LE BOTTEGHE COLOR CANNELLA
Bruno Schulz
Bruno Schulz
(1892-1942) nacque e visse a Drohobycz, in Galizia, dove insegnò disegno. Morì tragicamente il 19 novembre 1942, durante un rastrellamento nazista nel ghetto di Drohobycz. E' riconosciuto come uno dei massimi scrittori europei del novecento. Questo volume ne presenta l'intera opera narrativa
Recensione 1
P.B.
Questo libro ci permette di entrare in uno dei segreti meglio custoditi della letteratura europea del Novecento. Una scatenata cascata di immagini visionarie e fantastiche emerge dalle pagine di “ Le Botteghe color cannella”. Affascinato dal mistero della vita, Schulz ne mostra insieme la ricchezza e la complessità. Il messaggio più profondo di Bruno Schulz, è che si può superare la banalità del quotidiano per mezzo della forza giocosa e fanciullesca della fantasia. E’ così che egli trasforma letteralmente l’acquiescente zio Edward in un apparecchio elettrico collocato in una parete di casa, moltiplica piccioni come un illusionista da circo e, soprattutto, dà vita, dopo aver studiato per settimane polverosi e antiquati libri di ornitologia, a improbabili uccelli esotici facendo covare da enormi galline belghe le uova già fecondate fatte venire, con grande spreco di soldi e fatica, da lontani paesi stranieri, facendo sì che in breve tempo le stanze domestiche si riempiano di fantasiosi, colorati e cinguettanti pennuti che finiscono per annidarsi ovunque, dai bracci dei lampadari ai bastoni delle tende, dalle cime degli armadi alle cornici dei quadri. E’ curioso come nelle “Botteghe color cannella” le cose e gli oggetti si animino, si metamorfizzino , mentre al contrario gli esseri viventi si reifichino, trasformandosi in marionette, in maschere di cera, in uccelli impagliati e in altri ammennicoli del genere.
"Le botteghe color cannella” è un libro bellissimo il merito non è solo dell’originalità delle sue tematiche, ma anche del brillantissimo stile di Bruno Schulz.
Recensione 2
(Estratto da "Il libro dei risvolti" di Italo Calvino)
La figura d'un padre vecchio e folle domina la grande casa oscura, col negozio di stoffe a pianterreno, l'alloggio della famiglia con le folte tappezzerie, le stanze basse dove dormono i commessi, il laboratorio delle sarte. Alla sua presenza ogni parola e ogni immagine proliferano: basta dire «uccelli» ed ecco il vecchio Jakub divenuto avicoltore, circondato da volatili esotici multicolori che battono le ali contro i lampadari e gli armadi, finché egli stesso non si identifica con la grifagna fissità del condor, basta dire «pompieri» e le stanze pullulano di uniformi rosse ed elmi dorati, e come una invasione di salamandre i pompieri sgusciano dalle fessure delle porte, tendono in cerchio un grande telone fuori dalla finestra, e il vecchio Jakub, anch'egli col casco, bordato di piastre metalliche, salta dal davanzale nella notte sfavillante. Più che un personaggio il vecchio Jakub è un catalizzatore di metafore e di metamorfosi. Questa sua proprietà si estende alla casa, un mondo in cui s'aprono spazi misteriosi uno dentro l'altro, negli scaffali del magazzino, negli armadi, nelle stanze dimenticate che nessuno apre mai: interni che vivono d'una vita vegetale lussureggiante, coi lampadari che d'inverno anneriscono e appassiscono come vecchi cardi, con le primavere della cartaparati, partecipando al ciclo stagionale della città. Da una pagina all'altra la città cambia pelle e topografia: autore e lettori vi si smarriscono cercando la via delle botteghe rivestite di legno color cannella, che stanno aperte la notte e in cui cerimoniosi venditori sciorinano mercanzie lungamente sognate, e sfuggendo invano alla Via dei Coccodrilli, freddo regno dell'anonima volgarità trionfante. Due immagini dominano queste pagine : quella del PadreDemiurgo e quella del Libro: il libro assoluto, totale, l'Autentico.
Ma si direbbe che l'ilare alacrità di Schulz appena s'accosta a questi supremi archetipi del monoteismo, li faccia esplodere nella galassia di una pirotecnica festa panteista. Il Libro pare riconoscibile volta a volta nel libro dei conti della bottega paterna, in un album di decalcomanie, in una collezione di francobolli, nelle pagine pubblicitarie d'un vecchio giornale che illustrano miracolose lozioni per far crescere i capelli. Il padre nelle sue continue morti e resurrezioni diventa scarafaggio, mosca ronzante, granchio crudo e granchio cotto, e solo in queste frenetiche identificazioni col Tutto è veramente se stesso. (All'opposto dell'altra dominante figura paterna: l'imperatore Francesco Giuseppe, signore dell'immobilità, contestato nell'album dei francobolli dalla policroma molteplicità dell'universo filatelico).
INTRODUZIONE
di Angelo Maria Ripellino
E' ormai consuetudine ravvicinare in una triade i nomi di Schulz, Witkiewicz, Gombrowicz, tre moschettieri della moderna letteratura polacca, tre cavalieri di quel «materiale esplosivo che si chiama Forma», tre bislacchi sui margini o, come dice lo stesso Gombrowicz, tre «wariaci», tre pazzi: lui «pazzo ribelle», Witkiewicz «pazzo disperato», Schulz «pazzo sommerso.» Del resto essi erano amici e, nonostante la ritrosìa di Gombrowicz ad ammetterlo, un circuito di riflussi reciproci e di motivi comuni collega le loro opere. Bruno Schulz nacque da famiglia ebraica il 12 luglio 1892 a Drohobycz, che oggi fa parte dell'Ucraina sovietica. Questa cittaduzza assonnata nella Galizia austroungarica conobbe un effimero risveglio febbrile nel 1901, perché nei suoi dintorni fu scoperto il petrolio e vi accorsero stormi di avventurieri. Il padre dello scrittore, Jakub Schulz, aveva un negozio di tessuti e di pannilani. Quel negozio all'antica, teatro di molte fantasie schulziane, cominciò a decadere quando, negli anni dell'adolescenza e della giovinezza di Bruno, si venne spegnendo e morì (23 giugno 1915) il patriarcale mercante Jakub. Finita la scuola media, Schulz frequentò architettura al Politecnico di Leopoli e per qualche mese l'Accademia di Belle Arti di Vienna. Poi, tranne fugaci viaggi a Varsavia, a Cracovia, a Zakopane, a Parigi, rimase tutta la vita nel natìo Drohobycz, modesto insegnante di disegno e lavori manuali al ginnasio. Abitava con la madre Henrietta, con la sorella Hania, vedova di uno che si era tagliato la gola con un rasoio e malata di nervi, coi due figli di lei e con una vecchia cugina bisbetica. In disagiate condizioni economiche, nella quiete di una vasta casa, per cui ciabattavano tre donne in pantofole, una quiete malsana, opprimente, incrinata dal miagolìo dei gatti e dagli accessi isterici della sorella.
L'insegnamento gli lasciava pochissimo tempo: «I doveri di servizio, scrisse il 15 novembre 1936 a Romana Halpernowa mi riempiono di orrore, di ripugnanza, raggelano la gioia della vita.» D'altronde la sua inòpia era tale, che nel 1938 esitò a lungo se andare a Parigi o comprarsi un divano. Al principio si dedicò alle arti figurative, e in specie alla grafica, effigiando con la tecnica del «clichéverre» che Witkiewicz chiamava «drapografia», aggriccianti scene di un esasperato grottesco.
«Gli inizi del mio disegnare, affermò in un articolo del '35 indirizzato a Witkiewicz si perdono in una foschìa mitologica. Non sapevo ancora parlare, che già ricoprivo di scarabocchi tutte le carte ed i margini delle gazzette.» Poi il suo dono pittorico si affievolì, diventò subalterno, si trasfuse nella creazione verbale. Schulz pubblicò il primo volume di racconti, Sklepy cynamonowe (Le botteghe color cannella), nel 1934, ossia a quarantadue anni. Nel 1937 gli uscì un secondo volume, Sanatorium Pod Klepsydra (Il Sanatorio all'insegna della clessidra). Un altro racconto, Kometa (La cometa), che è come la conclusione di quei due libri, apparve nel 1938 sulla rivista «Wiadomosci Literackie.» Assieme a un mazzetto di lettere, a frammenti di prosa e a qualche articolo critico: è tutto ciò che rimane di Schulz.
Scomparvero nello sfacelo della Polonia una terza raccolta di racconti e il romanzo Mesjasz (Il Messia), a cui aveva lavorato negli ultimi anni, e molte lettere, e quadri, e disegni. Allo scoppiar della guerra, Drohobycz venne occupato dai tedeschi e poi dai sovietici. Schulz, per sopravvivere, si ridusse a dipingere trasparenti e ritratti politici secondo le formule del detestato realismo oleografico. Tornati nel 1941 i tedeschi, che segregarono in un ghetto gli abitanti israelitici, Schulz non volle allontanarsi dalla sua cittaduzza. Sebbene gli amici gli avessero procurato una falsa «Kennkarte» e denaro, perché, malaticcio, ormai miserevole larva, potesse fuggire a Varsavia, tergiversava. Gli dava un senso di sicurezza, in quel susseguirsi di trìboli, di «pogròm», di trasporti verso la morte, la protezione di un maggiorente della Gestapo, un certo Feliks Landau, un falegname di Vienna che, impancandosi a mecenate, gli commise il proprio ritratto e gli fece adornare di affreschi e di «boiseries» la Reitschule e la propria villa. Sicurezza illusoria. Il 19 novembre 1942, rincasando con la razione di pane, fu sorpreso durante un rastrellamento da un altro Ss, un tale Karl Günther, nemico acerrimo del suo protettore Landau.
