martedì 23 aprile 2024

FUGA DALLA LIBERTÀ Erich Fromm

 

FUGA DALLA LIBERTÀ 
Erich Fromm

[...] L'analisi dell'aspetto umano della libertà e dell'autoritarismo ci obbliga a considerare un problema generale, e precisamente quello del ruolo che i fattori psicologici svolgono come forze attive del processo sociale; e questo a sua volta porta al problema dell'interazione dei fattori psicologici, economici e ideologici nel processo sociale[...]

[...] Quando consideriamo l'aspetto umano della libertà, il desiderio di sottomissione e la brama di potere, sorgono impellenti queste domande: che cos'è la libertà come esperienza umana? Il desiderio della libertà è qualcosa di immanente alla natura umana? E' un'esperienza identica, che prescinde dal tipo di civiltà in cui vive la persona, o è qualcosa che varia a seconda del grado di individualismo raggiunto da una particolare società? La libertà è solo l'assenza di pressioni esterne o è anche la presenza di qualcosa? E se è così, di che cosa? Quali sono nella società i fattori sociali ed economici che promuovono l'impegno a favore della libertà? La libertà può diventare un peso troppo pesante da portare, qualcosa da cui l'individuo cerchi di fuggire? E allora perché la libertà è per molti una meta preziosa e per altri una minaccia? Non c'è anche, forse, oltre a un desiderio innato di libertà, un desiderio istintivo di sottomissione? E se non c'è, come possiamo spiegare l'attrazione che oggi ha per molti la sottomissione al capo?
E' sempre sottomissione ad un'autorità manifesta, o c'è anche sottomissione ad autorità interiorizzate, come il dovere o la coscienza, a costrizioni interne o ad autorità anonime come l'opinione pubblica? C'è una soddisfazione occulta nel sottomettersi, e qual è la sua essenza? Che cos'è che crea negli uomini una brama insaziabile di potere? E' la forza della loro energia vitale, o è una fondamentale debolezza e incapacità di vivere la vita spontaneamente e con amore? Quali sono le condizioni psicologiche che rafforzano questi impulsi? Quali sono le condizioni sociali su cui queste condizioni psicologiche a loro volta si fondano? [...]


PREMESSA (E.F.)

Il presente libro fa parte di un ampio studio sulla struttura del carattere dell'uomo moderno, e sui problemi dell'interazione tra fattori psicologici e sociologici, al quale sto lavorando da vari anni ed il cui completamento avrebbe richiesto molto più tempo. Gli attuali sviluppi politici e i pericoli che essi comportano per le maggiori conquiste della civiltà moderna -l'individualità e l'irripetibilità della personalità -mi hanno fatto decidere di interrompere lo studio più ampio e di concentrarmi su un solo aspetto di esso, che è fondamentale per la crisi culturale e sociale del nostro tempo: il significato della libertà per l'uomo moderno. Il mio compito sarebbe più facile se potessi rimandare il lettore allo studio completo della struttura del carattere dell'uomo nella nostra civiltà, dato che il significato della libertà può esser compreso solo sulla base di un'analisi dell'intera struttura del carattere dell'uomo moderno. E invece ho dovuto spesso far riferimento a certi concetti e a certe conclusioni, senza soffermarmi su di loro quanto avrei fatto se avessi potuto spaziare secondo gli intenti originari. Per quanto riguarda altri problemi di grande importanza, spesso ho potuto accennare ad essi solo di passaggio, e a volte non è stato possibile nemmeno questo. Ma ritengo che lo psicologo debba offrire senza indugio il suo contributo alla comprensione della crisi attuale, anche se deve sacrificare l'esigenza della completezza. Additare la rilevanza delle considerazioni psicologiche rispetto alla situazione attuale non significa, secondo me, sopravvalutare la psicologia. L'entità fondamentale del processo sociale è l'individuo, i suoi desideri e timori, le sue passioni e la ragione, le sue disposizioni al bene e al male. Per comprendere la dinamica del processo sociale dobbiamo comprendere la dinamica dei processi psicologici operanti nell'individuo, proprio come per comprendere l'individuo dobbiamo considerarlo nel contesto della cultura che lo plasma. La tesi di questo libro è che l'uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società preindividualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo di realizzazione del proprio essere: cioè di espressione delle sue potenzialità intellettuali emotive e sensuali. Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente. Questo isolamento è intollerabile e l'alternativa che gli si presenta è la seguente: o sfuggire dal peso di questa libertà verso nuove dipendenze e sottomissioni, o progredire verso la piena realizzazione della libertà positiva che si fonda sull'unicità e sull'individualità dell'uomo. Benché questo libro sia una diagnosi piuttosto che una prognosi -un'analisi piuttosto che una soluzione -le sue risultanze possono influire sulla nostra azione futura. Infatti la comprensione dei motivi della fuga totalitaria dalla libertà è premessa ad ogni azione che miri alla vittoria sulle forze totalitarie. Rinuncio al piacere di ringraziare tutti quegli amici, colleghi e studiosi verso i quali mi sento in debito per le critiche costruttive e per lo stimolo esercitato sul mio pensiero. Il lettore troverà nelle note riferimenti agli autori verso cui mi sento più obbligato per le idee espresse in questo libro. Desidero però esprimere specificamente la mia gratitudine a coloro che hanno contribuito direttamente alla realizzazione di questo volume. In primo luogo desidero ringraziare Elizabeth Brown, che con i suoi suggerimenti e le sue critiche, è stata di aiuto prezioso alla redazione ai questo libro. Ringrazio poi T. Woodhouse per l'aiuto dato nella redazione del manoscritto e il dottor A. Seidemann per l'aiuto datomi riguardo ai problemi filosofici toccati in queste pagine.
E. F.


FUGA DALLA LIBERTÀ 
1. LIBERTA': UN PROBLEMA PSICOLOGICO?
 

La storia moderna europea e americana si incentra nello sforzo di conquistare la libertà dalle catene politiche, economiche e spirituali che hanno avvinto gli uomini. Le battaglie per la libertà sono state combattute dagli oppressi, da coloro che aspiravano a nuove libertà, contro quelli che avevano privilegi da difendere. Combattendo per la propria liberazione dalla tirannia, ogni classe credeva di combattere per la libertà in sé, e così poteva fare appello ad un ideale, al desiderio di libertà radicato in tutti gli oppressi. Tuttavia, nella battaglia lunga e praticamente continua per la libertà, le classi che in un determinato momento storico combattevano contro l'oppressione si mettevano dalla parte dei nemici della libertà allorché la vittoria era assicurata e c'erano nuovi privilegi da difendere. Nonostante i molti rovesci, la libertà ha vinto delle battaglie. In queste battaglie molti sono morti con la convinzione che morire nella lotta contro l'oppressione fosse meglio che vivere senza libertà. Una morte di questo genere era la suprema affermazione della loro individualità. La storia pareva dimostrare che l'uomo era in grado di governarsi, di prendere decisioni autonome e di pensare e sentire come meglio credeva. La piena espressione delle potenzialità dell'individuo sembrava essere la meta a cui si stava rapidamente avvicinando lo sviluppo sociale. I princìpi del liberalismo economico, della democrazia politica, dell'autonomia religiosa e dell'individualismo nella vita personale, esprimevano il desiderio di libertà e al tempo stesso sembravano avvicinare gli uomini alla sua realizzazione. Una dopo l'altra, le catene cadevano. L'uomo aveva rovesciato il dominio della natura diventandone il dominatore; aveva rovesciato il dominio della Chiesa e il dominio dello stato assolutistico. L'abolizione del dominio esterno pareva la condizione necessaria e sufficiente per raggiungere la meta desiderata: la libertà dell'individuo. La Grande Guerra fu considerata da molti l'ultima lotta e nella sua conclusione si vide la vittoria definitiva della libertà. Le vecchie democrazie apparivano rafforzate, e nuove democrazie sostituivano le vecchie monarchie. Ma erano passati solo pochi anni quando emersero nuovi sistemi che negavano tutto ciò che gli uomini credevano di aver conquistato in secoli di lotta. Infatti l'essenza di questi nuovi sistemi, che si impadronirono efficacemente dell'intera vita sociale e personale dell'individuo, era la sottomissione di tutti, salvo un pugno di uomini, ad un'autorità sulla quale non avevano alcun controllo. Dapprima molti si confortarono col pensiero che la vittoria del sistema autoritario era dovuta alla follia di pochi individui, e che questa loro follia li avrebbe condotti a tempo debito alla rovina. Altri ritenevano con sufficienza che il popolo italiano, o quello tedesco, non avessero avuto abbastanza tempo per educarsi alla democrazia, e che perciò si poteva attendere tranquillamente il momento in cui avrebbero raggiunto la maturità politica delle democrazie occidentali. Un'altra comune illusione, forse la più pericolosa di tutte, era la credenza che gli uomini come Hitler avessero conquistato il potere sull'immenso apparato statale soltanto con la furberia e l'inganno, che essi e i loro satelliti governassero in virtù della pura e semplice forza; che l'intera popolazione fosse solo l'oggetto privo di volontà del tradimento e del terrore. Durante gli anni trascorsi da allora fino ad oggi, la fallacia di queste tesi è diventata manifesta. Siamo stati costretti a riconoscere che in Germania milioni di persone erano ansiose di cedere la loro libertà quanto i loro padri lo erano stati di combattere per conquistarla; che invece di volere la libertà, cercavano modi di evaderne; che altri milioni di persone erano indifferenti e non credevano che valesse la pena di combattere e morire per difendere la libertà. Riconosciamo inoltre che la crisi della democrazia non è problema peculiarmente italiano o tedesco, ma è problema di ogni stato moderno. E non importa quali simboli scelgano i nemici della libertà umana: si può minacciarla attaccandola in nome del fascismo dichiarato (1) come sotto la copertura dell'etichetta dell'antifascismo. Questa verità è stata formulata da John Dewey tanto bene che mi piace esprimere il pensiero con le sue parole: «La vera minaccia per la nostra democrazia, egli afferma, non è l'esistenza di stati totalitari stranieri. E' l'esistenza, nei nostri atteggiamenti personali e nelle nostre istituzioni, di condizioni che in paesi stranieri hanno dato la vittoria all'autorità esterna, alla disciplina, all'uniformità e alla sottomissione al Capo. E quindi il campo di battaglia è anche qui: in noi stessi e nelle nostre istituzioni» (2). Se vogliamo combattere il fascismo dobbiamo comprenderlo: l'ottimismo non ci aiuterà. E la recitazione di formule ottimistiche si dimostrerà inadeguata e inutile come il rituale di una danza indiana della pioggia. Oltre al problema delle condizioni economiche e sociali che aprirono la strada al fascismo, c'è un problema umano che dobbiamo comprendere. Scopo di questo libro è analizzare quei fattori dinamici della struttura di carattere dell'uomo moderno che nei paesi fascisti gli hanno fatto desiderare di rinunciare alla libertà, e che sono così diffusi anche nella nostra popolazione. Quando consideriamo l'aspetto umano della libertà, il desiderio di sottomissione e la brama di potere, sorgono impellenti queste domande: che cos'è la libertà come esperienza umana? Il desiderio della libertà è qualcosa di immanente alla natura umana? E' un'esperienza identica, che prescinde dal tipo di civiltà in cui vive la persona, o è qualcosa che varia a seconda del grado di individualismo raggiunto da una particolare società? La libertà è solo l'assenza di pressioni esterne o è anche la presenza di qualcosa? E se è così, di che cosa? Quali sono nella società i fattori sociali ed economici che promuovono l'impegno a favore della libertà? La libertà può diventare un peso troppo pesante da portare, qualcosa da cui l'individuo cerchi di fuggire? E allora perché la libertà è per molti una meta preziosa e per altri una minaccia? Non c'è anche, forse, oltre a un desiderio innato di libertà, un desiderio istintivo di sottomissione? E se non c'è, come possiamo spiegare l'attrazione che oggi ha per molti la sottomissione al capo?

E' sempre sottomissione ad un'autorità manifesta, o c'è anche sottomissione ad autorità interiorizzate, come il dovere o la coscienza, a costrizioni interne o ad autorità anonime come l'opinione pubblica? C'è una soddisfazione occulta nel sottomettersi, e qual è la sua essenza? Che cos'è che crea negli uomini una brama insaziabile di potere? E' la forza della loro energia vitale, o è una fondamentale debolezza e incapacità di vivere la vita spontaneamente e con amore? Quali sono le condizioni psicologiche che rafforzano questi impulsi? Quali sono le condizioni sociali su cui queste condizioni psicologiche a loro volta si fondano? L'analisi dell'aspetto umano della libertà e dell'autoritarismo ci obbliga a considerare un problema generale, e precisamente quello del ruolo che i fattori psicologici svolgono come forze attive del processo sociale; e questo a sua volta porta al problema dell'interazione dei fattori psicologici, economici e ideologici nel processo sociale. Ogni tentativo di comprendere l'attrazione che il fascismo esercita su grandi nazioni ci costringe a riconoscere il ruolo dei fattori psicologici. Infatti ci occupiamo qui di un sistema politico che fondamentalmente non fa appello alle forze razionali dell'egoismo, ma che desta e mobilita nell'uomo forze diaboliche di cui non avevamo nemmeno sospettato l'esistenza o che per lo meno credevamo scomparse già molto tempo fa. Negli ultimi secoli l'immagine consueta dell'uomo era quella di un essere razionale, le cui azioni venivano determinate dall'interesse egoistico e dalla capacità di agire in conformità ad esso. Anche gli scrittori come Hobbes, che vedevano nella brama di potere e nell'ostilità le forze motrici dell'uomo, spiegavano l'esistenza di queste forze come il logico risultato dell'egoismo: dato che gli uomini sono eguali e hanno perciò lo stesso desiderio di felicità, e dato che non c'è sufficiente ricchezza per soddisfarli tutti nella stessa misura, si combattono necessariamente a vicenda e vogliono il potere per assicurarsi il godimento futuro di quello che già hanno. Ma l'immagine di Hobbes apparve a un certo punto sorpassata. Come la classe media riuscì a spezzare il potere dei vecchi reggitori politici e religiosi, e gli uomini riuscirono a dominare la natura, e milioni di individui diventarono economicamente indipendenti, sempre più ci si persuase che il mondo era razionale e che l'uomo era fondamentalmente un essere razionale. Le forze oscure e diaboliche della natura umana venivano relegate nel medioevo e in periodi ancora più remoti della storia, e venivano spiegate con l'ignoranza o con le abili macchinazioni di re e di preti ingannatori. Si guardava a questi periodi come si può guardare ad un vulcano che da molto tempo abbia cessato di costituire una minaccia. Ci si sentiva sicuri e fiduciosi che le conquiste della democrazia moderna avessero spazzato via tutte le forze sinistre; il mondo sembrava luminoso e sicuro come le strade bene illuminate di una città moderna. Si consideravano le guerre come le ultime reliquie dei tempi antichi e si pensava che bastasse una sola guerra per porre fine a tutte le guerre; si consideravano le crisi economiche come incidenti, anche se questi incidenti continuavano a ripetersi con una certa regolarità.

Quando il fascismo arrivò al potere, la maggior parte della gente era impreparata, sia teoricamente che praticamente. Non riusciva a credere che l'uomo potesse manifestare tali disposizioni al male, una tale brama di potere, un tale sprezzo per i diritti dei deboli, o una tale sete di sottomissione. Soltanto pochi avevano avvertito il rombo del vulcano che precede l'eruzione. Nietzsche aveva turbato il compiaciuto ottimismo del diciannovesimo secolo; e altrettanto aveva fatto Marx, in modo diverso. Un altro avvertimento era venuto qualche tempo dopo da Freud. Naturalmente questi, e la maggioranza dei suoi discepoli, aveva solo un'idea molto ingenua di ciò che avviene nella società, e quasi tutte le sue applicazioni della psicologia ai problemi sociali erano costruzioni fuorvianti; tuttavia. dedicando la sua attenzione ai fenomeni delle disfunzioni emotive e mentali degli individui, egli ci ha condotto alla cima del vulcano e ci ha fatto guardare nel cratere in ebollizione. Freud si è spinto più avanti di tutti nel dirigere l'attenzione verso l'osservazione e l'analisi delle forze irrazionali e inconscie che determinano in parte il comportamento umano. Egli e i suoi seguaci della psicologia moderna non solo hanno scoperto il settore irrazionale e inconscio della natura umana, l'esistenza del quale era stata trascurata dal razionalismo moderno; ma hanno anche dimostrato che questi fenomeni irrazionali seguivano certe leggi e perciò potevano essere compresi razionalmente. Egli ci ha insegnato a capire il linguaggio dei sogni e dei sintomi fisici, nonché gli elementi irrazionali del comportamento umano. Egli ha scoperto che queste irrazionalità, cosi come l'intera struttura di carattere dell'individuo, erano reazioni alle influenze esercitate dal mondo esterno e particolarmente alle influenze subite nella prima infanzia. Ma Freud era talmente imbevuto dello spirito della sua cultura che non riuscì ad andare al di là di certi limiti che essa gli poneva. Questi stessi limiti diventarono limitazioni anche ai fini della comprensione dell'individuo malato; e ostacolarono la sua comprensione dell'individuo normale e dei fenomeni irrazionali operanti nella vita sociale. Dato che questo libro mette in rilievo il ruolo dei fattori psicologici nel processo sociale, e dato che questa analisi si fonda su alcune delle scoperte fondamentali di Freud -particolarmente su quelle concernenti il funzionamento delle forze inconscie nel carattere dell'uomo e la loro dipendenza da influenze esterne -penso che gioverà al lettore conoscere sin dall'inizio alcuni dei principi generali del nostro metodo, ed anche le principali differenze tra questo metodo e i classici concetti freudiani (3). Freud accettava l'idea tradizionale di una fondamentale dicotomia tra l'uomo e la società, nonché la dottrina tradizionale della malvagità della natura umana. L'uomo, per lui, è fondamentalmente antisociale. La società deve addomesticarlo, deve consentire qualche soddisfazione diretta degli impulsi biologici, che in quanto tali sono inestirpabili; ma per la massima parte la società deve raffinare e abilmente frenare gli impulsi basilari dell'uomo. Per effetto di questa soppressione di impulsi naturali da parte della società accade qualcosa di miracoloso: gli impulsi soppressi si trasformano in aspirazioni culturalmente preziose e diventano la base umana della civiltà. Freud ha scelto la parola sublimazione per questa strana trasformazione della soppressione in comportamento civile. Se la soppressione è maggiore della capacità di sublimazione, gli individui diventano nevrotici ed è necessario consentire l'attenuazione della soppressione. In genere, però, c'è un rapporto inverso tra la soddisfazione degli impulsi umani e la civiltà; quanto maggiore è la soppressione, tanto maggiore la civiltà (e il pericolo di disturbi nevrotici). Nella teoria di Freud il rapporto tra l'individuo e la società è essenzialmente statico: l'individuo resta virtualmente lo stesso e si trasforma solo nella misura in cui la società esercita una pressione maggiore sui suoi impulsi naturali (e quindi lo costringe ad una maggiore sublimazione) o consente una maggiore soddisfazione degli impulsi (e quindi sacrifica la civiltà). Al pari dei cosiddetti istinti fondamentali dell'uomo postulati dagli psicologi precedenti, la concezione della natura umana di Freud rispecchiava fondamentalmente i più importanti impulsi riscontrabili nell'uomo moderno. Per Freud l'«uomo» era rappresentato dall'individuo della sua civiltà, e quelle passioni e ansietà che sono caratteristiche dell'uomo nella società moderna gli apparivano come forze eterne radicate nella costituzione biologica dell'uomo. Potremmo dare molti esempi di ciò (come, ad esempio la base sociale dell'ostilità diffusa negli uomini d'oggi, il complesso di Edipo, il cosiddetto complesso di castrazione nelle donne): ma vorrei dare solo un altro esempio, che è particolarmente importante perché riguarda l'intero concetto dell'uomo come essere sociale. Freud considera sempre l'individuo nei suoi rapporti con gli altri; tuttavia questi rapporti, come li vede Freud, somigliano ai rapporti economici con gli altri, caratteristici dell'individuo nella società capitalistica. Ogni persona lavora per se stessa, individualisticamente, a suo rischio, e non preminentemente in collaborazione con altre. Ma non è un Robinson Crusoe; ha bisogno degli altri, come clienti, come dipendenti o come datori di lavoro. Deve comprare e vendere, dare e prendere. Il mercato, sia esso di merci o di manodopera, regola questi rapporti. Così l'individuo, solo e autosufficiente, entra in rapporti economici con altri come mezzi per un fine solo: vendere e comprare. Il concetto freudiano dei rapporti umani è fondamentalmente lo stesso: l'individuo appare fornito di una serie completa di impulsi biologici prestabiliti, che richiedono d'esser soddisfatti. Per poterli soddisfare, l'individuo entra in rapporti con altri «oggetti». Perciò gli altri individui sono mezzi da usare per il nostro fine, la soddisfazione di aspirazioni che a loro volta hanno origine nell'individuo prima che questi entri in contatto con altri. Il campo dei rapporti umani nel senso di Freud assomiglia al mercato: è uno scambio di soddisfazioni di bisogni fisiologici, in cui il rapporto con l'altro individuo è sempre un mezzo ad un fine e non è mai un fine in sé. Al contrario, l'analisi esposta in questo libro si fonda sul presupposto che il problema-chiave della psicologia è quello dello specifico genere di rapporto che l'individuo ha col mondo, e non quello della soddisfazione o frustrazione di questo o quel bisogno istintivo per se stesso; inoltre sul presupposto che il rapporto tra l'uomo e la società non è statico. Non è che da una parte abbiamo un individuo dotato dalla natura di certi impulsi, e dall'altra una società in qualche modo separata da lui, che soddisfi o frustri queste tendenze innate. Pur essendoci bisogni comuni agli uomini, come la fame, la sete, il sesso, quegli impulsi che provocano le "differenze" nei caratteri degli individui, come l'amore e l'odio, la brama di potere e la sete di sottomissione, il godimento del piacere dei sensi e la paura dello stesso, sono tutti prodotti del processo sociale. Le inclinazioni più belle dell'uomo, come le più brutte, non fanno parte di una natura umana fissa e biologicamente prestabilita, ma derivano dal processo sociale che crea l'uomo. In altre parole, la società non ha soltanto una funzione soppressiva -pur avendo certamente anche questa -ma ha anche una funzione creativa. La natura dell'uomo, le sue passioni ed ansietà, sono un prodotto della civiltà; anzi, l'uomo stesso è la più importante creazione e conquista dello sforzo continuo dell'umanità, la cui narrazione chiamiamo storia. E' proprio il compito della psicologia sociale comprendere questo processo della creazione dell'uomo nella storia. Perché da un'epoca storica ad un'altra avvengono certi evidenti mutamenti nel carattere dell'uomo? Perché lo spirito del Rinascimento è diverso da quello del Medioevo? Perché la struttura del carattere dell'uomo nel capitalismo monopolistico è diversa da quella del diciannovesimo secolo? La psicologia sociale deve spiegare perché sorgono nuove capacità e nuove passioni, cattive o buone. Scopriamo quindi, ad esempio, che dal Rinascimento fino ad oggi gli uomini sono stati mossi da un bruciante desiderio di fama, mentre nella società medioevale questa spinta, che oggi sembra così naturale, si manifestava poco (4). Nello stesso periodo gli uomini acquistarono un sentimento della bellezza della natura che prima non possedevano (5). E ancora, nei paesi dell'Europa settentrionale, l'uomo dal sedicesimo secolo in poi ha manifestato una voglia di lavorare che precedentemente mancava nell'uomo libero. Ma non è solo che l'uomo sia prodotto dalla storia: la storia è prodotta dall'uomo. La soluzione di questa apparente contraddizione costituisce il campo della psicologia sociale (6). Il suo compito è di mostrare non solo come le passioni, i desideri, le ansietà mutino e si sviluppino "per effetto" del processo sociale, ma anche come le energie umane così modellate in forme specifiche diventino a loro volta "forze produttive, che plasmano il processo sociale". Così, ad esempio, il desiderio di fama e di successo e l'impulso a lavorare sono forze senza le quali il capitalismo moderno non avrebbe potuto svilupparsi; senza queste e altre forze umane, all'uomo sarebbe mancato l'impeto per agire secondo le esigenze sociali ed economiche del sistema commerciale e industriale moderno. Da ciò che abbiamo detto deriva che il punto di vista esposto in questo libro differisce da quello di Freud in quanto decisamente respinge la sua interpretazione della storia come prodotto di forze psicologiche che in se stesse non sono socialmente condizionate. Altrettanto decisamente respinge quelle teorie che trascurano il ruolo del fattore umano quale elemento dinamico del processo sociale. Questa critica è rivolta non solo contro le teorie sociologiche che esplicitamente intendono eliminare i problemi psicologici dalla sociologia (come quelle di Durkheim e della sua scuola), ma anche contro quelle teorie che sono più o meno tinte di psicologia comportamentistica. Tutte queste teorie hanno in comune il presupposto che la natura umana non abbia un proprio dinamismo e che i mutamenti psicologici debbano essere intesi come sviluppi di nuovi «abiti» in adattamento a nuovi modelli culturali. Queste teorie, pur parlando del fattore psicologico, lo riducono al tempo stesso all'ombra dei modelli culturali. Solo la psicologia dinamica, della quale Freud ha gettato le fondamenta, può spingersi più in là dell'omaggio labiale al fattore umano. Pur non essendoci una natura umana fissa, non possiamo considerare quest'ultima come infinitamente malleabile e capace di adattarsi a qualsiasi tipo di condizioni, senza acquistare un proprio dinamismo psicologico. La natura umana, pur essendo il prodotto dell'evoluzione storica, ha certi meccanismi e certe leggi immanenti che la psicologia ha il compito di scoprire. A questo punto, per la piena comprensione di ciò che è stato detto finora, e anche di ciò che segue, mi sembra necessario esaminare l'idea di "adattamento". Questo esame offre al tempo stesso un'illustrazione di quello che intendiamo per meccanismi e leggi psicologiche.

Sembra utile distinguere l'adattamento «statico» da quello «dinamico». Per adattamento statico intendiamo un adattamento ai modelli tale da lasciare immutata l'intera struttura del carattere e da implicare soltanto l'acquisto di un nuovo «abito». Esempio di questo tipo di adattamento è il passaggio dalle usanze cinesi nel mangiare all'usanza occidentale di adoperare forchetta e coltello. Un cinese che si trasferisca in America si adatterà a questo nuovo modello, ma l'adattamento in sé ha poco effetto sulla sua personalità; non suscita nuovi impulsi o tratti di carattere. Per adattamento dinamico intendiamo il tipo di adattamento che avviene, ad esempio, quando un ragazzo si sottomette agli ordini di un padre rigido e minaccioso -avendo troppa paura di lui per fare altrimenti -e diventa un «bravo» ragazzo. Qualcosa accade in lui nell'adattarsi alle necessità della situazione. Si può creare in lui un'intensa ostilità contro il padre, che egli reprime, dato che sarebbe troppo pericoloso esprimerla o anche esserne consapevole. Questa ostilità repressa, tuttavia, pur non essendo manifesta, è un fattore dinamico nella struttura del suo carattere. Può creare nuova ansietà e portare così ad una sottomissione ancor più profonda; può spingere verso un vago atteggiamento di sfida, rivolto verso nessuno in particolare, ma piuttosto verso la vita in generale. Benché, come nel primo caso, anche qui un individuo si adatti a certe circostanze esterne; questo tipo di adattamento crea qualcosa di nuovo in lui, suscita nuovi impulsi e nuove ansietà. Tutte le nevrosi sono esempi di questo adattamento dinamico; sono essenzialmente un adattamento a condizioni esterne (e in particolare a quelle della prima infanzia) in se stesse irrazionali e, in generale, sfavorevoli alla crescita e allo sviluppo del bambino. Analogamente i fenomeni socio-psicologici paragonabili ai fenomeni nevrotici (si dirà più tardi perché non debbano essere chiamati nevrotici), come la presenza di forti impulsi distruttivi o sadici in certi gruppi sociali, offrono un esempio di adattamento dinamico a condizioni sociali che sono irrazionali e dannose allo sviluppo degli uomini. A parte il problema di definire "che genere" di adattamento avvenga, ci sono altri interrogativi a cui bisogna rispondere. Che cos'è che costringe l'uomo ad adattarsi a quasi tutte le condizioni di vita concepibili, e quali sono i limiti della sua adattabilità? Nel rispondere a questi interrogativi il primo fenomeno che dobbiamo esaminare è che ci sono certe zone della natura umana che sono più flessibili e adattabili di altre. Le aspirazioni e i tratti di carattere per i quali gli uomini differiscono tra loro rivelano una notevole elasticità e malleabilità. L'amore, l'impulso distruttivo, il sadismo, la tendenza a sottomettersi, la brama di potere, l'indifferenza, il desiderio di gloria, la passione del risparmio, il godimento del piacere sensuale e la paura della sensualità. Queste e molte altre aspirazioni e paure riscontrabili nell'uomo si sviluppano in reazione a certe condizioni di vita. Non sono particolarmente flessibili, perché una volta che siano entrate a far parte del carattere di una persona, non scompaiono né si convertono facilmente in qualche altro impulso. Ma sono flessibili nel senso che gli individui, soprattutto nell'infanzia, maturano l'uno o l'altro bisogno secondo il modo in cui si svolge la loro vita. Nessuno di questi bisogni è fisso e rigido, come se fosse una parte innata della natura umana che si sviluppi e debba essere soddisfatta sotto qualsiasi condizione. Contrariamente a questi bisogni, ce ne sono altri che costituiscono una parte indispensabile della natura umana ed esigono imperativamente di venir soddisfatti; e sono precisamente quei bisogni che affondano le loro radici nell'organizzazione fisiologica dell'uomo, come la fame, la sete, il bisogno di dormire, e cosi via. Per ciascuno di questi bisogni esiste una certa soglia al di là della quale la mancanza di soddisfazione è intollerabile, e quando questa soglia viene varcata la tendenza a soddisfare il bisogno assume il carattere di una spinta irrefrenabile.

Tutti questi bisogni fisiologicamente condizionati possono essere riassunti nell'idea del bisogno di autoconservazione. Quest'esigenza di autoconservazione è quella parte della natura umana che richiede soddisfazione in qualsiasi condizione, e che perciò forma il movente primario del comportamento umano. Rendiamolo in una formula semplice: l'uomo deve mangiare, bere, dormire, proteggersi dai nemici, e così via. Per poterlo fare deve lavorare e produrre. Il «lavoro», tuttavia, non è qualcosa di generale o di astratto. Il lavoro è sempre lavoro concreto, ossia uno specifico tipo di lavoro in uno specifico tipo di sistema economico. Una persona può lavorare come schiavo in un sistema feudale, come contadino in un pueblo indiano, come imprenditore indipendente nella società capitalistica, come commessa in un grande magazzino, come operaio all'interminabile catena di montaggio di un grande stabilimento. Questi diversi tipi di lavoro richiedono tratti di personalità totalmente diversi e danno luogo a tipi diversi di rapporto con gli altri. Alla nascita l'uomo trova già allestita la. scena. Deve mangiare e bere, e perciò deve lavorare; e questo significa che deve lavorare nelle condizioni e nei modi particolari che vengono determinati per lui dalla particolare società in cui è nato. Entrambi questi fattori, il suo bisogno di vivere e il sistema sociale, sono in linea di principio inalterabili da lui in quanto individuo e sono i fattori che determinano lo sviluppo di quegli altri tratti che mostrano una plasticità maggiore. Così il sistema di vita, determinato per l'individuo dalla peculiarità di un sistema economico, diventa il fattore primario nel determinare la struttura complessiva del suo carattere, perché il bisogno imperativo di autoconservazione lo costringe ad accettare le condizioni sotto cui deve vivere. Questo non significa che non possa tentare, insieme ad altri, di effettuare certi mutamenti economici e politici; ma innanzitutto la sua personalità è foggiata dal particolare sistema di vita, come questo gli si è presentato sin da bambino, filtrato attraverso la famiglia, che contiene tutti i lineamenti tipici di una particolare società o classe (7). I bisogni fisiologicamente condizionati non costituiscono la sola parte imperativa della natura umana. C'è un'altra parte altrettanto incoercibile, che non è radicata nei processi fisici, ma nell'essenza stessa del modo e della pratica di vita umani: il bisogno di essere in rapporto con il suo mondo esterno, il bisogno di evitare la solitudine. Sentirsi completamente soli e isolati conduce alla disintegrazione mentale proprio come l'inedia fisica conduce alla morte. Questo essere in rapporto con gli altri non si identifica con il contatto fisico. Un individuo può essere solo in senso fisico per molti anni, e tuttavia può essere in rapporto con idee, valori o almeno modelli sociali che gli danno un sentimento di comunione e di «appartenenza». D'altro canto può vivere in mezzo alla gente, e tuttavia esser sopraffatto da un totale sentimento di isolamento, il cui risultato, se supera un certo limite, è lo stato di follia rappresentato dai disturbi schizofrenici. Possiamo chiamare solitudine morale questa mancanza di rapporto con valori, simboli, modelli; e affermare che la solitudine morale è intollerabile quanto la solitudine fisica, o piuttosto che la solitudine fisica diventa intollerabile solo se implica anche la solitudine morale. Il rapporto spirituale col mondo può assumere molte forme: il monaco in cella, che crede in Dio, e il prigioniero politico tenuto in isolamento, che si sente unito ai suoi compagni di lotta, non sono moralmente soli. Né lo è il gentiluomo inglese che indossa l'abito da sera nei paesi più esotici, e nemmeno il piccolo borghese che, pur essendo profondamente isolato dai suoi simili, si sente tutt'uno con la sua nazione o con i suoi simboli. Il genere di relazione con il mondo può essere nobile o meschino, ma anche l'essere in rapporto con il modello più basso è immensamente preferibile all'esser soli. La religione e il nazionalismo, come tutte le consuetudini e le fedi, per quanto assurde e degradanti possano essere, purché colleghino l'individuo agli altri sono rifugi per proteggersi da quello che l'uomo paventa di più, l'isolamento. Il bisogno incoercibile di evitare l'isolamento morale è stato descritto vigorosamente da Balzac in questo brano de "La sofferenza dell'inventore":

«Ma impara una cosa, imprimitela nella mente che è ancora così malleabile: l'uomo ha in orrore la solitudine. E di tutte le specie di solitudine, la solitudine morale è la più terribile. I primi eremiti vivevano con Dio, abitavano in quel mondo che è il più popolato di tutti, il mondo degli spiriti. Il primo pensiero dell'uomo, lebbroso o prigioniero, peccatore o invalido, è questo: avere qualcuno che condivida il suo destino. Per soddisfare questa aspirazione, che è la vita stessa, egli impiega tutte le sue forze, tutto il suo potere, l'energia della sua vita intera. Satana avrebbe trovato dei compagni se non avesse avuto questa spinta indomabile? Su questo tema si potrebbe scrivere un'intera epopea, che costituirebbe il prologo a "Il Paradiso perduto", perché "Il Paradiso perduto" non è altro che l'apologia della ribellione». Se tentassimo di rispondere alla domanda circa il motivo per cui la paura dell'isolamento è così potente nell'uomo, ci allontaneremmo troppo dalla strada principale che stiamo seguendo in questo libro. Ma per non dare al lettore l'impressione che il bisogno di sentirsi uniti agli altri abbia un carattere misterioso, mi par giusto indicare in quale direzione ritengo che si debba cercare la risposta. Un elemento importante è il fatto che gli uomini non possono vivere senza una qualche specie di collaborazione con gli altri. In tutti i tipi possibili di civiltà, l'uomo deve collaborare con gli altri se vuole sopravvivere, sia per difendersi dai nemici o dai pericoli della natura, sia per poter lavorare e produrre. Persino Robinson Crusoe aveva la compagnia di Venerdì; senza di lui probabilmente non solo sarebbe diventato pazzo, ma sarebbe senz'altro morto. Ognuno sperimenta questo bisogno dell'aiuto degli altri molto drasticamente da bambino. Data l'incapacità pratica del bambino di provvedere a se stesso per quanto riguarda le funzioni fondamentali, la comunicazione con gli altri è per lui questione di vita e di morte. La possibilità di esser lasciato solo è per forza di cose la più seria minaccia alla stessa esistenza del bambino. C'è un altro elemento, tuttavia, che rende tanto pressante il bisogno di «appartenere»: il fatto dell'autocoscienza soggettiva, di quella facoltà di pensare che rende l'uomo consapevole di sé come entità individuale, diversa dalla natura e dagli altri. Pur variando il grado di questa consapevolezza, come si dirà nel prossimo capitolo, la sua esistenza pone all'uomo un problema che è esclusivamente umano: l'esser consapevole di sé come entità distinta dalla natura e dagli altri, l'esser consapevole -anche se molto vagamente -della morte, della malattia, dell'invecchiare, gli fa sentire necessariamente la sua irrilevanza e piccolezza in paragone all'universo e a tutti gli altri che non sono «lui». Se non appartenesse a qualcosa, se la sua vita non avesse un significato e un orientamento, egli si sentirebbe come una particella di polvere e sarebbe sopraffatto dalla sua insignificanza di individuo. Non riuscirebbe a mettersi in rapporto con un sistema capace di dare un significato e una direzione alla sua vita, sarebbe pieno di dubbi, e questi dubbi ben presto paralizzerebbero la sua capacità di agire: cioè di vivere. Prima di procedere oltre, sarà forse utile riassumere quello che abbiamo detto a proposito del nostro modo di affrontare i problemi della psicologia sociale. La natura umana non è una somma totale di impulsi innati e biologicamente fissi e nemmeno è un'inerte ombra di modelli culturali a cui si adatti agevolmente; è il prodotto dell'evoluzione umana, ma ha anche certi meccanismi e certe leggi intrinseche. Nella natura umana esistono fattori che sono fissi e immutabili: la necessità di soddisfare gli impulsi condizionati dalla fisiologia e la necessità di evitare l'isolamento e la solitudine morale. Abbiamo visto che l'individuo deve accettare il modo di vita radicato nel sistema di produzione e distribuzione peculiare alla determinata società in cui vive. Nel processo di adattamento dinamico alla civiltà, si sviluppano alcuni potenti impulsi che motivano le azioni e i sentimenti dell'individuo. L'individuo può essere o non essere conscio di questi impulsi, ma in ogni caso, una volta che si siano sviluppati, essi sono potenti e richiedono soddisfazione. Diventano forze potenti che a loro volta contribuiscono concretamente a indirizzare il processo sociale. Esamineremo in seguito, nel corso della nostra analisi della Riforma e del fascismo, in che modo i fattori economici, psicologici e ideologici agiscano gli uni sugli altri, e a quali altre conclusioni generali si possa approdare a proposito di questa interazione (8). Questo esame si concentrerà sempre sul tema principale del libro: che l'uomo, a mano a mano che conquista una libertà sempre maggiore, nel senso di distaccarsi dall'originaria unità con gli altri uomini e con la natura, e nel diventare sempre più un «individuo», non ha davanti a sé altra alternativa che unirsi al mondo nella spontaneità dell'amore e dell'attività produttiva, oppure di cercare la sicurezza in legami con il mondo tali da distruggere la sua libertà e l'integrità del suo essere individuale (9).
2. L'EMERGERE DELL'INDIVIDUO E L'AMBIGUITA' DELLA LIBERTA'
 

 

 

 

 

Prima di affrontare il nostro tema principale -la questione del significato della libertà per l'uomo moderno, e del perché e del come egli cerchi di fuggire -dobbiamo esaminare un concetto che può sembrare un po' estraneo alla realtà presente. Si tratta tuttavia di una premessa necessaria alla comprensione dell'analisi della libertà nella società moderna. Mi riferisco al concetto che la libertà caratterizza l'esistenza umana come tale e inoltre che il suo significato muta a seconda del grado di consapevolezza che l'uomo ha di se stesso come essere indipendente e distinto. La storia sociale dell'uomo è cominciata nel momento in cui egli, emergendo da uno stato di unità con il mondo naturale, è diventato consapevole di se stesso come entità separata dalla natura circostante e dagli altri uomini. Tuttavia questa consapevolezza è rimasta molto fioca per un lungo periodo di tempo. L'individuo continuava ad essere strettamente legato al mondo naturale e sociale da cui usciva; pur sentendosi in parte un'entità separata, sentiva anche di far parte del mondo circostante. Il crescente processo di distacco dell'individuo dai suoi legami originari, un processo che possiamo chiamare «individuazione», sembra aver raggiunto il suo culmine nella storia moderna, e precisamente nei secoli che vanno dalla Riforma al nostro tempo. Nella storia personale dell'individuo troviamo lo stesso processo. Il bambino nasce quando non è più unito alla madre e diventa un'entità biologica separata. Tuttavia, pur essendo questa separazione biologica l'inizio dell'esistenza individuale, il bambino resta funzionalmente unito alla madre per un considerevole periodo di tempo. Nella misura in cui, parlando in senso figurato, non ha ancora completamente reciso il cordone ombelicale che lo lega al mondo esterno, l'individuo è privo di libertà; ma questi legami gli danno sicurezza e il sentimento di «appartenere» e di aver radici da qualche parte. Intendo chiamare questi legami, che esistono prima che il processo di individuazione abbia consentito l'emersione completa di un individuo, «legami primari». Sono organici nel senso che fanno parte del normale sviluppo umano; implicano la mancanza di individualità, ma danno anche sicurezza e direzione e orientamento all'individuo. Sono i legami che collegano il bambino alla madre, il membro della comunità primitiva al suo clan e alla natura, l'uomo medioevale alla Chiesa e alla sua casta sociale. Una volta che lo stadio della completa individuazione sia stato raggiunto, e l'individuo si sia liberato da questi legami primari, si trova davanti un nuovo compito: orientarsi e radicarsi nel mondo, e trovare la sicurezza in modi diversi da quelli caratteristici della sua esistenza pre-individualistica. La libertà allora ha un significato diverso da quello che aveva prima che fosse stato raggiunto questo stadio di evoluzione. E' necessario soffermarsi a chiarire questi concetti, esaminandoli più concretamente in rapporto allo sviluppo dell'individuo e della società. Il passaggio relativamente improvviso dall'esistenza fetale a quella umana, e il taglio del cordone ombelicale, segnano l'indipendenza dell'infante dal corpo materno. Ma questa indipendenza è reale solo nel senso materiale della separazione dei due corpi. In senso funzionale, l'infante continua a far parte della madre. La madre lo nutre, lo porta e provvede a tutti i suoi bisogni fondamentali. Solo lentamente il bambino arriva a vedere la madre e altri oggetti come entità separate da lui. Un fattore che contribuisce a questo processo è lo sviluppo neurologico e lo sviluppo fisico generale del bambino, la sua capacità di afferrare oggetti -fisicamente e mentalmente -e di controllarli. Con la propria attività sperimenta il mondo intorno a lui. Il processo di individuazione viene portato avanti dall'educazione. Questo processo comporta varie frustrazioni e proibizioni, che mutano il ruolo della madre in quello di una persona che ha scopi diversi e in conflitto con i desideri del bambino, e spesso in quello di una persona ostile e pericolosa (1). Questo antagonismo, che fa parte del processo educativo, anche se non lo esaurisce, è un fattore importante agli effetti di rendere più netta la distinzione tra l'«io» e il «tu». Dopo la nascita occorrono alcuni mesi prima che il bambino riesca anche solo a riconoscere una persona come tale, e sia in grado di reagire con un sorriso, e occorrono degli anni prima che il bambino cessi di confondersi con l'universo (2). Fino a quel momento egli manifesta quel particolare tipo di egocentrismo che è caratteristico dei bambini, un egocentrismo che non esclude la tenerezza e l'interesse per gli altri, dato che «gli altri» non vengono ancora sentiti come davvero separati. Per la stessa ragione in questi primi anni anche l'appoggiarsi del bambino all'autorità ha un significato diverso dall'appoggiarsi dell'adulto all'autorità. I genitori, o l'autorità quale che sia, non sono ancora considerati come entità fondamentalmente separate; fanno parte dell'universo del bambino, e quest'universo fa ancora parte del bambino. Perciò la sottomissione ad essi ha un carattere diverso dalla sottomissione che avviene dopo che due individui siano diventati davvero distinti.

R. Hughes, in "A High Wind in Jamaica", descrive con grande finezza l'improvvisa scoperta della propria individualità da parte di una bambina di dieci anni: «E poi, a Emilia, accadde un fatto molto importante. Capì d'un tratto chi era. Non si vede perché non avrebbe potuto capitarle cinque anni prima, o anche cinque anni dopo; e nemmeno perché la cosa dovesse succederle proprio quel pomeriggio. Si era fatta per gioco una casa in un angolino della prua, dietro l'argano (su cui aveva appeso un 'artiglio del diavolo' come battente); ed essendosi stancata, si era messa a camminare verso la poppa senza meta, fantasticando di certe api e di una regina delle Fate, quando improvvisamente le venne in mente come un lampo di essere "lei". Si fermò di botto e cominciò a guardare tutte le parti della sua persona che i suoi occhi riuscivano a raggiungere. Non poteva veder molto, tranne uno scorcio del davanti del vestito e le mani quando le alzò per ispezionarle; ma le bastò per formarsi un'idea approssimativa del corpicino che di colpo avvertiva come suo. «Cominciò a ridere, un po' beffardamente. 'Bene!' pensò suppergiù, 'figurati, proprio tu dovevi lasciarti prendere così! Adesso non puoi scappare, almeno per un bel pezzo: ti toccherà fare la bambina, e poi crescere, e poi diventar vecchia, prima di poterti liberare di questo scherzo matto!'. «Decisa ad evitare che questo importantissimo momento potesse venir interrotto, cominciò ad arrampicarsi su per le funi alla volta del suo posticino nella coffa. Ogni volta che muoveva un braccio o una gamba in questa semplice azione, però, si stupiva di nuovo di vedere con quanta prontezza le obbedissero. La memoria le diceva, naturalmente, che avevano sempre fatto così anche prima: ma prima lei non si era mai accorta di quanto fosse sorprendente. Sistematasi lassù, cominciò ad esaminare con la massima cura la pelle delle sue mani: perché era sua. Sfilò una spalla dal vestitino; e avendovi sbirciato dentro per assicurarsi che sotto i vestiti davvero continuava, la sollevò fino a farle toccare la guancia. Il contatto tra il suo viso e il caldo nudo incavo della sua spalla le diede una sensazione piacevole, come se fosse stata la carezza di una persona amica. Ma se la sensazione le venisse dalla guancia o dalla spalla, quale delle due carezzasse e quale venisse carezzata, questo nessun'analisi poteva dirglielo. «Ormai pienamente convinta di questo fatto sorprendente, di essere ora Emilia Bas-Thornton (non sapeva perché inseriva l''ora', dal momento che certamente non si trastullava con sciocche idee di trasmigrazione delle anime), cominciò a considerare seriamente le sue implicazioni». A mano a mano che cresce, ed entro i limiti in cui i legami primari sono stati recisi, il bambino matura un'esigenza di libertà e indipendenza. Ma la sorte di quest'esigenza può essere pienamente compresa solo se ci rendiamo conto della qualità dialettica di questo processo di crescente individuazione. Questo processo ha due aspetti: uno è che il bambino diventa sempre più forte fisicamente, emotivamente e mentalmente. In ciascuna di queste sfere aumentano l'intensità e l'attività. Contemporaneamente, queste sfere si integrano sempre di più. Si sviluppa una struttura organizzata guidata dalla volontà e dalla ragione dell'individuo Se chiamiamo questo insieme organizzato e integrato della personalità l'«io», possiamo anche dire che "un aspetto del processo crescente di individuazione è la crescita di una forza autonoma". I limiti dello sviluppo dell'individuazione e dell'io vengono posti in parte da condizioni individuali, ma soprattutto da condizioni sociali. Infatti, benché le differenze tra gli individui appaiano sotto questo aspetto grandi, ogni società è caratterizzata da un certo livello di individuazione al di là del quale l'individuo normale non può andare. L'altro aspetto del processo di individuazione è la "crescente solitudine". I legami primari forniscono sicurezza e unità fondamentali con il mondo esterno. A mano a mano che il bambino emerge da quel mondo diventa cosciente di esser solo, di essere un'entità separata da tutti gli altri. Questa separazione da un mondo che in confronto alla propria esistenza individuale è irresistibilmente forte e potente, e spesso minaccioso e pericoloso, crea un sentimento di impotenza e di ansietà. Finché si era parte integrante di quel mondo, ignari delle possibilità e delle responsabilità dell'azione individuale, non si sentiva il bisogno di averne paura. Una volta divenuti individui, si è soli ad affrontare il mondo in tutti i suoi aspetti pericolosi e soverchianti. Sorgono allora impulsi a rinunciare alla propria individualità, a superare il sentimento di solitudine e di impotenza sommergendosi completamente nel mondo esterno. Questi impulsi, tuttavia, e i nuovi legami che ne derivano, non coincidono con i legami primari che sono stati recisi nel processo stesso di crescita. Proprio come non può tornare mai fisicamente nel grembo materno, il bambino non può mai percorrere in senso inverso psichicamente il processo di individuazione. I tentativi in questo senso assumono necessariamente il carattere della sottomissione, in cui la contraddizione fondamentale tra l'autorità e il bambino che vi si sottomette non viene mai eliminata. Coscientemente il bambino può sentirsi sicuro e soddisfatto, ma inconsciamente si rende conto che il prezzo che paga è la rinunzia alla forza e all'integrità del suo io. Perciò il risultato della sottomissione è proprio l'opposto di quello che doveva essere: la sottomissione aumenta l'insicurezza del bambino e al tempo stesso crea ostilità e ribellione, che tanto più spaventa in quanto è rivolta contro le persone stesse dalle quali continua o comincia a dipendere. Tuttavia la sottomissione non è il solo modo di evitare la solitudine e l'ansietà. L'altro modo, il solo che sia produttivo e che non sfoci in un conflitto insolubile, è quello del "rapporto spontaneo con l'uomo e la natura", un rapporto che collega l'individuo al mondo senza eliminarne l'individualità. Questo tipo di rapporto -le cui più eminenti espressioni sono l'amore e l'attività produttiva -ha le sue radici nell'integrazione e nella forza della personalità totale, e perciò è soggetto agli stessi limiti che incontra la crescita dell'io. Il problema della sottomissione e dell'attività spontanea come due possibili risultati della crescente individuazione sarà discusso più avanti dettagliatamente; qui vorrei solo indicare il principio generale, il processo dialettico prodotto dalla crescente individuazione e dalla crescente libertà dell'individuo. Il bambino diviene più libero di sviluppare ed esprimere il proprio io individuale, quando non è impedito da quei legami che lo limitavano. Ma il bambino diventa anche più libero da un mondo che gli dava sicurezza e tranquillità. Il processo di individuazione consiste nel rafforzamento e nell'integrazione crescenti della sua personalità individuale, ma è al tempo stesso un processo in cui l'originaria identità con gli altri viene perduta, e in cui il bambino si separa sempre più da loro. Questa crescente separazione può dar luogo a un isolamento che ha la qualità della desolazione e crea ansietà e insicurezza intense; può dar luogo invece a un nuovo genere di vicinanza e di solidarietà con gli altri, qualora il bambino abbia potuto sviluppare la forza e la produttività interiori che costituiscono la premessa di questo nuovo genere di rapporto con il mondo. Se ad ogni passo compiuto nella direzione della separazione e dell'individuazione corrispondesse un'eguale crescita dell'io, lo sviluppo del bambino sarebbe armonioso. Ma questo non avviene. Mentre il processo di individuazione si svolge automaticamente, la crescita dell'io è ostacolata da fattori individuali e sociali. Lo sfasamento tra queste due tendenze dà luogo ad un intollerabile sentimento di isolamento e di impotenza, e questo a sua volta conduce a quei meccanismi psichici che più avanti vengono definiti "meccanismi di fuga". Anche filogeneticamente la storia dell'uomo può esser qualificata un processo di crescente individuazione e di crescente libertà. L'uomo emerge dallo stadio preumano con i primi passi verso la liberazione dagli istinti coercitivi. Se per istinto intendiamo uno specifico modello d'azione determinato dalle strutture neurologiche ereditate, si può osservare nel regno animale una tendenza decisa (3). Quanto più in basso sta un animale nella scala dell'evoluzione, tanto più il suo adattamento alla natura e tutte le sue attività saranno controllati da meccanismi istintivi e da azioni riflesse. Le famose organizzazioni sociali di certi insetti sono interamente create dagli istinti. D'altro canto, quanto più in alto sta un animale nella scala dell'evoluzione, tanto maggiore flessibilità di modello d'azione e tanto minore completezza di adattamento strutturale troviamo alla nascita. Questo sviluppo raggiunge il suo culmine con l'uomo. Egli alla nascita è il più impotente di tutti gli animali: il suo adattamento alla natura si basa fondamentalmente sul processo di apprendimento, non sulla determinazione degli istinti. «L'istinto... è una categoria che sta diminuendo, se non addirittura scomparendo, nelle forme animali più elevate, specialmente in quella umana»(4). L'esistenza umana comincia quando al di là di un certo punto gli istinti non sono in grado di determinare l'azione; quando l'adattamento alla natura perde il suo carattere coercitivo; quando il modo di agire non è più fissato da meccanismi ereditari. In altre parole sin dall'inizio "l'esistenza umana e la libertà sono inseparabili". Il termine libertà viene usato qui non nel senso positivo di «libertà di», ma nel senso negativo di «libertà da», e cioè di libertà dal determinismo istintivo dei suoi atti. La libertà intesa in questo senso è un dono ambiguo. L'uomo nasce senza gli strumenti dell'azione appropriata che possiede l'animale(5); dipende dai genitori per un periodo di tempo più lungo di quello riscontrabile in qualsiasi animale, e le sue reazioni all'ambiente sono meno pronte e meno efficaci di quanto lo siano le reazioni istintive automaticamente regolate. Passa attraverso tutti i pericoli e i timori che questa mancanza di meccanismi istintivi comporta. Tuttavia proprio questa impotenza dell'uomo è la base da cui si diparte lo sviluppo umano; "la debolezza biologica dell'uomo è la condizione della civiltà umana". Sin dall'inizio della sua esistenza l'uomo si trova a dover scegliere tra diverse linee d'azione. Nell'animale c'è un'ininterrotta catena di reazioni che partono da uno stimolo, come la fame, e sfociano in una linea di condotta più o meno rigidamente determinata, che elimina la tensione creata dallo stimolo. Nell'uomo questa catena è interrotta. Lo stimolo c'è ma il genere di soddisfazione è «aperto», cioè egli deve scegliere tra diverse linee di condotta. Invece di un'azione istintiva predeterminata, l'uomo deve soppesare nella mente le linee di condotta possibili: comincia a pensare. Il suo ruolo rispetto alla natura muta dall'adattamento puramente passivo ad uno attivo: egli produce. Inventa strumenti, e nel dominare così la natura, si separa sempre più da questa. Comincia ad avvertire che né lui né il suo gruppo coincidono con la natura. Gli spunta nella mente il pensiero che il suo è un tragico destino: far parte della natura, e pur trascenderla. Diventa cosciente che il suo destino ultimo è la morte, anche se cerca di negarlo con varie fantasie. Una rappresentazione particolarmente significativa del rapporto fondamentale tra l'uomo e la libertà è data dal mito biblico dell'espulsione dell'uomo dal paradiso. Il mito fa risalire l'inizio della storia umana a un atto di scelta, ma fa cadere l'accento sulla peccaminosità di questo primo atto di libertà, e sulla sofferenza che ne deriva. L'uomo e la donna vivono nel giardino dell'Eden in completa armonia tra di loro e con la natura. C'è pace e non c'è alcuna necessità di lavorare; non si pone alcuna scelta, e non esiste né la libertà né la riflessione. All'uomo è vietato mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Egli agisce contro il comando di Dio, infrange lo stato di armonia con la natura di cui fa parte senza però trascenderla. Dal punto di vista della Chiesa, che rappresentava l'autorità, questo è nella sua essenza peccato. Dal punto di vista dell'uomo, però, questo è l'inizio della libertà umana. Agire contro gli ordini di Dio significa liberarsi dalla coercizione, emergere dall'esistenza inconscia della vita preumana al livello umano. L'agire contro il comando dell'autorità, il commettere un peccato, è nel suo aspetto umano positivo il primo atto di libertà, ossia il primo atto umano. Nel mito il peccato, nel suo aspetto formale, è l'agire contro il comando di Dio; nel suo aspetto materiale è il mangiare il frutto dell'albero della conoscenza. L'atto di disobbedienza, in quanto atto di libertà, è l'inizio della ragione. Ma il mito parla anche di altre conseguenze del primo atto di libertà. L'armonia originaria tra l'uomo e la natura è spezzata. Dio proclama la guerra tra l'uomo e la donna, e tra la natura e l'uomo. L'uomo si è separato dalla natura, ha fatto il primo passo per diventare umano diventando «individuo». Ha commesso il primo atto di libertà. Il mito mette in risalto la sofferenza che deriva da questo atto. Il trascendere la natura, l'essere alienato dalla natura e da un altro essere umano, fa scoprire all'uomo d'esser nudo, gli fa provare vergogna. E' solo e libero, e tuttavia è impotente e ha paura. La libertà appena conquistata appare già una maledizione; è libero dalla dolce schiavitù del paradiso, ma non è libero di governarsi, di realizzare la sua individualità. La «libertà da» non si identifica con la libertà positiva, con la «libertà di». L'emergere dell'uomo dalla natura è un processo prolungato; in larga misura resta legato al mondo da cui è emerso; continua a far parte della natura: la terra su cui vive, il sole e la luna e le stelle, gli alberi e i fiori, gli animali e le persone a cui è legato da vincoli di sangue. Le religioni primitive portano testimonianza del sentimento di unità con la natura che l'uomo prova. La natura animata e inanimata fa parte del suo mondo umano, o, per dirlo in un altro modo, egli fa ancora parte del mondo naturale. Questi legami primari bloccano il suo pieno sviluppo umano; impediscono lo sviluppo della sua ragione e delle sue facoltà critiche; gli consentono di riconoscere sé e gli altri soltanto attraverso la sua, o la loro, appartenenza ad un clan, a una comunità sociale o religiosa, e non in quanto esseri umani; in altre parole, bloccano il suo sviluppo in quanto individuo libero, autonomo, produttivo. Ma c'è anche un altro aspetto. Questa identità con la natura, il clan, la religione, dà sicurezza all'individuo. Egli «appartiene», ha radici in un tutto strutturato, in cui occupa un posto indiscusso. Può soffrire per la fame o per la soppressione, ma non soffre di quella pena che è la peggiore di tutte, la solitudine completa e il dubbio. Vediamo dunque che il processo di crescente liberazione umana ha lo stesso carattere dialettico che abbiamo notato nel processo della crescita individuale. Da una parte è un processo di sviluppo della forza dell'integrazione, di dominio della natura, di sviluppo del potere della ragione umana e di sviluppo della solidarietà con altri esseri umani. Ma dall'altra parte questa crescente individuazione significa crescente isolamento, insicurezza e perciò un dubbio sempre maggiore circa il proprio posto nell'universo, il significato della propria vita; ed oltre a ciò un sentimento sempre più acuto della propria impotenza e irrilevanza di individuo. Se il processo dello sviluppo dell'umanità fosse stato armonioso, se avesse seguito un certo piano, allora i due aspetti dello sviluppo la forza e l'individuazione -si sarebbero sviluppati in modo assolutamente parallelo. Invece la storia dell'umanità è una storia di conflitti e lotte. Ogni passo verso una maggiore individuazione minaccia nuove insicurezze. I legami primari, una volta che siano stati recisi, non possono più venir ristabiliti; quando il paradiso è perduto, l'uomo non può più tornarvi. C'è una sola possibile soluzione produttiva per il rapporto dell'uomo individualizzato con il mondo: la sua attiva solidarietà con tutti gli uomini e la sua spontanea attività, l'amore e il lavoro che lo riuniscono di nuovo al mondo, non mediante legami primari, ma come individuo libero e indipendente. Tuttavia, se le condizioni economiche, sociali e politiche, da cui dipende l'intero processo dell'individuazione umana, non offrono una base per la realizzazione dell'individualità, nel senso che abbiamo appena detto, e se al tempo stesso gli individui hanno perduto quei legami che davano loro sicurezza, questo sfasamento fa della libertà un peso insopportabile. Essa allora si identifica con il dubbio, con un genere di vita che manca di significato e di orientamento. Sorgono potenti tendenze a fuggire da questo tipo di libertà e a rifugiarsi nella sottomissione o in un genere di rapporto con l'uomo e con il mondo che prometta sollievo dall'incertezza, anche se priva l'individuo della sua libertà. Dalla fine del Medioevo ad oggi la storia dell'Europa e dell'America è la storia del completo emergere dell'individuo. E' un processo cominciato in Italia nel Rinascimento, e che solo ora sembra esser giunto al suo culmine. Ci sono voluti quattrocento anni per abbattere il mondo medioevale e per liberare gli individui dalle costrizioni più evidenti. Ma benché sotto molti aspetti l'individuo sia cresciuto, si sia sviluppato mentalmente ed emotivamente, e condivida le conquiste della civiltà in misura mai sognata prima, anche lo sfasamento tra la «libertà da» e la «libertà di» è aumentato. Il risultato di questa sproporzione tra la libertà "da" qualsiasi vincolo e la mancanza di possibilità di realizzazione positiva della libertà e dell'individualità ha portato, in Europa, ad una fuga allarmata dalla libertà verso nuovi vincoli o almeno verso la completa indifferenza. Cominceremo il nostro studio del significato della libertà per l'uomo moderno partendo da un'analisi della situazione culturale dell'Europa alla fine del Medioevo e all'inizio dell'era moderna. In quel periodo la base economica della società occidentale subì radicali trasformazioni, cui si accompagnò una trasformazione altrettanto radicale della struttura della personalità umana. Maturò allora un nuovo concetto della libertà, che trovò la sua più significativa espressione ideologica nelle nuove dottrine religiose della Riforma. Ogni tentativo di comprendere la libertà caratteristica della società moderna deve partire dal periodo in cui sono state gettate le fondamenta della civiltà moderna, perché questa fase formativa dell'uomo moderno ci consente di individuare meglio delle epoche successive l'ambiguo significato della libertà che doveva operare in tutta la civiltà moderna; da una parte la crescente indipendenza dell'uomo dalle autorità esterne, dall'altra il suo crescente isolamento e il conseguente sentimento di irrilevanza ed impotenza dell'individuo. La nostra comprensione dei nuovi elementi insiti nella struttura della personalità umana viene arricchita dallo studio delle loro origini, perché analizzando i lineamenti essenziali del capitalismo e dell'individualismo alle radici, si può paragonarli ad un sistema economico e a un tipo di personalità che erano fondamentalmente diversi dai nostri. Il confronto offre una prospettiva migliore per la comprensione delle peculiarità del sistema sociale moderno, di come esso ha foggiato la struttura del carattere delle persone che vivono nel suo ambito, e del nuovo spirito prodotto da questa trasformazione della personalità. Il capitolo seguente dimostrerà anche che il periodo della Riforma è più simile alla scena contemporanea di quanto potrebbe apparire a prima vista; anzi, nonostante le ovvie differenze tra i due periodi, probabilmente dopo il sedicesimo secolo non c'è stato un periodo così somigliante al nostro per quanto riguarda il significato ambiguo della libertà. La Riforma è una delle radici dell'idea di libertà umana e di autonomia, come viene concepita nella democrazia moderna. Tuttavia, mentre questo aspetto, specialmente nei paesi non cattolici, viene sempre sottolineato, l'altro suo aspetto -l'insistenza sulla malvagità della natura umana, sull'irrilevanza e l'impotenza dell'individuo e sulla necessità per l'individuo di subordinarsi ad un potere esterno -viene trascurato. Quest'idea dell'indegnità dell'individuo, della sua fondamentale incapacità di poggiare sulle proprie forze, e del suo bisogno di sottomissione, è anche il tema principale dell'ideologia di Hitler, cui manca però l'insistenza sulla libertà e sui princìpi morali che era tipica del protestantesimo. Questa similarità ideologica non è il solo elemento che faccia dello studio dei secoli quindicesimo e sedicesimo un punto di partenza particolarmente fruttuoso per la comprensione della situazione presente. C'è una fondamentale somiglianza anche nella situazione sociale: cercherò di dimostrare come questa somiglianza sia responsabile della similarità ideologica e psicologica. Allora come oggi un vastissimo settore della popolazione vedeva il suo tradizionale modo di vita minacciato da mutamenti rivoluzionari dell'organizzazione economica e sociale; era soprattutto la classe media, come oggi, ad esser minacciata dal potere dei monopoli e dalla forza superiore del capitale, e questa minaccia ebbe effetti importanti sullo spirito e sull'ideologia del settore della società che era minacciato, accrescendo il sentimento di solitudine e irrilevanza dell'individuo.

