mercoledì 14 giugno 2023

MERIDIANO DI SANGUE Cormac McCarthy



 MERIDIANO DI SANGUE

Cormac McCarthy.


“Il cuore americano ha premiato McCarthy per aver riportato la narrazione nelle verdi praterie”.

Fernanda Pivano


Né cinema né letteratura avevano mai rappresentato il mondo della Frontiera con la cruda efficacia di Cormac McCarthy. In questo romanzo, siamo al confine tra Stati Uniti e Messico nel 1850, una banda di cacciatori di scalpi lascia dietro di sé una scia di sangue, sullo sfondo di una natura grandiosa e impassibile. Li comanda il corpulento giudice Holden, “enorme, bianco e glabro come un infante smisurato”: un predicatore e filosofo dei deserti che trascina con sé una corte di spostati, mezzosangue e reietti armati fino ai denti, in una spirale di ferocia e di morte. Con loro c’è anche un ragazzo quattordicenne: sarà quella la sua iniziazione alle spietate leggi del West, tra agguati, lunghe marce, bivacchi desolati, notti di bagordi.

E’ il mistero del Male e della violenza la grande ossessione di McCarthy, che fa lievitare le sue storie d’orrore ad altezze epiche, sulle orme di Faulkner, cui la critica lo ha spesso avvicinato. Cormac McCarthy, nato nel 1933, vive a El Paso, nel Texas, in una solitudine fortemente voluta e difesa, che ne ha fatto, con Salinger e Pynchon, uno dei grandi “invisibili” della narrativa americana: “Dico tutto nei libri”, si scusa.


***


“Le vostre idee sono spaventose e i vostri cuori sono deboli. I vostri atti di pietà e di crudeltà sono assurdi, compiuti senza calma, come se fossero irresistibili. Infine, la vostra paura del sangue cresce sempre più. Del sangue e del tempo”.

PAUL VALÈRY

“Non si deve pensare che la vita delle tenebre sia miserevole e infelice come quella fra i dolenti. Non c’è nessun dolente. Perché il dolore viene ingoiato dalla morte, e la morte e il morire sono la vera vita delle tenebre”.

JACOB BOEHME

“Sia Clark, che ha guidato la spedizione dell’anno scorso nella zona più remota dell’Etiopia settentrionale, sia Tim D. White dell’Università di Berkeley, hanno anche affermato che un riesame condotto su un cranio fossile di trecentomila anni fa trovato in precedenza nella stessa regione ha dimostrato che il proprietario era stato scalpato”.

“The Yuma Daily Sun”, 13 giugno 1982



CAPITOLO PRIMO


Eccolo, il ragazzino. E’ pallido e magro, indossa una camicia di lino lisa e sbrindellata. Attizza il fuoco nel retrocucina. Fuori si stendono campi arati, scuri e cosparsi di chiazze di neve, e poi boschi più scuri che celano ancora i pochi lupi rimasti.


I suoi sono noti come taglialegna e venditori d’acqua, ma in realtà suo padre era maestro di scuola. Sdraiato, ubriaco, cita versi di poeti i cui nomi sono ormai andati perduti. Il ragazzo si rannicchia accanto al fuoco e lo guarda.


La notte in cui sei nato. Trentatré. Leonidi, le chiamavano. Dio, come cadevano le stelle. Con lo sguardo cercavo il buio, buchi nel cielo. L’Orsa correva. La madre morta da quattordici anni aveva incubato nel ventre proprio la creatura che l’avrebbe uccisa. Il padre non pronuncia mai il nome della donna, il ragazzo non lo conosce. Ha una sorella al mondo che non rivedrà mai più. Pallido e sporco, guarda il padre. Non sa leggere né scrivere, e già gli cova dentro un gusto per la violenza insensata. C’è tutta la storia in quel volto, il ragazzo padre dell’uomo.


A quattordici anni se ne va di casa. Non vedrà più la gelida cucina nel buio prima dell’alba. La legna da ardere, i pentoloni per il bucato. Vaga verso ovest, fino a Memphis, migratore solitario in quel paesaggio piatto e pastorale. Negri nei campi, smilzi e curvi, le dita come ragni fra le capsule di cotone. Un’agonia nell’ombra del giardino. Sullo sfondo del sole al tramonto, figure che si muovono nel lento crepuscolo lungo un orizzonte di carta. Un colono, solo, scuro, segue mulo ed erpice giù per la bassa battuta dalla pioggia, verso la notte.


