martedì 29 agosto 2023

I CALZINI FINLANDESI IN CRÊPE Estratto da "La valigia" Sergiei Dovlatov


 I CALZINI FINLANDESI IN CRÊPE

Estratto da "La valigia" Sergei Dovlatov 

Recensione

La raccolta di racconti di Sergej Dovlatov intitolata La valigia è stata scritta e pubblicata negli Stati Uniti nel 1986. L’autore era da tempo emigrato a New York dall’Unione Sovietica ed era diventato redattore del giornale “New American”. Tutti i racconti del ciclo sono legati al vissuto dell’autore.

Emigrando dall’Unione Sovietica, il protagonista, lo stesso Dovlatov, porta con sé una valigia, nella quale ripone alcuni oggetti. Arrivata col suo proprietario in America, la valigia resterà sigillata e riposta in un armadio per alcuni anni. Una volta aperta, ogni oggetto in essa riposto farà affiorare un ricordo. L’autore scrive secondo il principio un oggetto/un episodio, dando vita così ad 8 capitoli intitolati rispettivamente: I calzini finlandesi, Le scarpe del sindaco, Un bel vestito a doppio petto, La cintura da ufficiale, Il giaccone di Fernand Léger, La camicia di popeline, Il colbacco, I guanti da automobilista. Tutti gli oggetti citati, così come tutti gli annessi episodi raccontati riguardano la vita dell’autore in Unione Sovietica. Quel sentimento di nostalgia che permea l’intero corpus del testo viene perfettamente anticipato nell’epigrafe tratta dai versi di Aleksandr Blok: “Anche così, Russia mia, sei la terra a me più cara…”. 


I CALZINI FINLANDESI IN CRÊPE

QUESTO È ACCADUTO DICIOTTO ANNI fa, quando ero studente all'Università di Leningrado. Il campus universitario si trovava nella parte vecchia della città. La combinazione di acqua e pietra crea lì un'atmosfera speciale e maestosa. È difficile essere un fannullone in quelle circostanze, ma ci sono riuscito. Poiché esistono le scienze esatte, devono esistere anche le scienze inesatte. Mi sembra che tra le scienze inesatte la prima sia la filologia. E così sono diventato uno studente del dipartimento di filologia. Una settimana dopo una ragazza snella con scarpe importate si innamorò di me. Il suo nome era Asya. Asya mi ha presentato ai suoi amici. Erano tutti più vecchi di noi: ingegneri, giornalisti, cameraman. Uno era addirittura direttore di un negozio. Queste persone si vestivano bene. A loro piaceva andare al ristorante e viaggiare. Alcuni avevano la propria macchina. Allora sembravano misteriosi, potenti e attraenti. Volevo appartenere alla loro folla. Successivamente molti di loro emigrarono. Ora sono solo normali ebrei anziani. La vita che conducevamo richiedeva spese significative. Molto spesso cadevano sulle spalle degli amici di Asya. Ciò mi ha messo in notevole imbarazzo. Ricordo ancora come il dottor Logovinsky mi diede quattro rubli mentre Asya fermava un taxi... Puoi dividere il mondo in due tipi di persone: quelle che chiedono e quelle che rispondono. Quelli che fanno domande e quelli che aggrottano la fronte irritati in risposta. Gli amici di Asya non le hanno fatto domande. E tutto quello che ho sempre fatto è stato chiedere: “Dove eri? Chi hai incontrato nella metropolitana? Dove hai preso quel profumo francese?" La maggior parte delle persone considera insolubili i problemi le cui soluzioni non sono adatte a loro. E fanno costantemente domande alle quali non hanno bisogno di risposte veritiere. Per farla breve, ero invadente e stupido. Ho acquisito debiti. Sono cresciuti in progressione geometrica. A novembre avevano raggiunto i diciotto rubli, una somma mostruosa per quei tempi. Ho conosciuto i banchi dei pegni con le loro matrici e ricevute, la loro atmosfera di abbattimento e povertà. Quando Asya era vicina non potevo pensarci. Ma non appena ci siamo salutati, il pensiero dei miei debiti è fluttuato come una nuvola nera. Mi sono svegliato con la sensazione di un disastro imminente. Mi ci sono volute ore solo per convincermi a vestirmi. Avevo seriamente pianificato di rapinare una gioielleria. Ero convinto che tutti i pensieri di un povero innamorato fossero criminali.