3. LA LIBERTA' ALL'EPOCA DELLA RIFORMA
 

 

 

 

 

1. Il mondo medioevale e il Rinascimento.
L'immagine del Medioevo (1) è stata distorta in due modi. Il razionalismo moderno ha considerato il Medioevo un periodo fondamentalmente oscuro. Ne ha additato la grande mancanza di libertà personale, lo sfruttamento della massa della popolazione da parte di una piccola minoranza, l'angustia che rendeva il contadino della campagna circostante uno straniero pericoloso e sospetto agli occhi del cittadino -per non parlare della persona proveniente da un altro paese -e infine la superstizione e l'ignoranza. Dall'altra parte il Medioevo è stato idealizzato, per lo più da filosofi reazionari, ma a volte anche da avversari progressisti del capitalismo moderno. Questi ne hanno additato il senso di solidarietà, la subordinazione dei bisogni economici ai bisogni umani, l'immediatezza e la concretezza dei rapporti umani, il principio sovrannazionale della Chiesa cattolica, il senso di sicurezza caratteristico dell'uomo del Medioevo. Tutte e due le immagini sono giuste; ciò che le rende ambedue false è la pretesa di vederne una ad esclusione dell'altra. Ciò che caratterizza la società medioevale rispetto a quella moderna è la sua mancanza di libertà individuale. Agli inizi tutti erano incatenati al posto che occupavano nell'ordine sociale. Si avevano poche possibilità di spostarsi socialmente da una classe all'altra, ed anzi a malapena si riusciva a spostarsi geograficamente da una città all'altra, da un paese all'altro. L'uomo medioevale, tranne poche eccezioni, doveva restare dov'era nato. Spesso non era nemmeno libero di vestirsi come voleva, o di mangiare quello che gli piaceva. L'artigiano doveva vendere i suoi prodotti ad un certo prezzo, e il contadino doveva venderli in un certo luogo, il mercato della città. Ai membri delle corporazioni era vietato di far conoscere i segreti tecnici della produzione a chiunque non fosse membro della corporazione; inoltre erano obbligati a far partecipare i loro colleghi ad ogni eventuale acquisto vantaggioso di materie prime. La vita personale, economica e sociale era dominata da regole ed obblighi da cui praticamente nessuna sfera di attività era esentata. Ma la persona, pur non essendo libera nel senso moderno, non era sola né isolata. L'uomo, avendo sin dalla nascita un posto preciso, immutabile e indiscusso nel mondo sociale, era radicato in una struttura, e così la vita aveva un significato e non lasciava luogo al dubbio e nemmeno ne creava l'esigenza. La persona si identificava col suo ruolo nella società; era un contadino, un artigiano, un cavaliere, e non "un individuo" a cui capitasse di avere questa o quest'altra professione. Si concepiva l'ordine sociale come un ordine naturale e l'avere un posto preciso in esso dava all'individuo un sentimento di sicurezza e di appartenenza. La concorrenza era relativamente scarsa. Si nasceva in una certa situazione economica, che garantiva un'esistenza determinata dalla tradizione, proprio come comportava obblighi economici verso i superiori sociali. Ma entro i limiti della sua sfera sociale, l'individuo in realtà aveva molta libertà di esprimere la propria personalità nel suo lavoro e nella sua vita emotiva. Anche se non c'era individualismo nel senso moderno della scelta illimitata tra molti possibili modi di vita (una libertà di scelta quasi del tutto astratta), c'era molto "individualismo concreto nella vita reale". C'era molta sofferenza e dolore, ma c'era anche la Chiesa che rendeva questa sofferenza più tollerabile presentandola come il risultato del peccato di Adamo e dei peccati individuali di ciascuna persona. La Chiesa, pur alimentando un senso di colpa, garantiva però all'individuo un amore incondizionato per tutti i suoi figli, e gli offriva il modo di acquistare la convinzione di essere perdonato e amato da Dio. Il rapporto con Dio era più di fiducia e amore che di dubbio e paura. Proprio come il contadino e il cittadino raramente oltrepassavano i limiti della piccola area geografica in cui vivevano, così l'universo era limitato e di facile comprensione. La terra e l'uomo ne erano il centro, il cielo e l'inferno erano il luogo della vita futura, e tutte le azioni dalla nascita alla morte erano limpide nel loro nesso causale. La società, pur dando sicurezza all'individuo grazie a questa sua struttura, lo teneva tuttavia incatenato. Era una prigionia diversa da quella derivante dall'autoritarismo e dall'oppressione dei secoli successivi. La società medioevale non privava l'individuo della sua libertà, perché l'«individuo» non esisteva ancora; l'uomo era ancora legato al mondo da vincoli primari. Egli non concepiva se stesso come individuo se non attraverso il suo ruolo sociale (che allora era anche il suo ruolo naturale). E nemmeno concepiva le altre persone come «individui». Il contadino che si inurbava era un forestiero, ed anche all'interno della città i membri dei diversi gruppi sociali si consideravano a vicenda dei forestieri. La coscienza della propria personalità individuale, degli altri e del mondo come entità separate, non si era ancora pienamente sviluppata. La mancanza di autocoscienza dell'individuo nella società medioevale ha trovato una classica espressione nella descrizione della civiltà medioevale di Jacob Burckhardt: «Nel Medioevo i due lati della coscienza -quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che rende l'immagine della vita interna dell'uomo -se ne stavano come avvolti in un velo comune, come in sogno o dormiveglia. Il velo era tessuto di fede, d'ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l'uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di una razza o di un'altra qualsiasi collettività» (2). Nel tardo Medioevo la struttura della società e la personalità dell'uomo subirono una trasformazione. L'unità e la centralizzazione della società medioevale si indebolirono. Il capitale, l'iniziativa economica individuale e la concorrenza crebbero di importanza; si sviluppò una nuova classe di benestanti. Un crescente individualismo si manifestò in tutte le classi sociali ed esso influiva su tutte le sfere dell'attività umana, sul gusto, sulla moda, sull'arte, sulla filosofia e sulla teologia. Vorrei qui sottolineare che questo processo aveva un significato diverso a seconda che si trattasse del piccolo gruppo di ricchi e prosperi capitalisti, oppure delle masse di contadini, e soprattutto della nuova classe urbana per la quale questo nuovo sviluppo significava in certa misura ricchezza e occasioni di iniziativa individuale, ma soprattutto una minaccia al suo tradizionale modo di vita. E' importante tenere presenti queste differenze sin dall'inizio, perché le relazioni psicologiche e ideologiche di questi vari gruppi furono determinate proprio da questa differenza. Il nuovo sviluppo economico e culturale ebbe luogo in Italia con un'intensità e con ripercussioni sulla filosofia, sull'arte e su tutto lo stile di vita maggiori che nell'Europa occidentale e centrale. In Italia, per la prima volta, l'individuo emergeva dalla società feudale e spezzava i vincoli che gli avevano dato sicurezza e al tempo stesso lo avevano limitato. L'italiano del Rinascimento fu, dice Burckhardt, «il primogenito dei figli dell'Europa moderna», il primo individuo. Il fatto che la società medioevale si sia disgregata in Italia, prima che nell'Europa centrale o occidentale, dipende da taluni fattori economici e politici. Tra questi c'erano la posizione geografica dell'Italia e i vantaggi commerciali che ne derivavano, in un periodo in cui il Mediterraneo era la grande via commerciale dell'Europa; la lotta tra il Papa e l'Imperatore, che aveva dato luogo a un gran numero di unità politiche indipendenti; la vicinanza all'Oriente, che permise di introdurre in Italia talune tecniche importanti per lo sviluppo di certe industrie -come quella, ad esempio, della seta molto prima che in altre parti d'Europa.

Da queste e altre condizioni era sorta in Italia una potente classe danarosa, i cui membri erano pieni di spirito d'iniziativa, di volontà di potere, di ambizione. Le stratificazioni di classe feudali divennero meno importanti. Dal dodicesimo secolo in poi i nobili e i borghesi vivevano insieme entro le mura delle città. I rapporti sociali cominciarono a ignorare le distinzioni di casta. La nascita e l'origine divennero meno importanti della ricchezza. D'altra parte fu scossa anche la tradizionale stratificazione sociale delle masse. Al suo posto troviamo masse urbane di lavoratori sfruttati e schiacciati politicamente. Già nel 1231, come fa notare Burckhardt, le misure politiche di Federico Secondo «mirano alla distruzione completa del sistema feudale e alla trasformazione del popolo in una moltitudine indifferente, inerme e in estremo grado tassabile» (3). Il risultato di questa progressiva distruzione della struttura sociale medioevale fu l'apparizione dell'individuo nel senso moderno della parola. Per citare di nuovo Burckhardt, «questo velo (di fede, illusione e pregiudizi infantili) svanì dapprima in Italia; diventò possibile considerare e trattare lo Stato e, in genere tutte le cose terrene, da un punto di vista "oggettivo"; ma al tempo stesso si risveglia potente nell'Italiano il sentimento del "soggettivo": l'uomo si trasforma nell'"individuo" spirituale, e come tale si afferma. Così una volta il Greco si era emancipato di fronte ai Barbari, e così anche in altri tempi l'Arabo si isolò dalle altre stirpi dell'Asia» (4). La descrizione che Burckhardt fa dello spirito di questo nuovo individuo fornisce un esempio di quel che abbiamo detto nel capitolo precedente sul distacco dell'individuo dai legami primari. L'uomo scopre se stesso e gli altri come individui, come entità separate; scopre la natura come qualcosa di diverso da lui sotto due aspetti: come oggetto di dominio teorico e pratico, e, nella sua bellezza, come oggetto di piacere. Scopre il mondo, praticamente scoprendo nuovi continenti e spiritualmente maturando uno spirito cosmopolita, uno spirito in cui Dante può dire: «Il mio paese è il mondo intero» (5). Il Rinascimento era la civiltà di una ricca e potente classe superiore, che si venne a trovare sulla cresta dell'onda creata dalla tempesta delle nuove forze economiche. Le masse, che non partecipavano alla ricchezza e al potere del gruppo dirigente, avevano perduto la sicurezza della loro posizione precedente, ed erano diventate una massa informe, da adulare o da minacciare: ma sempre da manipolare e da sfruttare da parte di quelli che stavano al potere. Un nuovo dispotismo sorse accanto al nuovo individualismo. La libertà e la tirannia, l'individualità e il disordine erano inestricabilmente intrecciati. Il Rinascimento non era una civiltà di bottegai e piccoli borghesi, ma di nobili e borghesi ricchi. La loro attività economica e la loro ricchezza gli davano un sentimento di libertà e il senso dell'individualità. Ma contemporaneamente queste persone avevano perduto qualcosa: la sicurezza e il sentimento di appartenenza, che la struttura sociale medioevale aveva dato agli individui. Erano più liberi, ma erano anche più soli. Usavano il loro potere e la loro ricchezza per estrarre dalla vita fin l'ultima oncia di piacere; ma per farlo dovevano impiegare spietatamente ogni mezzo, dalla tortura fisica alla manipolazione psicologica, per dominare le masse e neutralizzare i concorrenti della loro stessa classe. Tutti i rapporti umani erano avvelenati da questa feroce lotta mortale per la conservazione del potere e della ricchezza. La solidarietà con i propri simili -o almeno con i membri della propria classe -cedeva il passo ad un cinico atteggiamento di distacco; gli altri individui venivano considerati «oggetti» da usare e manipolare, oppure venivano spietatamente annientati se ciò giovava ai propri fini. L'individuo era assorbito da un egocentrismo passionale, da un'insaziabile fame di ricchezza e di potere. Di conseguenza il rapporto dell'individuo con se stesso, il suo senso di sicurezza e di fiducia erano anch'essi avvelenati. Il suo stesso essere divenne per lui un oggetto di manipolazione allo stesso modo in cui lo erano le altre persone. C'è da dubitare che i potenti padroni del capitalismo rinascimentale fossero felici e sicuri come spesso li si rappresenta. Tutto fa credere che la nuova libertà gli abbia portato due cose: un accresciuto sentimento di forza e al tempo stesso un isolamento, un'incertezza, uno scetticismo crescenti (6) e, come conseguenza di tutto questo una maggiore ansietà. E' la stessa contraddizione che ritroviamo negli scritti filosofici degli umanisti. Accanto all'insistenza sulla dignità, sull'individualità e sulla forza dell'uomo, essi manifestavano nella loro filosofia insicurezza e disperazione (7). Questa fondamentale insicurezza derivante dalla posizione dell'individuo isolato in un mondo ostile può spiegare la genesi di un tratto di carattere che, come ha fatto notare Burckhardt (8), era caratteristico dell'individuo del Rinascimento, e non era presente, o almeno non lo era con la stessa intensità, nel membro della struttura sociale medioevale: la sua violenta sete di fama. Se il significato della vita è diventato incerto, se i propri rapporti con gli altri e con se stessi non offrono sicurezza, allora la fama è un mezzo per far tacere i propri dubbi. Essa ha una funzione paragonabile a quella delle piramidi egiziane, o della fede cristiana nell'immortalità: eleva la vita dell'individuo dai suoi limiti e dall'instabilità al piano dell'indistruttibilità. Se il proprio nome è noto ai contemporanei, e se c'è la speranza che possa sfidare i secoli, allora la propria vita acquista significato e rilevanza dal suo stesso riflettersi nei giudizi degli altri. E' ovvio che questa soluzione del problema dell'insicurezza individuale era possibile solo a un gruppo sociale i cui membri possedevano i mezzi concreti per conquistare la fama. Non era una soluzione accessibile alle masse impotenti di quell'epoca, e nemmeno la ritroveremo nella classe media urbana che è stata la spina dorsale della Riforma. Siamo partiti dall'esame del Rinascimento perché questo periodo segna l'inizio dell'individualismo moderno, e anche perché l'opera svolta dagli storici di questo periodo getta luce proprio sui fattori più importanti ai fini del processo principale che il presente studio analizza, ossia l'emergere dell'uomo dall'esistenza preindividualistica ad uno stato in cui ha piena coscienza di essere un'entità separata. Ma nonostante il fatto che le idee del Rinascimento non sono rimaste senza influenza sull'ulteriore sviluppo del pensiero europeo, le radici fondamentali del capitalismo moderno, la sua struttura economica e il suo spirito non vanno ricercati nella civiltà italiana del tardo Medioevo, ma nella situazione economica e sociale dell'Europa centrale e occidentale, e nelle dottrine di Lutero e di Calvino. La principale differenza tra le due civiltà è questa: il periodo del Rinascimento ha conosciuto uno sviluppo relativamente elevato del capitalismo commerciale e industriale; era una società in cui dominava un piccolo gruppo di individui ricchi e potenti, i quali hanno fornito la base sociale ai filosofi e agli artisti che espressero lo spirito di questa civiltà. La Riforma, viceversa, è stata essenzialmente una religione delle classi medie e inferiori urbane, e dei contadini. Anche la Germania aveva i suoi ricchi mercanti, come i Fugger, ma non era a loro che le nuove dottrine religiose si rivolgevano, e nemmeno costituivano la base principale su cui si è sviluppato il capitalismo moderno. Come ha dimostrato Max Weber, è la classe media urbana che è diventata la spina dorsale del moderno sviluppo capitalistico del mondo occidentale (9). Data la totale diversità dello sfondo storico dei due movimenti, è logico attendersi che lo spirito del Rinascimento e quello della Riforma siano diversi (10). Nell'esaminare la teologia di Lutero e di Calvino, alcune di queste differenze diverranno chiare per induzione. La nostra attenzione si concentrerà sul problema del come la liberazione dai legami individuali abbia influito sulla struttura del carattere della classe media urbana; cercheremo di dimostrare che il protestantesimo e il calvinismo, pur esprimendo un nuovo sentimento di libertà, costituivano al tempo stesso una fuga dal peso della libertà. Esamineremo anzitutto la situazione economica e sociale dell'Europa, soprattutto di quella centrale, all'inizio del sedicesimo secolo, e poi analizzeremo le ripercussioni che questa situazione ebbe sulla personalità degli uomini di quell'epoca, il rapporto tra gli insegnamenti di Lutero e Calvino e questi fattori psicologici, e il rapporto tra queste nuove dottrine religiose e lo spirito del capitalismo (11). Nella "società medioevale" l'organizzazione economica della società era piuttosto statica. Gli artigiani si erano stretti in corporazioni già sin dal tardo Medioevo. Ogni maestro aveva sotto di sé uno o due apprendisti, e il numero dei maestri era proporzionato più o meno alle esigenze della comunità. Pur essendocene sempre alcuni che dovevano lottare duramente per guadagnarsi da vivere, nel complesso i membri della corporazione erano sicuri di poter vivere con il lavoro delle loro mani. Se facevano sedie, scarpe, pane, selle di buona qualità, potevano essere sicuri che questo bastava ad assicurargli una tranquilla esistenza al livello che la tradizione assegnava alla loro posizione sociale. Potevano affidarsi alle loro «buone opere», se usiamo il termine non nel suo significato teologico, ma nel suo elementare significato economico. Le corporazioni bloccavano la possibilità di una dura concorrenza tra i loro membri e costringevano alla collaborazione in materia di acquisto delle materie prime, di tecniche di produzione e di prezzi dei prodotti. Reagendo ad una certa tendenza all'idealizzazione del sistema corporativo e in genere di tutta la vita medioevale, alcuni storici hanno fatto osservare che le corporazioni erano sempre pervase da uno spirito monopolistico, volto a proteggere i vecchi membri e a escludere i nuovi venuti. La maggior parte degli autori, tuttavia, riconosce che le corporazioni, anche se si vuole evitare di idealizzarle, si fondavano sulla mutua collaborazione o offrivano ai loro membri una relativa sicurezza (12). In generale il commercio medioevale, come ha fatto notare Sombart, veniva svolto da una moltitudine di piccolissimi operatori. Il commercio al dettaglio e quello all'ingrosso non erano ancora separati, ed anche quei mercanti che si recavano all'estero, come i membri della Hanse della Germania settentrionale, si occupavano pure di vendite al minuto. Fino alla fine del quindicesimo secolo anche l'accumulazione del capitale procedeva lentamente. Così il piccolo commerciante godeva di una notevole sicurezza rispetto alla situazione economica del tardo Medioevo, allorché il grande capitale e il commercio monopolistico assunsero una crescente importanza. «Molto di ciò che ora è meccanico, dice il professor Tawney a proposito della vita della città medioevale, era a quel tempo personale, intimo e diretto, e non era pensabile un'organizzazione troppo vasta per i criteri che erano validi per gli individui, né una dottrina che mettesse a tacere gli scrupoli e chiudesse tutti i conti con l'argomento decisivo del vantaggio economico» (13). Arriviamo così a un punto essenziale per la comprensione della posizione dell'individuo nella società medioevale: il pensiero etico sulle attività economiche, espresso non solo nelle dottrine della Chiesa cattolica, ma anche nelle leggi civili. Per questa parte accogliamo il quadro presentato da Tawney, perché non si può sospettare che egli abbia voluto idealizzare o rendere romantico il mondo medioevale. I postulati fondamentali della vita economica erano due: «Che gli interessi economici sono subordinati al vero fine della vita, che è la salvezza. E che la condotta economica è un aspetto della condotta personale, condizionato, come gli altri aspetti, dalle norme morali». Tawney illustra poi il punto di vista medioevale sulle attività economiche: «Le ricchezze materiali sono necessarie; esse hanno importanza strumentale, dato che senza di loro gli uomini non possono sostentarsi e aiutarsi a vicenda... Ma i moventi economici sono sospetti. Essendo potenti appetiti, gli uomini li temono, ma non sono tanto meschini da applaudirli... Nella teoria medioevale non c'è posto per un'attività economica che non si ricolleghi a un fine morale, e fondare una scienza della società sul postulato che il gusto del guadagno economico è una forza costante e misurabile, da accogliere, come le altre forze naturali, quale dato inevitabile ed evidente di per sé, sarebbe apparso al pensatore medioevale poco meno irrazionale e immorale che fare dell'esercizio illimitato dei necessari attributi umani, come l'aggressività e l'istinto sessuale, la premessa della filosofia sociale... I beni materiali, come dice Sant'Antonio, esistono per l'uomo, e non viceversa... Ad ogni passo, quindi, ci sono limiti, restrizioni, ammonimenti a non lasciare che gli interessi economici invadano la sfera delle cose serie. L'uomo ha il diritto di aspirare a quella ricchezza che gli è necessaria per vivere al suo livello. Volere di più non è intraprendenza, ma avarizia, e l'avarizia è un peccato mortale. L'attività economica è legittima; le diverse risorse dei diversi paesi dimostrano che è stata voluta dalla Provvidenza. Ma è un'attività pericolosa. Un uomo dev'esser certo di svolgerla per il vantaggio pubblico, e che i profitti che ne ricava non superino la remunerazione della sua fatica. La proprietà privata è un'istituzione necessaria, per lo meno in un mondo peccaminoso; gli uomini lavorano di più e litigano di meno quando i beni sono privati che quando sono comuni. Ma deve esser tollerata come una concessione all'umana fragilità, e non acclamata come di per sé desiderabile; l'ideale -solo che la natura dell'uomo potesse elevarsi fino ad esso -è il comunismo. 'Communis enim, ha scritto Graziano nel suo "decretum", usus omnium quae sunt in hoc mundo omnibus hominibus esse debuit'. Infatti in ogni caso sul patrimonio gravano degli obblighi. Deve essere acquistato legittimamente. Deve stare nel maggior numero possibile di mani. Deve provvedere al sostentamento dei poveri. Il suo uso dev'essere per quanto possibile comune. I suoi proprietari debbono essere pronti a spartirlo con i bisognosi, anche se non sono proprio miseri» (14). Queste vedute, pur esprimendo delle norme e non un quadro esatto della realtà della vita economica, rispecchiavano in qualche misura il reale spirito della società medioevale. La relativa stabilità della posizione degli artigiani e dei mercanti, caratteristica della città medioevale, venne minata a poco a poco nel tardo Medioevo, finché venne meno del tutto nel sedicesimo secolo. Già nel quattordicesimo secolo -e anche prima -si era delineata una sempre maggiore differenziazione all'interno delle corporazioni, che continuò nonostante gli sforzi per arrestarla. Alcuni membri della corporazione possedevano più capitale degli altri e impiegavano cinque o sei lavoranti invece di uno o due. Assai presto certe corporazioni accolsero solo persone fornite di una certa quantità di capitale. Altre corporazioni divennero potenti monopoli volti a trarre ogni possibile vantaggio dalla loro posizione monopolistica e a sfruttare al massimo il cliente. Viceversa molti membri di corporazione si impoverirono e dovettero cercare di guadagnare denaro fuori della loro occupazione tradizionale; spesso divennero anche piccoli commercianti. Molti di loro avevano perso la loro indipendenza e sicurezza economica, mentre ancora si aggrappavano disperatamente all'ideale tradizionale dell'indipendenza economica (15). In seguito a questo sviluppo del sistema corporativo, la situazione del lavorante peggiorò rapidamente. Mentre nelle industrie dell'Italia e delle Fiandre già dal tredicesimo secolo, e anche prima, esisteva una classe di operai scontenti, la situazione dei lavoranti delle corporazioni artigiane era ancora relativamente sicura. Non era detto che ogni lavorante potesse diventare un maestro: tuttavia molti di loro lo diventavano. Ma aumentando il numero dei lavoranti alle dipendenze di un singolo maestro, le corporazioni assunsero un carattere sempre più monopolistico ed esclusivista, e le possibilità di avanzamento dei lavoranti diminuirono sempre più. Il deterioramento della loro posizione economica e sociale era dimostrato dalla loro crescente insoddisfazione, dalla formazione di proprie organizzazioni, da scioperi e persino da insurrezioni violente. Quello che si è detto a proposito del crescente sviluppo capitalistico delle corporazioni di mestiere è ancor più evidente nel commercio. Mentre il commercio medioevale era stato per lo più una piccola attività intercomunale, nel quattordicesimo e nel quindicesimo secolo crebbero rapidamente il commercio nazionale e quello internazionale. Gli storici, benché in disaccordo sul momento in cui cominciarono a svilupparsi le grandi aziende commerciali, riconoscono tutti che nel quindicesimo secolo divennero sempre più potenti e si trasformarono in monopoli che, grazie alla loro superiore forza di capitale, minacciavano il piccolo commerciante non meno che il consumatore. La riforma decisa dall'imperatore Sigismondo nel quindicesimo secolo cercò di limitare il potere dei monopoli per mezzo delle leggi. Ma la posizione del piccolo commerciante divenne sempre più insicura; egli «aveva quel tanto d'influenza per far sentire le sue doglianze, ma non ne aveva abbastanza per ottenere dei provvedimenti efficaci» (16). All'indignazione e alla rabbia del piccolo mercante contro i monopoli è stata data eloquente espressione da Lutero nel pamphlet "Sul commercio e l'usura", stampato nel 1524. «Essi controllano tutte le merci e praticano spudoratamente tutti i trucchi che abbiamo menzionato, alzano e abbassano i prezzi a loro talento, opprimendo e rovinando tutti i piccoli mercanti come il luccio fa nell'acqua con il pesce piccolo, quasi fossero padroni delle creature di Dio e sciolti da tutte le leggi della fede e dell'amore». Queste parole di Lutero potrebbero esser state scritte oggi. La paura e l'ira che la classe media provava verso i ricchi monopolisti del quindicesimo e del sedicesimo secolo assomiglia per molti versi al sentimento che caratterizza l'atteggiamento della classe media verso i monopoli e i grandi capitalisti della nostra era. L'importanza del capitale veniva crescendo anche nell'industria. Un esempio notevole è quello dell'industria mineraria. In origine la quota di ciascun membro di una corporazione mineraria era proporzionata alla quantità di lavoro che svolgeva. Ma a partire dal quindicesimo secolo, in molti casi le quote appartenevano a capitalisti che non lavoravano, e il lavoro in misura sempre maggiore veniva eseguito da operai salariati, che non avevano alcuna quota dell'impresa. Lo stesso sviluppo capitalistico avvenne anche in altre industrie, rafforzando la tendenza derivante dalla crescente importanza del capitale nelle corporazioni di mestiere e nel commercio: la crescente divisione tra poveri e ricchi e la crescente insoddisfazione tra le classi povere. Sulla situazione del contadino le opinioni degli storici differiscono. Tuttavia la seguente analisi di Schapiro sembra sufficientemente confermata dalla maggior parte degli storici. «Nonostante queste prove di prosperità, la condizione dei contadini stava rapidamente degenerando. All'inizio del sedicesimo secolo erano pochissimi coloro che erano anche proprietari della terra che coltivavano, e che erano rappresentati nelle assemblee locali, cosa che nel Medioevo era segno di indipendenza di classe e di eguaglianza. Nella grandissima maggioranza erano "Hoerige", una classe che godeva della libertà personale, ma le cui terre erano sottoposte a gravami, poiché gli individui erano obbligati a rendere certi servizi secondo gli accordi... Gli "Hoerige" erano la spina dorsale di tutte le rivolte agrarie. Questo contadino di classe media, che viveva in una comunità semi-indipendente prossima ai possedimenti del signore, si rese conto che l'aumento dei gravami e dei servizi lo stava riducendo ad uno stato di schiavitù di fatto, e stava trasformando le terre comunali in nuovi possedimenti del signore» (17). Lo sviluppo economico del capitalismo fu accompagnato da significativi mutamenti psicologici. Verso la fine del Medioevo uno spirito di irrequietezza cominciò a pervadere la vita della gente. Cominciò a svilupparsi il concetto moderno di tempo. I minuti divennero preziosi; un sintomo di questo nuovo senso del tempo è il fatto che a Norimberga sin dal sedicesimo secolo gli orologi suonino i quarti d'ora (18). L'avere tanti giorni festivi cominciava a sembrare una sfortuna. Il tempo era così prezioso che si aveva l'impressione di non doverlo spendere se non per scopi utili. Il lavoro divenne sempre più un valore supremo. Maturò un nuovo atteggiamento verso il lavoro, tanto forte che la classe media cominciò a provare indignazione per l'improduttività economica delle istituzioni della Chiesa. Gli ordini mendicanti provocavano risentimento perché apparivano improduttivi, e perciò immorali. L'idea dell'efficienza diventò una delle più alte virtù morali. Contemporaneamente il desiderio di ricchezza e successo materiale diventò la passione onniassorbente. «Tutto il mondo, dice il predicatore Martin Butzer, corre dietro quei commerci e quelle occupazioni che portano il massimo guadagno. Lo studio delle arti e delle scienze viene messo da parte a vantaggio del genere più basso di lavoro manuale. Tutti i cervelli brillanti, dotati da Dio della capacità di condurre studi più nobili, vengono assorbiti dal commercio, che oggigiorno è così saturo di disonestà da esser diventato l'ultimo mestiere a cui un uomo onorevole dovrebbe dedicarsi» (19). Tra i mutamenti economici che abbiamo descritto ne spicca uno che investiva tutti indistintamente. Il sistema sociale medioevale era crollato, e con esso la stabilità e la relativa sicurezza che aveva offerto all'individuo. Ora, con l'inizio del capitalismo, tutte le classi della società si misero in moto. Non c'era più un posto fisso nell'ordine economico che potesse esser considerato naturale, indiscutibile. L'individuo era abbandonato a se stesso; tutto dipendeva dal suo sforzo personale, non dalla sicurezza del suo prestigio tradizionale. Questo sviluppo, tuttavia, aveva su ciascuna classe effetti diversi. Per i poveri delle città, gli operai e gli apprendisti, significava crescente sfruttamento e impoverimento; anche per i contadini comportava una maggiore pressione economica e personale; la bassa nobiltà si trovava davanti alla rovina, sebbene in modo diverso. Mentre per queste classi il nuovo sviluppo era in sostanza un mutamento in peggio, la situazione era molto più complicata per la classe media urbana. Abbiamo già parlato della crescente differenziazione avvenuta nei suoi ranghi. Vasti settori di questa classe vennero a trovarsi in una posizione sempre peggiore. Molti artigiani e piccoli commercianti dovevano affrontare la superiore potenza dei monopolisti e di altri concorrenti forniti di maggiore capitale, e fu sempre più difficile per loro restare indipendenti. Spesso si trovavano a lottare con forze soverchianti, e per molti di loro era una lotta disperata. Altri settori della classe media erano più prosperi e partecipavano alla generale spinta verso l'alto del capitalismo in ascesa. Ma la crescente importanza del "capitale", del "mercato" e della "concorrenza" rendeva insicura, isolata e piena di ansietà anche la situazione personale di questi ultimi. Il fatto che il capitale assumesse un'importanza decisiva significava che una forza sovrapersonale determinava il loro destino economico e quindi il loro destino personale. Il capitale «aveva cessato di esser servo ed era diventato padrone. Assumendo una vitalità distinta e indipendente, rivendicava il diritto del socio maggiore a imporre l'organizzazione economica più confacente alle sue esigenze» (20). La nuova funzione del mercato ebbe un effetto analogo. Il mercato medioevale era relativamente piccolo, e il suo funzionamento era facile a capirsi. Esso portava la domanda e l'offerta in contatto diretto e concreto. Un produttore sapeva approssimativamente quanto doveva produrre, e poteva essere relativamente sicuro di vendere i suoi prodotti ad un prezzo giusto. Adesso era necessario produrre per un mercato sempre più vasto, e non era possibile determinare in anticipo le possibilità di vendita. Perciò non bastava produrre i beni utili. Pur essendo questa una condizione necessaria per venderli, erano le leggi imprevedibili del mercato a decidere se i prodotti potevano essere venduti, e, in caso positivo, con qual profitto. Il meccanismo del nuovo mercato ricordava la dottrina calvinista della predestinazione, la quale insegnava che l'individuo doveva fare ogni sforzo per esser buono, ma che già prima della sua nascita era stato deciso se egli doveva o non doveva esser salvato. Il giorno del mercato diventava il giorno del giudizio per i prodotti dell'attività umana. La crescente importanza della concorrenza era, in questo contesto, un altro fattore di rilievo. Certamente la concorrenza non era del tutto mancata nella società medioevale, ma il sistema economico feudale si fondava sul principio della collaborazione ed era governato -o imprigionato -da norme che frenavano la concorrenza. Con l'ascesa del capitalismo questi principi medioevali cedettero sempre più al principio dell'iniziativa individuale. Ogni individuo doveva tentare la sorte: doveva nuotare o andare a fondo. Gli altri non erano alleati a lui in una comune iniziativa, e perciò diventavano concorrenti, e spesso gli si poneva la scelta di distruggerli o di venirne distrutto (21). Naturalmente l'importanza del capitale, del mercato e della concorrenza individuale non era, nel sedicesimo secolo, grande come doveva diventare in seguito. Però tutti gli elementi decisivi del capitalismo moderno erano a quel tempo già comparsi, e così pure il loro effetto psicologico sull'individuo.

Oltre a questo aspetto del quadro ce n'era un altro: il capitalismo liberava l'individuo.

Liberava l'uomo dall'irreggimentazione del sistema corporativo; gli consentiva di reggersi con le proprie forze e di tentare la sorte. Egli diventò padrone del suo destino: suo era il rischio, e suo il guadagno. Lo sforzo individuale poteva portarlo al successo e all'indipendenza economica. Il denaro divenne il grande livellatore degli uomini e si dimostrò più potente della nascita e della casta. Questo aspetto del capitalismo cominciava appena a delinearsi in quel primo periodo che abbiamo esaminato. Giocava una parte più importante nei confronti del piccolo gruppo di ricchi capitalisti che in quelli della classe media urbana. E tuttavia, sia pur nella misura in cui incideva a quel punto, ebbe un effetto importante nel foggiare la personalità dell'individuo. Se cerchiamo ora di riassumere il nostro esame dell'effetto che ebbero sull'individuo le trasformazioni sociali ed economiche dei secoli quindicesimo e sedicesimo, arriviamo al quadro seguente . Troviamo la stessa libertà ambigua che abbiamo notato in precedenza. L'individuo è liberato dalla schiavitù dei vincoli economici e politici. Ha anche incrementato la sua libertà positiva grazie al ruolo attivo ed indipendente che deve svolgere nel nuovo sistema. Ma al tempo stesso vengono meno quei vincoli che solevano dargli sicurezza e un sentimento di appartenenza. La vita non viene più vissuta in un mondo chiuso ruotante intorno all'uomo; il mondo è diventato illimitato e al tempo stesso minaccioso. Perdendo il suo posto fisso in un mondo chiuso, l'uomo perde anche la risposta sul significato della sua vita, la conseguenza è che comincia a sorgergli il dubbio su se stesso e sullo scopo della vita. E' minacciato da possenti forze sovrapersonali: il capitale e il mercato. Il rapporto con i suoi simili, ora che questi sono diventati tutti potenziali concorrenti, è diventato un rapporto di ostilità e di estraneità: egli è libero, ossia è solo, isolato, minacciato da tutte le parti. Non avendo la ricchezza o il potere che aveva il capitalista del Rinascimento, e avendo per di più perduto il senso dell'unità con gli uomini e l'universo, è sopraffatto dal senso della sua personale nullità e impotenza. Il paradiso è perduto per sempre, l'individuo è restato solo ad affrontare il mondo: un estraneo gettato in un mondo illimitato e minaccioso. La nuova libertà è destinata a creare un profondo sentimento di insicurezza, impotenza, dubbio, solitudine e ansietà. Questi sentimenti debbono essere alleviati se l'individuo deve operare con successo.

 

 

2. Il periodo della Riforma.
Il luteranismo e il calvinismo nacquero a questo punto del processo di sviluppo. Le nuove religioni non erano le religioni di una ricca classe superiore, ma quelle della classe media urbana, dei poveri delle città e dei contadini. Facevano appello a questi gruppi, in quanto davano espressione a un nuovo sentimento di impotenza e ansietà da cui i loro membri erano pervasi. Ma le nuove dottrine religiose non si limitarono a esprimere eloquentemente i sentimenti suscitati da un ordine economico in corso di trasformazione. Con i loro insegnamenti li acuirono e al tempo stesso offrirono soluzioni che consentivano all'individuo di far fronte a un'insicurezza altrimenti intollerabile. Prima di passare ad analizzare il significato sociale e psicologico delle nuove dottrine religiose, alcune considerazioni sul metodo da noi seguito possono contribuire alla comprensione di questa analisi. Studiando il significato psicologico di una dottrina religiosa o politica, dobbiamo anzitutto tenere presente che l'analisi psicologica non comporta un giudizio sulla verità della dottrina analizzata. Quest'ultima questione può esser risolta soltanto considerando la struttura logica del problema stesso. L'analisi delle motivazioni psicologiche, sottostanti a certe dottrine o idee, non può mai sostituire il giudizio razionale sulla validità della dottrina e sui valori che essa implica; tuttavia una siffatta analisi può portare a una migliore comprensione del significato reale di una dottrina e quindi influenzare il giudizio di valore. Ciò che l'analisi psicologica delle dottrine può indicare sono le motivazioni soggettive che rendono una persona consapevole di certi problemi e le fanno cercare delle soluzioni in certe direzioni. Ogni genere di pensiero, vero o falso che sia, quando è qualcosa di più di una conformità superficiale ad idee convenzionali, è motivato dai bisogni e dagli interessi soggettivi dell'individuo che pensa. Può accadere che taluni interessi vengano soddisfatti dalla scoperta della verità, e che altri lo siano dalla sua distruzione. Ma in entrambi i casi, le motivazioni psicologiche sono incentivi importanti al fine di arrivare a certe conclusioni. Possiamo dire anzi che le idee, che non sono radicate in forti esigenze della personalità, avranno scarsa influenza sulle azioni e su tutta la vita della persona interessata. Se analizziamo le dottrine religiose e politiche con riferimento al loro significato psicologico, dobbiamo distinguere due problemi. Possiamo studiare la struttura del carattere dell'individuo che crea una nuova dottrina, e cercare di comprendere quali tratti della sua personalità spieghino la particolare direzione del suo pensiero. In concreto ciò significa, ad esempio, che dobbiamo analizzare la struttura del carattere di Lutero o Calvino per scoprire quali tendenze della loro personalità li abbiano fatti arrivare a certe conclusioni, e li abbiano spinti a formulare certe dottrine. L'altro problema è lo studio dei moventi psicologici, non del creatore di una dottrina, ma del gruppo sociale a cui la dottrina fa appello. L'influenza di una dottrina o di un'idea dipende dalla misura in cui fa appello alle esigenze psichiche presenti nella struttura del carattere di coloro a cui si rivolge. Solo se l'idea risponde a potenti esigenze psicologiche di certi gruppi sociali, diventerà una potente forza storica. Questi due problemi, la psicologia del capo e quella dei seguaci, sono naturalmente strettamente intrecciati. Se le stesse idee li attirano, la loro struttura di carattere deve essere simile sotto molti importanti riguardi. A parte certi fattori, come l'eccezionale disposizione del capo al pensiero e all'azione, la struttura del carattere di questo rispecchierà di solito in forma più estrema e netta la particolare struttura della personalità di coloro a cui le sue dottrine si rivolgono; egli può arrivare ad una formulazione più chiara e più esplicita di certe idee alle quali i suoi seguaci sono già psicologicamente preparati. Il fatto che la struttura del carattere del capo manifesti più nettamente certi tratti riscontrabili nei suoi seguaci può esser dovuto all'uno o all'altro dei seguenti fattori, o alla combinazione di entrambi: primo, al fatto che la sua posizione sociale è tipica delle condizioni che plasmano la personalità dell'intero gruppo; secondo, che per circostanze accidentali della sua formazione e delle sue esperienze individuali questi stessi tratti, che il gruppo deriva dalla sua posizione sociale, si sono sviluppati in lui in una misura accentuata. Nella nostra analisi del significato psicologico delle dottrine del protestantesimo e del calvinismo non esaminiamo le personalità di Lutero e Calvino, ma la situazione psicologica delle classi sociali a cui le loro idee si indirizzavano. Voglio solo ricordare rapidamente, prima di passare all'esame della teologia di Lutero, che questi, come uomo, era un tipico rappresentante del «carattere autoritario» di cui diremo più avanti. Essendo stato allevato da un padre eccezionalmente severo, e avendo conosciuto da bambino ben poco amore e sicurezza, la sua personalità era lacerata da una costante ambivalenza verso l'autorità; la odiava e le si ribellava, ma al tempo stesso l'ammirava e tendeva a sottomettervisi. Durante tutta la sua vita ci fu sempre un'autorità a cui si opponeva e un'altra che invece ammirava: nella gioventù il padre e i suoi superiori nel monastero; successivamente il Papa e i principi. Era pervaso da un sentimento violento della solitudine, dell'impotenza e della malvagità, e al tempo stesso dalla passione di dominare. Era torturato da dubbi come può esserlo soltanto un carattere autoritario, ed era costantemente alla ricerca di qualcosa che potesse dargli sicurezza interiore e liberarlo da questa tortura dell'incertezza. Odiava gli altri, specialmente il «volgo», odiava se stesso, odiava la vita; e da tutto questo odio nasceva un desiderio violento e disperato d'esser amato. Tutto il suo essere era pervaso dalla paura, dal dubbio, dall'isolamento interiore, e su questa base personale egli era destinato a diventare il paladino di gruppi sociali che psicologicamente si trovavano in una posizione molto simile alla sua. Un'altra considerazione sul metodo dell'analisi, che seguirà, cade opportuna. Ogni analisi psicologica dei pensieri di un individuo o di un'ideologia mira alla comprensione delle radici psicologiche da cui scaturiscono questi pensieri o queste idee. La prima condizione per un'analisi di questo genere è di comprendere pienamente il contesto logico di un'idea, e quello che il suo autore consapevolmente vuole dire. Tuttavia, noi sappiamo che spesso un individuo, anche se è soggettivamente sincero, può esser spinto inconsciamente da un movente diverso da quello da cui si ritiene spinto; che può usare un concetto che implica logicamente un certo significato e che per lui, inconsciamente, significa qualcosa di diverso da questo significato «ufficiale». Inoltre sappiamo che può tentare di armonizzare certe contraddizioni del suo sentimento per mezzo di una costruzione ideologica, o che può tentare di celare un'idea che vuol reprimere per mezzo di una razionalizzazione che esprime proprio il suo contrario. La comprensione del funzionamento degli elementi inconsci ci ha insegnato ad esser scettici verso le parole e a non prenderle al loro valore nominale. L'analisi delle idee adempie soprattutto due compiti: il primo è di determinare il peso che una certa idea ha nell'insieme di un sistema ideologico; il secondo è di determinare se ci troviamo di fronte ad una razionalizzazione che differisce dal significato reale dei pensieri. Un esempio del primo punto è il seguente: nell'ideologia di Hitler, l'insistenza sull'ingiustizia del trattato di Versailles gioca una parte enorme, ed è vero che egli era sinceramente indignato per il trattato di pace. Però se analizziamo la sua intera ideologia politica, scopriamo che le sue basi sono un intenso desiderio di potere e di conquista, e benché egli dia consapevolmente molto peso all'ingiustizia fatta alla Germania, questo pensiero in realtà ha scarso peso nel complesso del suo pensiero. Un esempio della differenza tra il significato consapevolmente dato a un pensiero e il suo reale significato psicologico può esser tratto dall'analisi delle dottrine di Lutero di cui ci stiamo occupando in questo capitolo. Si dice che il suo rapporto con Dio sia un rapporto di sottomissione dovuta all'impotenza dell'uomo. Egli stesso dice che questa sottomissione è volontaria, e che deriva non dalla paura, ma dall'amore. E allora, si potrebbe obiettare sul piano logico, questa non è sottomissione. Invece, psicologicamente, dall'intera struttura del pensiero di Lutero deriva che questo genere di amore o di fede è realmente sottomissione; che benché egli consciamente pensi al carattere volontario e amorevole della sua «sottomissione» a Dio, è pervaso da un sentimento di impotenza e peccaminosità che rende il suo rapporto con Dio un rapporto di sottomissione (proprio come la dipendenza masochistica di una persona da un'altra viene spesso concepita consciamente come «amore»). Perciò, dal punto di vista dell'analisi psicologica, l'obiezione che Lutero dice qualcosa di diverso da quello che noi riteniamo che pensi (benché inconsciamente) ha scarso peso. Riteniamo che certe contraddizioni del suo sistema possano esser comprese solo per mezzo dell'analisi del significato psicologico dei suoi concetti. Nella seguente analisi delle dottrine del protestantesimo ho interpretato le dottrine religiose secondo il significato che hanno nel contesto dell'intero sistema. Non citerò frasi che contraddicono alcune delle dottrine di Lutero o di Calvino, se mi sono convinto che il loro peso e significato non è tale da dar luogo a vere contraddizioni. Ma l'interpretazione che io do non è fondata sul metodo del trascegliere determinate frasi, che si adattino alla mia interpretazione, ma sullo studio dell'intero sistema di Lutero e di Calvino, della sua base psicologica; e conseguentemente di un'interpretazione dei suoi singoli elementi condotta alla luce della struttura psicologica dell'intero sistema. Se vogliamo comprendere quello che contenevano di nuovo le dottrine della Riforma dobbiamo anzitutto considerare quello che c'era di essenziale nella teologia della Chiesa medioevale (22). Nell'accingerci a farlo, ci troviamo di fronte alla stessa difficoltà metodologica che abbiamo esaminato parlando di concetti come la «società medioevale» e la «società capitalistica». Proprio come nella sfera economica non c'è un improvviso trapasso da una struttura all'altra, così nemmeno nella sfera teologica si riscontra un mutamento improvviso. Certe dottrine di Lutero e Calvino sono così simili a quelle della Chiesa medioevale che talvolta è difficile scorgervi una sostanziale differenza. Come il protestantesimo e il calvinismo, la Chiesa cattolica aveva sempre negato che l'uomo potesse trovare la salvezza grazie alle sole sue virtù e ai soli suoi meriti, e che potesse fare a meno della grazia di Dio quale mezzo indispensabile alla salvezza. Tuttavia, nonostante tutti gli elementi comuni alla vecchia e alla nuova teologia, lo spirito della Chiesa cattolica era fondamentalmente diverso dallo spirito della Riforma, soprattutto per quanto riguarda il problema della dignità e della libertà umane e l'effetto delle azioni dell'uomo sul suo destino. Certi princìpi erano caratteristici della teologia cattolica durante il lungo periodo precedente alla Riforma: la dottrina che la natura dell'uomo, quantunque corrotta dal peccato di Adamo, aspira spontaneamente al bene; che la volontà dell'uomo è libera di desiderare il bene; che l'impegno dell'individuo giova alla sua salvezza; e che il peccatore può essere salvato per mezzo dei sacramenti della Chiesa, fondati sui meriti della morte di Cristo. Tuttavia, alcuni dei teologi più rappresentativi, come S. Agostino e S. Tommaso d'Aquino, pur sostenendo le opinioni anzidette, insegnavano contemporaneamente dottrine pervase da uno spirito profondamente diverso. Ma S. Tommaso, pur insegnando una dottrina di predestinazione, non ha mai cessato di insistere sulla libertà del volere come una delle sue dottrine fondamentali. Per superare il contrasto tra la dottrina della libertà e quella della predestinazione, è costretto a usare le costruzioni più complicate; ma benché queste costruzioni non sembrino risolvere soddisfacentemente le contraddizioni, egli non rinnega la dottrina della libertà del volere e dello sforzo umano come utile alla salvezza dell'individuo, anche se la volontà può aver bisogno del sostegno della grazia di Dio (23). Sulla libertà del volere S. Tommaso dice che sarebbe in contraddizione con l'essenza della natura divina e di quella umana ritenere che l'uomo non sia libero di decidere e che non abbia anzi persino la libertà di rifiutare la grazia offertagli da Dio (24). Altri teologi hanno dato più rilievo di S. Tommaso al ruolo dello sforzo dell'individuo per la propria salvezza. Secondo S. Bonaventura, è intento di Dio offrire la grazia all'uomo, ma la ricevono solo quelli che vi si preparano con i loro meriti. Durante i secoli tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo, questa posizione si rafforzò nei sistemi di Duns Scoto, Occam e Biel, e questo è uno sviluppo particolarmente importante per la comprensione del nuovo spirito della Riforma, dato che gli attacchi di Lutero si indirizzavano segnatamente contro gli Scolastici del tardo Medioevo, che egli chiamava «Sau Theologen». Duns Scoto sottolineava l'importanza della volontà. La volontà è libera. Attraverso la realizzazione della sua volontà, l'uomo realizza il suo essere individuale, e questa autorealizzazione è una soddisfazione suprema per l'individuo. Poiché è comando di Dio che la volontà sia un atto dell'essere individuale, anche Dio non ha un'influenza diretta sulla decisione dell'uomo. Biel e Occam danno evidenza al ruolo dei meriti dell'uomo, come condizione per la sua salvezza, e benché parlino anch'essi dell'aiuto di Dio, il significato fondamentale che questo concetto aveva assunto nelle vecchie dottrine fu da loro abbandonato (25). Biel sostiene che l'uomo è libero e può sempre rivolgersi a Dio, la cui grazia viene in suo soccorso. Occam ha insegnato che la natura dell'uomo non è stata corrotta davvero dal peccato; per lui il peccato è solo un singolo atto che non muta la sostanza dell'uomo. Il Concilio di Trento dichiara molto esplicitamente che il libero arbitrio collabora con la grazia di Dio, ma che può anche astenersi da questa collaborazione (26); il quadro che Occam e altri Scolastici della sua epoca fanno dell'uomo non è quello del povero peccatore, ma dell'essere libero la cui stessa natura lo rende capace di ogni bene, e il cui volere è libero da forze naturali o comunque esterne. La pratica dell'acquisto di lettere di indulgenza, che giocò un ruolo sempre più importante nel tardo Medioevo, e contro cui si è rivolto uno dei principali attacchi di Lutero, si ricollegava alla sempre maggiore importanza data alla volontà dell'uomo e all'utilità dei suoi sforzi. Comprando la lettera di indulgenza dall'emissario del Papa, l'uomo veniva affrancato dalla punizione temporale, che veniva considerata un sostituto della punizione eterna, e, come ha fatto notare Seeberg (27), l'uomo aveva ogni motivo di attendersi di venire assolto da tutti i peccati. A prima vista può sembrare che questa pratica dell'acquistare dal Papa l'esonero dalla punizione del Purgatorio fosse in contraddizione con l'idea dell'efficacia degli sforzi compiuti dall'uomo per la propria salvezza, in quanto implica una dipendenza dall'autorità della Chiesa e dai suoi sacramenti. In una certa misura questo è vero; ma è anche vero che contiene uno spirito di speranza e di sicurezza. Se l'uomo si potesse liberare dalla punizione così facilmente, allora il peso della colpa verrebbe notevolmente alleviato. Potrebbe liberarsi dal peso del passato con relativo agio, e sbarazzarsi dell'ansietà che lo aveva perseguitato. Inoltre non si deve dimenticare che, secondo la teoria implicita o esplicita della Chiesa, l'effetto della lettera d'indulgenza era subordinato al presupposto che il compratore si fosse pentito e confessato (28). Queste idee, che differiscono nettamente dallo spirito della Riforma, sono reperibili anche negli scritti dei mistici nelle prediche e nelle complicate regole relative alla confessione. Vi troviamo una forte affermazione della dignità dell'uomo e della legittimità dell'espressione del suo intero essere. Accanto a questo atteggiamento troviamo l'idea dell'imitazione di Cristo diffusasi largamente già dal dodicesimo secolo, e la convinzione che l'uomo potrebbe aspirare ad essere come Dio. Le regole per i confessori palesavano una profonda comprensione della concreta situazione dell'individuo e riconoscevano le differenze soggettive individuali. Non trattavano il peccato come un peso da cui l'individuo dovrebbe essere schiacciato e umiliato, ma come fragilità umana per la quale si deve avere comprensione e rispetto (29). Per riassumere, possiamo dire che la Chiesa medioevale dava risalto alla dignità dell'uomo, alla libertà del suo volere e al fatto che i suoi sforzi erano utili; metteva in evidenza la somiglianza tra Dio e l'uomo nonché il diritto dell'uomo di confidare nell'amore di Dio. Si riteneva che gli uomini fossero eguali e fratelli proprio per la loro somiglianza con Dio. Nel tardo Medioevo, in seguito ai primi passi del capitalismo, si crearono turbamento e insicurezza, ma contemporaneamente le tendenze che sottolineavano l'importanza della libertà e dello sforzo umano divennero sempre più forti. Possiamo affermare che sia la filosofia del Rinascimento sia la dottrina cattolica del tardo Medioevo riflettevano lo spirito dominante in quei gruppi sociali che traevano dalla propria posizione economica un sentimento di potenza e di indipendenza. D'altra parte, la teologia di Lutero esprimeva i sentimenti della classe media che, lottando contro l'autorità della Chiesa, e provando risentimento per la nuova classe di ricchi, si sentiva minacciata dal capitalismo in ascesa e sopraffatta da un risentimento di impotenza e di insignificanza individuale. Il sistema di Lutero, nella misura in cui differisce dalla tradizione cattolica, presenta due aspetti, uno dei quali è stato messo in evidenza più dell'altro nel quadro delle dottrine luterane che di solito viene presentato nei paesi protestanti. Questo aspetto è che egli ha dato all'uomo indipendenza in materia religiosa; che ha tolto alla Chiesa la sua autorità e l'ha data all'individuo; che il suo concetto di fede e salvezza implica l'esperienza individuale soggettiva, in cui tutta la responsabilità appartiene all'individuo e non interviene un'autorità in grado di dargli ciò che da solo non può ottenere. Ci sono buone ragioni per lodare questo aspetto delle dottrine di Lutero e Calvino, poiché è una delle fonti dello sviluppo della libertà politica e spirituale della società moderna; uno sviluppo che, soprattutto nei paesi anglosassoni, è strettamente legato alle idee del puritanesimo. L'altro aspetto della libertà moderna è l'isolamento e l'impotenza in cui ha gettato l'individuo, e questo aspetto ha le sue radici nel protestantesimo non meno di quello dell'indipendenza. Dato che questo libro tratta soprattutto della libertà in quanto peso e pericolo, l'analisi che segue, deliberatamente unilaterale, mette in risalto quella parte delle dottrine di Lutero e Calvino in cui è radicato questo aspetto negativo della libertà: la parte in cui si insiste sulla fondamentale malvagità e impotenza dell'uomo. Lutero presupponeva una malvagità innata nella natura dell'uomo, la quale dirige la sua volontà verso il male e rende impossibile a qualunque uomo di compiere una buona azione sulla base della propria natura. L'uomo ha una natura malvagia e viziata («naturaliter et inevitabiliter mala et vitiata natura»). La corruzione della natura umana e la completa mancanza di libertà dell'uomo di scegliere il bene è uno dei concetti fondamentali del pensiero di Lutero. In questo spirito comincia il suo commento alla Lettera ai Romani di S. Paolo: «L'essenza di questa lettera è: distruggere, sradicare e annientare tutta la saggezza e la giustizia della carne anche se appaiono -ai nostri occhi e a quelli degli altri -mirabili e sincere... Ciò che importa è che la nostra giustizia e la nostra saggezza, che si dispiegano davanti ai nostri occhi, vengano distrutte e sradicate dal nostro cuore e dal nostro essere orgoglioso» (30). Questa convinzione della corruzione dell'uomo e della sua incapacità di fare il bene per proprio merito è una condizione essenziale della grazia di Dio. Soltanto se l'uomo si umilia e annulla la sua volontà e il suo orgoglio di individuo, la grazia di Dio scenderà su di lui. «Infatti Dio vuole salvarci non per opera di una nostra giustizia e saggezza, ma per opera di una giustizia e di una saggezza estranee ("fremde"), per opera di una giustizia che non proviene da noi e non ha origine in noi, ma ci perviene dall'esterno... cioè si deve insegnare una giustizia che viene esclusivamente dall'esterno e ci è completamente estranea» (31). Un'espressione ancor più radicale dell'impotenza dell'uomo si ritrova nel pamphlet "De servo arbitrio", scritto da Lutero sette anni dopo in polemica con la difesa del libero arbitrio fatta da Erasmo. «...Così la volontà umana è, per così dire, una bestia tra i due. Se la cavalca Iddio, vuole e va dove vuole Iddio; come dice il Salmo, 'ero come una bestia davanti a te, eppure sono continuamente con te' (Sal. 73, 23). Se la cavalca Satana, vuole e va dove vuole Satana. Né la sua volontà ha il potere di scegliere il cavaliere incontro al quale correrà, né quale dei due cercherà; ma i cavalieri stessi si contendono il suo possesso» (32). Lutero dichiara che se non si vuole «prescindere completamente da questo tema del libero arbitrio (che sarebbe la cosa più sicura e anche più religiosa) possiamo nondimeno insegnare con buona coscienza ad usarlo sì da consentire all'uomo un 'libero arbitrio' non rispetto a quelli che stanno sopra di lui, ma solo rispetto a quegli esseri che stanno sotto di lui... Verso Dio l'uomo non ha 'libero arbitrio', ma è un prigioniero, uno schiavo, è un servo della volontà di Satana» (33). Queste dottrine -che l'uomo è uno strumento impotente nelle mani di Dio e che è fondamentalmente malvagio, che il suo solo compito è di rassegnarsi alla volontà di Dio, che Dio può salvarlo per un incomprensibile atto di giustizia non erano la risposta definitiva che poteva dare un uomo come Lutero, tanto tormentato dalla disperazione, dall'ansietà e dal dubbio e al tempo stesso da un desiderio così ardente di certezza. Alla fine egli trovò la risposta ai suoi dubbi. Nel 1518 ebbe un'improvvisa rivelazione. L'uomo non può essere salvato per opera delle sue virtù; egli non deve nemmeno meditare se le sue opere siano gradite o meno a Dio; ma può avere certezza della sua salvezza se ha fede. La fede è data all'uomo da Dio; l'uomo, una volta avuta l'indubitabile esperienza soggettiva della fede, può anche esser certo della sua salvezza. Nel suo rapporto con Dio l'individuo è essenzialmente ricettivo. L'uomo, ricevuta la grazia di Dio nell'esperienza della fede, muta la propria natura, poiché nell'atto di fede si unisce a Cristo, e la giustizia di Cristo sostituisce la sua, perduta dalla caduta di Adamo. Tuttavia, l'uomo durante la sua vita non può mai diventare del tutto virtuoso, perché la sua malvagità naturale non può mai completamente scomparire (34). La dottrina luterana della fede, come indubitabile esperienza soggettiva della propria salvezza, può a prima vista apparire in totale contraddizione con il profondo sentimento di dubbio caratteristico della personalità e degli insegnamenti di Lutero fino al 1518. Dal punto di vista psicologico, tuttavia, questo passaggio dal dubbio alla certezza, lungi dall'essere contraddittorio, è logico. Dobbiamo rammentare quel che si è detto della natura di questo dubbio: non era il dubbio razionale che è radicato nella libertà di pensiero, e che osa rimettere in discussione opinioni stabilite. Era il dubbio irrazionale che scaturisce dall'isolamento e dal senso di impotenza di un individuo, il cui atteggiamento verso il mondo è di ansietà e odio. Questo dubbio irrazionale non può mai essere sanato da risposte razionali, può dileguarsi solo se l'individuo diventa parte integrante di un mondo che abbia un senso. Se ciò non accade, come non è accaduto nel caso di Lutero e della classe media che egli rappresentava, il dubbio può solo venir messo a tacere, esser reso clandestino, per così dire, e questo può esser compiuto da una formula che prometta la certezza assoluta. "La ricerca ossessiva della certezza", come la riscontriamo in Lutero, "non è l'espressione della fede genuina, ma è radicata nel bisogno di vincere l'insopportabile dubbio". La soluzione di Lutero è riscontrabile oggi in molti individui che non pensano in termini teologici: è quella cioè di raggiungere la certezza eliminando l'isolamento individuale, diventando uno strumento nelle mani di un potere soverchiante esterno all'individuo. Per Lutero questo potere era Dio ed egli cercava la certezza nella sottomissione illimitata. Ma pur riuscendo in questo modo a far tacere in certa misura i suoi dubbi, questi ultimi in verità non scomparirono mai del tutto; fino all'ultimo giorno della sua vita ebbe crisi di dubbio, che doveva vincere con rinnovati sforzi di sottomissione. Psicologicamente la fede ha due significati completamente diversi. Può essere l'espressione di un intimo rapporto con l'umanità e un'affermazione di vita; oppure può essere un sistema di reazione ad un fondamentale sentimento di dubbio, radicato nell'isolamento dell'individuo e nel suo atteggiamento negativo verso la vita. La fede di Lutero aveva questo carattere compensatorio. E' particolarmente importante comprendere il significato del dubbio e dei tentativi di metterlo a tacere, perché questo non è un problema esclusivo della teologia di Lutero e, come vedremo presto, di quella di Calvino, ma continua a essere uno dei problemi di fondo dell'uomo moderno. Il dubbio è il punto di partenza della filosofia moderna; il bisogno di farlo tacere ha stimolato potentemente lo sviluppo della filosofia e della scienza moderna. Ma mentre molti dubbi razionali sono stati risolti da risposte razionali, il dubbio irrazionale non è scomparso e non può scomparire finché l'uomo non sia progredito dalla libertà negativa alla libertà positiva. I tentativi moderni di vincerlo -consistano in una lotta ossessiva per il successo ovvero nella convinzione che l'illimitata conoscenza dei fatti può rispondere alla ricerca della certezza, ovvero ancora nella sottomissione a un capo che si assume la responsabilità della «certezza» -possono semplicemente eliminare "la consapevolezza del dubbio". Il dubbio stesso non scomparirà finché l'uomo non abbia superato il suo isolamento, e finché il suo posto nel mondo non abbia assunto un significato dal punto di vista delle sue esigenze umane. Qual è il nesso tra le dottrine di Lutero e la situazione psicologica di tutti, fuorché i ricchi e i potenti, verso la fine del Medioevo? Come abbiamo visto, il vecchio ordine si stava sgretolando. L'individuo aveva perduto la sicurezza della certezza ed era minacciato da nuove forze economiche, dai capitalisti e dai monopoli; il principio corporativo veniva rimpiazzato dalla concorrenza; le classi inferiori sentivano la pressione del crescente sfruttamento. L'attrattiva del luteranesimo per le classi inferiori era diversa dall'attrattiva che esercitava sulla classe media. I poveri delle città, ed ancor più i contadini, versavano in una situazione disperata. Venivano spietatamente sfruttati e privati dei diritti e dei privilegi tradizionali. Si trovavano in uno stato d'animo rivoluzionario, che trovò espressione nelle rivolte contadine e in movimenti rivoluzionari urbani. Il Vangelo esprimeva le loro speranze e aspettative proprio come aveva fatto per gli schiavi e la plebe all'inizio del cristianesimo, e spingeva il povero a cercare libertà e giustizia. Nella misura in cui attaccava l'autorità e metteva la parola del Vangelo al centro dei suoi insegnamenti, Lutero attirava queste masse irrequiete come altri movimenti religiosi a carattere evangelico avevano fatto prima di lui. Pur accettando la loro fedeltà e appoggiandoli, Lutero non poteva spingersi oltre un certo punto; e dovette rompere l'alleanza quando i contadini non si accontentarono più di attaccare l'autorità della Chiesa e di avanzare piccole rivendicazioni per il miglioramento della loro situazione. Essi finirono infatti per diventare una classe rivoluzionaria che minacciava di rovesciare ogni autorità e di distruggere le fondamenta di un ordine sociale al cui mantenimento la classe media era interessata in modo vitale. Infatti, nonostante tutte le difficoltà che abbiamo descritto prima, la classe media, incluso il suo strato più basso, aveva privilegi da difendere dalle rivendicazioni dei poveri; e perciò era fortemente ostile ai movimenti rivoluzionari che miravano a distruggere non solo i privilegi dell'aristocrazia, della Chiesa e dei monopoli, ma anche i suoi privilegi. La collocazione della classe media, a mezza strada tra i ricchissimi e i poverissimi, ne rese la reazione complessa e sotto più d'un aspetto contraddittoria. I suoi membri volevano mantenere la legge e l'ordine, e tuttavia erano loro stessi minacciati negli interessi vitali dall'ascesa del capitalismo. Anche i membri più riusciti della classe media non erano ricchi e potenti quanto il piccolo gruppo dei grossi capitalisti. Dovevano lottare duramente per sopravvivere e fare progressi. Il lusso della classe dei ricchi aumentava il loro sentimento di piccolezza e li riempiva di invidia e indignazione. Nel complesso la classe media era più danneggiata che avvantaggiata dal collasso dell'ordine feudale e dall'ascesa del capitalismo. Il quadro dell'uomo fatto da Lutero rispecchiava proprio questo dilemma. L'uomo è libero "da" tutti i vincoli che lo legano alle autorità spirituali, ma proprio questa libertà lo lascia solo e ansioso, lo sommerge in un sentimento di irrilevanza e impotenza personali. Questo individuo libero, isolato, è schiacciato dall'esperienza della sua irrilevanza individuale. La teologia di Lutero dà voce a questo sentimento di impotenza e di dubbio. Il quadro dell'uomo che egli traccia in termini religiosi descrive la situazione dell'individuo come la veniva creando l'evoluzione sociale ed economica dell'epoca. Il membro della classe media era, di fronte alle nuove forze economiche, impotente quanto lo era l'uomo in genere, nella descrizione di Lutero, nel suo rapporto con Dio. Ma Lutero non si limitò a rendere evidente il sentimento di irrilevanza che già pervadeva le classi sociali cui egli predicava: egli offrì loro una soluzione. Non solo accettando la propria irrilevanza, ma umiliandosi fino all'estremo limite, rinunziando ad ogni residuo di volontà personale, rinunziando e denunziando la propria forza individuale, l'individuo poteva sperare di riuscire accetto a Dio. Il rapporto di Lutero con Dio era un rapporto di completa sottomissione. In termini psicologici il suo concetto di fede suona così: se ti sottometti completamente, se accetti la tua irrilevanza individuale, allora l'onnipotente Iddio sarà forse disposto ad amarti e a salvarti. Se ti liberi della tua personalità individuale, con tutte le sue manchevolezze e i suoi dubbi, mediante un completo autoannullamento, ti liberi dal sentimento della tua nullità e puoi prender parte alla gloria di Dio. Così, liberando gli individui dall'autorità della Chiesa, Lutero li spingeva a sottomettersi a un'autorità molto più tirannica, quella di un Dio che pretendeva la completa sottomissione dell'uomo e l'annullamento della sua personalità individuale come condizioni essenziali per la sua salvezza. "La «fede» di Lutero era la convinzione di essere amato a patto di arrendersi", una soluzione che ha molto in comune con il principio della completa sottomissione dell'individuo allo Stato e al «Capo». La reverenza di Lutero per l'autorità, e il suo amore per essa, è evidente anche nelle sue convinzioni politiche. Pur combattendo contro l'autorità della Chiesa, pur provando sdegno verso la nuova classe di ricchi -di cui facevano parte gli strati superiori della gerarchia ecclesiastica -e pur sostenendo entro certi limiti le tendenze rivoluzionarie dei contadini, Lutero postulava la sottomissione alle autorità mondane, i principi, nel modo più drastico. «Anche se coloro che hanno l'autorità sono malvagi o privi della fede, nondimeno l'autorità e il suo potere sono buoni e vengono da Dio... Perciò dove c'è potere, e dove questo fiorisce, là risiede e là resta, perché così ha voluto Dio» (35). O anche: «Dio preferirebbe sopportare anche il peggior governo piuttosto che consentire alla turba di tumultuare, per quante giustificazioni essa possa avere... Un principe deve rimanere principe per quanto tirannico possa essere. Necessariamente mozza la testa solo a pochi, dato che per essere un governante deve avere dei sudditi». L'altro aspetto del suo attaccamento all'autorità, e della sua preferenza per essa, diventa evidente nel suo odio e disprezzo per le masse impotenti, la «plebe», specialmente quando questa andava oltre certi limiti nei suoi conati rivoluzionari. In una delle sue diatribe egli scrive le parole famose: «E quindi tutti quelli che possono colpiscano, ammazzino, e pugnalino, segretamente o palesemente, ricordando che non ci può esser nulla di più velenoso, dannoso o diabolico di un ribelle. E' proprio come quando si deve uccidere un cane rabbioso; se non lo colpisci, ti colpirà lui, e un intero paese con te» (36). Tanto la personalità di Lutero quanto i suoi insegnamenti rivelano un'ambivalenza verso l'autorità. Da una parte ha paura dell'autorità l'autorità mondana e quella di un Dio tirannico -e dall'altra si ribella all'autorità: quella della Chiesa. Egli rivela la stessa ambivalenza nel suo atteggiamento verso le masse. Finché si ribellano entro i limiti posti da lui, egli è con loro. Ma quando attaccano le autorità che egli approva, si manifesta un odio e un disprezzo profondi per le masse. Nel capitolo che tratta del meccanismo psicologico dell'evasione, dimostreremo che questo simultaneo amore per l'autorità e odio contro quelli che sono impotenti sono tratti tipici del «carattere autoritario». A questo punto è importante comprendere che l'atteggiamento di Lutero verso l'autorità laica era strettamente legato ai suoi insegnamenti religiosi. Nel dare all'individuo il sentimento della propria indegnità e irrilevanza per quanto riguarda i suoi meriti personali, nel dargli la sensazione di essere uno strumento impotente nelle mani di Dio, egli privava l'uomo della fiducia in se stesso e del sentimento della dignità umana che è la premessa di ogni ferma resistenza all'oppressione delle autorità laiche. Nel corso dell'evoluzione storica, il risultato degli insegnamenti di Lutero ha avuto una portata ancor maggiore. Una volta perduto il suo senso di orgoglio e dignità, l'individuo era psicologicamente preparato a perdere il sentimento che era stato caratteristico del pensiero medioevale, quello cioè che l'uomo, la sua salvezza spirituale e i suoi fini spirituali erano lo scopo della vita; era pronto ad accettare un ruolo in cui la vita diventava un mezzo rispetto a fini a lui estranei, quelli della produttività economica e dell'accumulazione di capitale. Le opinioni di Lutero sui problemi economici erano tipicamente medioevali. Ancor più di quelle di Calvino. Egli avrebbe aborrito dall'idea che la vita dell'uomo dovesse diventare un mezzo per fini economici. Ma mentre il suo pensiero in materia economica era quello tradizionale, la sua insistenza sulla nullità dell'individuo lo contraddiceva, e apriva la strada ad uno sviluppo in cui l'uomo non solo doveva obbedire a delle autorità laiche, ma doveva subordinare la sua vita ai fini del progresso economico. Ai nostri giorni questa tendenza ha raggiunto il culmine nel concetto fascista secondo il quale scopo della vita è sacrificarsi a poteri «superiori», al capo o alla comunità razziale. La teologia di Calvino, che doveva diventare per i paesi anglosassoni importante quanto lo è stata quella di Lutero per la Germania, manifesta sostanzialmente lo stesso spirito di quella di Lutero, sia dal punto di vista teologico che da quello psicologico. Sebbene anch'egli si opponga all'autorità della Chiesa e alla cieca accettazione delle sue dottrine, la religione si fonda per lui sull'impotenza dell'uomo; l'autoumiliazione e la distruzione dell'orgoglio umano costituiscono il "leitmotiv" del suo pensiero.