Un anno dopo è a Saint Louis. Una chiatta lo prende a bordo, destinazione New Orleans. Quarantadue giorni sul fiume. Di notte i battelli a vapore passano fischiando e arrancando sulle acque buie, tutti illuminati come città alla deriva. Disfano la chiatta e vendono i tronchi, e il ragazzo cammina per le strade e sente lingue mai sentite prima.


Vive in una camera sopra un cortile dietro una taverna e la sera scende giù come la bestia di un libro di fiabe per battersi con i marinai. Grosso non è, ma ha grossi polsi, grosse mani. Le spalle sono strette. La faccia del ragazzo è curiosamente integra sotto le cicatrici, gli occhi stranamente innocenti. Si battono a pugni, a calci, con bottiglie o coltelli. Gente di ogni razza, di ogni sangue. Uomini le cui lingue suonano come grugniti di scimmioni. Uomini che vengono da paesi così lontani e bizzarri che quando li guarda giacere sanguinanti nel fango, ha l’impressione di aver vendicato l’umanità stessa.


Una notte un nostromo maltese gli spara nella schiena con una piccola pistola. Mentre si volta per affrontarlo un’altra pallottola lo colpisce appena sotto il cuore. L’uomo scappa e lui resta appoggiato al bancone con il sangue che scorre a rivoli dalla camicia.


Gli altri distolgono lo sguardo. Dopo un po’ si siede sul pavimento.


Passa due settimane su una branda nella camera al piano di sopra, assistito dalla moglie del taverniere. Lei gli porta da mangiare, porta via i rifiuti. Una donna dall’aria dura con un corpo magro e forte come quello di un uomo. Una volta guarito non ha soldi per pagarla così se ne va nottetempo e dorme in riva al fiume finché non trova una barca disposta a caricarlo. La barca va in Texas.


Solo ora il ragazzo si è finalmente spogliato di tutto ciò che è stato. Le sue origini sono diventate remote come il suo destino, e in tutto il volgere del mondo non ci saranno mai più territori così selvaggi e barbari in cui verificare se la materia della creazione può conformarsi al volere dell’uomo o se il cuore stesso non è altro che un diverso tipo di creta. I passeggeri sono diffidenti. Si schermano gli occhi, e nessuno chiede all’altro cosa lo porta lì. Il ragazzo dorme sul ponte, pellegrino fra altri pellegrini. Guarda la sponda indistinta sorgere e scomparire. Grigi uccelli marini occhieggiano istupiditi. Voli di pellicani lungo la costa sopra le onde grigie e gonfie.


Sbarcano su una chiatta, coloni con le loro masserizie, intenti a studiare la costa bassa, la sottile baia di sabbia e cespugli che galleggia nella foschia. Cammina per i vicoli del porto. L’aria odora di sale e di legname appena tagliato. Di sera le puttane gli lanciano richiami dal buio come anime in pena. Una settimana ed è pronto a ripartire, nel borsellino i pochi dollari guadagnati, percorre le strade sabbiose della notte del Sud, solo, le mani strette a pugno nelle tasche di cotone della giacca a buon mercato. Strade sugli argini di terra battuta che attraversano gli acquitrini. Colonie di aironi che biancheggiano come candele nella palude. Il vento è tagliente e le foglie svolazzano lungo il ciglio della strada e di notte s’inseguono frusciando nei campi. Lui avanza verso nord, fra piccoli insediamenti e fattorie, lavorando a giornata, vitto e alloggio compresi.


Vede l’impiccagione di un parricida in un gruppo di case a un crocevia e gli amici della vittima gli si precipitano addosso e lo tirano per le gambe. Morto, appeso alla corda con l’urina che gli chiazza di scuro i pantaloni.