A quel punto il mio successo accademico era notevolmente diminuito. Tanto per cominciare Asya non era stata una studentessa eccezionale. I presidi iniziarono a parlare della nostra immagine morale. Ho notato che quando un uomo è innamorato e ha dei debiti, la sua immagine morale diventa argomento di conversazione. In breve, tutto era orribile. Una volta vagavo per la città cercando sei rubli. Ho dovuto togliermi l'impegno dal cappotto invernale. E ho incontrato Fred Kolesnikov. Fred fumava, appoggiato alla ringhiera d'ottone del negozio Eliseyev. Sapevo che era un commerciante nero. Asya ci aveva presentato una volta. Era un giovane alto, sui ventitré anni, con una carnagione malsana. Mentre parlava si lisciava nervosamente i capelli. Senza pensarci due volte, mi sono avvicinato a lui. "Potresti prestarmi sei rubli fino a domani?" Cercavo di comportarmi in modo invadente quando chiedevo denaro in prestito, in modo che le persone potessero rifiutarmi facilmente. "Senza dubbio", disse Fred, tirando fuori un piccolo portafoglio quadrato. Mi sono pentito di non aver chiesto di più. "Prendine di più", disse Fred. Come uno stupido, ho protestato. Fred mi guardò incuriosito. "Pranziamo", disse. "Offerta mia." Il suo comportamento era semplice e naturale. Ho sempre invidiato le persone che potevano essere così. Camminammo per tre isolati fino al ristorante Chayka. Era vuoto. I camerieri fumavano seduti a un tavolino. Le finestre erano spalancate. Le tende ondeggiavano nella brezza. Abbiamo deciso di andare nell'angolo più lontano. Un giovane con una giacca di Dacron argentata fermò Fred. Hanno avuto una conversazione piuttosto misteriosa. "Saluti." "I miei rispetti", ha detto Fred. "BENE?" "Niente." Le sopracciglia del giovane si sollevarono per la delusione. "Assolutamente niente?" "Assolutamente niente." "Ma te l'ho chiesto." "Mi dispiace molto." “Ma posso contarci?” "Indubbiamente." "Sarebbe bello questa settimana." "Ci proverò." "Che ne dici di una garanzia?" “Nessuna garanzia. Ma ci proverò." "Sarà un'etichetta?" "Naturalmente." "Quindi chiamami." "Ovviamente." "Ricordi il mio numero di telefono?" "Purtroppo no." "Per favore scrivilo." "Con piacere." “Anche se questa non è una conversazione telefonica.” "Sono d'accordo." "Forse verrai solo con la merce?" "Volentieri." "Ricordi il mio indirizzo?" “Temo di no…”

E così via. Siamo andati all'angolo più lontano. Sulla tovaglia si vedevano le pieghe evidenti della stiratura. La stoffa era ruvida. Fred disse: “Vedi quell'aspirante? Un anno fa ha ordinato un set di Delbanas con una croce...» L'ho interrotto. "Cosa sono i Delbanas con una croce?" "Orologi", rispose Fred. “Non è importante… gli ho portato la merce almeno dieci volte. Non li avrebbe presi. Ogni volta inventava una nuova scusa. Alla fine non li ha mai presi. Continuavo a pensare: "A cosa sta giocando?" E all'improvviso ho capito che non voleva comprare i miei orologi, voleva solo sentirsi un uomo d'affari che aveva bisogno di una spedizione di articoli di marca. Voleva una scusa per continuare a chiedermi: ‘Come va il nostro accordo?’” La cameriera ha preso la nostra ordinazione. Abbiamo acceso le sigarette e ho chiesto: "Non potresti essere arrestato?" Fred ci pensò su e rispose con calma: “Non è fuori discussione. Sarò venduto dalla mia stessa gente”, ha aggiunto senza rabbia. "Allora forse dovresti smetterla?" Si accigliò. “Lavoravo come addetto alle spedizioni. Vivevo con novanta rubli al mese..." Poi all'improvviso si alzò e gridò: "È una farsa!" "La prigione non è affatto migliore." "Cosa posso fare? Non ho talenti. Mi rifiuto di storpiarmi per novanta rubli... Va bene, allora mangerò duemila hamburger nella mia vita. Indossa venticinque abiti grigio scuro. Sfoglia settecento numeri del giornale locale. E morire senza scalfire la superficie terrestre. È così?… Preferirei vivere solo un minuto, ma vivilo bene!” Ci hanno portato cibo e bevande. Il mio nuovo amico continuava a filosofare. “Prima della nostra nascita non c’è altro che un abisso, e c’è solo un abisso dopo la nostra morte. La nostra vita non è altro che un granello di sabbia nell’indifferente oceano dell’infinito. Cerchiamo quindi di preservare il momento dalla noia e dalla disperazione! Proviamo a lasciare un graffio sulla crosta terrestre. Lascia che sia il Joe medio a farsi carico del carico. Non farà miracoli. O addirittura commettere crimini…” Ho quasi gridato a Fred: "Allora perché non fai miracoli!" Ma mi sono controllato. Stava pagando le bevande. Abbiamo trascorso circa un'ora al ristorante. Poi ho detto: “È ora di andare. Il banco dei pegni chiuderà." E poi Fred Kolesnikov mi ha fatto un'offerta. “Vuoi entrare nella quota? Lavoro con attenzione, non prendo valuta forte o oro. Migliorerai le tue finanze e poi potrai smettere. Che ne dici? Beviamo qualcosa adesso e parliamo domani."