Solo chi disprezza questo mondo, può dedicarsi alla preparazione del mondo futuro (37).

Egli insegna che dobbiamo umiliarci e che proprio questa autoumiliazione è il mezzo per poter contare sulla forza di Dio. «Infatti nulla ci spinge a riporre tutta la fiducia e la tranquillità dell'animo nel Signore quanto la diffidenza verso noi stessi e l'ansietà derivante dalla coscienza della nostra miseria» (38). Egli predica che l'individuo non deve sentirsi padrone di se stesso. «Non apparteniamo a noi stessi; perciò né la nostra ragione né la nostra volontà debbono predominare nelle nostre deliberazioni e azioni. Non apparteniamo a noi stessi; perciò non proponiamoci come fine di cercare ciò che può esserci utile secondo la carne. Non apparteniamo a noi stessi; perciò dimentichiamo per quanto possibile noi stessi e tutte le cose che sono nostre. Siamo, viceversa, di Dio; perciò viviamo e moriamo per lui. Infatti, come la più devastante pestilenza rovina gli individui se obbediscono a se stessi, così il solo paradiso di salvezza è il non sapere o desiderare alcuna cosa come individui, ma il farsi guidare da Dio che cammina davanti a noi» (39). L'uomo non deve perseguire la virtù per se stessa. Ciò non porterebbe che alla vanità: «Infatti è antica e vera osservazione che c'è un mondo di vizi celato nell'anima dell'uomo. Né si può trovare altro rimedio che quello di negarsi e abbandonare tutte le considerazioni egoistiche, e dedicare tutta l'attenzione al perseguimento di quelle cose che il Signore esige da noi, e che debbono essere perseguite per questa sola ragione, che piacciono a Lui» (40). Anche Calvino nega che le opere buone possano condurre alla salvezza. Anzi, nega addirittura che esistano: «Non è mai esistita alcuna opera di uomo pio che, esaminata davanti al rigoroso giudizio di Dio, non si dimostrasse condannabile» (41). Se cerchiamo di comprendere il significato psicologico del sistema di Calvino, resta vero in linea di principio quello che si è detto degli insegnamenti di Lutero. Anche Calvino predicava alla classe media conservatrice, a persone che si sentivano enormemente sole e impaurite, i cui sentimenti trovavano espressione nella sua dottrina dell'irrilevanza e dell'impotenza dell'individuo e della futilità dei suoi sforzi. Tuttavia, possiamo riscontrare qualche lieve differenza; mentre la Germania al tempo di Lutero si trovava in una situazione generale di sollevazione, in cui non solo la classe media, ma anche i contadini e la plebe urbana erano minacciati dall'ascesa del capitalismo, Ginevra era una comunità relativamente prospera. Nella prima metà del quindicesimo secolo era stata uno dei mercati importanti dell'Europa, e benché al tempo di Calvino fosse già stata messa in ombra da Lione sotto questo aspetto (42), aveva nondimeno conservato una notevole solidità economica. Nel complesso ci sembra di poter dire che i seguaci di Calvino venivano reclutati soprattutto nella classe media conservatrice (43), e che anche in Francia, Olanda e Inghilterra i suoi principali seguaci non erano tra i gruppi capitalistici avanzati, ma tra gli artigiani e i piccoli imprenditori, alcuni dei quali erano già più prosperi di altri, ma che, come gruppo, erano minacciati dall'ascesa del capitalismo (44). Verso questa classe sociale il calvinismo esercitava la stessa attrattiva psicologica che abbiamo già visto a proposito del luteranismo. Esso esprimeva il sentimento della libertà, ma anche quello dell'irrilevanza e dell'impotenza dell'individuo. Offriva una soluzione insegnando all'individuo che avrebbe potuto sperare di trovare una nuova sicurezza mediante la completa sottomissione e autoumiliazione. Ci sono varie sottili differenze tra gli insegnamenti di Calvino e quelli di Lutero, ma esse non sono importanti ai fini del tema principale di questo libro. Vale la pena di mettere in risalto solo due motivi di diversità. Il primo è la dottrina della predestinazione di Calvino. Questa dottrina -diversamente che in S. Agostino, S. Tommaso e Lutero -diventa una pietra angolare del sistema di Calvino, forse la sua dottrina centrale. Egli le dà un'interpretazione nuova, sostenendo che Dio non solo predestina alcuni alla grazia, ma decide che altri siano destinati alla dannazione eterna (45). La salvezza o la dannazione non sono risultati del bene o del male che l'uomo fa nella sua vita, ma sono predeterminati da Dio prima che l'uomo nasca. Il motivo per cui Dio abbia prescelto uno e condannato l'altro è un segreto in cui l'uomo non deve cercare di addentrarsi. Egli ha scelto così perché gli piaceva dimostrare in questo modo il suo potere illimitato. Il Dio di Calvino, nonostante tutti i tentativi di conservare l'idea della giustizia e dell'amore divini, ha tutte le caratteristiche di un tiranno senza alcun tratto di amore o anche di giustizia. In vistoso contrasto con il Nuovo Testamento, Calvino nega il ruolo supremo dell'amore e afferma: «Infatti quello che gli Scolastici pretendono, circa la priorità della Carità rispetto alla Fede e alla Speranza, è la pura fantasia di un'immaginazione malata...» (46). Il significato psicologico della dottrina della predestinazione è duplice. Esprime ed esaspera il sentimento dell'impotenza e dell'irrilevanza dell'individuo. Nessuna dottrina potrebbe esprimere con maggior forza di questa l'indegnità della volontà e dell'impegno umani. La decisione sul proprio destino viene completamente sottratta all'uomo. E non c'è nulla che egli possa fare per mutare questa decisione: è uno strumento impotente nelle mani di Dio. L'altro significato di questa dottrina, come di quella di Lutero, sta nella sua funzione di far tacere il dubbio irrazionale, che era il medesimo sia in Calvino e nei suoi seguaci che in Lutero. A prima vista la dottrina della predestinazione sembra esaltare il dubbio piuttosto che metterlo a tacere. L'individuo non si sentirà per forza lacerato da dubbi ancor più tormentosi, apprendendo di esser stato predestinato alla dannazione eterna o alla salvezza prima della nascita? Come potrà mai sapere con sicurezza quale sarà la sua sorte? Benché Calvino non insegnasse che esista una prova concreta di questa certezza, egli e i suoi seguaci erano realmente convinti di appartenere alla cerchia degli eletti. Traevano questa convinzione dallo stesso meccanismo di autoumiliazione che abbiamo analizzato esaminando la dottrina di Lutero. Per chi aveva questa convinzione, la dottrina della predestinazione comportava la certezza assoluta; non si poteva far nulla che potesse metter in pericolo la salvezza, dato che la salvezza non dipendeva dalle proprie azioni, ma veniva decisa prima della nascita. Come nel caso di Lutero, anche qui il dubbio fondamentale portava alla ricerca della certezza assoluta; ma benché la dottrina della predestinazione desse questa certezza, il dubbio restava sullo sfondo, e doveva venir messo a tacere continuamente dalla sempre più fanatica convinzione che la comunità religiosa a cui si apparteneva rappresentasse quella parte dell'umanità che era stata prescelta da Dio. La teoria della predestinazione di Calvino ha un'implicazione che deve essere qui esplicitamente indicata, poiché ha avuto la più vigorosa reviviscenza nell'ideologia nazista: il principio della fondamentale ineguaglianza degli uomini. Per Calvino ci sono due specie di persone: quelle che vengono salvate e quelle che sono destinate alla dannazione eterna. Dato che questo destino viene determinato prima della loro nascita, e senza che essi possano mutarlo facendo o non facendo certe cose nella loro vita, l'eguaglianza degli uomini viene negata in linea di principio. Gli uomini sono creati ineguali. Questo principio implica anche che non v'è alcuna solidarietà tra gli uomini, poiché proprio il fattore che costituisce la base più forte dell'umana solidarietà viene negato: l'eguaglianza del destino umano. I calvinisti con assoluto candore ritenevano di essere i prescelti, e che tutti gli altri fossero quelli che Dio aveva condannato alla dannazione. Ovviamente questa convinzione rispecchiava psicologicamente un disprezzo e un odio profondi per gli altri esseri umani: proprio lo stesso odio che avevano attribuito a Dio Benché il pensiero moderno abbia condotto ad una sempre maggiore affermazione dell'eguaglianza degli uomini, il principio dei calvinisti non è mai stato del tutto ridotto al silenzio. La dottrina secondo cui gli uomini sono fondamentalmente ineguali per effetto della loro provenienza razziale conferma lo stesso principio con una razionalizzazione diversa. Le implicazioni psicologiche sono le stesse. Un'altra e molto significativa differenza rispetto agli insegnamenti di Lutero sta nella maggiore importanza attribuita allo sforzo morale e alla vita virtuosa. Non che l'individuo possa "mutare il proprio destino" con le sue opere, ma il fatto stesso che egli riesca a compiere lo sforzo è un segno della sua appartenenza al novero dei salvati. Le virtù che l'uomo deve acquistare sono: la modestia e la moderazione ("sobrietas"), la giustizia ("iustitia") nel senso che a ciascuno sia data la parte che gli è dovuta, e la devozione ("pietas"), che unisce l'uomo a Dio (47). Nell'ulteriore sviluppo del calvinismo l'insistenza sulla vita virtuosa e sulla rilevanza di uno sforzo incessante aumenta di importanza, e in modo particolare l'idea che il successo nella vita mondana, come risultato di questi sforzi, è un segno di salvezza (48). Ma la particolare insistenza del calvinismo sulla vita virtuosa aveva anche uno speciale significato psicologico. Il calvinismo dava rilievo alla necessità di un incessante sforzo umano. L'uomo deve costantemente cercare di vivere secondo la parola di Dio, e non rinunciare mai a questo sforzo. Questa dottrina appare in contraddizione con quella secondo cui lo sforzo umano non reca vantaggio ai fini della salvezza. L'atteggiamento fatalistico della rinuncia a qualsiasi sforzo potrebbe sembrare una risposta molto più appropriata. Alcune considerazioni psicologiche, tuttavia, possono dimostrare che non è così. Lo stato di ansietà, il sentimento di impotenza e irrilevanza, e soprattutto il dubbio sul proprio destino dopo la morte, creano uno stato d'animo praticamente intollerabile per chiunque. Pressoché nessuno, che sia colpito da questa paura, è in grado di rilasciarsi, di godere la vita e di essere indifferente a quello che accadrà dopo. Un modo possibile di sfuggire a questo intollerabile stato di incertezza, e al sentimento paralizzante della propria irrilevanza, è proprio il tratto che è diventato così importante nel calvinismo: lo sviluppo di un'attività frenetica e l'affanno di fare qualcosa. In questo senso l'attività assume un carattere ossessivo: "l'individuo deve essere attivo per vincere il suo sentimento di dubbio e impotenza". Questo genere di sforzo e di attività non è il risultato della forza interiore e della fiducia in sé: è una fuga disperata dall'ansietà. Questo meccanismo può essere facilmente osservato negli attacchi di panico da ansietà che subiscono gli individui. Colui che attende di ricevere entro qualche ora la diagnosi del medico sulla sua malattia che può essere fatale -si trova assai naturalmente in uno stato di ansietà. Normalmente egli non resterà seduto tranquillo ad aspettare. Il più delle volte la sua ansietà, sempreché addirittura non lo paralizzi, lo spingerà ad un tipo di attività più o meno frenetica. Può misurare in lungo e in largo il pavimento, cominciare a far domande e a parlare con chiunque gli capiti a portata di mano, mettere in ordine la sua scrivania, scrivere lettere; può continuare la sua normale attività, ma aumentandola, e svolgendola più febbrilmente. Il suo sforzo, qualsiasi forma assuma, è determinato dall'ansietà, e tende a superare il sentimento di impotenza per mezzo di un'attività frenetica. Nella dottrina calvinista lo sforzo ha ancora un altro significato psicologico. Il fatto che non ci si stancasse di impegnarsi in questo sforzo incessante, e che si riuscisse nell'attività morale come in quella mondana, era il segno più o meno chiaro dell'appartenenza alla cerchia degli eletti. L'irrazionalità di questo sforzo obbligato sta nel fatto che l'attività "non è intesa a creare un fine desiderato, ma serve a indicare se accadrà o meno qualcosa" che è stato determinato in anticipo, indipendentemente dall'attività o dal controllo dell'individuo. Questo meccanismo è ben noto nel caso dei soggetti colpiti da nevrosi coatta. Queste persone, quando temono il risultato di una vicenda importante, possono, nell'attendere la risposta, mettersi a contare le finestre delle case o gli alberi delle strade. Se il numero è pari, la persona sente che le cose andranno bene; se è dispari, è segno che non riuscirà. Spesso questo dubbio non si riferisce a un momento specifico, ma alla vita intera di una persona e l'ossessione di cercare «segni» la pervaderà in conseguenza. Spesso il nesso esistente tra il contar pietre, il far solitari, il giocar d'azzardo, eccetera, e l'ansietà e il dubbio, non è cosciente. Una persona può fare i solitari perché è spinta da un vago sentimento di inquietudine, e solo un'analisi potrebbe svelare la funzione occulta della sua attività: rivelare il futuro. Nel calvinismo questo significato dello sforzo faceva parte della dottrina religiosa. In origine si riferiva soprattutto allo sforzo morale, ma in seguito è stato dato sempre maggior risalto allo sforzo nel lavoro e ai risultati di questo sforzo, cioè il successo o il fallimento nell'attività economica. Il successo diventò il segno della grazia di Dio; il fallimento, il segno della dannazione. Queste considerazioni dimostrano che l'impulso allo sforzo incessante e al lavoro non era affatto in contraddizione con la fondamentale convinzione dell'impotenza dell'uomo; ne era piuttosto il risultato psicologico. In questo senso lo sforzo e il lavoro assumevano un carattere totalmente irrazionale. Non dovevano mutare il destino, essendo questo predeterminato da Dio, a prescindere da qualsiasi sforzo compiuto dall'individuo. Servivano solo come mezzo per prevedere il destino predeterminato, mentre al tempo stesso lo sforzo frenetico era una rassicurazione contro un sentimento di impotenza altrimenti intollerabile. Questo nuovo atteggiamento verso lo sforzo e il lavoro come fini in sé può essere considerato il mutamento psicologico più importante avvenuto nell'uomo dalla fine del Medioevo. In ogni società l'uomo per vivere deve lavorare. Molte società risolvevano il problema facendo eseguire il lavoro dagli schiavi, consentendo così all'uomo libero di dedicarsi a occupazioni «nobili». In queste società il lavoro non era degno dell'uomo libero. Anche nella società medioevale l'onere del lavoro era inegualmente distribuito tra le diverse classi della gerarchia sociale, e i casi di brutale sfruttamento erano numerosi. Ma l'atteggiamento verso il lavoro era diverso da quello che si è sviluppato poi nell'era moderna.

Il lavoro non aveva il carattere astratto del produrre una merce che possa essere vantaggiosamente venduta sul mercato. Si lavorava per soddisfare una domanda concreta e per un fine concreto: guadagnarsi da vivere. Non c'era alcuna spinta, come ha dimostrato Max Weber, a lavorare più di quanto fosse necessario per mantenere il tradizionale tenore di vita. Pare che da alcuni settori della società medioevale il lavoro fosse goduto come realizzazione dell'abilità produttiva; e che molti altri lavorassero perché "dovevano" e sentivano che questa necessità era condizionata da pressioni esterne. La novità della società moderna è che gli uomini sono stati spinti a lavorare non tanto da pressioni esterne, quanto da una costrizione interna che li obbligava a lavorare come in altre società soltanto un padrone molto rigido avrebbe potuto costringere la gente a lavorare. Nel convogliare tutte le energie verso il lavoro, la costrizione interna è stata più efficace di quanto possa mai essere una costrizione esterna. Contro la costrizione esterna c'è sempre un certo atteggiamento di ribellione, che riduce l'efficacia del lavoro, oppure rende le persone incapaci di svolgere un compito differenziato che richieda intelligenza, spirito di iniziativa e senso di responsabilità.

La costrizione al lavoro, che faceva dell'uomo l'aguzzino di se stesso, non intaccava queste qualità. Indubbiamente il capitalismo non avrebbe potuto svilupparsi se la maggior parte delle energie umane non fosse stata incanalata in direzione del lavoro. Nella storia non si conosce un altro periodo in cui gli uomini liberi abbiano dato in modo così completo la loro energia ad un unico scopo: il lavoro. La spinta al lavorare senza sosta è stata una delle forze produttive fondamentali, non meno importante, per lo sviluppo del nostro sistema industriale, del vapore e dell'elettricità. Finora abbiamo parlato soprattutto dell'ansietà e del sentimento di impotenza che pervadevano la personalità del membro della classe media. Dobbiamo ora esaminare un altro tratto, che abbiamo appena sfiorato: "la sua ostilità e il suo risentimento". Non è sorprendente che la classe media manifestasse un'intensa ostilità. Chiunque sia bloccato nell'espressione emotiva e sensuale, e sia inoltre minacciato nella sua stessa esistenza, reagirà di solito con ostilità; come abbiamo visto, la classe media nel suo complesso, e soprattutto quei suoi membri che ancora non godevano dei vantaggi del capitalismo in ascesa, erano bloccati e gravemente minacciati. C'era un altro fattore che aumentava la loro ostilità: il lusso e la potenza che il piccolo gruppo dei capitalisti, compresi gli alti dignitari della Chiesa, poteva permettersi di ostentare. Il naturale risultato fu una profonda invidia nei loro confronti. Ma pur aumentando questa ostilità e questa invidia, i membri della classe media non trovavano un modo diretto di esprimersi quale era possibile alle classi inferiori. Queste ultime odiavano i ricchi che le sfruttavano, volevano rovesciare il potere, e potevano perciò permettersi di provare ed esprimere odio. Anche la classe superiore poteva permettersi di esprimere aggressività direttamente nella volontà di potenza.

I membri della classe media erano sostanzialmente conservatori; volevano stabilizzare la società e non scardinarla; ognuno di loro sperava di diventare più agiato e di partecipare allo sviluppo generale. Perciò l'ostilità non doveva essere espressa apertamente, ed anzi non poteva esser nemmeno provata consapevolmente; doveva venir repressa. Tuttavia la repressione si limita a rimuovere l'ostilità dalla coscienza; ma non l'abolisce. Inoltre l'ostilità contenuta, non trovando un'espressione diretta, aumenta fino al punto di pervadere l'intera personalità, i rapporti con se stessi e con gli altri: ma in forme razionalizzate e camuffate. Lutero e Calvino rappresentano questa ostilità onnipervadente; non solo nel senso che personalmente appartenevano al novero degli odiatori più violenti di tutta la storia, ma anche, cosa ancora più importante, nel senso che le loro dottrine erano intrise di questa ostilità e potevano attrarre solo un gruppo sociale spinto a sua volta da un'intensa, repressa ostilità. L'espressione più palese di questa ostilità si riscontra nel loro concetto di Dio, specie nella dottrina di Calvino. Pur essendo a tutti noi ben noto questo concetto, spesso non intendiamo appieno che cosa significhi concepire Dio -come fa Calvino -come un essere arbitrario e spietato, che destina una parte dell'umanità alla dannazione eterna, senza alcuna giustificazione o ragione fuorché quella che l'atto è espressione della potenza divina. Lo stesso Calvino, naturalmente, si preoccupava delle ovvie obiezioni che potevano esser mosse a questa concezione di Dio; ma le costruzioni più o meno sottili da lui escogitate per sostenere l'immagine di un Dio giusto e amorevole non suonano affatto convincenti. Questo quadro di un Dio dispotico, che vuole un potere illimitato sugli uomini e la loro sottomissione e umiliazione, era la proiezione dell'ostilità e dell'invidia della classe media. L'ostilità e il risentimento trovavano espressione anche nella natura dei rapporti con gli altri. La forma principale che assumevano era l'indignazione morale, che ha invariabilmente caratterizzato la classe media inferiore dal tempo di Lutero fino al tempo di Hitler. Questa classe, pur essendo in realtà invidiosa di coloro che avevano ricchezza e potenza, e che potevano perciò godersi la vita, razionalizzava questo risentimento e questa invidia attraverso l'indignazione morale e la convinzione che queste persone superiori sarebbero state punite con le pene eterne (49).

Ma la tensione ostile verso gli altri si esprimeva anche in altri modi. Il regime di Calvino a Ginevra era caratterizzato dal sospetto e dall'ostilità di tutti nei confronti di tutti, e certamente in esso si poteva ritrovare ben poco spirito di amore e di fratellanza. Calvino era sospettoso della ricchezza, e al tempo stesso provava scarsa pietà per la povertà. Nel successivo sviluppo del calvinismo si levarono spesso ammonimenti contro la benevolenza verso lo straniero, e si manifestarono atteggiamenti di crudeltà verso il povero e una generale atmosfera di sospetto (50). A prescindere dalla proiezione dell'ostilità e della gelosia su Dio, e dalla loro indiretta espressione nella forma dell'indignazione morale, un altro modo di esprimere l'ostilità era quello di rivolgerla contro se stessi. Abbiamo visto con quanto ardore sia Lutero che Calvino insistessero sulla malvagità dell'uomo, e insegnassero che l'autoumiliazione e l'autodegradazione erano la base di ogni virtù. Quello che avevano consapevolmente in mente certamente non era altro che un'umiltà portata ad un grado estremo. Ma chiunque abbia dimestichezza con i meccanismi psicologici dell'autoaccusa e dell'autoumiliazione non può aver dubbi sul fatto che questo genere di «umiltà» ha le sue radici in un odio violento, a cui per una qualche ragione viene impedito di rivolgersi verso il mondo esterno, sicché finisce per operare contro se stessi. Per comprendere pienamente questo fenomeno, è necessario rendersi conto che gli atteggiamenti verso gli altri e verso se stessi, lungi dall'essere in contrasto tra loro, procedono in linea di principio parallelamente. Ma mentre l'ostilità verso gli altri è spesso cosciente, e può essere espressa palesemente, di solito l'ostilità verso se stessi (fuorché in casi patologici) è inconscia, e si esprime in forme indirette e razionalizzate. Una è l'attiva insistenza della persona sulla propria malvagità e irrilevanza, di cui abbiamo appena parlato; un'altra si presenta sotto forma di coscienza o dovere. Proprio come esiste un'umiltà che non ha nulla a che fare con l'odio per se stessi, così esistono autentiche esigenze della coscienza e un senso del dovere che non sono radicati nell'ostilità. Questa coscienza autentica fa parte della personalità integrata, e il soddisfacimento delle sue esigenze è un'affermazione dell'intera personalità. Tuttavia, il senso del «dovere», come quello che pervade la vita dell'uomo moderno dal tempo della Riforma nelle razionalizzazioni religiose o laiche, è intensamente colorato di ostilità contro l'io. La «coscienza» è un aguzzino, che l'uomo mette entro se stesso. Lo spinge ad agire secondo desideri e fini che egli ritiene suoi, mentre in realtà sono l'interiorizzazione di imperativi sociali esterni. Lo perseguita con rigore e crudeltà, vietandogli il piacere e la felicità, rendendogli tutta la vita una espiazione di qualche misterioso peccato (51). Essa è anche la base dell'«ascetismo del mondo interiore», così caratteristico del primo calvinismo e del tardo puritanesimo. L'ostilità in cui sono radicati questo genere moderno di umiltà e questo senso del dovere spiega anche una contraddizione che altrimenti ci lascerebbe perplessi: il fatto che questa umiltà si accompagni al disprezzo per gli altri, e che il senso di superiorità abbia addirittura sostituito l'amore e la misericordia. L'umiltà genuina e l'autentico senso del dovere verso i propri simili non sono capaci di questo: ma l'autoumiliazione, e una «coscienza» che si autoannulla, sono soltanto una delle facce di un'ostilità, il cui rovescio è costituito dal disprezzo e dall'odio per gli altri. Dopo questa breve analisi del significato della libertà nel periodo della Riforma, sembra opportuno riassumere le conclusioni che abbiamo raggiunto riguardo allo specifico problema della libertà e al problema generale dell'interazione dei fattori economici, psicologici e ideologici nel processo sociale. Il crollo del sistema medioevale della società feudale ebbe un significato fondamentale per tutte le classi sociali: l'individuo fu lasciato solo e isolato. Era libero. E questa libertà ebbe un duplice risultato: l'uomo fu privato della sicurezza di cui godeva, dell'indiscutibile sentimento di appartenenza, e fu strappato dal mondo che aveva soddisfatto la sua ricerca di sicurezza sia economicamente che spiritualmente. Si sentiva solo e ansioso. Ma era anche libero di agire e di pensare con indipendenza, di diventare padrone di se stesso e di fare della sua vita quello che poteva: non quello che gli si diceva di fare. Tuttavia, a seconda della reale situazione di vita dei membri delle diverse classi sociali, queste due specie di libertà avevano un peso differente. Solo la classe più riuscita della società si avvantaggiava del capitalismo in ascesa in misura tale da trarne ricchezza e potenza reali. Essi potevano espandersi, conquistare, dominare e ammassare fortune per effetto della loro attività e di calcoli razionali. Questa nuova aristocrazia del denaro, insieme a quella del sangue, si trovava nella condizione di poter godere i frutti della nuova libertà e di acquistare un nuovo sentimento di supremazia e di iniziativa individuale. D'altra parte, dovevano dominare le masse e combattersi a vicenda, e così anche la loro situazione non era libera da un'insicurezza e da un'ansietà fondamentali. Ma nel complesso, per i nuovi capitalisti il significato positivo della libertà risultava predominante. Esso si esprimeva nella civiltà che fiorì sul terreno della nuova aristocrazia, la civiltà del Rinascimento. Nella sua arte e nella sua filosofia questo esprimeva il nuovo spirito di dignità, volontà e supremazia umane, sebbene spesso anche disperazione e scetticismo. La stessa insistenza sulla forza dell'attività e della volontà individuali si può ritrovare negli insegnamenti teologici della Chiesa cattolica nel tardo Medioevo. Gli Scolastici di quel periodo non si ribellavano contro l'autorità, e ne accettavano la guida; però mettevano in evidenza il significato positivo della libertà, la partecipazione dell'uomo alla determinazione del suo destino, la sua forza, la sua dignità e la libertà del suo volere. D'altro canto le classi inferiori, la popolazione povera delle città, e soprattutto i contadini, erano spinti da un nuovo bisogno di libertà e da un'ardente speranza di porre fine alla crescente oppressione economica e personale. Avevano poco da perdere e molto da guadagnare. Non s'interessavano delle sottigliezze dogmatiche, ma piuttosto dei princìpi fondamentali della Bibbia: la fratellanza e la giustizia. Le loro speranze assunsero una forma attiva in varie rivolte politiche e in movimenti religiosi caratterizzati dallo spirito intransigente tipico degli inizi del cristianesimo. Tuttavia la nostra attenzione si è rivolta soprattutto alla reazione della classe media. L'avvento del capitalismo, pur contribuendo anche ad accrescere la loro indipendenza e il loro spirito di iniziativa, era una forte minaccia. All'inizio del sedicesimo secolo l'individuo della classe media non poteva trarre ancora molto potere e molta sicurezza dalla nuova libertà. La libertà recava con sé isolamento e senso di irrilevanza personale, più che forza e fiducia. Oltre a ciò, egli era pieno di un bruciante risentimento contro il lusso e la potenza delle classi ricche, inclusa la gerarchia della Chiesa romana. Il protestantesimo dava espressione ai sentimenti di irrilevanza e al risentimento distruggeva la fiducia dell'uomo nell'amore incondizionato di Dio, insegnava all'uomo a disprezzarsi e a sospettare di se stesso e degli altri, lo rendeva uno strumento anziché un fine; capitolava di fronte al potere civile e abbandonava il principio che il potere civile non è giustificato dalla sua mera esistenza, qualora contraddica ai princìpi morali; e, così facendo, esso abbandonava certi elementi che erano stati le basi della tradizione giudaico-cristiana. Le sue dottrine presentavano un quadro dell'individuo, di Dio e del mondo, in cui questi sentimenti venivano giustificati dalla convinzione che l'irrilevanza e l'impotenza, che l'individuo provava, derivavano dalla natura dell'uomo come tale, e che questi doveva provare proprio questi sentimenti. In questo modo le nuove dottrine religiose non solo esprimevano ciò che il tipico membro della classe media sentiva, ma, razionalizzando e rendendo sistematico questo atteggiamento, lo esaltavano e lo rafforzavano nello stesso tempo. Ma non era tutto qui. Esse, inoltre, indicavano all'individuo un modo di affrontare la propria ansietà. Gli insegnavano che accettando pienamente la sua impotenza, e la malvagità della sua natura, considerando la sua vita come un'espiazione dei suoi peccati, umiliando se stesso al massimo e sforzandosi senza posa, sarebbe riuscito a vincere i suoi dubbi e la sua ansietà; che, grazie alla completa sottomissione, egli avrebbe potuto essere amato da Dio e avrebbe potuto almeno sperare di essere fra coloro che Dio aveva deciso di salvare. Il protestantesimo era la risposta alle esigenze umane dell'individuo spaventato, sradicato e isolato che doveva orientarsi e collegarsi a un mondo nuovo. La nuova struttura di carattere, derivante dai mutamenti economici e sociali, e intensificata dalle dottrine religiose, divenne a sua volta un fattore importante dell'ulteriore sviluppo sociale ed economico. Le qualità stesse che erano radicate in questa struttura di carattere -l'ossessione del lavoro, la passione del risparmio, la disposizione a fare della propria vita uno strumento per i fini di un potere extrapersonale, l'ascetismo e un senso ossessivo del dovere -erano tratti di carattere che divennero forze produttive nella società capitalistica, forze senza le quali il moderno sviluppo economico e sociale sarebbe stato impensabile. Erano le forme specifiche in cui si incanalava l'energia umana, e in cui questa diventò una delle forze produttive del processo sociale. Agire in armonia con i nuovi tratti di carattere era vantaggioso dal punto di vista dei bisogni economici; ma era anche soddisfacente psicologicamente, poiché una tale azione rispondeva alle necessità e alle ansietà di questo nuovo tipo di personalità. In termini più generali, si potrebbe dire che il processo sociale, determinando il modo di vita dell'individuo, cioè il suo rapporto con gli altri e con il lavoro, modella la struttura del suo carattere; nuove ideologie -religiose, filosofiche o politiche derivano da questo mutato carattere e lo attirano, intensificandolo, soddisfacendolo e stabilizzandolo; i nuovi tratti di carattere a loro volta diventano fattori importanti dell'ulteriore sviluppo economico e influenzano il processo sociale, mentre in origine si sono sviluppati come reazione alla minaccia di nuove forze economiche, lentamente diventano forze produttive che promuovono e intensificano il nuovo sviluppo economico (52).
4. I DUE ASPETTI DELLA LIBERTA' PER L'UOMO MODERNO
 

 

 

 

 

Il capitolo precedente è stato dedicato ad un'analisi del significato psicologico delle principali dottrine del protestantesimo. Esso ha dimostrato che le nuove dottrine religiose erano una risposta a bisogni psichici, a loro volta provocati dal collasso del sistema sociale medioevale e dagli inizi del capitalismo. L'analisi si è concentrata sul problema della libertà nel suo duplice significato: ha dimostrato che la libertà dai legami tradizionali della società medioevale, pur dando all'individuo un nuovo sentimento di indipendenza, lo portava al tempo stesso a sentirsi solo e isolato, pieno di dubbi e ansietà, e lo spingeva verso una nuova sottomissione e un'attività ossessiva e irrazionale. In questo capitolo intendo dimostrare che l'ulteriore sviluppo della società capitalistica ha influito sulla personalità umana nella stessa direzione che aveva cominciato a prendere nel periodo della Riforma. Dalle dottrine del protestantesimo l'uomo venne psicologicamente preparato al ruolo che doveva svolgere nel moderno sistema industriale. Toccando ogni aspetto della vita, questo sistema, le sue consuetudini e lo spirito che ne è derivato hanno plasmato l'intera personalità dell'uomo e hanno accentuato le contraddizioni che abbiamo esaminato nel capitolo precedente. Ha sviluppato l'individuo, e lo ha reso più impotente, ha accresciuto la libertà, e ha creato nuovi tipi di subordinazione. Non cercheremo di descrivere l'effetto del capitalismo sull'intera struttura del carattere dell'uomo, dal momento che ci concentriamo su un solo aspetto di questo problema generale: il carattere dialettico del processo di sviluppo della libertà. Il nostro intento è quello di dimostrare che la struttura della società moderna influisce sull'uomo contemporaneamente in due modi: egli diventa più indipendente, autosufficiente e critico, e al tempo stesso diventa più isolato, solo e impaurito. La possibilità di comprendere l'intero problema della libertà dipende proprio dalla capacità di vedere entrambi gli aspetti del processo, e di non perdere di vista un filone nel seguire l'altro. E' un'impresa difficile, perché per abitudine pensiamo in termini non dialettici e siamo portati a dubitare che due tendenze contrastanti possano derivare simultaneamente da una sola causa. Inoltre, soprattutto a quelli il cui cuore batte per la causa della libertà, riesce difficile rendersi conto del lato negativo di questa, del peso che essa mette sulle spalle dell'uomo. Dato che nella lotta moderna per la libertà l'attenzione era assorbita dalla battaglia contro le vecchie forme di autorità e costrizione, era naturale pensare che eliminando il maggiore numero possibile di queste costrizioni tradizionali la libertà sarebbe aumentata proporzionalmente. Tuttavia, non ci rendiamo sufficientemente conto del fatto che l'uomo, pur essendosi sbarazzato dei vecchi nemici della libertà, si trova dinanzi nuovi nemici di diversa natura; nemici che non sono fondamentalmente costrizioni esterne, ma fattori interni, che bloccano la piena realizzazione della libertà della personalità. Crediamo, ad esempio, che la libertà di culto costituisca una delle vittorie decisive ai fini della libertà.

Non ci rendiamo sufficientemente conto che, pur trattandosi di una vittoria contro quei poteri della Chiesa e dello Stato che non consentivano all'uomo di praticare il culto che gli dettava la sua coscienza, l'individuo dei tempi moderni ha perduto in gran misura la capacità interiore di aver fede in qualcosa che non sia dimostrabile per mezzo dei metodi delle scienze naturali. Oppure, per scegliere un altro esempio, riteniamo che la libertà di parola sia l'ultimo passo della marcia vittoriosa della libertà. Dimentichiamo che, quantunque la libertà di parola costituisca un'importante vittoria nella battaglia contro le vecchie costrizioni, l'uomo moderno si trova in una situazione in cui gran parte di ciò che «egli» pensa e dice consiste in cose che tutti gli altri pensano e dicono; e che egli non ha acquistato la capacità di pensare originalmente -cioè con la propria testa -la quale sola dà significato alla sua pretesa che nessuno debba interferire nell'espressione dei suoi pensieri. Siamo pure orgogliosi che nella sua condotta di vita l'uomo sia diventato libero da autorità esterne, che gli dicano che cosa fare e che cosa non fare. Trascuriamo il ruolo delle autorità anonime, come l'opinione pubblica e il «senso comune», le quali sono tanto potenti a causa della nostra profonda disposizione a conformarci a quello che tutti si attendono da noi, e a causa della nostra egualmente profonda paura di esser diversi. In altre parole, restiamo incantati di fronte allo sviluppo della libertà "da" forze esterne a noi, ma restiamo ciechi di fronte alla realtà delle costrizioni, dei freni e dei timori "interni", che tendono a minare il significato delle vittorie che la libertà ha riportato contro i suoi tradizionali nemici. Perciò siamo portati a pensare che il problema della libertà sia esclusivamente quello di conquistare ancor più libertà del tipo che abbiamo conquistato nel corso della storia moderna, e a credere che tutto ciò che occorre sia difenderla da quei poteri che negano una libertà siffatta. Dimentichiamo che, quantunque ognuna delle libertà che abbiamo conquistato debba esser difesa con estremo vigore, il problema della libertà non è solo quantitativo, ma anche qualitativo, che non solo dobbiamo conservare e accrescere la libertà tradizionale, ma che dobbiamo conquistare un nuovo tipo di libertà, che ci consenta di realizzare la nostra personalità individuale, di aver fede in essa e nella vita. Qualsiasi valutazione critica dell'effetto che il sistema industriale ha avuto su questo genere di libertà interiore deve prender le mosse dalla piena comprensione dell'enorme progresso che il capitalismo ha portato ai fini dello sviluppo della personalità umana. Di fatto, ogni valutazione critica della società moderna. che trascuri questo aspetto del quadro, si dimostra legata a un romanticismo irrazionale, e suscita il sospetto che la sua critica del capitalismo non sia condotta in nome del progresso, ma in quello della distruzione delle conquiste più importanti raggiunte dall'uomo nella storia moderna. Il capitalismo ha continuato sul piano intellettuale, sociale e politico l'opera che il protestantesimo aveva cominciato liberando l'uomo spiritualmente. La libertà economica è stata la base di questo sviluppo, la classe media ne è stata la paladina. L'individuo non era più vincolato a un sistema sociale fisso, basato sulla tradizione e tale da offrire un margine relativamente piccolo al progresso personale al di là dei limiti tradizionali. Gli si consentiva, e anzi ci si attendeva da lui, il successo in termini di guadagni economici personali, fin dove gli permettevano di arrivare la sua diligenza, intelligenza, coraggio, parsimonia o fortuna. La possibilità di riuscire era sua, e così il rischio di perdere e di essere uno di coloro che restavano uccisi o feriti nella feroce battaglia economica che vedeva ognuno combattere contro tutti. Sotto il sistema feudale i limiti entro cui poteva espandere la sua vita erano stati stabiliti prima della sua nascita; ma sotto il sistema capitalistico l'individuo, e in particolare il membro della classe media, aveva la possibilità -a dispetto delle molte limitazioni -di raggiungere il successo grazie alle proprie azioni e di propri meriti. Vedeva di fronte a sé una meta verso cui poteva dirigere le sue energie, e che spesso aveva buone possibilità di raggiungere. Imparava a fare affidamento su se stesso, a prendere decisioni responsabili, a rinunciare a superstizioni sia consolanti che terrificanti. L'uomo diventò sempre più libero dal vincolo della natura; dominò le forze naturali in una misura inaudita e mai sognata nella storia precedente. Gli uomini divennero eguali; le differenze di casta e di religione, che una volta erano state frontiere naturali che impedivano l'unificazione della razza umana, scomparvero, e gli uomini impararono a riconoscere gli uni negli altri degli esseri umani. Il mondo divenne sempre più libero da mistificazioni; l'uomo cominciò a vedersi obiettivamente e con sempre meno illusioni. Aumentò anche la libertà politica. Grazie alla forza della sua situazione economica, la classe media in ascesa poté conquistare il potere politico, e questo, una volta conquistato, creò maggiori possibilità di progresso economico. Le grandi rivoluzioni in Inghilterra e in Francia, e la lotta per l'indipendenza in America, sono le pietre miliari che segnano questo sviluppo. Il culmine dell'evoluzione della libertà nella sfera politica è stato il moderno stato democratico fondato sul principio dell'eguaglianza di tutti gli uomini e sull'eguale diritto di ognuno di partecipare al governo attraverso rappresentanti di sua scelta. Si presupponeva che ciascuno fosse capace di agire secondo il suo interesse e al tempo stesso tenendo conto del bene comune della nazione. In breve, il capitalismo non solo ha liberato l'uomo dai vincoli tradizionali, ma ha anche contribuito enormemente all'accrescimento della libertà positiva, allo sviluppo della personalità attiva, critica, responsabile. Tuttavia, pur essendo questo uno degli effetti che il capitalismo ebbe sul processo di ampliamento della libertà, nello stesso tempo rese l'individuo più solo e isolato e lo pervase di un senso di irrilevanza e impotenza. Il primo fattore da menzionare qui è una delle caratteristiche generali dell'economia capitalistica: il principio dell'attività individualistica. Contrariamente al sistema feudale del Medioevo, in cui ciascuno occupava un posto fisso in un sistema sociale ordinato e trasparente, l'economia capitalistica portò l'individuo a doversi reggere completamente da solo. Quel che faceva, come lo faceva, il suo successo o il suo fallimento erano completamente affar suo. Che tale principio facesse avanzare il processo d'individualizzazione è ovvio e il fatto viene invariabilmente citato a onore della civiltà moderna. Ma nel promuovere la «libertà da», questo principio contribuiva a recidere tutti i legami esistenti tra un individuo e l'altro, e pertanto isolava e separava l'individuo dai suoi simili. Questo sviluppo era stato preparato dagli insegnamenti della Riforma. Nella Chiesa cattolica il rapporto dell'individuo con Dio era stato fondato sull'appartenenza alla Chiesa. La Chiesa era il legame tra lui e Dio, cosa che da una parte restringeva la sua libertà, ma dall'altra gli consentiva di stare di fronte a Dio come parte integrante del gruppo. Il protestantesimo obbligò l'individuo ad affrontare Dio da solo. La fede come l'intendeva Lutero era un'esperienza completamente soggettiva, e anche in Calvino la convinzione della salvezza aveva questo stesso carattere soggettivo. L'individuo, dovendo affrontare da solo la potenza di Dio, non poteva fare a meno di sentirsi schiacciato e di cercare la salvezza nella completa sottomissione. Psicologicamente, questo individualismo spirituale non è molto diverso dall'individualismo economico. In entrambi i casi l'individuo è completamente solo, e nel suo isolamento affronta il potere superiore, sia esso quello di Dio, quello dei concorrenti o quello delle forze economiche impersonali. "Il rapporto individualistico con Dio era la preparazione psicologica al carattere individualistico delle attività mondane dell'uomo". Mentre il carattere individualistico del sistema economico è un fatto indiscusso, e può apparir dubbio solo il ruolo che questo individualismo economico esercita nell'accrescere la solitudine dell'individuo, il tema che ci accingiamo ad esaminare contraddice alcuni dei concetti tradizionali più diffusi circa il capitalismo. Queste concezioni presuppongono che nella società moderna l'uomo è diventato il centro e il fine di tutta l'attività, che quello che egli fa, lo fa per se stesso, che il principio dell'interesse e dell'egoismo è l'onnipotente motivazione dell'attività umana. All'inizio del capitolo abbiamo già detto che in una certa misura riteniamo che ciò corrisponda al vero. In questi ultimi quattrocento anni l'uomo ha fatto molto per se stesso, per i propri fini. E tuttavia una buona parte di ciò che a lui pareva un suo fine non era suo, se intendiamo per «lui» non «il lavoratore», o «l'imprenditore», ma il concreto essere umano con tutte le sue facoltà emotive, intellettuali e sensoriali. Il capitalismo, oltre che all'affermazione dell'individuo, portò anche a quell'annullamento e a quell'ascetismo che sono la diretta continuazione dello spirito protestante. Per illustrare questa tesi dobbiamo anzitutto richiamare un fatto cui si è accennato nel capitolo precedente. Nel sistema medioevale il capitale era al servizio dell'uomo, ma nel sistema moderno ne è diventato il padrone. Nel mondo medioevale le attività economiche erano solo mezzi in vista di un fine; il fine era la vita stessa o come l'interpretava la Chiesa cattolica -la salvezza spirituale dell'uomo. Le attività economiche sono necessarie, anche la ricchezza può servire i disegni di Dio, ma tutta l'attività esterna ha significato e dignità solo nella misura in cui promuove gli scopi della vita. Per se stessa l'attività economica e la volontà di guadagno apparivano al pensatore medioevale irrazionali proprio quanto la loro assenza appare irrazionale al pensiero moderno. Nel capitalismo l'attività economica, il successo, i guadagni materiali diventano fini in se stessi. Diventa destino dell'uomo contribuire allo sviluppo del sistema economico, accumulare il capitale non per la propria felicità o salvezza, ma come fine in sé. L'uomo diventa un semplice ingranaggio dell'immensa macchina economica -importante se possiede molto capitale, irrilevante se non ne possiede affatto -ma pur sempre un ingranaggio volto ad un fine a lui esterno. Questa disposizione a sottomettersi a fini extraumani venne preparata in realtà dal protestantesimo, benché nulla fosse più lontano dalla mente di Lutero o di Calvino dell'approvare una tale supremazia delle attività economiche. Ma con il loro insegnamento teologico, essi avevano preparato il terreno per questo sviluppo spezzando la spina dorsale spirituale dell'uomo, il suo sentimento di dignità e di orgoglio, insegnandogli che l'attività doveva perseguire fini esterni a lui. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, uno dei punti principali dell'insegnamento di Lutero era la sua affermazione della malvagità della natura umana, dell'inutilità della volontà e degli sforzi dell'uomo. Calvino insisteva con altrettanto vigore sulla corruzione dell'uomo e metteva al centro del suo sistema l'idea che l'uomo deve umiliare quanto più possibile la sua stima di sé; e inoltre che il fine della vita dell'uomo è esclusivamente la gloria di Dio e non comprende alcuna cosa per sé. Così Lutero e Calvino prepararono psicologicamente l'uomo al ruolo che doveva assumere nella società moderna: quello di sentirsi irrilevante come individuo e di esser pronto a subordinare la sua vita a fini che non erano i suoi. L'uomo, ormai pronto a diventar null'altro che il mezzo per la gloria di un Dio che non rappresentava né la giustizia né l'amore, era sufficientemente preparato ad accettare il ruolo di servo della macchina economica; e alla lunga di un «Führer». La subordinazione dell'individuo, come strumento di fini economici, è fondata sulle peculiarità del modo di produzione capitalistico, che fa dell'accumulazione del capitale il fine e l'obiettivo dell'attività economica. Si lavora per il profitto, ma il profitto che si ricava non è fatto per esser speso, ma per esser investito come nuovo capitale; questo accresciuto capitale dà nuovi profitti, che vengono reinvestiti, e così via, in circolo. Naturalmente c'erano sempre dei capitalisti che spendevano il denaro in lussi, o come «spreco ostentato»; ma i classici rappresentanti del capitalismo amavano lavorare, e non spendere. Questo principio dell'accumulare il capitale, invece di usarlo per il consumo, è la premessa delle grandiose conquiste del nostro moderno sistema industriale. Se l'uomo non avesse avuto un atteggiamento ascetico verso il lavoro, e il desiderio di investire i frutti del suo lavoro allo scopo di sviluppare le capacità produttive del sistema economico, il nostro progresso nel dominio della natura non si sarebbe mai potuto compiere; è questo sviluppo delle forze produttive della società, che per la prima volta nella storia ci permette di immaginare un futuro in cui la continua lotta per la soddisfazione dei bisogni materiali cesserà. Tuttavia, mentre per il progresso dell'umanità il principio del lavoro in vista dell'accumulaziore di capitale è obiettivamente di enorme valore, soggettivamente ha spinto l'uomo a lavorare per fini extrapersonali, lo ha reso servo della stessa macchina che ha costruito, e pertanto gli ha dato un sentimento di irrilevanza e impotenza personali. Finora abbiamo considerato quegli individui della società moderna che possedevano capitale, e che riuscivano a convertire i loro profitti in nuovi investimenti di capitale. Piccoli o grossi capitalisti che fossero, tutta la loro vita era dedicata all'assolvimento della loro funzione economica, l'ammassamento di capitale. Ma che dire di quelli che non possedevano capitale, e che dovevano guadagnarsi da vivere vendendo il loro lavoro? L'effetto psicologico della loro situazione economica non era molto diverso da quello del capitalista. In primo luogo, l'essere occupati significava che dipendevano dalle leggi del mercato, dalla prosperità e dalla depressione, dall'effetto dei miglioramenti tecnici, che stavano nelle mani del loro datore di lavoro. Erano direttamente manipolati da lui, e ai loro occhi questi divenne il rappresentante di un potere superiore cui dovevano sottomettersi. Per i lavoratori questo è stato particolarmente vero fino a tutto il diciannovesimo secolo. Da allora il movimento sindacale ha dato al lavoratore un po' di potere autonomo, e pertanto la situazione, in cui egli non è che un oggetto di manipolazione, sta mutando. Ma a prescindere da questa subordinazione diretta e personale al datore di lavoro, anche al lavoratore, come in tutta la società, è stato inculcato quello spirito di ascetismo e di sottomissione a fini extrapersonali che abbiamo definito caratteristico del possessore di capitale. Ciò non deve sorprendere. In ogni società lo spirito dell'intera civiltà è determinato dallo spirito dei suoi gruppi più potenti. In parte ciò accade perché questi gruppi hanno il potere di controllare il sistema educativo -scuole, chiese, stampa, teatro -e perciò di inculcare nell'intera popolazione le proprie idee; inoltre questi gruppi potenti hanno un prestigio così grande che le classi inferiori sono più che pronte ad accettare e ad imitare i loro valori e a identificarsi psicologicamente con loro. Sin qui abbiamo sostenuto che il modo di produzione capitalistico ha fatto dell'uomo uno strumento di fini economici sovrapersonali, e ha rafforzato lo spirito di ascetismo e il sentimento di irrilevanza personale di cui il protestantesimo era stato la preparazione psicologica. Questa tesi, tuttavia, è in contrasto con il fatto che l'uomo moderno sembra spinto ad agire non da un atteggiamento di sacrificio e di ascetismo, ma, al contrario, da un estremo egoismo e dall'interesse personale. Come possiamo conciliare lo spirito del protestantesimo, e la sua insistenza sull'altruismo, con la moderna dottrina dell'egoismo, la quale asserisce, per usare la formulazione di Machiavelli, che l'egoismo è la più potente forza motrice dei comportamenti umani, che il desiderio del vantaggio personale è più forte di tutte le considerazioni morali, che l'uomo preferirebbe veder morire suo padre piuttosto che perdere il suo patrimonio? Si può spiegare questa contraddizione, sostenendo che l'insistenza sull'altruismo era solo un'ideologia con cui si intendeva mascherare il sottostante egoismo. Ciò può esser vero entro certi limiti, ma non crediamo che sia una spiegazione completa. Per indicare la direzione in cui sembra potersi trovare una risposta, dobbiamo occuparci delle complicazioni psicologiche del problema dell'egoismo (1). L'assunto implicito nel pensiero di Lutero e di Calvino, e anche in quello di Kant e Freud, è che l'egoismo equivale all'amore di sé. Amare gli altri è una virtù, amare se stessi è un peccato. Inoltre l'amore per gli altri e l'amore per se stessi si escludono a vicenda. In teoria qui siamo di fronte ad un errore circa la natura dell'amore. L'amore non è «causato» in primo luogo da un oggetto specifico, ma è una qualità immanente alla persona, la quale viene semplicemente resa operante da un certo «oggetto». L'odio è un appassionato desiderio di distruzione, l'amore è l'appassionata affermazione di un «oggetto»; non è un «affetto», ma un impegno attivo e un'affinità interiore, il cui fine è la felicità, lo sviluppo e la libertà del suo oggetto (2). E' una disposizione che, in linea di principio, può volgersi verso qualsiasi persona e qualsiasi oggetto, compresi noi stessi. L'amore esclusivo è una contraddizione in sé. Naturalmente non è accidentale che una certa persona divenga l'«oggetto» di un amore manifesto. I fattori condizionanti una tale scelta specifica sono troppo numerosi e complessi per essere esaminati qui. Il punto importante, tuttavia, è che l'amore per un particolare «oggetto» non è altro che la realizzazione e la concentrazione su una sola persona dell'amore immanente; non è, come vorrebbe il concetto dell'amore romantico, che esista una sola persona al mondo che si possa amare, che sia la più grande fortuna della vita trovare questa persona, e che l'amore per lei dia luogo ad una chiusura verso tutti gli altri. Il tipo di amore che può esser provato verso una sola persona si dimostra per ciò stesso non già amore, ma attaccamento sado-masochistico. Quella fondamentale affermazione, che è l'amore, è diretta verso la persona amata come ad un'incarnazione di qualità essenzialmente umane. L'amore per una persona implica l'amore per l'uomo come tale. L'amore per l'uomo come tale non è, come spesso si ritiene, un'astrazione che viene «dopo» l'amore per una specifica persona, o l'allargamento dell'esperienza fatta con un «oggetto» specifico; è la sua premessa, benché, geneticamente, si acquisti al contatto con concreti individui. Da ciò deriva che il mio io, in linea di principio, è oggetto del mio amore tanto quanto un'altra persona. L'affermazione della mia vita, della mia felicità, del mio sviluppo, della mia libertà, è radicata nella presenza di una fondamentale disposizione e attitudine a tale affermazione. Se un individuo ha questa disposizione, l'ha anche verso se stesso; se può «amare» solo gli altri, non è in grado di amare affatto. L'egoismo non si identifica con l'amore di sé, ma proprio con il suo opposto. L'egoismo è una forma di avidità. Come ogni forma di avidità, è insaziabile, per cui non c'è mai una vera soddisfazione. L'avidità è un pozzo senza fondo, che esaurisce la persona nello sforzo incessante di soddisfare il bisogno senza mai raggiungere la soddisfazione. Un'attenta osservazione dimostra che la persona egoista, pur preoccupandosi sempre ansiosamente di se stessa, non è mai soddisfatta, è sempre irrequieta, sempre sospinta dalla paura di non ottenere abbastanza, di perdere qualcosa, di venir privata di qualcosa. E' piena di una bruciante invidia per chiunque, forse, abbia di più di lei. Se osserviamo ancor più attentamente, soprattutto la dinamica inconscia, troviamo che questo tipo di persona fondamentalmente non si ama, ma prova per se stessa una profonda antipatia. E' facile risolvere questa apparente contraddizione. L'egoismo affonda le sue radici proprio in questa mancanza di simpatia per se stessi; la persona che non ha simpatia per se stessa, che non si approva, è in costante ansietà per il proprio io. Non ha la sicurezza interiore, che può esistere solo sulla base di un affetto e di un'affermazione genuini. Deve preoccuparsi di se stessa, avida di accaparrarsi tutto per sé, dato che, fondamentalmente, manca di sicurezza e soddisfazione. La stessa cosa accade al cosiddetto narcisista, che non tanto si preoccupa di procurare cose a se stesso, quanto di ammirarsi. Mentre alla superficie pare che queste persone siano molto innamorate di se stesse, in realtà non si vogliono bene, e il loro narcisismo come l'egoismo -è una supercompensazione per una fondamentale mancanza di amore per se stesse. Freud ha sostenuto che il narcisista ha tolto il suo amore agli altri, volgendolo verso la sua persona. Mentre la prima parte di questa affermazione è vera, la seconda è errata: egli non ama né gli altri né se stesso. Torniamo ora alla questione che ci ha condotto a questa analisi psicologica dell'egoismo. Ci siamo trovati di fronte alla contraddizione tra il fatto che l'uomo moderno si ritiene spinto dall'interesse personale e quello che in realtà la sua vita è dedicata a fini che non sono i suoi; allo stesso modo che Calvino riteneva che il solo fine dell'esistenza dell'uomo non fosse l'uomo stesso, ma la gloria di Dio. Abbiamo cercato di dimostrare che l'egoismo è radicato nella mancanza di affermazione e di amore per l'io reale, cioè per tutto il concreto essere umano con tutte le sue possibilità. L'«io» nell'interesse del quale agisce l'uomo moderno è l'io sociale, che è costituito in sostanza dal ruolo che l'individuo dovrebbe svolgere, e che in realtà è soltanto una maschera soggettiva per l'obiettiva funzione sociale che l'uomo svolge nella società. L'egoismo moderno è l'avidità radicata nella frustrazione dell'io reale, e il cui oggetto è l'io sociale. L'uomo moderno, pur sembrando caratterizzato da una esasperata affermazione dell'io, in realtà è stato indebolito e ridotto a un segmento dell'io totale -all'intelletto e alla volontà ad esclusione di tutte le altre parti della personalità totale. Ma anche ammesso questo, non è forse vero che il crescente dominio sulla natura ha portato ad un accrescimento della forza dell'io singolo? E' vero in una certa misura, e nella misura in cui è vero, riguarda il lato positivo dello sviluppo individuale, che non vogliamo perdere di vista. Ma l'uomo, pur avendo raggiunto un grado notevole di dominio della natura, non controlla le forze della società che ha creato. La razionalità tecnica del sistema di produzione è accompagnata dall'irrazionalità dei suoi aspetti sociali. Le crisi economiche, la disoccupazione, la guerra governano il destino dell'uomo. L'uomo ha costruito il suo mondo; ha costruito fabbriche e case, produce automobili e vestiti, fa crescere grano e frutta. Ma si è estraniato dal prodotto delle sue mani, non è più davvero il padrone del mondo che ha costruito; al contrario, questo mondo fatto dall'uomo è diventato il suo padrone, davanti a cui egli si inchina, che cerca di placare o di manipolare come meglio può. L'opera delle sue mani è diventato il suo Dio. Sembra spinto dall'interesse personale, ma in realtà la sua personalità totale, con tutte le sue concrete possibilità, è diventata strumento degli scopi della stessa macchina che le sue mani hanno costruito. Egli mantiene l'illusione di essere il centro del mondo, e tuttavia è pervaso da un acuto senso di irrilevanza e impotenza, quale i suoi antenati un tempo provavano verso Dio. Il sentimento di isolamento e di impotenza nell'uomo moderno viene ancor più acuito dal carattere che hanno assunto tutti i suoi rapporti umani. Il concreto rapporto di un individuo con un altro ha perduto il suo carattere diretto e umano, e ha acquistato un carattere di manipolazione e strumentalità. Le leggi del mercato dominano tutti i rapporti sociali e personali. E' ovvio che il rapporto tra concorrenti debba fondarsi sulla mutua indifferenza umana. Diversamente ciascuno di loro resterebbe paralizzato nel perseguimento dei suoi fini economici: combattersi a vicenda e non astenersi dalla reciproca concreta distruzione economica, se appare necessaria.