Lavora in una segheria, lavora in un lazzaretto di difterici. Da un agricoltore accetta come paga un mulo stagionato e in groppa a questo animale, nella primavera dell’anno milleottocentoquarantanove, attraversa la repubblica di Fredonia, nuova di zecca, fino alla città di Nacogdoches.


Da quando aveva cominciato a piovere, e pioveva ormai da due settimane, il reverendo Green faceva un pienone di pubblico ogni giorno. Quando il ragazzo si infilò nella tenda di tela consunta c’era posto in piedi lungo le pareti per un paio di persone, e la puzza di gente umida e non lavata era così tremenda che tutti di tanto in tanto facevano una sortita fuori sotto l’acquazzone in cerca di aria fresca, finché la pioggia non li costringeva a tornare dentro. Rimase in piedi con altri come lui lungo la parete nera. La sola cosa che avrebbe potuto distinguerlo, in mezzo a quella folla, era il fatto che non portava armi.


Fratelli, disse il reverendo, lui non ce la faceva proprio a stare fuori da questi buchi d’inferno, inferno, sì, inferno, qui a Nacogdoches. Io gli ho detto una cosa, gli ho detto: Hai intenzione di portare là dentro con te il figlio di Dio ? E lui ha risposto: Oh, no. Per niente. E io gli ho detto: Ma non lo sai che il figlio di Dio ha detto io vi seguirò sempre anche alla fine della strada?


Be’, ha risposto lui, io non ho intenzione di chiedere a nessuno di andare in nessun posto. E io ho detto: Fratello, non c’è bisogno che tu lo chieda. Lui sarà li con te, incollato ai tuoi passi, che tu lo chieda o no. Gli ho detto: Fratello, non puoi separarti da lui. E allora, trascinerai lui, “lui”, in quel buco d’inferno?


Mai visto un posto con una pioggia simile, ragazzo? Fino a quel momento il ragazzo aveva guardato il reverendo. Si voltò verso l’uomo che aveva parlato. Portava dei lunghi mustacchi alla maniera dei carrettieri e aveva in testa un cappello a tesa larga con il cocuzzolo basso e rotondo. Aveva un occhio un po’ strabico e fissava il ragazzo in tutta serietà come se gli interessasse davvero la sua opinione sulla pioggia.


Sono appena arrivato, disse il ragazzo. Be’, batte tutti quelli che ho visto finora. Il ragazzo annuì. Un uomo enorme con un impermeabile di tela cerata era entrato nella tenda e si era levato il cappello. Era calvo come un uovo, non aveva traccia di barba e i suoi occhi non avevano né sopracciglia né ciglia. Era alto più di due metri, fumava un sigaro perfino dentro quella casa di Dio ambulante e sembrava che si fosse levato il cappello solo per farne sgocciolare la pioggia perché se lo rimise subito in testa.


Il reverendo aveva interrotto il suo sermone. Nella tenda non volava una mosca. Tutti guardavano l’uomo. Lui si aggiustò il cappello poi si fece avanti a spintoni fino alle casse da imballaggio che facevano da pulpito al reverendo e li si girò per rivolgersi alla congregazione. Aveva un volto sereno e stranamente infantile. Le mani piccole. Le protese.


Signore e signori, sento il dovere di informarvi che l’uomo che sta tenendo questa riunione evangelica è un impostore. Non ha documenti di investitura sacerdotale emessi da alcuna istituzione riconosciuta o improvvisata. E’ assolutamente privo della pur minima qualifica per l’ufficio che ha usurpato e ha semplicemente imparato a memoria alcuni passi del libro sacro allo scopo di conferire ai propri fraudolenti sermoni qualche vago sapore di quella devozione che egli disprezza. In realtà, questo gentiluomo che qui davanti a voi si atteggia a ministro del Signore non solo è totalmente analfabeta ma è anche ricercato dalla legge negli stati del Tennessee, del Kentucky, del Mississippi e dell’Arkansas.


Oddio, gridò il reverendo. Bugie, bugie! Cominciò a leggere con fervore dalla sua bibbia aperta. Per una serie di imputazioni, la più recente delle quali coinvolge una ragazzina di undici anni - undici, ho detto -che si è recata da lui in buona fede e che lui è stato sorpreso a violentare con la veste del suo Dio ancora indosso.