Il giorno dopo pensavo che il mio amico mi avrebbe dato buca, ma Fred era semplicemente in ritardo. Ci siamo incontrati vicino alla fontana ferma davanti all'Hotel Astoria. Poi siamo andati tra i cespugli. Fred disse: “Due donne finlandesi arriveranno tra un minuto con la merce. Prendi un taxi e vai con loro a questo indirizzo." Mi porse un pezzo di carta da giornale e proseguì. “Rymar ti incontrerà. Facile da riconoscere: ha la faccia da idiota e un maglione arancione. Sarò lì tra dieci minuti. Tutto andrà bene!" "Ma non parlo finlandese." “Non importa. L'importante è sorridere. Ci andrei io stesso, ma qui mi conoscono..." Fred mi afferrò improvvisamente la mano. "Sono là! Vai!" Ed è scomparso tra i cespugli. Andai incontro alle due donne, sentendomi terribilmente nervoso. Sembravano contadini, con facce larghe e abbronzate. Indossavano impermeabili leggeri, scarpe eleganti e fazzoletti luminosi. Ognuno portava una borsa della spesa gonfia come un pallone da calcio. Gesticolando selvaggiamente, finalmente condussi le donne al posteggio dei taxi. Non c'era linea. Continuavo a ripetere: "Mr Fred, Mr Fred" e tiravo la manica di una donna. "Dov'è quel ragazzo?" disse arrabbiata la donna. “Dove diavolo è? Cosa sta cercando di ottenere?" "Parli russo?" "Mia mamma era russa." Dissi: “Il signor Fred arriverà un po' più tardi. Il signor Fred mi ha chiesto di portarti a casa sua. Si fermò una macchina. Ho dato l'indirizzo. Poi ho iniziato a guardare fuori dalla finestra. Non avevo realizzato quanti poliziotti potessero esserci in una folla di pedoni. Le donne parlavano tra loro finlandese. Erano chiaramente insoddisfatti di qualcosa. Poi hanno riso e mi sono sentito meglio. Sul marciapiede ci aspettava un uomo con un maglione fiammeggiante. Mi ha detto strizzando l'occhio: "Che coppia di cani!" "Guardati allo specchio", disse Ilona con rabbia. Lei era la più giovane. "Parlano russo", dissi. “Eccezionale”, disse Rymar senza battere ciglio, “meraviglioso. Ci avvicina. Ti piace Leningrado?» “Non male”, ha detto Maria. "Sei stato all'Ermitage?" "Non ancora. Che cos'è?"

Hanno dipinti, souvenir e così via. Prima di allora, lì vivevano gli zar”, ha detto Rymar. "Dovremmo dare un'occhiata", disse Ilona. "Non sei stato all'Ermitage!" Rymar era scioccato. Rallentò perfino un po' il passo, come se stare con gente così incolta lo trascinasse giù. Siamo saliti al secondo piano. Rymar aprì la porta, che non era chiusa a chiave. C'erano piatti sporchi ovunque. Le pareti erano ricoperte di fotografie. Sul divano giacevano le sovraccoperte colorate di dischi stranieri. Il letto non è stato rifatto. Rymar accese la luce e sistemò rapidamente. Poi disse: "Che cosa hai portato?" "Perché non ci dici dov'è il tuo amico con i soldi?" In quel momento si sentirono dei passi e apparve Fred Kolesnikov. Aveva con sé un giornale che era stato nella sua cassetta della posta. Sembrava calmo, addirittura indifferente. “Terve”, ha detto ai finlandesi. "Ciao." Poi si rivolse a Rymar. “Ragazzi, sembrano incazzati. Ci hai provato con loro?" "Me?" disse Rymar indignato. “Stavamo parlando di Arte! A proposito, parlano russo." "Meraviglioso", disse Fred. «Buonasera, signora Lenart; come state, signorina Ilona?» "Va bene grazie." "Perché hai nascosto il fatto che parli russo?" "Nessuno me lo ha chiesto." "Prima dovremmo bere qualcosa", disse Rymar. Prese dall'armadio una bottiglia di rum cubano. I finlandesi hanno bevuto con piacere. Rymar versò un altro giro. Quando gli ospiti andarono a usare il bagno, disse: "Tutti questi lapponi si somigliano". "Soprattutto perché sono sorelle", ha spiegato Fred. "Proprio come pensavo... A proposito, quella tazza della signora Lenart non mi ispira fiducia." Fred urlò a Rymar: "E quale tazza ti ispira fiducia, oltre alla tazza di un investigatore della polizia?" I finlandesi tornarono presto. Fred diede loro un asciugamano pulito. Alzarono i bicchieri e sorrisero – la seconda volta quel giorno. Tenevano le borse della spesa in grembo. "Saluti!" Rymar ha detto. "Alla vittoria sui tedeschi!" Abbiamo bevuto, e anche i finlandesi. Sul pavimento c'era un grammofono e Fred lo accese con il piede. Il disco nero oscillò leggermente. "Chi è il tuo scrittore preferito?" Rymar stava infastidendo i finlandesi. Le donne si consultarono. Poi Ilona disse: "Karjalainen, forse?"* Rymar sorrise con condiscendenza per indicare che approvava il candidato nominato, ma anche che lui stesso aveva pretese più elevate.

"Capisco", disse. "Quali sono le vostre merci?" "Calzini", disse Maria. "Nient'altro?" "Cos'altro vorresti?" "Quanto?" chiese Fred. «Quattrocentotrentadue rubli», abbaiò Ilona, ​​la più giovane. “Mein Gott!” esclamò Rymar. “Le zanne scoperte del capitalismo!” «Voglio sapere quanto hai portato. Quante paia?" chiese Fred. «Settecentoventi.» «Crêpe di nylon?» chiese Rymar. “Sintetico”, rispose Ilona. «Sessanta centesimi al paio. Totale: quattrocentotrentadue rubli.» Qui devo fare una piccola digressione matematica. Allora erano di moda i calzini in crêpe. L'industria sovietica non li produceva, quindi potevano essere acquistati solo sul mercato nero. Un paio di calzini finlandesi costava sei rubli. I finlandesi li offrivano per un decimo di quella cifra. Profitto puro al 900%... Fred tirò fuori il portafoglio e contò i soldi. «Ecco», disse, «venti rubli in più. Lascia la merce direttamente nelle borse della spesa.” “Dobbiamo brindare alla risoluzione pacifica della crisi di Suez! All’annessione della Lotaringia!” disse Rymar. Ilona spostò i soldi nella mano sinistra. Prese il bicchiere, che era pieno fino all'orlo. “Diamo una palla a questi finlandesi”, sussurrò Rymar, “in nome dell’unità internazionale”. Fred si rivolse a me. "Vedi con cosa devo lavorare?" Mi sentivo ansioso e spaventato. Volevo andarmene il più velocemente possibile. "Chi è il tuo artista preferito?" chiese Rymar a Ilona. E le mise una mano sulla schiena. “Forse Mantere,”* disse Ilona, ​​allontanandosi. Rymar alzò le sopracciglia in segno di rimprovero, come se il suo senso estetico fosse stato offeso. Fred mi disse: «Bisogna accompagnare le donne e dare all'autista sette rubli. Manderei Rymar, ma ruberà una parte del denaro. "Me?!" Rymar era infuriato. "Con la mia cristallina onestà?" Quando sono tornato, c'erano pacchi di cellophane colorati ovunque. Rymar sembrava leggermente impazzito. “Piastres, corone, dollari”, borbottò, “franchi…” All'improvviso si calmò e tirò fuori un taccuino e un pennarello. Fece alcuni calcoli e disse: “Esattamente settecentoventi paia. I finlandesi sono un popolo onesto. Questo è ciò che si ottiene con uno stato sottosviluppato”.

