstov. Michaíl Aver'jànyč esaminò a lungo la lista dei cibi, carezzandosi le fedine, e disse, col tono di un ghiottone abituato a sentirsi al ristorante come a casa sua: «Vediamo che cosa ci darete da mangiare oggi, angelo bello!»

 

XIV

 

 

Il dottore camminava, guardava, mangiava, beveva, ma provava un solo sentimento: dispetto contro Michaíl Aver'jànyč. Avrebbe voluto riposarsi da questa continua comunanza con l'amico, avrebbe voluto lasciarlo, nascondersi; ma l'amico riteneva suo dovere non allontanarsi da lui nemmeno di un passo e procurargli quante più distrazioni fosse possibile. Quando non c'era nulla da vedere, lo distraeva coi discorsi. Andrèj Efímyč lo sopportò due giorni, ma il terzo dichiarò all'amico che non stava bene e che voleva rimanere in casa tutto il giorno. L'amico disse che in tal caso anche lui sarebbe rimasto. In realtà bisognava riposarsi, se no le gambe non avrebbero più servito. Andrèj Efímyč si coricò sul divano, con la faccia verso la spalliera e, serrando i denti, ascoltava l'amico il quale gli assicurava con calore che la Francia presto o tardi avrebbe immancabilmente vinto la Germania, che a Mosca c'erano moltissimi furfanti e che non è possibile giudicare delle qualità di un cavallo dalla sua apparenza esteriore. Il dottore cominciò a sentire un ronzio negli orecchi e il batticuore, ma per delicatezza non si decideva a pregar l'amico di andarsene o di tacere. Per fortuna Michaíl Aver'jànyč si annoiò a restare in camera e dopo pranzo uscì a passeggiare.

Rimasto solo, Andrèj Efímyč si abbandonò alla sensazione del riposo. Com'è gradito giacere immobile su di un divano, avendo coscienza di esser solo nella stanza! La vera felicità è impossibile senza la solitudine. L'angelo caduto tradì Iddio probabilmente perché, desiderava la solitudine che gli angeli non conoscono. Andrèj Efímyč voleva pensare a quello che, aveva veduto negli ultimi giorni, ma Michaíl Aver'jànyč non gli usciva di testa.

«Egli ha preso dunque un congedo ed è venuto via con me per amicizia, per magnanimità,» pensava il dottore con dispetto. «Non c'è niente di peggio di questa tutela amichevole. Sembra un buon uomo, e generoso e buontempone, ma è noioso. Intollerabilmente noioso. Ci sono anche degli uomini che dicono sempre parole elevate e buone, ma senti che sono degli stupidi.»

Nei giorni seguenti Andrèj Efímyč continuò a dirsi malato e non uscì di camera. Egli stava coricato sul divano con la faccia verso la spalliera e si stancava quando l'amico voleva distrarlo coi suoi discorsi, e si riposava quando l'amico era assente. Era irritato con se stesso per essere partito, e con l'amico che di giorno in giorno diventava sempre più ciarliero e disinvolto; non gli riusciva in nessuna maniera dì dare ai suoi pensieri un corso serio ed elevato.

«Ecco che penetra in me quella realtà di cui parlava Ivàn Dmítrič,» pensava adirandosi per la propria meschinità. «Del resto, sono sciocchezze... Ritornerà a casa e tutto andrà come in passato...»

Anche a Pietroburgo fu lo stesso: per giornate intere egli non uscì di camera e stette coricato sul divano, alzandosi soltanto per bere della birra.

Michaíl Aver'jànyč insisteva sempre per andare a Varsavia.

«Ma, mio caro, a che scopo?» diceva Andrèj Efímyč cori voce supplichevole. «Partite solo e permettete che io me ne vada a casa! Ve ne prego!»

«A nessun costo!» protestava Michaíl Aver'jànyč. «È una città meravigliosa. Io vi ho passato i cinque armi più felici della mia vita!»

Andrèj Efímyč non aveva abbastanza carattere per resistere e, facendo violenza al proprio cuore, partì per Varsavia. Qui non uscì mai di camera, se ne stava coricato sul divano, arrabbiandosi con se stesso, con l'amico e coi camerieri i quali si rifiutavano ostinatamente di capire il russo, ma Michaíl Aver'jànyč, sano, alacre e allegro come al solito, passeggiava per la città dalla mattina alla sera, in cerca dei suoi vecchi conoscenti. Alcune volte passò la notte fuori. Dopo una notte passata non si sa dove, tornò a casa il mattino presto in uno stato di forte eccitazione, rosso e spettinato. Camminò a lungo da un angolo all'altro, borbottando qualche cosa fra sé, poi si fermò e disse:

«L'onore prima di tutto!»