Il rapporto tra datori di lavoro e dipendenti è permeato da questo stesso spirito di indifferenza. Il possessore di capitale impiega un altro essere umano come impiega una macchina. Si usano a vicenda per il perseguimento dei loro interessi economici; il loro è un rapporto in cui entrambi sono strumenti di un fine, entrambi sono reciprocamente strumentali. Non è un rapporto di due esseri umani, che abbiano un interesse l'uno nell'altro al di fuori di questa mutua utilità. La stessa strumentalità regola il rapporto tra l'uomo d'affari e il suo cliente. Il cliente è un oggetto da manipolare, non una persona concreta i cui fini l'uomo d'affari abbia interesse a soddisfare. L'atteggiamento verso il lavoro ha il carattere della strumentalità; contrariamente all'artigiano medioevale, l'industriale moderno non ha un interesse primario per ciò che produce, ma produce essenzialmente per trarre un profitto dal suo investimento di capitale, e ciò che produce dipende in fondo dal mercato, il quale promette che l'investimento del capitale in un certo settore si dimostrerà vantaggioso. Non solo i rapporti economici tra gli uomini, ma anche i rapporti personali hanno questo carattere di alienazione; invece che di rapporti tra esseri umani, essi assumono il carattere di rapporti tra cose. Ma forse il caso più importante e più rovinoso, in cui si manifesta questo spirito di strumentalità e alienazione, è il rapporto dell'individuo con se stesso (3). L'uomo non vende soltanto merci, vende anche se stesso e si sente una merce. Il manovale vende la sua energia fisica; il commerciante, il medico, l'impiegato, vendono la loro «personalità». Debbono avere una «personalità» se vogliono vendere i loro prodotti o servizi. Questa personalità deve essere simpatica, ma oltre a questo il suo possessore deve rispondere ad alcuni altri requisiti: deve avere energia, iniziativa, deve aver questo, quello o quell'altro ancora, secondo ciò che richiede il suo posto. Come per qualsiasi altra merce, è il mercato che determina il valore di queste qualità umane; anzi, la loro stessa esistenza. Se le qualità, che uno ha, non servono, egli non ne possiede alcuna; proprio come una merce invendibile non ha valore, pur potendo avere una sua utilità. Così, la fiducia in se stessi, il «sentimento dell'io», sono soltanto indicazioni di ciò che gli altri pensano della persona. Questa non si convince del proprio valore indipendentemente dalla popolarità o dal suo successo sul mercato. Se è ricercata, è qualcuno; se non è popolare, è nessuno. Questo dipendere della stima di sé dal successo della «personalità» è la ragione principale per cui la popolarità ha per l'uomo moderno una così grande importanza. Da essa dipende non solo l'avanzamento o meno sul piano pratico, ma anche la possibilità o meno di conservare la stima di se stessi, cosi come la possibilità di precipitare o meno nell'abisso dei sentimenti di inferiorità (4). Abbiamo cercato di dimostrare che la nuova libertà che il capitalismo ha recato all'individuo si è sommata all'effetto che la libertà religiosa del protestantesimo aveva già esercitato su di lui. L'individuo è diventato più solo, più isolato, è diventato uno strumento nelle mani di forze esterne soverchianti; è diventato un «individuo», ma un individuo confuso e insicuro. Ci sono stati fattori che lo hanno aiutato a superare le manifestazioni più appariscenti di questa sottostante insicurezza. In primo luogo il suo io veniva puntellato dal possesso di beni materiali. «Egli» come persona e la proprietà che possedeva non potevano venir separati. I vestiti e la casa di un individuo facevano parte del suo essere proprio come il suo corpo. Meno importante si sentiva, e più grande era il bisogno che provava di avere delle proprietà. Se non aveva una proprietà o la perdeva, gli mancava una parte importante del suo essere. E in una certa misura non veniva considerato una persona completa, sia dagli altri che da se stesso. Altri fattori che puntellavano l'io erano il prestigio e il potere. Essi sono in parte il risultato del possesso di beni, in parte il diretto risultato del successo nei campi in cui domina la concorrenza. L'ammirazione da parte degli altri e il potere su di loro, insieme al sostegno dato dalla proprietà, servivano d'appoggio all'individuo insicuro. Per quelli che avevano pochi beni e poco prestigio sociale, la fonte principale del prestigio personale era la famiglia. In essa l'individuo poteva sentirsi «qualcuno». Veniva obbedito dalla moglie e dai figli, stava al centro della ribalta, e ingenuamente accettava il suo ruolo come un diritto naturale. Nei suoi rapporti sociali poteva essere nessuno, ma a casa sua era un re. Oltre alla famiglia, anche l'orgoglio nazionale (in Europa spesso l'orgoglio di classe) gli dava un senso di importanza. Anche se come persona era nessuno, era fiero di appartenere a un gruppo che poteva ritenere superiore ad altri gruppi consimili. Questi fattori, che puntellavano l'io indebolito, vanno tenuti distinti dai fattori di cui abbiamo parlato all'inizio di questo capitolo: la libertà economica e politica di fatto, la possibilità dell'iniziativa individuale, la crescente illuminazione razionale. Questi ultimi fattori rafforzavano realmente l'io e portavano allo sviluppo dell'individualità, dell'indipendenza e della razionalità. I fattori di sostegno, invece, aiutavano soltanto a compensare l'insicurezza e l'ansietà. Non le sradicavano, ma le mascheravano, e così aiutavano l'individuo a sentirsi sicuro al livello cosciente; ma questo sentimento in parte era soltanto superficiale, e durava solo fino a quando erano presenti i fattori di sostegno. Una dettagliata analisi della storia europea e americana nel periodo tra la Riforma e il nostro secolo potrebbe dimostrare come le due tendenze contraddittorie implicite nell'evoluzione dalla «libertà "da" alla libertà "di"» procedano parallelamente: o meglio, come siano continuamente intrecciate tra loro. Purtroppo un'analisi di questo tipo esula dai limiti di questo libro e sarà l'oggetto di una pubblicazione successiva. In certi periodi e in certi gruppi sociali la libertà nel suo senso positivo -forza e dignità dell'io -è stata il fattore dominante, in generale questo è avvenuto in Inghilterra, Francia, America e Germania allorché la classe media ha conquistato le sue vittorie, economicamente e politicamente, sui rappresentanti del vecchio ordine. In questa lotta per la libertà positiva la classe media poteva rifarsi a quell'aspetto del protestantesimo che insisteva sull'autonomia e la dignità umane, mentre la Chiesa cattolica si è alleata a quei gruppi che dovevano opporsi alla liberazione dell'uomo per conservare i propri privilegi. Nel pensiero filosofico dell'età moderna troviamo che i due aspetti della libertà restano intrecciati come già lo erano nelle dottrine teologiche della Riforma. Così l'autonomia e la libertà dell'individuo sono i postulati centrali dei sistemi di Kant e Hegel, e tuttavia essi rendono l'individuo subordinato ai fini di uno stato onnipotente. I filosofi del periodo della rivoluzione francese -e nel diciannovesimo secolo Feuerbach, Marx, Stirner e Nietzsche -hanno nuovamente espresso in modo intransigente l'idea che l'individuo non deve esser soggetto a fini esterni al suo sviluppo o alla sua felicità. I filosofi reazionari dello stesso secolo, tuttavia, hanno postulato esplicitamente la subordinazione dell'individuo all'autorità spirituale e temporale. La seconda metà del diciannovesimo secolo e l'inizio del ventesimo ci mostrano al suo culmine il movimento verso la libertà umana nel senso positivo. Non solo la classe media vi ha partecipato, ma anche la classe operaia è diventata un protagonista attivo e libero, in lotta per i suoi fini economici e al tempo stesso per i più vasti fini dell'umanità. Con la fase monopolistica del capitalismo, quale si è sempre più sviluppata negli ultimi decenni, il peso rispettivo delle due tendenze della libertà umana sembra esser mutato. I fattori che tendono ad indebolire l'io individuale hanno guadagnato terreno, mentre quelli che lo rafforzano l'hanno relativamente perduto.

Il sentimento di impotenza e solitudine dell'individuo è aumentato, la sua «libertà» da tutti i legami tradizionali è diventata più pronunciata, le sue possibilità di successo economico individuale si sono ridotte. Egli si sente minacciato da forze gigantesche e la situazione ricorda per molti versi quella del quindicesimo e del sedicesimo secolo. Il fattore più importante di questo sviluppo è il potere crescente del capitale monopolistico. La concentrazione del capitale (non della ricchezza) in certi settori del nostro sistema economico ha ridotto le possibilità di successo dell'iniziativa, del coraggio e dell'intelligenza dei singoli. Nei settori in cui il capitale monopolistico ha ottenuto le sue vittorie, è stata distrutta l'indipendenza economica di molti. In coloro che si battono, e soprattutto in una larga parte della classe media, la lotta assume il carattere di una battaglia contro ostacoli tali che al sentimento di fiducia e di coraggio personali è subentrato un sentimento d'impotenza e disperazione. Un potere enorme, benché segreto, sull'intera società viene esercitato da un piccolo gruppo di persone, dalle cui decisioni dipende il destino di una gran parte della società. L'inflazione del '23 in Germania e il crollo americano del '29 hanno accresciuto il sentimento di insicurezza e hanno infranto in molti individui la speranza di riuscire grazie ai propri sforzi e la tradizionale credenza nelle illimitate possibilità di successo. Il piccolo o medio operatore economico, che è virtualmente minacciato dalla potenza soverchiante del grande capitale, può benissimo continuare a conseguire profitti e a conservare la sua indipendenza; ma la minaccia incombente sulla sua testa ha aumentato la sua insicurezza e impotenza assai al di là di quel che erano solite essere. Nella lotta contro i concorrenti monopolisti si trova di fronte dei giganti, mentre era solito lottare contro eguali. Ma la situazione psicologica di quegli imprenditori indipendenti, per i quali lo sviluppo dell'industria moderna ha creato nuove funzioni economiche, è anch'essa diversa da quella dei vecchi imprenditori indipendenti. Un esempio di questa differenza è riscontrabile nel tipo di imprenditore che vien citato come esempio dello sviluppo di un nuovo tipo di classe media: i proprietari di stazioni di servizio. Molti di loro sono economicamente indipendenti. Sono proprietari della loro azienda, proprio come colui che possedeva una drogheria, o come il sarto che faceva abiti su misura. Ma quale differenza tra il vecchio e il nuovo tipo di imprenditore indipendente! Il proprietario della drogheria doveva possedere molte nozioni e molta capacità. Poteva scegliere tra vari commercianti all'ingrosso da cui comprare, e questa scelta poteva avvenire in base ad una sua valutazione dei prezzi e delle qualità migliori, aveva molti singoli clienti, di cui doveva conoscere le esigenze, che doveva consigliare negli acquisti, e ai quali decideva o meno di concedere credito. Nel complesso la situazione dell'operatore economico di un tempo non solo era indipendente, ma richiedeva anche abilità, servizi "ad personam", competenza e impegno. Invece la situazione del proprietario di una stazione di servizio è completamente diversa. Il suo potere di contrattazione trova un limite nelle compagnie petrolifere. Ripete meccanicamente lo stesso atto del versare benzina e olio. L'abilità, l'iniziativa, l'attività hanno meno possibilità di affermarsi che nel caso del proprietario della drogheria. Il suo profitto è determinato da due fattori: il prezzo a cui deve acquistare la benzina e l'olio, e il numero di automobilisti che si fermano alla sua stazione di servizio. Entrambi i fattori trascendono in gran parte le sue possibilità di controllo. Egli funziona praticamente da agente fra il grossista e il cliente. Psicologicamente non fa molta differenza se è un dipendente dell'azienda o se è un «indipendente»; è solo un ingranaggio dell'immensa macchina della distribuzione. Quanto alla nuova classe media composta di impiegati, il cui numero è cresciuto con l'espansione della grande industria, è ovvio che la sua posizione è molto diversa da quella del piccolo imprenditore indipendente di vecchio stampo. Si potrebbe sostenere che, quantunque non siano più indipendenti in senso formale, le possibilità concrete di sviluppo dello spirito d'iniziativa e dell'intelligenza, come basi del successo, siano non meno grandi o magari maggiori di quelle del sarto o del droghiere di un tempo. In un certo senso questo è vero, ma resta da vedere entro quali limiti lo è. Psicologicamente, infatti, la situazione dell'impiegato è diversa. Egli fa parte di un'immensa macchina economica, svolge un compito altamente specializzato, deve sostenere la dura concorrenza di centinaia di altre persone che si trovano nella stessa situazione, e viene licenziato senza misericordia se rallenta il ritmo. In breve, anche se le sue possibilità di successo talvolta sono maggiori, egli ha perso in gran parte la sicurezza e l'indipendenza del piccolo imprenditore di un tempo; ed è stato trasformato in un ingranaggio, a volte piccolo, a volte grosso, di un meccanismo che gli impone il suo ritmo, che non è in grado di controllare, e rispetto al quale è completamente insignificante. L'effetto psicologico della vastità e della superiore potenza della grande azienda si riscontra anche nell'operaio. Nella piccola azienda di una volta l'operaio conosceva personalmente il padrone, e aveva dimestichezza con l'intera impresa, che era in grado di osservare; benché venisse assunto e licenziato secondo la legge del mercato, c'era un rapporto concreto tra lui e il padrone e l'impresa, che gli dava la sensazione di conoscere il terreno su cui si trovava. L'operaio di uno stabilimento che occupa migliaia di lavoratori si trova in una situazione diversa. Il padrone è diventato un personaggio astratto: egli non lo vede mai. La «direzione» è un potere anonimo con cui è in rapporto indiretto, e rispetto a cui egli come individuo è insignificante. L'impresa ha dimensioni tali da non consentirgli di vedere che il piccolo settore connesso al suo particolare lavoro. Questa situazione è stata compensata in qualche modo dai sindacati. Questi ultimi non solo hanno migliorato la situazione economica dell'operaio, ma hanno anche avuto l'importante effetto psicologico di dargli un sentimento di forza e di importanza rispetto ai giganti con cui ha a che fare. Purtroppo molti sindacati sono diventati a loro volta organizzazioni gigantesche, che lasciano un margine ben scarso all'iniziativa del singolo iscritto. Quest'ultimo paga le sue quote e vota di tanto in tanto, ma anche qui è un piccolo ingranaggio di una grande macchina. E' della massima importanza che i sindacati diventino organi fondati sull'attiva collaborazione di tutti gli iscritti, e che vengano organizzati in modo che ogni iscritto possa partecipare attivamente alla loro vita e sentirsi responsabile delle sue attività. L'insignificanza dell'individuo nella nostra epoca non è circoscritta solo al suo ruolo di imprenditore, o di impiegato, o di lavoratore manuale, ma anche al suo ruolo di consumatore. Negli ultimi decenni il ruolo del consumatore ha subito un drastico mutamento. Il cliente che si recava nel negozio di un commerciante indipendente era sicuro di ricevere un'attenzione personale: il suo acquisto era importante per il proprietario del negozio; veniva ricevuto come qualcuno che contava, i suoi desideri venivano studiati; l'atto stesso del comprare gli dava un sentimento di importanza e di dignità. Il rapporto tra il cliente di oggi e il grande magazzino è molto diverso. Egli è colpito dalla grandezza dell'edificio, dal numero dei dipendenti, dalla profusione delle merci esposte, e tutto questo, per contrasto, lo fa sentire piccolo e privo d'importanza. Come individuo non ha alcuna importanza per il grande magazzino. E' importante in quanto è «un» cliente; il magazzino non vuole perderlo, perché ciò sarebbe un segno che c'è qualcosa che non va, e potrebbe voler dire che il magazzino potrebbe perdere altri clienti per la stessa ragione. Come cliente astratto è importante; come cliente concreto è assolutamente privo di importanza. Non c'è nessuno che si compiaccia della sua venuta, nessuno che si preoccupi particolarmente dei suoi desideri. L'atto di comprare è diventato simile a quello di recarsi all'ufficio postale per acquistare francobolli. Questa situazione è stata ancor più accentuata dai metodi della pubblicità moderna. I discorsi che il commerciante di un tempo faceva per vendere le sue merci erano sostanzialmente razionali. Egli conosceva la sua mercanzia, conosceva i bisogni dei clienti e sulla base di questa conoscenza cercava di vendere. Naturalmente i suoi discorsi non erano del tutto obiettivi, ed egli usava più che poteva la persuasione; tuttavia, per essere efficaci, i suoi discorsi dovevano essere abbastanza razionali e sensati. Una parte immensa della pubblicità moderna è diversa.

Non fa appello alla ragione, ma all'emozione; come qualsiasi altro tipo di suggestione ipnotica, cerca di colpire i suoi oggetti emotivamente e poi di renderli sottomessi intellettualmente. Questo tipo di pubblicità colpisce il cliente con tutti i mezzi. Con la ripetizione incessante della stessa formula; con l'influenza di un'immagine autorevole, come quelle della signora della buona società o del famoso pugile che fuma una certa marca di sigarette; attraendo il cliente e al tempo stesso indebolendo le sue facoltà critiche per mezzo del "sex appeal" di una bella ragazza; terrorizzandolo con la minaccia del «B.O.», o dell'«alitosi»; oppure stimolando fantasticherie sull'improvviso mutamento del corso della propria vita reso possibile dall'acquisto di una certa camicia o di un certo sapone.

Tutti questi metodi sono fondamentalmente irrazionali; non hanno nulla a che vedere con le qualità della merce, e soffocano e uccidono le capacità critiche del cliente come un sedativo o una vera e propria ipnosi. Gli danno una certa soddisfazione per le fantasticherie che provocano, proprio come fanno i film; ma al tempo stesso aumentano il suo senso di piccolezza e di impotenza. In realtà questi metodi di ottundimento della capacità di riflessione critica sono più pericolosi per la nostra democrazia di molti aperti attacchi contro di essa, e più immorali, dal punto di vista dell'integrità umana, della letteratura oscena, di cui puniamo la pubblicazione. Il movimento dei consumatori ha cercato di restaurare la capacità critica, la dignità e il senso di importanza del cliente, operando così in una direzione simile a quella del movimento sindacale. Finora però non è riuscito a spingersi al di là di un modesto inizio. Ciò che è vero nella sfera economica è vero anche in quella politica. Nei primi tempi della democrazia c'erano molti tipi di meccanismi che consentivano all'individuo di partecipare attivamente e concretamente a certe decisioni, o all'elezione di certi candidati ad uffici pubblici. Le questioni da decidere gli erano note, e così i candidati; la votazione, spesso compiuta in una riunione dell'intera popolazione del paese, aveva un carattere di concretezza, per cui l'individuo contava veramente. Oggi l'elettore ha di fronte a sé partiti giganteschi, che sono distanti e imponenti proprio come le organizzazioni gigantesche dell'industria. I problemi sono complicati e lo diventano ancor più per effetto dei metodi impiegati per presentarli. L'elettore può vedere di scorcio il suo candidato nell'imminenza dell'elezione; ma dopo l'avvento della radio è improbabile che lo veda molto spesso, e così ha finito per perdere uno degli ultimi mezzi per valutare il «suo» candidato. In realtà gli apparati dei partiti gli offrono la scelta tra due o tre candidati; ma questi candidati non vengono scelti da lui, e sia lui che loro sanno ben poco l'uno degli altri, e il loro rapporto è astratto come lo sono diventati moltissimi altri rapporti. Come la pubblicità con il cliente, così i metodi della propaganda politica tendono ad accrescere il sentimento di insignificanza del singolo elettore. La ripetizione di slogan, e l'insistenza su fattori che non hanno nulla a che vedere con il problema in discussione, ottundono le sue capacità critiche. Gli appelli chiari e razionali al suo pensiero sono l'eccezione piuttosto che la regola della propaganda politica: anche nei paesi democratici. Dinanzi alla potenza e alle grandi dimensioni dei partiti, rispecchiate dalla loro propaganda, il singolo elettore non può fare a meno di sentirsi piccolo e privo d'importanza. Ciò non significa che la pubblicità e la propaganda politica apertamente sottolineino l'insignificanza dell'individuo. E' vero il contrario; adulano l'individuo, dandogli l'impressione d'essere importante e fingendo di fare appello al suo senso critico, al suo discernimento. Ma queste finzioni sono fondamentalmente un modo per fugare i sospetti dell'individuo, e per aiutarlo ad ingannarsi sul carattere personale della sua decisione. E' appena il caso di far notare che la propaganda di cui ho parlato non è totalmente irrazionale, e che il peso dei fattori razionali varia nella propaganda dei diversi partiti e dei rispettivi candidati. Altri fattori hanno aumentato il crescente sentimento di impotenza dell'individuo. La scena politica ed economica è più complessa e vasta di quel che era solita essere: l'individuo ha meno capacità di penetrarla. Le minacce che ha di fronte a sé hanno anch'esse acquistato proporzioni sempre maggiori. La disoccupazione strutturale di molti milioni di individui ha aumentato il senso di insicurezza. Benché il mantenimento dei disoccupati col denaro pubblico sia stato molto utile per controbilanciare i risultati della disoccupazione, non solo economicamente ma anche psicologicamente, resta il fatto che per la grandissima maggioranza della popolazione il peso della disoccupazione è psicologicamente durissimo da sopportare, e la paura di questa getta un'ombra su tutta la loro vita. Avere un lavoro -non importa di qual tipo -sembra a molti il massimo che possano desiderare dalla vita, qualcosa per cui debbono sentirsi grati. La disoccupazione ha anche reso più minacciosa la vecchiaia. Per molte occupazioni si ricerca solo la persona giovane, e magari anche inesperta, che sia però ancora adattabile; cioè coloro che possono ancora essere trasformati senza difficoltà nei piccoli ingranaggi necessari in quelle particolari strutture. Anche la minaccia della guerra ha reso più acuto il sentimento d'impotenza del singolo individuo. Naturalmente ci sono state guerre anche nel diciannovesimo secolo. Ma a partire dall'ultima guerra, le possibilità di distruzione sono aumentate così spaventosamente -al punto da coinvolgere praticamente tutti -che la minaccia della guerra è diventata un incubo il quale, pur non essendo presente alla coscienza di molti prima che la loro nazione sia impegnata davvero nella guerra, ha gettato un'ombra sulle loro vite rendendo più acuto il loro sentimento di paura e d'impotenza. Lo «stile» dell'epoca corrisponde al quadro che ho tracciato. Le immense città in cui l'individuo si sperde, gli edifici alti come montagne, il costante bombardamento acustico della radio, i titoli a caratteri cubitali che mutano tre volte al giorno, non lasciando alcuna libertà di decidere che cosa sia importante, gli spettacoli in cui cento ragazze dimostrano la loro abilità con la precisione di un orologio, eliminando l'individuo e agendo come una possente seppur morbida macchina, il ritmo incalzante del jazz: questi e molti altri dettagli sono espressioni di una costellazione nella quale l'individuo si trova di fronte a dimensioni incontrollabili, rispetto alle quali è diventato una piccola particella. Tutto quel che può fare è mettersi al passo come un soldato in marcia, o come un operaio alla catena di montaggio. Può agire; ma il senso dell'indipendenza, della propria importanza, se ne è andato. Il grado in cui l'americano medio è pervaso da questo stesso senso di paura e di insignificanza sembra trovare un'eloquente espressione nella popolarità dei film di Topolino. In essi il tema -pur con molte variazioni -è sempre questo: un piccolo essere viene perseguitato e messo in pericolo da qualcosa di irresistibilmente forte, che minaccia di ucciderlo o di inghiottirlo. Il piccolo scappa e alla fine riesce a fuggire o a danneggiare il nemico. La gente non sarebbe disposta a seguire continuamente le infinite variazioni di questo tema, se esso non toccasse qualcosa di molto importante per la loro vita emotiva. Evidentemente il piccolo essere minacciato da un nemico potente e ostile è lo spettatore stesso; è così che egli si sente, e questa è la situazione con cui può identificarsi. Ma naturalmente non troverebbe un'attrazione continua se mancasse il lieto fine. Invece lo spettatore rivive tutte le sue paure e tutti i suoi sentimenti di piccolezza, e alla fine ha la sensazione confortante che, nonostante tutto, si salverà e persino sconfiggerà il forte. Tuttavia -e questa è la parte significativa e triste del «lieto fine» -la salvezza sta soprattutto nella sua capacità di scappare e nei casi imprevisti che impediscono al mostro di acchiapparlo. La situazione in cui si trova l'individuo nella nostra epoca era già stata prevista da alcuni pensatori del diciannovesimo secolo, ricchi di intuizione. Kierkegaard descrive l'individuo impotente lacerato e tormentato da dubbi, oppresso dal sentimento della solitudine e dell'insignificanza. Nietzsche prospetta il nichilismo incombente, che doveva diventare manifesto nel nazismo, e traccia il ritratto di un «superuomo» quale negazione dell'individuo insignificante e senza orientamento che vedeva nella realtà. Il tema dell'impotenza dell'uomo ha trovato una espressione estremamente precisa nell'opera di Franz Kafka. Ne "Il castello" descrive l'uomo che desidera mettersi in contatto con i misteriosi abitanti di un castello, che dovrebbero dirgli che cosa fare e mostrargli il suo posto nel mondo. Tutta la sua vita si esaurisce nello sforzo frenetico di mettersi in contatto con loro, ma non vi riesce mai e alla fine rimane solo con un senso di futilità e di impotenza totali. Il sentimento di isolamento e impotenza è stato mirabilmente espresso da Julien Green nel seguente passo: «Sapevo che contavamo poco di fronte all'universo, sapevo che non eravamo nulla; ma l'essere così incommensurabilmente nulla sembra in qualche modo schiacciante e al tempo stesso rassicurante. Quelle figure, quelle dimensioni oltre la portata del pensiero umano, sono totalmente soverchianti. Esiste qualcosa a cui possiamo aggrapparci? In mezzo al caos di illusioni, in cui veniamo gettati a capofitto, una cosa sola si profila come vera, ed è l'amore. Tutto il resto è nulla, un vuoto. Scrutiamo in un immenso e nero abisso. E abbiamo paura» (5). Tuttavia tale sentimento di isolamento e impotenza, qual è stato espresso da questi scrittori, e qual è avvertito da molti cosiddetti nevrotici, non è qualcosa di cui la persona media normale sia consapevole. E' troppo spaventoso: viene coperto dalla routine quotidiana delle sue attività, dall'incoraggiamento e dall'approvazione che trova nei suoi rapporti personali o sociali, dal successo economico, da innumerevoli distrazioni, dal «divertirsi», dal «fare conoscenze», dall'«andare in giro». Ma il fischiare nel buio non porta luce. La solitudine, la paura e lo sgomento rimangono; le persone non le possono sopportare indefinitamente. Non possono continuare a portare il peso della «libertà da»; debbono cercare di fuggire del tutto dalla libertà, se non possono progredire dalla libertà negativa a quella positiva. Nel nostro tempo le principali vie sociali di fuga sono la sottomissione a un capo, come è accaduto nei paesi fascisti, e il conformismo ossessivo, che prevale nella nostra democrazia. Prima di passare a descrivere questi due modi di fuga socialmente configurati, debbo invitare il lettore a seguirmi nell'esame delle complicazioni di questi meccanismi psicologici di fuga. Ci siamo già occupati di alcuni di questi meccanismi nei capitoli precedenti; ma per comprendere pienamente il significato psicologico del fascismo, e l'automatizzazione dell'uomo nella democrazia moderna, è necessario intendere i fenomeni psicologici non solo in senso generale, ma anche nella particolarità e nella concretezza del loro manifestarsi. Può sembrare una digressione; ma in realtà è una parte necessaria della nostra trattazione. Proprio come non è possibile comprendere adeguatamente i problemi psicologici al di fuori del loro contesto sociale e culturale, così non è possibile comprendere i fenomeni sociali senza la conoscenza dei sottostanti meccanismi psicologici. Il capitolo seguente si sforza di analizzare questi meccanismi psicologici. Il capitolo seguente si sforza di analizzare questi meccanismi, di rivelare ciò che avviene nell'individuo e di dimostrare come, nel nostro sforzo di sfuggire alla solitudine e all'impotenza, siamo disposti a disfarci del nostro io mediante la sottomissione a nuove forme di autorità o mediante un ossessivo conformismo ai modelli esistenti.
5. MECCANISMI DI FUGA
 

 

 

 

 

Il nostro esame è arrivato all'epoca presente, e ora procederemo a trattare del significato psicologico del fascismo e del significato della libertà nei sistemi autoritari e nella democrazia. Tuttavia, poiché la validità della nostra tesi dipende dalla validità delle nostre premesse psicologiche, sembra opportuno dedicare un capitolo a un esame più dettagliato e concreto di quei meccanismi psicologici a cui abbiamo già accennato e di cui tratteremo in seguito. Queste premesse richiedono un esame particolareggiato, perché si fondano su concetti che si riferiscono a forze inconscie, e ai modi in cui esse trovano espressione in razionalizzazioni e tratti di carattere; concetti che a molti lettori sembreranno, se non estranei, bisognosi per lo meno di una elaborazione. In questo capitolo deliberatamente mi riferisco alla psicologia dell'individuo, e a osservazioni che sono state fatte negli studi minuziosi condotti su individui con il metodo della psicanalisi. La psicanalisi, pur non soddisfacendo del tutto quello che per molti anni è stato l'ideale della psicologia accademica, cioè l'approssimazione ai metodi sperimentali delle scienze naturali, è tuttavia un metodo del tutto empirico, fondato su un'osservazione accuratissima dei pensieri, dei sogni e delle fantasie del paziente, esposti senza censura. Solo una psicologia che si serva del concetto di forze inconscie può penetrare le fuorvianti razionalizzazioni a cui ci troviamo di fronte nell'analizzare un individuo o una civiltà. Molti problemi apparentemente insolubili scompaiono subito allorché decidiamo di abbandonare l'idea che i moventi, dai quali le persone credono di essere mosse, sono necessariamente quelli che davvero le spingono ad agire, sentire e pensare come effettivamente fanno. Qualche lettore si chiederà se le risultanze dell'osservazione di singoli individui possano venir applicate alla comprensione psicologica di interi gruppi. Rispondiamo affermativamente con piena sicurezza. Ogni gruppo si compone di individui, e soltanto di individui, e quindi i meccanismi psicologici che troviamo in funzione in un gruppo possono esser soltanto meccanismi che funzionano negli individui. Nello studiare la psicologia individuale, quale base per la comprensione della psicologia sociale, facciamo qualcosa che potrebbe esser paragonato all'esaminare un oggetto al microscopio. Questo ci consente di scoprire i dettagli stessi dei meccanismi psicologici che troviamo in funzione su vasta scala nel processo sociale. Se non si fonda sullo studio dettagliato del comportamento umano, la nostra analisi dei fenomeni socio-psicologici manca d'empirismo e perciò di validità. Ma anche ammesso che lo studio del comportamento individuale abbia questa importanza, ci si può chiedere se lo studio di individui comunemente classificati tra i nevrotici possa esser utile nel considerare i problemi della psicologia sociale. Anche in questo caso riteniamo che la risposta debba essere positiva. I fenomeni che osserviamo nel nevrotico non sono diversi in linea di principio da quelli che riscontriamo nella persona normale. Sono solo più accentuati e netti, e spesso non sono più accessibili alla consapevolezza del nevrotico di quanto non lo siano a quella dell'individuo normale, il quale non si rende conto che esista alcun problema meritevole di esser studiato. Per render tutto ciò più chiaro, appare opportuno un breve esame dei termini nevrotico e normale, o sano. Il termine normale o sano si può definire in due modi. In primo luogo, dal punto di vista di una società in pieno funzionamento. Si può designare normale o sana la persona capace di svolgere il ruolo sociale che è tenuta ad assumere in quella determinata società. Più concretamente, ciò significa che è in grado di lavorare nel modo richiesto in quella particolare società, e inoltre che è in grado di partecipare alla riproduzione della società, ossia che può allevare dei figli. In secondo luogo, dal punto di vista dell'individuo consideriamo sanità o normalità l'optimum dello sviluppo e della felicità del singolo. Se la struttura di una determinata società fosse tale da offrire la massima possibilità di felicità individuale, i due punti di vista coinciderebbero. Questo però non è il caso della maggior parte delle società che conosciamo, inclusa la nostra. Tra le esigenze di uno sciolto funzionamento della società, e quelle del pieno sviluppo dell'individuo, esiste una certa discrepanza, sebbene le società differiscano per quanto riguarda la misura in cui promuovono lo sviluppo dell'individuo. Questo fatto impone la necessità di distinguere nettamente i due concetti di sanità. Il primo è governato da necessità sociali; il secondo da valori e norme concernenti lo scopo dell'esistenza individuale. Purtroppo questa distinzione viene spesso trascurata. La maggior parte degli psichiatri dà a tal punto per scontata la struttura della loro società che ai loro occhi la persona che non vi si adatta bene appare meno pregevole. Invece la persona ben adattata viene ritenuta -misurata su una gerarchia di valori umani -la più pregevole. Se distinguiamo i due concetti di normale e nevrotico arriviamo alla seguente conclusione: la persona che è normale dal punto di vista dell'adattamento è spesso meno sana del nevrotico dal punto di vista dei valori umani. Spesso è bene adattata in quanto ha rinunciato alla propria personalità per diventare più o meno la persona che crede di esser tenuta ad essere. Può darsi che siano andate perdute ogni vera individualità e ogni autentica spontaneità. D'altro canto la persona nevrotica può essere descritta come quella che non era disposta ad arrendersi completamente nella battaglia per il proprio io. Naturalmente il suo tentativo di salvare l'individualità non è riuscito e, invece di esprimere produttivamente il proprio io, ha cercato la salvezza nei sintomi nevrotici e ritirandosi in una vita immaginaria. Ciò nonostante essa, dal punto di vista dei valori umani, è meno paralizzata del tipo di persona normale che ha perduto totalmente la sua individualità. E' appena il caso di notare che esistono persone che non sono nevrotiche e che tuttavia non hanno annegato la loro individualità nel processo di adattamento. Ma il marchio che bolla la persona nevrotica ci sembra infondato, ed è giustificalo solo se consideriamo il nevrotico dal punto di vista dell'efficienza sociale. Per quanto riguarda un'intera società, il termine nevrotico non può essere applicato in questo senso, dal momento che una società non potrebbe esistere se i suoi membri non funzionassero socialmente. Dal punto di vista dei valori umani, tuttavia, una società potrebbe essere definita nevrotica nel senso che i suoi membri sono menomati nello sviluppo della loro personalità. Dato che il termine nevrotico è usato così spesso per indicare mancanza di efficienza sociale, preferiamo non definire una società nevrotica, ma piuttosto avversa alla felicità e all'autorealizzazione dell'individuo. I meccanismi che esamineremo in questo capitolo sono meccanismi di fuga, che derivano dall'insicurezza dell'individuo. Una volta che i legami primari che davano sicurezza all'individuo siano stati recisi, una volta che egli abbia cominciato a vedere il mondo esterno come un'entità completamente separata, può scegliere, se vuole superare l'intollerabile stato di impotenza e solitudine, tra due vie. Per una via può progredire alla «libertà positiva»; può mettersi in rapporto col mondo spontaneamente con l'amore e il lavoro, con l'espressione genuina delle sue facoltà emotive, sensuali e intellettuali; può così ritrovare di nuovo l'unità con l'uomo, la natura e se stesso, senza rinunciare all'indipendenza e all'integrità della propria personalità. L'altra via che gli è aperta è di ritirarsi, di rinunciare alla sua libertà, e di cercare di superare la sua solitudine eliminando il vuoto che si è formato tra il suo essere e il mondo. Questa seconda via non lo ricongiunge mai al mondo nel modo in cui era legato ad esso prima di emergerne come «individuo», perché la realtà della sua separazione è irreversibile; è una fuga da una situazione intollerabile, che se si prolungasse renderebbe la vita impossibile. Perciò questa via di fuga è caratterizzata dalla sua natura coatta, come ogni fuga da una minaccia di panico; è anche caratterizzata da una più o meno completa rinuncia all'individualità e all'integrità dell'io. Perciò non è una soluzione che porti alla felicità e alla libertà positiva, ma è per sua natura una soluzione che si riscontra in tutti i fenomeni nevrotici. Dà sollievo a un'insopportabile ansietà, e rende la vita possibile evitando il panico; tuttavia non risolve il problema fondamentale, e viene pagata con un genere di vita che spesso consiste esclusivamente in attività automatiche o coatte. Alcuni di questi meccanismi di fuga hanno una rilevanza sociale relativamente scarsa; si riscontrano in misura rimarchevole solo in individui che presentano disturbi mentali ed emotivi gravi. In questo capitolo esaminerò solo quei meccanismi che hanno un'importanza sociale, e la cui comprensione è una premessa necessaria per l'analisi psicologica dei fenomeni sociali di cui ci occuperemo nei capitoli seguenti: il sistema fascista da una parte, la democrazia moderna dall'altra (1).

 

 

1. Autoritarismo.
Il primo meccanismo di fuga dalla libertà che tratterò è la tendenza a rinunciare all'indipendenza del proprio essere individuale, e a fondersi con qualcuno o qualcosa al di fuori di se stessi per acquistare la forza che manca al proprio essere. Ovvero, per dirla in altre parole, a cercare nuovi «legami secondari», in sostituzione dei legami primari perduti. Le forme più chiare di questo meccanismo si riscontrano nella brama di sottomissione e di dominio, o, come forse è preferibile dire, nelle tendenze masochistiche e sadiche che esistono in vari gradi tanto nell'individuo normale che in quello nevrotico. Dapprima descriveremo queste tendenze, e poi cercheremo di dimostrare che sono entrambe una fuga da una solitudine intollerabile. Le forme più frequenti in cui si manifestano le "tendenze masochistiche" sono i sentimenti di inferiorità, di impotenza, di insignificanza personale. L'analisi di persone che sono ossessionate da questi sentimenti dimostra che, mentre al livello di coscienza esse si rammaricano di questi sentimenti e vorrebbero liberarsene, qualche forza inconscia dentro di loro le spinge a sentirsi inferiori o insignificanti. Questi sentimenti sono qualcosa di più che la consapevolezza di reali manchevolezze o debolezze (benché di solito vengano razionalizzate come se lo fossero); queste persone mostrano la tendenza a diminuirsi, ad indebolirsi, e a non padroneggiare le cose. Regolarmente queste persone mostrano un accentuato stato di dipendenza da poteri esterni, da altre persone, o da istituzioni, o dalla natura. Tendono non ad affermarsi, non a fare quello che desiderano, ma a sottomettersi agli ordini effettivi o presunti di queste forze esterne. Spesso sono completamente incapaci di provare il sentimento «io voglio» o «io sono». Sentono la vita in generale come qualcosa di irresistibilmente potente, che esse non sono in grado di dominare o controllare. Nei casi più estremi -e ce ne sono molti -si può riscontrare, oltre a queste tendenze a diminuirsi e a sottomettersi a forze esterne, la tendenza a farsi del male e a infliggersi delle sofferenze. Questa tendenza può assumere varie forme. Troviamo delle persone che si danno ad autoaccuse e ad autocritiche quali nemmeno i loro peggiori nemici muoverebbero contro di loro. Ce ne sono altre, come certi nevrotici coatti, che tendono a torturarsi con riti e pensieri obbligati. In un certo tipo di personalità nevrotica, troviamo la tendenza a star fisicamente male e ad aspettare, consciamente o inconsciamente, una malattia come se fosse un dono degli dei. Spesso subiscono infortuni che non sarebbero accaduti se non ci fosse stata in atto una tendenza inconscia a subirli. Queste tendenze rivolte contro se stessi si manifestano spesso in forme ancor meno palesi o drammatiche. Ad esempio, ci sono persone che sono incapaci di rispondere a domande nel corso di un esame, nonostante conoscano benissimo le risposte in quello stesso momento e anche dopo. Ce ne sono altre che dicono cose che irritano quelli che amano o da cui dipendono, pur provando in realtà simpatia per loro e non volendo dirle. Pare quasi che queste persone stiano seguendo i consigli di un nemico, intesi a indurle a comportarsi nel modo più dannoso a loro stesse. Le tendenze masochistiche vengono spesso avvertite come chiaramente patologiche o irrazionali. Più frequentemente vengono razionalizzate. La subordinazione masochistica viene concepita come amore o fedeltà, i sentimenti di inferiorità come la adeguata espressione di effettive manchevolezze, e la propria sofferenza come interamente dovuta a circostanze immutabili. Nello stesso tipo di carattere si riscontra regolarmente, oltre a queste tendenze masochistiche, il loro opposto, cioè le "tendenze sadiche". Queste variano di forza, sono più o meno coscienti, e tuttavia non mancano mai. Troviamo tre specie di tendenze sadiche, più o meno strettamente intrecciate. La prima è quella di rendere gli altri dipendenti da noi, e di avere un potere assoluto e illimitato su di loro, sì da renderli null'altro che strumenti, «argilla nelle mani del vasaio». Un'altra consiste nell'impulso non solo a dominare gli altri in questa maniera assolutistica, ma anche a sfruttarli, ad usarli, a rubare loro, a sventrarli e, per così dire, a incorporare tutto quello che di divorabile esista in loro. Questo desiderio può riferirsi sia a cose materiali che a cose immateriali, come le qualità emotive o intellettuali che una persona ha da offrire. Una terza specie di tendenza sadica è il desiderio di far soffrire gli altri o di vederli soffrire. Questa sofferenza può essere fisica, ma più spesso è sofferenza morale. Il suo fine è di far del male attivamente agli altri, di umiliarli, di imbarazzarli, o di vederli in situazioni imbarazzanti e umilianti. Le tendenze sadiche per ovvie ragioni sono di solito meno coscienti, e più razionalizzate delle socialmente più innocue tendenze masochistiche. Spesso sono totalmente mascherate da formazioni reattive di sovrabontà o di eccessiva sollecitudine per gli altri. Ecco alcune delle più frequenti razionalizzazioni: «Io ti domino perché so ciò che è meglio per te, e nel tuo stesso interesse devi seguirmi senza opposizione». O anche: «Sono talmente meraviglioso ed eccezionale che ho il diritto di pretendere che le altre persone si sottomettano a me». Un'altra razionalizzazione, che spesso maschera la tendenza allo sfruttamento, è la seguente: «Ho fatto tanto per te, e ora ho diritto di avere da te quello che voglio». Il tipo più aggressivo di impulso sadico trova la sua più frequente razionalizzazione in due forme: «Gli altri mi hanno fatto del male, e il mio desiderio di fare del male a loro è solo una rappresaglia». Oppure: «Colpendo per primo, difendo me stesso o i miei amici dal pericolo di venir colpiti». Nel rapporto tra la persona sadica e l'oggetto del suo sadismo c'è un fattore che spesso viene trascurato e perciò merita di essere qui particolarmente sottolineato: la sua dipendenza dall'oggetto del suo sadismo. Mentre la dipendenza della persona masochista è ovvia, dalla persona sadica ci aspetteremmo esattamente l'opposto: sembra così forte e dominante, e l'oggetto del suo sadismo così debole e sottomesso, che è difficile considerare il forte come dipendente da colui su cui domina. E tuttavia un'attenta analisi mostra che le cose stanno proprio così. Il sadico ha bisogno della persona su cui esercita il suo dominio, ne ha proprio un grande bisogno, dato che il suo sentimento di forza ha radice proprio nel fatto che è il dominatore di qualcuno. Questa dipendenza può essere del tutto inconscia. Così, ad esempio, un uomo può trattare molto sadicamente la moglie e dirle ripetutamente che può andarsene da casa in qualsiasi momento, e che lui sarebbe felice se lo facesse. Spesso lei si sentirà così schiacciata che non oserà tentare di andarsene. E perciò continueranno entrambi a credere che quello che dice lui è vero. Ma se lei riesce a mettere insieme il coraggio per dichiarare che lo lascerà, può accadere qualcosa che nessuno dei due prevedeva: lui si dispererà, crollerà e la supplicherà di non lasciarlo; dirà che non può vivere senza di lei e dichiarerà che l'ama tanto, e così via. Di solito, timorosa in ogni caso di affermarsi, lei avrà la tendenza a credergli, a cambiare la sua decisione e a restare. A questo punto ricomincia la commedia. Egli riprende il suo vecchio comportamento. A lei riesce sempre più difficile restare con lui, esplode di nuovo, lui di nuovo crolla, lei rimane, e così via per molte volte ancora. Ci sono migliaia e migliaia di matrimoni e di altri rapporti personali in cui questo ciclo si ripete continuamente, e il cerchio magico non si spezza mai. Mentiva lui quando diceva che l'amava tanto da non poter vivere senza di lei? Per quanto riguarda l'amore, tutto dipende da che cosa si intenda per amore. Per quanto riguarda la sua affermazione che non potrebbe vivere senza di lei, essa è perfettamente vera, naturalmente a non prenderla alla lettera. Non può vivere senza di lei: o almeno senza qualcuno che egli senta come uno strumento impotente nelle proprie mani. Mentre in tal caso i sentimenti d'amore appaiono solo quando il rapporto minaccia di dissolversi, in altri casi la persona sadica «ama» molto palesemente quelli su cui sente di esercitare un potere. Si tratti della moglie, o del figlio, o di un assistente, o di un cameriere, o di un mendicante incontrato per strada, c'è un sentimento di «amore» e persino di gratitudine per questi oggetti del suo dominio. Può creder di voler dominare le loro vite perché li ama a tal punto. "In realtà li «ama» perché li domina". Li alletta per mezzo di cose materiali. di lodi, di proteste d'amore, con l'ostentazione di spirito e brillantezza o mostrando sollecitudine. Può dargli tutto, tutto tranne una cosa: il diritto di essere liberi e indipendenti. Questa costellazione si riscontra spesso, soprattutto nel rapporto tra genitori e figli. Qui l'atteggiamento di dominio -e di possesso -è spesso mascherato da quella che sembra la sollecitudine «naturale», o il sentimento di protezione verso il bambino. Il bambino viene messo in una gabbia dorata, può avere tutto a patto di non chiedere di uscire dalla gabbia. Il risultato è spesso una profonda paura dell'amore da parte del bambino quando diventa adulto, in quanto «l'amore» per lui significa esser preso e bloccato nella sua ricerca della libertà. Il sadismo a molti è parso meno pieno di incognite del masochismo. Che uno volesse far del male agli altri o dominarli appariva, se non necessariamente un «bene», del tutto naturale. Hobbes considerava «inclinazione generale di tutto il genere umano» l'esistenza di «un perpetuo e irrequieto desiderio di potere e di potere, che cessa solo nella Morte» (2). Per lui, il desiderio di potere non ha un carattere diabolico, ma è un risultato perfettamente razionale dell'aspirazione umana al piacere e alla sicurezza. Da Hobbes a Hitler, che spiega il desiderio di dominio come il risultato logico della lotta biologicamente condizionata per la sopravvivenza dei più adatti, la brama di potere è stata spiegata come una parte della natura umana che non richiede alcuna spiegazione data la sua ovvietà. Gli impulsi masochistici, tuttavia, le tendenze dirette contro se stessi, sembrano inspiegabili. Come si può comprendere il fatto che ci siano persone che non solo vogliono diminuirsi e indebolirsi e farsi del male, ma che persino provano godimento a farlo? Il fenomeno del masochismo non smentisce la nostra immagine della psiche umana come orientata verso il piacere e l'autoconservazione? Come si può spiegare che alcuni uomini siano attratti, e tendano a subire quello che tutti noialtri cerchiamo di fuggire: il dolore e la sofferenza? C'è un fenomeno, però, che dimostra come la sofferenza e la debolezza possano essere la meta di una ricerca umana: la "perversione masochistica". Qui scopriamo che ci sono persone che del tutto coscientemente vogliono soffrire in un modo o nell'altro, e che ne godono. Nella perversione masochistica, una persona prova eccitazione sessuale nel sentire un dolore inflittole da un'altra persona. Ma questa non è la sola forma di perversione masochistica. Spesso non viene cercata proprio la sofferenza, ma l'eccitazione e la soddisfazione provocate dall'essere fisicamente costretti, resi impotenti e deboli. Spesso nella perversione masochistica non si desidera altro che esser resi deboli «moralmente», esser trattati o apostrofati come se si fosse dei bambini, o venir sgridati o umiliati in vari modi. Nella perversione sadica troviamo che la soddisfazione deriva da meccanismi corrispondenti, cioè dal far male fisicamente ad altre persone, dal legarle con corde o catene, o dall'umiliarle con atti o parole. La perversione masochistica, con il suo godimento cosciente ed intenzionale del dolore o dell'umiliazione, ha attirato l'attenzione degli psicologi e degli scrittori prima del carattere masochistico (o masochismo morale). Tuttavia si è riconosciuto sempre più che le tendenze masochistiche del tipo che abbiamo descritto sono imparentate alla perversione sessuale, e che i due tipi di masochismo sono sostanzialmente il medesimo fenomeno. Certi psicologi hanno sostenuto che, dal momento che esistono persone che desiderano sottomettersi e soffrire, deve esserci un «istinto» che tende proprio a questo. Alcuni sociologi, come Vierkand, sono arrivati alla stessa condizione. Il primo a tentare una spiegazione teorica più completa è stato Freud. In un primo momento egli riteneva che il sadomasochismo fosse sostanzialmente un fenomeno sessuale. Osservando certe pratiche sado-masochistiche in bambini piccoli, ne dedusse che il sado-masochismo era un «impulso parziale» che appare regolarmente nello sviluppo dell'istinto sessuale. Riteneva che le tendenze sadomasochistiche degli adulti si debbano ad una fissazione dello sviluppo psico-sessuale dell'individuo ad un livello primitivo, o ad una posteriore regressione ad esso. In seguito Freud diventò sempre più consapevole dell'importanza di quei fenomeni che egli ha chiamato masochismo morale, la tendenza a soffrire non fisicamente, ma moralmente. Egli sottolineò anche il fatto che le tendenze masochistiche e sadiche erano sempre coesistenti, nonostante la loro apparente contraddizione. Peraltro, egli mutò la sua spiegazione teorica dei fenomeni masochistici. Assumendo che c'è una tendenza, biologicamente data, a distruggere, che può esser rivolta contro gli altri o contro se stessi, Freud ha sostenuto che il masochismo è in sostanza il prodotto di questo cosiddetto «istinto di morte». Inoltre ha fatto notare che questo istinto di morte, che non possiamo osservare direttamente, si amalgama con l'istinto sessuale, e nell'amalgama si manifesta come masochismo se diretto contro la propria persona, e come sadismo se diretto contro altri. E ha affermato che proprio questa mescolanza con l'istinto sessuale protegge l'uomo dall'effetto pericoloso che avrebbe l'istinto di morte allo stato puro. In breve, secondo Freud l'uomo ha solo la scelta tra il distruggere se stesso o il distruggere gli altri, se non riesce ad amalgamare la distruttività con il sesso. Questa teoria è fondamentalmente diversa dalla tesi originaria di Freud riguardo al sado-masochismo. A quel punto il sado-masochismo era fondamentalmente un fenomeno sessuale, ma nella successiva teoria è un fenomeno non sessuale, poiché in esso il fattore sessuale è dovuto solo all'amalgama dell'istinto di morte con l'istinto sessuale. Mentre Freud per molti anni ha dedicato scarsa attenzione al fenomeno dell'aggressione non-sessuale, Alfred Adler ha posto al centro del suo sistema le tendenze di cui ci stiamo occupando. Ma egli le tratta non come sado-masochismo, ma come «sentimenti di inferiorità» e «desiderio di potere». Adler vede solo il lato razionale di questi fenomeni. Mentre noi parliamo di una tendenza irrazionale a diminuirsi e a rendersi piccoli, egli vede nei sentimenti di inferiorità una reazione adeguata a effettive inferiorità, come le inferiorità organiche o la generale inferiorità del bambino. E mentre noi consideriamo il desiderio di potere come l'espressione di un impulso irrazionale a dominare gli altri, Adler lo vede tutto dal lato razionale, e parla del desiderio di potere come di una reazione adeguata che ha la funzione di proteggere l'individuo dai pericoli derivanti dalla sua insicurezza e inferiorità. Qui, come sempre, Adler non riesce a vedere al di là delle decisioni intenzionali e razionali della condotta umana; e benché abbia apportato preziose intuizioni sulle complicazioni della motivazione, egli resta sempre alla superficie e non discende mai nell'abisso degli impulsi irrazionali, come ha fatto Freud. Nella letteratura psicoanalitica Wilhelm Reich (3), Karen Horney (4), e chi scrive (5) hanno offerto un punto di vista diverso da quello di Freud. Reich, pur fondandosi sulla concezione originaria della teoria freudiana della libido, fa notare che la persona masochista in fin dei conti cerca il piacere, e che il dolore che subisce è un sottoprodotto, non un fine in sé. La Horney è stata la prima a riconoscere il ruolo fondamentale delle tendenze masochistiche nella personalità nevrotica, a fornire una descrizione completa e dettagliata dei tratti del carattere masochistico e a spiegarli in termini teorici come il risultato dell'intera struttura del carattere. Nei suoi scritti, come nei miei, i tratti del carattere masochistico non vengono visti come radicati nella perversione sessuale, ma quest'ultima viene considerata l'espressione sessuale di tendenze psichiche ancorate a un particolare tipo di struttura del carattere. Vengo ora alla questione principale. Qual è la radice della perversione masochistica e dei tratti del carattere masochistico? E ancora, qual è la radice comune delle tendenze masochistiche e sadiche? La direzione in cui va ricercata la risposta è già stata indicata all'inizio di questo capitolo. Sia gli impulsi masochistici che quelli sadici tendono ad aiutare l'individuo a sfuggire all'intollerabile sentimento di solitudine e impotenza che egli prova. L'osservazione psicoanalitica di persone masochiste fornisce ampiamente prove (che qui non posso citare senza esulare dallo scopo del libro) che esse sono piene del terrore della solitudine e dell'insignificanza. Spesso questo sentimento non è cosciente; non di rado è mascherato da sentimenti compensatori di valore e perfezione. Tuttavia, solo che si penetri più a fondo nella dinamica inconscia di queste persone, si ritrovano senza fallo questi sentimenti. L'individuo si ritrova «libero» nel senso negativo, cioè solo con se stesso e di fronte a un mondo alienato, ostile. In questa situazione, per citare un'eloquente descrizione di Dostoevskij ne "I fratelli Karamazov", egli «non sente bisogno più urgente di quello di trovare qualcuno a cui poter cedere quel dono della libertà con il quale egli, creatura sfortunata, è nato». L'individuo spaventato cerca qualcuno o qualcosa a cui legarsi; non può più sopportare di esser se stesso e cerca freneticamente di disfarsi della propria individualità e di provare di nuovo un sentimento di sicurezza eliminando l'io. Il masochismo è una via indirizzata a questo fine. Le diverse forme che assumono le tendenze masochistiche hanno un solo scopo: "disfarsi dell'io individuale, perdersi"; in altre parole "disfarsi del peso della libertà". Questo scopo è ovvio in quei casi di masochismo in cui l'individuo cerca di sottomettersi a una persona o a un potere che ritiene irresistibilmente forte. (Per inciso, la convinzione della forza superiore di un'altra persona va sempre intesa in senso relativo. Può fondarsi o sulla forza reale dell'altra persona, o sulla convinzione della propria completa irrilevanza e impotenza. In quest'ultimo caso un topo o una foglia possono assumere aspetti minacciosi). In altre forme di masochismo l'obiettivo fondamentale è lo stesso. Nel sentimento masochistico di piccolezza riscontriamo una tendenza che serve ad aumentare il sentimento originario di irrilevanza. Come dobbiamo intenderla? Possiamo ritenere che accentuando una paura si cerchi di rimediarvi? In effetti questo è ciò che fa il masochista. Finché lotto tra il mio desiderio di essere indipendente e forte e il mio sentimento di irrilevanza o impotenza sono prigioniero di un conflitto tormentoso. Se riesco a ridurre il mio io individuale a nulla, se sono in grado di vincere la consapevolezza della mia separazione in quanto individuo, posso salvarmi da questo conflitto. Sentirsi assolutamente piccoli e impotenti è un modo di raggiungere questo fine. Un altro è farsi sopraffare dal dolore e dalla sofferenza. Un altro ancora è quello di farsi sommergere dagli effetti dell'intossicazione. Se tutti gli altri mezzi non sono riusciti a liberare dal peso della solitudine, la fantasia del suicidio è l'ultima speranza. In certe condizioni queste aspirazioni masochistiche raggiungono un relativo successo. Se l'individuo incontra modelli culturali che soddisfano queste tendenze masochistiche (come la sottomissione al capo nell'ideologia fascista), conquista una certa sicurezza trovandosi unito a milioni di altri che condividono questi sentimenti. Tuttavia anche in questi casi la «soluzione» masochistica non è una vera soluzione, come non lo sono mai le manifestazioni nevrotiche: l'individuo riesce ad eliminare la sofferenza appariscente, ma non a rimuovere il conflitto sottostante e l'infelicità tacita. Quando la tendenza masochistica non trova un modello culturale, o quando eccede quantitativamente la dose media di masochismo presente nel gruppo sociale a cui appartiene l'individuo, la soluzione masochistica non risolve nulla, nemmeno in termini relativi. Scaturisce da una situazione intollerabile, tende a superarla, e lascia l'individuo impigliato in nuove sofferenze. Se il comportamento umano fosse sempre razionale e intenzionale, il masochismo riuscirebbe inesplicabile, come in generale appaiono le manifestazioni nevrotiche. Tuttavia, lo studio delle turbe emotive e mentali ci ha insegnato questo: che il comportamento umano può essere motivato da impulsi causati dall'ansietà, o da un altro intollerabile stato mentale, che questi impulsi tendono a superare questo stato emotivo e tuttavia non riescono che a mascherare le sue manifestazioni più visibili, e talora nemmeno queste. Le manifestazioni nevrotiche somigliano al comportamento irrazionale della persona colta dal panico. Così un uomo imprigionato dal fuoco va alla finestra e chiama aiuto, dimenticando completamente che nessuno può udirlo e che potrebbe ancora fuggire per le scale, che tra qualche minuto bruceranno anch'esse. Grida perché vuol essere salvato, e sul momento questa condotta sembra un passo verso la salvezza: e tuttavia finirà nella completa catastrofe. Nello stesso modo le tendenze masochistiche sono provocate dal desiderio di disfarsi dell'io individuale con tutte le sue manchevolezze, i suoi conflitti, rischi, dubbi, e la sua intollerabile solitudine, ma riescono solo a rimuovere il dolore evidente o magari portano ad una sofferenza anche maggiore. L'irrazionalità del masochismo, come di tutte le altre manifestazioni nevrotiche, sta nella finale futilità dei mezzi adottati per risolvere una situazione emotiva indifendibile. Queste considerazioni si riferiscono ad un'importante differenza tra l'attività nevrotica e quella razionale. In quest'ultima il "risultato" corrisponde alla "motivazione" di un'attività: si agisce per raggiungere un certo risultato. Nell'attività nevrotica si agisce per una spinta che ha un carattere fondamentalmente negativo: fuggire da una situazione intollerabile. Gli sforzi tendono verso una direzione che è tale apparentemente. In realtà il risultato contraddice quello che la persona vuole conseguire; la spinta a disfarsi di un sentimento intollerabile era talmente forte che la persona non è riuscita a scegliere una linea d'azione che potesse essere una soluzione in modo non fittizio. Per quanto riguarda il masochismo, l'implicazione di tutto ciò è che l'individuo è spinto da un sentimento intollerabile di solitudine e irrilevanza. Egli cerca quindi di superarlo sbarazzandosi del suo io (come entità psicologica, non fisiologica); il suo modo di ottenerlo è diminuirsi, soffrire, rendersi completamente insignificante. Ma il dolore e la sofferenza non sono ciò che egli vuole; il dolore e la sofferenza sono il prezzo che paga per un fine che cerca ossessivamente di conseguire. Il prezzo è caro. Deve pagare sempre di più e, come un "peone", non fa che contrarre debiti sempre maggiori, senza mai ottenere ciò che ha già pagato: la pace e la tranquillità interiori. Ho parlato della perversione masochistica perché essa prova al di là di ogni dubbio che la sofferenza può essere ricercata. Tuttavia, nella perversione masochistica come nel masochismo morale, la sofferenza non è il vero fine. In entrambi i casi è il mezzo per raggiungere un fine: dimenticare il proprio essere. La differenza tra la perversione e i tratti di carattere masochistici è fondamentalmente questa: nella perversione la tendenza a disfarsi del proprio io si esprime per mezzo del corpo, e si associa a sentimenti sessuali. Mentre nel masochismo morale le tendenze masochistiche si impadroniscono di tutta la persona, e tendono a distruggere tutti i fini che l'io coscientemente cerca di realizzare, nella perversione le tendenze masochistiche si limitano più o meno alla sfera fisica; inoltre, amalgamandosi al sesso, partecipano allo scarico della tensione che avviene nella sfera sessuale e trovano così un sollievo immediato. L'annullamento dell'io individuale, e il tentativo di vincere in tal modo l'intollerabile sentimento di impotenza, sono solo un aspetto dell'attività masochistica. L'altro aspetto è il tentativo di entrare a far parte di un tutto esterno più grande e più potente, di sommergersi in esso e di farne parte. Questo potere può essere una persona, un'istituzione, Dio, la Nazione, la coscienza, o un'ossessione psichica. Diventando parte integrante di un potere ritenuto incrollabilmente forte, eterno, e affascinante, si condividono la sua forza e la sua gloria. Si rinuncia al proprio io e a tutta la forza e l'orgoglio che vi sono connessi, si perde la propria integrità come individuo e si rinuncia alla libertà; ma si conquista una nuova sicurezza e un nuovo orgoglio partecipando al potere in cui ci si sommerge. Si conquista la sicurezza anche contro la tortura del dubbio. La persona masochista, sia che il suo padrone sia un'autorità esterna, sia che lo abbia interiorizzato come coscienza o ossessione psichica, è al riparo dal dovere di decidere, è affrancata dalla responsabilità decisiva per la sorte del proprio io, e pertanto è affrancata dal dubbio circa la decisione da prendere. E' anche salvata dal dubbio circa il significato della sua vita, o dal dubbio su chi «essa» sia. Queste domande trovano una risposta nel rapporto con il potere a cui si è legata. Il significato della sua vita e l'identità del suo io sono determinati dalla più ampia entità in cui l'io si è sommerso. I legami masochistici sono fondamentalmente diversi dai legami primari. Questi ultimi sono quelli che esistono prima che il processo di individuazione abbia raggiunto il suo completamento. L'individuo fa ancora parte del «suo» mondo naturale e sociale, e non è ancora completamente emerso dal suo ambiente. I legami primari gli danno un'autentica sicurezza e la conoscenza del suo posto. I legami masochistici sono una fuga. L'io individuale è emerso, ma non riesce a realizzare la sua libertà, è oppresso dall'ansietà, dal dubbio e da un sentimento di impotenza. L'io cerca di trovare sicurezza in «legami secondari», come si potrebbero definire i legami masochistici, ma questo tentativo non può mai aver successo. L'emergere dell'io individuale è irreversibile; coscientemente l'individuo può sentirsi sicuro, come se fosse «inserito», ma fondamentalmente resta un atomo impotente che soffre dell'annegamento del suo io. Non diventa mai uno con il potere a cui si aggrappa, poiché resta un sostanziale antagonismo e con esso l'impulso, spesso per nulla cosciente, a superare la subordinazione masochistica e a diventar liberi. Qual è l'essenza degli impulsi sadici? Anche in questo caso l'essenza non è il desiderio di infliggere dolore ad altri. Le varie forme di sadismo che possiamo osservare risalgono ad un unico fondamentale impulso, a quello cioè di dominare totalmente un'altra persona, di renderla un oggetto impotente della propria volontà, di diventare il dominatore assoluto su di lei, di diventare il suo dio, di fare di lei ciò che si vuole. Umiliarla, renderla schiava, sono mezzi per raggiungere questo fine; e il fine radicale è di farla soffrire, poiché non c'è maggior potere su un'altra persona di quello di infliggerle dolore, di costringerla a subire sofferenze senza potersi difendere. Il piacere del completo dominio su un'altra persona (o su altri oggetti animati) è la vera essenza dell'impulso sadico (6). Può sembrare che questa tendenza a rendersi il padrone assoluto di un'altra persona sia l'opposto della tendenza masochistica, e il fatto che queste due tendenze siano così strettamente intrecciate può lasciar perplessi. Senza dubbio rispetto alle sue conseguenze pratiche il desiderio di dipendere, o di soffrire, è l'opposto del desiderio di dominare, e di far soffrire gli altri. Tuttavia, psicologicamente, le due tendenze sono il risultato di un solo bisogno fondamentale, derivante dall'incapacità di sopportare l'isolamento e la debolezza del proprio io. Propongo di chiamare "simbiosi" il fine che sta alla base del sadismo e del masochismo. Simbiosi, in questo senso psicologico, significa l'unione di un io individuale con un altro io (o con un altro potere esterno) in modo tale da far perdere a ciascuno di essi l'integrità, e da renderli completamente dipendenti l'uno dall'altro. La persona sadica ha bisogno del suo oggetto quanto il masochista ha bisogno del suo. Solo che invece di cercare sicurezza nel farsi inghiottire, la raggiunge inghiottendo qualcun altro.