"Moltiplica per tre", gli disse Fred. «Perché alle tre?» «Se li vendiamo all'ingrosso, i calzini costeranno tre rubli. Millecinquecento e più di puro profitto. Rymar arrivò subito alla cifra precisa. «Millesettecentoventotto rubli.» Follia e praticità convivevano in lui. "Cinquecento qualcosa per ciascuno di noi", ha aggiunto Fred. "Cinquecentosettantasei", precisò Rymar. Più tardi io e Fred eravamo in un ristorante di shashlik. La tela cerata sul tavolo era appiccicosa. L'aria era piena di una nebbia oleosa. La gente passava fluttuando come pesci in un acquario. Fred sembrava distratto e cupo. Ho detto: “Tanti soldi in cinque minuti!” Dovevo dire qualcosa. "Devi ancora aspettare quaranta minuti per ottenere delle torte unte cotte nella margarina", rispose Fred. Poi ho chiesto: "Per cosa hai bisogno di me?" “Non mi fido di Rymar. Non perché Rymar possa imbrogliare un cliente, anche se non è fuori questione. E non perché Rymar possa attaccare un cliente con vecchi certificati invece che con denaro. E nemmeno perché tende a mettere le mani sui clienti. Ma perché Rymar è stupido. Cosa distrugge gli sciocchi? Un desiderio di Arte e Bellezza, e Rymar ha questo desiderio. Nonostante i suoi limiti storici, vuole una radio portatile giapponese. Rymar va al negozio di valuta forte e consegna quaranta dollari al cassiere. Con la sua faccia! Anche nel negozio di alimentari più comune, quando consegna un rublo al cassiere, il cassiere è sicuro che il rublo è stato rubato. E qui ha quaranta dollari! Una chiara violazione delle norme sulle valute forti. Prima o poi finirà in prigione”. "Che dire di me?" “Non lo farai. Avrai altri problemi." Non ho chiesto quali. Congedandosi, Fred aggiunse: "Avrai la tua parte giovedì". Tornai a casa provando uno strano misto di ansia ed euforia. Ci deve essere un potere vile nel denaro pazzo. Non ho detto ad Asya della mia avventura. Volevo stupirla. Per trasformarsi improvvisamente in un uomo ricco ed espansivo.

Nel frattempo le cose per lei peggioravano. Continuavo a farle domande. Anche quando criticavo i suoi amici, usavo la forma interrogativa: “Non pensi che Arik Shulman sia un idiota?” Volevo compromettere Shulman agli occhi di Asya e ovviamente ho ottenuto esattamente il contrario. Ti dirò, anticipando la mia storia, che ci siamo lasciati in autunno. Perché prima o poi una persona che continua a fare domande imparerà a dare risposte... Fred ha chiamato giovedì. “Una catastrofe!” Pensavo che Rymar fosse stato arrestato. "Peggio", disse Fred. "Vai nel negozio di abbigliamento più vicino." "Perché?" “Tutti i negozi sono inondati di calzini di crêpe. Calzini in crêpe sovietico. Ottanta copeche al paio. Qualità non peggiore di quelle finlandesi. La stessa merda sintetica. "Cosa possiamo fare?" "Niente. Cosa potremmo fare? Chi si sarebbe aspettato un colpo basso come questo da un’economia socialista? A chi posso regalare i calzini finlandesi adesso? Non li prenderanno per un rublo adesso! Conosco la nostra dannata industria. Prima se la spassano per vent'anni e poi – bam! E tutti i negozi sono pieni di qualche schifezza. Una volta avviata la linea di produzione, il gioco è fatto. Elimineranno milioni di quei calzini di crêpe al minuto." Abbiamo diviso i calzini. Ognuno di noi ha ricevuto duecentoquaranta paia. Duecentoquaranta paia di calzini identici, brutti, color verde pisello. L'unica consolazione era l'etichetta "Made in Finland". Dopo di ciò, sono successe molte cose. L'operazione con gli impermeabili italiani. La rivendita di sei stereo tedeschi. Rissa al Cosmos Hotel per una cassa di sigarette americane. Portava un carico di macchine fotografiche giapponesi e fuggiva da una squadra di polizia. E molte altre cose. Ho saldato i miei debiti. Mi sono comprato dei vestiti decenti. Cambiato dipartimento al college. Ho incontrato la ragazza che alla fine ho sposato. Sono andato nei Paesi Baltici per un mese quando Rymar e Fred sono stati arrestati. Iniziarono i miei deboli tentativi letterari. È diventato padre. Ho avuto problemi con le autorità. Ho perso il lavoro. Ho trascorso un mese nella prigione di Kalyayevo. E solo una cosa non è cambiata: per vent’anni ho sfilato con i calzini color pisello. Li ho regalati a tutti i miei amici. Ci avvolsero gli ornamenti natalizi. Spolverato con loro. Li ho infilati nelle fessure degli infissi delle finestre. Eppure il numero di quei calzini schifosi è appena diminuito. E così me ne sono andato, lasciando nell'appartamento vuoto un mucchio di calzini di crêpe finlandese. Ne ho infilate tre paia in valigia.

