Mia mamma diceva, quando il chiasso vociante era al massimo in casa: "ma basta insoma" in dialetto mantovano.
mercoledì 24 gennaio 2024
POVERO ROMANZO. Un saggio sulla “militanza che uccide la letteratura” Giulio Meotti
UN UOMO CHE DORME Estratto da "Dalla parte di Swann" Marcello Proust
UN UOMO CHE DORME
Estratto da "Dalla parte di Swann"
Marcello Proust
Leggendo il passo riprodotto sotto, da "Dalla parte di Swann", mi sembra evidente che a Proust interessa mostrare quanto siano fragili le nostre reazioni, e quale sia l'enorme distanza fra i sogni e la realtà, quali siano i giochi dell'immaginazine e l'inganno che da essi derivano. Proust fa una operazione contraria rispetto a quella di Zola che, messaggero della realtà, alla fine decide di passare al sogno e alla esaltazione delle cose immaginate: paradossalmente, ma non così tanto, è Proust, a mostrarci la realtà com'è, pur non credendo in essa. P.B.
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Ecco il brano: "Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi . Svegliandosi li consulta d'istinto e vi legge in un attimo il punto che occupa sulla terra, il tempo che è trascorso fino al suo risveglio; ma i loro ranghi possono spezzarsi, confondersi. Mettiamo che il sonno l'abbia colto verso il mattino, dopo un'insonnia, mentre stava leggendo, in una positura troppo diversa da quella in cui dorme abitualmente. Basterà il suo braccio sollevato per fermare e far indietreggiare il sole, e nel primo istante del risveglio egli non saprà più che ora sia, sarà convinto di essersi appena coricato. O che si sia assopito in una posizione ancora più irregolare e divergente, per esempio seduto dopo pranzo in una poltrona, e allora il disorientamento sarà completo in quei mondi usciti dalla propria orbita.
La poltrona magica lo farà viaggiare a tutta velocità nel tempo e nello spazio, e al momento d'aprire gli occhi egli crederà di trovarsi a letto alcuni mesi prima e in un altro paese. Ma era sufficiente che, nel mio stesso letto, il mio sonno fosse profondo e tale da distendere completamente il mio spirito, ed ecco che questo abbandonava la mappa del luogo dove mi ero addormentato e, svegliandomi nel pieno della notte, io non sapevo più dove mi trovassi e, in un primissimo momento, nemmeno chi fossi; avevo nella sua semplicità primaria soltanto il sentimento dell'esistenza così come può fremere nella profondità di un animale; ero più privo di tutto dell'uomo delle caverne; ma a quel punto il ricordo - non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e avrei potuto essere - veniva a me come un soccorso dall'alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo scavalcavo secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio, poi di alcune camicie col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io. Forse l'immobilità delle cose che ci circondano è imposta loro dalla nostra certezza che si tratta proprio di quelle cose e non di altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti"
sabato 20 gennaio 2024
Jake Sullivan at the 2024 World Economic Forum | Davos
venerdì 19 gennaio 2024
PAURA E IRRAZIONALITÀ Rileggere "Dialettica dell'Illuminismo" M.Horkheimer, T.W. Adorno,
PAURA E IRRAZIONALITÀ
Rileggere "Dialettica dell'Illuminismo" M.Horkheimer, T.W. Adorno,
Noi ci illudiamo di esserci liberati dalla irrazionalità. "Il Sé a cui è pervenuta la civiltà europea, dicono Horkheimer ed Adorno (M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1966), è in realtà schiacciato e non emancipato dall’irrazionalità, in una società che si presenta fondata sul rapporto di dominio del collettivo sull’individuale, della quantità indifferente sulle differenze qualitative, della giustizia livellatrice sulla libertà personale, ecc. "L’uomo si illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto. Ciò determina il corso della demitizzazione dell’Illuminismo [...]." Ma la paura in realtà resta, nella misura in cui l’ignoto diventa per eccellenza il tabù della scienza positivistica (ultimo prodotto dell’Illuminismo). Non c’è un rapporto di inclusione fra la ragione e ciò che ragione non è, c’è al contrario un rapporto di esclusione messo in atto dalla ragione stessa, la quale così facendo espelle da sé il mito (il mana, come lo chiamano gli autori), riproponendolo come ciò che rimane fuori, ma che pur sempre rimane.