Dopo aver camminato ancora un poco, si prese la testa fra le mani e disse con voce tragica:

«Sì, l'onore prima di tutto! Sia maledetto il momento in cui mi è passato per la testa di venire in questa Babilonia! Mio caro,» si rivolse al dottore, «disprezzatemi: ho perduto al giuoco! Datemi cinquecento rubli!»

Andrèj Efímyč contò cinquecento rubli e in silenzio li porse all'amico. Questi, ancora tutto rosso di vergogna e di collera, proferì sconnessamente un inutile giuramento, si mise il berretto e uscì. Tornato dopo un paio d'ore, si lasciò cadere su di una poltrona e, sospirando forte, disse:

«L'onore è salvo! Andiamo, amico mio! Non voglio restar neppure un minuto in questa maledetta città. Furfanti! Spie dell'Austria!»

Quando i due amici tornarono nella loro città, era già novembre e sulle strade si stendeva alta la neve. Il posto di Andrèj Efímyč era stato occupato dal dottor Chòbotov; egli abitava ancora nel vecchio appartamento in attesa che Andrèj Efímyč tornasse e sgomberasse l'appartamento, dell'ospedale. La donna brutta che egli chiamava la sua cuoca abitava già in uno dei padiglioni.

In città correvano nuove chiacchiere circa l'ospedale. Si diceva che la donna brutta avesse litigato con l'economo e che costui si fosse trascinato in ginocchio dinanzi a lei, chiedendole perdono.

Andrèj Efímyč fin dal giorno del suo ritorno dovette cercarsi un appartamento.

«Amico mio,» gli disse timidamente il direttore delle poste, «scusatemi per la domanda indiscreta: di quali mezzi disponete?»

Andrèj Efímyč contò in silenzio i suoi denari e disse: «Di ottantasei rubli.»

«Non vi domando questo,» proferì Michaíl Aver'jànyč confuso, non avendo capito il dottore. «Vi domando che mezzi avete in generale.»

«Ma se vi dico: ottantasei rubli... Non ho nient'altro.»

Michaíl Aver'jànyč stimava. il dottore un uomo onesto e nobile, tuttavia sospettava che avesse un capitale di almeno ventimila rubli. Ora, avendo saputo che Andrèj Efímyč era povero e non aveva di che vivere, chissà perché, si mise d'un tratto a piangere e abbracciò l'amico.

 

XV

 

 

Andrèj Efímyč abitava in una casetta a tre finestre presso la piccolo-borghese Belòva. In questa casetta c'erano soltanto tre stanze, senza contar la cucina. Due di esse, con le finestre sulla strada, le occupava il dottore, e nella terza e nella cucina abitavano Dàr'juška e la donna con tre bambini. Qualche volta veniva a passare la notte dalla padrona il suo amante, un contadino ubriacone che faceva baccano e spaventava i bambini e Dàr'juška. Quando arrivava e, sedutosi in cucina, cominciava a chieder vodka, poiché tutti finivano col trovarsi molto stretti, il dottore per pietà prendeva con sé i bambini che piangevano e li faceva coricare nella sua camera sul pavimento, e questo gli procurava un gran piacere.

Egli si alzava come prima alle otto e dopo il tè si sedeva a leggere i suoi vecchi libri e riviste. Per comprarne dei nuovi non aveva più denari. Forse perché i libri erano vecchi o, forse, per il cambiamento di ambiente, la lettura non lo afferrava più nell'intimo e lo stancava. Per non passare il tempo in ozio, si mise a fare un catalogo minuto dei libri, sul cui dorso incollava delle etichette, e questo lavoro meccanico e minuzioso gli pareva più interessante della lettura. Il lavoro monotono e minuzioso cullava in modo incomprensibile il suo pensiero, egli non pensava a, nulla, e il tempo scorreva rapido. Anche sedersi in cucina e sbucciare insieme con Dàr'juška le patate o pulire il grano saraceno gli sembrava interessante. Il sabato e la domenica andava in chiesa. In piedi accanto al muro, con gli occhi socchiusi, egli ascoltava il canto e pensava al padre, alla madre, all'università, alle religioni; si sentiva calmo, triste, e poi uscendo di chiesa, rimpiangeva che il servizio divino, fosse terminato così presto.

Due volte andò all'ospedale da Ivàn Dmítrič per discorrere con lui. Ma tutt'e due le volte Ivàn Dmítrič era estremamente eccitato e cattivo; egli pregò di essere lasciato in pace, poiché da molto tempo gli erano venute a noia le vane ciance, e diceva che una sola cosa chiedeva in compenso delle sue sofferenze alla gentaccia maledetta: di essere segregato. Era mai possibile che gli rifiutassero anche questo? Tutt'e due le volte che Andrèj Efímyč si congedò da lui e gli augurò la buona notte, egli ringhiò e rispose: «Al diavolo!»