Mi hanno ricordato la mia giovinezza criminale, il mio primo amore e i miei vecchi amici. Fred ha scontato i suoi due anni e poi è rimasto ucciso in un incidente motociclistico sulla sua Chezet. Rymar ha prestato servizio per un anno e ora lavora come spedizioniere in un impianto di confezionamento della carne. Asya è emigrata e insegna lessicologia a Stanford, il che è uno strano commento sulla borsa di studio americana.

lunedì 28 agosto 2023

UFFICIO PER L'ESPATRIO Estratto da “La valigia” Sergei Dovlatov

 


UFFICIO PER L'ESPATRIO

Estratto da “La valigia” Sergei Dovlatov

All’Ufficio per l’espatrio quella stronza viene a dirmi:- Ogni emigrante ha diritto a tre valigie. Questa è la norma. In merito abbiamo disposizioni precise del ministero.
Protestare non aveva alcun senso. Ma naturalmente protestai:
– Solo tre valigie?! Ma come si fa con tutta la roba?-
– Per esempio?-
– Per esempio la mia collezione di automobiline da corsa…
– Se la venda – rispose l’impiegata senza pensarci.
E poi aggiunse inarcando leggermente le sopracciglia:
– Se non le sta bene qualcosa, scriva un reclamo.
– Mi sta bene- dissi.
Dopo il carcere tutto mi andava bene.
– Beh, allora si dia una calmata…
Dopo una settimana stavo già raccogliendo le mie cose e potei constatare che una sola valigia bastava e avanzava.
Dalla pena che mi facevo, poco ci mancava che mi mettessi a piangere. In fondo avevo trentasei anni. Diciotto dei quali avevo lavorato. Qualcosa avevo guadagnato, avevo comprato. In fondo, ero convinto di possedere delle cose. E invece, in tutto una sola valigia. E per di più piuttosto piccola. Ma allora ero un poveraccio? E come avevo fatto a ridurmi così?!
E i libri? Fatto sta che quasi tutti i libri che avevo erano proibiti, di quelli che alla dogana non passano. Mi toccò regalarli agli amici assieme al mio cosiddetto archivio.
E i manoscritti? Quelli già da tempo li avevo segretamente spediti in occidente. E i mobili? La scrivania la portai a un negozio di mobili usati. Le sedie se le prese il pittore Cegin (che fino a quel momento aveva usato delle casse). Il resto lo buttai.
Così che me andai con una sola valigia. Era di compensato, rivestita di tela con rinforzi metallici agli angoli. La serratura non funzionava, mi toccò utilizzare della corda da bucato.
In passato, con quella valigia ero andato al campeggio dei pionieri Sulla parte superiore stava scritto con l’inchiostro:
“Gruppo dei piccoli. Sereza Dovlatov”. Accanto, qualcuno aveva gentilmente aggiunto un intarsio: “cagone”. La tela qua e là si era strappata.
Sempre sulla parte superiore, all’interno, erano incollate delle fotografie. Rocky Marciano, Armstrong, Iosif Brodskij, la Lollobrigida con un vestito trasparente. Il doganiere tentò di strappare la Lollo con le unghie, ma riuscì appena a graffiarla.
Brodskij invece non lo toccò neppure. Mi chiese soltanto: chi è questo? Risposi che era un mio lontano parente.