Torna l'irrazionalità della paura perché è stata distrutta l'immagine confortevole, carica di promesse e di futuro, costruita sulla realtà del welfare e dei diritti, sul compromesso tra capitale e lavoro che ha contrassegnato il nostro continente nella seconda metà del Novecento. È stata anche distrutta l'immagine di una Europa fatta di cittadinanza sociale, di redistribuzione della ricchezza, di partecipazione attiva. C'è stata anche la crisi della politica come messaggio visionario e al tempo stesso fatta di conflitti e negoziazioni, di soluzioni reali ai problemi. Adesso rimane il lamento, senza prospettare soluzioni, sulla "deriva liberista", sulla forbice tra chi ha e chi non ha, sulla disoccupazione e precarietà, che sfocia in disorientamento, e infelicità senza desideri. Da tutto questo viene il rancore, la ribellione senza indirizzo, la irrazionalità delle scelte quando si è chiamati a votare.
Basta accendere la Tv o aprire il giornale o andare su Internet, ogni mattina per sentirti già stanco delle brutte notizie. Sei inondato dalle immagini di guerre, terrorismo, terremoti, omicidi. Perchè ritorna la paura (che in realtà non se ne mai andata)? Da una parte la civiltà occidentale si libera di ciò che non è conforme alla ragione, mentre dall’altra però non elimina la paura stessa dell’ignoto, anche se lo lascia fuori dalla sua organizzazione sociale e scientifica, la quale viene a poggiare su criteri di ‘uguaglianza’, omologazione e dominio che, al dunque, annullano ogni libertà essenziale dell’individuo. Quando la realtà si fa intimamente contraddittoria e irrazionale, il pensiero razionale sembra non avere il coraggio di criticarla e smascherarla. Così assistiamo a un regresso verso mitologia (irrazionalità delle interpretazioni che individuano "il nemico" che di volta in volta sono i "poteri forti", gli immigrati, i vaccini, le scienze chimiche, etc.) in quanto il pensiero razionale si paralizza e mette in atto una condanna alla cecità e all’incapacità di intervenire criticamente sulla realtà.
martedì 16 gennaio 2024
IL LETTORE. Estratto da “Racconti e Favole.” di Robert Louis Stevenson
IL LETTORE.
Estratto da “Racconti e Favole.” di Robert Louis Stevenson
«Non ho mai letto un libro così empio» disse il lettore buttandolo sul pavimento.
«Non c'è bisogno di farmi del male» disse il libro, «ti daranno di meno quando mi rivenderai, e non mi sono scritto da me.»
«Questo è vero» disse il lettore. «Io ce l'ho con l'autore.»
«Ah, bene» disse il libro, «non c'era bisogno che tu comprassi le sue tirate.»
«Questo è vero» disse il lettore. «Ma credevo che fosse uno scrittore tanto allegro.»
«A me pare che lo sia» disse il libro.
«Devi esser fatto diversamente da me» disse il lettore.
«Lascia che ti racconti una favola» disse il libro. «Due uomini fecero naufragio su un'isola deserta; uno di essi finse d'essere a casa sua, l'altro ammise...»
«Oh, conosco le vostre favole» disse il lettore. «Morirono tutti e due.»
«Proprio così» disse il libro. «Senza dubbio. E anche tutti gli altri.»
«Questo è vero» disse il lettore. «Andiamo un po' più avanti, per questa volta. E quando furono tutti morti?»
«Furono nelle mani di Dio, proprio come prima» disse il libro.
«Non c'è gran che da vantarsi, a quanto dici» esclamò il lettore.
«Chi è empio, adesso?» disse il libro.
“E il lettore lo gettò sul fuoco.
Il vile si prosterna davanti alle verghe, E aborre il ferreo volto divino.
CHIRURGIA Estratto da "Racconti" Di Anton Čechov
CHIRURGIA
Estratto da "Racconti"
Di Anton Čechov
Un ospedale di provincia. In assenza del dottore, che è andato a sposarsi, riceve i malati l'assistente medico Kurjatin, un uomo grasso sulla quarantina, con una logora giacchetta di cotone e dei logori calzoni di maglia. Il suo viso esprime coscienza del dovere e soddisfazione. Fra l'indice e il medio della mano sinistra ha un sigaro che emana un odore pestifero. Nell'ambulatorio entra il sagrestano Vonmiglasov, un vecchio alto e tarchiato con una tonaca color cannella e una larga cintura di cuoio. Ha l'occhio destro mezzo chiuso per una cataratta, e sul naso un bitorzolo che, visto da lontano, sembra una grossa mosca. Per un istante il sagrestano cerca con gli occhi l'icona e, non trovandola, si segna davanti a un bottiglione di soluzione di acido fenico, poi tira fuori da una pezzuola rossa un pane benedetto, e, con un inchino, lo depone davanti all'assistente medico. «A-a-a, i miei rispetti!» sbadiglia l'assistente medico. «Che cosa vi sentite?»