E Andrèj Efímyč non sapeva se dovesse andar da lui una terza volta oppur no. Ma aveva desiderio di andarci. Un tempo Andrèj Efímyč dopo pranzo camminava per le stanze e pensava; ora invece dalla fine del pranzo fino al tè della sera stava coricato sul divano con la faccia verso la spalliera e si abbandonava a pensieri meschini che non poteva in alcun modo vincere. Si sentiva offeso perché dopo più di vent'anni di servizio non gli avevano dato né la pensione, né un sussidio una volta tanto. In verità egli non aveva servito con onestà, però la pensione la ricevono tutti gli impiegati senza distinzione, onesti o no. La giustizia contemporanea consiste appunto nel fatto che gradi, decorazioni e pensioni non sono un premio delle qualità morali e delle capacità, ma del servizio in generale, qualunque esso sia stato. Perché soltanto lui doveva costituire una eccezione? Egli era del tutto privo di denaro. Aveva vergogna di passare davanti alla bottega e di guardare la padrona di casa. Doveva già trentadue rubli per la birra. Era pure in debito con la Belòra. Dàr'juška di nascosto vendeva dei vecchi vestiti e dei libri e mentiva con la padrona dicendo che presto il dottore avrebbe ricevuto moltissimo denaro.

Egli si adirava con se stesso per avere sprecato nel viaggio i mille rubli che aveva raggranellati. Come avrebbero fatto comodo adesso quei mille rubli! Si stizziva perché la gente non lo lasciava in pace. Chòbotov stimava suo dovere visitare di tanto in tanto il collega ammalato. Tutto in lui ripugnava ad Andrèj Efímyč: e il viso sazio, e il tono cattivo e condiscendente, e la parola «collega», e gli stivaloni alti, la cosa più ripugnante poi era che egli si considerasse obbligato a curare Andrèj Efímyč e credesse in realtà di curarlo. A ogni visita gli portava una boccetta di bromuro e delle pillole di rabarbaro.

Anche Michaíl Aver'jànyč stimava suo dovere far visita all'amico e distrarlo. Ogni volta egli entrava da Andrèj Efímyč con finta disinvoltura, ridendo forzatamente e cominciava ad assicurarlo che quel giorno aveva una magnifica cera e che gli affari, grazie a Dio, si andavano aggiustando, e da questo si poteva concludere ch'egli giudicava la situazione del suo amico disperata. Egli non aveva ancora pagato il suo debito di Varsavia ed era oppresso da una penosa vergogna, si trovava a disagio e perciò si sforzava di ridere più forte e di raccontare in modo più ridicolo. I suoi aneddoti e i suoi racconti sembravano ora senza fine ed erano tormentosi per Andrèj, Efímyč e per lui stesso.

In sua presenza Andrèj Efímyč di solito si stendeva sul divano col viso verso la parete e ascoltava, stringendo il denti; sulla sua anima si depositava a strati la schiuma dell'ira e dopo ogni visita egli sentiva che la schiuma diventava sempre più alta e già gli arrivava alla gola.

Per soffocare i propri sentimenti meschini, egli si affrettava a pensare che tanto lui quanto Chòbotov e Michaíl Aver'jànyč presto o tardi dovevano morire senza lasciare nella natura la minima traccia. Se ci si immagina che dopo un milione di anni uno spirito verrà a volare negli spazi vicino al globo terrestre, egli non vedrà che creta e nude rocce. Tutto - e la cultura e la legge morale - sarà scomparso, non ci sarà più nemmeno la bardana. Che significavan dunque la vergogna dinanzi al bottegaio, la nullità di Chòbotov, la gravosa amicizia di Michaíl Aver'jànyč? Tutte queste non erano che assurdità e sciocchezze.

Ma simili considerazioni non servivano più. Appena egli si raffigurava il globo terrestre dopo un milione di anni, ecco che di dietro a una roccia nuda spuntava Chòbotov in stivaloni alti o Michaíl Aver'jànyč che rideva forzatamente, e si udiva perfino un timido mormorio: «Quanto al debito di Varsavia, caro, lo pagherò in questi giorni... Immancabilmente.»

 

XVI

 

 

Un giorno Michaíl Aver'jànyč arrivò dopo pranzo quando Andrèj Efímyč era coricato sul divano. Accadde che proprio in quel momento capitasse anche Chòbotov col bromuro. Andrèj Efímyč si sollevò penosamente e si sedette, appoggiandosi con tutt'e due le mani al divano.