In entrambi i casi l'integrità dell'io individuale è perduta. Nel primo caso io mi dissolvo in un potere esterno; perdo me stesso. Nel secondo caso amplio me stesso rendendo un altro parte di me stesso; e in tal modo guadagno la forza che mi manca in quanto essere indipendente. E' sempre l'incapacità di resistere alla solitudine del proprio io individuale che crea l'impulso a entrare in rapporto simbiotico con qualcun altro. Appare evidente da ciò la ragione per cui le tendenze masochistiche e sadiche sono sempre coesistenti. Benché in apparenza sembrino contraddittorie, esse sono radicate nello stesso bisogno fondamentale. Le persone non sono sadiche o masochiste ma c'è una continua oscillazione tra il lato attivo e quello passivo del complesso simbiotico, sicché spesso è difficile determinare quale tendenza stia operando in un dato momento. Nell'uno e nell'altro caso l'individualità e la libertà sono perdute. Se pensiamo al sadismo, di solito pensiamo alla distruttività e all'ostilità così vistosamente connesse ad esso. Naturalmente, si può sempre riscontrare nelle tendenze sadiche una maggiore o minore dose di distruttività. Ma questo vale anche per il masochismo. Tutte le analisi dei tratti masochistici rivelano questa ostilità. La principale differenza sembra essere che nel sadismo l'ostilità di solito è più cosciente e più direttamente espressa nell'azione; mentre nel masochismo l'ostilità è per lo più inconscia e trova una espressione indiretta. Cercherò di dimostrare più avanti che la distruttività è il risultato dell'arresto dell'espansività sensuale, emotiva e intellettuale dell'individuo; si può quindi prevederla come risultato delle stesse condizioni che producono il bisogno simbiotico. L'aspetto che desidero sottolineare qui è che il sadismo non si identifica con la distruttività, anche se è in larga misura legato ad essa. La persona distruttiva vuole distruggere l'oggetto, ossia eliminarlo e sbarazzarsene. Il sadico vuole dominare il suo oggetto e perciò se esso scompare subisce una perdita. Il sadismo, nell'accezione in cui noi usiamo la parola, può essere anche relativamente scevro da distruttività, e accompagnarsi a un sentimento benevolo nei confronti del suo oggetto. Questo tipo di sadismo «amorevole» ha trovato classica espressione nelle "Illusioni perdute" di Balzac, in cui viene anche descritta la particolare natura di quello che indichiamo come il bisogno di simbiosi. In questo brano Balzac descrive il rapporto tra il giovane Lucien e il prigioniero che si spaccia per abate. Poco dopo aver conosciuto il giovanotto che ha appena tentato di suicidarsi, l'abate dice: «... Questo giovanotto non ha nulla in comune col poeta morto or ora. Ti ho raccolto, ti ho dato la vita, e tu mi appartieni come la creatura appartiene al creatore, come -nelle fiabe dell'Oriente -l'Ifrit appartiene allo spirito, come il corpo appartiene all'anima. Con mani possenti ti manterrò sulla via che va diritta al potere; ti prometto, ciò nonostante, una vita di piaceri, di onori, di feste senza fine. Non ti mancherà mai il denaro, scintillerai, sarai brillante, mentre io, accovacciato nella sozzura dell'intrigo, renderò sicuro il brillante edificio del tuo successo. Amo il potere per se stesso! Godrò sempre dei tuoi piaceri anche se dovrò rinunciare ad essi. In breve: sarò con te una sola persona... amerò la mia creatura, la plasmerò, la piegherò ai miei servizi per amarla come un padre ama suo figlio. Sarò al tuo fianco nella tua carrozza, caro figliolo, mi delizierò dei tuoi successi con le donne. Dirò: sono questo bel giovane. Io ho creato questo marchese de Rubempré, e l'ho posto tra l'aristocrazia; il suo successo è il mio prodotto.

Egli tace e parla con la mia voce, segue il mio consiglio in tutto». Spesso, e non solo nell'uso comune, il sado-masochismo viene confuso con l'amore. Specialmente i fenomeni masochistici vengono considerati espressioni d'amore. Un atteggiamento di completa abnegazione a vantaggio di un'altra persona, e la rinuncia ai propri diritti e alle proprie pretese a favore di un altra persona, sono stati magnificati come esempi di «grande amore». Sembra che non esista prova migliore di «amore» del sacrificio e della disposizione a rinunciare a se stesso a favore della persona amata. In questi casi, in realtà, l'«amore» è un desiderio masochistico radicato nell'esigenza simbiotica della persona. Se per amore intendiamo l'appassionata affermazione e l'attivo rapporto con l'essenza di una particolare persona, se per amore intendiamo l'unione con un'altra persona fondata sull'indipendenza e l'integrità dei due soggetti, allora il masochismo e l'amore sono opposti. L'amore si fonda sull'eguaglianza e sulla libertà. Se si fonda sulla subordinazione e sulla perdita di integrità di uno dei soggetti, si tratta di una dipendenza masochistica, comunque si voglia razionalizzare il rapporto. Anche il sadismo appare spesso sotto la maschera dell'amore. Dominare un'altra persona, pretendendo che il dominarla sia nel suo interesse, appare spesso come un'espressione d'amore, ma il fatto essenziale è il godimento del dominio. A questo punto nella mente di molti lettori sorgerà una domanda: il sadismo, come l'abbiamo descritto qui, non si identifica con la brama di potere? La risposta alla domanda è che, sebbene le forme più distruttive di sadismo, il cui fine è quello di danneggiare e torturare un'altra persona, non si identifichino con il desiderio di potere, quest'ultimo tuttavia è l'espressione più importante del sadismo. Il problema ha acquistato una maggiore importanza nel nostro tempo. Dopo Hobbes si è visto nel potere il movente fondamentale della condotta umana; i secoli seguenti, tuttavia, hanno dato un peso sempre maggiore ai fattori legali e morali che tendevano a limitare il potere. Con l'avvento del fascismo, la brama del potere e la convinzione del suo diritto hanno raggiunto nuovi vertici. Milioni di persone restano colpite dalle vittorie del potere e lo accolgono come un segno di forza. Certamente il potere sulle persone è espressione di forza superiore in un senso puramente materiale. Se ho il potere di uccidere un'altra persona, sono «più forte» di lei. Ma in senso psicologico "la brama di potere non si fonda sulla forza, ma sulla debolezza". E' l'espressione dell'incapacità dell'io individuale di reggersi da solo, e di vivere. E' il disperato tentativo di acquistare una forza secondaria là dove manca la forza genuina. Il termine «potere» ha un duplice significato. Uno è il possesso di un potere su qualcuno, la possibilità di dominarlo; l'altro significato è il possesso del potere di fare qualcosa, di essere capace. Quest'ultimo significato non ha nulla a che vedere con il dominare; esprime padronanza nel senso di capacità. Quando parliamo di impotenza, abbiamo in mente questo significato; non pensiamo alla persona che non riesce a dominare gli altri, ma alla persona che non è in grado di fare quello che vuole. Perciò il potere può significare una di queste due cose: dominio o capacità. Lungi dall'essere identiche, queste due qualità si escludono a vicenda. L'impotenza, usando il termine in riferimento non solo alla sfera sessuale, ma a tutte le sfere della potenzialità umana, dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui un individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare, e non prova alcuna brama di potere. Il potere, nel senso del dominare, è la perversione della capacità, proprio come il sadismo sessuale è la perversione dell'amore sessuale. Tratti sadici e masochistici sono riscontrabili probabilmente in tutti. Ad un estremo stanno gli individui la cui intera personalità è dominata da questi tratti, e all'altro estremo stanno quelli nei quali questi tratti sado-masochistici non sono caratteristici. Solo trattando dei primi possiamo parlare di carattere sado-masochistico Il termine «carattere» viene usato qui nel senso dinamico in cui parla di carattere Freud. In questo senso si riferisce non alla somma totale degli schemi di condotta caratteristici di una persona, ma agli impulsi dominanti che motivano il comportamento. Freud, postulando come forze motrici fondamentali quelle sessuali, è arrivato ai concetti di carattere «orale», «anale» e «genitale». Se non si condivide questo assunto, si è obbligati a escogitare tipi di carattere diversi. Ma il concetto dinamico resta lo stesso. Le forze motrici non sono necessariamente presenti come tali alla coscienza di una persona, il cui carattere ne sia dominato. Una persona può essere totalmente dominata dai suoi impulsi sadici, e ritenere al livello di coscienza di esser spinta unicamente dal suo senso del dovere. Può persino non commettere mai atti apertamente sadici, ma invece sopprimere i suoi impulsi sadici in misura sufficiente a farla apparire alla superficie una persona non sadica. Ciò nonostante un'accurata analisi del suo comportamento, delle sue fantasticherie, dei suoi sogni e gesti. rivelerebbe che gli impulsi sadici operano negli strati più profondi della sua personalità. Sebbene il carattere delle persone nelle quali dominano gli impulsi sado-masochistici possa venir definito sado-masochistico, queste persone non sono necessariamente nevrotiche. Il fatto che un particolare tipo di struttura di carattere sia «nevrotico», oppure «normale», dipende in larga misura dagli specifici compiti che le persone debbono svolgere nella loro situazione sociale, e dai modelli di sentimento e di comportamento presenti nella loro civiltà. Infatti il carattere sado-masochistico è tipico di vasti settori della classe media inferiore della Germania e di altri paesi europei, e, come si dirà più avanti, è su questo tipo di struttura di carattere che l'ideologia nazista ha esercitato il suo maggior fascino. Poiché il termine «sado-masochistico» viene associato a idee di perversione e nevrosi, preferisco riferirmi al carattere sado-masochistico, specialmente quando si tratta non del nevrotico, ma della persona normale, come al «"carattere autoritario"». Questa terminologia trova la sua giustificazione nel fatto che il sado-masochista è sempre caratterizzato dal suo atteggiamento verso l'autorità. Egli ammira l'autorità, e tende a sottomettervisi, ma nello stesso tempo vuol esser anch'egli un'autorità e sottomettere gli altri a se stesso. C'è un'altra ragione per scegliere questo termine. I sistemi fascisti si autodefiniscono autoritari in considerazione del ruolo dominante che ha l'autorità nella loro struttura sociale e politica. Con la espressione «carattere autoritario» intendiamo indicare la struttura psicologica che costituisce la base umana del fascismo. Prima di proseguire l'esame del carattere autoritario, occorre chiarire il significato del termine «autorità». L'autorità non è una qualità che una persona «ha», come può avere una proprietà o delle qualità fisiche. L'autorità si riferisce a un rapporto interpersonale, in cui una persona considera un'altra persona superiore a se stessa. Ma c'è una fondamentale differenza tra il rapporto di superiorità-inferiorità che può essere definito di autorità razionale, e quel rapporto che può esser definito di autorità inibitoria. Un esempio può chiarire il nostro pensiero. Il rapporto tra insegnante e studente, e quello tra proprietario e schiavo, si fondano entrambi sulla superiorità dei primi sui secondi. Gli interessi dell'insegnante e dell'allievo sono orientati nella stessa direzione. L'insegnante è soddisfatto se riesce a far progredire l'allievo; se non riesce, l'insuccesso è tanto dell'allievo quanto suo. Il proprietario, invece, vuole sfruttare lo schiavo il più possibile; più ne ottiene, e più si sente soddisfatto. Nello stesso tempo lo schiavo cerca di difendere come meglio può le sue aspirazioni a un minimo di felicità. Questi interessi sono chiaramente antagonistici, perché quello che reca vantaggio ad uno, è dannoso all'altro. Nei due casi la superiorità ha una funzione diversa: nel primo, è la condizione per aiutare la persona soggetta all'autorità; nel secondo, è la condizione per il suo sfruttamento. Anche la dinamica dell'autorità è diversa nei due casi: più lo studente impara, e più si accorcia la distanza tra lui e l'insegnante. Diventa sempre più come l'insegnante. In altre parole, il rapporto di autorità tende a dissolversi. Ma quando la superiorità serve come base dello sfruttamento, la distanza si accresce col passar del tempo. La situazione psicologica è anch'essa diversa in queste due situazioni. Nella prima prevalgono i sentimenti di amore, di ammirazione e di gratitudine. L'autorità è anche un esempio con cui ci si vuole identificare parzialmente o totalmente. Nella seconda situazione sorgeranno risentimento o ostilità contro lo sfruttatore, la subordinazione al quale è contraria al proprio interesse. Ma spesso, come avviene nel caso dello schiavo, quest'odio porterebbe solo a conflitti che farebbero subire allo schiavo sofferenze maggiori, senza alcuna possibilità di uscirne. Perciò di solito si manifesterà la tendenza a reprimere il sentimento di odio e talvolta persino a sostituirvi un sentimento di cieca ammirazione. Quest'ultimo ha due funzioni: primo, quella di rimuovere il penoso e pericoloso sentimento di odio; secondo, quella di attenuare il sentimento di umiliazione. Se la persona che mi domina è così meravigliosa e perfetta, allora non debbo vergognarmi di obbedirle. Non posso essere un suo eguale, perché è tanto più forte, saggia, migliore di me. Di conseguenza, nel tipo di autorità inibitoria l'elemento dell'odio o della sopravvalutazione e ammirazione irrazionali dell'autorità tenderà ad aumentare. Nel tipo razionale di autorità, tenderà a diminuire nella misura in cui la persona soggetta all'autorità diventa più forte e quindi più simile all'autorità. La differenza tra autorità razionale e autorità inibitoria è solo relativa. Anche nel rapporto tra schiavo e padrone ci sono elementi di vantaggio per lo schiavo. Lo schiavo riceve un minimo di cibo e di protezione, che almeno gli consente di lavorare per il padrone. D'altro canto è solo nel rapporto ideale tra maestro e scolaro che riscontriamo una completa mancanza di conflitto di interessi. Tra questi due casi estremi ci sono molte gradazioni, come quella del rapporto tra un operaio di fabbrica e il suo padrone, o tra il figlio di un agricoltore e il padre, o tra la casalinga e il marito. Tuttavia questi due tipi di autorità, pur essendo mescolati nella realtà, nella loro essenza sono diversi, e l'analisi di una concreta situazione di autorità deve sempre determinare il peso specifico di ciascun tipo di autorità. L'autorità non è necessariamente una persona o un'istituzione che dice: devi far questo, o ti è vietato far quello. Questo tipo di autorità può esser definito autorità esterna; ma l'autorità può manifestarsi anche come autorità interiore, sotto il nome di dovere, coscienza o super-ego. In realtà tutto lo sviluppo del pensiero moderno, dal protestantesimo alla filosofia di Kant, è caratterizzato dalla sostituzione all'autorità esterna di un'autorità interiorizzata. Con le vittorie politiche della classe media in ascesa, l'autorità esterna ha perduto prestigio e la coscienza dell'uomo ha preso il posto una volta occupato dall'autorità esterna. Questo mutamento è apparso a molti una vittoria della libertà. Sottomettersi a ordini provenienti dall'esterno (almeno nel campo spirituale) è apparso indegno di un uomo libero; ma il superamento delle sue inclinazioni naturali e l'instaurarsi del dominio di una parte della personalità, la ragione, volontà o coscienza, su un'altra parte, la natura, è sembrato l'essenza stessa della libertà. L'analisi dimostra che la coscienza domina con un'asprezza non minore di quella delle autorità esterne, e inoltre che spesso il contenuto degli ordini emanati dalla coscienza non è in definitiva regolato da esigenze dell'io individuale, ma da richieste sociali che hanno assunto la dignità di norme etiche. Il dominio della coscienza può essere anche più duro di quello delle autorità esterne, dato che l'individuo ne considera gli ordini come propri; come può ribellarsi contro se stesso? Negli ultimi decenni la «coscienza» ha perduto gran parte della sua importanza. Sembra a questo punto che nella vita dell'individuo né le autorità esterne né quelle interne giochino una parte rilevante. Ognuno è completamente «libero», sempre che non interferisca nelle aspirazioni legittime degli altri. Ma invece scopriamo che l'autorità, piuttosto che scomparire, si è resa invisibile. Invece dell'autorità manifesta, regna l'autorità «anonima». Essa ha assunto le sembianze del senso comune, della scienza, della sanità psichica, della normalità, dell'opinione pubblica. Non pretende nulla, se non ciò che è di per sé evidente. Sembra che non impieghi alcuna pressione, ma solo la dolce persuasione. Sia che una madre dica alla figlia: «So che non ti piacerà uscire con quel ragazzo»; o che una réclame suggerisca: «Fumate questa marca di sigarette: vi piacerà la loro freschezza»: è sempre una stessa atmosfera di sottile suggestione che in realtà pervade tutta la nostra vita sociale. L'autorità anonima è più efficace dell'autorità palese, perché non si sospetta mai che ci sia un ordine che si è tenuti ad osservare. Nell'autorità esterna è chiaro che c'è un ordine, ed è chiaro chi lo dà; si può combattere contro questa autorità, ed in questa lotta l'indipendenza personale e il coraggio morale si possono sviluppare. Ma mentre nell'autorità interiorizzata il comando, benché interno, resta visibile, nell'autorità anonima sia il comando che chi lo dà sono diventati invisibili. E' come trovarsi sotto il fuoco di un nemico invisibile. Non c'è nessuno e non c'è nulla contro cui combattere. Tornando ora all'esame del carattere autoritario, il tratto più importante da considerare è il suo atteggiamento verso il potere. Per il carattere autoritario esistono, per così dire, due sessi: i potenti e gli impotenti. Il potere, si tratti di quello di una persona o di quello di un'istituzione, suscita automaticamente in lui amore, ammirazione, e disposizione a sottomettersi. Il potere lo affascina non per i valori che un determinato potere può rappresentare, ma proprio in quanto è potere. Proprio come il potere suscita automaticamente il suo «amore», così le persone o le istituzioni impotenti suscitano automaticamente il suo disprezzo. La vista stessa di una persona impotente gli fa desiderare di attaccarla, dominarla umiliarla. Mentre altri tipi di carattere inorridiscono all'idea di attaccare un inerme, il carattere autoritario si eccita in proporzione diretta alla debolezza del suo oggetto. C'è un tratto del carattere autoritario che ha fuorviato molti osservatori: la tendenza a sfidare l'autorità e a risentirsi di ogni influenza dall'«alto».

Talvolta questo atteggiamento di sfida domina l'intero quadro e le tendenze alla sottomissione restano in ombra. Questo tipo di persona si ribellerà continuamente ad ogni genere di autorità, persino a quella che in realtà favorisce il suo interesse e non ha tratti repressivi. A volte l'atteggiamento verso l'autorità non è univoco. Queste persone potrebbero battersi contro un sistema di autorità, soprattutto se provano irritazione per la sua mancanza di potere, e contemporaneamente o successivamente potrebbero sottomettersi ad un altro sistema di autorità, che per il suo maggior potere o per le sue maggiori promesse sembra soddisfare le loro aspirazioni masochistiche. Infine esiste un tipo di persona in cui le tendenze alla ribellione sono completamente represse, e salgono alla superficie solo quando il controllo cosciente si indebolisce; o possono essere individuate a posteriori, nell'odio che sorge contro un'autorità allorché il potere di questa si indebolisce, e comincia a vacillare. Di fronte alle persone del primo tipo, nelle quali l'atteggiamento ribelle domina il quadro, si è facilmente indotti a credere che la loro struttura di carattere sia proprio l'opposto di quella del tipo masochistico portato alla sottomissione. Si ha l'impressione che si tratti di persone che si oppongono ad ogni autorità per un estremo senso di indipendenza. Sembrano persone che, fondandosi sulla forza e integrità interiori, combattono quelle forze che bloccano la loro libertà e indipendenza. Tuttavia, la lotta contro l'autorità è nel carattere autoritario soltanto spavalderia. E' un tentativo di affermarsi e di vincere il sentimento della propria impotenza combattendo l'autorità, quantunque il desiderio di sottomissione resti presente, al livello di coscienza o nell'inconscio. Il carattere autoritario non è mai «rivoluzionario», lo chiamerei «ribelle». Ci sono molti individui e movimenti politici che lasciano perplesso l'osservatore superficiale per quello che sembra un inesplicabile salto dal «radicalismo» all'autoritarismo estremista. Psicologicamente queste persone sono i tipici «ribelli». L'atteggiamento del carattere autoritario verso la vita -la sua filosofia -è determinato dai suoi impulsi emotivi. Il carattere autoritario ama le condizioni che limitano la libertà umana, ama venir sottomesso al destino. Che cosa significhi per lui il «destino» dipende dalla sua posizione sociale. Nel caso di un soldato può essere la volontà o il capriccio del superiore, a cui egli si sottomette con gioia. Nel caso del piccolo uomo d'affari il destino sono le leggi economiche. Per lui la crisi e la prosperità non sono fenomeni sociali che potrebbero essere mutati dall'attività umana, ma l'espressione di un potere superiore al quale ci si deve sottomettere. Il caso di quelli che si trovano al vertice della piramide non è fondamentalmente diverso. La diversità sta solamente nell'entità e nella generalità del potere al quale ci si sottomette, non nel sentimento di dipendenza come tale. Non solo le forze che determinano direttamente la vita del soggetto, ma anche quelle che sembrano determinare la vita in generale vengono considerate destino immutabile. E' destino che ci siano guerre e che una parte dell'umanità debba essere governata dall'altra. E' destino che la quantità della sofferenza non possa esser mai minore di quanto è sempre stata. Il destino può venir razionalizzato filosoficamente come «legge naturale» o come «sorte dell'uomo», religiosamente come la «volontà del Signore», eticamente come «dovere». Per il carattere autoritario si tratta sempre di un potere superiore esterno all'individuo, verso il quale l'individuo non può far altro che sottomettersi. Il carattere autoritario venera il passato. Ciò che è stato, sarà in eterno. Volere o agire per qualcosa che non è mai esistito prima è delitto o follia. Il miracolo della creazione -e la creazione è sempre un miracolo -esula dai limiti della sua esperienza emotiva. La definizione dell'esperienza religiosa come esperienza di dipendenza assoluta, data da Schleiermacher, è la definizione dell'esperienza masochistica in generale; in questo sentimento di dipendenza un ruolo particolare è svolto dal peccato. Il concetto di peccato originale, che pesa su tutte le generazioni future, è caratteristico dell'esperienza autoritaria. Il fallimento morale, come qualsiasi altro fallimento umano, diventa un destino a cui l'uomo non può sfuggire. Chiunque abbia peccato una volta è incatenato eternamente al suo peccato con ceppi di ferro. Le azioni dell'individuo diventano il potere che lo domina e che non lo lascia mai libero. Le conseguenze della colpa possono essere attenuate dall'espiazione, ma l'espiazione non può mai eliminare la colpa (7). Le parole di Isaia «sebbene i tuoi peccati siano scarlatti, essi diverranno bianchi come la neve» esprimono esattamente l'opposto della filosofia autoritaria. Il tratto comune a tutto il pensiero autoritario è la convinzione che la vita sia determinata da forze estranee all'uomo stesso, al suo interesse, ai suoi desideri. La sola felicità possibile risiede nella sottomissione a queste forze. L'impotenza dell'uomo è il "leitmotiv" della filosofia masochistica. Uno dei padri ideologici del nazismo, Moeller van der Bruck, ha espresso con molta chiarezza questo sentimento: «Il conservatore crede piuttosto nella catastrofe, nell'impotenza dell'uomo ad evitarla, nella sua necessità e nella terribile delusione di colui che è stato sedotto dall'ottimismo» (8). Negli scritti di Hitler vedremo altri esempi di questo stesso spirito. Il carattere autoritario non è privo di dinamismo, di coraggio o di fede. Ma queste qualità significano per lui qualcosa di totalmente diverso da quello che rappresentano per la persona che non desidera la sottomissione. Nel carattere autoritario l'attività si fonda su un sentimento di impotenza, che essa tende a vincere. In questo senso attività vuol dire agire in nome di qualcosa di superiore al proprio essere. Forse in nome di Dio, del passato, della natura o del dovere, ma mai in nome del futuro, di ciò che deve ancora nascere, di ciò che non ha potere o della vita come tale. Il carattere autoritario ricava la sua forza dall'agire appoggiandosi ad un potere superiore. Questo potere non può mai essere attaccato o mutato. Ai suoi occhi la mancanza di potere è sempre un segno infallibile di colpa e inferiorità, e se l'autorità in cui crede rivela segni di debolezza, il suo amore e rispetto si convertono in disprezzo e odio. Gli manca una «capacità offensiva», che possa attaccare il potere costituito senza prima sentirsi servo di un altro e più forte potere. Il coraggio del carattere autoritario è in definitiva il coraggio di sopportare quello che il fato, o il suo rappresentante personale, o il «capo», possono avergli decretato in sorte. Soffrire senza lamentarsi è la sua più alta virtù: non il coraggio di cercare di porre fine alla sofferenza, o almeno di diminuirla. L'eroismo del carattere autoritario sta nel sottomettersi, non nel mutare il destino. Egli ha fede nell'autorità finché questa è forte e comanda. La sua fede si fonda in definitiva sui suoi dubbi, e costituisce un tentativo di compensarli. Ma egli non ha fede, se per fede intendiamo la ferma fiducia nella realizzazione di ciò che ora esiste solo come potenzialità. La filosofia autoritaria è essenzialmente relativista e nichilista, ad onta del fatto che spesso pretende così violentemente di aver vinto il relativismo e ad onta della sua ostentazione di attivismo. Essa ha radici in un sentimento di estrema disperazione, nella completa mancanza di fede, che conduce al nichilismo, alla negazione della vita (9). Nella filosofia autoritaria non esiste il concetto di eguaglianza. A volte il carattere autoritario può usare la parola eguaglianza convenzionalmente, o perché gli è utile. Ma non ha un significato o un peso reale per lui, perché riguarda qualcosa che sta fuori del raggio della sua esperienza emotiva. Ai suoi occhi il mondo si compone di individui forniti di potere e di individui che ne sono privi, di superiori e di inferiori. Le sue tendenze sado-masochistiche gli consentono solo l'esperienza del dominio o della sottomissione, mai della solidarietà. Le differenze, siano di sesso o di razza, sono per lui necessariamente segni di superiorità o di inferiorità. Una differenza che non abbia questo connotato è per lui inconcepibile. La descrizione delle tendenze sado-masochistiche e del carattere autoritario si riferisce alle forme più estreme di impotenza, e quindi alle forme più estreme di fuga mediante il rapporto simbolico con l'oggetto della venerazione o del dominio. Benché queste tendenze masochistiche siano comuni, possiamo considerare come tipicamente sado-masochisti solo certi individui e certi gruppi sociali. Esiste tuttavia una forma attenuata di dipendenza che è così diffusa nella nostra civiltà da sembrare assente solo in casi eccezionali. Questa dipendenza non ha i caratteri pericolosi e appassionati del sado-masochismo, ma è abbastanza importante perché il nostro esame non la trascuri. Alludo al tipo di persona la cui vita intera è sottilmente collegata ad un qualche potere esterno (10). Non c'è nulla che faccia, senta o pensi che non si riferisca in qualche modo a questo potere. Queste persone pretendono di essere protette da «lui», vogliono essere curate da lui, lo rendono anche responsabile di ogni possibile risultato delle loro azioni. Spesso la persona non è affatto consapevole di questa sua dipendenza. E anche se ha la vaga consapevolezza di essere in qualche modo dipendente, la persona o il potere verso cui si sente dipendente spesso resta nebuloso. Non ha un'immagine precisa di questo potere. Il suo carattere essenziale è di rappresentare una certa funzione, e precisamente di proteggere, di aiutare e di far progredire l'individuo, di esser con lui e di non lasciarlo mai solo. L'«X» che ha queste caratteristiche può essere definito il «"protettore magico"». Spesso, naturalmente, il «protettore magico» è personificato: viene concepito come Dio, come principio, o come reali persone, quali un genitore, il marito, la moglie o un superiore. E' importante notare che quando le persone reali assumono il ruolo di protettore magico vengono dotate di qualità magiche, e l'importanza che hanno deriva dal fatto di essere la personificazione del protettore magico. Questo processo di personificazione del protettore magico si osserva spesso in quello che si chiama «innamorarsi». Una persona che si trova in questo tipo di rapporto con il protettore magico cerca di trovarlo in carne ed ossa. Per una qualche ragione spesso rafforzata da desideri sessuali -una determinata persona assume ai suoi occhi queste qualità magiche, e allora egli ne fa l'essere sul quale impernia tutta la sua vita e da cui dipende. Il fatto che l'altra persona non di rado faccia la stessa cosa con lui non modifica il quadro. Contribuisce solo a rafforzare l'impressione che questo rapporto è di «vero amore». Questo bisogno del protettore magico può essere studiato in condizioni quasi sperimentali nella procedura psicanalitica. Spesso la persona analizzata concepisce un profondo attaccamento per lo psicanalista e tutta la sua vita, le sue azioni, i suoi pensieri e sentimenti si rifanno all'analista. Coscientemente o inconsciamente l'analizzato si chiede: sarebbe (l'analista) contento di questo, scontento di quello, d'accordo su questo, mi sgriderebbe per quello? Nei rapporti d'amore il fatto che si scelga questa o quella persona come "partner" sta a comprovare che questa particolare persona viene amata proprio perché è «lei»; ma nella situazione psicanalitica questa illusione non può reggersi. I tipi più diversi di persone concepiscono gli stessi sentimenti verso i tipi più diversi di psicanalisti. Il rapporto sembra d'amore; spesso è accompagnato da desideri sessuali; e tuttavia è fondamentalmente un rapporto con il protettore magico personificato, un ruolo che ovviamente uno psicanalista, come certe altre persone che hanno la stessa autorità (medici, preti, insegnanti), è in grado di sostenere soddisfacentemente agli occhi della persona che e in cerca del protettore magico personificato. Le ragioni per cui una persona è legata a un protettore magico sono in teoria le stesse che abbiamo individuato alla radice degli impulsi simbiotici: l'incapacità di reggersi da soli e di esprimere pienamente le proprie possibilità personali. Nei casi di sado-masochismo questa incapacità porta alla tendenza a disfarsi del proprio io individuale mediante la dipendenza dal protettore magico: nella forma attenuata di dipendenza, di cui sto parlando, porta soltanto ad un desiderio di guida e di protezione. L'intensità del rapporto col protettore magico è inversamente proporzionale alla capacità di esprimere spontaneamente le proprie possibilità intellettuali, emotive e fisiche. In altre parole, si spera di ottenere tutto quel che si desidera dalla vita non dalle proprie azioni, ma dal protettore magico. In questo modo il centro della vita si sposta dalla propria persona al protettore magico e alle sue personificazioni. La questione allora non è più come vivere, ma come manipolare «lui» per non perderlo, e come fargli fare quello che si vuole, anche per renderlo responsabile di ciò di cui si è personalmente responsabili. Nei casi più estremi tutta la vita della persona consiste quasi esclusivamente in tentativi di manipolare «lui», il protettore magico. Le persone differiscono quanto ai mezzi impiegati: per talune il mezzo principale di manipolazione è l'obbedienza, per altre la «bontà», per altre ancora il soffrire. Scopriamo allora che non c'è sentimento, pensiero o emozione che non sia perlomeno colorito dal bisogno di manipolare «lui»; in altre parole, che nessun atto psichico è veramente spontaneo o libero. Questa dipendenza, che sorge da, e conduce nel tempo stesso a un blocco della spontaneità, non dà solo una certa sicurezza, ma sfocia anche in un sentimento di dolcezza e schiavitù. Se questo è il caso, la persona che dipende dal protettore magico si sente anche, benché spesso inconsciamente, resa schiava e, in misura maggiore o minore, gli si ribella. Questo atteggiamento di ribellione proprio contro la persona in cui si sono riposte le proprie speranze di sicurezza e felicità crea nuovi conflitti. Deve esser soppresso se non si vuole perderla, ma il latente antagonismo minaccia costantemente la sicurezza cercata nel rapporto. Se il protettore magico viene personificato in una persona reale, la delusione che viene provata quando questa si dimostra inferiore alle aspettative -e poiché le aspettative sono illusorie, qualsiasi persona reale è inevitabilmente deludente -sommata al risentimento derivante dal proprio asservimento ad essa, provoca continui conflitti. Questi ultimi talvolta cessano solo con la separazione, che di solito è seguita dalla scelta di un altro oggetto da cui si aspetta la realizzazione di tutte le speranze legate al protettore magico. Se questo rapporto si dimostra anch'esso un fallimento, può esser rotto di nuovo, oppure la persona interessata può decidere che questa è la vita, e si rassegna. Quello che non riconosce è il fatto che il suo fallimento non è il risultato del non aver scelto la persona magica giusta; è il risultato diretto dell'aver cercato di ottenere con la manipolazione di una forza magica ciò che solo l'individuo può conseguire da sé con la sua attività spontanea. Il fenomeno della dipendenza a vita da un oggetto esterno è stato individuato da Freud. Egli lo ha interpretato come la continuazione per tutta la vita dei primi legami, fondamentalmente sessuali, con i genitori. In realtà il fenomeno lo ha colpito a tal punto da indurlo ad affermare che il complesso di Edipo è il nucleo di tutte le nevrosi, e nel completo superamento del complesso di Edipo egli ha indicato il principale problema dello sviluppo normale. Identificando nel complesso di Edipo il fenomeno centrale della psicologia, Freud ha fatto una delle scoperte più importanti in questo campo. Ma non è riuscito ad interpretarla in modo adeguato; perché, sebbene il fenomeno dell'attrazione sessuale tra genitori e figli esista davvero, e sebbene i conflitti che ne derivano talvolta contribuiscano allo sviluppo della nevrosi, né l'attrazione sessuale né i conflitti che ne derivano sono decisivi nella fissazione dei figli sui genitori. Finché il bambino è piccolo, è del tutto naturale che dipenda dai genitori, ma questa dipendenza non implica necessariamente una restrizione della sua spontaneità. Tuttavia, quando i genitori, operando come gli agenti della società, cominciano a sopprimere la spontaneità e l'indipendenza del bambino, questi, crescendo, si sente sempre più incapace di reggersi da solo; perciò cerca il protettore magico e spesso fa dei genitori la personificazione di «lui». In seguito l'individuo trasferisce questi sentimenti su qualcun altro, un marito o uno psicanalista. Di nuovo il bisogno di essere in rapporto con un tale simbolo di autorità non è causato dalla persistenza dell'attrazione sessuale originaria per uno dei genitori, ma dal soffocamento dell'espansività e della spontaneità del bambino e dalla conseguente ansietà. Ciò che possiamo osservare nel nucleo di ogni nevrosi, come anche nello sviluppo normale, è la lotta per la libertà e per l'indipendenza. In molte persone normali questa lotta è sfociata in una rinuncia totale al proprio io individuale, sicché sono ben adattate e ritenute normali. La persona nevrotica è quella che non ha rinunciato a combattere contro la totale sottomissione, ma che nello stesso tempo è rimasta legata alla figura del protettore magico, qualunque forma questo possa aver assunto. La sua nevrosi è sempre da intendersi come un tentativo, e sostanzialmente come un tentativo non riuscito, di risolvere il conflitto tra questa fondamentale dipendenza e l'aspirazione alla libertà.

 

 

2. Distruttività.
Abbiamo già detto che le tendenze sado-masochistiche debbono esser distinte dalla distruttività, benché per lo più le due cose siano compresenti. La distruttività è diversa, perché non mira ad una simbiosi attiva o passiva, ma all'eliminazione del suo oggetto. Ma anch'essa è radicata nell'incapacità di sopportare l'impotenza e l'isolamento. Posso sfuggire al sentimento della mia impotenza rispetto al mondo esterno distruggendolo. Naturalmente, se riesco a rimuoverlo resto solo e isolato, ma il mio è uno splendido isolamento, in cui non posso venir schiacciato dal potere soverchiante degli oggetti esterni. La distruzione del mondo è l'ultimo, quasi disperato tentativo di salvarsi dal venirne schiacciato. Il sadismo mira ad incorporare l'oggetto, la distruttività a rimuoverlo. Il sadismo tende a rafforzare l'individuo atomizzato mediante il dominio sugli altri; la distruttività, eliminando ogni minaccia dall'esterno.

Chiunque osservi i rapporti tra le persone esistenti nella nostra società non può non restar colpito dalla quantità di distruttività presente dappertutto. In massima parte non è cosciente come tale, ma viene razionalizzata in vari modi. In realtà virtualmente non c'è nulla che non venga usato come razionalizzazione della distruttività. L'amore, il dovere, la coscienza, il patriottismo sono stati usati e vengono usati come maschere per distruggere gli altri o se stessi. E' necessario però distinguere tra due diversi tipi di tendenza distruttiva. Ci sono tendenze distruttive che derivano da una situazione specifica, come reazione ad attacchi alla vita e alla integrità propria o di altri, o a idee con cui ci si identifica. Questo tipo di distruttività accompagna naturalmente e necessariamente l'affermazione della vita. Tuttavia la distruttività di cui ci stiamo occupando non è questa ostilità razionale -o si potrebbe anche dire «reattiva» -bensì una tendenza costantemente latente in una persona, e che, per così dire, attende solo l'occasione per esprimersi. Se non c'è alcuna «ragione» obiettiva per l'espressione della distruttività, consideriamo la persona mentalmente o emotivamente malata (benché la persona stessa di solito vi costruirà sopra una qualche razionalizzazione). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli impulsi distruttivi vengono razionalizzati in modo che almeno qualche altra persona o un intero gruppo sociale possano condividere la razionalizzazione e quindi la facciano apparire «realistica» al membro di tale gruppo. Ma gli oggetti della distruttività irrazionale e le particolari ragioni per cui vengono scelti hanno solo un'importanza secondaria; gli impulsi distruttivi sono una passione che sta dentro la persona, e riescono sempre a trovare qualche oggetto. Se per qualche ragione gli altri non possono diventare l'oggetto della distruttività di un individuo, facilmente sarà il suo io a diventarlo. Quando ciò accade in misura rimarchevole il risultato spesso è la malattia fisica, e talvolta può esser tentato anche il suicidio. Abbiamo affermato che la distruttività è una fuga dall'intollerabile sentimento di impotenza, poiché mira alla rimozione di tutti gli oggetti con cui l'individuo deve mettersi a confronto. Ma considerato l'immenso ruolo che le tendenze distruttive svolgono nel comportamento degli uomini, questa interpretazione non sembra fornire una spiegazione sufficiente; le stesse condizioni di isolamento e impotenza sono responsabili di due altre fonti di distruttività: l'ansietà e il soffocamento della vita. Riguardo al ruolo dell'ansietà non è necessario dire molto. Ogni minaccia contro gli interessi vitali (materiali ed emotivi) crea ansietà, e le tendenze distruttive sono la reazione più comune a questa ansietà (11). La minaccia può venire in una particolare situazione da particolari persone. In tal caso la distruttività si manifesta contro queste persone. Può trattarsi anche di un'ansietà costante -benché non necessariamente cosciente derivante da un sentimento parimenti costante di esser minacciato dal mondo esterno. Questo tipo di ansietà costante deriva dalla situazione dell'individuo isolato e impotente, e costituisce un'altra fonte della riserva di distruttività che si sviluppa in lui.

Un altro importante risultato della stessa situazione di fondo è quello che ho appena chiamato il soffocamento della vita. All'individuo isolato e impotente è impedito di realizzare le sue possibilità sessuali, emotive e intellettuali. Gli mancano la sicurezza interiore e la spontaneità che condizionano una siffatta realizzazione. Questo ostacolo interno viene rafforzato da tabù sociali relativi al piacere e alla felicità, come quelli che si riscontrano nella religione e nei costumi della classe media dalla Riforma in poi.

Oggigiorno il tabù esterno è praticamente scomparso, ma il blocco interno e rimasto forte, nonostante l'approvazione cosciente del piacere dei sensi. Questo problema del rapporto tra il soffocamento della vita e la distruttività è stato sfiorato da Freud, e nell'esaminare la sua teoria avremo modo di esprimere alcune nostre considerazioni. Freud si è reso conto di aver trascurato il peso e l'importanza degli impulsi distruttivi nella sua tesi originaria, secondo cui l'impulso sessuale e l'istinto di autoconservazione erano le due motivazioni fondamentali del comportamento umano. In seguito, ritenendo che le tendenze distruttive abbiano la stessa importanza di quelle sessuali, egli è passato a sostenere che ci sono due tendenze fondamentali nell'uomo: un istinto rivolto verso la vita, che più o meno si identifica con la libido sessuale, e un istinto di morte rivolto alla distruzione della vita stessa. Egli ha affermato che quest'ultimo può unirsi all'energia sessuale, e in questo caso indirizzarsi o contro se stessi o contro oggetti esterni. Inoltre ha affermato che l'istinto di morte ha radici in un fatto biologico presente in tutti gli organismi viventi, e che perciò è parte necessaria e inalterabile della vita. La tesi dell'istinto di morte è soddisfacente nei limiti in cui prende in considerazione l'intero peso delle tendenze distruttive, che nelle precedenti teorie di Freud era stato trascurato, ma non è soddisfacente nella misura in cui ricorre a una spiegazione biologica che non tiene abbastanza conto del fatto che la misura della distruttività varia enormemente da individuo a individuo, e da gruppo sociale a gruppo sociale. Se le tesi di Freud fossero giuste, dovremmo concludere che la misura di distruttività contro gli altri o contro se stessi è più o meno costante. Ma l'osservazione della realtà ci dimostra proprio il contrario. Il peso della distruttività nella nostra civiltà non solo varia moltissimo da individuo a individuo, ma presenta un peso diverso a seconda dei gruppi sociali che si considerano. Così, ad esempio, il peso della distruttività nel carattere dei membri della classe media inferiore europea è sicuramente molto maggiore di quello che si riscontra nella classe operaia e nelle classi superiori. Gli studi antropologici ci hanno fatto conoscere popoli caratterizzati da una misura particolarmente grande di distruttività, laddove altri popoli rivelano una mancanza di distruttività egualmente notevoli, si tratti di ostilità contro gli altri o di ostilità contro se stessi. Appare chiaro che qualsiasi tentativo di comprendere le radici della distruttività deve partire proprio dall'osservazione di queste differenze, e passare alla questione se ci siano altri fattori di differenziazione osservabili, e se questi fattori non possano spiegare le differenze nella misura della distruttività. Questo problema presenta difficoltà tali da richiedere un esame particolareggiato, che qui non ci è possibile condurre. Vorrei però indicare la direzione in cui mi sembra che vada ricercata la risposta. Sembrerebbe che la misura di distruttività riscontrabile negli individui sia proporzionale alla misura in cui viene stroncata la espansività della vita. Con ciò non vogliamo riferirci alle frustrazioni individuali di questo o di quel desiderio istintivo, ma al soffocamento della vita nel suo complesso, al blocco della spontaneità dello sviluppo e dell'espressione delle facoltà sensuali, emotive e intellettuali dell'individuo. La vita ha un proprio dinamismo interno; tende a crescere, ad essere espressa, ad essere vissuta. Per quello che possiamo capire, se questa tendenza viene soffocata l'energia rivolta verso la vita subisce un processo di decomposizione, e si converte in energia rivolta verso la distruzione. In altre parole, l'impulso alla vita e l'impulso alla distruzione non sono tra loro indipendenti, ma si trovano in un'interdipendenza rovesciata. Quanto più l'impulso alla vita vien soffocato, tanto più forte è l'istinto alla distruzione; quanto più la vita viene realizzata, tanto minore è la forza della distruttività. La distruttività è il risultato della vita non vissuta. Quegli individui e quelle condizioni sociali, che portano alla soppressione della vita, producono la passione per la distruzione che costituisce, per così dire, la riserva da cui vengono alimentate le specifiche tendenze ostili, contro gli altri o contro se stessi. Occorre appena notare quanto sia importante non solo comprendere il ruolo dinamico della distruttività nel processo sociale, ma anche quali siano le specifiche condizioni che ne determinano l'intensità. Abbiamo già notato l'ostilità che pervadeva la classe media all'epoca della Riforma, e che ha trovato espressione in certi concetti religiosi del protestantesimo, e soprattutto nel suo spirito ascetico e nell'immagine calvinista di un Dio spietato che si era compiaciuto di condannare una parte del genere umano alla dannazione eterna senza alcuna colpa da parte sua. Allora come del resto in seguito, la classe media esprimeva la sua ostilità soprattutto sotto la maschera di un'indignazione morale che era la razionalizzazione di una profonda invidia verso quelli che avevano i mezzi per godersi la vita. Nel mondo contemporaneo la distruttività della classe media inferiore è stata un fattore importante nell'ascesa del nazismo, il quale si è appellato a queste tendenze distruttive usandole nella battaglia contro i suoi nemici. La radice della distruttività della classe media inferiore è proprio la stessa che abbiamo indicato nel corso del nostro esame: l'isolamento dell'individuo e la soppressione della sua espansività, l'uno e l'altra assai più caratteristici della classe media inferiore che delle classi poste al di sopra e al di sotto di essa.

 

 

3. Conformismo da automi.
Nei meccanismi di cui ci stiamo occupando l'individuo supera il sentimento di irrilevanza rispetto al potere soverchiante del mondo esterno, o rinunciando alla propria integrità personale, o distruggendo gli altri affinché il mondo cessi di essere minaccioso. Altri meccanismi di fuga sono il ritiro dal mondo spinto a un punto tale da far perdere a quest'ultimo il suo carattere minaccioso (il quadro che osserviamo in certi stati psicotici) (12); e il gonfiamento psicologico di se stessi, portato a un punto tale da far diventare piccolo al confronto il mondo esterno. Questi meccanismi di fuga, quantunque importanti per la psicologia individuale, hanno un'importanza secondaria dal punto di vista sociale. Perciò non intendo discuterli qui, ma mi accingo invece a considerare un altro meccanismo di fuga che è della massima importanza sociale. Questo particolare meccanismo è la soluzione che la maggioranza degli individui normali trova nella società moderna. Per dirla in breve, l'individuo cessa di essere se stesso; adotta in tutto e per tutto il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali; e perciò diventa esattamente come tutti gli altri, e come questi pretendono che egli sia. Il divario tra «me» e il mondo scompare, e con esso la paura cosciente della solitudine e dell'impotenza. Questo meccanismo può essere paragonato alla colorazione protettiva che assumono certi animali. Somigliano talmente al loro ambiente che li si può appena distinguere. La persona che rinuncia al suo io individuale, e che diventa un automa, identico a milioni di altri automi che la circondano, non deve più sentirsi sola e ansiosa. Ma il prezzo che paga è alto; è la perdita del suo io. La tesi secondo cui il modo «normale» di superare la solitudine è quello di diventare un automa è in contrasto con una delle idee sull'uomo più diffuse nella nostra cultura. Si ritiene che la maggioranza di noi sia composta di individui liberi di pensare, sentire, agire come gli garba. Naturalmente questa non è solo l'opinione generale sull'individualismo moderno, ma anche ogni individuo crede sinceramente di essere «se stesso», ed è convinto che i suoi pensieri, sentimenti, desideri siano «suoi». E tuttavia, pur essendoci certamente dei veri individui tra di noi, nella maggior parte dei casi questa convinzione è un'illusione, ed è anzi una illusione pericolosa, giacché impedisce l'eliminazione di quelle condizioni che creano questo stato di cose. Ci troviamo di fronte qui ad uno dei problemi più fondamentali della psicologia, che possiamo porre più rapidamente con una serie di domande. Che cos'è l'io? Qual è la natura di quegli atti che danno solo l'illusione di essere gli atti della persona? Che cos'è la spontaneità? Che cos'è un atto mentale originale? Infine, che rapporto ha tutto questo con la libertà? In questo capitolo cercheremo di dimostrare in che modo i sentimenti e i pensieri possano essere indotti dall'esterno, e tuttavia essere soggettivamente avvertiti come propri; e in che modo i propri sentimenti e pensieri possano venir repressi e quindi cessare di far parte del proprio io. Continueremo l'esame delle questioni qui sollevate nel capitolo «Libertà e democrazia». Cominciamo da un'analisi del significato di quell'esperienza la quale, espressa in parole, è «io sento», «io penso», «io voglio». Quando diciamo «io penso» sembra una dichiarazione chiara e priva di ambiguità. Pare che l'unica questione da chiarire sia quella se ciò che penso è giusto o sbagliato, e non se sono «io» o no a pensarlo. Tuttavia una concreta situazione sperimentale dimostra immediatamente che la risposta a questa domanda non è necessariamente quella che crediamo. Osserviamo un esperimento di ipnosi (13). Ecco il soggetto A che l'ipnotizzatore B manda in sonno ipnotico, suggerendogli che al risveglio dal sonno ipnotico sentirà la necessità di leggere un manoscritto che crederà di aver portato con sé, che lo cercherà e non lo troverà, che allora crederà che un'altra persona, C, lo abbia rubato, che si arrabbierà molto con C; gli dice anche che dimenticherà che tutto questo era un suggerimento datogli durante il sonno ipnotico. Si deve aggiungere che C è una persona verso la quale il soggetto non ha mai provato ira, e non ha alcuna ragione di provarla nemmeno in questa situazione; e inoltre che egli in realtà non ha portato con sé alcun manoscritto. Che cosa accade? A si sveglia e, dopo una breve conversazione su un qualsiasi argomento, dice: «A proposito, questo mi ricorda qualcosa che ho scritto nel mio manoscritto. Ve lo leggerò». Si guarda attorno, non lo trova e poi si rivolge a C, dicendo che forse l'ha preso lui; eccitandosi sempre di più, quando C respinge l'insinuazione, alla fine ha uno scoppio d'ira e accusa esplicitamente C di aver rubato il manoscritto. Si spinge oltre. Elenca delle ragioni per cui sembrerebbe plausibile che C sia il ladro. Ha sentito dire da altri, sostiene, che C ha urgente bisogno del manoscritto, che aveva una buona occasione per impadronirsene, e via dicendo. Lo sentiamo non solo accusare C, ma fabbricare numerose «razionalizzazioni» che debbono far sembrare plausibile la sua accusa (naturalmente non ce n'è nemmeno una di vera, e A non ci avrebbe mai pensato prima). Immaginiamo che un'altra persona entri a questo punto nella stanza. Egli non avrebbe alcun dubbio che A dice quello che pensa e sente; si domanderebbe solo se la sua accusa è giusta o no, cioè se il contenuto dei pensieri di A corrisponde o no ai fatti reali. Invece, a noi che abbiamo assistito all'intera vicenda sin dall'inizio, non interessa chiederci se l'accusa è vera. Sappiamo che questo non è il problema, perché siamo certi che quello che A sente e pensa ora non sono i suoi pensieri e sentimenti, ma elementi estranei che un'altra persona gli ha messo in testa. La conclusione, a cui la persona entrata a metà dell'esperimento arriva, potrebbe essere pressappoco questa: «Ecco A, il quale indica chiaramente di pensare tutte queste cose. Sa lui meglio di tutti quello che pensa, e non c'è migliore testimonianza della sua parola su quello che prova. Ci sono quelle altre persone che dicono che i suoi pensieri gli sono stati sovraimposti e che sono elementi estranei che provengono dall'esterno. In tutta onestà, non posso dire chi abbia ragione; ognuno di loro può sbagliarsi. Forse, dato che sono due contro uno, è probabile che abbia ragione la maggioranza». Ma noi, che abbiamo assistito all'intero esperimento, non avremmo dubbi, e nemmeno il nuovo arrivato li avrebbe se assistesse ad altri esperimenti di ipnotismo. Si renderebbe conto allora che questo tipo di esperimento può essere ripetuto innumerevoli volte con persone diverse e contenuti diversi. L'ipnotizzatore può suggerire che una patata cruda è un delizioso ananas, e il soggetto mangerà la patata con tutto il piacere associato al consumo di un ananas. Oppure può suggerire che il soggetto non può veder nulla, e questi sarà cieco. O ancora, che egli pensa che il mondo è piatto e non rotondo, e il soggetto sosterrà con calore che il mondo è piatto. Che cosa prova l'esperimento ipnotico, e soprattutto quello postipnotico? Prova che possiamo avere pensieri, sentimenti, desideri e persino sensazioni che soggettivamente avvertiamo come nostri; e che tuttavia sono stati immessi in noi dall'esterno, sono fondamentalmente estranei e non sono davvero quello che pensiamo, sentiamo, e così via. Che cosa rivela lo specifico esperimento di ipnotismo da cui abbiamo preso le mosse?