Günther, che poco tempo prima si era visto uccidere, da parte di Landau, uno dei suoi protetti, sparò contro Schulz due colpi di pistola, per poi menar vanto con Landau: «Hai ucciso il mio giudeo e io ho ucciso il tuo.» Un centinaio di ebrei fu trucidato quel giorno nelle vie di Drohobycz. La notte un amico raccolse sul selciato la salma di Schulz, per inumarla nel cimitero ebraico. Ma la tomba è sparita: non c'è più traccia di quel cimitero. Di bassa statura, gli occhi neri fiammeggianti, un inquieto ciuffo nero, i polsini della camicia sempre sporgenti dalle maniche di vestiti di solito grigio cenere. Secondo Gombrowicz: «minuto, bizzarro, chimerico, assorto, teso, quasi bruciante.» Schulz era un «odludek», un misàntropo. Timidissimo, ombroso, sempre tuffato nei sogni, con mille fantasmi che gli matteggiavano in capo, sfuggiva la compagnia degli estranei, il fragore del mondo. La sua inventiva, la sua vita interiore si erano dilatate a contrasto con la gracilità malandata della sua complessione e la solitudine della remota provincia. La piccola borghesia ebraica di Drohobycz non poteva certo capirlo e lo riteneva un «dziwak», un eccentrico. Lui stesso d'altronde si considerava creatura in esilio, un superfluo, un escluso. Il suo sentimento di umiliazione e di contumacia, retaggio secolare della stirpe ebraica, si contrappone alla grandiosità smargiassa, allo sprezzo e all'irritata arroganza di Witold Gombrowicz, rampollo di nobiliare famiglia polacca. Gombrowicz così lo ricorda: «Gnomo, minuscolo, dalla testa enorme, quasi troppo spaurito per aver il coraggio di esistere, era un espulso dalla vita, uno che sguscia furtivo, sul margine. Bruno non riconosceva a se stesso alcun diritto all'esistenza e cercava il proprio annichilimento: non che sognasse il suicidio, soltanto «tendeva» al non essere con tutto il suo essere (ciò lo rendeva in effetti sensibile all'essere nel senso di Heidegger). A mio avviso, in quella tendenza non era alcun senso kafkiano di colpa, ma piuttosto l'istinto che impone a una bestia malata di scansarsi, di ritirarsi in disparte.» Quest'ansia di annichilimento si avverte in specie nelle incisioni del ciclo Xiega Balwochwalcza (Libro Idolatrico, 1920-21), in cui, ai piedi di donne crudeli dalle lunghissime gambe e spesso con fruste in mano, strisciano nani scrignuti dalle orribili bocce calveggianti nella sommità monda e liscia (e uno dei nani ha sempre il viso di Bruno). Witkiewicz, per il quale Schulz come grafico e disegnatore «appartiene alla linea dei demonòlogi», asserisce che le sue incisioni sono «poemi della ferocia dei piedi.» Infatti le frigide donne delle incisioni schulziane calpestano e opprimono e inebriano con l'irrequietezza di piedi mirabilmente lavati (e Witkiewicz aggiunge: privi di calli) quegli aborti dal capo simile auna cocuzza schiacciata, cocuzza di embrione bitorzoluto, come in certi pierrots parrucchieri di Beardsley, quei glabri gobbi imploranti che schiumano di desiderio, estrema propaggine forse, ma quanto contratta e rospesca, dei mesti pierrots di Laforgue, anch'essi imberbi e idrocèfali. Insomma, per dirla con un passaggio della lirica in prosa Groteska di Tuwim, il «Libro Idolatrico», spia del sentimento di esacerbata umiliazione e del masochismo di Schulz, rappresenta «cortei di gobbi, amorazzi di atticciati cretini dal grande cranio, masturbatori che strillano di voluttà dinanzi alle statue di ignude dee antiche....» Il viver sugli orli, come una bestia malata, come una renna che cerchi scampo all'inverno sui lembi della foresta, accresceva in lui il cruccio della solitudine, il desiderio di amici e di affetti. In una lettera a Tadeusz Breza del 21 giugno 1934 egli esprime appunto il bisogno di aver vicino un essere affine, un compagno, che gli offra «una sorta di garanzia del mondo interiore», perché, «reggerlo solo sulla propria fede, sollevarlo malgrado tutto con la forza del proprio dispetto è una fatica e un tormento di Atlante.» Forse per questa bramosìa inappagata di comprensione e di sodalizi e inoltre per la paura di esporsi alle sirti di Barberìa della critica, la sua opera letteraria nasce nel chiuso della corrispondenza, quasi come un prolungamento delle lettere. I racconti delle Botteghe color cannella sbocciarono in gran parte come poscritti fantastici di lettere, che egli inviava nel 1930 a Leopoli, a Debora Vogel (Dosia), poetessa appassionata della pittura moderna, da lui conosciuta a Zakopane, in casa di Witkiewicz. Qualcuno ritiene d'altronde che i racconti del libro seguente, Il sanatorio all'insegna della clessidra, siano riverbero e continuazione delle missive che Schulz spediva nel '29 a un amico poeta, mortalmente malato, il quale aveva interrotto gli studi universitari a Cracovia, per tentar di curarsi nella stazione climatica di Zakopane. I racconti del secondo volume, pubblicati nel 1937, sono in realtà precedenti a quelli delle Botteghe color cannella. Del 1928, e forse anche di prima. E al '25 risale la corrispondenza di Schulz con Wladyslaw Riff, che morì di tisi il 25 dicembre 1927, a ventisei anni. Quelle lettere sono andate perdute, perché, dopo la morte di Riff, i disinfettori bruciarono nella sua stanza i manoscritti delle opere e tutto il carteggio del giovane poeta. L'amicizia dunque, la possibilità di confidare le proprie fantasie ad un lettore congeniale lo stimola ad inventare racconti ed apòloghi. Ecco perché, nella lettera a Breza, egli dice che nell'amicizia il mondo comincia a «maturare dei colori della lontananza, a screpolarsi e ad aprirsi in profondo.» Tutto ciò spiega anche la sua ritrosìa a pubblicare. E forse, senza lo sprone e l'aiuto della scrittrice Zofja Nalkowska, che lo convinse, incantata dalla sua prosa, Le botteghe color cannella non avrebbero visto la luce. Nel panorama letterario polacco Bruno Schulz apparve un estraneo, un eretico. «Ci trovavamo nel vacuo, ha scritto Gombrowicz, le nostre posizioni letterarie erano foderate di vuoto, i nostri ammiratori erano un che di spettrale del tipo «apparent rarinantes in gurgite vasto», entrambi ci aggiravamo per la letteratura polacca come uno svolazzo, un addobbo, una chimera, un manico di violino.» Alla gente sembrò che Schulz e Gombrowicz, cervelli mal ristuccati e balzani, fossero della stessa pasta, cugini nell'esperimento e nei trucchi verbali. Schulz ebbe in realtà una profonda ammirazione per Witold, come testimoniano il suo fervido articolo su Ferdydurke (1938) e ancor più questo brano di una lettera a Romana Halpernowa del 13 ottobre 1937: «I miei ultimi giorni sono trascorsi sotto la fulminante, sbalorditiva impressione che ha in me suscitato il libro di Gombrowicz. Tutti iterativi di classificarlo deludono. E' una grande scoperta, un libro oltre modo rivelatore. Come atto spirituale, lo pongo accanto a fenomeni quali Freud o Proust.» Ma Gombrowicz, nel diario, non rinunzia alla sua posa demonica, alla sua alterigia, alla sua ambiguità nemmeno nei riguardi di Schulz: «La mianatura, egli afferma, non mi permise mai di accostarmi a lui altrimenti che con diffidenza, non avevo fiducia in lui e nemmeno nella sua arte. Ho forse letto qualche volta onestamente, dal principio alla fine, qualcuno dei suoi racconti? No: mi annoiavano.» Come se anche il calore umano, l'amicizia, il consenso fossero per Gombrowicz un aspetto di quella esecrata «immaturità», di cui tuttavia, a detta di Schulz, egli era il «manager.» I racconti di Schulz costituiscono un unico ciclo di ricordi d'infanzia, un album di abbaglianti quadretti a colori, dipinti col gusto della pittura domenicale e pervasi di fumisteria, di ironia, di giuoco clownesco. Il professore di disegno tramuta in meraviglioso il grigiore e la consuetudine di Drohobycz negli anni terminali dell'impero absburgico. Si vedono più stravaganti e più maghi nella sua cittaduzza sperduta che non si videro un tempo nella foresta di Ardenna, paladini incantati. Il mondo lontano della fanciullezza riappare a Jòzef (ossia a Bruno Schulz) incongruo e rimescolato come nei sogni e col balenìo variopinto di una luminaria, di una «féte foraine.»
Quei libri sono una tela proliferante di prodigi, di metamorfosi, di stregonerie hoffmanniane. Un arsenale di manichini, pompieri dagli elmi di ottone, omuncoli, uccelli di inusitate forme, brandelli di storie multicolori. Schulz scrisse ad Andrzej Plesniewicz il 4 marzo 1936
«...il genere d'arte che mi sta a cuore è appunto la regressione, è l'infanzia reintegrata. Se fosse possibile riportare indietro lo sviluppo, raggiungere per qualche via circolare un'infanzia reintegrata, avere ancora una volta la sua pienezza e la sua immensità: sarebbe l'avveramento dell'«epoca geniale», dei «tempi messianici», che da tutte le mitologie ci sono promessi e giurati. Il mio ideale è di «maturare» verso l'infanzia. Solo questo sarebbe l'autentica maturità.» In termini gombrowicziani un tale ritorno significa invece «immaturità» («niedojrzalosc»). Solo che l'infantilismo, la condizione puerile, a cui il mingherlino, calvo, occhialuto, saccente professor Pimko, dall'«appendice nasale a due tubi», vuol restituire in Ferdydurke il suo prossimo, offrono il destro a Gombrowicz per imbastire una macchina di sarcasmo e di sdegno contro il bamboleggiare degli uomini e la loro perenne grullaggine da adolescenti, mentre la fanciullezza, l'«immaturità» appaiono a Schulz archivio di ogni scoperta, registro di portenti, sorgiva inesauribile di poesia. Ma, alla fin fine, come risultano labili i limiti tra le due concezioni. E quanti personaggi di Schulz potrebbero abitare le pagine di Ferdydurke, e viceversa. Emblema del mondo schulziano sono certe odorose botteghe di merci rare che aprono solo di notte a Drohobycz: «Io le chiamerò botteghe color cannella, dal colore delle brune boiseries che le rivestono.» Bottegucce e baracche «fatte di scatole di caramelle, vistosamente tappezzate di réclame di cioccolata, piene di saponette, di allegra paccottiglia, sciocchezzuole dorate, stagnole, trombette, wafer e mente colorate.»
Contiguo a quelle botteghe è il negozio di tessuti del padre, l'«oscuro accampamento di stoffa e di velluto.» Nessuno scrittore ha mai reso con tanta sottigliezza l.arcanità di un emporio di pannilani, il «crepuscolo di feltro» brulicante di «nugoli ciechi di tarme», il caldo peloso e il tanfo e l'equilibrismo delle pezze ammucchiate negli scaffali. Il negozio di Jakub rappresenta la solidità patriarcale. Schulz infatti parteggia per i vecchi mercanti, che intendevano il commercio come un'arte e una cerimonia, e si cruccia dell'agonia di quel teatro tessile, di quel microcosmo di sortilegi. Alle botteghe color cannella e al negozio di drappi Schulz contrappone la Via dei Coccodrilli, ossia il quartiere sorto dall'afflusso caotico di avventurieri attratti dai pozzi di petrolio, all'estrosa saggezza dei vecchi rivenditori, la rapacità pretenziosa degli affaristi. Ma per quanto egli si adoperi di denigrare quel rione promiscuo, sentina di sfrenatezza e «ciarpame morale», dove «i grigi, folli papaveri dell'eccitamento si riducono in cenere», la Via dei Coccodrilli, con le sue carrozze senza cocchieri, coi suoi tram di cartapesta ammaccata sospinti da facchini municipali, coi suoi piccoli treni che d'improvviso spuntano nelle stradine, assume anch'essa un aspetto meraviglioso, diventa un luogo incantato, come il resto di Drohobycz, sfondo invariabile della scrittura schulziana. L'infanzia si immedesima con l'Unico Libro, e quel libro non è la Bibbia di Jakub, ma uno scartabello spazzato dalla domestica Adela, un quaderno sbrindellato e malconcio, di cui sono rimaste pochissime paginette a colori, suscitatrici di immense «réveries»: il libro della fantasia, il libro che cresce ogni volta che vi si ritorna, l'Autentico. Quell'unico libro coincide con l'album dei francobolli, che è il libro dell'universo, il «compendio di ogni scienza dell'umano», un libro simile a una parata da circo con stendardi e bandiere, magico evocatore di aromi, di lontananze, di ammalianti contrade. La filatelìa, come incentivo di sogni, è un motivo precipuo di questi racconti. Schulz trasfigura Drohobycz, immettendo incantesimi nella sua esistenza feriale, così come Chagall muta Vitebsk in un gioioso paesaggio di favola, con casupole sghembe, violinisti sui tetti e una folla di «viaggiatori del cielo.»
Nel giardino di un ristorante violini suonano da soli, la sera. Le strade nella penombra «si moltiplicano, si confondono e si scambiano l'una con l'altra.» Nel cuore della cittaduzza si aprono «strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci.» Di lì ciclisti si lanciano sulle loro «macchineragno» nella pista del firmamento. Sembra che nel romanzo Mesjasz si propagasse la notizia che il Messia era arrivato e si trovava ormai a soli trenta chilometri dall'esultante Drohobycz. Ma anche gli avvenimenti consueti si trasformano in «époques solennelles.»
E, per usare una parola di Tuwim, del quale Schulz ammirava la poesia, «sgargiante nido di colibrì», Drohobycz diventa una sorta di Barwistan, di Colorilandia. Pernio e maniglia di questi racconti è il padre, Jakub Schulz, il mercante che conosce i segreti del rito di vendere stoffe. Il lento sfiorire e assecchirsi del personaggio riflette la condizione reale del padre dello scrittore nel periodo della sua lunga malattia e indica insieme il graduale deperimento, la bancarotta dei patriarcali mercanti, del commercio all'antica, scalzato dai «coccodrilli.» Ma in Schulz tutto è pretesto di favola. Jakub avvizzisce, si fa sempre più magro e più piccolo, parlotta come un bambino, si rintana in remoti nascondigli e, come i vecchi già stolidi, fruga meccanicamente gli armadi, riordina le cianfrusaglie. Dà spettacolo di metamorfosi, assumendo parvenza di còndor e di insetto grottesco. Il padre di Jòzef, dadaico, pagliaccio, bislacco, mattòide, svampito, rimanda a certe figure del Tristram Shandy di Sterne, ma soprattutto alle maschere del teatro di Witkiewicz. E' un «dziwak» (ossia un eccentrico), un «Sonderling», un guitto, un maestro di magia prestigiatoria, da disgradare Bosco e Houdini. Benché malaticcio, va a salti come una gazza, si arrampica e guizza come un folletto, ha un'agilità mercuriale, la destrezza di un «escamoteur» metafisico, e si rivela strampalato e argento vivo anche da morto, nella città del Sanatorio. E nel gran finale, mentre gli uomini aspettano la venuta di un bòlide che deve distruggere il mondo, si infila nella rocca del camino, a contemplare i misteri dei cieli. Quante fumosità gli passano per il cervello, di quanti prestigi è manipolatore. Fa covare ad enormi galline belghe uova di uccelli di ogni contrada, perché ne vengano fuori bizzarri volatili.