«Oggi, mio caro,» cominciò Michaíl Aver'jànyč, «il vostro colorito è assai migliore di ieri. Ma siete un giovanottino! Per Dio, un giovanottino»

«È tempo, è tempo che vi rimettiate, collega,» disse Chòbotov sbadigliando. «Credo che questa lungaggine abbia stancato anche voi.»

«E ci rimetteremo!» disse allegramente Michaíl Aver'jànyč. «Vivremo ancora cent'anni! Proprio così!»

«Cento no, ma a venti ci si può arrivare,» lo confortava Chòbotov. «Non è niente, non è niente, collega, non vi scoraggiate... Basta di far venir malinconia!»

«Faremo vedere chi siamo!» sghignazzò Michaíl Aver'jànyč, battendo sulle ginocchia all'amico. «Faremo vedere chi siamo! L'estate prossima, se Dio vuole, ce ne andremo al Caucaso e lo gireremo tutto a cavallo, hop! hop! hop! E tornati dal Caucaso, guarda un po', ci divertiremo alle nozze.» Michaíl Aver'jànyč strizzò furbescamente un occhio. «Vi sposeremo, amicuccio caro, vi sposeremo...»

Andrèj Efímyč a un tratto sentì la schiuma montargli alla gola; il suo cuore si mise a battere terribilmente.

«Questo è volgare!» disse, alzandosi rapido e allontanandosi verso la finestra. «Proprio non capite che dite delle volgarità?»

Egli voleva continuare in tono pacato e cortese, ma contro la propria volontà a un tratto strinse i pugni e li levò al disopra della testa.

«Lasciatemi in pace!» gridò con una voce mutata, diventando paonazzo e tremando in tutto il corpo. «Fuori! Fuori tutti e due, tutti e due!»

Michaíl Aver'jànyč e Chòbotov si alzarono e lo fissarono dapprima con perplessità, poi con paura.

«Fuori tutti e due!» continuò a gridare Andrèj Efímyč. «Idioti! Stupidi! Non ho bisogno né della tua amicizia, né delle tue medicine, stupido individuo! È, una volgarità! Una porcheria!»

Chòbotov e Michaíl Aver'jànyč, guardandosi l'un l'altro sconcertati, indietreggiarono verso la porta e uscirono nell'anticamera. Andrèj Efímyč afferrò la boccetta del bromuro e la scaraventò loro dietro; la boccetta si spezzò con fracasso sulla soglia.

«Andate al diavolo!» gridò, con voce come di pianto, correndo in anticamera. «Al diavolo!»

Dopo l'uscita degli ospiti, Andrèj Efímyč, tremando come se avesse la febbre, si coricò sul divano e ancora per lungo tempo ripeté:

«Idioti! Stupidi!»

Quando si calmò, prima di tutto gli venne in mente che il povero Michaíl Aver'jànyč doveva avere una tremenda vergogna e un gran peso sull'anima, e che tutto ciò era orribile. Mai prima gli era capitato nulla di simile. Dov'eran dunque l'intelligenza e il tatto? Dove la comprensione delle cose e l'indifferenza filosofica?

Tutta la notte il dottore non poté prender sonno per la vergogna e l'ira contro se stesso; la mattina poi verso le dieci si avviò all'ufficio postale e si scusò col direttore.

«Non staremo a ricordare quel che è accaduto,» disse con un sospiro Michaíl Aver'jànyč, stringendogli forte la mano. «A chi ricorderà il passato, gli si cavi un occhio. Ljubavkin!» gridò a un tratto così forte che tutti gli impiegati di posta e il pubblico sussultarono. «Dammi una sedia. E tu aspetta!» gridò a una donna che gli tendeva attraverso lo sportello una lettera raccomandata. «Non lo vedi che sono occupato? Non staremo a ricordare il passato,» continuò dolcemente, volgendosi ad Andrèj Efímyč. «Sedetevi, ve ne prego umilmente, mio caro.»

Per un minuto egli si accarezzò in silenzio i ginocchi, poi disse:

«Non m'è neppur passato per la mente di offendermi. Con la malattia non si scherza; lo capisco. Il vostro accesso di ieri ha spaventato tanto me quanto il dottore, e abbiamo poi parlato a lungo di voi. Mio caro, perché non volete occuparvi seriamente della vostra malattia? È mai possibile continuare così? Scusate la mia franchezza d'amico,» balbettò Michaíl Aver'jànyč, «voi vivete nell'ambiente più sfavorevole: strettezza, sporcizia, mancanza di cure e di medicine... Mio caro amico, ve ne supplico di tutto cuore assieme col dottore: entrate all'ospedale! Là avrete cibo sano, cure e medicamenti. Evgènij Fëdoryč, benché, a dirla fra noi, sia maleducato, è tuttavia competente e ci si può fidare pienamente di lui. Egli mi ha dato la sua parola che si occuperà di voi.»