«Buona domenica a voi, Sergej Kuz'mič... Ho bisogno di un favore... Con giustizia e verità nel salterio è detto, scusate: ‹Il mio bere è mescolato di pianto.› L'altro giorno sedevo con la mia vecchia a bere il tè, non ne avevo ancora, mio Dio, bevuto una goccia, né mangiato un boccone... Né inghiottito un tantino, e già non ne posso più! E non mi fa male solo il dente, ma anche tutta questa parte... E mi sento tutto rotto! E mi trapassa nell'orecchio, scusate, come se dentro ci fosse un chiodino o qualche altro oggetto: mi dà certe fitte, certe fitte! Ho peccato, ho violato la legge... Il mio animo si è indurito per la vergogna dei peccati, e ho consumato la mia vita nell'accidia... Per i miei peccati, Sergej Kuz'mič, per i miei peccati! Il padre diacono, dopo la funzione, mi ha rimproverato: ‹Sei diventato balbuziente, tu, Efim, e mugugnone. Canti e non c'è verso di capir qualcosa di quel che canti.› Ma, giudicate voi, come si può cantare se non è possibile aprire la bocca che è tutta gonfia, scusate, e non si è chiuso occhio per tutta la notte...»
«Già... Sedete... Aprite la bocca!»
Vonmiglasov si siede e apre la bocca. Kurjatin aggrotta le sopracciglia, guarda nella bocca del sagrestano e, in mezzo ai denti ingialliti dal tempo e dal tabacco, ne scorge uno ornato da un grosso buco.
«Il padre diacono mi ci ha fatto mettere sopra della vodka col rafano, ma non mi ha giovato. Glikerija Anisimovna, che Dio le conceda la salute, mi ha dato un filo, portato dal monte Athos, da legare al braccio, e mi ha ordinato di risciacquare il dente con latte tiepido, e io, lo confesso, il filo me lo sono messo, ma per quanto riguarda il latte non l'ho fatto: ho timor di Dio, è quaresima...»
«Pregiudizi.» (Pausa.) «Bisogna estrarlo, Efim Micheič!»
«Voi lo sapete meglio di chiunque altro, Sergej Kuz'mič. Per questo avete studiato, per poter capire quando si deve togliere e quando invece si può curare con le gocce o altro. Per questo vi hanno messo qui, nostro benefattore, che Dio vi conceda la salute, infatti preghiamo per voi giorno e notte, nostro buon padre... fino alla morte...»
«Sciocchezze,» si schermisce l'assistente medico, avvicinandosi all'armadio e frugando tra i ferri. «La chirurgia è una sciocchezza! Ci vuole solo pratica e mano ferma... È come sputare... Giorni fa, proprio come voi adesso, viene all'ospedale il proprietario Aleksandr Ivanyč Egipetskij... Anche lui per un dente... Un uomo istruito, che s'informa di tutto, che vuole saper tutto, il come e il perché. Mi stringe la mano, mi chiama con nome e patronimico... È vissuto a Pietroburgo per sette anni, e ha frequentato tutti quei professoroni... C'è rimasto un bel po' qui da me.... Mi prega in nome di Cristo Iddio: strappatemelo, Sergej Kuz'mič! E perché non farlo? Si può strappare. Soltanto bisogna intendersene, altrimenti è impossibile... I denti non sono tutti uguali. Uno si strappa con le pinze, un altro col piede di capra, un altro ancora con la chiave... Secondo i casi.»
L'assistente medico prende il piede di capra, lo guarda un istante interrogativamente, poi lo posa e afferra le pinze.
«Coraggio, aprite la bocca più che potete...» dice, avvicinandosi con le pinze al sagrestano. «Ora lo... insomma... è come sputare... occorre soltanto fare un'incisione sulla gengiva... esercitare una trazione nel senso dell'asse verticale... ed è tutto... (incide la gengiva)... è tutto...»
«Voi siete il nostro benefattore... Noi, sciocchi, non ci capiamo niente, mentre a voi il Signore vi ha illuminato...»
«Non chiacchierate mentre avete la bocca aperta... Questo dente è facile da togliere, ma, alle volte, capita che rimangano le radici... Ecco, è il momento di sputare... (applica le pinze). State fermo, non contorcetevi, non muovetevi... In un batter d'occhio... (esercita la trazione). L'importante è afferrarlo il più profondo possibile (tira)... perché non si rompa la corona...»
«Padri nostri... Madonna Santissima... Vvv...»
«Non così, non così... come si fa? Non attaccatevi con le mani! Via le mani! (tira) Adesso... ecco, ecco... La faccenda non è facile...»