Con industrie di mani moltiplica piccioni, che poi gradualmente riassorbe nella bacchetta. Quegli esercizi di illusionismo equivalgono a giuochi d'infanzia. E in effetti Jakub, tratteggiato col candore dei disegni puerili, è a suo modo un campione di «immaturità» («niedojrzalosc»). Può capitare tra l'altro che gli entri la frenesia di esser pompiere, con un «pesante elmo da pretoriano» e un «sonoro armamentario di lucide placche metalliche», che gli dànno il sussiego di un «arcistratega di legioni celesti», e di saltare di notte dalla finestra in un grande telone teso. Ma c'è di più, con le sue stravaganze, questo prestigiatore è un estremo avvocato della causa persa della poesia, e perciò un alter ego dello scrittore. «Egli era come un mulino magico, nelle cui macine si riversava la crusca delle ore vuote, per riemergere dai suoi ingranaggi fiorita di tutti i colori e i profumi delle spezie d'Oriente.» Al suo contatto le cose risalgono alle radici della loro esistenza, per volgere poi nelle ambigue «regioni della grande eresia.» Questo «eresiarca ispirato», questo Celionati che muore e rinasce come per giocolerìa, sembra attuare l'ideale di poeta che Tuwim vagheggia nella sua lirica Hokus Pokus: «eccentrico, motteggiatore, ballerino, alchimista e virtuoso.» Gli eroi di Witkiewicz favellano a vanvera di filosofia, di politica, di narcotici, di psicanalisi. E anche Jakub Schulz sputa sentenze, pronunzia lunghi discorsi, espone dottrine cervellotiche. Egli fa studi di meteorologia comparata, attribuisce il «secondo autunno» di Drohobycz all'inquinamento del clima per causa dei miasmi che esalano dall'arte barocca affastellata nei musei dei dintorni. Recita alle sartine Polda e Paulina il Trattato dei manichini. I pompieri gli ispirano un reboante sproloquio, in cui manifesta la sua simpatia per questi «figli del fuoco», «infelice stirpe di salamandre», spregiata sebbene diffonda colori in forma di razzi, bengala e girandole. Anche se striminzito e macilento, egli invade lo spazio verbale allo stesso modo in cui un'enorme libellula ingombra il quadro Dziwny ogròd (Lo strano giardino) del pittore della Secesja Jòzef Mehoffer. Il patriarca buffone vuol esser demiurgo. E imitare la creazione divina, plasmando gole m, omuncoli, schiere di manichini. La sua fede nella docilità della materia, «l'entità più passiva in difesa del cosmo», collima con la fede nella poesia. E' curioso che Jakub snoccioli le teorie manichini che il sogno demiurgico alle sartine Polda e Paulina. Ma non sono spenti nel suo gramo corpo pronto a dissolversi i carboni della concupiscenza: il vecchietto desidera la domestica Adela, ha un debole per le due sartine, e si diverte a s rotolare a una di esse, a Paulina, l a calza sino al polpaccio. Nonostante la gaiezza però, questo personaggio, che continuamente si eclissa e riappare dal limbo delle metamorfosi e della morte, questo campione del «non sense» a contrappunto col praticismo degli uomini, questo sognatore, che senza tregua attraversa i confini del reale, alle corte questo comico «revenant» ha qualcosa di demoniesco. «Restava in continuo contatto col mondo invisibile dei ripostigli oscuri, delle tane di topi, dei vuoti spazi tarlati sotto il pavimento e delle gole dei camini.» Ma Jakub non è il solo svitato di Drohobycz. Schulz allinea tutta una serie di mattacchioni, di sgangherati, di «pitres» ausiliari. Lo zio Hieronim che, col severo contegno delle figure del Doganiere, se ne sta in un'alcova, sempre più ricoprendosi di un «fantastico manto peloso», accanto a un leone, «possente e lugubre come un profeta, maestoso come un patriarca.»
E l'èbete, imperturbabile Dodo in redingote e bombetta e panciotto di piqué bianco. E il giovane Edzio, di «forma spugnosa e molle», così rattrappito che non sembra un corpo ma l'epìtome di un corpo, dalle gambe deformi per troppe articolazioni e giunture. Attorno «Jakub, «démon moqueur», principale della compagnia dei trapassati, tutti costoro acquistano nella memoria di Schulz la sostanza di pagliacci da «peinture naïve», ma insieme di ridicolissime larve, di piccoli spettri inquietanti, di parasacchi. La fissità paranoica, l'essenza ibrida e e colloidale delle figure minori è in stretto rapporto con la propensione di Schulz ai manichini, alle cere, col suo interesse per la «fermentazione fantastica della materia.» Percorrendo Drohobycz, vedrete dappertutto fantocci. Nei rettangoli sporchi delle vetrine di Via dei Coccodrilli campeggiano «grandi manichini di cera e bambole di parrucchieri.» Nel cielo della cittaduzza, mentre si aspetta la fine del mondo, Jakub intravede un omuncolo immerso nel liquido amniotico in un'ampolla di vetro. Le due sartine Polda e Paulina introducono in casa Schulz «una dama di pezza e di stoppa, con una palla nera di legno al posto della testa.» E qual è il loro sogno? Che il vento porti dalla finestra aperta un Pierrot imbottito di segatura. E un giorno arriva a Drohobycz un panottico, un «ospedale delle figure di cera», tra i cui ospiti illustri primeggia l'arciduca Massimiliano d'Absburgo, pupazzo in redingote che, per un trucco meccanico, rotea gli occhi e solleva il petto, come la Cleopatra di una poesia di Blok. Non solo Drohobycz brulica di manichini, ma i suoi cittadini anelano alla condizione di automi e bambocci. I grigi abitanti di Via dei Coccodrilli compongono un «sonnolento corteo di marionette.» Attendono fermi per ore l'arrivo dei treni, col volto di profilo, «come una serie di pallide maschere di carta, ritagliate secondo una fantastica linea di ansiosa fissità.» Nel negozio i commessi si avvolgono nei pannilani, diventando «pezze viventi, mummie di tessuto.» Gli allegri pompieri sono anch'essi pupazzi. D'inverno, «riparando camini, se ne trovano di abbarbicati alle gole, immobili come larve, sempre vestiti delle loro uniformi scarlatte e coi caschi luccicanti in testa. Dormono così, in piedi, ingozzati di sciroppo di lampone, ricolmi dentro di una dolcezza appiccicosa e di fuoco.» Ciò che è vivo palesa d'un tratto un'indole fantoccesca.
Tornando da Jakub, gli uccelli, che Adela aveva disperso, cadono come un'informe congerie di piume, si rivelano ciechi, di cartapesta, farciti di putridume, scontraffatte chimere, splendidamente colorate mcolorate8
Ciò che è vivo agogna a una torpidità manichinica, a quell'inerte espressione cucurbitacea, a quell'ebetudine da Perogrullo, che si dà ai fantocci una volta per sempre. Ed è strano perciò che Jakub, nel Trattato dei manichini, si crucci per la sofferenza della materia, «materia oppressa», contro la quale si compie «una spaventosa illegalità», inchiodandola in un'eterna immutabile attitudine.
E' strano, se uomini e bestie tendono a farsi essi stessi di stoppa e di stucco, che Jakub compianga «la tristezza terribile di tutti i golem buffoni, di tutti i fantocci tragicamente assorti nelle loro ridicole smorfie.» «Avete mai udito di notte, domanda, gli urli terribili di questi fantocci di cera, chiusi nei baracconi da fiera, il coro lamentoso di quei tronchi di legno e di porcellana che tempestano di pugni le pareti delle loro prigioni?» Può accadere d'altronde, nel Drohobycz dell'infanzia, che i manichini si mettano in moto, come per l'impulso di suste e girelle. In una notte di bufera Jòzef si trascina dietro, con un fracasso d'inferno, l'intera consorteria del panottico in un'impresa cavalleresca e poi, fatto saltare il museo delle cere con un barilotto di polvere, dà libertà ai manichini, che andranno per il vasto mondo a sonare organetti dello Schwarzwald. E di notte, vicino al ginnasio, tra màrtore, dònnole, icneumòni, sembrano palpitare anche gli spelacchiati esemplari del gabinetto di scienze. L'amore di Schulz per i manichini partecipa di una tendenza diffusa nell'arte del primo trentennio del secolo. Vengono subito in mente la nostra Pittura Metafisica e gli idoli glabri di Schlemmer, il cui fervore per la marionetta e la «mechanische Kunstfigur», oltre che nei dipinti, si manifestò nel balletto Das Figurale Kabinett (1923), «metà baracca da tirassegno, metà Metaphysicum abstractum.» Quanti «Hampelmänner» nei quadri di Klee, quante figurine da «Puppentheater» e da opera buffa. Del resto nella commedia Pragmatysci (I pragmatisti, 1919) di Witkiewicz agisce una Mummia cinese, «principessa del loto azzurro.» E il futurista polacco Tytus Czyzewski, nella poesia Transcendentalne Panopticum (Il panottico trascendentale, 1921), aveva vantato con tono da imbonitore le sue «woskowe figure» (figure di cera), animate da un dispositivo elettromeccanico. Schulz condivideva questa passione con l'amica Debora Vogel, la quale pubblicò nel 1934 un volumetto di liriche dal titolo Manekiny e diverse pagine dedicò ai manichini nella raccolta di prose Akacje kwitna (Le acacie fioriscono, 1936). Quasi a riscontro col saggio di Kleist sulle marionette, il mercante bagattelliere Jakub, come un ciarlatano che sulle piazze gridi per acquistar credito a un suo lattovario, improvvisa, dinanzi alle due sartine prossime a spiritare, il delirante Trattato dei manichini, intermezzo stemiano, nel quale annunzia il proposito di impastare pupazzi, «sospendendo certi complicati colloidi in soluzioni di sale da cucina», ossia di «cercare una seconda volta l'uomo, a immagine e somiglianza di un manichino.»
Jakub, cioè Bruno Schulz, si accalora per la materia, che ritiene dotata di fecondità senza limiti, di inesauribile forza vitale. E la materia che predilige, stoffa suprema per la creazione del manichino, è la «tandeta», ovvero la paccottiglia, il ciarpame, la carabàttola. Questa demiurgia mattaccina vuol fornire patenti di nobiltà alle cose vili, agli sbréndoli da Marché aux Puces, alla balorderìa dei detriti. Per cui la Manichinia schulziana si pone vicino al Merzbau di Schwitters.8
D'altronde non c'è un confine preciso in Drohobycz tra la plebe dei fantacciotti di stoppa o di cera e le figurine degli stralunati. E lo scrittore è perplesso se il Massimiliano del panottico sia l'arciduca in persona oppure il suo sosia «in una risurrezione di cera» o un bamboccino demente, che recita una «buffonesco imperial commedia.» Una grande giocolerìa metafisica sommuove l'universo di Schulz. Gli oggetti non hanno pace. Riprendendo un motivo, caro ai cubofuturisti russi e al dadaismo, la rivolta delle cose, egli descrive le migrazioni di pentole, botti, bottiglie, l'inarrestabile invasione di secchi vocianti e di vaneggianti catini, le cavalcate di assi e di travi, l'arrampicarsi l'uno sull'altro di vecchi cappelli e cilindri (come nel film Vormittagsspuk, 1927, di Hans Richter). Le cose sbattono senza grazia «i pioli delle loro lingue di legno.» Una stufa ulula, e la sua pancia dipinta fa smorfie. Nel negozio del padre le tavole del pavimento conversano. I piumini si agitano, le lenzuola non la smettono di lievitare: ne sa qualcosa zio Karol: «crescevano attorno a lui, lievitavano, fermentavano e di nuovo lo seppellivano sotto una valanga di pesante pasta biancastra.» Everything turns, everything moves.
Drohobycz è un circo, e Schulz il suo direttore. Lo testimonia in specie la scena in cui la cittaduzza, allargatasi all'infinito nella distesa del cosmo, aspetta l'arrivo di un bòlide distruggitore: «Come in una farsa da circo volavano in aria cappelli e bombette, e i capelli si drizzavano in testa, gli ombrelli si aprivano da soli, nude calvizie apparivano al sollevarsi delle parrucche...» Velocipedi irrompono nel nero spazio stellare, ciclisti su macchineragno: è «una fine del mondo circociclistica, hoplà prestigiatoria, uno splendido hocuspocus didattico sperimentale...» Molte pagine di Schulz hanno carattere e sfarfallìo di carnevale. Variopinti brandelli e cascami da «bal in masque» si ammucchiano intorno alle due sartine, «come le bucce e i gusci risputati da due pappagalli difficili e spreconi.» Di questi trucioli e scarti e ritagli di stoffa, che il padre scambia per i suoi perduti volatili, Polda e Paulina potrebbero cospargere l'intera cittaduzza, come di una «fantastica, multicolore nevicata.» Carnevali si svolgono nel negozio di Jakub: le pezze, schierate con gravità di patriarchi, scendono a un tratto dagli scaffali sui banchi e sui tavoli, infuriando «con lunghe tirate pantomimiche, con improvvisazioni diaboliche.» La turba che invade il negozio, bramosa di stoffe, si drappeggiano i pannilani, se ne fa dòmini e ridicolose livree. C'è un gran desiderio di camuffarsi negli uomini e negli oggetti a Drohobycz. I bambini, soffiando dentro vesciche, si trasformano in rosse maschere accese di gallinacei. Al tramonto, nella cittaduzza febbricitante, le case si coprono di rossori e la folla si aggira, «vistosamente truccata e dipinta.» In estate il sole torrido incolla sui volti una barbarica maschera d'oro, come di un culto pagano. Il dèmone della giocolerìa si è intruso a Drohobycz a tal punto, che vi si incontrano pure rivenditori di stoffe invisibili, i quali mostrano con scaramelle di mani una merce che non esiste. Ma l'unica, autentica merce, che si contrapponga alle ciarpe, alla dozzinale «tandeta», sono i solidi, forti tessuti all'antica del negozio del padre. In tutta questa giocolerìa senti a volte qualcosa di Chagall e di Chaplin insieme, come in quella scenetta in cui Jakub riceve al negozio un ospite illustre, un «barbanera» da comica «slapstick», rappresentante di una ditta di Filature e Tessiture Meccaniche e, dopo un lungo colloquio agitato dinanzi al libro dei conti, esce con lui nella nera notte: «la ghigliottina della notte li decapitò con un sol colpo, ed essi si tuffarono nel buio come in acque nere.» Percorso a volo il nero infinito, ritornano ubriachi al negozio, ricuperando le teste perdute, in una burlesca inquadratura metà Chagall metà Chaplin. La memoria rimescola e affastella in disordine gli avvenimenti. L'incongruenza dei sogni scompiglia la logica successione del tempo, mettendo in forse persino l'irrevocabilità della fine. Così accade che Jakub, dopo esser morto o svanito nelle spoglie di uccello o di scarafaggio, riviva di puntimbianco e riprenda il lavoro al negozio e i suoi ghiribizzi e sproloqui, per poi scomparire di nuovo in un ciclo inesauribile. «Era morto dice Schulz molte volte, mai completamente, sempre con certe riserve, che costringevano quel fatto a una revisione.»