Andrèj Efímyč fu toccato da questa sollecitudine sincera e dalle lacrime che a un tratto brillarono sulle guance del direttore delle poste.

«Stimatissimo amico, non credete!» balbettò egli, mettendosi una mano sul cuore. «Non credete loro. È, un inganno! La mia malattia consiste soltanto in questo, che in vent'anni ho trovato in questa città un solo uomo intelligente, e questo è un pazzo. Non ho alcuna malattia, ma semplicemente sono caduto in un cerchio incantato dal quale non c'è uscita. Per me fa lo stesso, sono pronto a tutto.»

«Entrate all'ospedale, mio caro.»

«Per me fa lo stesso, anche in una fossa.»

«Datemi la vostra parola, caro, che ascolterete in tutto Evgènij Fëdoryč.»

«E sia, vi do la mia parola. Ma, lo ripeto, egregio amico, io sono caduto in un cerchio incantato. Adesso tutto, anche la sincera partecipazione dei miei amici, tende a un unico fine: la mia rovina. Io perisco e ho il coraggio di rendermene conto.»

«Caro, voi guarirete!»

«Perché dir questo?» disse Andrèj Efímyč, con irritazione. «Sono pochi gli uomini che alla fine della loro vita non provano quel che io provo adesso. Quando vi dicono che avete qualche cosa come i reni cattivi o l'ipertrofia di cuore e voi cominciate a curarvi, oppure quando vi dicono che siete un pazzo o un delinquente, vale a dire, in una parola, quando la gente tutt'a un tratto rivolge la sua attenzione su di voi, sappiate allora che siete caduto in un cerchio incantato da cui non uscirete più. Più vi sforzerete di uscirne e più ancora vi ci perderete. Rassegnatevi, perché non vi sono più sforzi umani che vi possano salvare. Così almeno sembra a me.»

Frattanto allo sportello si affollava il pubblico. Andrèj Efímyč, per non disturbare, si alzò e si congedò. Michaíl Aver'jànyč si fece dare ancora una volta la parola d'onore e lo accompagnò fino alla porta esterna.

Quello stesso giorno, verso sera, da Andrèj Efímyč comparve inaspettatamente Chòbotov in pelliccia corta e stivaloni alti e gli disse con un tono come se la sera innanzi non fosse accaduto nulla:

«Son venuto da voi per una faccenda, collega. Sono passato a domandarvi se volete fare un consulto con me.»

Pensando che Chòbotov lo volesse distrarre con una passeggiata o che, in realtà, gli volesse dar da guadagnare, Andrèj Efímyč si vestì e uscì con lui sulla strada. Egli era felice dell'occasione di poter riparare la sua colpa del giorno innanzi e di far la pace, e nell'anima ringraziava Chòbotov il quale non aveva neppur fatto allusione a ciò che era accaduto la vigilia ed evidentemente aveva dei riguardi per lui. Da quell'individuo non colto era difficile aspettarsi una simile delicatezza.

«E dov'è il vostro malato?» domandò Andrèj Efímyč.

«Da me, nell'ospedale. Già da tempo ve lo volevo mostrare... È un caso interessantissimo.»

Entrarono nel cortile dell'ospedale e, fatto il giro dell'edificio principale, si diressero verso il padiglione dove erano ricoverati i pazzi. E tutto questo, chissà perché, in silenzio. Quando entrarono nel padiglione, Nikíta, come al solito, balzò in piedi e si mise sull'attenti.

«A un malato è sopravvenuta una complicazione ai polmoni,» disse a mezza voce Chòbotov, entrando nella camera con Andrèj Efímyč. «Aspettatemi qui, torno subito. Vado a prendere lo stetoscopio.»

E uscì.

 

XVII

 

 

Scendeva la notte. Ivàn Dmítrič giaceva nel suo letto col viso affondato nel guanciale; il paralitico sedeva immobile, piangeva in silenzio e moveva le labbra. Il grasso contadino e l'ex-ripartitore dormivano. Tutto era tranquillo.

Andrèj Efímyč sedette sul letto di Ivàn Dmítrič e attese. Ma passata mezz'ora, invece di Chòbotov, entrò nella stanza Nikíta, tenendo su una bracciata una veste da camera, della biancheria e delle pantofole.

«Favorite di vestirvi, vostra nobiltà,» disse egli piano. «Ecco il vostro lettino, favorite qui,» aggiunse indicando un letto Vuoto, evidentemente portato lì da non molto. «Non è niente, grazie a Dio, guarirete.»