Un gemito percorse la folla. Una donna cadde in ginocchio.


E’ lui, strillò il reverendo, tra i singhiozzi. E’ lui. Il diavolo. Eccolo qui.


Impicchiamo quello stronzo, gridò un brutto ceffo dal fondo.


Meno di tre settimane fa è stato cacciato da Fort Smith, nell’Arkansas, per essersi congiunto carnalmente con una capra. Sì, signora, ho detto proprio così. Capra.


Che io sia dannato se non sparo a quel figlio di puttana, saltò su un uomo alzandosi in fondo alla tenda; estrasse una pistola dallo stivale, la puntò e fece fuoco. In un attimo il giovane carrettiere tirò fuori un coltello, scucì la tenda e uscì sotto la pioggia. Il ragazzo lo seguì. Si tennero bassi e corsero nel fango verso l’albergo. Ormai nella tenda la sparatoria era generale, una dozzina di uscite erano state aperte nella tela e la gente schizzava fuori, le donne urlavano, tutti incespicavano, si calpestavano nel fango. Il ragazzo e il suo amico raggiunsero il portico dell’albergo, si sfregarono via l’acqua dagli occhi e si voltarono a guardare. In quell’istante la tenda cominciò a ondeggiare e deformarsi, e come un’enorme medusa ferita si afflosciò lentamente al suolo strascicando sul terreno pareti di tela a brandelli e tiranti consumati.


Il calvo era già al bar quando loro entrarono. Sul legno lucido davanti a lui c’erano due cappelli e una doppia manciata di monete. Alzò il bicchiere, ma non brindava a loro.


Si accostarono al banco, ordinarono whisky e il ragazzo mise giù i suoi soldi ma il barman li respinse con il pollice e fece un cenno con il capo.


Questi li offre il giudice, disse. Bevvero. Il carrettiere posò il bicchiere e guardò il ragazzo, o almeno così sembrò, non si poteva giurare sulla direzione del suo sguardo. Il ragazzo guardò in fondo al banco, dove stava il giudice. Il banco era così alto che non tutti potevano appoggiarci sopra i gomiti, ma arrivava appena alla vita del giudice che teneva le palme delle mani piatte sul legno, leggermente proteso in avanti, come se stesse per fare un altro discorso. Ormai gli uomini si accalcavano all’ingresso, sanguinanti, coperti di fango, imprecando. Si ammassarono vicino al giudice. Si stava organizzando una posse per inseguire il predicatore.


Giudice, come le avete sapute quelle storie su quel buono a nulla?


Storie? disse il giudice.


Quando siete stato a Fort Smith?


Fort Smith?


Quando l’avete conosciuto per sapere tutta quella roba su di lui?


Vi riferite al reverendo Green?


Sissignore. Immagino che foste a Fort Smith prima di venire qui.


Non sono mai stato a Fort Smith in vita mia. E dubito che ci sia mai stato lui.


I presenti si guardarono.


Be’, dov’è che l’avete incontrato?


Non ho mai avuto quell’uomo davanti agli occhi prima di oggi. Mai neanche sentito parlare di lui.


Sollevò il bicchiere e bevve.


Nel locale si fece uno strano silenzio. Gli uomini sembravano statue di fango. Alla fine uno cominciò a ridere. Un altro lo imitò. Dopo un po’ ridevano tutti insieme.


Qualcuno pagò da bere al giudice. Pioveva da sedici giorni quando incontrò Toadvine, e stava piovendo ancora. Lui era sempre nello stesso saloon e si era bevuto tutti i soldi tranne due dollari. Il carrettiere se n’era andato, il locale era quasi vuoto. La porta era aperta e si vedeva la pioggia cadere sullo spiazzo vuoto dietro l’albergo. Vuotò il bicchiere e uscì. C’erano delle tavole stese sul fango e lui seguì la striscia di luce che usciva dalla porta e lo guidava verso la latrina di mattoni rotti, in fondo allo spiazzo. Un altro uomo veniva dalla latrina e si incontrarono a metà strada sulle strette assi. L’uomo che gli stava davanti barcollava leggermente. La tesa fradicia del cappello gli cadeva sulle spalle, tranne sulla fronte dove era fissata all’indietro. Teneva una bottiglia nella mano malferma. Meglio che ti togli dai piedi, disse.


Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di farlo e non vedeva nessuna utilità nel discutere la cosa. Colpì l’uomo alla mascella. L’uomo cadde e si rialzò. Disse: ti ammazzo.


Mollò uno sventolone con la bottiglia e il ragazzo lo schivò abbassandosi, e allora ne mollò un altro e il ragazzo fece un passo indietro. Quando il ragazzo lo colpì, l’uomo gli spaccò la bottiglia sulla testa, di lato. Finì fuori dalle assi, nel fango, e l’uomo gli saltò addosso cercando di ficcargli in un occhio il collo rotto della bottiglia. Lui parava i colpi con le mani lustre di sangue. Intanto cercava di arrivare al coltello che teneva nello stivale.


Ti ammazzo, stronzo, disse l’uomo. Arrancavano nel buio dello spiazzo, e avevano perso gli stivali. Ora il ragazzo aveva il coltello e si fronteggiavano girando in cerchio come granchi e quando l’uomo attaccò lui gli squarciò la camicia. L’uomo buttò via il pezzo di bottiglia ed estrasse da dietro il collo un gigantesco coltello da caccia. Non aveva più il cappello e i riccioli neri gli ondeggiavano intorno alla testa come pezzi di corda e aveva codificato le sue minacce nella sola parola ammazzo, come una folle cantilena.


Quello sì che taglia, disse uno dei molti uomini che stavano a guardare lungo la passerella.


Ammazzo, ammazzo, sbavava l’uomo avanzando nella guazza. Ma qualcun altro stava sopraggiungendo nello spiazzo, un uomo grande e grosso che faceva certi rumori di risucchio con la bocca come una mucca. In mano aveva un enorme bastone.


Raggiunse per primo il ragazzo, e quando vibrò un colpo con la mazza il ragazzo cascò a faccia in giù nel fango. Se non lo avessero girato sulla schiena sarebbe morto.


Quando si risvegliò era giorno, non pioveva più e sopra di lui c’era la faccia di un uomo coi capelli lunghi, completamente coperto di fango. L’uomo gli stava dicendo qualcosa.


Che cosa? disse il ragazzo.


Ho detto, ti arrendi?


Mi arrendo?


Sì, ti arrendi. Perché se vuoi prenderne un altro po’, sicuro come l’inferno che ne avrai.


Alzò lo sguardo al cielo. Molto in alto, piccolo piccolo, c’era un avvoltoio. Guardò l’uomo. Ho il collo rotto? chiese.


L’uomo lanciò uno sguardo allo spiazzo, sputò e tornò a fissare il ragazzo. Non riesci ad alzarti?


Non so. Non ci ho provato.


Non volevo romperti il collo.


No.


Volevo ammazzarti.


Nessuno l’ha fatto, per ora. Affondò le unghie nel fango e si tirò su. L’uomo era seduto sulle assi con gli stivali stesi accanto. Sembra tutto a posto, disse.


Il ragazzo girò intorno uno sguardo deciso. Dove sono i miei stivali? chiese. L’uomo gli lanciò un’occhiata di traverso. Dalla faccia gli cadevano scaglie di fango secco.


Mi sa che dovrò ammazzare qualche figlio di puttana se mi hanno rubato gli stivali.


Ce n’è uno laggiù, mi pare.


Il ragazzo avanzò faticosamente nel fango e recuperò uno stivale. Si trascinò qua e là per il cortile tastando blocchi di fango dall’aria promettente.


E il tuo coltello, questo? chiese.


L’uomo lo guardò in tralice. Gli somiglia, disse.


Il ragazzo glielo gettò e lui si piegò, lo raccolse e pulì la lama enorme strofinandola su una gamba dei pantaloni. Pensavo proprio che ti avessero rubato, disse al coltello.


Il ragazzo trovò l’altro stivale, tornò indietro e si sedette sulle assi. Aveva le mani spesse di fango; se ne passò una sul ginocchio, brevemente, poi la lasciò ricadere.