Una simile alternativa di sparizioni e riapparizioni caratterizza anche altre figure: la serva Adela, ad esempio, si imbarca per l'America e annega, ma poi inaspettatamente ricompare. Questa labilità prestigiatoria e la sostanza ectoplasmica dei personaggi ci richiamano al teatro di Witkiewicz, a quel cabaretmanicomio, dove hanno dominio l'illogico, il camuffamento, il volubile, un marionettismo conio, ogni sorta di bizzarrie, e dove nulla è definitivo, nemmeno la morte.
Witkiewicz amava le risurrezioni burattinesche, gli irrazionali ritorni, il commercio con l'oltretomba. Pazzi tinti in chermisino, schiuma di turlupinesca stoltizia, maestri di filastrocche, i suoi personaggi muoiono e rinascono con futilità di cagliostri. In Kurka wodna (La gallinella acquatica, 1921) Gallinella, trucidata al primo atto dall'amante Edgar a sua richiesta, risuscita e, ringiovanita grazie allo yoga e ai massaggi, adesca il figlio di Edgar, che la uccide di nuovo, per poi sopprimersi. In Wariati zakonnica (Il pazzo e la monaca, 1923) il giovane poeta Walpurg, amante di una suora infermiera, si impicca alla manica della camicia di forza e, mentre il suo cadavere è ancora in scena, rientra elegante con un fiore giallo all'occhiello, seguito dal medico assassinato da lui poco prima e recando un vestito sgargiante per la sua monaca. In Szewcy (I calzolai, 1931-34) il capo dei ciabattini Sajetan, accoppato dapprima da un apprendista con un fendente di scure e quindi dall'Iperoperaio a colpi di colt, continua ogni volta a ciarlare strabocchevolmente. In Matka (La madre, 1924) la morta madre, mentre giace su un catafalco, oh mamma mia, ricompare, giovane di ventitré anni. E al figlio immerso nel lutto spiega che la sua salma è solo un manichino, con testa di legno (opera forse di Zamoyski o Archipenko), braccia di gesso, ed il resto di stoppa. In modo simile Schulz manipola il tempo, spostando e imbrogliando gli avvenimenti a capriccio, sovrapponendoli con aberrazioni e sfasature, che dànno luogo ad «informi buffonate.» Questo tempo senza annodomini è il tempo della Grande Eresia, delle clownesche metamorfosi e degli assurdi ritorni alla sprovvista, la misura sconnessa di un mondo onirico e colloidale. Questo nontempo può generare persino un tredicesimo mese, un «me se gobbo», un «germoglio semiappassito», con giorni apòcrifi, giorni gramigna, mese di cose incompiute, di strambe escrescenze, di ibridi. Schulz spinge al massimo la sua deformazione del tempo nelle pagine sul remoto Sanatorio, in cui i morti continuano a vivere. Sebbene a casa, a Drohobycz, sia già defunto, in questa città funeraria, che sembra avvolta di crespo come i violini di Krespel, Jakub è ancora vivo, parvenza postuma (altro elemento della sua demonìa): e addirittura si sdoppia in malato in letargo nel letto del Sanatorio e in mercante operoso nel negozio di stoffe, che ha qui riaperto. Nel Sanatorio i defunti (ma il defunto è uno solo) sono restituiti a una sorta di «Als Ob Leben» da panottico, vivono un proseguimento fittizio e larvale e, per raffrenare lo stillicidio residuo della clessidra, sprofondano spesso in un alto sonno. E' chiara l'allegoria. Il treno che conduce al Sanatorio è la barca tarlata che attraversa la livida palude e il vecchio ferroviere dal viso gonfio per il mal di denti è Caronte. Il Sanatorio, con quel labirinto di porte, di ripostigli, di corridoi senza uscita, di specchi opachi, col suo sudiciume, con le sue stufe spente, coi suoi campanelli disinnestati, è l'imbocco dell'Erebo, l'estrema sala di attesa. Qui al colorismo sbrigliato degli altri racconti Schulz sostituisce una lugubre tavolozza, in cui prevalgono il nero e il bianco, e le sfumature del grigio, e l'argento. Sebbene caliginosa e d'inchiostro sbiadito e come vista con lenti affumicate, la terminale stazione dell'esistenza rivela a tratti, per un assalto di nostalgia, la filigrana di Drohobycz. E a porre in rilievo il dolciastro vischioso della sonnolenza, la collosità della morte, Schulz insiste sui negozi di pasticcini, che sorgono ai margini del Sanatorio, meste varianti delle botteghe color cannella. In qualche punto il racconto sul Sanatorio ricalca Die andere Seite (L'altra parte, 1908) di Kubin. Il treno che porta coi suoi arcaici vagoni nella lontana città misteriosa all'estremo confine del mondo; il grigiore di crespo funebre della fatiscente cittàsanatorio, così simile a Perla e, come Perla, tuffata nella sonnolenza; l'apatìa, la pesantezza di palpebre, l'«irrefrenabile necessità di dormire» che colgono Jòzef nel suo soggiorno all'insegna della clessidra; le figure schizoidi che egli vi incontra e gli emblemi di lutto (come quei fasci enormi di felce nera); la somiglianza dello sfuggente Dottor Gotard con l'inafferrabile déspota Claus Pàtera; e persino il motivo dell'esercito nemico che invade la schulziana Città del Sogno: tutto questo rimanda a quello spettrale romanzo. L'infanzia di Bruno nella cittaduzza assonnata dell'imperial regia Galizia coincide con gli anni di declino della monarchia austroungarica. Poiché si ingegna di rendere i sapori e le curiosità di quel tempo e di quel sistema, la narrativa di Schulz, radicata nell'humus del Mitteleuropa, appartiene al nòvero delle opere che riflettono il decadimento, gli estremi bagliori dell'impero di Cacania. La sua descrizione, ad esempio, di Francesco Giuseppe, «potente e triste demiurgo», non è lontana da quella che ne fornisce Joseph Roth, anche lui ebreo galiziano, nel romanzo Radetzkymarsch (La marcia di Radetzky, 1933). Dice Schulz: «I suoi occhi sottili, ottusi come bottoncini, situati nei delta triangolari delle rughe, non erano gli occhi di un uomo. Il suo volto ombreggiato dai favoriti bianchi come latte, pettinati a ll'indietro come nei demoni giapponesi, era la faccia di una vecchia volpe immusonita. Da lontano, dall'alto della terrazza di Schönbrunn, quella faccia, grazie a una particolare disposizione delle rughe, pareva sorridere. Da vicino quel sorriso si rivelava una smorfia di amarezza e di piatta concretezza, non rischiarata dal barlume di alcuna idea...» E Roth: «...l'imperatore pareva che fosse diventato vecchio in un giorno, nel breve corso di un'ora; e che da quell'ora precisa fosse stato rinchiuso per sempre nella sua canuta, glaciale e tremenda vecchiezza, come nella corazza di un cristallo infrangibile.
Gli anni non lo toccavano. I suoi occhi si facevano sempre più duri e più azzurri.» Nella fantasia di Jòzef l'imperatore si pianta come un feticcio che dòmina con regolamenti e cavilli procedurali un mondo tedioso e decrepito. Se Jakub si atteggia a demiurgo balzano, a demiurgo pagliaccio, a impresario di burle e di trappolerie, Francesco Giuseppe è invece il tetro demiurgo impassibile della legittimità e dell'etichetta.
All'imperatore aggrondato, a questo guardiano del gretto Buon Senso, Schulz contrappone il festoso album di francobolli e la malinconica immagine di Massimiliano, che rappresentano entrambi, identificandosi, i diritti del sogno e dell'inventiva, l'avventuroso, l'incalcolabile. Le imprese di Massimiliano, mandato allo sbaraglio nel Messico, e la sua fucilazione a Querétaro nel giugno 1867 rimasero a lungo nella memoria dei sudditi absburgici. Si sussurrava che Francesco Giuseppe avesse voluto sbarazzarsi del fratello, perché era più abile e più fantasioso e più affascinante di lui. Ghironde e fanfare di ottoni e «katarynki» e sonavano in tutto l'impero la marcia funebre composta per le esequie di Massimiliano. Nella monotonia provinciale della Galizia quel Messico irrompe come una ballata e il nome di Massimiliano si muta in un'astratta parola magica, in un «Wortklang» liberatore. Ma è strano: per la sapienza trasfiguratrice di questa prosa al iena dai manicheismi, Francesco Giuseppe diventa anche lui, pur nella sua accigliatezza e nel suo scostante sussiego, un simulacro incantato. Schulz non degrada l'onnipresente ritratto dell'imperatore, come fa Hasek nel Bravo soldato Svejk (1921-23) e nei racconti, coprendolo di derisorie impronte di mosche. E non umilia il personaggio, come Hasek, che lo riduce ad un bietolone barbogio, afflitto da assidue ricercate di stomaco. Lo scrittore polacco ricostruisce le ultime dècadi dell'impero austroungarico, ovvero la propria infanzia, rievocando vecchie réclames e ricette e vignette di calendari e giornali illustrati. Dai brandelli dell'Unico Libro saltano fuori Anna C sillag, la cui calvizie in virtù di un unguento si coprì di fastosi, spioventi capelli da Lorelei, ciclisti dai mustacchi a coda di taràntola su velocipedi dalle alte ruote, il balsamo «Elsafluido di cigno» e altri fàrmaci miracolosi, canarini dello Harz e organetti di Barberia, e Asta Nielsen, e il signor Bosco, maestro di magia nera. Con l'ausilio di questi ritagli di pubblicità, di questa «tandeta» del tramonto della monarchia Schulz esprime il gusto di un'epoca, ciò che Mandelstàm ha chiamato «rumore del mondo.» Insieme con l'«Edelkits che dell'inizio del secolo (ripescato con una passione che agguaglia quella dei surrealisti) anche molti elementi della Secesja ricorrono nei racconti. Soprattutto colpisce la continua ossessiva presenza delle tappezzerie con grovigli di arabeschi.
Gli angeli dementi di Schulz vivono in mezzo a fittissime selve di tappezzerie palpitanti, proclivi anch'esse ai «sogni lontani e rischiosi» e percorse da bisbigli, da ammicchi, da «sguardi eloquenti», da «zigzag di pensieri.» Lo scrittore conosce la vita segreta e volubile, l'«infruttuosa dialettica» di portiere e tendaggi, di questo teatro tessile, analogo a quello che improvvisano i drappi ammucchiati nel negozio paterno e i variopinti stracci da truffaldino. Egli registra il «panico degli arabeschi», l'argenteo stormire di foglie delle tappezzerie, i loro scherzi, i loro crucci, i loro tumulti e vaneggiamenti. Al deperire di Jakub fa da contrappunto un notturno irrequieto ansimare delle tappezzerie, cui sembrano comunicarsi, non solo il malessere, ma anche i tic, l'anatomia del sorriso del vecchio mercante. Del resto, da gambero, il padre si arrampica lungo i parati.
Quegli addobbi ricalcano a tratti le composizioni cromatiche, i «vitraux» della Secesja polacca. E non solo gli addobbi. Gli uccelli di Jakub, ad esempio, coi loro «lembi di porpora» e i loro «brincelli di zaffiro, verde rame e argento», «formavano sul pavimento una falda colorata e ondeggiante, un tappeto vivente, che ad ogni incauta intrusione si dileguava, si dissolveva in fiori mobili, svolazzanti nell'aria...» Jòzef (Giuseppe) ha il nome del figlio del vecchio Giacobbe (Jakub) e, come il Giuseppe della Genesi, è «signore dei sogni»
Vi sono frequenti ricorsi biblici nei racconti di Schulz, ma di solito la solennità del riferimento alla Bibbia ha un risvolto di buffoneria e, a guardar bene la natura di Jakub, si direbbe che bagattellieri e cantambanchi e patriarchi siano di una sola buccia. Alle corte, il biblismo schulziano tira al burlesco. Penso alla scena in cui il mercante, ammalato, si leva madornale a urinare sopra un càntero di porcellana, mentre Geova infuria, gonfio di collera. E a quella in cui, tra cascate di pannilani, come in una «fantastica terra di Canaan», Jakub soffia rabbioso su uno «sciofàr», per dissipare la folla, lo «sconsiderato popolo di Baal», che assalta il negozio. E a quella in cui, col «barbanera», rappresentante di stoffe e patriarca domenicale anche lui, torna brillo da una scorrerìa per Drohobycze, spossati, stramazzano l'uno sull'altro lottando, il «barbanera» sul padre, «come l'Angelo su Giacobbe.» Il negozio si cambia sovente in paesaggio biblico, col capofamiglia ieratico in mezzo al gregge lanuto dei drappi e con gli allegri commessi, «bei cherubini», «angeli bruni o rossicci.