IL CAPPOTTO Sergej Dovlatov




IL CAPPOTTO 
Di Sergej Dovlatov 
In un ministero... meglio non dire in quale. Non c'è nulla di più suscettibile dei 
ministeri, dei reggimenti, degli uffici e, insomma, d'ogni sorta di corpo burocratico. 
Al giorno d'oggi, ormai, ogni privato cittadino ritiene che lì venga offesa tutta la 
società. Pare che molto recentemente un capitano di polizia non ricordo di quale città,  abbia presentato un esposto in cui dice a chiare lettere che le istituzioni statali vanno  in rovina e che il loro sacro nome viene pronunciato invano. E, come prova delle sue affermazioni, costui ha allegato all'esposto il grosso volume di un'opera letteraria dove, ogni dieci pagine, appare un capitano di polizia, in certi punti persino in stato d'ubriachezza. Perciò, ad evitare ogni seccatura, sarà meglio chiamare "un ministero" il ministero di cui si tratta. Dunque in "un ministero" prestava servizio "un 
funzionario", un funzionario che non si può dire che fosse molto importante. 
Era di bassa statura, alquanto butterato, rossiccio, persino un po' debole di vista, 
con una incipiente calvizie, rughe da entrambe le parti delle guance e quel colore della faccia che si dice emorroidale... Che farci? la colpa è del clima di Pietroburgo. Quanto al grado (da noi bisogna innanzi tutto dichiarare il grado), era ciò che viene chiamato un eterno consigliere titolare, del quale, com'è noto, si sono beffati e presi gioco in abbondanza i vari scrittori che hanno la lodevole abitudine di prendersela con quelli che non possono mordere. Il cognome del funzionario era Basmackìn. Già da questo nome si vede che esso, in un tempo lontano, aveva avuto origine da una scarpa; ma quando, in quale epoca e in qual modo esso fosse derivato dalla scarpa è 
assolutamente ignoto. Il padre, il nonno, il cognato, insomma assolutamente tutti i 
Basmackìn andavano in giro con gli stivali, rinnovando solo tre volte all'anno le suole. 
Il suo nome era: Akàkij Akakièvic. Al lettore parrà forse alquanto strano e ricercato, 
ma posso assicurare che esso non era stato scelto, solo che, a causa di particolari 
circostanze, non fu assolutamente possibile dare un altro nome. Avvenne 
precisamente così: Akàkij Akakièvic nacque verso sera, se la memoria non mi 
tradisce, il ventitré di marzo. La madre, moglie d'un funzionario e ottima donna, si 
dispose, come si usa, a battezzare il bambino. Ella giaceva ancora nel letto, di fronte 
alla porta, e alla sua destra stava il padrino, Ivàn Ivanòvic Eroskìn, che prestava 
servizio come capufficio al senato, e la madrina, moglie d'un ufficiale di polizia, 
donna di rare virtù, Arìna Semènovna Belobrjùskova. Alla genitrice proposero di 
scegliere fra uno dei seguenti nomi: 
Mòkkija, Sòssija, oppure di chiamarlo con il nome del martire Chozdazàt. 
"No," pensò la madre, "che razza di nomi!" Per compiacerla aprirono il 
calendario in un altro punto; uscirono altri tre nomi: Trifìlij, Dùla, Varachàsij!" "Ma 
questo è un flagello," disse la donna, "che razza di nomi continuano a venir fuori; 
davvero non li ho mai sentiti. Fosse ancora Varadàt o Varùch, ma Trifìlij e 
Varachàsij!" Voltarono ancora la pagina e uscirono: Pavsikàkij e Vachtìsij. 
"Beh, ormai vedo," disse la donna, "che questo è il suo destino. 
Già che dev'essere così, meglio che si chiami come suo padre. Suo padre è 
Akàkij e che pure il figlio sia dunque Akàkij." Così saltò fuori il nome Akàkij 
Akakièvic. Il bambino venne battezzato, e durante il battesimo scoppiò a piangere e 
fece una smorfia, come se avesse il presentimento di diventare un giorno consigliere 
titolare…. 
Akàkij Akakièvic, anche se guardava qualcosa, vedeva sempre le sue righe 
pulite, scritte con calligrafia regolare, e forse soltanto se un muso di cavallo, venuto 
chissà di dove, gli si appoggiava su una spalla e gli soffiava dalle frogie un uragano di 
vento sul collo, forse solo allora si accorgeva che non stava a metà d'una riga, ma a 
metà d'una strada. 
Arrivando a casa si sedeva subito a tavola, trangugiava alla svelta la sua zuppa a 
base di cavoli, mangiava un pezzo di bue con la cipolla, senza rendersi conto del loro 
sapore. Mangiava tutto questo insieme con le mosche e con tutto quello che Dio gli 
mandava in quel momento. Quando sentiva che lo stomaco cominciava a gonfiarsi, si 
alzava da tavola, tirava fuori una boccetta d'inchiostro e ricopiava qualche 
incartamento che s'era portato a casa. Se non ne aveva, faceva apposta, per il proprio 
piacere, una copia per sé, specialmente se l'incartamento era considerevole non tanto 
per l'eleganza dello stile, quanto per il fatto che si rivolgeva a qualche personaggio 
nuovo o importante. 
Persino nelle ore in cui il grigio cielo di Pietroburgo si spegne completamente e 
tutto il popolo impiegatizio s'è pasciuto e saziato, come ognuno può, in conformità 
agli stipendi e al personale capriccio, quando tutti riposano dopo il ministeriale 
scricchiolio di penne, il correre qua e là, le imprescindibili occupazioni proprie e 
altrui (che l'uomo inquieto s'assegna volontariamente persino più del necessario), 
quando i funzionari s'affrettano a dedicare al piacere il tempo che resta: chi è più 
vivace, corre a teatro; chi in strada, dedicando il proprio tempo alla contemplazione di 
certi cappellini; chi a una serata, prodigando complimenti a qualche leggiadra 
ragazza, stella d'una piccola cerchia di funzionari; chi, e questo succede più spesso, se 
ne va semplicemente da un amico a un quarto o terzo piano, in due piccole stanze con 
un'anticamera e una cucina e certe pretese d'eleganza, una lampada o un'altra cosetta 
che è costata molti sacrifici, rinunce a pranzi e a passeggiate. Insomma, anche nell'ora 
in cui tutti i funzionari si sparpagliano nei piccoli alloggi degli amici a giocare un 
burrascoso whist, sorseggiando il tè dai bicchieri insieme a biscotti da un copeco, 
aspirando il fumo da lunghe pipe, riportando mentre si danno le carte qualche 
maldicenza dell'alta società, dal che mai e in nessuna occasione può esimersi l'uomo 
russo, oppure, quando non c'è altro di cui parlare, raccontando l'eterna barzelletta del 
poliziotto a cui vengono a dire che è stata tagliata la coda al cavallo del monumento di 
Falconet - insomma anche quando tutti corrono a distrarsi, Akàkij Akakièvic non 
s'abbandonava ad alcun divertimento. Nessuno poteva dire d'averlo mai veduto a 
qualche serata. Dopo aver copiato a sazietà, si metteva a letto sorridendo in anticipo al 
pensiero del domani, di quel che l'indomani Dio gli avrebbe mandato da copiare. 
Così trascorreva la sua pacifica esistenza un uomo che con quattrocento rubli di 
stipendio sapeva essere contento della sua sorte, e avrebbe forse raggiunto così la 
tarda vecchiaia se la strada della vita non fosse disseminata di vari guai non solamente 
per i consiglieri titolari, ma anche per quelli segreti, effettivi, di corte e d'ogni altro 
genere, e persino per quelli che non danno consigli a nessuno e da nessuno ne 
prendono. 
C'è a Pietroburgo un forte nemico di tutti coloro che ricevono quattrocento rubli 
l'anno di stipendio o giù di lì. Questo nemico non è altri che il gelo pietroburghese, 
sebbene qualcuno dica che sotto diversi aspetti sia assai salutare. Alle nove del 
mattino, precisamente nell'ora in cui le strade si riempiono di coloro che si recano ai 
ministeri, esso comincia a dare pizzicotti così energici e pungenti su tutti i nasi senza 
distinzione, che i poveri funzionari non sanno più dove infilarli. A quest'ora, quando 
anche a chi occupa le cariche più elevate duole la fronte per il gelo e vengono le 
lacrime agli occhi, i poveri consiglieri titolari sono talvolta completamente indifesi. 
L'unica salvezza consiste nel percorrere di corsa con il leggero paltoncino cinque o sei 
strade e poi pestare per bene i piedi in anticamera fino a quando tutte le facoltà e le 
doti naturali necessarie alle mansioni d'ufficio, congelatesi lungo la strada, non si 
disgelano per bene. 
Da qualche tempo Akàkij Akakièvic cominciava ad avvertire in modo 
particolarmente acuto, sulle spalle e sulla schiena, i rigori del gelo, benché si sforzasse 
di percorrere al più presto e di corsa il tragitto dalla casa all'ufficio. Alla fine si chiese 
se il suo cappotto non avesse qualche difetto. A casa sua lo esaminò accuratamente e 
scoprì che in due o tre posti, precisamente sulla schiena e sulle spalle, esso era 
diventato leggero come un velo: il panno s'era talmente liso che ci si vedeva 
attraverso e la fodera si sfilacciava. 