Andrèj Efímyč comprese tutto. Senza dir nemmeno una parola, si avvicinò al letto che gli aveva indicato Nikíta e si sedette; vedendo che, Nikíta stava ritto in attesa, si spogliò fino a restar nudo e ne sentì vergogna. Poi indossò il vestito dell'ospedale; le mutande erano molto corte, la camicia era lunga e la veste da camera sapeva di pesce affumicato. «Se Dio vorrà, guarirete,» ripeté Nikíta.

Egli raccolse in una bracciata i vestiti di Andrèj Efímyč e uscì, chiudendo dietro di sé la porta.

«Fa lo stesso...» pensava Andrèj Efímyč, avviluppandosi vergognoso nella veste da camera e sentendo che nel suo nuovo costume somigliava a un forzato. «Fa lo stesso... Fa lo stesso, il frac, la divisa, questa veste d'ospedale...»

Ma e l'orologio? E il libriccino degli appunti che stava nella tasca laterale? E le sigarette? Dove Nikíta aveva portato i vestiti? Ora, forse, fino alla morte, non gli sarebbe più accaduto di infilarsi i pantaloni, il panciotto e gli stivali. Tutto questo era in certo modo strano e perfino incomprensibile nei primi momenti. Andrèj Efímyč anche ora era convinto che fra la casa della Belova e la sala N. 6 non c'era alcuna differenza, che tutto a questo mondo è assurdità e vanità, ma intanto gli tremavano le mani, i piedi gli gelavano e lo angosciava il pensiero che presto Ivàn Dmítrič si sarebbe alzato e avrebbe veduto che anch'egli era in veste da camera. Si alzò, fece qualche passo e si sedette di nuovo.

Ecco è là seduto già da mezz'ora, da un'ora, e si annoia fino allo spasimo; che davvero è possibile vivere un giorno, una settimana e perfino degli anni come quegli uomini? Ed ecco che si è seduto di nuovo, ha camminato un po' e si è seduto di nuovo; si poteva anche andar a guardare dalla finestra e camminare di nuovo da un angolo all'altro. E poi? Restar sempre così seduto, come un idolo, a pensare? No, questo non era possibile!

Andrèj Efímyč si coricò, ma subito si alzò e si asciugò con la manica il sudor freddo sulla fronte e sentì che tutto il suo viso puzzava di pesce affumicato. Si mise di nuovo a camminare.

«Questo è un equivoco...» proferì, allargando le braccia. «Bisogna spiegarsi, qui c'è un equivoco...»

Intanto si era svegliato Ivàn Dmítrič. Egli si mise a sedere appoggiando le guance ai pugni. Sputò. Poi lanciò uno sguardo pigro al dottore ed evidentemente nel primo momento non comprese nulla; ma ben presto il suo viso assonnato divenne cattivo e sarcastico.

«Ah, ah! anche voi hanno ficcato qui, tesoro!» proferì con la voce rauca del dormiveglia, strizzando un occhio. «felicissimo. Un tempo avete succhiato il sangue alla gente e adesso lo succhieranno a voi. Magnificamente!»

«Questo è un equivoco...» disse Andrèj Efímyč, spaventato dalle parole di Ivàn Dmítrič; scrollò le spalle e ripete: «è un equivoco...»

Ivàn Dmítrič sputò di nuovo e si coricò.

«Maledetta vita!» borbottò. «E quel che è amaro e oltraggioso è che questa vita non termina con una ricompensa perle sofferenze, non termina con una apoteosi come al teatro, ma con la morte; verranno gli inservienti e trascineranno il cadavere per le mani e per i piedi nel sotterraneo. Brr! Non importa... In cambio all'altro mondo verrà la nostra festa... Dall'altro mondo ricomparire qui sotto forma di ombra a, spaventare queste canaglie. Farà venir loro i capelli bianchi.»

Tornò Mojsèjka e, vedendo il dottore, tese la mano.

«Dammi una copeca!» disse.

 

XVIII

 

 

Andrèj Efímyč andò, alla finestra e guardò i campi. Cominciava già a farsi buio e sull'orizzonte, a destra, spuntava la luna, fredda, paonazza. Non lontano dalla cinta dell'ospedale, a poco più di cento sagen, sorgeva un alto edificio bianco, circondato da un muro di pietra. Era la prigione.

«Ecco la realtà,» pensò Andrèj Efímyč, ed ebbe un senso di paura.

Eran terribili, e la luna, e la prigione, e le punte sullo steccato, e la fiamma lontana del forno crematorio. Alle sue spalle si udì un sospiro. Si voltò a guardare e vide un uomo che aveva delle stelle brillanti e delle decorazioni sul petto e sorrideva ammiccando furbescamente con un occhio. Anche questo gli parve terribile.