Rimasero seduti fianco a fianco, con gli occhi fissi sullo spiazzo desolato. In fondo c’era uno steccato e dietro lo steccato un ragazzo che attingeva acqua da un pozzo e c’erano alcune galline in un cortile. Un uomo uscì dalla porta dello spaccio di alcolici e si incamminò verso il cesso tenendosi sulla passerella. Si fermò dov’erano seduti i due e li guardò, poi proseguì scendendo nel fango. Dopo un po’ tornò indietro, girò di nuovo intorno ai due scendendo nel fango e risali sulla passerella.


Il ragazzo guardò l’uomo. Aveva una testa curiosamente stretta e i capelli impastati di fango in un’acconciatura stravagante e primitiva. Sulla fronte erano impresse a fuoco le lettere H T e più in basso, quasi fra gli occhi, la lettera F, e queste marchiature erano slargate e accese come se il ferro ci avesse insistito troppo a lungo. Quando si voltò per guardarlo, il ragazzo vide che non aveva orecchie. L’uomo si alzò, infilò il coltello nel fodero e si incamminò lungo la passerella con gli stivali in mano, e il ragazzo si rimise in piedi e lo seguì. A metà strada l’uomo si fermò e guardò il fango, poi si sedette sulle assi e si infilò gli stivali, con il fango e tutto il resto. Quindi si rialzò e arrancò nella mota per andare a raccogliere qualcosa.


Voglio che guardi qui, disse. Guarda il mio maledetto cappello.


Impossibile dire cos’era; qualcosa di morto, forse. Lo sbatté, se lo mise in testa e proseguì il cammino, col ragazzo dietro. Lo spaccio era un locale lungo e stretto con le pareti rivestite di legno verniciato. C’erano tavoli vicino al muro e sputacchiere sul pavimento. Non c’erano avventori. Quando entrarono, il barman alzò lo sguardo e un negro che stava spazzando il pavimento appoggiò la scopa al muro e uscì.


Dov’è Sidney ? chiese l’uomo, con il suo vestito di fango.


A letto, credo.


I due passarono oltre.


Toadvine, chiamò il barman. Il ragazzo si voltò a guardare. Il barman era uscito da dietro il banco e li seguiva con lo sguardo. Attraversarono l’atrio dell’albergo e si diressero alle scale lasciandosi dietro tracce di fango di forma varia. Mentre cominciavano a salire le scale il portiere al banco si sporse e li chiamò.


Toadvine.


L’uomo si fermò e si voltò.


Ti sparerà.


Il vecchio Sidney?


Il vecchio Sidney.


Ripresero a salire le scale. Dal pianerottolo partiva un corridoio con una finestra in fondo. Lungo le pareti c’erano porte verniciate, così vicine che si sarebbero scambiate per stipi. Toadvine avanzò fino in fondo al corridoio. Origliò all’ultima porta e lanciò un’occhiata al ragazzo.


Hai un fiammifero?


Il ragazzo si frugò nelle tasche e tirò fuori una scatola di legno schiacciata e macchiata. L’uomo la prese. Qui ci vuole un po’ di esca, disse. Stava rompendo la scatola e ammassando i pezzetti di legno contro la porta. Accese un fiammifero e diede fuoco al tutto. Spinse sotto la porta la piccola catasta di legno in fiamme e aggiunse altri fiammiferi.


Lui è dentro? chiese il ragazzo.


E’ quello che stiamo cercando di vedere. Una voluta di fumo nero salì nell’aria, poi la fiamma azzurra della vernice che bruciava. Si acquattarono nel corridoio e rimasero ad aspettare. Fiamme sottili cominciarono a salire su per i pannelli guizzando poi verso il basso. I due spettatori sembravano sagome ricavate in un pantano.


Adesso bussa alla porta, disse Toadvine.


Il ragazzo si alzò. Anche Toadvine si mise in piedi, in attesa. Sentivano le fiamme crepitare nella stanza. Il ragazzo bussò.


Meglio che bussi più forte. Questo è uno che beve.


Strinse la mano a pugno e picchiò quattro o cinque volte sulla porta.


Cristo, il fuoco, disse una voce.


Ecco che arriva. Attesero.