lunedì 14 agosto 2023

TOLLERANZA Popper

 


IL PARADOSSO DELLA TOLLERANZA 

 Karl Popper


Il Paradosso della tolleranza è un celebre passo di Karl Popper, riguardo la tolleranza. L’aforisma è parte di un passo divenuto molto famoso negli ultimi anni, dal suo libro “La società aperta e i suoi nemici”. 

“Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi. In questa formulazione io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni. Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso dei pugni o delle pistole. Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti”.


Il Paradosso è: “Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti; se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.”

Dobbiamo essere intolleranti con gli intolleranti? Non potremmo perseguire il dibattito? Ma questa via è perseguibile sempre?

Popper scrisse queste riflessioni a seguito dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Infatti, più generalmente il testo, da cui proviene questo paradosso sulla tolleranza, teorizza una “società aperta”. Al centro del sistema sociale e politico non vi deve essere semplicemente una definizione astratta di libertà. La libertà, anzitutto individuale, si persegue in ogni aspetto del vissuto, in maniera critica, discussa, condivisa, correggibile.

Non si tratta di attenersi ad una costituzione che proclama la libertà in cambio di un compromesso politico, come quello democratico, ove molto spesso la libertà di potersi esprimere si tramuta nella tirannia della maggioranza, da una famosa espressione di Tocqueville. Popper, come si è potuto leggere sopra, quando tratta delle mosse contro gli intolleranti fa esplicito riferimento al ruolo dell’opinione pubblica. E lo fa proprio in merito al “paradosso democratico”.

L’opinione pubblica gioca un ruolo fondamentale e può addirittura essere decisiva. Ma bisognerebbe affidare un ruolo ancor più importante alla storia. Essa ci fa da guida di fronte ad episodi del genere. E non è un caso che determinate discussioni vengano riprese all’inizio del nuovo millennio. Il fascismo, come disse Eco, non è un fenomeno esclusivo del ventennio, ma un modo di porsi nei confronti della società. È importante che prima di ogni decisione ci sia un profondo studio dei fatti storici, delle premesse e delle conseguenze. In questo modo, forse, esse non si ripresenteranno.

Il paradosso della tolleranza, quindi, se lo vedessimo distaccato dal suo contesto non sarebbe altro che una risposta un po’ troppo semplicistica ad un problema molto serio e divisivo. È pur vero che ogni sistema deve attuare delle scelte difficili per difendersi, senza però scadere a sua volta in una risposta antidemocratica. Il paradosso è tale per definizione, e pertanto non può avere una risposta che vada bene universalmente. Lo scopo finale è sempre quello di dibattere; e con la discussione la proposizione di nuove idee, forse quelle che potrebbero davvero porre fine a tali paradossi.