E negli interni di casa Schulz sembra regnare quel «malinconico silenzio baffuto» che, a detta di Mande`l`stàm, avviluppava le case ebraiche della Slavia orientale. Le idee di Jakub sulla creazione di androidi e omuncoli di paccottiglia si ricollegano al mito del Golem. Il suo Trattato dei manichini è una sorta di Sefer Jezirah volto al grottesco, il commento di un rabbino maniaco, che potrebbe abitare una commedia di Witkiewicz. E così, per merito di Jakub, come molte cittaduzze ebraiche ai confini tra la Polonia e la Russia, anche Drohobycz avrà una sua «Golemlegende», ma inusitata, suigeneris. A differenza del Golem di Rabbi El ijahu di Chelm, i manichini di questo mattaccino demiurgo non si ribellano al loro inventore, e non sarà necessario ridurli all'originaria «tandeta» di cui sono plasmati (come i golem di argilla), dissolverli in un amorfo ammasso di carta straccia e di ciarpe. Nella scrittura schulziana troviamo la stessa gioia di vivere e la meraviglia e persino i «m.schugòim», gli stravaganti e svitati, delle storielle chassidiche. Gli stratagemmi da prestigiatore di Jakub somigliano a certi prodigi di illusionismo, di cui si narra fra i «chassidim», come, ad esempio, il fulmineo raccorciamento delle distanze. E lui stesso, il venditore di partite di panno, trasformista e taumaturgo arruffone, arieggia per la sua cervellaggine gli strampalati rebbi chassidici, che compiono esorcismi e miracoli e spesso dànno nelle girelle. La smania di cicalerie fa di lui un «màgid», una specie di predicatore invasato. E il suo rintanarsi scontroso per lunghi periodi rammenta che anche gli «zadìkim» sovente si appartavano. Bruno Schulz tradusse nel 1936 in polacco Il Processo di Kafka. Il rapporto della sua arte con quella kafkiana è fortissimo. Se ne preoccupò Gombrowicz, quando, nel 1961, col titolo: Le Traité des mannequins, apparve in francese una scelta dei racconti di Schulz: «La sua parentela con Kafka gli può ugualmente bene aprire la strada come chiudergliela. Se diranno che è un cugino di più è rovinato. Se invece si accorgeranno dello splendore specifico, della luce particolare, che emana da lui, come da un insetto fosforescente, sarà pronto ad entrare, slittando come sull'olio, nella fantasia già lavorata da Kafka e dalla sua stirpe... e allora le estasi dei buongustai lo lanceranno in alto. E se l'eccessiva poeticità di questa prosa non stancherà troppo, la gente ne sarà abbagliata....» Ciò che soprattutto rimanda a Kafka sono le metamorfosi, e in primo luogo quelle del padre. A furia di vivere chiuso in soffitta con un branco proliferante di eteròcliti uccelli, Jakub rimpicciolisce, gli si coprono gli occhi di un velo bianco, incomincia a dimenare le braccia come ali e a ripetere il verso di quei pennuti, assumendo man mano l'aspetto di un còndor impagliato dall'enorme testa senile. Più tardi, tutto ciuffi e batuffoli di pelo grigio e lunghi pennacchi di setole, il mercante rassembra a una volpe irsuta. Più tardi ancora, lottando col «flusso nero e brulicante» di scarafaggi che invade la casa, vinto dal loro fascino, finisce col diventare anche lui una blatta, si fonde compiutamente con quella viscida razza, svanisce nelle «regioni scarafaggesche.» Un'altra volta, nel negozio di stoffe, gli viene la sènapa al naso e si mette a ronzare, a svolazzare, a sbattere contro il soffitto, come una mosca mostruosa, «dagli azzurri riflessi metallici.»
E più tardi nuova trasformazione: si muta in qualcosa di mezzo tra un gambero e uno scorpione. I cambiamenti in scarafaggio e in gambero palesano assai chiaramente l'influsso del racconto kafkiano Die Verwandlung (La metamorfosi, 1915),la storia di Gregorio Samsa, che si sveglia un mattino, trasformato in «un enorme insetto immondo.» Come l'insetto Samsa, che la domestica chiama senza ambagi «vecchio scarafaggio», anche Jakub, da gambero e da bacherozzolo, giace spesso sul dorso. Oppure, imitando Samsa, che fugge sotto il canapè e «in lungo e in largo sulle pareti e sul soffitto», Jakub corre per il pavimento, tra i mobili, scricchiola sotto le porte, si ficca nelle fessure. Quello scricchiolìo fa pensare che, al pari di Samsa, abbia la schiena «dura come una corazza», ma è certo che possiede anche lui innumerevoli zampine, ed inoltre antenne con cui afferra gli oggetti. Anche il mestiere li rassomiglia: Samsa è infatti un commesso viaggiatore in tessuti e, quando Jakub scompare da scarafaggio, la madre conforta Jòzef, dicendogli che il vecchio va in giro per il paese come commesso viaggiatore. Se in Kafka l'insetto ha nel padre l'odioso persecutore, che lo bastona e bombarda con mele, il maggior nemico di Jakub è zio Karol, che lo vuol calpestare. La metamorfosi di Samsa però si accompagna a un «dolore sottile e sordo», a un senso di angustia e di soffocamento, mentre le plurime trasformazioni di Jakub si risolvono in burle, in raggiri da illusionista. La lentezza dei movimenti di Samsa, che stenta ad alzarsi su tutte quelle zampine che ballano a vuoto, è l'opposto dell'irrequieto «cerimoniale scarafaggesco» di Jakub, del suo guizzare e sparire, della sua «clownerie.» Ma non per questo le metamorfosi del pannaiolo suscitano minor ribrezzo di quella di Samsa.
Fa specie immaginarselo a pancia in su, scarafaggio, fra quelli morti che Adela raccoglie al mattino nella pattumiera. Oppure gonfio crostaceo cotto su un piatto, in gelatina e salsa di pomodoro. Diversamente dalla famiglia descritta da Kafka, che sente rifiorire la vita quando crepa Gregorio, i congiunti di Jakub non traggono sospiri di sollievo né si disperano alle reiterate scomparse del padre, quasi avessero fatto il callo alle sue prodezze. In breve, il meraviglioso in casa Schulz è una tal consuetudine, che persino le trasformazioni di Jakub in artròpodo o dìttero sembrano fatti ordinari. La narrativa schulziana è ingombra di bestie e di insetti. Schiere di cimici migrano lungo il corpo di Adela dormiente. La paterna pelliccia di pelli di pùzzola respira, percorsa da fremiti. Anche questa dovizia zoologica ci riporta a Franz Kafka, i cui racconti sono come le ambigue ed arcane stanze di un'arca inquietante, con sciacalli, con un popolo di topi, con un avvoltoio, con un cane, con un ibrido mezzo gatto mezzo agnello, col cavallo Bucefalo divenuto avvocato, con una scimmia che tiene una relazione scientifica sul suo passato di scimmia. Ma in casa Schulz avvengono anche metamorfosi non ferine. Il fratello di Jakub, in seguito a una malattia, si cambia in un rotolo di tubi di gomma; lo zio Edward vien tramutato da Jakub (famiglia terribile) in un filo elettrico appeso al muro; la zia Perazja, assalita da un accesso di collera, in una notte di orrenda tempesta, si contrae innanzi al fuoco come un pezzo di carta gualcita e, bruciando, si assottiglia a una falda di cenere. Come se all'uomo si appiccasse la smania di diventare «tandeta», «rupiecie», ossìa roba vecchia, fastello di scarti, minuzzaglia da Merz. Parlando in termini gombrowicziani, le metamorfosi delle creature di Schulz sono giuochi di «immaturità»(«niedojrzalosc») a paragone con la soffocante angoscia di quella di Samsa. Del resto che i personaggi schulziani siano modelli di «immaturità», peccerille, filidori foderati di bambino, lo dimostra la metamorfosi del pensionato che, tra gli sberleffi degli scolari, si iscrive alla prima e ricomincia dall'alfabeto, tornando fanciullo, come accadrà a Ferdydurke, per poi chagallescamente svanire a volo sui tetti, risucchiato dal mulinello di vento che un compagno di scuola scatena con la sua trottola. Ma soffermiamoci ancora sui legami con Kafka. Il Sanatorio, ultima Tule, per cui passa un treno una volta la settimana, è lontano dal mondo come la stazioncina, baracca di legno infestata dai topi, dove termina la ferrovia che doveva portare a Kalda, all'interno di una Russia irreale. Hanno qualcosa dei guitti e degli impiegati kafkiani i commessi del negozio di stoffe. Nel clima alloppiato del Sanatorio, in quella dimora di letarghiti, si avverte una reminiscenza dell'Osteria del Ponte nel Castello, e la cameriera in qualche attimo sembra un fioco riflesso di Frida. Come lo scrittore praghese, anche Schulz ha un debole per i letti grandi e spiumacciati. E con lui condivide la propensione erotica per la servitù, come dimostra il risalto dato alle seduzioni ancillari. Sollecitatrici di sensualità, màntici di lascivia sono le due pipatelle sartine servette e in specie la domestica Adela, che attira anche Jòzef e i commessi. Sanno di kafkerìa inoltre le descrizioni di fughe di immense stanze dimenticate, di corridoi, ballatoi, labirinti nelle decrepite case. E infine il tema del padre. Gli ebrei Hermann Kafka e Jakub Schulz erano entrambi mercanti. Ma lo striminzito e mattòide Jakub, giocatore di bussolotti, eresiarca, «bajazzo», artefice di gherminelle e di stravaganze, alterego dello scrittore, è l'antitesi del corpulento, caparbio, dispotico capofamiglia, che Franz Kafka dipinge nella Lettera al padre (1919). E le sue cicalate da burla sono diverse dagli educativi precetti e dalle critiche brusche con cui opprime Kafka «il gigante, la suprema istanza», dal minaccioso dito puntato. Il padre di Kafka è anche lui maestro nell'arte di vendere e di trattare col pubblico, ma il figlio detesta e fugge il negozio di chincaglierie, perché esso si identifica col soffocante influsso dell'autorità e della forza vitale paterna, che spezza ogni suo fervore, ogni suo timido tentativo di indipendenza, accrescendo in lui l'insicurezza e il sentimento di colpa. Mentre invece per Schulz il mondo del padre, l'emporio «altmodisch» del pannaiolo è ristoro e sorgente della fantasia, cabaret poetico, archivio di sortilegi. E non è da pensare che Jakub avrebbe, come Hermann Kafka, avversato l'attività letteraria del figlio. A differenza del padre kafkiano, che sprizza salute, quello di Schulz era gracile e sempre malato come il figlio, e i malati vanno d'accordo. Nei racconti del resto egli entra già larva, già immagine della memoria, dèmone e bellumore dalla testa enorme. Kafka rimprovera al padre di aver insultato una volta, senza conoscerlo, l'attore ebraico Jizchak Löwy, paragonandolo a un «insetto ripugnante.» Che sia questa l'origine di tutti gli insetti di Kafka e di Schulz? Ma, allargando le ambiguità, si potrebbe fantasticare che, con le molteplici trasformazioni del padre in uccello e in bacherozzolo, lo scrittore polacco vendichi Gregorio Samsa.