Brucia, questa figlia di puttana, disse la voce. Poi la maniglia girò e la porta si aprì.


L’uomo indossava solo la biancheria e teneva in mano la salvietta che aveva usato per girare la maniglia. Quando li vide si voltò e fece per rientrare nella stanza, ma Toadvine lo agguantò per il collo e lo rovesciò sul pavimento e lo prese per i capelli e cominciò a cavargli un occhio con il pollice. L’uomo gli afferrò il polso e lo morse.


Prendilo a calci in bocca, gridò Toadvine. Prendilo a calci.


Il ragazzo oltrepassò i due, entrò nella stanza, si girò e diede un calcio in faccia all’uomo. Toadvine gli teneva la testa ferma per i capelli.


Prendilo a calci, gridò. Su, prendilo a calci, tesoro.


Il ragazzo obbedì. Toadvine rigirò la testa insanguinata, la guardò e la lasciò cadere sul pavimento, poi si alzò e mollò a sua volta un calcio. Nel corridoio c’erano due spettatori. La porta era completamente in fiamme, e così parte della parete e del soffitto.


Uscirono e ripercorsero il corridoio. Il portiere stava salendo le scale a due gradini alla volta.


Toadvine, figlio di puttana, disse. Toadvine era quattro gradini più su di lui e quando gli sferrò un calcio lo colpì alla gola. Il portiere cadde a sedere sulle scale. Il ragazzo gli passò accanto e lo colpì alla testa, di lato, e il portiere crollò sui gradini e cominciò a scivolare verso il pianerottolo. Il ragazzo lo scavalcò e scese fino all’atrio, lo attraversò e uscì.


Toadvine correva lungo la strada, mulinando i pugni sopra la testa e ridendo.


Sembrava una grande bambola voodoo d’argilla animata per magia, e il ragazzo lo stesso. Alle loro spalle le fiamme lambivano l’angolo del tetto dell’albergo e nuvole di fumo nero salivano nel caldo mattino texano.


Aveva lasciato il mulo presso una famiglia messicana che teneva gli animali a stalla alla periferia della città e ci arrivò senza fiato, conciato da far paura. La donna aprì la porta e lo guardò.


Devo prendere il mulo, ansimò il ragazzo. La donna rimase un po’ a guardarlo, poi lanciò un richiamo verso il retro. Lui girò intorno alla casa. Nel cortile c’erano dei cavalli impastoiati e contro lo steccato un carro a fondo piatto con dei tacchini appollaiati sul bordo a guardar fuori. La vecchia era arrivata alla porta sul retro. Nito, chiamò. Venga. Hay un caballero aqui. Venga.


Il ragazzo attraversò la stalla fino al magazzino e prese la vecchia sella scalcinata e il rotolo di coperte e li portò fuori. Trovò il mulo, lo slegò, gli mise le briglie di pelle greggia e lo portò allo steccato. Premette la spalla contro l’animale e gli piazzò in groppa la sella e legò lo straccale, mentre il mulo scalpitava e recalcitrava e muoveva la testa su e giù lungo lo steccato. Gli fece attraversare il cortile. Il mulo continuava a scuotere la testa come se gli fosse entrato qualcosa nell’orecchio.


Lo portò fuori, sulla strada. Nel momento in cui passò di fianco alla casa, la donna uscì e gli andò dietro camminando lentamente. Quando lo vide infilare il piede nella staffa cominciò a correre. Il ragazzo balzò sulla sella rotta e spinse avanti il mulo schioccando la lingua. La donna si fermò al cancello e lo guardò andare via. Lui non si voltò.


Quando attraversò la città, l’albergo stava bruciando e c’era gente intorno a guardare, qualcuno con un secchio vuoto in mano. Alcuni uomini a cavallo osservavano le fiamme, e uno di loro era il giudice. Nel momento in cui il ragazzo passava, il giudice si voltò a guardarlo. E girò il cavallo, come se volesse mostrare il ragazzo anche all’animale. Il ragazzo si lanciò un’occhiata alle spalle e il giudice sorrise. Il ragazzo spronò il mulo e si avviarono ansimando oltre il vecchio forte di pietra, lungo la strada diretta a ovest. 

Capitolo 2