È giusto usare ancora il vocabolo “Tolleranza”? Il termine in sé, riflettendoci bene, pone chi lo usa in una condizione di superiorità rispetto all’altro termine del discorso. Ovvero colui al quale dovremmo concedere la nostra tolleranza, quasi in segno di bontà. Inoltre, esso dà l’idea di qualcosa di transitorio, che prima o poi diventerà intollerabile.







mercoledì 9 agosto 2023

LA CORBA Estratto da Carlo Dossi. "Gocce d'inchiostro".


LA CORBA

Estratto da Carlo Dossi. "Gocce d'inchiostro".

 "...que' ricchi aggrondati che non san dove comprare un'oncia di cuore contento ..."

14 - LA CORBA

 Ed era cosa ben semplice! Figùrati che, svoltando in un vicoluccio, avevo dato in una vecchia, immòbile, piccina sotto una soma di corbe. Una di esse le era caduta e la pòvera donna o non poteva chinarsi per la rigida età o non osava col càrico già squilibrato delle altre. Intanto, un birbone, seduto su lo scalino di una portella, ghignava e pipava.

Quello che feci, l'avresti anche tu.

Ripeto, la cosa era semplicìssima. Eppure, seguitando il cammino, mi tremolava nel segreto del cuore un gusto che mai. La meraviglia della vecchietta nel trovar gentile un signore, i suòi ringraziamenti commossi mi circolàvan col sangue. Affè! che non mi si vada dunque a promèttere premi in un altro mondo. Non usciamo da questo. Ogni òpera buona frutta al beneficato e al benefattore. Per mè non avèo più nulla a pretèndere, anzi — siamo sinceri — dovevo.

Ma, insieme, ricordavo con compassione que' ricchi aggrondati che non san dove comprare un'oncia di cuore contento, mi chiedevo stupìto come mai, lo stesso egoismo, non li tirasse a fare del bene.

E ci ha tante corbe a levar su ancora da terra!

Estratto da Carlo Dossi. "Gocce d'inchiostro".

lunedì 7 agosto 2023

PENSARE IL POSSIBILE?


 

PENSARE IL POSSIBILE? 

Possiamo considerare archiviato l’insegnamento di Herbert Marcuse come sforzo del pensiero rivolto verso il futuro? Non è che questo avviene anche perché la pratica della filosofia come esercizio di elaborazione del domani ci sono diventate totalmente estranee?. Mi chiedo allora se abbia ancora un significato in un'epoca come quella attuale, che non riesce più ad immaginare il futuro, reclamare, come faceva Marcuse, un principio di possibilità che apra al cambiamento incrinando il dominio del principio di realtà comunemente riconosciuto. 

Allora rileggendo “Teoria critica del desiderio. Scritti e interventi di Herbert Marcuse, IV.” penso che abbia molto senso il riflettere su passaggi come questo:"una società che possa dirsi, in verità, qualitativamente differente, poiché l’intero modo di vivere, l’intero sistema dei valori, le aspirazioni e i bisogni degli uomini saranno differenti. Anche su questi nodi vorrei tornare, almeno brevemente, martedì. Qui, contro una simile diffamazione delle possibilità storiche, spacciate per utopistiche, voglio aggiungere solo questo: per ciò che riguarda la natura umana, certo vi sono ampi livelli e dimensioni di essa che sono immutabili, quelli cioè nei quali l’essere umano è e rimarrà un animale. Al di là della dimensione animale e degli istinti animali, la natura umana può mutare non solo superficialmente, ma nella sua stessa essenza. Possiamo e dobbiamo mettere in discussione la diffamazione di questa concezione come utopistica - possiamo accettare il termine utopistico solo se pensiamo che le società costituite siano in se stesse eterne; solo se facciamo di condizioni politiche e sociali condizioni metafisiche immutabili; solo se dimentichiamo che la storia nelle condizioni date è fatta da esseri umani, e che ciò che si definisce natura umana è molto spesso solo quell’essere umano che la società costituita ci ha fatto diventare - certo non la natura immutabile degli esseri umani.” (Cit.pag.160)

martedì 1 agosto 2023

SHAKESPEARE SONETTO 43



  SHAKESPEARE  SONETTO 43

Quanto più chiudo gli occhi, allora meglio vedono,

perche' per tutto il giorno guardano cose indegne di nota;

ma quando dormo, essi nei sogni vedono te, e, oscuramente

luminosi, sono luminosamente diretti nell'oscuro.

Allora tu, la cui ombra le ombre illumina,

quale spettacolo felice formerebbe la forma della tua ombra

al chiaro giorno con la tua assai piu' chiara luce,


Quando ad occhi senza vista la tua ombra cosi' splende!

Quanto, dico, benedetti sarebbero i miei occhi,

guardando a te nel giorno vivente,

quando nella morta notte la tua bella ombra imperfetta,

attraverso il greve sonno, su ciechi occhi posa!

Tutti i giorni sono notti a vedersi, finche' non vedo te,

e le notti giorni luminosi, quando i sogni si mostrano a me.


SHAKESPEARE SONETTO 43


When most I wink, then do mine eyes best see,

For all the day they view things unrespected;

But when I sleep, in dreams they look on thee,

And darkly bright are bright in dark directed.

Then thou, whose shadow shadows doth make bright,

How would thy shadow's form form happy show

To the clear day with thy much clearer light,


When to unseeing eyes thy shade shines so!

How would, I say, mine eyes be blessed made

By looking on thee in the living day,

When in dead night thy fair imperfect shade

Through heavy sleep on sightless eyes doth stay!

All days are nights to see till I see thee,

And nights bright days when dreams do show thee me.