Solo che in Schulz anche una vendetta non può essere che giocolerìa. Ma com'è dissimile la scrittura di Schulz dallo stile vitreo di Kafka, dalla sua casistica da talmudista, dalla sua avvocatura trascendentale. Il linguaggio schulziano, succoso, sfavillante, pròdigo di aggettivi ed incline all'ornamento, agli svolazzi, agli «esyfloresy» («entrelacs»), questa rigogliosa vegetazione verbale, deriva dalla Secesja, la sua pittoricità, il suo lirismo. Ciò che più stupisce nelle invenzioni dello scrittore galiziano è l'esuberanza infrenabile delle immagini. Grappoli, caracolli, cascate di comparazioni a disargine, un furore analogico. Lo stesso Schulz confessa: "Dipende da una caratteristica dalla mia esistenza che io parassiti nelle metafore, che mi lasci così facilmente trascinare dalla prima metafora che trovo.» Lo strabocchevole metaforismo dilata a proporzioni iperboliche le piccole epifanie di Drohobycz. Insoliti abbigli stellanti di paglie d'oro, di passamani, di crespe, di frange multicolori avviluppano la spenta Galizia. Schulz imbandisce festini barocchi. Un esempio: «I giorni erano fatti di pozzanghere e bagliori d'incendio, e nel palato avevano il gusto infuocato del pepe. Coltelli luccicanti ritagliavano la polpa mielata del giorno in fette argentate, in prismi che nel taglio mostravano colori e spezie piccanti.» Le meteore, la fauna, le piante subiscono la violenza di continue personificazioni. Ed è curioso: mentre Jakub almanacca di sostituire le creature vive con manichini ed autòmati, la natura agogna di prendere aspetti di uomini e di animali. Ecco perché le selvagge bardane sono agguagliate a sguaiate megere, e «le stoppie dorate stridono al sole come fulve cavallette» e «gusci pieni di semi scoppiano sommessamente come larve di cicale.» Ma in cambio, in questa frenetica circolazione del creato, ecco che i lampadari anneriscono come vecchi cardi e le nere carrozze sgangherate assomigliano a granchi e a storpi scarafaggi. La fantasia mena vampo: coi suoi paragoni Schulz darebbe dei punti all'acceso metaforismo dei poeti russi del Venti.
Leggendo «esantema oscuro delle aurore» o «muschio parassita dei crepuscoli» o «folta pelliccia delle lunghe notti invernali», vien fatto di ripensare a certe immagini spesse e corpose della prosa di Mande`l`stàm, come «sorrisi di ribes delle ballerine» o «forfora dorata della sabbia marina.» E' la metamorfosi dunque, la fermentazione incantata ed ironica insieme della materia, proclive ad usare «un'immensa quantità di maschere», insomma il trasformismo incessante la sostanza dell'arte schulziana. Questo linguaggio a faccette, di schegge d'arcobaleno, questo viluppo di nastri da prestigiatore, riesce maestrevolmente ad esprimere l'instabilità, la fluidezza del tempo, il mutar delle luci e del clima. Schulz spiega spesso le meraviglie e le metamorfosi con le aberrazioni del tempo meteorologico, con i capricci e gli assurdi delle stagioni. Non solo le tappezzerie, gli arabeschi, le stanze partecipano dei cambiamenti atmosferici, ma le vicende e le stesse figure e persino la topografia sono spesso generate dalle stagioni. Come sa rendere Schulz la sfatta pienezza, la libidinosa vitalità dell'estate, i suoi sfoggi e scialacqui, le allucinazioni, il delirio, lo scroscio di risa dell'afa. E con quanta vivezza e furia di colori sono da lui dipinti l'inverno, con le «nere foglie» delle cornacchie e coi fumaioli gonfiati dal vento, «nere canne di organi diabolici», e il borbottìo di radici della primavera, e il «grande teatro ambulante» dell'autunno, con panorami di cartone e grovigli di costumi e di quinte. La teatralità, il «bariolage», il carnevale delle stagioni schulziane, il diavolìo dei ritagli e brandelli di luce ricordano il pingue colorismo di scene, costumi e parrucche che inorpella le commedie di Witkiewicz, e tutto questo proviene dai fastosi e gemmati quadri della Secesja. Con virtuosistiche scale di metafore Schulz orchestra la fragorosa musica della tempesta notturna e, a contrasto, la sommessa acustica delle limpide notti, in cui il firmamento par frantumarsi in un «labirinto di cieli distinti.» Descrive gli sdoppiamenti, gli odori, la metafisica, persino la topografia della notte di luglio, il mese in cui è nato. La Galizia si allarga all'immenso universo, e le vie di Drohobycz per fatagione diventano scenario cosmico. Ma anche nell'astronomia Schulz immette il burlesco, una «drôlerie» da pittura domenicale, il suo chagallismo, il suo gusto della mascherata e del giuoco. Come può vedersi dalle apocalittiche pagine de La cometa, gran finale da opera buffa, in cui nella pista di un cielo stellato da libro di Flammarion egli fa correre ciclisti all'antica, coi mustacchi ritorti come rampini, così scalmanati e bislacchi, da disgradare Jarry.
Angelo Maria Ripellino. 1970.
LE BOTTEGHE COLOR CANNELLA. AGOSTO.
A luglio mio padre partiva per la cura delle acque e mi lasciava con mia madre e mio fratello maggiore in pasto alle giornate estive arroventate e abbacinanti. Inebriati di luce, sfogliavamo il gran libro delle vacanze, le cui pagine avvampavano tutte di sole e avevano nel fondo la polpa, dolce fino alla nausea, delle pere dorate. Adela tornava nei mattini luminosi, come Pomona dalle fiamme del giorno infuocato, e versava dal canestro le bellezze variopinte del sole: lucide ciliegie, gonfie d'acqua sotto la buccia trasparente, visciole nere, misteriose, il cui profumo prometteva assai più di quel che il gusto manteneva; albicocche, che celavano nella polpa dorata il succo di lunghi pomeriggi; e accanto a quella schietta poesia della frutta, Adela scaricava ancora quarti di carne, turgidi di forza e di sostanza, con la tastiera delle cotolette di vitello, e verdure algiformi, simili a meduse o cefalopodi uccisi. E' materiale crudo del pranzo, dal sapore ancora indefinito e sterile, ingredienti vegetali e tellurici dal profumo selvatico e campestre. Ogni giorno la grande estate trapassava da parte a parte il buio appartamento al primo piano dell'edificio che dava sulla piazza del mercato: silenzio di sprazzi d'aria tremolanti, rettangoli di luce immersi in un loro sogno rovente sul pavimento; una melodia d'organo di Barberia strappata alla più profonda vena dorata del giorno; due, tre battute di un ritornello, suonato chissà dove su un pianoforte, sempre ripetute, svanenti nel sole sui marciapiedi bianchi, perdute nel fuoco delle profondità del giorno. Finite le pulizie, Adela faceva ombra nelle stanze abbassando le tende di tela. I colori calavano allora di un'ottava, la stanza si riempiva d'ombra, quasi fosse immersa nella luce di profondità marine, riflessa ancor più nebulosamente negli specchi verdi, e tutto l'ardore del giorno respirava sulle tende, appena ondeggianti nei sogni dell'ora meridiana. Il sabato pomeriggio uscivo a passeggio con mia madre. Dalla penombra dell'atrio si accedeva di colpo al bagno solare del giorno. I passanti, brancolando in quell'oro, dal bagliore tenevano gli occhi semichiusi, come impastati di miele, mentre il labbro superiore, sollevato, scopriva le gengive e i denti. E tutti coloro che brancolavano in quel giorno dorato portavano sul viso la stessa smorfia di calura, quasi che il sole avesse imposto ai suoi adepti un'unica e identica maschera, la maschera dorata della fraternità solare; e tutti coloro che in quel giorno camminavano per le strade, che si incontravano, si incrociavano, giovani e vecchi, donne e bambini, si salutavano al passaggio con quella stessa maschera d'oro dipinta sul volto, barbarica maschera di un culto pagano. La piazza del mercato era vuota, gialla di fuoco, spazzata da calde ventate come un deserto biblico. Acacie spinose, cresciute nel vuoto di quella piazza gialla, scrollavano il loro fogliame chiaro, mazzi di filigrane verdi artisticamente aggruppate come gli alberi sui vecchi gobelin. Sembrava che quegli alberi simulassero una tempesta e agitassero teatralmente le loro chiome per mostrare in quel patetico incurvarsi la raffinatezza dei ventagli di foglie dal rovescio argentato, come pellicce di volpi preziose. Le vecchie case, smerigliate da giorni e giorni di vento, scherzavano coi riflessi dell'atmosfera, con gli echi, i ricordi delle tinte, dispersi nelle profondità del tempo colorato. Pareva che intere generazioni di giornate estive (come pazienti stuccatori che grattano dalle vecchie facciate l'intonaco ammuffito) avessero infranto la vernice menzognera per mettere a nudo ogni giorno di più il vero aspetto delle case, la fisionomia che il destino e la vita avevano loro formato dall'interno. Adesso le finestre, accecate dal bagliore della piazza vuota, dormivano; i balconi confessavano al cielo il loro deserto; gli androni aperti odoravano di fresco e di vino. Un gruppetto cencioso di ragazzini, scampato in un angolo della piazza davanti alla sferza del sole, assediava un pezzo di muro, provandolo e riprovandolo a colpi di bottoni e di monete, come se dall'oroscopo di quei dischetti metallici si fosse potuto decifrare il vero segreto del muro, tutto un geroglifico di segni e di crepe. Per il resto la piazza era vuota. Ci si aspettava da un momento all'altro che di fronte all'androne ingombro di barili del vinaio si avanzasse, all'ombra delle acacie ondeggianti, l'asino del buon Samaritano, tenuto per il morso, e che due servitori si affrettassero a far scendere da un lato dalla sella surriscaldata, per trasportarlo con ogni precauzione su per le scale fresche fino all'ammezzato odoroso di shabbat. Così ci aggiravamo mia madre ed io lungo i due lati assolati della piazza, trascinando le nostre ombre disgiunte di casa in casa, come su una tastiera. I riquadri del lastrico sfilavano lentamente sotto i nostri passi fiacchi e strascicati, gli uni d'un rosa chiaro, simili a pelle umana, gli altri dorati o bluastri, tutti caldi, piatti, vellutati al sole, come volti solari, calpestati dai passi al punto d'essere ormai irriconoscibili, ridotti a beata nullità. Finché all'angolo con la via Stryjska entravamo nell'ombra della farmacia. La grossa ampolla piena di sciroppo di lampone stava nell'ampia vetrina a simboleggiare il fresco balsamo capace di alleviare ogni sofferenza. Qualche casa ancora e la strada non riusciva più a mantenere il decoro della città, come il contadino che torna alla natia campagna, e strada facendo si spoglia delle eleganze cittadine per trasformarsi lentamente, man mano che si avvicina ai campi, in un cencioso bifolco. Le casette del sobborgo sprofondavano fin sopra le finestre, sepolte sotto l'esuberante e intricata fioritura dei giardinetti. Dimenticati dal gran giorno, erbe, fiori, gramigne si riproducevano esuberanti e silenziosi, lieti di quella pausa che potevano trascorrere al margine del tempo, ai limiti del giorno infinito. Un immenso girasole, issato sullo stelo potente e malato di elefantiasi, aspettava nel suo lutto giallo gli ultimi tristi giorni della propria vita, incurvandosi sotto l'ipertrofia della sua mostruosa corpulenza. Ma le ingenue campanule di periferia e i semplici fiorellini di percalle rimanevano impotenti nelle loro rigide camicine bianche e rosa, incapaci di comprendere l'immane tragedia del girasole. Il folto groviglio d'erbe, gramigne e cardi brucia crepitando al fuoco del pomeriggio. Vibra del ronzio delle mosche la siesta pomeridiana. Le stoppie dorate stridono al sole come fulve cavallette; nella pioggia crosciante del fuoco strillano i grilli; i gusci pieni di semi scoppiano sommessamente come larve di cicale. Presso la siepe, la coltre d'erba si gonfia in dossi gibbosi, come se il giardino si fosse girato nel sonno e le sue robuste spalle di contadino respirassero il silenzio della terra.
Là, sopra quelle spalle, l'esuberanza dell'agosto, immonda esuberanza di femmina, esplodeva in sordi fossati di bardane giganti, ostentava distese d'immense foglie pelose, lingue lussureggianti di vegetazioni carnose. Là i fusti sgranati delle bardane si aprivano come megere sguaiatamente accovacciate e semidivorate dalle loro stesse vesti sconvolte. Là il giardino dava via per niente la granaglia più scadente del sambuco, il semolino grosso del miglio, maleodorante di sapone, l'alcool selvatico della menta e tutta la peggiore paccottiglia d'agosto. Ma dall'altra parte della siepe, oltre quella matrice dell'estate in cui si era sviluppata a dismisura la follia di quelle erbacce impazzite, c'era un mucchio di spazzature selvaticamente invaso dai cardi. Nessuno sapeva che quell'estate l'agosto celebrava proprio là la sua grande orgia pagana. Su quell'immondezzaio, addossato alla siepe e coperto di sambuco, c'era il letto di una ragazza idiota, Tluja. Così la chiamavano tutti. Sopra quel cumulo di spazzature e di rifiuti, di vecchi cocci, di ciabatte, detriti e rottami, giaceva un letto dipinto di verde che poggiava, al posto di un piede mancante, su due vecchi mattoni. Al di sopra di quei detriti, l'aria, abbrutita dalla gran calura, solcata dai guizzi di tafani luccicanti irritati dal sole, scricchiolava come per invisibili crepitacoli, eccitando alla follia.
Tluja se ne sta accucciata fra lenzuola gialle e stracci. Sulla sua grossa testa si drizza un fastello di capelli neri. Il volto si contrae convulsamente come il soffietto di una fisarmonica. Ad ogni istante una smorfia di pianto piega quella fisarmonica in migliaia di rughe, poi lo stupore la distende di nuovo, fa scomparire le rughe, scopre le gengive umide e i denti gialli sotto il labbro carnoso a forma di grugno.