Cercò di convincersi che nella luna e nella prigione non c'era nulla di speciale, che anche le persone psichicamente sane portano le decorazioni e che tutto col tempo si sarebbe decomposto e trasformato in argilla, ma la disperazione a un tratto s'impadronì di lui; egli afferrò la grata con le mani e la scosse con tutte le sue forze. La solida grata non cedette.

Poi, per aver meno paura, si avvicinò al letto dì Ivàn Dmítrič e si sedette.

«Mi son perso d'animo, mio caro,» mormorò tremando e asciugandosi il sudor freddo. «Mi son perso d'animo.»

«E voi fate della filosofia,» disse sarcasticamente Ivàn Dmítrič.

«Dio mio, Dio mio... sì, sì... Voi un tempo mi avete detto che in Russia non c'è filosofia, ma che tutti filosofeggiano, anche la gentuccia. Però il filosofare della gentuccia non è dannoso a nessuno,» disse Andrèj Efímyč con un tono quasi volesse piangere e muovere a compassione. «Perché, mio caro, questo riso maligno? E come quella gentuccia non dovrebbe filosofeggiare, se non è contenta? Un uomo intelligente, colto, orgoglioso, indipendente, fatto ad immagine di Dio, non trova altra via di uscita che andar come medico in una sporca e stupida cittaduzza ad applicar ventose, sanguisughe e senapismi per tutta la vita! Ciarlataneria, meschinità, volgarità! Oh, Dio mio!»

«Voi state cianciando scioccamente. Se vi ripugnava fare il medico, dovevate fare il ministro.»

«Non si può riuscire a nulla, a nulla. Noi siamo deboli, caro... Io ero indifferente, ragionavo in modo ardito e sano, ma è bastato solo che la vita mi toccasse rudemente per farmi perder d'animo... per prostrarmi... Noi siamo deboli, vili... E voi pure, mio caro. Voi siete intelligente, nobile e col latte della madre avete succhiato nobili inclinazioni, ma appena siete entrato nella vita, vi siete esaurito e ammalato... Deboli, deboli!»

Qualche cosa d'importuno, oltre la paura e il risentimento dell'offesa, tormentava Andrèj Efímyč da quando era scesa la sera. Finalmente trovò che era il desiderio di bere della birra e di fumare.

«Io me ne andrà di qui, mio caro,» disse. «Dirò che ci diano dei lumi... Non posso stare così... non sono in grado...»

Andrèj Efímyč andò alla porta e l'aprì, ma subito Nikíta balzò in piedi e gli sbarrò il passo.

«Dove andate? Non si può, non si può!» disse. «È ora di andare a letto!»

«Ma io esco solo per un minuto, vado a passeggiare in cortile» disse timidamente Andrèj Efímyč.

«Non si può, non si può, è proibito. Lo sapete anche voi!»

Nikíta sbatté la porta e vi si appoggiò con la schiena.

«Ma se io esco di qui, che male ne viene?» domandò Andrèj Efímyč, stringendosi nelle spalle. «Non capisco! Nikíta, io devo uscire!» disse egli con voce tremante. «Ne ho bisogno!»

«Non portate qui il disordine, non sta bene!» disse Nikíta con tono ammonitore.

«Il diavolo lo sa cos'è, questo!» gridò a un tratto Ivàn Dmítrič balzando in piedi.«Che diritto ha di non lasciarci andare? Come osano tenerci qui? Nella legge, mi pare, è detto chiaramente che nessuno può essere privato della libertà senza giudizio! Questa è violenza! È arbitrio!»

«Certamente, è un arbitrio!» disse Andrèj Efímyč, incoraggiato dal grido di Ivàn Dmítrič. «Ho bisogno di uscire! Egli non ne ha il diritto! Lasciami andare, ti dico!»

«Intendi, stupido animale?» gridò Ivàn Dmítrič, e picchiò col pugno sulla porta. «Apri, se no sfondo la porta! Scorticatore!»

«Apri!» gridò Andrèj Efímyč, tremando in tutto il corpo. «Lo esigo!»

«Ripetilo ancora!» rispose dietro la porta Nikíta. «Ripetilo!»

«Almeno va a chiamare Evgènij Fëdoryč. Digli che io lo prego di venire... per un momento!»

«Domani verrà da sé!»

«Non ci faranno uscire mai!» continuava frattanto Ivàn Dmítrič. «Ci lasceranno marcire qui! O signore, è mai possibile che in realtà nell'altro mondo non ci sia l'inferno e che questi mascalzoni siano perdonati? Dov'è la giustizia? Apri, mascalzone, io soffoco!» gridò con voce rauca, scagliandosi contro la porta. «Mi fracasserà la testa! Assassini!»