Primo, che il soggetto "vuole" qualcosa, ossia leggere il suo manoscritto. Secondo, che egli "pensa" qualcosa, e cioè che C lo ha preso. Terzo, che egli "sente" qualcosa, e cioè ira contro C. Abbiamo visto che tutti e tre gli atti mentali -il suo impulso volitivo, il suo pensiero, il suo sentimento -non sono suoi nel senso di essere il risultato della sua attività mentale; che essi non hanno origine in lui, ma gli vengono inculcati dall'esterno e vengono soggettivamente avvertiti come se fossero suoi. Egli esprime vari pensieri che non gli sono stati inculcati durante lo stato di ipnosi, e cioè quelle «razionalizzazioni» con cui «spiega» la sua convinzione che C ha rubato il manoscritto. Ciò nonostante, questi pensieri sono suoi soltanto in senso formale. Benché sembrino spiegare il sospetto, sappiamo che il sospetto li precede e che i pensieri razionalizzatori sono inventati solo per rendere plausibile il sentimento; che essi non sono davvero esplicatori, ma vengono "post factum". Abbiamo preso le mosse dall'esperimento ipnotico perché dimostra nel modo più infallibile che, sebbene si possa essere convinti della spontaneità dei propri atti mentali, questi in realtà derivano dall'influenza di un'altra persona sotto particolari condizioni. Tuttavia il fenomeno non è riscontrabile solo nella situazione ipnotica. Il fatto che il contenuto del nostro pensiero, sentimento, volere, sia indotto dall'esterno e non sia genuino è talmente frequente da dare l'impressione che questi pseudoatti siano la regola, e che gli atti mentali genuini o nativi siano le eccezioni. Lo pseudo-carattere che può assumere il pensiero è più noto di quanto non lo sia il medesimo fenomeno allorché avviene nella sfera della volontà e del sentimento. E' meglio quindi cominciare dall'esame della differenza tra il pensiero genuino e lo pseudo-pensiero. Supponiamo di essere su un'isola dove ci siano pescatori e villeggianti di città. Vogliamo sapere che tempo farà, e lo chiediamo a un pescatore e a due villeggianti, sapendo che tutti e tre hanno ascoltato alla radio le previsioni del tempo. Il pescatore, con la sua lunga esperienza e preoccupazione per il problema del tempo, comincerà a pensarci su, se non ci aveva pensato già prima che lo interrogassimo. Sapendo il significato che hanno la direzione del vento, la temperatura, l'umidità, eccetera, ai fini della previsione del tempo valuterà i diversi fattori secondo la loro rispettiva importanza e perverrà a un giudizio più o meno preciso. Probabilmente ricorderà la previsione della radio e la citerà in appoggio alla sua opinione, o come opinione contraria; se è contraria, forse starà ancor più attento a soppesare le ragioni della sua opinione; ma, e "questo" è il punto essenziale, è la "sua" opinione, il risultato del "suo" pensiero, che egli ci dice. Il primo dei due villeggianti è un uomo che, quando gli chiediamo la sua opinione, sa di non capire molto del tempo, né prova alcun bisogno di capirci di più. Si limita a rispondere: «Non posso giudicare. Tutto quel che so è che la previsione della radio è così e colà». L'altro uomo a cui poniamo la domanda è un tipo diverso. Crede di saper moltissimo sul tempo, benché in realtà ne sappia poco. E' il tipo di persona che ritiene di dover essere in grado di rispondere ad ogni domanda. Ci pensa su per un minuto e poi ci dice la «sua» opinione, che in realtà è identica alla previsione della radio. Gli chiediamo su quali basi si sia formata quell'opinione, ed egli ci dice di esserci arrivato tenendo conto della direzione del vento, della temperatura, dell'umidità, e via dicendo. Il comportamento di quest'uomo appare, visto dall'esterno, identico a quello del pescatore. Tuttavia, se lo analizziamo più da vicino, risulta evidente che egli ha ascoltato la previsione della radio e l'ha accettata. Tuttavia, sentendosi costretto ad avere una propria opinione in proposito, dimentica che sta semplicemente ripetendo l'opinione autorevole di qualcun altro, e ritiene di esser giunto a quest'opinione mediante il suo pensiero. Egli ritiene che le ragioni che ci fornisce abbiano preceduto la sua opinione, ma se esaminiamo queste ragioni ci rendiamo conto che se egli non si fosse formato un'opinione in precedenza, esse non avrebbero mai potuto portarlo ad una conclusione riguardo al tempo. In realtà sono soltanto pseudo-ragioni, che hanno la funzione di far sembrare la sua opinione il risultato del suo pensiero. Ha l'illusione di esser arrivato a una sua opinione, ma in realtà si è limitato ad adottare l'opinione di un'autorità, senza rendersi conto di questo processo. Potrebbe benissimo darsi che sul tempo abbia ragione lui e torto il pescatore, ma in questo caso non sarebbe la «sua» opinione ad esser giusta, mentre il pescatore avrebbe fatto un errore per conto "suo". Lo stesso fenomeno può esser osservato studiando le opinioni delle persone su certi argomenti: sulla politica, ad esempio. Proviamo a chiedere a un lettore medio di giornale che cosa pensa di una certa questione politica. Ci darà come «sua» opinione un resoconto più o meno esatto di ciò che ha letto, e tuttavia -e questo è il punto essenziale -egli ritiene che quel che sta dicendo sia il risultato del suo pensiero. Se vive in una piccola comunità dove le opinioni politiche vengono tramandate di padre in figlio, la «sua» opinione probabilmente è governata assai più di quanto egli potrebbe credere dalla perdurante autorità di un genitore severo. L'opinione di un altro lettore può essere il risultato dell'imbarazzo di un momento, della paura di esser giudicato non informato, e quindi il «pensiero» è in sostanza uno schermo e non il risultato di una combinazione naturale di esperienza, desiderio e conoscenza. Lo stesso fenomeno si riscontra nei giudizi estetici. La persona media che va ad un museo, e guarda un quadro di un famoso pittore, di Rembrandt poniamo, lo giudica un quadro bello e imponente. Se analizziamo il suo giudizio, scopriamo che egli non prova alcuna particolare reazione interiore al quadro, ma ritiene che sia bello perché sa che è tenuto a giudicarlo tale. Lo stesso fenomeno è evidente nel giudizio della gente sulla musica ed anche nell'atto stesso della percezione. Molte persone, guardando un famoso paesaggio, riproducono in realtà le immagini di esso che hanno visto numerose volte, magari sulle cartoline postali, e pur credendo di esser «loro» a vedere il paesaggio, davanti ai loro occhi hanno proprio queste immagini. Oppure, nell'assistere a un incidente che avviene in loro presenza, vedono o sentono la situazione come se la leggessero sul giornale. Infatti per molte persone un'esperienza che hanno avuto, uno spettacolo artistico o una riunione politica a cui hanno assistito, diventano reali solo dopo che ne hanno letto sul giornale. La soppressione del pensiero critico di solito comincia presto. Una bambina di cinque anni, ad esempio, può riconoscere l'insincerità della madre, o rendendosi conto sottilmente che la madre, pur parlando continuamente di amore e benevolenza, in realtà è fredda ed egoista, oppure notando il crudo contrasto che c'è tra il fatto che la madre continuamente esalta il proprio alto livello morale, e il fatto che essa in realtà ha una relazione con un altro uomo. La bambina avverte la discrepanza: il suo senso di giustizia e di verità è ferito, e tuttavia, dal momento che dipende dalla madre, che non permetterebbe alcuna critica, e dato che, supponiamo, ha un padre debole su cui non può fare affidamento, è costretta a sopprimere la sua intuizione critica. Ben presto non noterà più l'insincerità o l'infedeltà della madre. Perderà la capacità di pensare criticamente, dal momento che sembra pericoloso e inutile esercitarla. D'altronde alla bambina viene inculcato il modello del dovere di credere che la madre è sincera e per bene, e che il matrimonio dei genitori è felice, e sarà pronta ad accettare questa idea come se fosse sua. In tutti questi casi di pseudopensiero, il problema è di capire se il pensiero sia il risultato della propria attività mentale; e non quello di stabilire se il contenuto del pensiero sia giusto o meno. Come abbiamo già notato nel caso del pescatore che fa una previsione del tempo, il «suo» pensiero può persino essere errato, e quello di colui che si limita a ripetere un pensiero proveniente dall'esterno può esser giusto. Lo pseudopensiero può esser anche perfettamente logico e razionale. Il suo carattere spurio non si manifesta necessariamente in elementi illogici. Ciò può essere studiato nelle razionalizzazioni che tendono a spiegare un'azione o un sentimento razionalmente e realisticamente, benché in realtà siano determinati da fattori irrazionali e soggettivi. La razionalizzazione può essere in contrasto con i fatti o con le regole della logica. Ma spesso in sé sarà logica e razionale; e quindi la sua irrazionalità sta solo nel fatto che non è il movente reale dell'azione che pretende di aver causato. Un esempio di razionalizzazione irrazionale viene offerto in una nota barzelletta.

Una persona che si era fatta prestare un barattolo di vetro da un vicino, e che l'aveva rotto, invitata a restituirlo, ha così risposto: «In primo luogo, te l'ho già restituito; in secondo luogo, non te l'ho mai chiesto in prestito; e in terzo luogo, era già rotto quando me l'hai dato». Abbiamo un esempio di razionalizzazione «razionale» quando una persona, A, che si trova in una situazione di difficoltà economica, chiede a un parente, B, di prestarle una somma di denaro. B rifiuta e dice che lo fa perché, prestandole del denaro, non farebbe che favorire le inclinazioni di A a comportarsi da irresponsabile e ad appoggiarsi agli altri. Ora questo ragionamento può essere perfettamente sensato, ma sarebbe non di meno una razionalizzazione, perché B non voleva dare i soldi ad A in ogni caso, e, pur ritenendo di esser mosso dalla preoccupazione per il bene di A, in realtà è mosso soltanto dalla propria avarizia. Perciò non possiamo sapere se ci troviamo di fronte ad una razionalizzazione limitandoci ad accertare la logica intrinseca dell'affermazione di un individuo, ma dobbiamo anche tener presente le motivazioni psicologiche che operano nella persona. La questione decisiva non è quel che si pensa, ma in che modo lo si pensa. Il pensiero che è frutto della riflessione attiva è sempre nuovo e originale; originale non necessariamente nel senso che altri non l'abbiano pensato prima, ma sempre nel senso che la persona che pensa ha usato il pensiero come uno strumento per scoprire qualcosa di nuovo nel mondo esterno o dentro di sé. Alle razionalizzazioni manca in definitiva questo tratto dello scoprire e del rivelare; esse si limitano a confermare il pregiudizio emotivo esistente nell'individuo. La razionalizzazione non è uno strumento per penetrare la realtà, ma un tentativo a posteriori di armonizzare i propri desideri con la realtà esistente . Nel sentimento, come nel pensiero, si deve distinguere tra il sentimento genuino, che ha origine in noi stessi, e lo pseudosentimento, che in realtà non è nostro, anche se noi crediamo che lo sia. Prendiamo un esempio tratto dalla vita quotidiana, che è tipico dello pseudo-carattere dei nostri sentimenti nei contatti con gli altri. Osserviamo un uomo che partecipa a un ricevimento. E' allegro. ride, conversa amichevolmente, e in genere sembra assai felice e contento. Congedandosi, sorride amichevolmente nel dire che si è divertito moltissimo. La porta si chiude dietro di lui: e questo è il momento in cui lo osserviamo attentamente. Nel suo viso si nota un repentino mutamento. Il sorriso è scomparso, e naturalmente di questo non c'è da meravigliarsi, dato che ora è solo e non ha niente o nessuno con sé che lo faccia sorridere. Ma il cambiamento di cui sto parlando è qualcosa di più della semplice scomparsa del sorriso. Sul suo viso appare un'espressione di profonda tristezza, quasi di disperazione. Quest'espressione probabilmente dura solo pochi secondi, e poi il viso assume la consueta maschera; l'uomo entra nella sua automobile, pensa alla serata, si domanda se ha fatto una buona impressione e ha l'impressione di averla fatta. Ma «lui» era felice e allegro durante il ricevimento? La fuggevole espressione di tristezza e disperazione che abbiamo osservato sul suo viso è stata solo una reazione momentanea di scarsa importanza? E' quasi impossibile risolvere la questione senza sapere qualcosa di più dell'uomo. C'è una circostanza, però, che può fornire l'indizio che ci serve per comprendere il significato della sua allegria. Quella notte sogna di essere di nuovo nell'AEF, in guerra. Ha avuto l'ordine di passare le linee per penetrare nel quartier generale nemico. Indossa una divisa da ufficiale, che sembra tedesca, e d'un tratto si ritrova in mezzo ad un gruppo di ufficiali tedeschi. Si meraviglia che il quartier generale sia così comodo, e che tutti siano così benevoli con lui, ma ha sempre più paura che essi scoprano che è una spia. Uno dei giovani ufficiali, per il quale prova una particolare simpatia, gli si avvicina e dice: «So chi sei. Hai un solo modo per fuggire. Comincia a raccontare storielle, ridi e falli ridere tanto da attirare la loro attenzione sulle tue barzellette invece che su di te». E' molto grato di questo consiglio, e comincia a raccontare storielle e a ridere. Alla fine il suo atteggiamento scherzoso diventa talmente esagerato che gli altri ufficiali si fanno sospettosi, e più crescono i loro sospetti, più forzate appaiono le sue storielle. Infine vien preso da un tale terrore che non resiste più a rimanere lì, si alza di scatto dalla sua sedia e tutti lo inseguono. Poi la scena cambia ed egli è seduto in un tram che si ferma proprio davanti alla sua casa. Indossa un abito civile e si sente sollevato al pensiero che la guerra è finita. Immaginiamo di essere nella posizione di potergli chiedere il giorno dopo che cosa gli fanno venire in mente i singoli elementi del sogno. Riportiamo qui solo alcune delle associazioni, quelle più importanti per comprendere la questione principale che c'interessa. La divisa tedesca gli ricorda che al ricevimento c'era un ospite che parlava con un forte accento tedesco. Si ricorda di aver provato irritazione per quest'uomo perché non gli aveva prestato molta attenzione, benché lui (il protagonista del sogno) si fosse sforzato particolarmente di fargli una buona impressione. Rimuginando questi pensieri, ricorda anche che al ricevimento aveva avuto per un momento l'impressione che il tizio con l'accento tedesco lo avesse addirittura preso in giro e avesse sorriso irriverentemente ad una delle sue uscite. Pensando alla comoda stanza del quartier generale, gli viene in mente che somigliava alla stanza in cui si era seduto durante il ricevimento della sera prima, ma che le finestre sembravano quelle di una stanza in cui una volta era stato bocciato ad un esame. Sorpreso di questa associazione, ricorda anche che prima di andare al ricevimento era un po' preoccupato per l'impressione che avrebbe potuto fare; in parte perché il padrone di casa era molto influente presso un superiore, dalla cui opinione su di lui dipendeva in gran parte il suo successo professionale. Parlando di questo superiore, rivela che gli è antipatico, e che si sente umiliato di dovergli mostrare simpatia; e di aver sentito dell'antipatia anche per il padrone di casa, pur non rendendosene quasi conto. Un'altra delle sue associazioni è il fatto d'aver raccontato un episodio comico su di un calvo, e di essersi poi un po' preoccupato di aver potuto ferire il suo ospite, che era anche lui quasi calvo. Il tram gli sembra strano, perché sembrava che non ci fossero binari. Mentre ne parla ricorda il tram che prendeva da ragazzo per andare a scuola, e si sovviene di un altro dettaglio, e cioè di aver preso il posto del manovratore e di aver pensato che la guida di un tram era sorprendentemente poco diversa dalla guida di un'automobile. E' evidente che il tram rappresenta la sua automobile, con cui era tornato a casa, e che il suo rientro a casa gli ricordava il ritorno dalla scuola. A chiunque sia abituato a interpretare il significato dei sogni, l'implicazione di questo sogno, e le associazioni che lo accompagnano, saranno ormai chiare, benché solo una parte delle associazioni sia stata menzionata, e praticamente non sia stato detto nulla sulla struttura della personalità, sul passato e sulla situazione presente del soggetto. Il sogno rivela quale fosse il suo vero sentimento al ricevimento della sera prima. Era ansioso, temeva di non riuscire a fare l'impressione che desiderava fare, era irritato nei confronti di varie persone che credeva lo considerassero poco simpatico e intendessero metterlo in ridicolo. Il sogno dimostra che la sua allegria era un mezzo per nascondere la sua ansietà e la su a rabbia, e nello stesso tempo per propiziarsi quelli verso cui si sentiva adirato. La sua allegria era soltanto una maschera; non aveva origine in lui, ma copriva quello che «lui» realmente provava: paura e rabbia. Questo inoltre rendeva insicura tutta la sua situazione, sicché si sentiva come una spia in un accampamento nemico, che poteva essere scoperta da un momento all'altro. La fuggevole espressione di tristezza e disperazione, che abbiamo notato nella sua fisionomia dopo che si era congedato trova ora la sua conferma e anche la sua spiegazione: in quel momento il suo viso esprimeva quello che «egli» provava realmente, pur essendo qualcosa che in realtà non si rendeva conto di provare. Nel sogno il sentimento è descritto in modo drammatico ed esplicito, benché non si riferisca apertamente alle persone verso cui si dirigevano i suoi sentimenti. Quest'uomo non è un nevrotico, né si trovava in stato ipnotico; è un individuo abbastanza normale, che ha la stessa ansietà e lo stesso bisogno di approvazione che sono abituali nell'uomo moderno. Non si rendeva conto del fatto che la sua allegria non era «sua», dato che è talmente abituato a provare quello che gli altri si aspettano che provi in una particolare situazione, che solo eccezionalmente, piuttosto che in via normale, è in grado di rendersi conto che c'è qualcosa di «strano». Ciò che è vero per il pensiero e il sentimento è vero anche per la volontà. La maggior parte delle persone sono convinte che, finché un potere esterno non le costringe manifestamente a fare qualcosa, le decisioni che prendono sono loro; e che, se vogliono qualcosa, sono loro che lo vogliono. Ma questa è una delle grandi illusioni che nutriamo a proposito di noi stessi. Un gran numero delle decisioni che prendiamo non sono davvero nostre, ma ci vengono suggerite dall'esterno; siamo riusciti a persuaderci che siamo stati noi a prendere la decisione, mentre in realtà ci siamo uniformati alle aspettative degli altri, spinti dalla paura dell'isolamento e da minacce più dirette alla nostra vita, alla nostra libertà e al nostro benessere. Quando si chiede ai bambini se vogliono andare a scuola ogni giorno, e la loro risposta è «naturalmente», questa risposta è genuina? In molti casi certamente non lo è. Il bambino può desiderare di andare a scuola molto spesso, e tuttavia molto spesso vorrebbe giocare o fare qualcosa d'altro. Se pensa «voglio andare a scuola ogni giorno», forse sta reprimendo la sua avversione alla regolarità dell'attività scolastica.

Egli ritiene che ci si aspetti che voglia andare a scuola ogni giorno, e questa pressione è abbastanza forte per sommergere il sentimento che egli ci va così spesso solo perché deve. Il bambino si sentirebbe forse più felice se potesse essere cosciente del fatto che a volte desidera andarci. Tuttavia la pressione del senso del dovere è abbastanza grande per dargli il sentimento che «egli» vuole quello che è tenuto a volere. E' convinzione generale che la maggior parte degli uomini si sposino volontariamente. Certamente ci sono casi di uomini che si sposano coscientemente per un sentimento di dovere o di obbligo. Ci sono casi in cui un uomo si sposa perché «egli» vuole realmente farlo. Ma ci sono anche non pochi casi in cui un uomo (o anche una donna) crede consciamente di voler sposare una certa persona, mentre in realtà si trova preso in una successione di avvenimenti che portano al matrimonio e sembrano bloccare ogni via d'uscita. Per tutti i mesi che precedono il suo matrimonio è fermamente convinto di volersi sposare, e la prima e piuttosto tardiva indicazione che forse non è così è il fatto che nel giorno del matrimonio vien colto improvvisamente dal panico e prova l'impulso di fuggir via. Se è «sensato», questo sentimento dura solo pochi minuti, sicché risponderà alla domanda se intende sposarsi con l'incrollabile sicurezza che questa è la sua intenzione. Potremmo continuare a citare casi della vita quotidiana in cui le persone sembrano prendere delle decisioni, sembrano voler qualcosa, ma in realtà seguono la pressione interna o esterna del «dover» volere la cosa che si accingono a fare. Infatti, osservando il fenomeno delle decisioni umane, si resta colpiti da quanto spesso le persone si sbagliano nel prendere come «propria» decisione ciò che in realtà non e altro che un sottomettersi alla convenzione, al dovere o alla semplice pressione. Si ha quasi l'impressione che la decisione «originale» sia un fenomeno relativamente raro in una società che, a parole, fa della decisione individuale la pietra angolare della sua esistenza. Desidero aggiungere l'illustrazione particolareggiata di un caso di pseudovolontà, quale si può frequentemente osservare nell'analisi di persone che non presentano alcun sintomo nevrotico. Una delle ragioni per aggiungerla è il fatto che il caso che presenteremo, pur avendo scarso riferimento ai grandi temi generali dl cui, in questo libro, principalmente ci occupiamo, dà al lettore che non ha familiarità con il funzionamento delle forze inconscie un'ulteriore possibilità di conoscere questi fenomeni. Inoltre questo esempio mette in risalto un punto che pur essendo già stato toccato implicitamente, deve ancora essere formulato esplicitamente: il nesso tra la repressione e il problema delle pseudoazioni. Per lo più si considera la repressione dal punto di vista del funzionamento delle forze represse nel comportamento nevrotico, nei sogni, eccetera; ma mi sembra importante sottolineare che ogni repressione elimina certe parti dell'io reale, e obbliga a sostituire uno pseudosentimento a quello che è stato represso. Il caso che mi accingo a presentare e quello di uno studente di medicina ventiduenne. Il soggetto prova interesse per il suo lavoro, e ha rapporti piuttosto normali con gli altri. Non è particolarmente infelice, benché spesso si senta leggermente stanco e non provi un particolare gusto per la vita. La ragione per cui vuole essere analizzato è teoretica, dato che vuole diventare uno psichiatra. Si lamenta solo di un certo impedimento che incontra nella sua attività medica. Spesso non riesce a ricordare le cose che ha letto, si stanca sproporzionatamente durante le lezioni, e fa una figura relativamente magra agli esami. Tutto ciò lo turba, dato che in altri campi sembra possedere una memoria molto migliore. Non ha alcun dubbio sul fatto di voler studiare medicina, ma spesso ha forti dubbi sulla propria capacità di condurre avanti questi studi. Dopo qualche settimana di analisi racconta un sogno, in cui si trova all'ultimo piano di un grattacielo da lui costruito, e guarda gli altri edifici circostanti con un lieve sentimento di trionfo. D'un tratto il grattacielo crolla ed egli si ritrova sepolto sotto le rovine. Si rende conto che si sta cercando di rimuovere le macerie per liberarlo, e sente qualcuno dire che è gravemente ferito e che il medico arriverà presto. Ma deve aspettare un tempo che gli pare eterno prima che il dottore arrivi. Arrivato finalmente sul posto, il dottore scopre di aver dimenticato di portare con sé gli strumenti e di non poter far nulla per soccorrerlo. Gli sorge un'intensa collera contro il dottore, e improvvisamente si ritrova in piedi e si rende conto di non essere affatto ferito. Si burla del medico, e a quel punto si sveglia. Il sogno non suscita in lui molte associazioni: le più pertinenti comunque sono le seguenti. Pensando al grattacielo che ha costruito, accenna casualmente al fatto di aver provato sempre molto interesse per l'architettura. Da bambino il suo passatempo favorito era stato per molti anni il giuoco delle costruzioni, e a diciassette anni aveva considerato la possibilità di diventare architetto. Quando ne aveva parlato a suo padre, quest'ultimo aveva risposto in tono benevolo che naturalmente era libero di scegliersi la carriera, ma che lui (il padre) era sicuro che l'idea fosse un residuo delle sue aspirazioni infantili, e che in realtà preferisse studiare medicina. Il giovanotto aveva pensato che il padre aveva ragione, e dopo quella volta non gli aveva più parlato del problema, ma aveva cominciato a studiare medicina come se tutto fosse stato deciso. Le sue associazioni a proposito del fatto che il medico era in ritardo, e che per di più si era dimenticato gli strumenti, erano piuttosto vaghe e scarse. Tuttavia, mentre parlava di questa parte del sogno si ricordò che la seduta psicanalitica era stata spostata rispetto all'ora abituale, e che pur avendo acconsentito allo spostamento senza alcuna obiezione, si era in realtà alquanto irritato. Sente risorgere l'irritazione mentre sta parlando. Accusa l'analista di essere autoritario e alla fine dice: «Beh, in fondo non posso in ogni caso fare quello che voglio». Si sorprende assai della propria rabbia e di questa frase, perché fino a quel momento non aveva mai provato ostilità verso l'analista o verso l'attività psicanalitica. Qualche tempo dopo ha un altro sogno, di cui ricorda solo un frammento: suo padre resta ferito in un incidente automobilistico. Lui è un medico e dovrebbe occuparsi del padre. Mentre cerca di visitarlo, si sente completamente paralizzato e non riesce a far nulla. Vien colto dal terrore e si sveglia.

Nelle sue associazioni accenna con riluttanza al fatto che negli ultimi anni ha pensato qualche volta che il padre potesse morire improvvisamente, e che questi pensieri l'hanno spaventato. A volte aveva anche pensato all'eredità che gli sarebbe toccata, e a quello che avrebbe fatto col denaro. Non si era spinto molto oltre in queste fantasie, perché le sopprimeva non appena cominciavano ad apparire. Confrontando questo sogno al primo, lo colpisce il fatto che in entrambi i casi il medico è incapace di prestare un soccorso efficace. Si rende conto, più chiaramente di quanto gli sia mai capitato in passato, di esser convinto che non riuscirà mai ad essere utile come medico. Quando gli vien fatto notare che nel primo sogno c'è un preciso sentimento di ira e derisione per l'impotenza del medico, si ricorda che spesso, quando sente parlare o legge di casi in cui un medico è stato incapace di soccorrere il paziente, egli prova un certo sentimento di trionfo, di cui sul momento non si rende conto. Nell'ulteriore corso dell'analisi riaffiora dell'altro materiale che era stato represso. Scopre con sua sorpresa un forte sentimento di rabbia contro il padre, e inoltre scopre che il suo sentimento d'impotenza come medico fa parte di un sentimento più generale d'impotenza che pervade tutta la sua vita. Benché superficialmente ritenesse di aver organizzato la sua vita secondo i suoi piani, ora si rende conto che a un livello più profondo era pervaso da un senso di rassegnazione. Si rende conto che era convinto di non poter fare ciò che voleva fare, ma di esser obbligato a conformarsi a quello che si pretendeva da lui. Capisce sempre più chiaramente di non aver mai davvero desiderato di diventare un medico, e che le cose che lo avevano colpito come mancanza di capacità erano soltanto espressione della sua resistenza passiva. Questo caso è un esempio tipico di repressione dei reali desideri di una persona, e di assimilazione di pretese altrui tale da farle apparire come propri desideri. Potremmo dire che il desiderio originario viene sostituito da uno pseudodesiderio. Questa sostituzione di pseudoatti agli atti originali del pensiero, del sentimento e della volontà, porta alla fine alla sostituzione di uno pseudoio all'io autentico. L'io originario è l'io che sta all'origine delle attività mentali. Lo pseudo-io è solo un agente che in realtà rappresenta il ruolo che una persona dovrebbe svolgere; esso lo svolge però sotto il nome dell'io. E' vero che una persona può svolgere molti ruoli, ed essere soggettivamente convinta di essere se stessa in ciascun ruolo. In realtà in tutti questi ruoli la persona è quello che ritiene di dover essere, e in molte persone, se non addirittura nella maggior parte, l'io autentico è completamente soffocato dallo pseudo-io. Talvolta in sogno, nelle fantasie o nell'ubriachezza può riaffiorare qualcosa dell'io originario, sentimenti e pensieri che l'individuo non ha più avuto da anni. Spesso cose «cattive», che ha represso perché ne ha paura, o perché se ne vergogna. A volte, però, sono proprio le cose migliori di sé che ha represso, per la paura di venir preso in giro o di venir attaccato proprio per il fatto di provare tali sentimenti (14). La perdita dell'io, la sua sostituzione con uno pseudo-io, lascia l'individuo in un profondo stato di insicurezza. E' ossessionato dal dubbio, poiché, essendo in sostanza un riflesso di ciò che altri si attendono da lui, in una certa misura ha perduto la sua identità. Per vincere il panico derivante da questa perdita di identità, è costretto a conformarsi, e cercare la propria identità nella continua approvazione e nel continuo riconoscimento da parte degli altri. Dato che lui non sa chi è, per lo meno gli altri lo sapranno, se agisce secondo le loro pretese; se lo sanno, lo saprà anche lui, solo che creda loro sulla parola. La trasformazione dell'individuo in automa nella società moderna ha accresciuto il senso di impotenza e di insicurezza dell'uomo medio. Perciò questi è pronto a sottomettersi a nuove autorità, che gli offrono sicurezza e liberazione dal dubbio. Il seguente capitolo esaminerà le particolari condizioni che si sono dimostrate necessarie per far accettare questa offerta in Germania; dimostrerà che per il nucleo del movimento nazista -la classe media inferiore -il meccanismo autoritario era il più caratteristico. Nell'ultimo capitolo del libro proseguiremo l'esame dell'automa con riferimento alla situazione della nostra società democratica.
6. PSICOLOGIA DEL NAZISMO
 

 

 

 

 

Nel capitolo precedente la nostra attenzione si è concentrata su due tipi psicologici: il carattere autoritario e l'automa. Spero che l'esame analitico di questi tipi possa favorire la comprensione dei problemi trattati in questo e nel successivo capitolo: la psicologia del nazismo, da un lato, e la democrazia moderna, dall'altro. Nell'esaminare la psicologia del nazismo dobbiamo affrontare anzitutto una questione preliminare: l'importanza dei fattori psicologici per la comprensione del nazismo. Nelle discussioni scientifiche sul nazismo, e ancor più in quelle non scientifiche, si delineano spesso due opinioni opposte: la prima è quella secondo cui la psicologia non offre alcuna spiegazione di un fenomeno economico e politico come il fascismo; la seconda afferma invece che il fascismo è un problema integralmente psicologico. I sostenitori della prima opinione considerano il nazismo o come il risultato di un dinamismo esclusivamente economico -le tendenze espansionistiche dell'imperialismo tedesco -o come un fenomeno essenzialmente politico, la conquista dello stato da parte di un partito politico appoggiato dagli industriali e dagli Junkers; in breve, la vittoria del nazismo viene considerata come il risultato di un inganno e di una coercizione operati da una minoranza ai danni della maggioranza della popolazione. I sostenitori della seconda opinione, invece, affermano che il nazismo può esser spiegato solo sul piano psicologico, o piuttosto su quello della psicopatologia. Hitler viene visto come un folle o come un «nevrotico», e i suoi seguaci come persone egualmente folli e mentalmente squilibrate. Secondo questa interpretazione -come è esposta, ad esempio, da Lewis Mumford -le vere sorgenti del fascismo vanno ricercate «nell'animo umano, non nell'economia». E così prosegue: «Nell'orgoglio soverchiante, nel gusto della crudeltà, nella disintegrazione nevrotica: in questo, e non nel trattato di Versailles o nell'incompetenza della Repubblica di Weimar sta la spiegazione del fascismo» (1). A nostro avviso nessuna di queste spiegazioni -che si concentrano sui fattori politici ed economici escludendo quelli psicologici, o viceversa -è da considerare la spiegazione giusta. Il nazismo è un problema psicologico, ma anche i fattori psicologici vengono influenzati dai fattori socio-economici; il nazismo è un problema economico-politico, ma la sua presa su un popolo intero dev'essere spiegata dal punto di vista psicologico. In questo capitolo ci interessa appunto questo aspetto psicologico del nazismo, la sua base umana. Ci sono pertanto due problemi da chiarire: la struttura del carattere di coloro che ne furono attratti, e le caratteristiche psicologiche dell'ideologia che ha fatto di esso uno strumento tanto efficace proprio nei confronti di quelle persone. Nell'esaminare la base psicologica del successo del nazismo è necessario fare una distinzione preliminare: una parte della popolazione si è inchinata al regime nazista senza opporre una forte resistenza, ma anche senza ammirare l'ideologia e la prassi politica naziste. Un'altra parte ha provato una profonda attrazione per la nuova ideologia, e si è fanaticamente attaccata a coloro che l'hanno proclamata. Nel primo gruppo rientravano in primo luogo la classe operaia e la borghesia liberale e cattolica. Questi gruppi, nonostante l'eccellente organizzazione e pur essendo stati sempre ostili al nazismo dal suo apparire fino al 1933, non hanno dimostrato la resistenza interiore che ci si poteva aspettare dalle loro convinzioni politiche. La loro volontà di resistenza crollò rapidamente, e da allora hanno dato al regime ben pochi fastidi (eccettuata, naturalmente, la piccola minoranza che si è battuta eroicamente contro il nazismo durante tutti questi anni). Psicologicamente, questa prontezza a sottomettersi al regime nazista sembra dovuta principalmente ad uno stato di stanchezza interiore e di rassegnazione, stato che, come si dirà nel prossimo capitolo, è caratteristico dell'individuo del nostro tempo anche nei paesi democratici. In Germania, per quanto riguarda la classe operaia, esisteva anche un'altra condizione importante: la sconfitta subìta dopo le prime vittorie riportate nella rivoluzione del 1918. La classe operaia si era affacciata al dopoguerra nutrendo grandi speranze nella realizzazione del socialismo, o almeno nella sicura elevazione della sua situazione politica, economica e sociale; tuttavia essa, quali che ne siano state le ragioni, aveva subito un'ininterrotta serie di sconfitte, che aveva provocato il crollo completo delle sue speranze. All'inizio del 1930 i frutti delle sue vittorie iniziali erano già quasi completamente distrutti, e il risultato di ciò era un profondo sentimento di rassegnazione, di sfiducia nei propri capi, di dubbio sul valore di qualsiasi organizzazione e attività politica. Restavano ancora iscritti ai loro rispettivi partiti, e al livello cosciente continuavano a credere nelle loro dottrine politiche; ma nell'intimo molti di loro avevano rinunciato a qualsiasi speranza nell'efficacia dell'azione politica. Un ulteriore incentivo alla lealtà della maggioranza della popolazione verso il governo nazista cominciò ad operare dopo l'avvento di Hitler al potere. A quel punto, il governo di Hitler si identificò per milioni di persone con la «Germania». Una volta che aveva assunto il potere di governo, combatterlo significava estraniarsi dalla comunità dei tedeschi; poiché gli altri partiti politici erano stati aboliti, e il partito nazista «era» la Germania, l'opposizione ad esso significava opposizione alla Germania. Nulla riesce più difficile all'uomo medio del sopportare il sentimento di non potersi identificare con un vasto gruppo. Per quanto possa essere ostile ai princìpi del nazismo, un cittadino tedesco, se deve scegliere tra il restar solo e il sentire di appartenere alla Germania, per lo più sceglierà quest'ultima via. Si possono osservare molti casi di persone che non sono naziste e che difendono nondimeno il nazismo dagli attacchi degli stranieri perché ritengono che un attacco al nazismo sia un attacco alla Germania. La paura dell'isolamento e la relativa debolezza dei princìpi morali possono aiutare qualsiasi partito, una volta che abbia conquistato il potere dello stato, ad assicurarsi la lealtà di una gran parte della popolazione. Questa considerazione porta ad un assioma molto importante per i problemi della propaganda politica: qualsiasi attacco alla Germania come tale, qualsiasi propaganda denigratoria contro «i tedeschi» (come il simbolo «l'Unno» della prima guerra mondiale) non fa che rafforzare la fedeltà di coloro che non si identificano completamente con il sistema nazista. Tuttavia questo problema non può essere risolto nemmeno con una propaganda intelligente, ma solo con l'affermazione in tutti i paesi di una fondamentale verità: quella che i princìpi etici stanno al di sopra dell'esistenza della nazione, e che aderendo a questi princìpi un individuo appartiene alla comunità di tutti coloro che condividono, che hanno condiviso e che condivideranno questa fede. Contrariamente all'atteggiamento negativo, o rassegnato, della classe operaia e della borghesia liberale e cattolica, l'ideologia nazista venne accolta con ardente favore dagli strati inferiori della classe media, composti di piccoli bottegai, di artigiani e di impiegati (2). I membri della vecchia generazione formavano, in questa classe, la base di massa più passiva; i loro figli e le loro figlie erano i militanti più attivi. Su di loro l'ideologia nazista -il suo spirito di cieca obbedienza a un capo, e di odio contro le minoranze razziali e politiche, la sua brama di conquista e di dominio, la sua esaltazione del popolo tedesco e della «razza nordica» -esercitava un'enorme attrazione emotiva, ed è stata questa attrazione a conquistarli e a trasformarli in ferventi seguaci e militanti della causa nazista. La risposta al perché l'ideologia nazista abbia attratto così tanto la classe media inferiore va individuata nel carattere sociale di questa classe. Il suo carattere sociale era notevolmente diverso da quello della classe operaia degli strati superiori della classe media e della nobiltà prima della guerra del 1914. In realtà questa parte della classe media è stata sempre caratterizzata da certi particolari tratti: l'amore per i forti, l'odio per i deboli, la meschinità, l'ostilità, l'avarizia, sia in fatto di sentimenti che in fatto di denaro, e in sostanza l'ascetismo. La loro visione della vita era angusta, sospettavano e odiavano lo straniero e provavano curiosità e invidia per i loro conoscenti, razionalizzando l'invidia come indignazione morale; tutta la loro vita si fondava sul principio della scarsità, tanto economicamente che psicologicamente. L'affermare che il carattere sociale della classe media inferiore differiva da quello della classe lavoratrice non implica che questa struttura di carattere non fosse presente anche nella classe lavoratrice. Era però tipica della classe media inferiore, mentre solo una minoranza della classe lavoratrice mostrava la stessa struttura di carattere con altrettanta chiarezza; questo o quel tratto specifico, tuttavia -come l'esagerato rispetto per l'autorità, o la parsimonia era rintracciabile, sebbene in forma meno intensa, anche nella maggior parte dei membri della classe lavoratrice. D'altro canto una gran parte degli impiegati -probabilmente la maggioranza -avevano una struttura di carattere più simile a quella dei lavoratori manuali (specialmente di quelli delle grandi fabbriche) che a quella della «vecchia classe media», che non partecipava all'ascesa del capitalismo monopolistico, ma anzi se ne sentiva fondamentalmente minacciata (3). Se è vero che il carattere sociale della classe media inferiore era il medesimo già da molto prima della guerra del 1914, è anche vero che gli avvenimenti successivi alla guerra ne hanno intensificato proprio quei tratti ai quali l'ideologia nazista si è rivolta con maggiore efficacia: il desiderio di sottomissione e la brama di potere. Nel periodo precedente la rivoluzione tedesca del 1918, la situazione economica degli strati inferiori della vecchia classe media -i piccoli commercianti indipendenti e gli artigiani -era già in declino; ma non era disperata, e c'erano anzi vari fattori che operavano nel senso di stabilizzarla. L'autorità della monarchia era fuori discussione, e appoggiandosi ad essa, e identificandosi con essa, il membro della classe media inferiore acquistava un sentimento di sicurezza e di orgoglio narcisistico. L'autorità della religione e della moralità tradizionale aveva ancora vigorose radici. La famiglia era ancora salda e appariva come un rifugio sicuro in un mondo ostile. L'individuo sentiva di appartenere a un sistema sociale e culturale stabile, nel quale aveva il suo posto preciso.

La sua sottomissione e la sua fedeltà alle autorità costituite erano una soluzione soddisfacente per le sue tendenze masochistiche; tuttavia non arrivava all'estremo della rinuncia dell'io. E conservava il senso dell'importanza della propria personalità. Ciò che gli mancava in sicurezza ed aggressività come individuo era compensato dalla forza delle autorità a cui si sottometteva. In breve, la sua situazione economica era ancora abbastanza solida per dargli un sentimento di amor proprio e di relativa sicurezza, e le autorità a cui si appoggiava erano abbastanza forti per dargli quell'ulteriore sicurezza che la sua situazione individuale non arrivava a dargli.

Il dopoguerra ha mutato considerevolmente questa situazione. In primo luogo, il declino economico della vecchia classe media venne accelerato dall'inflazione, che ebbe il suo culmine nel 1923 e spazzò via quasi completamente i risparmi del lavoro di molti anni. Gli anni tra il 1924 e il 1928 portarono un miglioramento economico e nuove speranze alla classe media inferiore; ma questi progressi furono cancellati dalla depressione seguita al 1929. Come già nel periodo dell'inflazione, la classe media, compressa tra gli operai e le classi superiori, era il gruppo più esposto e perciò il più colpito (4). Ma ad aggravare la situazione intervennero, oltre a questi fattori economici, dei fattori psicologici. La sconfitta bellica e il crollo della monarchia furono una prima ragione di disorientamento psicologico. La monarchia e lo stato erano stati la solida roccia su cui, psicologicamente parlando, il piccolo borghese aveva costruito la sua esistenza; il loro fallimento e la loro sconfitta mandarono in frantumi le basi della sua vita. Se il Kaiser poteva esser messo pubblicamente in ridicolo, se gli ufficiali potevano essere attaccati, se lo stato doveva mutar forma e accogliere «agitatori rossi» come ministri e un sellaio come presidente, in che cosa poteva riporre la sua fede l'ometto qualunque? Si era identificato in maniera subalterna con tutte queste istituzioni: e adesso, scomparse queste, dove doveva andare? Anche l'inflazione gioca un ruolo tanto economico che psicologico. Fu un colpo mortale al principio della parsimonia, e nello stesso tempo all'autorità dello stato. Se i risparmi di molti anni, per cui erano stati sacrificati tanti piccoli piaceri, potevano andar perduti senza propria colpa, a che pro risparmiare? Se lo stato poteva violare i suoi impegni stampati sulle banconote e sui buoni del Tesoro, di quali promesse ci si poteva più fidare? Non solo la situazione economica della classe media inferiore cominciò a declinare più rapidamente dopo la guerra, ma anche il suo prestigio sociale. Prima della guerra il piccolo borghese poteva sentirsi qualcosa di meglio di un operaio. Dopo la rivoluzione il prestigio sociale della classe operaia aumentò notevolmente, e di conseguenza il prestigio della classe media inferiore diminuì in proporzione. Non c'era più nessuno da guardare dall'alto in basso, un privilegio che era sempre stato uno dei beni più preziosi della vita dei piccoli negozianti e degli altri come loro. Inoltre anche l'ultima roccaforte della sicurezza della classe media, la famiglia, era stata distrutta. Gli anni del dopoguerra avevano scosso in Germania, forse ancor più che negli altri paesi, l'autorità del padre e la moralità della vecchia classe media. La nuova generazione agiva come voleva e non si preoccupava più se le proprie azioni venivano approvate o no dai genitori. Le ragioni di questo sviluppo sono troppo numerose e complesse per poter esser esaminate qui analiticamente. Ne menzionerò solo alcune. Il declino dei vecchi simboli sociali dell'autorità, la monarchia e lo stato, si era ripercosso sul ruolo delle autorità individuali, i genitori. Se quelle autorità, che i genitori avevano insegnato ai giovani a rispettare, si dimostravano deboli, allora, fatalmente, anche i genitori perdevano prestigio e autorità. Inoltre, nelle mutate condizioni, e soprattutto di fronte all'inflazione, la vecchia generazione si sentiva confusa, incerta e molto meno elastica della giovane generazione. Così i giovani si sentivano superiori agli anziani, e non riuscivano più a prender sul serio questi ultimi e i loro insegnamenti. Infine, il declino economico della classe media privava i genitori della loro funzione economica di garanti dell'avvenire economico dei figli. La vecchia generazione della classe media inferiore diventava sempre più amara e risentita, ma in modo passivo; la giovane generazione aspirava all'azione. La sua situazione economica era aggravata dal fatto che la base di un'esistenza economica indipendente, quale avevano avuto i loro genitori, era perduta; il mercato professionale era saturo, e le probabilità di guadagnarsi da vivere facendo i medici e gli avvocati erano scarse. Quelli che avevano combattuto in guerra sentivano di aver diritto ad una sorte migliore di quella che gli veniva offerta. Soprattutto i molti giovani ufficiali, che per anni erano stati abituati a comandare e a esercitare il potere con tutta naturalezza, non riuscivano a rassegnarsi all'idea di diventare commessi o piazzisti. La crescente frustrazione sociale portò a una proiezione che è diventata un fattore importante a favore del nazionalsocialismo. Invece di rendersi conto del destino economico e sociale della vecchia classe media, i suoi membri interpretavano coscientemente il loro destino come coincidente con quello della nazione. La sconfitta nazionale e il trattato di Versailles divennero i simboli su cui si trasferì la frustrazione reale, che era quella sociale. Si è detto spesso che il trattamento fatto alla Germania nel 1918 dai vincitori è stato una delle ragioni principali dell'affermazione del nazismo. Questo giudizio richiede dei chiarimenti. La maggioranza dei tedeschi riteneva che il trattato di pace fosse ingiusto; ma mentre la classe media reagì con profonda amarezza, gli operai se la presero molto meno col trattato di Versailles. Essi erano ostili al vecchio regime, e la perdita della guerra significava per loro la sconfitta di quel regime. Ritenevano di aver combattuto coraggiosamente, e di non avere alcuna ragione per vergognarsi di se stessi. D'altra parte la vittoria della rivoluzione, resa possibile solo dalla sconfitta della monarchia, aveva portato loro vantaggi economici, politici e umani. Il risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore; il risentimento nazionalistico era una razionalizzazione, che proiettava l'inferiorità sociale sul piano nazionale. Questa proiezione è del tutto evidente nella vicenda personale di Hitler. Egli era il tipico rappresentante della classe media inferiore. Una nullità senza prospettive o possibilità. Sentiva fortemente di essere un escluso. In "Mein Kampf" parla spesso di sé come dello «zero», dello «sconosciuto» che era stato nella sua giovinezza. Ma benché questo dipendesse fondamentalmente dalla sua posizione sociale, egli poteva razionalizzarlo in simboli nazionali. Essendo nato fuori del Reich, si sentiva escluso non tanto socialmente quanto nazionalmente, e il grande Reich tedesco, a cui tutti i figli avrebbero potuto riunirsi, divenne per lui il simbolo del prestigio sociale e della sicurezza (5).