Trascorrono ore di calura e di noia durante le quali Tluja parlotta a bassa voce, sonnecchia, grugnisce piano, tossicchia. Le mosche coprono in fitto sciame il suo corpo immobile. Ma a un tratto quel mucchio di cenci sporchi, di stracci, di brindelli comincia a muoversi, come risvegliato da un tramestio di topi sprigionati là dentro. Le mosche spaventate si destano e si levano in vasto sciame rombante, denso di furiosi ronzii, di guizzi, di sfavillii. E mentre gli stracci ricadono a terra e si sparpagliano sulla spazzatura come topi in fuga, da quelli si libera, si districa a poco a poco il nocciolo, scaturisce la radice stessa dell'immondezzaio: seminuda e nera, l'idiota si alza lentamente e resta, simile a una divinità pagana, sulle corte gambette infantili, mentre dal collo gonfio per l'ira e dal volto arrossato, fosco di collera, sul quale, come pitture barbariche, fioriscono gli arabeschi delle vene ingrossate, si sprigiona un grido animalesco, un grido roco, come strappato ai bronchi, a tutte le canne di quel torso mezzo animalesco e mezzo divino. Bruciati dal sole, stridono i cardi, si gonfiano le bardane ostentando la loro carne impudica, le erbe sputano luccicanti veleni, mentre l'idiota, arrochita dal grido, in preda a selvagge convulsioni, strofina con foga iraconda il fianco carnoso contro il tronco del sambuco, che scricchiola adagio sotto l'imperversare di quella sfrenata sensualità, eccitato da tutto quel miserabile coro a una snaturata, pagana fecondità. La madre di Tluja va a servizio, a lavare i pavimenti. è una donna piccola, gialla come lo zafferano; ed ugualmente di zafferano essa vernicia i pavimenti, i banchi e le spalliere d'abete che lustra e rilustra nelle casupole della povera gente. Una volta Adela mi portò in casa di Maryska. Era mattina presto, entrammo in una stanzetta intonacata d'azzurro, col pavimento di terra battuta su cui cadeva il primo sole, d'un giallo acceso in quel silenzio mattutino misurato dal ticchettio stridente della pendola paesana appesa alla parete. In una cassa, sulla paglia, giaceva Maryska la demente, bianca come un'ostia e silenziosa come un guanto da cui sia stata sfilata la mano. E come profittando del suo sonno, parlava attorno il silenzio, un silenzio giallo, sguaiato, cattivo, discorreva, si arrabbiava, ripeteva a voce alta e volgare il suo soliloquio di maniaco.
Il tempo di Maryska, il tempo imprigionato nel suo animo, era sgusciato fuori di lei, orribilmente reale, e vagava solitario per la stanza gridando schiamazzante, infernale, riversandosi nel chiassoso silenzio mattutino dal sonoro orologio a mulino come la farina cattiva, la farina friabile, la stupida farina degli scempi. In una di quelle casette, circondata da uno steccato bruno, sepolta nella vegetazione rigogliosa del giardinetto, abitava zia Agata. Per entrare da lei, nell'attraversare il giardino si passava accanto a una serie di palle di vetro colorato, attaccate al loro stelo, rosa, verdi, violette, evocatrici di interi mondi luminosi e chiari, come quelle immagini ideali e felici racchiuse nell'inaccessibile perfezione delle bolle di sapone. Nella penombra del vestibolo, tappezzato di litografie a colori ròse dalla muffa e sbiadite dal tempo, ritrovavamo un odore ben noto. In quel vecchio odore familiare erano condensati, in sintesi straordinariamente semplice, la vita di quella gente, l'essenza della loro razza, la qualità del sangue e il segreto del loro destino, invisibilmente racchiuso nello scorrere quotidiano del loro tempo tutto particolare. La vecchia, saggia porta, i cui lugubri sospiri accompagnavano l'entrare e l'uscire di quella gente, silenziosa testimone dell'andirivieni della madre, delle figlie e dei figli, si apriva adesso dinanzi a noi senza rumore, come lo sportello di un armadio, e noi penetravamo nella loro vita. Essi sedevano come all'ombra del loro destino, senza difendersi: fin dai primi gesti impacciati ci svelavano il loro segreto. Non eravamo noi forse, per sangue e per destino, a loro imparentati? La stanza era oscura e ovattata di velluti blu a disegni d'oro, ma l'eco del giorno infuocato, seppur filtrata dalla folta vegetazione del giardino, vibrava ugualmente in riflessi di rame sulle cornici dei quadri, sulle maniglie, sui listelli dorati. Da sotto la parete si alzò zia Agata, grande e prosperosa, la carne bianca e paffuta, picchiettata dalla ruggine delle lentiggini. Noi ci sedemmo al loro fianco, quasi al margine del loro destino, un po' confusi della passività con cui si abbandonavano a noi senza ritegno, e bevemmo acqua e sciroppo di rose, bevanda meravigliosa, che mi parve racchiudere l'essenza profonda di quel torrido sabato. Zia Agata si lagnava. Era quello il tono fondamentale della sua conversazione, la voce di quella carne bianca e feconda, che pareva straripare dal corpo stesso, a stento e sconnessamente raccolta nella massa, nei gangli di una forma individuale, e in quella massa già moltiplicata, pronta a ingrossarsi, a ramificarsi, e a riprodursi in famiglia. Era, la sua, una fecondità quasi autogenetica, una femminilità priva di freni e morbosamente rigogliosa. Pareva che il solo aroma della mascolinità, l'odore del tabacco o una facezia grossolana sarebbero bastati per eccitare quella femminilità a una sfrenata partenogenesi. E in realtà tutte le sue lamentele sul marito, sulla servitù, le sue preoccupazioni per i figli, altro non erano che capricci e bronci di una fecondità insoddisfatta, prolungamento di quella civetteria angolosa, irritabile e lacrimosa con cui essa invano metteva alla prova il marito. Zio Marek, piccolo, incurvito, dal volto perfettamente asessuato, sedeva nel suo grigio fallimento, riconciliato col destino, all'ombra dell'infinito disprezzo in cui pareva adagiarsi. Nei suoi occhi grigi covava la brace lontana del giardino, diffusa nella finestra. Di tanto in tanto egli tentava con gesto debole di schermirsi, di opporre resistenza, ma un'ondata di autosufficiente femminilità respingeva quel gesto insignificante e trionfalmente proseguiva oltre, sommergendo nei suoi flutti impetuosi gli ultimi fievoli sussulti della virilità. C'era qualcosa di tragico in quella fecondità impudica e smisurata, c'era la miseria di una creatura che lottava ai limiti del nulla e della morte, c'era una sorta d'eroismo della femmina trionfante, per fecondità, perfino su una mutilazione della natura, sull'insufficienza del maschio. Ma la progenie era là per render ragione di quel panico materno, di quel furore di procreare che si esauriva in frutti mal riusciti, in un'effimera generazione di fantasmi senza sangue né volto. Entrò Lucja, la secondogenita, con la sua testa troppo grossa e precoce sul corpo infantile e grassoccio dalla carne bianca e delicata. Mi tese una mano di bambola, come appena allora germogliante, e subito il viso le si imporporò, come una peonia traboccante nel suo roseo splendore. Infelice per quei rossori che tradivano, impudichi, il segreto delle sue mestruazioni, socchiudeva gli occhi e si infiammava ancor più a ogni domanda, anche la più indifferente, giacché ognuna celava una pur minima allusione alla sua ultrasensibile verginità. Emil, il maggiore dei cugini, con un paio di baffetti biondissimi sul volto che la vita pareva aver slavato d'ogni espressione, camminava avanti e indietro per la stanza, le mani nelle tasche dei calzoni spiegazzati. Il suo abito elegante e costoso portava l'impronta dei paesi stranieri dai quali era tornato. Il volto flaccido, opaco pareva di giorno in giorno sempre più dimenticarsi, presentarsi come una bianca parete vuota, segnata da una pallida rete di vene in cui si confondevano, simili a linee sopra una massa sbiadita, i ricordi semispenti di una vita burrascosa e dissipata. Era un maestro nel gioco delle carte, fumava lunghe, distintissime pipe e odorava curiosamente di profumi esotici. Vagando con lo sguardo attraverso ricordi lontani, raccontava strani aneddoti che a un certo punto si interrompevano bruscamente, si disperdevano, si dissolvevano nel nulla. Lo seguivo con l'occhio languido, speranzoso che mi rivolgesse l'attenzione e mi liberasse da quella noia opprimente. E infatti mi parve che, uscendo dalla stanza, mi facesse un segno di intesa. Lo seguii. Era seduto su una causeuse bassa, le ginocchia incrociate quasi a ll'altezza della testa liscia come una palla da biliardo. Sembrava soltanto un vestito spiegazzato, gualcito, gettato di traverso sul sedile. Il suo viso non era che la parvenza di un viso, un solco che un ignoto passante avesse tracciato nell'aria. Nelle mani pallide, smaltate d'azzurro, teneva un portafoglio e vi frugava dentro. Dalla nebbia del suo volto emerse a fatica la pupilla convessa di un occhio pallido, che mi allettava con ammiccare malizioso. Provai per lui un'irresistibile simpatia. Mi prese fra le ginocchia, e scartandomi ad una ad una dinanzi agli occhi con le sue mani esperte una serie di fotografie, mi mostrò immagini di donne e uomini nudi in strane posizioni. Io stavo con la schiena appoggiata contro di lui e guardavo quei corpi delicati con occhi lontani che non vedevano, quando a un tratto il fluido di un oscuro turbamento, che aveva improvvisamente offuscato l'aria, mi raggiunse e mi percorse con un fremito di inquietudine, un'ondata di subitanea consapevolezza. Ma intanto quell'ombra di sorriso apparsa sotto i suoi morbidi baffetti, quell'embrione di desiderio manifestatosi nel pulsare di una vena sulla fronte, la tensione che per un attimo aveva dato una forma ai suoi tratti, tutto ricadde nel nulla, e il volto tornò alla sua assenza, si dimenticò di sé, svanì nuovamente.
LA VISITAZIONE.
A quel tempo l a nostra città già stava precipitando nel grigiore cronico del crepuscolo, già si copriva ai margini di un'eruzione d'ombra, muffa pelosa e muschio color ferro. Liberatosi a fatica dai fumi e dalle nebbie brune del mattino, il giorno inclinava subito a un tardo pomeriggio ambrato, diveniva per un attimo trasparente e dorato, come la birra scura, per discendere infine sotto le volte sfaccettate e fantastiche delle vaste notti colorate. Abitavamo nella piazza del mercato, in una di quelle case scure dalle facciate vuote e cieche, così difficili da distinguere l'una dall'altra. Ciò era motivo di continui errori. Giacché una volta entrati in un portone sbagliato, su per una scala sbagliata, si penetrava generalmente in un vero e proprio labirinto di appartamenti sconosciuti, di ballatoi, di uscite impreviste su cortili ignoti, e si dimenticava così lo scopo originario della spedizione, finché, dopo molti giorni, reduci da deviazioni strane e tortuose avventure, allo spuntare di un'alba grigia ci si ricordava fra rimorsi di coscienza della scala paterna. Pieno di grandi armadi, di profondi canapè, di specchi sbiaditi e palme artificiali, scadenti, il nostro appartamento cadeva lentamente in rovina per l'indolenza di mia madre, che trascorreva le giornate in negozio, e per l'incuria di Adela dalle gambe snelle, che, priva di qualsiasi sorveglianza, trascorreva il suo tempo davanti allo specchio in interminabili toilette, di cui lasciava dappertutto tracce, sotto forma di ciocche di capelli, di pantofole e corsetti abbandonati. Non c'era in quell'appartamento un numero ben definito di stanze: non ci si ricordava infatti quante di esse fossero affittate ad estranei.
Talvolta capitava di aprire una di quelle camere dimenticate e la si trovava vuota; l'inquilino aveva traslocato da tempo, e nei cassetti chiusi da mesi si facevano allora sorprendenti scoperte. Nelle camere in basso abitavano i commessi, e talvolta di notte ci svegliavano i loro gemiti lanciati nel sonno sotto l'effetto di incubi. D'inverno, faceva ancora notte fonda quando mio padre scendeva in quelle stanze fredde e buie, fugando dinanzi a sé con la candela greggi d'ombre che rifuggivano ai lati, lungo il pavimento e le pareti; andava a svegliare i ronfatori dal loro sonno pesante come pietra. Al lume della candela che mio padre lasciava loro, i commessi si dipanavano lentamente dalle lenzuola sporche, ne estraevano, seduti sul letto, le gambe nude e brutte, e con un calzino in mano si concedevano ancora per un attimo la voluttà di uno sbadiglio uno sbadiglio prolungato fino alla lussuria, fino alla contrazione dolorosa del palato, come nel vomito violento.