«Padri... zelatori (grida)... angeli! Oh-oh... Ma strappalo, dunque, strappalo! Che ti ci vuole, un secolo a tirare?»
«Qui si tratta... di chirurgia... Non si può di colpo... Ecco, ecco...» Vonmiglasov solleva le ginocchia fino ai gomiti, agita le dita, sbarra gli occhi, respira a scatti... Il viso paonazzo gli si imperla di sudore, nei suoi occhi spuntan le lacrime... Kurjatin soffia, pesta i piedi davanti al sagrestano, e tira... Passa mezzo minuto tormentosissimo e le pinze scivolano via dal dente. Il sagrestano balza in piedi e si ficca le dita in bocca... Tastando all'interno della bocca sente il dente allo stesso posto di prima.
«Hai tirato!» dice con voce piagnucolosa, ma nello stesso tempo ironica. «Che ti potessero tirare così all'altro mondo! Ringraziamo umilmente! Se non li sai strappare, i denti, non ti ci provare neanche! Non ci vedo più...»
«E tu perché mi tieni con le mani?» si adira l'assistente medico. «Io tiro, e tu intanto mi urti il braccio e dici stupidaggini... Imbecille!»
«L'imbecille sei tu!»
«Tu credi, contadino, che sia facile togliere un dente? Provaci tu! Non è mica come salire sul campanile e suonare le campane! (Rifacendogli il verso) ‹Non sei capace, non sei capace!› Guarda un po' chi deve venire a insegnarmi! Ma ti pare? Ho tolto un dente al signor Egipetskij, Aleksandr Ivanyč, e quello non ha detto nemmeno una parola... È un uomo più rispettabile di te, e non mi teneva con le mani... Siedi! Siedi, ti dico!»
«Non ci vedo più... Lasciami tirare il fiato... Oh! (si siede). Una cosa sola: non farla tanto lunga, da' uno strappo. Non tirare, strappa... Di colpo!»
«Vuoi insegnare a uno scienziato? Che gente ignorante, Signore Iddio! Prova un po' a vivere con questa gente... c'è da diventar matti! Apri la bocca... (applica le pinze). La chirurgia, fratello, non è uno scherzo... Non è come cantare nel coro... (esercita la trazione). Non muoverti... Si vede che è un dente vecchio, ha delle radici profonde... (tira). Non muoverti! Così... Così... Non muoverti... Ecco, ecco... (si ode uno scricchiolio). Ecco, lo sapevo io!»
Vonmiglasov rimane immobile per un attimo, come privo di sensi. È inebetito... I suoi occhi guardano stupidamente in lontananza, il suo viso pallido è coperto di sudore.
«Se avessi usato il piede di capra...» borbotta l'assistente medico. «Che disdetta!»
Tornato in sé, il sagrestano si infila le dita in bocca e, al posto del dente malato, trova due punte sporgenti.
«Diavolo rrognoso!» articola. «Vi hanno schiaffato qui, Erode, per nostra disgrazia!»
«Forza, insultami ancora,» borbotta l'assistente medico riponendo le pinze nell'armadio. «Ignorante! Te ne hanno suonate troppo poche in seminario... Il signor Egipetskij, Aleksandr Ivanyč, ha vissuto a Pietroburgo per sette anni... è istruito... Un solo vestito gli costa cento rubli... eppure non mi ingiuriava... E tu, che gran personaggio sei? Non creperai per così poco!»
Il sagrestano prende dal tavolo il suo pane benedetto e, premendosi la guancia con la mano, se ne torna a casa...
lunedì 15 gennaio 2024
DAVANTI ALLA LEGGE. Estratto da Franz Kafka, "La metamorfosi e altri racconti",
DAVANTI ALLA LEGGE.
Estratto da Franz Kafka, "La metamorfosi e altri racconti",
Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L'uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi,» dice il guardiano, «ma adesso no.» Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po', l'uomo si china per dare, dalla porta, un'occhiata nell'interno. Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l'ultimo dei guardiani. All'ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me.» L'uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all'uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l'ingresso. L'uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, pero gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.» Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l'unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sè. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea. Alla fine gli s'affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere. Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell'uomo. «Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile.» «Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l'uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all'infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l'uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l'ingresso. E adesso vado e la chiudo.»
giovedì 11 gennaio 2024
LETTERATURA Estratto da “Il movente.” Javier Cercas
mercoledì 3 gennaio 2024
IL POTERE DELLE PAROLE Estratto da "Il monaco che amava i gatti" Corrado Debiasi
IL POTERE DELLE PAROLE
Estratto da "Il monaco che amava i gatti"
Corrado Debiasi