Il sentimento di impotenza, ansietà e isolamento dalla società che dominava la vecchia classe media, e la distruttività derivante da questa situazione, non furono le sole fonti psicologiche del nazismo. I contadini provavano risentimento verso i creditori urbani con cui si erano indebitati, mentre gli operai si sentivano profondamente delusi e scoraggiati per il continuo ripiegamento politico subìto dopo le prime vittorie del 1918, sotto una guida politica che aveva perduto l'iniziativa strategica. La grandissima maggioranza della popolazione provava quel sentimento di irrilevanza personale e di impotenza che abbiamo indicato come tipico del capitalismo monopolistico in generale. Queste condizioni psicologiche non sono state la «causa» del nazismo. Hanno assicurato quella base umana senza la quale esso non avrebbe potuto svilupparsi, ma l'analisi dell'intero fenomeno dell'ascesa e della vittoria del nazismo deve occuparsi delle condizioni strettamente economiche e politiche oltre che di quelle psicologiche. Data l'abbondante letteratura intorno a questo aspetto, e dati gli scopi specifici del libro, non è il caso di addentrarsi in un esame di tali questioni economiche e politiche. Tuttavia sarà bene ricordare al lettore la parte svolta dai rappresentanti della grande industria e dagli Junker -quasi ridotti al fallimento -nell'instaurazione del nazismo. Senza il loro appoggio Hitler non avrebbe mai vinto. E questo appoggio si fondava sul loro modo di concepire i propri interessi economici assai più che su fattori psicologici. Questa classe di proprietari aveva di fronte a sé un parlamento, in cui il quaranta per cento dei deputati era composto di socialisti e di comunisti, cioè da rappresentanti di gruppi insoddisfatti del sistema sociale esistente, e in cui c'era un numero crescente di deputati nazisti, i quali rappresentavano anch'essi una classe violentemente ostile ai più potenti esponenti del capitalismo tedesco. Perciò il parlamento, che nella sua maggioranza rappresentava tendenze contrarie al loro interesse economico, li giudicava pericolosi. Essi sostenevano che la democrazia non funzionava. In realtà si potrebbe dire che la democrazia funzionava fin troppo bene. Il parlamento era una rappresentanza piuttosto adeguata degli interessi delle diverse classi della popolazione tedesca, e proprio per questa ragione il sistema parlamentare non poteva più conciliarsi con l'esigenza di mantenere i privilegi della grande industria e dei proprietari terrieri semi-feudali. Gli esponenti di questi gruppi privilegiati speravano che il nazismo avrebbe deviato il risentimento emotivo, che li minacciava, verso altri obiettivi; e che contemporaneamente avrebbe aggiogato la nazione al servizio dei loro interessi economici. Nel complesso non restarono delusi, quantunque si siano sbagliati su qualche dettaglio marginale. Hitler e la sua burocrazia non erano strumenti manovrabili a loro piacimento dai Thyssen e dai Krupp, i quali infatti dovettero spartire con essi il loro potere, e spesso dovettero anche sottomettersi. Ma il nazismo, pur dimostrandosi economicamente deleterio a tutte le altre classi, ha favorito gli interessi dei gruppi più potenti dell'industria tedesca. Il sistema nazista è la versione «aerodinamica» dell'imperialismo tedesco prebellico, e ha proseguito dove la monarchia era fallita (la repubblica, tuttavia, non interruppe davvero lo sviluppo del capitalismo monopolistico tedesco, ma lo promosse con i mezzi a sua disposizione). A questo punto molti lettori avranno in mente una domanda: come si concilia l'affermazione che la base psicologica del nazismo è stata la vecchia classe media con quella che il nazismo funziona nell'interesse dell'imperialismo tedesco? La risposta a questa domanda è in linea di principio la stessa che è stata data al quesito sul ruolo della classe media urbana nel periodo dell'ascesa del capitalismo. Nel dopoguerra è stata la classe media, e soprattutto la classe media inferiore, ad esser minacciata dal capitalismo monopolistico. Essa cadde in preda all'ansietà e perciò all'odio; presa dal panico, cominciò a provare un desiderio crescente di sottomissione e al tempo stesso una brama sempre più forte di dominio su quelli che erano inermi. Questi sentimenti vennero usati da un'altra classe a favore di un regime che doveva operare nel suo interesse. Hitler si dimostrò uno strumento tanto efficiente perché in lui le caratteristiche del piccolo borghese risentito e pieno di odio, con cui la classe media inferiore poteva identificarsi emotivamente e socialmente, si accoppiavano a quelle dell'opportunista pronto a servire gli interessi degli industriali tedeschi e degli Junkers. All'inizio si presentava come il messia della vecchia classe media, prometteva la distruzione dei grandi magazzini, la cessazione del dominio del capitale bancario, e così via. La storia parla chiaro: queste promesse non sono state mai mantenute. Tuttavia questo importava poco. Il nazismo non ha mai avuto dei veri princìpi politici ed economici. E' essenziale rendersi conto che il principio stesso del nazismo è il suo esasperato opportunismo. Ciò che importava era che centinaia di migliaia di piccoli borghesi, che in condizioni normali avrebbero avuto ben scarse possibilità di guadagnare denaro o di disporre del potere, ora, come membri della burocrazia nazista ottenevano una larga fetta della ricchezza e del prestigio che le classi superiori furono costrette a spartire con loro. Ad altri, che non erano membri della macchina nazista, furono dati i posti tolti agli ebrei e ai nemici politici; e il rimanente della popolazione, anche se non ha ottenuto più pane, ha avuto «circenses». La soddisfazione emotiva procurata da questi spettacoli sadici, e da un'ideologia che gli dava un sentimento di superiorità rispetto al resto del genere umano, era in grado di compensarli almeno per qualche tempo -del fatto che le loro vite erano state impoverite, economicamente e civilmente. Abbiamo visto, quindi, che certi mutamenti socio-economici, e specialmente il declino della classe media e il potere crescente del capitale monopolistico, hanno avuto un profondo effetto psicologico. Questi effetti sono stati accresciuti e resi sistematici da un'ideologia politica -com'era accaduto nel caso delle ideologie religiose del sedicesimo secolo -e le forze psichiche così suscitate cominciarono a operare in una direzione opposta a quella degli interessi economici originari di questa classe. Il nazismo ha risuscitato la classe media inferiore psicologicamente, mentre procedeva alla distruzione della sua precedente situazione socioeconomica. Ne ha mobilitato le energie emotive, rendendola una forza importante nella lotta per realizzare i fini economici e politici dell'imperialismo tedesco. Nelle pagine seguenti cercheremo di dimostrare che la personalità di Hitler, i suoi insegnamenti e il sistema nazista esprimono in forma esasperata la struttura di carattere che abbiamo definito «autoritaria», e che proprio per questo fatto egli ha esercitato una potente attrattiva su quei settori della popolazione che più o meno avevano la stessa struttura di carattere. L'autobiografia di Hitler è un'ottima illustrazione del carattere autoritario, e poiché, oltre a questo, è il documento più rappresentativo della letteratura nazista, l'userò come fonte principale per analizzare la psicologia del nazismo. L'essenza del carattere autoritario è stata descritta come la simultanea presenza di impulsi sadici e masochistici. Per sadismo abbiamo inteso l'aspirazione ad un potere illimitato su un'altra persona, più o meno commisto alla distruttività; per masochismo, l'impulso a dissolversi in un potere irresistibile e a partecipare della sua forza e della sua gloria. Entrambe le tendenze si ricollegano all'incapacità dell'individuo isolato di reggersi da solo, e al suo bisogno di un rapporto simbiotico che vinca questa solitudine. La "brama sadica di potere" trova modo di manifestarsi in molte forme in "Mein Kampf". Essa caratterizza il rapporto di Hitler con le masse tedesche, che egli disprezza e «ama» in maniera tipicamente sadica, e quello con i suoi nemici politici, nei cui confronti egli manifesta quei tratti distruttivi che sono una componente importante del suo sadismo. Egli parla della soddisfazione che le masse provano ad esser dominate. «Quello che vogliono è la vittoria del più forte e l'annientamento o la resa incondizionata del più debole». «Come una donna... che si sottometterà al forte piuttosto che dominare il debole, così le masse amano il dominatore piuttosto che il supplicante, e nell'intimo li soddisfa molto di più una dottrina che non tolleri concorrenza, che non la concessione della libertà democratica; spesso non sanno cosa farsene, e facilmente si sentono abbandonate. Esse non si rendono conto né dell'impudenza con cui vengono terrorizzate spiritualmente, né dell'oltraggiosa riduzione delle loro libertà umane, perché non capiscono in alcun modo che questa dottrina è stata messa da parte». Egli indica nella distruzione della volontà del pubblico, mediante la forza superiore dell'oratore, il fattore essenziale della propaganda. Non esita nemmeno ad ammettere che la stanchezza fisica del suo pubblico è una condizione estremamente favorevole agli effetti della sua suggestionabilità. Affrontando la questione dell'ora più adatta per le riunioni politiche di massa, egli dice: «Sembra che di mattina e anche durante il giorno la volontà degli uomini si ribelli con la massima energia al tentativo di sottoporla alla volontà altrui e all'opinione altrui. Di sera, invece, soccombono più facilmente alla forza prepotente di una volontà più forte. Perché in realtà ogni riunione di questo genere è una lotta tra due forze opposte. Il superiore talento oratorio di natura apostolica dominatrice riuscirà ora più facilmente a conquistare alla nuova volontà coloro i quali, a loro volta, abbiano subìto un indebolimento della loro forza di resistenza nel modo più naturale, che non quelli che abbiano ancora il pieno controllo dell'energia della loro mente e della loro volontà». Hitler stesso è pienamente cosciente delle condizioni che producono il desiderio di sottomissione, e fornisce un'eccellente descrizione della situazione dell'individuo partecipante a una riunione di massa. «La riunione di massa è necessaria se non altro per la ragione che in essa l'individuo, che nell'aderire ad un nuovo movimento si sente solo, ed è facilmente colto dalla paura di essere isolato, riceve per la prima volta le immagini di una comunità più larga, il che ha un effetto corroborante e incoraggiante sulla maggior parte delle persone... Se esce per la prima volta dalla sua bottega o dalla grande azienda, in cui si sente piccolissimo, per entrare nella riunione di massa, dove ora si sente circondato da migliaia e migliaia di individui che hanno la stessa sua convinzione... soccombe anch'egli alla magica influenza di ciò che chiamiamo la suggestione di massa». Goebbels descrive le masse in modo analogo «La gente non vuole altro che esser governata decentemente», scrive nel suo romanzo "Michael" (6). Gli individui per lui sono «niente di più di quel che la pietra è per lo scultore. Capo e massa non costituiscono un problema come non lo costituiscono pittore e colori» (7). In un altro libro Goebbels dà un'accurata descrizione della dipendenza della persona sadica dai suoi oggetti; quanto essa si senta debole e vuota se non può esercitare il potere su qualcuno, e quale nuova forza le dia questo potere. Così Goebbels descrive quel che succede in lui: «Talvolta si è colti da una profonda depressione. Si può superarla solo stando di nuovo di fronte alle masse. Il popolo è la fonte del nostro potere» (8). Un'eloquente illustrazione di quel particolare tipo di potere sugli individui, che i nazisti chiamano comando, vien fornita dal capo del fronte del lavoro tedesco, Ley. Trattando delle qualità che occorrono a un capo nazista, e dei fini dell'educazione dei capi, scrive: «Vogliamo sapere se questi uomini hanno la volontà di guidare, di dominare, in una parola, di imperare. Vogliamo imperare e goderne... insegneremo a questi uomini a cavalcare... per dargli il sentimento del dominio assoluto su un essere vivente» (9). Lo stesso concetto del potere è presente nella formulazione dei fini dell'educazione data da Hitler. Egli dice che «tutta l'educazione e lo sviluppo dell'allievo devono tendere a dargli la convinzione di essere assolutamente superiore agli altri». Il fatto che altrove dichiari che si deve insegnare al ragazzo a sopportare l'ingiustizia senza ribellarsi, non sembrerà più strano al lettore, o almeno così spero. Questa contraddizione è quella tipica dell'ambivalenza sado-masochistica tra la brama di potere e quella di sottomissione. Il desiderio del potere sulle masse è ciò che spinge il membro dell'"élite", composta dai capi nazisti. Come dimostrano le citazioni, questo desiderio di potere viene rivelato talvolta con una franchezza quasi sorprendente. Talvolta viene manifestato in forme meno offensive, affermando cioè che le masse vogliono precisamente esser dominate. Talvolta la necessità di adulare le masse, e quindi di nascondere il cinico disprezzo nutrito nei loro confronti, porta a trucchi come il seguente: Hitler, parlando dell'istinto di autoconservazione, che per lui, come vedremo più avanti, si identifica più o meno con l'impulso al potere, afferma che nell'ariano esso ha raggiunto la forma più nobile, «perché questi di buon grado subordina il suo io alla vita della collettività e, se il momento lo richiedesse, è disposto anche a sacrificarlo». Se i «capi» sono quelli cui spetta principalmente di godere il potere, le masse non vengono affatto private della soddisfazione sadica. Le minoranze razziali e politiche della Germania, e in seguito di altre nazioni, che vengono definite deboli o decadenti, sono gli oggetti di sadismo che vengono gettati in pasto alle masse. Mentre Hitler e la sua burocrazia godono del potere che esercitano sulle masse tedesche, queste masse a loro volta imparano il gusto del potere su altre nazioni, e la passione per il dominio del mondo. Hitler non esita a definire come fine suo e del suo partito l'obiettivo di dominare il mondo. Facendosi beffe del pacifismo, egli dice: «In verità, l'idea pacifista umanitaria va forse abbastanza bene una volta che l'uomo del più alto livello abbia conquistato e assoggettato il mondo a tal punto da esser diventato il padrone assoluto di questo globo». E dice anche: «Lo stato che nell'epoca dell'inquinamento della razza si dedica a coltivare i suoi migliori elementi razziali deve prima o poi diventare il padrone del mondo». Di solito Hitler cerca di razionalizzare e giustificare la sua brama di potere. Le principali giustificazioni sono le seguenti: il suo dominio sugli altri popoli è per il loro bene e per il bene della civiltà mondiale; il desiderio del potere è radicato nelle eterne leggi della natura, ed egli riconosce e osserva solo queste leggi; egli stesso agisce agli ordini di un potere superiore: Dio, il Destino, la Storia, la Natura; i suoi sforzi per dominare sono soltanto una difesa dai tentativi altrui di dominare lui e il popolo tedesco. Egli vuole solo la pace e la libertà. Un esempio del primo tipo di razionalizzazione è il seguente brano, sempre di "Mein Kampf": «Se nel suo sviluppo storico il popolo tedesco avesse avuto questa unità di gruppo che hanno altri popoli, allora il Reich tedesco sarebbe oggi probabilmente il padrone del mondo». Il dominio tedesco sul mondo potrebbe portare, sostiene Hitler, ad una «pace, sorretta non dai ramoscelli d'ulivo dei beccamorti femminei professionisti del pacifismo piagnisteo, ma fondata sulla spada vittoriosa di un popolo di signori che mette il mondo al servizio di una civiltà più alta». Negli ultimi anni le sue assicurazioni che il suo obiettivo non è solo il bene della Germania, ma che le sue azioni sono al servizio degli interessi migliori della civiltà in generale, sono diventate familiari ad ogni lettore di giornale. La seconda razionalizzazione, secondo la quale il desiderio di potere è radicato nelle leggi della natura, è più di una semplice razionalizzazione: essa scaturisce anche dal desiderio di sottomissione ad un potere esterno, come è stato reso manifesto particolarmente dalla grossolana volgarizzazione del darwinismo formulata da Hitler. Nell'«istinto di conservazione della specie», Hitler vede la «prima causa della formazione delle collettività umane». Questo istinto di autoconservazione porta alla lotta del forte per il dominio sul debole, ed alla fine, economicamente, alla sopravvivenza dei più adatti. L'identificazione dell'istinto di autoconservazione con il potere sugli altri trova un'espressione particolarmente impressionante nell'affermazione di Hitler secondo cui «la prima civiltà del genere umano certamente era fondata meno sull'animale domestico che sull'uso degli individui inferiori». Egli proietta il proprio sadismo sulla natura, che è «la crudele regina di ogni saggezza», e la cui legge di conservazione è «legata alla ferrea legge della necessità e del diritto alla vittoria del migliore e del più forte di questo mondo». E' interessante osservare come, spinto da questo rozzo darwinismo, il «socialista» Hitler si faccia paladino dei princìpi liberisti della concorrenza illimitata. In polemica contro la collaborazione tra diversi gruppi nazionali, egli afferma: «Un tale connubio impedisce il libero gioco delle energie, la lotta per la scelta del migliore si arresta, e di conseguenza la vittoria necessaria e definitiva dell'uomo più sano e più forte è impedita per sempre». Altrove parla del libero gioco delle energie come della saggezza della vita. Certamente la teoria di Darwin come tale non rispecchiava i sentimenti di un carattere sado-masochistico. Al contrario, in molti dei suoi aderenti suscitava la speranza in un ulteriore sviluppo dell'umanità verso stadi più elevati di civiltà. Per Hitler, però, era espressione e al tempo stesso giustificazione del proprio sadismo. Egli rivela con tutto candore il significato psicologico che aveva per lui la teoria darwiniana. Quando viveva a Monaco, ed era ancora uno sconosciuto, era solito svegliarsi alle cinque del mattino. Aveva «preso l'abitudine di gettare pezzetti di pane o croste ai topolini che vivevano nella stanzetta e poi di osservare questi divertenti animaletti correre e azzuffarsi per queste scarse leccornie». Questo «gioco» era in piccolo la darwiniana «lotta per la vita». Per Hitler era il surrogato piccolo-borghese dei circhi degli imperatori romani, e un preludio ai circhi storici che in seguito avrebbe prodotto. L'ultima razionalizzazione del suo sadismo, la giustificazione di esso come difesa dagli attacchi altrui, ritorna spesso negli scritti di Hitler. Tanto lui che il popolo tedesco sono sempre gli innocenti, e i nemici sono dei bruti sadici. Gran parte di questa propaganda è fatta di menzogne deliberate, coscienti. In parte, però, ha la stessa «sincerità» emotiva che hanno le accuse paranoiche. Queste accuse hanno sempre la funzione di parare la possibilità che si smascheri il proprio sadismo o la propria distruttività. Seguono la formula: sei tu che hai intenzioni sadiche; perciò io sono innocente. In Hitler questo meccanismo difensivo è irrazionale all'estremo, poiché accusa i suoi nemici di volere proprio quelle cose che egli con tutta franchezza indica come propri obiettivi. Così accusa gli ebrei, i comunisti e i francesi proprio di ciò che afferma essere i fini più legittimi delle proprie azioni. Si cura assai poco di mascherare questa contraddizione per mezzo di razionalizzazioni. Accusa gli ebrei di portare le truppe africane francesi al Reno con l'intenzione di distruggere, mediante l'imbastardimento che necessariamente sarebbe seguito, la razza bianca, e così «di elevarsi a loro volta personalmente alla posizione di padroni». Hitler dev'essersi reso conto della contraddizione insita nella pretesa di condannare gli altri per quello che sostiene essere il fine più nobile della sua razza, e cerca di razionalizzarla dicendo degli ebrei che il loro istinto di autoconservazione manca dell'idealismo riscontrabile nell'impulso ariano al dominio. Le stesse accuse vengono usate contro i francesi. Li accusa di voler strangolare la Germania per rubarle la forza. Pur usando quest'accusa come giustificazione della necessità di distruggere «l'aspirazione francese all'egemonia europea», confessa che se si fosse trovato al posto di Clemenceau avrebbe agito nello stesso modo. I comunisti vengono accusati di brutalità, e il successo del marxismo viene attribuito alla sua volontà politica e alla sua brutalità attivistica. Nello stesso tempo, però, Hitler dichiara: «Quel che è mancato alla Germania è stata la stretta collaborazione di un potere brutale e di un'intenzione politica geniale». La crisi cecoslovacca del 1938 e la guerra in corso hanno offerto molti esempi di questo genere. Non c'è stato atto dell'oppressione nazista che non sia stato spiegato come una difesa dall'oppressione altrui. Si può sostenere che queste accuse erano pure e semplici falsificazioni, e che non hanno la «sincerità» paranoica che poteva colorire quelle lanciate contro gli ebrei e i francesi. Hanno comunque un preciso valore propagandistico, e una parte della popolazione -in particolare la classe media inferiore -che si mostra ricettiva verso queste accuse paranoiche proprio per la sua struttura di carattere, vi ha creduto. Il disprezzo di Hitler per gli inermi diventa particolarmente evidente quando parla di coloro i cui fini politici -la lotta per la libertà nazionale -erano simili a quelli che anche lui professava di avere. Forse in nessun caso l'insincerità dell'interesse di Hitler alla libertà nazionale è più palese che nel suo disprezzo per i rivoluzionari impotenti. Così parla in modo ironico e sprezzante del piccolo gruppo di nazionalsocialisti a cui aveva aderito all'inizio a Monaco. Ecco la sua impressione sulla prima riunione alla quale partecipò: «Terribile, terribile; questa era accademia della peggior sorta. E io dovevo aderire a questa accademia? Poi discussero delle nuove adesioni. Cioè della mia cattura». Li chiama «un piccolo ridicolo cenacolo», il cui solo vantaggio era quello di offrire «l'occasione di una vera attività personale». Hitler dice che non avrebbe mai aderito ad uno dei grandi partiti esistenti, e questo atteggiamento è molto caratteristico di lui. Doveva cominciare in un gruppo che riteneva inferiore e debole. Il suo spirito d'iniziativa e il suo coraggio non sarebbero mai stati stimolati da una compagine in cui avesse dovuto combattere il potere costituito o competere con eguali. Mostra lo stesso disprezzo per l'inerme là dove scrive dei rivoluzionari indiani. Lo stesso individuo che ha usato più di chiunque altro lo slogan della libertà nazionale per i propri fini, non prova che disprezzo per questi rivoluzionari che non avevano alcun potere e che osavano attaccare il potente impero britannico. Gli vengono in mente, dice, «certi fachiri asiatici -forse, per quanto importa a me, certi veri 'combattenti per la libertà' indiani -che a quel punto circolavano per l'Europa, e che si ingegnavano di inculcare nella mente di gente per altri versi persino intelligente l'idea fissa che l'impero britannico, la cui chiave di volta è in India, stava per crollare proprio là... i ribelli indiani, tuttavia, non raggiungeranno mai il loro scopo... E' semplicemente impossibile che una coalizione di storpi riesca a sorprendere uno stato potente. . Non posso, se non altro perché conosco la loro inferiorità razziale, legare il destino della mia nazione a quello di queste cosiddette 'nazioni oppresse'». L'amore per il potente e l'odio per l'inerme, che è così tipico del carattere sado-masochistico, spiega gran parte delle azioni politiche di Hitler e dei suoi seguaci. Mentre il governo repubblicano riteneva di poter «rabbonire» i nazisti trattandoli con indulgenza, non solo non riuscì a rabbonirli, ma si guadagnò il loro odio proprio per la mancanza di fermezza e di potere dimostrata. Hitler odiava la repubblica di Weimar perché era debole, e ammirava i capi industriali e militari perché avevano il potere. Non si è mai battuto contro un forte potere costituito, ma sempre contro gruppi che riteneva fondamentalmente impotenti. La «rivoluzione» di Hitler -e anche di Mussolini -si è svolta sotto la protezione del potere costituito, e i loro bersagli favoriti erano coloro che non potevano difendersi. Si potrebbe anche spingersi a sostenere che l'atteggiamento di Hitler verso la Gran Bretagna sia stato determinato, tra l'altro, da questo complesso psicologico. Finché riteneva l'Inghilterra potente, l'ha amata e ammirata. Il suo libro rispecchia questo amore per l'Inghilterra. Quando si è reso conto della debolezza della posizione inglese prima e dopo Monaco, il suo amore si è convertito in odio e in desiderio di distruggerla. Da questo punto di vista la politica dell'"appeasement" era condannata a suscitare in una personalità come Hitler non l'amicizia, ma l'odio. Finora abbiamo parlato dell'aspetto sadico dell'ideologia di Hitler. Tuttavia, come abbiamo visto nell'esame del carattere autoritario, c'è, oltre a un aspetto sadico, un aspetto masochistico. C'è l'aspirazione a sottomettersi a un potere dalla forza irresistibile, ad annullare l'io, oltre al desiderio di esercitare il potere sugli esseri inermi. Questo aspetto masochistico dell'ideologia e della prassi naziste è evidente soprattutto nelle masse. A queste vien continuamente ripetuto: l'individuo è una nullità e non conta. L'individuo deve accettare questa insignificanza personale, dissolversi in un potere più alto e quindi sentirsi fiero di partecipare alla forza e alla gloria di questo potere più alto. Hitler esprime chiaramente quest'idea nella sua definizione dell'idealismo: «Solo l'idealismo conduce gli uomini a riconoscere volontariamente il privilegio della forza e della potenza, facendoli diventare in tal modo un granello di polvere di quell'ordine che dà forma all'intero universo». Goebbels dà una definizione analoga di ciò che chiama socialismo: «Essere socialista, scrive, vuol dire sottomettere l'io al tu; socialismo vuol dire sacrificare l'individuo al tutto». Questo sacrificare l'individuo e ridurlo a un granello di polvere, a un atomo, implica, secondo Hitler, la rinuncia al diritto di affermare la propria opinione personale, i propri interessi e la propria felicità. Questa abdicazione è l'essenza di un'organizzazione politica in cui «l'individuo rinuncia a rappresentare la sua opinione personale e i suoi interessi...». Egli loda l'«altruismo» e insegna che «nel dare la caccia alla propria felicità, gli individui cadono ancor più dal cielo all'inferno». Il fine dell'educazione è insegnare all'individuo a non affermare il suo io. Già il ragazzo a scuola deve imparare «a tacere, non solo quando viene rimproverato giustamente, ma deve anche imparare, se necessario, a sopportare l'ingiustizia in silenzio». A proposito dei suoi fini ultimi, così scrive: «Nello stato popolare, la visione popolare della vita è riuscita finalmente ad instaurare quella nobile epoca in cui gli uomini non dedicano più le loro sollecitudini a migliorare l'allevamento dei cani, dei cavalli e dei gatti, ma piuttosto all'allevamento dello stesso genere umano, un'era in cui l'uno consapevolmente e silenziosamente rinuncia, e l'altro lietamente dà e sacrifica». Questa frase è un po' sorprendente. Ci si aspetterebbe, dopo la descrizione di un tipo di individuo che «consapevolmente e silenziosamente rinuncia», la descrizione di un tipo opposto, magari di colui che comanda, assume la responsabilità, o qualcosa di simile. E invece Hitler definisce quest'«altro» tipo come caratterizzato anch'esso dalla capacità di sacrificarsi. E' difficile capire la differenza tra «silenziosamente rinuncia» e «lietamente sacrifica». Se mi è concesso di fare un'ipotesi, ritengo che Hitler volesse realmente distinguere in cuor suo tra le masse che debbono rassegnarsi e il dominatore che deve imporsi. Ma benché talvolta egli ammetta manifestamente la brama di potere sua e dell'"élite", spesso la nega. In questa frase, a quanto pare, non ha voluto esser così franco, e perciò ha sostituito al desiderio di comandare quello di «lietamente dare e sacrificare». Hitler riconosce chiaramente che la sua filosofia dell'autoannullamento e del sacrificio va intesa come valida per coloro la cui situazione economica non consente alcuna felicità. Egli non vuole creare un ordine sociale che renda possibile la felicità di ogni individuo; vuole sfruttare proprio la povertà delle masse, affinché queste credano nel suo vangelo dell'autoannullamento. Con estrema franchezza dichiara: «Ci rivolgiamo al grande esercito di coloro i quali sono talmente poveri che le loro vite personali non potrebbero significare la maggior fortuna del mondo...». Tutto questo predicare il sacrificio di sé ha uno scopo ovvio.

Le masse debbono rassegnarsi e sottomettersi, se la brama dì potere del capo dell'"élite" deve realizzarsi. Ma questo desiderio masochistico è riscontrabile anche nello stesso Hitler. Il potere superiore, a cui egli si sottomette, è Dio, il Destino, la Necessità, la Storia, la Natura.

In realtà tutti questi termini hanno pressappoco lo stesso significato per lui: quello di simboli di un potere dalla forza irresistibile. La sua autobiografia comincia con l'osservazione che è stata «una gran fortuna che il Fato abbia designato a luogo della mia nascita Braunau sull'Inn». Prosegue poi a dire che il popolo tedesco dev'esser riunito tutto in un solo stato, perché solo allora, quando questo stato si fosse dimostrato troppo piccolo per tutti loro, la "necessità" gli darebbe «il diritto morale di annettersi terre e territori». La sconfitta nella guerra 1914-18 è per lui «una meritata punizione da parte del "giudizio eterno"». Le nazioni che si mescolano con altre razze «peccano contro la volontà dell'eterna "Provvidenza"», o, come dice in un altro caso, «contro la volontà del "Creatore" Eterno». La missione della Germania è ordinata dal «Creatore dell'universo». Il "Cielo" è superiore agli individui, perché fortunatamente si può ingannare questi ultimi. ma «il cielo non può esser comperato». Il potere che colpisce Hitler probabilmente più di Dio, la Provvidenza e il Destino, è la Natura. Contro la tendenza storica degli ultimi quattrocento anni a sostituire al dominio sugli uomini il dominio sulla natura, Hitler insiste che si può e si deve imperare sugli uomini, ma che non si può imperare sulla natura. Ho già citato il suo detto che la storia dell'umanità probabilmente non è cominciata con l'addomesticamento degli animali, ma con il dominio sugli esseri inferiori. Perciò egli ridicolizza l'idea che l'uomo possa conquistare la natura, e si fa beffe di quelli che credono di poter conquistare la natura «non avendo altra arma a loro disposizione che un''idea'».

Afferma invece che l'uomo «non domina la natura, ma che, sorretto dalla conoscenza di alcune leggi e segreti della natura, si è elevato alla posizione di padrone di quegli altri esseri viventi ai quali manca questa conoscenza». Troviamo ancora una volta la stessa idea: la Natura è il grande potere a cui dobbiamo sottometterci, ma gli esseri viventi sono quelli che dobbiamo dominare. Ho cercato di dimostrare l'esistenza, negli scritti di Hitler, delle due tendenze che abbiamo già indicato come fondamentali nel carattere autoritario: la brama di potere sugli uomini, e il desiderio di sottomissione a un potere esterno irresistibilmente forte. Le idee di Hitler si identificano più o meno con l'ideologia del partito nazista. Le idee espresse nel suo libro sono quelle esposte negli innumerevoli discorsi con i quali ha conquistato al suo partito un seguito di massa. Questa ideologia deriva dalla sua personalità, la quale, col suo sentimento di inferiorità, l'odio per la vita, l'ascetismo, e l'invidia verso coloro che godono di vivere, è una matrice di tendenze sado-masochistiche; si indirizzava a persone che, avendo una struttura di carattere analoga, si sentivano attratte ed eccitate da questo insegnamento, e sono diventate ardenti seguaci dell'uomo che esprimeva ciò che provavano. Ma non è stata solo l'ideologia nazista a soddisfare la classe media inferiore; la politica ha realizzato in pratica ciò che l'ideologia prometteva. E' stata creata una gerarchia in cui ognuno ha sopra di sé qualcuno a cui sottomettersi, e ha sotto di sé qualcuno verso cui sentirsi potente; colui che sta in cima, il capo, ha il Destino, la Storia, la Natura sopra di sé come potere in cui sommergersi. Perciò l'ideologia e la prassi naziste soddisfano i desideri che scaturiscono dalla struttura di carattere di una parte della popolazione, e danno un indirizzo e un orientamento a quelli che, pur non provando piacere a dominare e a sottomettersi, si erano rassegnati e avevano rinunciato alla fede nella vita, nelle proprie decisioni, in tutto.

Da queste considerazioni è possibile trarre una prognosi circa la stabilità del nazismo nel futuro? Non mi sento qualificato a formulare delle previsioni. Tuttavia ci sono alcuni aspetti -come quelli che derivano dalle premesse psicologiche che abbiamo esaminato -che mi sembrano meritevoli d'attenzione. Tenuto conto delle condizioni psicologiche, il nazismo soddisfa le esigenze emotive della popolazione? E questa funzione psicologica è un fattore che favorisce la sua stabilità? Da tutto quello che abbiamo detto finora appare evidente che la risposta da dare a questa domanda è negativa. La realtà dell'individuazione umana, della distribuzione di tutti i «legami primari», è irreversibile. Il processo di distruzione del mondo medioevale ha richiesto quattrocento anni e sta completandosi nella nostra epoca. A meno che il sistema industriale non venga completamente distrutto, e si torni al livello preindustriale, l'uomo resterà un individuo ormai completamente emerso dal mondo circostante. Abbiamo visto che l'uomo non può sopportare questa libertà negativa; che cerca di fuggire verso una nuova schiavitù, che dovrebbe essere un sostituto dei vincoli primari ai quali ha rinunciato. Ma questi nuovi vincoli non costituiscono una vera unione con il mondo. Egli paga la nuova sicurezza con la rinuncia all'integrità del suo io. La dicotomia di fatto esistente tra lui e queste autorità non scompare. Esse soffocano e storpiano la sua vita, anche se al livello della coscienza egli può sottomettersi volontariamente. Nello stesso tempo vive in un mondo in cui non è diventato semplicemente un «atomo», perché esso gli fornisce anche ogni possibilità di diventare un individuo. Il sistema industriale moderno ha virtualmente la capacità non solo di produrre i mezzi per una vita economicamente sicura per tutti, ma anche di creare la base materiale per la piena espressione delle possibilità intellettuali, sensuali ed emotive dell'uomo, e al tempo stesso di ridurre notevolmente le ore da dedicare al lavoro. La funzione di un'ideologia e di una prassi autoritarie può esser paragonata alla funzione dei sintomi nevrotici. Tali sintomi sorgono da condizioni psicologiche intollerabili, e nello stesso tempo offrono una soluzione che renda possibile la vita. Tuttavia non si tratta di una soluzione che porti alla felicità, o consenta lo sviluppo della personalità. Essi lasciano immutate le condizioni che rendono necessaria la soluzione nevrotica. Il dinamismo della natura umana è un fattore importante, che tende a cercare soluzioni più soddisfacenti, solo che ci sia la possibilità di raggiungerle. La solitudine e l'impotenza dell'individuo, la sua aspirazione a realizzare le possibilità che si sono sviluppate in lui, la realtà obiettiva della crescente capacità produttiva dell'industria moderna, sono fattori dinamici che costituiscono la base di una crescente ricerca di libertà e di felicità. La fuga nella simbiosi può alleviare per un po' la sofferenza, ma non la elimina. La storia dell'umanità è la storia dello sviluppo dell'individuazione, ma è anche la storia dello sviluppo della libertà. L'aspirazione alla libertà non è una forza metafisica, e non si può spiegarla con la legge naturale; è il risultato necessario del processo di individuazione e dello sviluppo della civiltà. I sistemi autoritari non possono eliminare le condizioni fondamentali che creano l'aspirazione alla libertà; né possono estirpare l'aspirazione alla libertà che scaturisce da queste condizioni.
7. LIBERTA' E DEMOCRAZIA
 

 

 

 

 

1. L'illusione dell'individualità.
Nei capitoli precedenti ho cercato di dimostrare che nel sistema industriale moderno in generale, e nella sua fase monopolistica in particolare, esistono fattori che favoriscono lo sviluppo di una personalità che si sente impotente e sola, ansiosa e insicura. Ho esaminato inoltre quelle condizioni specifiche che in Germania hanno fatto di una parte della popolazione un terreno fecondo per una ideologia e una politica che si rivolgono a quello che ho definito il carattere autoritario. Ma che dire di noi? La nostra democrazia è minacciata solo dal fascismo d'oltre Atlantico o dalla «quinta colonna» nascosta tra i nostri ranghi? Se questo fosse il caso, la situazione sarebbe grave, ma non critica. Ma benché le minacce esterne e interne del fascismo debbano esser prese sul serio, sarebbe un grave errore e un grave pericolo non rendersi conto che nella nostra società ci troviamo di fronte allo stesso fenomeno che ha favorito ovunque il sorgere del fascismo: l'irrilevanza e l'impotenza dell'individuo. Quest'affermazione è in contrasto con la convinzione tradizionale secondo cui la democrazia moderna, liberando l'individuo da tutte le costrizioni esterne, ha realizzato il vero individualismo. Siamo orgogliosi di non esser soggetti ad alcuna autorità esterna, di esser liberi di esprimere i nostri pensieri e sentimenti, e diamo per acquisito che questa libertà quasi automaticamente garantisce la nostra individualità. Il diritto di esprimere i nostri pensieri, tuttavia, ha un significato solo se siamo capaci di avere pensieri nostri; la libertà dall'autorità esterna è una conquista duratura solo se le condizioni psicologiche interiori ci consentono di stabilire la nostra individualità. Abbiamo raggiunto quest'obiettivo? O almeno ci stiamo avvicinando ad esso? Questo libro si occupa del fattore umano: perciò il suo compito è di analizzare criticamente proprio queste domande. Così facendo, riprendiamo i fili lasciati in sospeso nei precedenti capitoli. Esaminando i due aspetti che la libertà presenta per l'uomo moderno, abbiamo fatto notare le condizioni economiche che favoriscono nella nostra epoca il crescente isolamento e la crescente impotenza dell'individuo; esaminando i risultati psicologici abbiamo dimostrato che questa impotenza porta o al tipo di fuga che troviamo nel carattere autoritario, oppure a un conformismo ossessivo nel corso del quale l'individuo isolato diventa un automa, perde la sua individualità e tuttavia nello stesso tempo al livello di coscienza si immagina libero e sottoposto solo a se stesso. E' importante rendersi conto di quanto la nostra civiltà favorisca questa tendenza al conformismo, anche se lo spazio ci consente di citare solo pochi esempi. La soppressione dei sentimenti spontanei, e conseguentemente dello sviluppo di un'individualità genuina, comincia prestissimo, si può dire con la primissima educazione del bambino (1). Con ciò non si vuole dire che l'educazione debba portare inevitabilmente alla soppressione della spontaneità, dato che il vero fine dell'educazione è di promuovere l'indipendenza interiore e l'individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità. Le restrizioni che una educazione di questo tipo può dover imporre al bambino che cresce sono soltanto misure transitorie, che in realtà appoggiano il processo di sviluppo e di espansione. Nella nostra civiltà, tuttavia, l'educazione troppo spesso produce l'eliminazione della spontaneità e la sostituzione agli atti psichici originali di sentimenti, pensieri e desideri sovraimpressi. (Per originale non intendo, ripeto, che un'idea non sia stata pensata prima da qualcun altro, ma che abbia origine nell'individuo, che sia il frutto della sua attività e che in questo senso sia il suo pensiero). Volendo scegliere un esempio un po' arbitrariamente, una delle prime soppressioni di sentimenti è quella che riguarda l'ostilità e l'antipatia. La maggior parte dei bambini prova sentimenti di ostilità e di ribellione per effetto dei loro conflitti con un mondo circostante, che tende a bloccare la loro espansività e a cui, come parte più debole, debbono di solito arrendersi. Uno dei fini essenziali del processo educativo è quello di eliminare questa reazione antagonistica. I metodi sono vari; essi vanno dalle minacce e dalle punizioni, che spaventano i bambini, ai metodi più sottili dell'allettamento e delle «spiegazioni», che confondono i bambini e li inducono a rinunciare alla loro ostilità. Il bambino comincia col rinunciare all'espressione del suo sentimento e alla fine rinuncia al sentimento stesso. Oltre a questo, gli viene insegnato a sopprimere la consapevolezza dell'ostilità e dell'insincerità degli altri; talvolta non è tanto facile, dato che i bambini hanno la capacità di notare negli altri questi tratti negativi senza farsi tanto facilmente ingannare, come gli adulti, dalle parole. Sono ancora capaci di trovare antipatica una persona «per nessuna buona ragione»: tranne l'ottima ragione che essi avvertono l'ostilità o l'insincerità che emana da questa persona. Questa reazione ben presto viene scoraggiata; non occorre molto tempo perché il bambino raggiunga la «maturità» dell'adulto medio, e perda la capacità di distinguere tra una persona per bene e un mascalzone, qualora quest'ultimo non si sia rivelato con qualche atto palese. D'altro canto, si insegna ben presto al bambino ad avere sentimenti che non sono affatto «suoi»; in particolare gli viene insegnato a trovar simpatiche le persone, ad essere acriticamente amabile con loro, e a sorridere. Dove non è arrivata l'educazione, arriva di solito più tardi la pressione sociale. Se uno non sorride, si dice che non ha una «personalità gradevole»; e bisogna avere una personalità gradevole se si vuol vendere i propri servizi, non importa se come cameriera, come commesso, o come medico. Solo quelli che stanno al fondo della piramide sociale -quelli che non vendono altro che la loro fatica fisica -e coloro che stanno al vertice, non hanno bisogno di essere particolarmente «gradevoli». La cordialità, il buon umore e tutto quello che si ritiene che un sorriso esprima, diventano reazioni automatiche che si accendono o si spengono come un interruttore elettrico (2). Naturalmente in molti casi la persona si rende conto di star facendo nient'altro che un gesto; nella maggior parte dei casi, però, si perde questa consapevolezza e di conseguenza la capacità di distinguere tra lo pseudosentimento e la cordialità spontanea. Non è soltanto l'ostilità che viene direttamente repressa, né solo la cordialità che viene uccisa sovrapponendole la sua contraffazione. La gamma di emozioni spontanee che vengono soppresse e sostituite da pseudosentimenti è assai ampia. Freud ha messo al centro del suo sistema una di queste soppressioni: cioè la soppressione della sessualità. Benché io creda che lo scoraggiamento del piacere sessuale non sia l'unica importante soppressione di reazioni spontanee, ma solo una tra le tante, è certo che la sua importanza non va sottovalutata. I suoi effetti sono evidenti nei casi di inibizioni sessuali, ed anche in quelli in cui la sessualità assume un carattere ossessivo e viene consumata come un liquore o una droga, che non ha alcun gusto particolare, ma consente di dimenticare se stessi. A prescindere da questo o quell'altro particolare effetto, la soppressione dei desideri sessuali, a causa della loro intensità, non solo ha ripercussioni nella sfera sessuale, ma indebolisce anche il coraggio della persona di esprimersi spontaneamente in tutte le altre sfere. Nella nostra società le emozioni in generale vengono scoraggiate. Benché senza dubbio il pensiero creativo -come ogni altra attività creativa -sia inseparabilmente legato ad emozioni, è diventato un ideale pensare e vivere senza emozioni. Essere «emotivo» è diventato sinonimo di instabile e squilibrato. Nell'accettare questa regola, l'individuo si è molto indebolito; il suo pensiero si è impoverito e appiattito. D'altro canto, le emozioni, non potendo essere completamente eliminate, debbono avere un'esistenza totalmente separata dall'aspetto intellettuale della personalità; il risultato è il sentimentalismo a buon mercato e insincero con cui i film e le canzonette nutrono milioni di consumatori emotivamente affamati. C'è un'emozione vietata su cui vorrei particolarmente soffermarmi, perché la sua soppressione incide profondamente nelle radici della personalità: il senso della tragedia. Come abbiamo visto in un altro capitolo, la coscienza della morte e dell'aspetto tragico della vita, vaga o chiara che sia, è una delle caratteristiche fondamentali dell'uomo. Ogni civiltà ha un suo modo di affrontare il problema della morte. Nelle società in cui il processo di individuazione è ancora all'inizio, la fine dell'esistenza individuale non è un gran problema, poiché la stessa esperienza dell'esistenza individuale è meno sviluppata. La morte non è ancora concepita come fondamentalmente diversa dalla vita. Le civiltà in cui troviamo uno sviluppo più alto dell'individuazione hanno trattato la morte secondo la loro struttura sociale e psicologica. I greci mettevano tutto l'accento sulla vita e rappresentavano la morte come una vaga e triste continuazione della vita. Gli egiziani fondavano le loro speranze sulla fede nell'indistruttibilità del corpo umano, per lo meno del corpo di coloro il cui potere durante la vita era indistruttibile. Gli ebrei ammettevano il fatto della morte realisticamente, e riuscivano a conciliarsi con l'idea della distruzione della vita individuale grazie alla visione di uno stato di felicità e di giustizia che sarebbe stato alla fine raggiunto dall'umanità in questo mondo. Il cristianesimo ha reso la morte irreale, e ha cercato di confortare l'individuo infelice con le promesse di una vita oltretomba. La nostra epoca si limita a negare la morte, e con essa un aspetto fondamentale della vita. Invece di lasciare che la coscienza della morte e del dolore diventino uno dei più forti incentivi alla vita -la base della solidarietà umana e un'esperienza senza la quale la gioia e l'entusiasmo mancano di intensità e di profondità -l'individuo viene costretto a reprimerla. Ma, come sempre succede nella repressione, gli elementi repressi non cessano di esistere per il solo fatto di essere stati eliminati dalla vista. Così la paura della morte vive tra noi un'esistenza illegittima. Resta viva nonostante il tentativo di negarla, ma la repressione la rende sterile. E' una delle fonti della piattezza di altre esperienze, dell'inquietudine che pervade la vita, e può spiegare, direi, la sproporzionata somma di denaro che questa nazione paga per i funerali. Nel processo di interdizione delle emozioni la psichiatria moderna svolge un ruolo ambiguo. Da un lato il suo maggior rappresentante, Freud, ha infranto la finzione del carattere razionale, intenzionale, della mente, e ha aperto una via che consente di scrutare nell'abisso delle passioni umane. Dall'altro la psichiatria, arricchita proprio da queste conquiste di Freud, si è resa strumento delle tendenze generali alla manipolazione della personalità. Molti psichiatri, inclusi certi psicanalisti, hanno dipinto il ritratto di una personalità «normale» che non è mai troppo triste, troppo irosa, o troppo eccitata. Essi usano parole come «infantile» o «nevrotico» per denunciare tratti o tipi di personalità che non si conformano al modello convenzionale dell'individuo «normale». Questo tipo di influenza è in certo senso più pericoloso delle vecchie e più franche forme di denigrazione. Allora l'individuo sapeva almeno che c'era qualcuno, o qualche dottrina, che lo criticava e poteva replicare. Ma chi può replicare alla «scienza»? Al pensiero originale tocca la stessa distorsione che si riscontra nei sentimenti e nelle emozioni. Sin dall'inizio dell'educazione il pensiero originale viene scoraggiato, e nei cervelli degli individui vengono inculcati pensieri già bell'e confezionati. E' abbastanza facile osservare come questo venga ottenuto nel caso dei bambini piccoli. Essi sono pieni di curiosità per il mondo, vogliono afferrarlo fisicamente e intellettualmente. Vogliono sapere la verità, dato che è il modo più sicuro per orientarsi in un mondo strano e potente. Invece non vengono presi sul serio, e poco importa se questo atteggiamento assuma la forma dell'aperta mancanza di rispetto oppure quella della velata degnazione che si usa verso tutti quelli che non hanno potere (come i bambini, i vecchi o gli ammalati). Benché già per se stesso questo trattamento scoraggi notevolmente il pensiero indipendente, c'è uno svantaggio anche maggiore, l'insincerità spesso non intenzionale -che è tipica del comportamento dell'adulto medio verso il bambino. Questa insincerità consiste almeno in parte nell'immagine fittizia del mondo che si dà al bambino. E' tanto utile quanto lo sarebbero delle istruzioni sulla vita nell'Artico ad uno che avesse chiesto come equipaggiarsi per una spedizione nel Sahara. Oltre a questa falsa rappresentazione del mondo, ci sono le molte menzogne specifiche tendenti a nascondere fatti che gli adulti, per varie ragioni personali, non vogliono far sapere ai bambini. Dal cattivo umore, che vien razionalizzato come insoddisfazione giustificata per la condotta del bambino, all'occultamento delle attività sessuali dei genitori e dei loro litigi, il bambino «non deve sapere» e le sue domande vengono scoraggiate con ostilità o con cortesia. Il bambino così preparato entra nella scuola e forse nel "college". Vorrei accennare brevemente ad alcuni metodi educativi, usati oggi, che in realtà scoraggiano ulteriormente il pensiero originale. Uno è l'insistenza sulla conoscenza dei dati di fatto, o per meglio dire sull'informazione. Perdura la patetica superstizione che conoscendo un numero sempre maggiore di dati di fatto si arrivi alla conoscenza della realtà. Centinaia di nozioni sparse e prive di nessi vengono rovesciate nella testa dello studente; il suo tempo e le sue energie vengono assorbiti dall'apprendimento di una massa crescente di nozioni, sicché resta ben poco margine per pensare. Naturalmente il pensiero che prescinda dalla conoscenza dei fatti resta vuoto e fittizio, ma la sola «informazione» può essere un ostacolo al pensiero proprio quanto la sua mancanza. Un'altra maniera, strettamente legata alla precedente, di scoraggiare la riflessione originale è quella di considerare ogni verità come relativa (3). Il concetto di verità viene considerato un concetto metafisico, e se qualcuno dice di voler scoprire la verità, viene giudicato arretrato dai pensatori «progrediti» del nostro tempo. La verità viene dichiarata una faccenda totalmente soggettiva, quasi una questione di gusto. L'attività scientifica dev'essere distaccata dai fattori soggettivi, e il suo scopo è di osservare il mondo senza passione e interesse. Lo scienziato deve accostarsi ai fatti con mani sterilizzate, come il chirurgo si accosta al paziente. Il risultato di questo relativismo, che spesso si presenta sotto il nome di empirismo e di positivismo, oppure si fa bello della sua preoccupazione per il corretto uso delle parole, è che il pensiero perde il suo stimolo essenziale: i desideri e gli interessi della persona che pensa; diventa invece una macchina per registrare i «fatti». In realtà, come il pensiero in generale è sorto dalla necessità di dominare la vita materiale, così la ricerca della verità ha le sue radici negli interessi e nei bisogni degli individui e dei gruppi sociali. Senza questo interesse, mancherebbe lo stimolo a ricercare la verità. Ci sono sempre dei gruppi il cui interesse viene favorito dalla verità, e i loro rappresentanti sono stati i pionieri del pensiero umano; ci sono invece altri gruppi i cui interessi vengono favoriti dall'occultamento della verità. Solo in quest'ultimo caso l'interesse si dimostra dannoso alla causa della verità. Perciò il problema non sta nel fatto che ci sia un interesse in gioco: ciò che importa è sapere quale interesse sia in gioco. Potremmo dire che nella misura in cui un desiderio di verità c'è in ogni essere umano, ciò si deve al fatto che ogni essere umano ne ha bisogno. Ciò vale in primo luogo per quanto riguarda l'orientamento della persona nel mondo esterno, e vale soprattutto per i bambini. Nell'infanzia ogni essere umano attraversa un periodo di impotenza, e la verità è una delle armi più efficaci per quelli che non hanno potere. Ma la verità giova all'interesse dell'individuo non solo ai fini del suo orientamento nel mondo esterno; la sua forza dipende in larga misura dal fatto di sapere la verità su se stesso. Le illusioni su se stessi possono diventare stampelle utili a coloro che non sono in grado di camminare da soli; ma aumentano certamente la debolezza della persona. Quanto maggiore è l'integrazione della personalità dell'individuo, e quanto maggiore è quindi la sua limpidezza verso se stesso, tanto più grande è la sua forza. Il «conosci te stesso» resta uno dei comandamenti fondamentali, che mirano a creare la base della forza e della felicità dell'uomo. Oltre ai fattori appena menzionati, esistono fattori che tendono attivamente a confondere quel che resta della capacità di pensare originalmente nell'adulto medio. Rispetto a tutte le questioni fondamentali della vita individuale e sociale, rispetto ai problemi psicologici, economici, politici e morali, un vasto settore della nostra cultura ha una sola funzione: quella di annebbiare le questioni centrali. Un esempio di cortina fumogena è l'affermazione secondo cui i problemi sono troppo complicati perché la persona media possa afferrarli. Al contrario, sembrerebbe che molte delle questioni di fondo della vita individuale e sociale siano semplicissime, così semplici, in realtà, che tutti dovrebbero essere tenuti a capirle. Il farle apparire così enormemente complicate che solo uno «specialista» può comprenderle -e anche lui, solo nel suo campo specifico di competenza -tende in realtà -e spesso intende -scoraggiare la fiducia delle persone nella propria capacità di riflettere sui problemi che davvero contano. L'individuo si sente disperatamente preso in mezzo a una caotica massa di dati, e con commovente pazienza aspetta che gli specialisti scoprano il da farsi e gli obiettivi da raggiungere. Il risultato di questo tipo di influenza è duplice: uno è lo scetticismo e il cinismo nei confronti di tutto quello che vien detto o stampato, e l'altro è un'infantile fiducia in tutto ciò che viene detto con autorità. Questa combinazione di cinismo e ingenuità è assai tipica dell'individuo moderno. La sua conseguenza ultima è quella di scoraggiarlo dal pensare e decidere autonomamente. Un altro modo di paralizzare la capacità di pensare criticamente è la distruzione di ogni immagine strutturata del mondo. I fatti perdono il carattere specifico che possono avere solo in quanto parti di un tutto strutturato, e conservano un significato puramente astratto, quantitativo; ogni fatto è semplicemente "un altro" fatto, e quel che conta è sapere di più o di meno. In questo senso la radio, il cinema e la stampa hanno un effetto disastroso. L'annuncio del bombardamento di una città e della morte di centinaia di persone viene seguito o interrotto sfacciatamente dalla réclame di un sapone o di un vino. Il medesimo annunciatore, con la stessa voce suggestiva, accattivante e autorevole che ha appena usato per dare al pubblico l'impressione della gravità della situazione politica, impone ora al suo pubblico i meriti della particolare marca di sapone che finanzia la trasmissione del notiziario. I cinegiornali fanno seguire ad immagini di navi silurate quelle di una sfilata di mode. I giornali ci informano sui banali pensieri o sulle preferenze gastronomiche di una debuttante con lo stesso spazio e con la stessa serietà che dedicano al resoconto di avvenimenti di importanza scientifica o artistica. A causa di tutto ciò cessiamo di avere dei veri rapporti con quel che sentiamo. Non ci emozioniamo più, i nostri sentimenti e il nostro giudizio critico si bloccano, e alla fine il nostro atteggiamento di fronte agli avvenimenti del mondo assume un carattere di piattezza e indifferenza. In nome della «libertà» la vita perde l'ossatura, finisce per esser composta di tanti pezzetti, ognuno separato dagli altri, e resta priva di senso nel suo insieme. L'individuo vien lasciato solo con questi pezzi, come un bambino con un gioco ad incastri; la differenza, però, è che il bambino sa cos'è una casa, e perciò è in grado di riconoscere le parti della casa nei minuscoli pezzi con cui sta giocando, mentre l'adulto non afferra il significato del «tutto», di cui gli capitano in mano i pezzi. E' confuso e spaventato, e continua a fissare i suoi pezzetti privi di significato. Quel che si è detto a proposito della mancanza di «originalità» nel sentimento e nel pensiero vale anche per la volontà. In questo caso è più difficile rendersene conto; l'uomo moderno, semmai, pare avere sin troppi desideri, e il suo solo problema sembra quello che, pur sapendo ciò che vuole, non può averlo. Tutte le nostre energie vengono spese allo scopo di ottenere quello che desideriamo, e la maggior parte degli individui non mettono mai in discussione il presupposto di quest'attività, il sapere, cioè, quel che davvero vogliono. Non si soffermano mai a riflettere se i fini che stanno perseguendo siano proprio quelli che vogliono loro: nella scuola vogliono avere buoni voti, da adulti vogliono avere sempre più successo, guadagnare più denaro, avere più prestigio, comprare un'automobile più bella, andare in giro, e così via. Ma se si fermano per un momento a pensare in mezzo a tutta questa frenetica attività, può sorgergli alla mente questa domanda: «Se ottengo questo nuovo posto, se prendo questa automobile più bella, se riesco a fare questo viaggio, che cosa succede? A che serve tutto questo? Sono veramente io che voglio queste cose? Non sto per caso inseguendo una meta che dovrebbe farmi felice e che mi sfugge non appena la raggiungo?». Queste domande, quando sorgono, fanno paura, perché mettono in dubbio la base stessa su cui poggia l'intera attività dell'individuo: il fatto di sapere che cosa vuole. Perciò le persone tendono a liberarsi il più presto possibile di questi pensieri che turbano. Credono che queste domande tormentose siano sorte perché si sentivano stanche o depresse: e continuano a perseguire i fini che ritengono propri. Ma tutto questo rivela una vaga intuizione della verità: la verità che l'uomo moderno vive nell'illusione di sapere ciò che vuole, mentre in realtà vuole quel che ci si aspetta che voglia. Per accettare questo è necessario rendersi conto che sapere quel che davvero si vuole non è relativamente facile, come crede la maggior parte delle persone, ma è uno dei problemi più difficili che gli esseri umani debbano risolvere. E' un compito che freneticamente cerchiamo di evitare, accettando mete prefabbricate come se fossero le nostre. L'uomo moderno è disposto a correre grandi rischi quando cerca di realizzare i fini che in teoria sono i «suoi»; ma ha una gran paura di assumersi il rischio e la responsabilità di dare a se stesso i suoi fini. Un'intensa attività viene spesso presa per una prova di azione autodeterminata, mentre sappiamo che può essere benissimo non più spontanea del comportamento di un attore o di una persona ipnotizzata. Quando la trama generale della commedia è stata distribuita, ogni attore può recitare vigorosamente il ruolo che gli è stato assegnato e persino inventare delle battute e certi dettagli dell'azione. E tuttavia sta solo recitando un ruolo che gli è stato assegnato. La particolare difficoltà di individuare in quale misura i nostri desideri -come anche i nostri pensieri e sentimenti -non sono realmente nostri, ma ci sono stati inculcati dall'esterno, è strettamente associata al problema dell'autorità e della libertà. Nel corso della storia moderna, l'autorità della Chiesa è stata sostituita da quella dello stato, quella dello stato dall'autorità della coscienza, e nel nostro tempo quest'ultima è stata sostituita dall'autorità anonima del senso comune e dell'opinione pubblica quali strumenti di conformismo. Essendoci liberati dalle vecchie forme palesi di autorità, non ci rendiamo conto di esser caduti preda di un nuovo genere di autorità. Siamo diventati automi che vivono nell'illusione di essere individui autonomi. Questa illusione aiuta l'individuo a restare inconsapevole della propria insicurezza, ma questo è tutto l'aiuto che può dare una simile illusione. Nella sostanza l'io dell'individuo è indebolito, sicché si sente impotente ed estremamente insicuro. Vive in un mondo con il quale non è più in autentico rapporto, in cui tutti e tutto sono ormai strumentalizzati, in cui è diventato una parte della macchina che le sue mani hanno costruito. Pensa, sente e vuole quel che crede di esser tenuto a pensare, sentire e volere; e proprio in questo processo perde il suo io, sul quale deve esser costruita tutta l'autentica sicurezza di un individuo libero. La perdita dell'io ha aumentato la necessità di conformarsi, perché produce un grave dubbio circa la propria identità. Se io non sono altro che ciò che credo di essere tenuto ad essere, chi sono «io»? Abbiamo visto come il dubbio sul proprio essere sia cominciato con il crollo dell'ordine medioevale, nel quale l'individuo aveva occupato un posto indiscusso in un ordine fisso. L'identità dell'individuo è uno dei massimi problemi della filosofia moderna a partire da Cartesio.

Oggi diamo per scontato di essere «noi», tuttavia il dubbio su noi stessi esiste ancora, o addirittura è aumentato. Nei suoi drammi Pirandello ha espresso efficacemente questo sentimento dell'uomo moderno. Egli parte dalla domanda: chi sono io? Quale prova ho della mia identità, a parte la continuità del mio essere fisico? La sua risposta non è, come in Cartesio, l'affermazione dell'io individuale, ma la sua negazione: non ho alcuna identità, non c'è alcun io tranne quello che è il riflesso di quel che gli altri pretendono che io sia: io sono «come tu mi vuoi». Perciò questa perdita dell'identità rende ancor più imperativo il bisogno di conformarsi; il che vuol dire che si può essere sicuri di se stessi solo se non si deludono le aspettative degli altri. Se non siamo adeguati a questa immagine, non solo rischiamo la disapprovazione e un maggiore isolamento, ma rischiamo di perdere l'identità della nostra personalità, il che metterebbe in pericolo il nostro equilibrio mentale. Dal conformarsi alle aspettative degli altri, dal non essere diversi, questi dubbi sulla propria identità vengono messi a tacere; e così si conquista una certa sicurezza. Ma il prezzo che si paga è alto. Rinunciare alla spontaneità e all'individualità significa soffocare la vita. Dal punto di vista psicologico l'automa, pur essendo vivo biologicamente, è morto come sentimenti e pensieri. Mentre fa i gesti del vivere, la sua vita gli scorre tra le mani come sabbia. Dietro alla facciata della soddisfazione e dell'ottimismo, l'uomo moderno è profondamente infelice; anzi, è sull'orlo della disperazione. Si aggrappa disperatamente all'idea dell'individualità; vuole essere «diverso», e la sua maggior lode è dire che qualcosa «è diverso». Ci vien segnalato il nome dell'impiegato delle ferrovie dal quale acquistiamo i biglietti; le borsette, le carte da gioco e le radio portatili vengono «personalizzate» stampandoci su le iniziali del proprietario. Tutto ciò sta ad indicare la fame di «diversità», e tuttavia questi sono quasi gli ultimi segni rimasti dell'individualità. L'uomo moderno è affamato di vita. Ma poiché, essendo un automa, non riesce a vivere la vita come attività spontanea, prende come suo surrogato qualsiasi sorta di emozione e brivido: il brivido del bere, degli sport, del vivere vicariamente le emozioni di personaggi irreali dello schermo. Ma allora che cosa significa la libertà per l'uomo moderno? E' diventato libero dai vincoli esterni, che gli impedirebbero di fare e di pensare come crede. Vorrebbe esser libero di agire secondo la sua volontà, se sapesse che cosa vuole, pensa e sente; ma non lo sa. Si conforma ad autorità anonime, e adotta una personalità che non è la sua. E più fa così, più impotente si sente, e più è costretto a conformarsi. Sotto la vernice dell'ottimismo e dell'intraprendenza, l'uomo moderno è sopraffatto da un profondo sentimento di impotenza, che lo porta a guardare le catastrofi incombenti come se fosse paralizzato. Osservate superficialmente, le persone sembrano funzionare abbastanza bene nella vita economica e sociale; tuttavia sarebbe pericoloso trascurare la profonda infelicità che sta dietro questa consolante vernice. Se la vita perde il suo significato perché non viene vissuta, l'uomo diventa disperato. Gli individui non muoiono silenziosamente di fame fisica; e non muoiono silenziosamente nemmeno di fame psichica. Se consideriamo solo i bisogni economici della persona «normale», se non individuiamo la sofferenza inconscia della persona automatizzata, allora non riusciamo a comprendere il pericolo che minaccia la base umana della nostra civiltà: la disposizione ad accettare qualsiasi ideologia e qualsiasi capo, purché prometta emozioni e offra una struttura politica e dei simboli che apparentemente diano significato e ordine alla vita dell'individuo. La disperazione dell'automa umano è un terreno fertile per le mire politiche del fascismo.

 

 

2. Libertà e spontaneità.
Finora questo libro si è occupato di uno degli aspetti della libertà: l'impotenza e insicurezza dell'individuo isolato nella società moderna, che è diventato libero da tutti i legami che un tempo davano significato e sicurezza alla vita. Abbiamo visto che l'individuo non può sopportare questo isolamento; come essere isolato è completamente inerme di fronte al mondo esterno e perciò ne ha una profonda paura; e a causa del suo isolamento, l'unità del mondo si è spezzata per lui ed egli ha perduto qualsiasi punto di riferimento. Perciò è sopraffatto da dubbi. Su se stesso, sul significato della vita e alla fine su tutti i princìpi secondo i quali può orientare le sue azioni. Sia l'impotenza che il dubbio paralizzano la vita, e per vivere l'uomo cerca di fuggire dalla libertà, dalla libertà negativa. E' spinto verso una nuova schiavitù. Quest'ultima è diversa dai legami primari. La fuga non gli ridà la sicurezza perduta, ma semplicemente lo aiuta a dimenticare il proprio io come entità separata. Prova una nuova e fragile sicurezza al prezzo di sacrificare l'integrità del suo io individuale. Sceglie di perdere il suo io, perché non può sopportare di esser solo. Perciò la libertà -come libertà "da" -conduce a una nuova schiavitù. La nostra analisi si presta dunque alla conclusione che esiste un circolo vizioso che porta dalla libertà a una nuova dipendenza? La libertà da tutti i legami primari rende l'individuo così solo e isolato che inevitabilmente deve fuggire in una nuova schiavitù? L'indipendenza e la libertà si identificano con l'isolamento e la paura? O c'è uno stato di libertà positiva, in cui l'individuo esiste come essere indipendente e tuttavia non è isolato, ma unito al mondo, agli altri uomini e alla natura? Riteniamo che sia possibile dare una risposta positiva, che il processo di sviluppo della libertà non costituisca un circolo vizioso, e che l'uomo possa essere libero eppure non solo, capace di critica eppure non oppresso da dubbi, indipendente eppure parte integrante dell'umanità. L'uomo può raggiungere questa libertà conoscendo se stesso, essendo se stesso. Che cos'è la realizzazione del proprio essere? I filosofi idealisti hanno sostenuto che la conoscenza di sé può esser raggiunta solo mediante la percezione intellettuale. Hanno voluto spaccare la personalità umana perché la natura dell'uomo potesse venir soppressa e sorvegliata dalla sua ragione. La conseguenza di questa spaccatura, però, è stata che non solo la vita emotiva dell'uomo, ma anche le sue facoltà intellettuali sono rimaste menomate. La ragione, diventando un guardiano messo a sorvegliare il suo prigioniero -la natura -è diventata anch'essa prigioniera; e così ambedue le parti della personalità umana, la ragione e il sentimento, sono rimaste menomate. Noi riteniamo che la realizzazione dell'io si compia non solo per mezzo di un atto intellettuale, ma anche mediante la realizzazione della personalità totale dell'uomo, per effetto dell'espressione attiva delle sue possibilità emotive e intellettuali. Queste possibilità sono presenti in tutti; diventano reali solo nella misura in cui vengono espresse. In altre parole, "la libertà positiva consiste nell'attività spontanea della personalità totale". Qui ci troviamo di fronte ad uno dei problemi più difficili della psicologia: il problema della spontaneità. Un esame adeguato di questo problema richiederebbe un altro volume. Tuttavia, sulla base di quello che abbiamo detto finora, è possibile arrivare per contrasto a comprendere la natura fondamentale dell'attività spontanea. L'attività spontanea non è l'attività coatta, alla quale l'individuo è spinto dall'isolamento e dall'impotenza, non è l'attività dell'automa, che è assimilazione acritica di modelli suggeriti dall'esterno. L'attività spontanea è libera attività dell'io e implica, psicologicamente, quello che la radice latina della parola, "sponte", significa letteralmente: di propria libera volontà. Per attività non intendiamo il «far qualcosa», ma quell'attività creativa che può operare nelle proprie esperienze emotive, intellettuali e sensuali, e anche nella propria volontà. Un presupposto di questa spontaneità è l'accettazione della personalità totale, e l'eliminazione della spaccatura tra «ragione» e «natura»; infatti solo se l'uomo non reprime parti essenziali del proprio essere, solo se è diventato trasparente a se stesso, e solo se le diverse sfere della vita hanno raggiunto una fondamentale integrazione, è possibile l'attività spontanea.