Nikíta aprì rapido la porta, respinse brutalmente con tutt'e due le mani e col ginocchio Andrèj Efímyč, poi alzò il braccio e lo colpì col pugno in viso. Parve ad Andrèj Efímyč che una enorme ondata salata lo coprisse dalla testa ai piedi e lo trascinasse verso il letto; in realtà egli sentiva in bocca un sapore salato: probabilmente gli usciva sangue dalla bocca. Come se volesse nuotare, egli si mise ad agitar le braccia e si afferrò a un letto, e intanto sentì che Nikíta lo colpiva due volte alla schiena.

Ivàn Dmítrič gettò un alto grido. Probabilmente battevano anche lui.

Poi tutto tacque. La luce fioca della luna filtrava attraverso la grata e sul pavimento giaceva un'ombra simile a una rete. Era terribile. Andrèj Efímyč si coricò e trattenne il respiro; egli si attendeva con spavento che lo picchiassero ancora. Gli pareva che qualcuno avesse preso una falce e gliela affondasse nel corpo e rigirasse nel petto e nelle viscere. Dal dolore addentò il guanciale e serrò i denti; e a un tratto in mezzo al caos, gli balenò chiaro in mente il terribile e intollerabile pensiero che un dolore proprio uguale avevan dovuto provarlo per anni, un giorno dopo l'altro, quegli uomini che ora sotto il raggio della luna parevano nere ombre. Come era potuto accadere che per lo spazio di più di vent'anni egli non l'avesse saputo o non l'avesse voluto sapere? Egli non aveva conosciuto, non aveva avuto nozione del dolore, non era dunque colpevole, ma la coscienza, intrattabile e dura come Nikíta, gli fece provare un senso di freddo dalla testa ai piedi. Saltò su, volle gridare con tutte le sue forze e precipitarsi ad uccidere Nikíta, poi Chòbotov, il custode e l'aiuto-chirurgo, poi se stesso, ma dal suor petto non uscì un solo suono e le gambe non gli obbedirono; ansando si strappò sul petto la veste da camera e la camicia e cadde privo dì sensi sul letto.

 

XIX

 

 

Il mattino dopo gli doleva la testa, gli fischiavano gli orecchi e in tutto il corpo sentiva male. Ricordarsi della sua debolezza del giorno innanzi non gli dava vergogna. Il giorno prima era stato pusillanime, aveva avuto paura perfino della luna, aveva manifestato apertamente dei sentimenti e dei pensieri che prima nemmeno sospettava in sé. Per esempio, i pensieri sul malcontento della gentuccia filosofeggiante. Ma adesso tutto gli era indifferente.

Non mangiò, non bevve, giacque immobile, in silenzio.

«Per me è lo stesso,» pensava, quando gli facevan delle domande. «Non risponderò... Per me è lo stesso.»

Dopo pranzo arrivò Michaíl Aver'jànyč e gli portò un quarto di libbra di tè e una libbra di marmellata. Venne pure Dàr'juška e per un'ora intera rimase dritta accanto al letto con un'aria di ottusa tristezza. Lo venne a visitare anche il dottor Chòbotov. Gli portò una boccetta di bromuro e ordinò a Nikíta di bruciare qualche cosa nella camera.

Verso sera Andrèj Efímyč morì di un colpo apoplettico. Da principio egli sentì un brivido che lo scosse tutto e nausea: gli sembrò che qualche cosa di ripugnante, penetrando in tutto il corpo, persino nelle dita, gli salisse dallo stomaco alla testa e gli ricoprisse gli occhi e gli orecchi. I suoi occhi videro verde. Comprese che era la fine e si ricordò che Ivàn Dmítrič, Michaíl Aver'jànyč e milioni di uomini credevano nell'immortalità. E se veramente ci fosse? Ma egli non voleva l'immortalità e ci pensò soltanto un attimo. Un branco di cervi straordinariamente belli e graziosi, di cui aveva letto il giorno innanzi, gli passò davanti correndo; poi una donna gli porse una lettera raccomandata... Michaíl Aver'jànyč disse qualche cosa. Poi tutto scomparve e Andrèj Efímyč perdette i sensi per sempre.

Vennero gli inservienti, lo presero per le braccia e per le gambe e lo portarono nella cappella. Là egli giacque sulla tavola con gli occhi aperti, e di notte la luna lo illuminò. Il mattino dopo, venne Sergèj Sergèič, pregò devotamente sul crocifisso e chiuse gli occhi del suo ex-superiore.

Di lì a un giorno Andrèj Efímyč fu sepolto. Ai funerali c'erano soltanto Michaíl Aver'jànyč e Dàr'juška.