Benché la spontaneità sia un fenomeno relativamente raro nella nostra civiltà, non è che ne siamo completamente privi. Per aiutare a comprendere questo punto, vorrei ricordare al lettore alcuni casi in cui tutti vediamo un barlume di spontaneità. In primo luogo, conosciamo individui che sono -o sono stati spontanei, i cui pensieri, sentimenti e atti sono l'espressione di loro stessi e non di un automa. Questi individui ci sono familiari per lo più come artisti. Infatti, l'artista può essere definito un individuo in grado di esprimersi spontaneamente. Se questa è la definizione dell'artista -Balzac lo definiva proprio in questo modo allora certi filosofi e scienziati devono anch'essi venir chiamati artisti, mentre altri che passano per tali sono tanto lontani dall'artista quanto un vecchio fotografo può esserlo da un pittore creativo. Ci sono altri individui i quali, pur non avendo la capacità -o forse semplicemente la preparazione -per esprimersi in un mezzo oggettivo come fa l'artista, possiedono la stessa spontaneità. Ma la posizione dell'artista è vulnerabile, perché in realtà si rispetta l'individualità e la spontaneità del solo artista riuscito; se non riesce a vendere la sua arte, egli resta per i suoi contemporanei un eccentrico, un nevrotico. In questo senso l'artista sta in una posizione simile a quella che ha sempre contraddistinto nella storia il rivoluzionario. Il rivoluzionario vittorioso è uno statista, il rivoluzionario fallito è un criminale. I bambini piccoli offrono un altro esempio di spontaneità. Hanno la capacità di sentire e pensare ciò che è veramente "loro"; questa spontaneità si manifesta in quello che dicono e pensano, nei sentimenti che i loro visi esprimono. Se ci si chiede perché i bambini piacciono alla maggior parte delle persone, credo che la risposta, a prescindere dalle ragioni sentimentali e convenzionali, vada cercata proprio in questo carattere della spontaneità. Essa attira profondamente chiunque non sia talmente arido da aver perduto la capacità di percepirla. In realtà non c'è nulla di più accattivante e convincente della spontaneità, sia che la si trovi nel bambino, o nell'artista, sia che la si trovi in quegli individui che non rientrano per età o professione in questi due gruppi. La maggior parte di noi è in grado di notare per lo meno dei momenti della propria spontaneità, che sono nello stesso tempo momenti di autentica felicità. Si tratti della fresca e spontanea percezione di un paesaggio, o del sorgere di una verità come risultato della nostra riflessione, o di un piacere dei sensi che non sia stereotipato, o dell'insorgere dell'amore per un'altra persona: in questi momenti sappiamo tutti che cosa sia un atto spontaneo, e tutti possiamo intuire che cosa potrebbe essere la vita umana se queste esperienze non fossero così rare e casuali. Perché l'attività spontanea è la risposta al problema della libertà? Abbiamo detto che la libertà negativa di per sé fa dell'individuo un essere isolato, il cui rapporto con il mondo è remoto e sospettoso, e il cui io è debole e continuamente minacciato. L'attività spontanea è il solo modo in cui l'uomo può superare il terrore della solitudine senza sacrificare l'integrità del suo essere; infatti nella realizzazione spontanea dell'io l'uomo si riunisce al mondo: all'uomo, alla natura e a se stesso. L'amore è la principale componente di tale spontaneità, non l'amore come dissoluzione dell'io in un'altra persona, non l'amore come possesso di un'altra persona, ma l'amore come affermazione spontanea degli altri, come unione dell'individuo con gli altri sulla base della conservazione dell'io individuale. Il carattere dinamico dell'amore sta proprio in questa polarità: esso sorge dal bisogno di superare la separazione, porta all'unità, e tuttavia l'individualità non viene eliminata. Il lavoro è l'altra componente; non il lavoro come attività ossessiva per sfuggire la solitudine, non il lavoro come rapporto con la natura che in parte è di dominio su di essa, e in parte di adorazione e sottomissione agli stessi prodotti delle mani dell'uomo ma il lavoro come creazione, in cui l'uomo diventa uno con la natura nell'atto della creazione. Ciò che è vero dell'amore e del lavoro è vero di tutta l'azione spontanea, si tratti della realizzazione del piacere dei sensi o della partecipazione alla vita politica della collettività. Afferma l'individualità dell'io e nello stesso tempo unisce l'io agli uomini e alla natura. La fondamentale dicotomia implicita nella libertà -la nascita dell'individualità e il dolore della solitudine -viene dissolta su un piano più alto dall'attività spontanea. In ogni attività spontanea l'individuo abbraccia il mondo. Non solo il suo io individuale resta intatto, ma si rafforza e si consolida. "Infatti l'io è tanto forte quanto è attivo". Non c'è vera forza nel possesso in sé, sia esso di beni materiali, oppure di qualità spirituali, come i sentimenti o i pensieri. Non c'è forza nemmeno nell'uso e nella manipolazione degli oggetti; ciò che usiamo non è nostro semplicemente perché lo usiamo. Nostro è solo ciò a cui siamo veramente legati dalla nostra attività creativa, si tratti di una persona ovvero di un oggetto inanimato. Solo le qualità che sorgono dalla nostra attività spontanea danno forza all'io e formano pertanto la base della sua integrità. L'incapacità di agire spontaneamente, di esprimere quel che veramente si sente e si pensa, e la conseguente necessità di presentare uno pseudo io agli altri e a se stessi, sono la radice del sentimento di inferiorità e di debolezza. Che ne siamo o no coscienti, non c'è nulla di cui ci vergogniamo di più del fatto di non essere noi stessi, e non c'è nulla che ci dia più orgoglio o felicità del pensare, sentire e dire quel che è nostro. Ciò implica che quello che importa è l'attività in quanto tale, il processo e non il risultato. Nella nostra civiltà l'accento batte sulla cosa opposta. Produciamo non per una soddisfazione concreta, ma per il fine astratto di vendere la nostra merce; riteniamo di poter acquistare ogni bene materiale o immateriale comprandolo, e così le cose diventano nostre senza alcuno sforzo creativo nostro nei loro confronti. Analogamente consideriamo le nostre qualità personali e il risultato dei nostri sforzi come merci che possono essere vendute in cambio di denaro, prestigio e potere. Così l'accento si sposta dall'immediata soddisfazione dell'attività creativa al valore del prodotto finito. In questo modo l'uomo perde la sola soddisfazione che può dargli vera felicità -l'esperienza dell'attività del momento presente -e rincorre un fantasma che lo lascia deluso non appena crede di averlo afferrato: quell'illusoria felicità che si chiama il successo. Se l'individuo realizza il suo io mediante l'attività spontanea, e in questo modo si mette in rapporto con il mondo, cessa di essere un atomo isolato; sia lui che il mondo diventano parti di un tutto organico; egli occupa il suo giusto posto, e così i dubbi su se stesso e sul significato della vita si dileguano. Questi dubbi scaturivano dal suo isolamento e dal soffocamento della vita; quando egli riesce a vivere non in modo coatto, né da automa, ma spontaneamente, essi scompaiono. Ha coscienza di sé come di un individuo attivo e creativo e riconosce che "c'è un solo significato della vita: l'atto stesso di vivere". Se l'individuo supera il dubbio fondamentale su se stesso e sul suo posto nella vita, se si riunisce al mondo abbracciandolo nell'atto del vivere spontaneamente, acquista forza come individuo, e acquista anche sicurezza. Questa sicurezza, però, è diversa dalla sicurezza che caratterizza la fase preindividuale, allo stesso modo che il nuovo rapporto con il mondo è diverso da quello che caratterizzava i legami primari. La nuova sicurezza non è radicata nella protezione che l'individuo riceve da un potere esterno superiore; e nemmeno è una sicurezza in cui sia eliminato il carattere tragico della vita. La nuova sicurezza è dinamica; non è fondata sulla protezione, ma sull'attività spontanea dell'uomo. E' la sicurezza che si acquista ogni momento per mezzo dell'attività spontanea. E' la sicurezza che solo la libertà può dare, e che non ha bisogno di illusioni perché ha eliminato le condizioni che rendono necessarie le illusioni. La libertà positiva intesa come la realizzazione dell'io implica la piena affermazione dell'unicità dell'individuo. Gli uomini nascono eguali, ma nascono anche diversi. La base di questa differenza è l'eredità fisiologica e mentale con cui cominciano la vita, e a cui si aggiunge la particolare costellazione di vicende ed esperienze che incontrano. Questa base individuale della personalità non è simile a nessun'altra, se non nella misura in cui sono simili fisicamente due organismi. Il vero sviluppo dell'io è sempre uno sviluppo fondato su questa base particolare; è uno sviluppo organico, il dispiegarsi di un nucleo che è peculiare ad una particolare persona, e solo a lei. Viceversa lo sviluppo dell'automa non è una crescita organica. La crescita della base dell'io è bloccata, e uno pseudo io viene sovrimposto a questo io; il che, come abbiamo visto, è essenzialmente l'incorporazione di modelli estranei di pensiero e sentimento. La crescita organica è possibile solo nel rispetto assoluto della peculiarità dell'io delle altre persone, come del proprio. Questo rispetto e questa cura dell'unicità dell'io sono la conquista più valida dell'attività umana, ed è proprio questa conquista che oggi si trova in pericolo. L'unicità dell'io non contraddice in alcun modo al principio dell'eguaglianza. La tesi che gli uomini nascono eguali implica che essi tutti condividono le stesse fondamentali qualità umane, che condividono il destino fondamentale degli esseri umani, che hanno tutti lo stesso inalienabile diritto alla libertà e alla felicità. Significa anche che il loro rapporto è un rapporto di solidarietà, non di dominio-sottomissione. Quel che il concetto di eguaglianza non significa è che tutti gli uomini siano identici. Un tale concetto dell'eguaglianza viene dedotto dal ruolo che l'individuo svolge oggi nelle sue attività economiche. Nel rapporto tra colui che compra e colui che vende, le concrete differenze di personalità vengono eliminate. In questa situazione una sola cosa conta, che uno abbia qualcosa da vendere e l'altro abbia denaro per comprarla. Nella vita economica un uomo non differisce dall'altro; come persone autentiche invece sì, e la coltivazione della loro unicità è l'essenza dell'individualità. La libertà positiva implica anche il principio che non esiste un potere superiore a questo io individuale unico, che l'uomo è il centro e lo scopo della sua vita; che lo sviluppo e la realizzazione dell'individualità dell'uomo sono fini che non possono mai venir subordinati a scopi che si pretende abbiano maggiore dignità. Questa interpretazione può suscitare gravi obiezioni. Non postula forse un egoismo sfrenato? Non nega forse l'idea del sacrificio per un ideale? Il suo accoglimento non condurrebbe all'anarchia? A queste domande in realtà si è già risposto, in parte esplicitamente, in parte implicitamente, nel corso dell'analisi che abbiamo condotto. Per noi sono tuttavia troppo importanti per non fare un altro tentativo di chiarire le risposte e di evitare i fraintendimenti. Affermare che l'uomo non deve esser soggetto a qualcosa di superiore a lui non significa negare la dignità degli ideali. Al contrario, è la più forte affermazione degli ideali. Ci costringe però ad un'analisi critica di che cosa è un ideale. Oggigiorno si dà di solito per scontato che un ideale è un qualsiasi fine il cui perseguimento non implichi un guadagno materiale, una qualsiasi cosa per la quale una persona sia pronta a sacrificare dei fini egoistici. Questo è un concetto puramente psicologico -e anzi relativistico -dell'ideale. Da questo punto di vista soggettivistico un fascista, che è mosso dal desiderio di subordinarsi a un potere, e nello stesso tempo di sopraffare gli altri, ha un ideale proprio come lo ha l'uomo che si batte per l'eguaglianza e per la libertà umane. Su questa base il problema degli ideali non può in alcun modo esser risolto. Dobbiamo riconoscere la differenza che corre tra veri ideali e ideali fittizi, una differenza non meno fondamentale di quella che esiste tra la verità e la menzogna. Tutti i veri ideali hanno un elemento in comune: esprimono il desiderio di qualcosa che non è ancora realizzato, ma che è desiderabile ai fini dello sviluppo e della felicità dell'individuo (4). Forse non sappiamo sempre che cosa giovi a questo fine, e possiamo trovarci in disaccordo sulla funzione di questo o quell'ideale dal punto di vista dello sviluppo umano, ma questa non è una buona ragione per cadere in un relativismo che sostenga che non possiamo sapere che cosa promuova la vita o che cosa l'arresti. Non sappiamo sempre con sicurezza quale cibo sia sano e quale non lo sia, ma non per questo arriviamo alla conclusione che non abbiamo alcuna possibilità di individuare il veleno. Analogamente possiamo sapere, sol che lo vogliamo, che cosa sia velenoso per la vita mentale. Sappiamo che la miseria, l'intimidazione, l'isolamento sono rivolti contro la vita; e che tutto ciò che giova alla libertà e promuove il coraggio e la forza di essere se stessi è a favore della vita. Che cosa sia bene o male per l'uomo non è una questione metafisica, ma un problema empirico a cui si può dare una risposta in base all'analisi della natura dell'uomo e degli effetti che certe condizioni hanno su di lui. Ma che dire degli «ideali», come quelli dei fascisti, che si dirigono decisamente contro la vita? Come dobbiamo interpretare il fatto che degli uomini seguono questi falsi ideali con lo stesso fervore con cui altri uomini seguono i veri ideali? La risposta a questo interrogativo può essere data da alcune considerazioni psicologiche. Il fenomeno del masochismo ci dimostra che gli uomini possono esser spinti a sperimentare il dolore o la sottomissione. Senza dubbio la sofferenza, la sottomissione o il suicidio rappresentano l'antitesi dei fini positivi della vita. E tuttavia questi fini possono venir soggettivamente sperimentati come piacevoli e attraenti. Questa attrazione verso ciò che nella vita c'è di nocivo è il fenomeno che più di ogni altro merita il nome di perversione patologica. Molti psicologi hanno sostenuto che quello del provare il piacere ed evitare il dolore è il solo principio legittimo che guidi l'attività umana; ma la psicologia dinamica è in grado di dimostrare che l'esperienza soggettiva del piacere non è un criterio sufficiente per valutare certi comportamenti dal punto di vista della felicità umana. L'analisi dei fenomeni masochistici ne fa fede. Tale analisi dimostra che la sensazione del piacere può essere il risultato di una perversione patologica, e che per quanto riguarda il significato obiettivo dell'esperienza essa è tanto poco probante quanto il dolce sapore di un veleno lo sarebbe riguardo alla sua funzione per l'organismo (5). Arriviamo così a definire vero ideale ogni fine che promuova lo sviluppo, la libertà e la felicità dell'io, e a definire ideali fittizi quei fini ossessivi e irrazionali che soggettivamente sono esperienze piacevoli (come l'impulso alla sottomissione) ma che in realtà sono nocivi alla vita. Accettata questa definizione, ne segue che un vero ideale non è una forza nebulosa superiore all'individuo, bensì la piena espressione della completa affermazione dell'io. Ogni ideale in contrasto con una siffatta affermazione si dimostra perciò stesso non un ideale, ma un fine patologico. E questo ci porta a un altro problema, quello del sacrificio. La nostra definizione della libertà, come non-sottomissione ad un potere "più alto", esclude dunque i sacrifici, compreso il sacrificio della propria vita? Questo è un problema particolarmente importante oggi che il fascismo addita nel sacrificio di sé la virtù più alta e fa colpo su molta gente per il suo carattere «idealistico». La risposta a questo interrogativo deriva logicamente da quel che abbiamo detto finora. Ci sono due specie completamente diverse di sacrificio. E' una delle realtà tragiche della vita il fatto che le esigenze del nostro essere fisico e i fini del nostro io mentale possano trovarsi in conflitto; che in effetti ci si possa trovare nella necessità di dover sacrificare il proprio io fisico per affermare l'integrità del proprio io spirituale. Questo sacrificio non potrà mai perdere il suo carattere tragico. La morte non è mai dolce, nemmeno se viene subìta per il più alto degli ideali. Resta indicibilmente amara, e ciò nonostante può costituire la massima affermazione della nostra individualità. Un tale sacrificio è fondamentalmente diverso dal «sacrificio» che predica il fascismo. Per quest'ultimo il sacrificio non è il prezzo più alto che un uomo può dover pagare per affermare se stesso, ma è un fine in sé. Questo sacrificio masochistico vede la realizzazione della vita proprio nella sua negazione, nell'annullamento dell'io. Esso non è che la suprema espressione di quello a cui mira il fascismo in tutte le sue ramificazioni: l'annullamento dell'io individuale e la sua totale sottomissione a un potere superiore. E' la perversione del vero sacrificio, così come il suicidio è la massima perversione della vita. Il vero sacrificio presuppone un'aspirazione intransigente all'integrità spirituale. Il sacrificio di quelli che l'hanno perduta non fa che mascherare il loro fallimento morale. C'è un'ultima obiezione a cui è necessario rispondere; se gli individui vengono lasciati agire liberamente nel senso della spontaneità, se non riconoscono un'autorità più alta di loro stessi, l'anarchia sarà il risultato inevitabile? Nella misura in cui il termine anarchia sta a indicare egoismo irresponsabile e distruttività, il fattore determinante dipenderà dal modo in cui si intende la natura umana. Posso solo riferirmi a quello che è stato detto nel capitolo riguardante i meccanismi di fuga: che l'uomo non è né buono né cattivo; che la vita ha una tendenza intrinseca a crescere, a espandersi, a esprimere possibilità; che se la vita viene soffocata, se l'individuo è isolato e torturato da dubbi o da un sentimento di solitudine e di impotenza, allora sentirà un impulso alla distruttività e un desiderio di potere o di sottomissione. Se la libertà umana si instaura come «libertà di», se l'uomo riesce a realizzare il proprio io pienamente e senza compromessi, la causa fondamentale dei suoi impulsi asociali scomparirà, e solo l'individuo malato e anormale sarà pericoloso. Questa libertà non è mai stata realizzata nella storia del genere umano, eppure è un ideale a cui l'umanità si è sempre aggrappata, benché spesso sia stato espresso in forme astruse e irrazionali. Non c'è alcuna ragione di meravigliarsi del fatto che la storia riveli così tanta crudeltà e distruttività. Se c'è qualcosa di cui sorprendersi -e da cui sentirsi incoraggiati -è il fatto che la razza umana, nonostante tutto quello che è accaduto agli uomini, abbia conservato -ed anzi sviluppato -delle qualità di dignità, coraggio, onestà, e bontà che ritroviamo in tutta la storia e che riscontriamo anche oggi in innumerevoli individui. Se per anarchia si intende che l'individuo non riconosce alcuna sorta di autorità, la risposta va trovata in quel che abbiamo detto a proposito della differenza tra autorità razionale e autorità irrazionale. L'autorità razionale -come il vero ideale -rappresenta i fini della crescita e dell'espansione dell'individuo. Perciò a rigore non è mai in conflitto con l'individuo e con i suoi fini reali, e non patologici. In questo libro si sostiene la tesi che la libertà ha un duplice significato per l'uomo moderno: che egli è stato liberato dalle autorità tradizionali ed è divenuto un «individuo», ma che nello stesso tempo è diventato isolato, impotente, strumento di fini esterni, alienato da se stesso e dagli altri; e inoltre che questo insidia il suo io, lo indebolisce e lo atterrisce, e lo dispone alla sottomissione a nuove forme di servitù. Invece la libertà positiva si identifica con la piena realizzazione della possibilità dell'individuo, e insieme con la sua capacita di vivere attivamente e spontaneamente. La libertà ha raggiunto un punto critico in cui, spinta dalla logica del suo stesso dinamismo, minaccia di convertirsi nel suo opposto. Il futuro della democrazia è affidato alla realizzazione di quell'individualismo che è stato l'obiettivo ideologico del pensiero moderno dal Rinascimento in poi. La crisi culturale e politica del nostro tempo non si deve al fatto che ci sia troppo individualismo, ma al fatto che quello che crediamo individualismo è diventato una conchiglia vuota. La vittoria della libertà è possibile solo se la democrazia si trasforma in una società in cui l'individuo, il suo sviluppo e la sua felicità, siano il fine e l'obiettivo della civiltà, in cui la vita non debba cercare giustificazioni nel successo o in altre cose, e in cui l'individuo non sia subordinato ad un potere esterno, si tratti dello stato o del meccanismo dell'economia, né sia manipolato da esso; infine una società in cui la coscienza e gli ideali dell'individuo non siano l'interiorizzazione di pretese esterne, ma siano veramente suoi, ed esprimano i fini derivanti dalla peculiarità del suo essere. Questi fini non hanno mai potuto essere pienamente realizzati nelle fasi precedenti della storia moderna; dovevano necessariamente rimanere in larga misura obiettivi ideologici, perché mancava la base materiale per lo sviluppo del vero individualismo. Il capitalismo ha creato questa premessa. Il problema della produzione è risolto -in linea di principio almeno -e possiamo già immaginare un futuro di abbondanza, in cui la lotta per i privilegi economici non sia più necessitata dalla penuria di beni materiali. Il problema che dobbiamo affrontare oggi è quello dell'organizzazione delle forze sociali ed economiche, affinché l'uomo -membro della società organizzata -possa diventarne il padrone e cessare di esserne lo schiavo. Ho messo in evidenza l'aspetto psicologico della libertà, ma ho anche cercato di dimostrare che il problema psicologico non può venir separato dalla base materiale dell'esistenza umana, dalla struttura economica, sociale e politica della società.

Da questa premessa deriva che la realizzazione della libertà positiva e dell'individualismo è anche legata a quei mutamenti economici e sociali che consentiranno all'individuo di divenire libero ai fini della realizzazione del suo essere. Questo libro non intende affrontare i problemi economici derivanti da quella premessa, o fornire un quadro dei possibili piani economici per il futuro. Ma non vorrei lasciare alcun dubbio nel lettore per quanto riguarda la direzione in cui sono certo che si debba cercare la soluzione. In primo luogo è necessario ribadire che noi non possiamo fare a meno di nessuna delle conquiste fondamentali della democrazia moderna: della fondamentale conquista costituita dal governo rappresentativo, cioè dal governo eletto dal popolo e responsabile davanti al popolo, e di nessuno dei diritti che il "Bill of Rights" garantisce ad ogni cittadino americano. E nemmeno possiamo scendere a compromessi sul nuovo principio democratico che nessuno dev'essere lasciato morire di fame, che la società è responsabile per tutti i suoi componenti, che nessuno dev'essere costretto con la paura a sottomettersi e a perdere la sua dignità umana per il timore della disoccupazione e della fame. Queste conquiste fondamentali non solo devono essere conservate, ma devono essere anche consolidate e ampliate. Anche se entro questi limiti -ma in modo tutt'altro che completo -la democrazia è stata realizzata, ciò non è sufficiente. Il progresso democratico richiede la promozione della libertà, dello spirito d'iniziativa e della spontaneità dell'individuo, non solo per certe questioni private e spirituali, ma soprattutto in quell'attività che è fondamentale per l'esistenza di tutti, il lavoro. Quali sono le condizioni generali necessarie a questo fine? Il carattere irrazionale e informe della società dev'essere sostituito da un'economia pianificata che rappresenti lo sforzo pianificato e concertato della società nel suo insieme. La società deve dominare il problema sociale con la stessa razionalità con cui ha dominato la natura. La prima condizione di ciò è l'eliminazione del dominio segreto di coloro che, benché pochi di numero, dispongono di un grande potere economico senza doverne render conto a quelli il cui destino dipende dalle loro decisioni. Possiamo chiamare questo nuovo ordine socialismo democratico, ma il nome importa poco; ciò che davvero conta è che instauriamo un sistema economico razionale al servizio dei fini degli individui. Oggi l'enorme maggioranza degli individui non solo non ha alcun controllo sul complesso dell'economia, ma ha ben poche possibilità di agire con spirito di iniziativa e spontaneità negli specifici compiti che svolge. Gli individui vengono «impiegati»; e non gli si chiede altro che di fare quel che gli si dice. Solo in un'economia pianificata, in cui la nazione intera abbia razionalmente dominato le forze economiche e sociali, l'individuo può partecipare alla responsabilità e impiegare intelligenza creativa nel suo lavoro. L'unica cosa che conta è che sia data all'individuo la possibilità di svolgere un'attività genuina; che i fini della società e i suoi si identifichino, non ideologicamente, ma nella realtà; e che egli applichi i suoi sforzi e la sua ragione attivamente al lavoro che svolge, considerandolo una cosa di cui può sentirsi responsabile perché ha un significato e uno scopo dal punto di vista delle sue aspirazioni umane. Dobbiamo sostituire alla manipolazione degli uomini una collaborazione attiva e intelligente, e estendere il principio del governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo, dalla sfera politica formale alla sfera economica. Ma non si può giudicare solo dal punto di vista politico ed economico se un sistema economico e politico sia tale da promuovere la causa della libertà umana. Il solo criterio per misurare il grado in cui la libertà venga realizzata è l'esistenza o meno di una partecipazione attiva dell'individuo alla determinazione della sua vita e di quella della società, e questo non solo attraverso l'atto formale del votare, ma anche nella sua attività quotidiana, nel suo lavoro e nei suoi rapporti con gli altri. Se si restringe alla sfera puramente politica, la democrazia moderna non riesce a controbilanciare efficacemente i risultati dell'irrilevanza economica dell'uomo medio. Ma nemmeno concetti economici come la socializzazione dei mezzi di produzione sono sufficienti. Non mi riferisco qui all'uso menzognero della parola socialismo che è stato fatto -per ragioni di convenienza tattica dal nazionalsocialismo. Ho in mente la Russia, dove il socialismo è diventato una parola ingannevole; infatti, benché vi sia stata realizzata la socializzazione dei mezzi di produzione, in realtà una potente burocrazia manipola l'enorme maggioranza della popolazione; questo fatalmente impedisce lo sviluppo della libertà e dell'individualismo, anche se il controllo governativo può riuscire efficace nell'interesse economico della maggioranza del popolo. Mai come oggi si è abusato delle parole per nascondere la verità. Il tradimento degli alleati viene chiamato «appeasement», l'aggressione militare vien fatta passare per difesa da un attacco altrui, la conquista di piccole nazioni va sotto il nome di patto di amicizia, e la brutale soppressione di tutta la popolazione viene perpetrata nel nome del «nazionalsocialismo». Anche le parole democrazia, libertà e individualismo subiscono questo abuso. C'è un modo di definire il vero significato della differenza esistente tra democrazia e fascismo. La democrazia è un sistema che crea le condizioni economiche, politiche e culturali per il pieno sviluppo dell'individuo. Il fascismo è un sistema che, non importa sotto qual nome, rende l'individuo subordinato a fini estranei, e indebolisce lo sviluppo della vera individualità. Naturalmente uno dei più grandi ostacoli allo stabilirsi delle condizioni per la realizzazione della democrazia è la contraddizione esistente tra l'economia pianificata e la collaborazione attiva di ciascun individuo. Un'economia pianificata delle dimensioni di un grande sistema industriale richiede molta centralizzazione e, per conseguenza, una burocrazia che amministri questo congegno centralizzato. Viceversa il controllo attivo e la collaborazione da parte di ciascun individuo e da parte delle unità minori del sistema richiede un largo decentramento. Se la pianificazione dall'alto non si accompagna ad una viva partecipazione dal basso, se la corrente della vita sociale non muove continuamente dal basso verso l'alto, un'economia pianificata porterà ancora una volta alla manipolazione degli individui. La soluzione del problema di conciliare la centralizzazione con il decentramento è uno dei compiti maggiori della società. Ma certamente non è più difficile a risolversi dei problemi tecnici che abbiamo già risolto, e che ci hanno consentito un dominio quasi completo sulla natura. Può esser risolto, tuttavia, solo se riconosciamo chiaramente la necessità di farlo, e se abbiamo fede nelle persone, nella loro capacità di provvedere ai loro interessi reali di esseri umani. In un certo senso questo che ci troviamo di fronte è ancora il problema dell'iniziativa individuale. L'iniziativa individuale era uno dei grandi stimoli sia del sistema economico che dello sviluppo personale all'epoca del capitalismo liberistico. Ma ci sono due osservazioni da fare: essa ha sviluppato solo certe qualità dell'uomo, la sua volontà e la sua razionalità, lasciandolo per il resto subordinato ai fini economici. Era un principio che funzionava ottimamente in una fase molto individualistica e concorrenziale del capitalismo, il quale aveva spazio per innumerevoli unità economiche indipendenti. Oggi questo spazio si è ristretto. Solo un piccolo numero di persone può esercitare la propria iniziativa. Oggi se vogliamo realizzare questo principio, e ampliarlo in modo che l'intera personalità diventi libera, possiamo farlo solo sulla base dello sforzo razionale e concertato della società nel suo complesso, e di un decentramento che possa garantire la collaborazione reale, genuina, attiva, nonché il controllo da parte delle unità più piccole del sistema. Solo se riuscirà a dominare la società e a subordinare la macchina economica ai fini della felicità umana, e solo partecipando attivamente al processo sociale, l'uomo potrà vincere ciò che oggi lo porta alla disperazione: la sua solitudine e il suo sentimento di impotenza. Oggi l'uomo non soffre tanto a causa della povertà quanto del fatto di esser diventato un piccolo ingranaggio di una immensa macchina, un automa; del fatto, insomma, che la sua vita si è svuotata e ha perduto il suo significato. La vittoria su tutti i sistemi autoritari sarà possibile solo se la democrazia non batterà in ritirata, ma passerà all'offensiva e realizzerà ciò che hanno visto come suo scopo genuino coloro che hanno combattuto per la libertà negli ultimi secoli. Trionferà sulle forze del nichilismo solo se riuscirà ad infondere negli individui quella fede che è la più forte di cui sia capace la mente umana, la fede nella libertà come realizzazione attiva e spontanea dell'io individuale.
Appendice: IL CARATTERE E IL PROCESSO SOCIALE
 

 

 

 

 

Nel corso del libro ci siamo occupati dell'interrelazione esistente tra i fattori socio-economici, psicologici e ideologici, analizzando certi periodi storici, come l'età della Riforma e l'era contemporanea. Per quei lettori che si interessano dei problemi teoretici inerenti a tali analisi cercherò, in questa appendice, di esaminare brevemente la base teorica generale su cui è fondata l'analisi concreta. Studiando le reazioni psicologiche di un gruppo sociale ci occupiamo in sostanza della struttura di carattere dei membri del gruppo, cioè delle singole persone; ci interessano tuttavia non le peculiarità per cui queste persone differiscono l'una dall'altra, ma quella parte della struttura del loro carattere che è comune alla maggior parte dei membri del gruppo. Possiamo chiamare questo carattere il "carattere sociale". Il carattere sociale è di necessità meno specifico del carattere individuale. Descrivendo quest'ultimo, trattiamo dell'insieme dei fatti che nella loro particolare configurazione formano la struttura della personalità di questo o di quell'individuo. Il carattere sociale comprende solamente una selezione di tratti, "il nucleo essenziale della struttura di carattere della maggior parte dei membri di un gruppo, sviluppatasi per effetto delle esperienze fondamentali e del modo di vita comune a tale gruppo". Mentre ci saranno sempre «anormali» con una struttura di carattere totalmente diversa, le strutture di carattere della maggioranza dei membri del gruppo sono variazioni di questo nucleo, prodotte dai fattori accidentali della nascita e dalle diverse esperienze di vita degli individui. Se vogliamo capire più integralmente un individuo, questi elementi differenziali sono della massima importanza. Però se vogliamo capire in che modo l'energia umana si incanali e operi come forza produttiva in un determinato ordine sociale, allora il carattere sociale merita di stare al centro della nostra attenzione. Il concetto di carattere sociale è un concetto-chiave per la comprensione del processo sociale. Il carattere, nel senso dinamico della psicologia analitica, è la forma specifica in cui l'energia umana viene modellata dall'adattamento dinamico delle esigenze umane al particolare modo di esistenza di una determinata società. A sua volta il carattere determina i pensieri, i sentimenti e le azioni degli individui. E' un po' difficile riconoscerlo rispetto ai nostri pensieri, poiché tendiamo tutti ad accettare l'opinione convenzionale secondo cui il pensare è un atto esclusivamente intellettuale, indipendente dalla struttura psicologica della personalità. Però non è così, e lo è tanto meno quanto più i nostri pensieri si occupano di problemi etici, filosofici, politici, psicologici o sociali piuttosto che della manipolazione empirica di oggetti concreti. Tali pensieri, a prescindere dagli elementi puramente logici inerenti all'atto del pensare, sono largamente determinati dalla struttura della personalità dell'individuo che pensa. Ciò è vero sia per l'insieme di una dottrina o di un sistema teoretico, sia per il singolo concetto, come l'amore, la giustizia, l'eguaglianza, il sacrificio. Ognuno di questi concetti e ciascuna dottrina ha una matrice emotiva, e questa matrice è radicata nella struttura del carattere dell'individuo. Nei capitoli precedenti abbiamo fornito molti esempi in proposito. Per quanto riguarda le dottrine, abbiamo cercato di illustrare le radici emotive del primo protestantesimo e dell'autoritarismo moderno. Per quanto riguarda i singoli concetti, abbiamo dimostrato, ad esempio, che per il carattere sado-masochistico l'amore vuol dire dipendenza simbiotica, non mutua affermazione e unione sulla base dell'eguaglianza; il sacrificio significa la completa subordinazione dell'io a qualcosa di più alto, non l'affermazione del proprio essere intellettuale e morale; la differenza vuol dire differenza di potere, non realizzazione dell'individualità sulla base dell'eguaglianza; la giustizia significa che ognuno deve ricevere quel che merita, e non che l'individuo ha un diritto incondizionato alla realizzazione dei suoi diritti innati e inalienabili; il coraggio è la disposizione a sottomettersi e a sopportare la sofferenza, e non l'intransigente affermazione dell'individualità contro il potere. Anche se la parola che due persone di diversa personalità usano quando parlano, ad esempio, di amore, è la stessa, il suo significato è totalmente diverso a seconda della loro struttura di carattere. In realtà si potrebbe evitare gran parte della confusione intellettuale grazie alla corretta analisi psicologica del significato di questi concetti, perché qualsiasi tentativo di affidarsi ad una classificazione puramente logica è condannato a fallire. Il fatto che le idee hanno una matrice emotiva è della massima importanza, perché è la chiave per la comprensione dello spirito di una civiltà. Le diverse società o classi in cui si distingue una società hanno uno specifico carattere sociale, sulla cui base si sviluppano e acquistano forza idee diverse. Così, ad esempio, l'idea del lavoro e del successo come fini principali della vita ha potuto acquistare forza e attrarre l'uomo moderno a causa della sua solitudine e dei suoi dubbi; ma una propaganda a favore dell'idea di uno sforzo indefesso e di una lotta per il successo, che venisse indirizzata agli indiani Pueblo o ai contadini messicani, sarebbe destinata a cadere nel vuoto. Costoro, avendo una struttura di carattere di tipo diverso, stenterebbero a comprendere, anche se conoscessero la lingua, di cosa stia parlando la persona che gli espone quelle mete. Analogamente, Hitler e quella parte della popolazione tedesca, che ha la sua stessa struttura di carattere, ritengono in tutta sincerità che chiunque pensi che le guerre possono essere abolite è un pazzo completo o uno sfacciato bugiardo. Dato il loro carattere sociale, una vita priva di dolore e di disastri riesce loro altrettanto poco comprensibile quanto la libertà e l'eguaglianza. Spesso certe idee vengono accettate al livello di coscienza da gruppi i quali, date le peculiarità del loro carattere sociale, non ne restano in realtà influenzati; queste idee rimangono un repertorio di convinzioni coscienti ma le persone, nel momento critico, non agiscono secondo i loro dettami. Un esempio di ciò è stato offerto dal movimento sindacale tedesco al tempo della vittoria del nazismo. La stragrande maggioranza degli operai tedeschi, prima dell'avvento al potere di Hitler, votava per il partito socialista e per quello comunista, e credeva nelle idee di questi partiti; cioè, la diffusione di queste idee tra la classe operaia era estremamente ampia. Il peso di queste idee, però, non era proporzionato alla loro diffusione. L'avanzata del nazismo non incontrò oppositori politici pronti, per lo meno nella maggioranza, a battersi per le loro idee. Molti degli aderenti ai partiti di sinistra, benché credessero nei programmi del loro partito finché questo conservava autorità, erano pronti a dimettersi quando arrivò l'ora della crisi. Un'accurata analisi della struttura di carattere degli operai tedeschi può indicare una ragione -certamente non la sola -di questo fenomeno. Parecchi di loro rientravano in un tipo di personalità che ha molti dei tratti che abbiamo descritto come «carattere autoritario». Nutrivano un profondo rispetto e una profonda nostalgia per l'autorità costituita. L'insistenza del socialismo sull'indipendenza dell'individuo dall'autorità, sulla solidarietà in contrapposizione all'atomismo individualistico, non era ciò che molti di questi operai davvero desideravano sulla base della struttura della loro personalità. I capi della sinistra fecero l'errore di valutare la forza dei loro partiti solo in base alla diffusione che avevano queste idee, e di sottovalutare la loro mancanza di peso. La nostra analisi delle dottrine protestanti e calviniste ha dimostrato viceversa che queste idee costituivano forze potenti negli aderenti alla nuova religione, perché facevano appello a esigenze e ad ansietà presenti nella struttura di carattere di coloro a cui si indirizzavano. In altre parole, "le idee possono diventare forze potenti, ma solo nella misura in cui costituiscono risposte a specifiche esigenze umane predominanti in un determinato carattere sociale". La struttura di un carattere determina non solo il pensiero e il sentimento, ma anche le azioni degli individui: è merito di Freud averlo dimostrato, anche se i suoi presupposti sono errati. Nel caso dei nevrotici è ovvio che l'attività è determinata dalle tendenze dominanti nella struttura di carattere dell'individuo. E' facile capire che la spinta ossessiva a contare le finestre delle case e il numero delle pietre del marciapiede è un'attività radicata in certe tendenze del carattere nevrotico. Ma le azioni della persona normale sembrano determinate unicamente da considerazioni razionali e dalle necessità della realtà. Sennonché, grazie ai nuovi strumenti d'osservazione che ci offre la psicanalisi, siamo in grado di riconoscere che il cosiddetto comportamento razionale è determinato in larga misura dalla struttura del carattere. Nel nostro esame del significato del lavoro per l'uomo moderno abbiamo visto un esempio di questo fatto. Abbiamo visto che l'intenso desiderio di un'attività incessante era radicato nella solitudine e nell'ansietà. Questa spinta ossessiva a lavorare differiva dall'atteggiamento verso il lavoro di altre civiltà, in cui le persone lavoravano quanto era necessario, ma non erano sospinte da ulteriori forze interne alla struttura del loro carattere. Dato che tutte le persone normali di oggi hanno all'incirca lo stesso impulso di lavorare, e, inoltre, dato che questa intensità di lavoro è necessaria per sopravvivere, si è facilmente portati a trascurare la componente irrazionale di questo tratto. Dobbiamo chiederci ora quale funzione svolga il carattere nell'individuo e nella società. Per il primo la risposta non è difficile. Se il carattere di un individuo si conforma più o meno fedelmente al carattere sociale, le tendenze dominanti nella sua personalità lo portano a fare ciò che è necessario e opportuno nelle specifiche condizioni sociali della sua civiltà. Così, ad esempio, se ha un forte impulso a risparmiare e l'orrore di spendere denaro per qualsiasi lusso, ciò gli gioverà molto, se si tratta di un piccolo negoziante che ha bisogno di risparmiare e di essere parsimonioso per sopravvivere. Oltre a questa funzione economica, i tratti del carattere ne hanno una puramente psicologica, che non è meno importante. La persona nella quale il risparmio è un desiderio sgorgante dalla personalità ricava anche una profonda soddisfazione psicologica dal fatto di potersi comportare secondo questa inclinazione; cioè, risparmiando non ricava solo dei benefici pratici, ma prova anche una soddisfazione psicologica. Si può facilmente convincersene osservando, ad esempio, una donna della classe media inferiore che fa la spesa al mercato: essa prova felicità per il risparmio di due "cents" quanto un'altra persona, di diverso carattere, può provare per il godimento di un piacere dei sensi. Questa soddisfazione psicologica avviene non solo quando la persona agisce secondo le esigenze derivanti dalla struttura del suo carattere, ma anche quando legge o sente parlare di idee che l'attraggono per la stessa ragione. Sul carattere autoritario un'ideologia, che definisca la natura come la forza possente a cui dobbiamo sottometterci, o un discorso che indulga a descrizioni sadiche di vicende politiche esercita una profonda attrazione, e l'atto di leggere o ascoltare produce una soddisfazione psicologica. Per riassumere: la funzione soggettiva del carattere nella persona normale è di "portarla ad agire secondo ciò che le è necessario da un punto di vista pratico, e anche a darle una soddisfazione psicologica per la sua attività". Se consideriamo il carattere sociale dal punto di vista della sua funzione nel processo sociale, dobbiamo premettere l'affermazione già fatta riguardo alla sua funzione per l'individuo: che adattandosi alle condizioni sociali l'uomo sviluppa quei tratti che gli fanno desiderare di agire come deve agire. Se il carattere della maggioranza della popolazione di una determinata società -ossia il carattere sociale -è adattato in tal modo ai compiti obiettivi che l'individuo deve svolgere in questa società, le energie delle persone vengono indirizzate in modo da renderle forze produttive indispensabili al funzionamento della società stessa. Prendiamo ancora una volta l'esempio del lavoro. Il nostro sistema industriale moderno richiede che la maggior parte delle nostre energie vengano incanalate verso il lavoro. Se la gente lavorasse soltanto sotto la pressione di necessità esterne, sorgerebbero dei conflitti tra ciò che le persone debbono fare e ciò che vorrebbero fare, e la loro efficienza ne risulterebbe diminuita. Però, grazie all'adattamento dinamico del carattere alle richieste della società, le energie umane, invece di dar luogo a conflitti, vengono modellate in forme tali da servire da incentivo ad un'attività in armonia con le particolari necessità economiche. Così l'uomo moderno, invece di dover essere costretto a lavorare con la furia con cui lavora, è spinto a lavorare dalla pressione interna che abbiamo cercato di analizzare nel suo significato psicologico. Ovvero, invece di obbedire ad autorità visibili, egli ha costruito un'autorità interna -la coscienza e il dovere -che riesce a controllarlo più efficacemente di quanto potrebbe mai fare un'autorità esterna. In altre parole, "il carattere sociale interiorizza le necessità esterne e così imbriglia l'energia umana a vantaggio delle mete di un determinato sistema economico e sociale". Come abbiamo già visto, una volta che certe esigenze si siano sviluppate in una struttura di carattere, ogni comportamento che sia in armonia con queste esigenze è nello stesso tempo soddisfacente psicologicamente e pratico dal punto di vista del successo materiale. Finché una società offre all'individuo simultaneamente queste due soddisfazioni, abbiamo una situazione in cui le forze psicologiche cementano la struttura sociale. Presto o tardi, però, si crea uno sfasamento. La struttura di carattere tradizionale perdura ancora quando già sono sorte nuove condizioni economiche per le quali i tratti del carattere tradizionale non sono più utili. Le persone tendono ad agire secondo la loro struttura di carattere, ma può accadere o che queste azioni si rivelino autentici impedimenti alla loro attività economica, o che non si presentino loro sufficienti possibilità di trovare posti che gli consentano di agire secondo la loro «natura». Un esempio di quel che abbiamo in mente è la struttura di carattere delle vecchie classi medie, particolarmente nei paesi, come la Germania, che hanno una rigida stratificazione di classe. Le virtù della vecchia classe media -la frugalità, la parsimonia, la cautela, la diffidenza -perdevano valore nell'economia moderna rispetto a nuove virtù come lo spirito d'iniziativa, la disposizione a correre dei rischi, l'aggressività, e così via. Anche quando queste vecchie virtù erano ancora un bene -come nel piccolo negoziante -le possibilità di tali attività erano tanto ridotte che solo una minoranza dei figli della vecchia classe media erano in grado di «utilizzare» con successo nelle loro iniziative economiche quei tratti di carattere. Mentre per educazione avevano sviluppato tratti di carattere che un tempo erano adeguati alla situazione sociale della loro classe, lo sviluppo economico procedeva più rapidamente dello sviluppo del carattere. Questo sfasamento tra evoluzione economica ed evoluzione psicologica diede luogo a una situazione in cui le esigenze psichiche non potevano più esser soddisfatte dalla consueta attività economica. D'altronde queste esigenze ormai esistevano, e dovevano trovar soddisfazione in qualche altro modo. L'angusto impegno egoistico volto al proprio interesse personale, che aveva caratterizzato la classe media inferiore, si spostò dal piano individuale a quello della nazione. Anche gli impulsi sadici, che erano stati utilizzati nella lotta per la concorrenza privata, in parte si spostarono sulla scena sociale e politica, e in parte vennero intensificati dalla frustrazione. E quindi, liberati da ogni restrizione, cercarono soddisfazione in atti di persecuzione politica e nella guerra. Perciò, mescolandosi al risentimento causato dall'atmosfera frustrante della situazione generale, le forze psicologiche, lungi dal cementare l'ordine sociale esistente, divennero dinamite a disposizione di quei gruppi che volevano distruggere la tradizionale struttura politica ed economica della società democratica. Non abbiamo parlato del ruolo che il processo educativo svolge nella formazione del carattere sociale; ma dato che a molti psicologi i metodi educativi della prima infanzia e le tecniche educative usate con il bambino in crescita appaiono la causa dello sviluppo del carattere, sembrano opportune alcune considerazioni. In primo luogo dobbiamo chiederci che cosa intendiamo per educazione. Quest'ultima può esser definita in vari modi. A noi però interessa considerarla dal punto di vista del processo sociale. La funzione sociale dell'educazione è di preparare l'individuo a operare nel ruolo che in seguito dovrà svolgere nella società; cioè di modellare il suo carattere affinché si avvicini al carattere sociale, affinché i suoi desideri coincidano con le necessità del suo ruolo sociale. Il sistema educativo di ogni società è determinato da questa funzione; perciò non possiamo spiegare la struttura della società o della personalità dei suoi componenti mediante il processo educativo; ma dobbiamo spiegare il sistema educativo alla luce delle necessità derivanti dalla struttura sociale ed economica di una determinata società. Tuttavia i metodi dell'educazione sono ugualmente di estrema importanza, in quanto costituiscono i meccanismi dai quali l'individuo viene plasmato nella forma richiesta. Possono essere considerati i mezzi mediante i quali le esigenze sociali vengono trasformate in caratteri personali. Le tecniche educative, pur non essendo la causa di un particolare tipo di carattere sociale, costituiscono uno dei meccanismi con i quali viene formato il carattere. In questo senso la conoscenza e la comprensione dei metodi educativi è una parte importante dell'analisi complessiva di una società in atto. Quel che abbiamo detto vale anche per un particolare settore del processo educativo: la famiglia. Freud ha dimostrato che le prime esperienze del bambino hanno un'influenza decisiva sulla formazione della struttura del suo carattere. Ma se questo è vero, come dobbiamo interpretare il fatto che il bambino, il quale -almeno nella nostra civiltà -ha pochi contatti con la vita sociale, venga plasmato da questa? La risposta non è solo che i genitori -a prescindere da certe varianti individuali -applicano i modelli della società in cui vivono, ma anche che nelle loro personalità essi rappresentano il carattere sociale della loro società o della loro classe. Trasmettono al bambino ciò che possiamo chiamare l'atmosfera psicologica o lo spirito di una società semplicemente per il fatto di essere come sono: ossia rappresentanti di questo stesso spirito. "Perciò la famiglia può essere considerata l'agente psicologico della società".

Avendo affermato che il carattere sociale viene plasmato dal modo di vita di una determinata società, vorrei ricordare al lettore quel che è stato detto nel primo capitolo a proposito del problema dell'adattamento dinamico. E' certamente vero che l'uomo viene plasmato dalle necessità della struttura economica e sociale della società; ma egli non è infinitamente adattabile. Non solo ci sono certe esigenze fisiologiche che richiedono imperativamente di venir soddisfatte, ma ci sono anche certi impulsi psicologici intrinseci all'uomo che richiedono di esser soddisfatti, e che danno luogo, se vengono frustrati, a certe reazioni. Quali sono questi impulsi? Il più importante di tutti appare la tendenza a crescere, a sviluppare e realizzare le possibilità che l'uomo ha maturato in sé nel corso della storia, come, ad esempio, la facoltà di pensare in modo creativo e critico e di avere esperienze emotive e sensuali differenziate. Ognuna di queste possibilità ha un proprio dinamismo. Una volta che si siano sviluppate nel processo dell'evoluzione, esse tendono ad esprimersi. Questa tendenza può venir soppressa e frustrata, ma la soppressione dà luogo a nuove reazioni, specie nella formazione di impulsi distruttivi e simbiotici. Pare anche che questa tendenza generale alla crescita che è l'equivalente psicologico della tendenza biologica alla crescita -produca tendenze specifiche quali il desiderio di libertà e l'odio per l'oppressione poiché la libertà è la condizione fondamentale di ogni crescita. Anche il desiderio di libertà può essere represso e scomparire dalla coscienza dell'individuo, ma anche allora non cessa di esistere in potenza, ed indica la sua esistenza mediante l'odio cosciente o inconscio da cui la soppressione è sempre accompagnata. Abbiamo anche ragione di credere che, come si è detto prima, l'aspirazione alla giustizia e alla verità sia un tratto inerente alla natura umana, benché possa venir repressa e pervertita al pari dell'aspirazione alla libertà. Nel postulare questo concetto ci troviamo su un terreno teorico pericoloso. Sarebbe facile ripiegare sulle tesi religiose e filosofiche, che spiegano l'esistenza di tali tendenze affermando che l'uomo è creato a somiglianza di Dio, o rifacendosi ad una legge naturale. Tuttavia non possiamo fondare la nostra tesi su queste spiegazioni. A nostro avviso, il solo modo di spiegare questa aspirazione alla giustizia e alla verità è quello di analizzare l'intera storia dell'uomo, sia dal punto di vista sociale che da quello individuale. Troviamo allora che la giustizia e la verità, per tutti coloro che sono inermi, sono le armi più potenti nella lotta per la libertà e per la crescita personale. A prescindere dal fatto che lungo la storia la maggioranza degli uomini ha dovuto difendersi da gruppi più potenti, che erano in grado di opprimerla e sfruttarla, ogni individuo nell'infanzia attraversa un periodo caratterizzato dall'impotenza. Ci sembra che in tale stato di impotenza questi tratti, come il senso della giustizia e il senso della verità, si sviluppino e diventino possibilità comuni agli uomini come tali. Arriviamo perciò alla conclusione che, "sebbene lo sviluppo del carattere sia plasmato dalle condizioni fondamentali di vita, e sebbene non vi sia una natura umana biologicamente fissa, quest'ultima ha un proprio dinamismo che costituisce un fattore attivo nell'evoluzione del processo sociale". Anche se non siamo ancora in grado di formulare chiaramente in termini psicologici quale sia l'esatta natura di questo dinamismo umano, dobbiamo riconoscerne l'esistenza. Nel cercare di evitare gli errori delle concezioni biologiche e metafisiche, non dobbiamo soggiacere a un altro errore, egualmente grave: quello di un relativismo sociologico in cui l'uomo sia nient'altro che un burattino, guidato dai fili delle circostanze sociali. I diritti inalienabili dell'uomo alla libertà e alla felicità si fondano su qualità umane intrinseche: l'aspirazione a vivere, a espandere e a esprimere le potenzialità sviluppatesi nell'individuo nel processo dell'evoluzione storica. A questo punto possiamo riformulare le più importanti differenze tra l'impostazione psicologica seguita in questo libro e quella di Freud. Del primo elemento di diversità si è parlato in modo dettagliato nel primo capitolo, sicché qui è sufficiente accennarvi solo brevemente. Noi consideriamo la natura umana come storicamente condizionata, pur non minimizzando affatto l'importanza dei fattori biologici, e non crediamo che la questione possa essere impostata contrapponendo i fattori culturali a quelli biologici. In secondo luogo il principio fondamentale di Freud è di considerare l'uomo un'entità, un sistema chiuso, dotato dalla natura di certi impulsi fisiologicamente condizionati, e di interpretare lo sviluppo del suo carattere come una reazione alle soddisfazioni e alle frustrazioni di questi impulsi; mentre a nostro avviso il modo fondamentale per affrontare il problema della personalità umana è la comprensione del rapporto dell'uomo col mondo, con gli altri, con la natura e con se stesso. Riteniamo che l'uomo sia "soprattutto" un essere sociale, e non, come sostiene Freud, soprattutto un essere autosufficiente e solo in seconda istanza bisognoso degli altri per poter soddisfare le sue esigenze istintive. In questo senso riteniamo che la psicologia dell'individuo sia fondamentalmente psicologia sociale o, come dice Sullivan, psicologia dei rapporti interpersonali; il problema-chiave della psicologia è quello del particolare tipo di rapporto dell'individuo con il mondo, non quello della soddisfazione o frustrazione di singoli desideri istintivi. Il problema di quel che accada ai desideri istintivi dell'individuo dev'esser visto nel quadro del problema generale del suo rapporto con il mondo, e non come "il" problema della personalità umana. Perciò nella nostra concezione i bisogni e i desideri che dipendono dai rapporti dell'individuo con gli altri -come l'amore, l'odio, la tenerezza, la simbiosi -sono fenomeni psicologici fondamentali, mentre in Freud sono soltanto risultati secondari delle frustrazioni o delle soddisfazioni dei bisogni istintivi. La differenza tra l'orientamento biologico di Freud e l'orientamento sociale di chi scrive ha una particolare importanza agli effetti dei problemi della caratterologia. Freud -e sulla base delle sue ricerche, anche Abraham, Jones e altri -sosteneva che il bambino prova piacere nelle cosiddette zone erogene (bocca e ano) durante il processo della nutrizione e della defecazione; e che per iperstimolazione, o per frustrazione, o per una sensibilità costituzionalmente acuta, queste zone erogene conservano il loro carattere libidinoso anche in seguito, quando per effetto del normale sviluppo la zona genitale dovrebbe esser diventata di importanza preponderante. Ha sostenuto quindi che questa fissazione al livello pregenitale dà luogo a sublimazioni e a gruppi di reazioni che entrano a far parte della struttura di carattere. Così, ad esempio, una persona può avere la tendenza a risparmiare il denaro o altri oggetti, perché sublima il desiderio inconscio di trattenere le feci. Oppure una persona può attendere che qualcun altro le dia tutto, senza fare personalmente alcuno sforzo, perché è mossa da un inconscio desiderio di venir nutrita, il quale viene sublimato nel desiderio di ricevere aiuto, nozioni e così via. Le osservazioni di Freud sono di grande importanza, ma egli ne ha dato una spiegazione erronea. Egli ha colto bene la natura passionale e irrazionale di questi tratti del carattere «orale» e «anale». Egli ha anche visto che questi desideri pervadono tutte le sfere della personalità, la vita sessuale, emotiva e intellettuale dell'individuo, e che colorano tutte le sue attività. Ma ha visto nel rapporto causale tra zone erogene e tratti del carattere il contrario di quello che c'è nella realtà. Il desiderio di ricevere in modo passivo da una fonte esterna tutto quel che si vorrebbe avere -amore, protezione, cultura, cose materiali -si sviluppa nel carattere del bambino come reazione alle sue esperienze con gli altri. Se nel corso di queste esperienze il sentimento della sua forza viene indebolito dalla paura, se la sua iniziativa e la fiducia in se stesso vengono paralizzate, se l'ostilità si sviluppa e viene repressa, e se nello stesso tempo il padre o la madre offrono affetto o sollecitudine a condizione che si sottometta, una tale costellazione porta a un atteggiamento in cui si rinuncia al controllo attivo, e tutte le energie si indirizzano verso quella fonte esterna da cui alla fine verrà il compimento di tutti i desideri. Questo atteggiamento assume un tale carattere passionale, perché è il solo modo in cui la persona può tentare di realizzare i suoi desideri. Il fatto che queste persone spesso abbiano sogni o fantasie in cui vengono nutrite, allattate, e così via, è dovuto alla circostanza che la bocca, più di qualsiasi altro organo, si presta all'espressione di questo atteggiamento ricettivo. Ma la sensazione orale non è la causa di questo atteggiamento; è il modo in cui l'atteggiamento verso il mondo si esprime nel linguaggio del corpo. La stessa cosa vale per la persona «anale». La quale, a causa delle sue particolari esperienze, è più distaccata dagli altri della persona «orale» e cerca la sicurezza rendendosi autarchica, rendendosi un sistema autosufficiente; perciò vede nell'amore o in qualsiasi altro atteggiamento espansivo una minaccia alla sua sicurezza. E' vero che in molti casi questi atteggiamenti si sviluppano dapprima in rapporto alla nutrizione o alla defecazione, che nella primissima infanzia sono le principali attività del bambino ed anche la principale sfera in cui l'amore o l'oppressione da parte dei genitori, e l'affetto o l'ostilità da parte del bambino, si esprimono. Tuttavia, l'iperstimolazione e la frustrazione delle zone erogene di per sé non portano alla fissazione di questi atteggiamenti nel carattere di un individuo; benché il bambino provi certe sensazioni piacevoli durante l'atto della nutrizione e quello della defecazione, questi piaceri non assumono importanza ai fini dello sviluppo del carattere, a meno che non rappresentino -al livello fisico -atteggiamenti radicati nella struttura complessiva del carattere. In un infante che abbia fiducia nell'amore incondizionato della madre, l'improvvisa interruzione dell'allattamento non avrà gravi conseguenze caratterologiche; mentre l'infante che avverte una certa incostanza nell'amore materno può acquistare tratti «orali» anche se il processo della nutrizione procede senza particolari disturbi. Le fantasie o le sensazioni fisiche «orali» e «anali» delle fasi successive non sono importanti per il piacere fisico che implicano, o per una misteriosa sublimazione di questo piacere, ma solo in considerazione del particolare tipo di rapporto con il mondo che esse sottintendono ed esprimono. Solo da questo punto di vista le ricerche caratterologiche di Freud possono diventare feconde per la psicologia sociale. Finché sosteniamo, ad esempio, che il carattere anale, di cui offre un esempio la classe media inferiore europea, è causato da certe precoci esperienze provate durante la defecazione, non abbiamo sufficienti dati per comprendere perché una particolare classe debba avere un carattere sociale anale. Pero se lo consideriamo una forma di rapporto verso gli altri, radicata nella struttura del carattere e derivante dalle esperienze fatte con il mondo esterno, abbiamo una chiave per comprendere perché i1 generale modo di vita della classe media inferiore, la sua ristrettezza di vedute, il suo isolamento e la sua ostilità abbiano dato luogo a questo tipo di struttura di carattere (1). Il terzo punto importante di divergenza è strettamente legato ai precedenti. Freud, con il suo orientamento istintivista e anche con la sua profonda convinzione della malvagità della natura umana, è incline ad interpretare tutte le motivazioni «ideali» dell'uomo come il risultato di qualcosa di «meschino»; ne è esempio la sua interpretazione del senso di giustizia come risultato dell'invidia originaria del bambino per chiunque abbia più di lui. Come abbiamo già detto, noi riteniamo che ideali come quelli della verità, della giustizia, della libertà, pur essendo spesso soltanto parole o razionalizzazioni, possono essere aspirazioni genuine, e che ogni analisi che non consideri fattori dinamici queste aspirazioni sia in errore. Questi ideali non hanno un carattere metafisico, ma sono radicati nelle condizioni della vita umana e possono venir analizzati in quanto tali. La paura di ricadere nelle concezioni metafisiche o idealistiche non dovrebbe intralciare questa analisi. La psicologia come scienza empirica ha il compito di studiare gli ideali come motivazioni nonché i problemi morali ad essi collegati, e pertanto di liberare il nostro pensiero in questa materia dalle scorie metafisiche e non empiriche che annebbiano i problemi. Si deve accennare infine ad un altro motivo di divergenza. Esso riguarda la distinzione tra fenomeni psicologici di carenza e fenomeni psicologici di abbondanza. Il livello primitivo dell'esistenza umana è quello della carenza.

Ci sono bisogni imperativi che debbono venir soddisfatti prima di ogni altra cosa. Solo quando dopo la soddisfazione dei bisogni primari restano all'uomo tempo ed energia, la civiltà può svilupparsi e con essa quelle aspirazioni che accompagnano i fenomeni dell'abbondanza. Le azioni libere (o spontanee) sono sempre fenomeni di abbondanza. La psicologia di Freud è una psicologia della carenza. Egli definisce il piacere come la soddisfazione derivante dall'eliminazione della tensione dolorosa. I fenomeni dell'abbondanza, come l'amore o la tenerezza, non svolgono in realtà alcun ruolo nel suo sistema. Non solo ha omesso di considerare questi fenomeni, ma ha dimostrato di avere una comprensione limitata anche del fenomeno a cui ha dedicato tanta attenzione: la sessualità. Coerentemente alla sua definizione del piacere, Freud ha visto nel sesso solo l'elemento della necessità fisiologica, e nella soddisfazione sessuale solo la liberazione dalla tensione dolorosa. L'impulso sessuale, come fenomeno di abbondanza, e il piacere sessuale come gioia spontanea -la cui essenza non è la liberazione negativa della tensione -non hanno trovato posto alcuno nella sua psicologia. Qual è il principio interpretativo che questo libro ha applicato alla comprensione della base umana dell'attività? Prima di rispondere a questa domanda ci sembra utile richiamare le principali tendenze interpretative da cui la nostra differisce.

1. Il metodo «psicologistico», che caratterizza il pensiero di Freud, e secondo il quale i fenomeni sociali sono radicati in fattori psicologici derivanti da impulsi istintivi che in se stessi sono influenzati dalla società solo mediante una certa misura di soppressione. Seguendo questa pista interpretativa, la scuola freudiana ha spiegato il capitalismo come il risultato di un erotismo anale, e lo sviluppo del primo cristianesimo come il risultato dell'ambivalenza verso l'immagine del padre (2).

2. Il metodo «economicistico» riscontrabile nell'errata applicazione dell'interpretazione marxiana della storia. Secondo questo punto di vista, gli interessi economici soggettivi sono la causa dei fenomeni culturali come la religione e le idee politiche. Da questo punto di vista pseudomarxista (3), si potrebbe cercare di spiegare il protestantesimo come null'altro che la risposta a certi bisogni economici della borghesia.

3. Infine c'è la posizione «idealistica», rappresentata dall'analisi condotta da Max Weber in "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo". Egli sostiene che le nuove idee religiose sono responsabili dello sviluppo di un nuovo tipo di comportamento economico e di un nuovo spirito della civiltà, pur mettendo in evidenza che questo comportamento non è mai determinato esclusivamente dalle dottrine religiose. In contrasto con queste spiegazioni, abbiamo sostenuto che le ideologie e la cultura in generale sono radicate nel carattere sociale; che il carattere sociale stesso è plasmato dal modo di vita di una determinata società; e che a loro volta i tratti di carattere dominanti diventano forze produttive che modellano il processo sociale. Riguardo al problema dello spirito del protestantesimo e del capitalismo, ho cercato di dimostrare che il collasso della società medioevale minacciava la classe media; che questa minaccia produsse un sentimento di isolamento, di impotenza e di dubbio; che a questo mutamento psicologico si dovette la fortuna delle dottrine di Lutero e di Calvino; che queste dottrine intensificarono e consolidarono i mutamenti caratterologici; e che i tratti di carattere che in tal modo si svilupparono divennero forze produttive nello sviluppo del capitalismo, il quale a sua volta derivava da mutamenti economici e politici. Lo stesso principio interpretativo è stato applicato al fascismo: la classe media inferiore ha reagito a certe trasformazioni economiche, come il crescente potere dei monopoli e l'inflazione post-bellica, con un'intensificazione di certi tratti di carattere, e precisamente delle sue tendenze sadiche e masochistiche; l'ideologia nazista ha esercitato un'attrazione su questi tratti, intensificandoli; e i nuovi tratti di carattere sono diventati forze che hanno efficacemente sostenuto l'espansione dell'imperialismo tedesco. In entrambi i casi vediamo che quando una certa classe è minacciata da nuove tendenze economiche, reagisce alla minaccia sia psicologicamente che ideologicamente; e che i mutamenti psicologici prodotti da questa reazione favoriscono lo sviluppo delle forze economiche, anche se tali forze sono in conflitto con gli interessi economici di quella classe. Vediamo che le forze economiche, psicologiche e ideologiche operano nel processo sociale nel modo seguente: che l'uomo reagisce a situazioni esterne, che mutano, operando mutamenti in se stesso, e che questi fattori psicologici contribuiscono a loro volta a plasmare il processo economico e sociale. Le forze economiche sono efficaci, ma debbono essere viste non come motivazioni psicologiche, ma come condizioni obiettive; le forze psicologiche sono efficaci, ma debbono esser viste come a loro volta storicamente condizionate; le idee sono efficaci, ma si deve tener presente che sono radicate nella struttura complessiva del carattere dei membri di un gruppo sociale. Nonostante questa interdipendenza di forze economiche, psicologiche e ideologiche, ciascuna di loro, tuttavia, ha anche una certa indipendenza. Ciò è particolarmente vero nel caso dello sviluppo economico, il quale, dipendendo da fattori obiettivi -come le forze produttive naturali, la tecnica, i fattori geografici -procede secondo le sue leggi. Quanto alle forze psicologiche, vale anche per loro la stessa osservazione; sono plasmate dalle condizioni di vita esterne, ma hanno anche un proprio dinamismo; sono, cioè, l'espressione di bisogni umani che, pur potendo venir plasmati, non possono essere sradicati. Nella sfera ideologica un'analoga autonomia ha le sue radici nelle leggi della logica e nella tradizione del corpo di conoscenze acquisite nel corso della storia. Possiamo riformulare il principio dal punto di vista del carattere sociale: quest'ultimo deriva dall'adattamento dinamico della natura umana alla struttura della società. Il mutamento delle condizioni sociali produce mutamenti del carattere sociale, ossia nuovi bisogni e nuove ansietà. Questi nuovi bisogni fanno sorgere nuove idee, e, per così dire, rendono gli uomini disposti ad accoglierle; le nuove idee a loro volta tendono a intensificare e a consolidare il nuovo carattere sociale, e a determinare le azioni degli uomini. In altre parole, le condizioni sociali influiscono sui fenomeni ideologici per mezzo del carattere; il carattere, d'altro canto, non è la conseguenza di un adattamento passivo alle condizioni sociali, ma il frutto di un adattamento dinamico fondato su elementi che sono biologicamente intrinseci alla natura umana, o che lo sono diventati per effetto dell'evoluzione storica.