Negli angoli stavano immobili grossi scarafaggi, ingigantiti dall'ombra che la candela accesa imponeva loro e che da loro non si separava neppure quando uno di quei tronchi piatti e acefali si metteva improvvisamente a correre con bizzarra andatura da ragno. A quell'epoca la salute di mio padre cominciò a declinare. Già nelle prime settimane di quell'inverno precoce, gli capitò di passare intere giornate a letto, circondato da flaconi, pillole e libri di conti che gli portavano dal negozio. L'odore amaro della malattia si depositava sul fondo della stanza, le cui tappezzerie si addensavano in un sempre più oscuro groviglio di arabeschi. A sera, quando mia madre tornava dal negozio, era spesso eccitato e incline alle discussioni; le rimproverava l'imprecisione nel tenere i conti, diventava tutto rosso e si riscaldava fino a uscire di sé. Ricordo che una volta, svegliatomi in piena notte, lo vidi correre in camicia e scalzo da un capo all'altro del canapè di pelle, e manifestare in quel modo la propria irritazione di fronte a mia madre sbigottita. In altri giorni restava calmo e composto, e si immergeva completamente nei suoi libri, tutto sperso nei labirinti di calcoli complicati. Lo rivedo alla luce della lampada fumosa, accovacciato fra i cuscini, sotto la grande testata scolpita del letto, l'ombra immensa del capo proiettata contro la parete oscillante in silenziosa meditazione. A volte riemergeva con la testa da quei conti, come per riprender fiato, apriva la bocca, schioccava con disgusto la lingua secca e amara, e si guardava attorno smarrito, come se cercasse qualcosa. Accadeva allora che uscisse furtivamente dal letto e corresse in un angolo della stanza, fin sotto la parete alla quale era appeso un suo fido strumento. Era questo una specie di clessidra a acqua o di grande ampolla di vetro, divisa in once e piena di liquido oscuro. Mio padre si collegava a quello strumento per mezzo di un lungo tubo di gomma, quasi fosse un tortuoso, doloroso cordone ombelicale, e così unito a quel lugubre attrezzo si immobilizzava in raccoglimento, gli occhi gli si scurivano, mentre sul volto sbiancato gli appariva un'espressione di sofferente o forse di colpevole voluttà. Poi, di nuovo, tornavano giorni di lavoro silenzioso e raccolto, inframmezzato da monologhi solitari. Quando sedeva così, alla luce della lampada da tavolo, fra i cuscini dell'ampio letto, e la stanza si slargava lassù, nell'ombra del paralume che la fondeva con la vasta notte cittadina fuori della finestra, egli sentiva, senza guardare, che lo spazio lo avviluppava di una moltitudine palpitante di tappezzerie, piena di bisbigli, di sibili, di brusii. Udiva, senza guardare, quella congiura fatta di ammiccanti occhiatine d'intesa, di padiglioni auricolari che ascoltavano, di bocche oscure che sorridevano, disseminati tra i fiori della tappezzeria. Allora fingeva di tuffarsi ancora di più nel lavoro, contava e sommava, temendo di tradire quella collera che cresceva in lui, e lottando contro la tentazione di lanciarsi all'indietro alla cieca, con un urlo improvviso, e di afferrare intere manciate di quegli arabeschi riccioluti, di quei fasci d'occhi e d'orecchie, che la notte faceva pullulare e crescevano e si moltiplicavano fantasticamente, germogliando sempre nuovi polloni e rami dal materno ombelico delle tenebre. E si calmava solo quando, col rifluire della notte, le tappezzerie appassivano, si accartocciavano, perdevano le foglie e i fiori, si diradavano come in autunno, lasciando scorgere il lontano albeggiare. Allora, fra il cinguettio degli uccelli di carta, nella gialla aurora invernale, si addormentava per qualche ora di un sonno denso e nero. Da giorni, da settimane, mentre pareva immerso in complicati conti correnti, il suo pensiero si addentrava segretamente nel labirinto delle proprie viscere. Tratteneva il respiro e tendeva l'orecchio. E quando il suo sguardo tornava sbiancato e torbido da quelle profondità, lo rassicurava con un sorriso. Egli non credeva ancora e respingeva come assurdità quelle supposizioni, quelle proposte che lo assalivano. Di giorno erano come ragionamenti e discorsi suasivi, lunghe, monotone considerazioni a mezza voce, piene di interludi umoristici, di punzecchiature maliziose. Ma di notte quelle voci si levavano più insistenti. L'esigenza si faceva sempre più chiara e consistente e lo udivamo conversare con Dio, supplicando, sembrava, scongiurando un qualcosa che lo assillava di richieste e di pretese.
Finché una notte quella voce si levò minacciosa, inoppugnabile, esigendo che egli se ne facesse testimone per mezzo della propria bocca e dei propri visceri. E noi udimmo lo spirito entrare in lui, e lui alzarsi dal letto, alto e ancor più ingrandito dalla collera di profeta, e strozzarsi nello scroscio di parole che eruttava dalla bocca, come da una mitragliatrice. Udimmo il fragore della lotta e il lamento di mio padre, il lamento di un titano dal fianco squarciato che ancora ingiuria. Non ho mai veduto i profeti del Vecchi o Testamento, ma alla vista di quell'uomo prostrato dalla collera divina, ampiamente divaricato sopra un enorme orinale di porcellana, nascosto dietro l'infuriare delle spalle, dietro una cortina di disperati contorcimenti, sui quali ancor più alta si levava la sua voce estranea e dura, compresi la collera divina di quei santi uomini. Era un dialogo minaccioso come il linguaggio delle folgori. Il gesticolare delle sue braccia dilaniava il cielo, e nelle fenditure appariva il volto di Geova, gonfio di collera e vomitante maledizioni. Senza guardare lo vedevo, il terribile Demiurgo, disteso nelle tenebre come sul Sinai, le mani potenti appoggiate alla cornice delle tende, il viso enorme incollato ai vetri più alti della finestra, sui quali si appiattiva il naso mostruosamente carnoso. Udii la sua voce nelle pause della tirata profetica di mio padre, udii il potente borbottio di quelle labbra rigonfi e, che faceva tremare i vetri, frammisto agli scoppi di ingiurie, lamenti e minacce di mio padre. Di tanto in tanto le voci si attutivano e mormoravano sommesse come il chiacchiericcio del vento di notte nel camino, poi di nuovo scoppiavano in un fragoroso tumulto, in una tempesta di singhiozzi confusi e di maledizioni. A un tratto la finestra si aprì in una nera voragine, e una fascia di tenebre irruppe nella stanza. Alla luce di un lampo, vidi mio padre in camicia svolazzante che lanciava, bestemmiando orribilmente e con un gesto potente, il contenuto del vaso da notte fuori della finestra, nella notte frusciante come una conchiglia. Mio padre deperiva lentamente, appassì a vista d'occhio. Rannicchiato fra enormi cuscini, il capo selvaggiamente irto di ciocche di capelli grigi, parlava fra sé a mezza voce, tutto immerso nelle sue complicate faccende interiori. Poteva sembrare che la sua personalità si fosse scissa in numerosi io opposti e contrastanti: discuteva infatti con se stesso ad alta voce, negoziava senza tregua e con passione, ora tentando di persuadere, ora supplicando, e di nuovo pareva presiedere un'assemblea di molte parti interessate, che si sforzava di mettere d'accordo con gran dispendio di zelo e di loquela. Ma ogni volta queste rumorose adunanze, piene di focosi temperamenti, verso la fine si dissolvevano fra imprecazioni, maledizioni e ingiurie. Poi sopraggiunse un periodo di relativa distensione, di calma interiore, di beata serenità di spirito. Di nuovo i grandi libri di conti tornarono ad essere distesi sul letto, sul tavolo, sul caminetto, mentre un'operosa pace benedettina regnava, alla luce della lampada, sulla coperta bianca del letto, sulla grigia testa china di mio padre. Ma quando mia madre a tarda sera tornava dal negozio, mio padre si rianimava, la chiamava presso di sé, e le mostrava con fierezza le splendide decalcomanie colorate con cui aveva accuratamente adornato le pagine del libro mastro. Fu allora che tutti ci accorgemmo di come mio padre stesse rimpicciolendo di giorno in giorno, simile a una noce che si secchi dentro al guscio. Il deperimento non era però accompagnato da alcuna perdita di forze. Anzi, il suo stato di salute, l'umore, la vivacità parevano migliorare.
Spesso ora scoppiava in sonore e gorgheggianti risate, si torceva addirittura dal ridere, oppure bussava contro il letto e si rispondeva «avanti!» con varie intonazioni, per ore intere. Di tanto in tanto si calava dal letto, si arrampicava sull'armadio e, rannicchiato sotto il soffitto, si metteva a riordinare qualcosa fra vecchie cianfrusaglie piene di ruggine e polvere. Talvolta accostava una contro l'altra due sedie e reggendosi con le mani alle spalliere, si dondolava avanti e indietro con le gambe, mentre i suoi occhi fiammeggianti cercavano sui nostri volti un'espressione di ammirazione o di incoraggiamento. Con Dio pareva completamente riconciliato. A volte, di notte, alla finestra della camera da letto appariva il volto barbuto del Demiurgo, circonfuso di una fosca luce purpurea, da fuoco d'artificio, e si soffermava appena un attimo a guardare con occhio benigno il dormiente, il cui melodioso russare pareva errare lontano fra gli spazi ignoti dei mondi del sonno. Durante i lunghi, semibui pomeriggi in quel tardo inverno, mio padre, di tanto in tanto, scompariva per ore intere entro ripostigli stipati di cianfrusaglie, alla ricerca febbrile di qualcosa.
E spesso capitava che all'ora del pranzo, quando tutti sedevamo a tavola, mio padre non ci fosse. Mia madre allora doveva chiamare a lungo: «Jakub! Jakub!» e battere col cucchiaio sulla tavola, prima che egli uscisse fuori da qualche armadio, tutto coperto di ragnatele e di polvere, lo sguardo vacuo e immerso in questioni complicate e a lui solo note, che lo assorbivano completamente. Di tanto in tanto si arrampicava sulla cornice della finestra e assumeva una posizione immobile in perfetta simmetria con il grande avvoltoio impagliato che stava appeso alla parete di fronte. In quella posizione immobile e rannicchiata, con lo sguardo annebbiato e un malizioso sorriso sulle labbra, restava per ore e ore, finché a un tratto, all'apparire di qualcuno nella stanza, si metteva a sbattere le braccia quasi fossero ali e a cantare come un gallo. A poco a poco cessammo di prestare attenzione a quelle stranezze in cui si ingolfava sempre più, di giorno in giorno. Totalmente sbarazzatosi, pareva, dei bisogni corporali, senza toccare cibo per settimane, sprofondava ogni giorno di più in complicati e strani affari, che noi non riuscivamo a comprendere.
Inaccessibile alle nostre sollecitazioni e preghiere, rispondeva con frammenti di un suo monologo interno, il cui corso niente dall'esterno avrebbe potuto mutare. Perpetuamente indaffarato, morbosamente eccitato, le guance scarne chiazzate di rosso, non ci prestava attenzione né ascolto. Finimmo con l'abituarci alla sua presenza inoffensiva, al suo parlottare sommesso, a quel chiacchiericcio infantile assorto in sé, i cui trilli parevano in certo senso trascorrere al margine del nostro tempo. In quel periodo già capitava che sparisse di tanto in tanto per molti giorni, che si perdesse in qualche remoto ripostiglio dell'appartamento e non si riuscisse più a trovarlo. A poco a poco queste sparizioni cessarono di impressionarci, vi facemmo l'abitudine e quando, dopo molti giorni, riappariva di qualche pollice più piccolo e più magro, non vi prestavamo più molta attenzione. Cessammo, insomma, di tenerne conto, tanto si era allontanato da tutto ciò che era umano e reale. Nodo per nodo, si distaccava da noi, punto per punto perdeva i contatti che lo tenevano legato alla comunità umana. Quel che ancora restava di lui, quel poco di involucro corporeo e quel pugno di assurde stravaganze potevano sparire un bel giorno inosservati, come il grigio mucchietto di rifiuti ammassato in un angolo che Adela ogni giorno gettava nella spazzatura.
GLI UCCELLI.
Sopraggiunsero gialli, colmi di noia, i giorni invernali. La terra arrossata era coperta da una tovaglia di neve, bucherellata, lacera, troppo corta. Non ce n'era abbastanza per tutti quei tetti, ed essi sbucavano neri o color ruggine, coperture d'assi e arcate che celavano gli spazi fuligginosi dei solai, carbonizzate cattedrali, tutte una nervatura di capriate, putrelle e travi, neri polmoni delle bufere invernali. Ogni alba scopriva nuovi comignoli e fumaioli, spuntati durante la notte, gonfiati dal vento notturno, nere canne di organi diabolici. Gli spazzacamini non riuscivano a difendersi dalle cornacchie che, simili a nere foglie viventi, si posavano a sera sui rami degli alberi sotto la chiesa, per staccarsene ancora, sbattendo le ali, tornare poi ad aggrapparsi ognuna al proprio posto sul suo ramo, e volarsene via infine, a stormi, sul far del giorno, vortici di fuliggine, fiocchi di fumo denso, ondeggianti e fantastici, che macchiavano di un gracchiare incerto i raggi giallognoli dell'alba. Le giornate si indurivano di freddo e di noia, come tozzi di pane dell'anno passato. Si affettavano con coltelli non affilati, senza appetito, in uno stato di pigra sonnolenza. Mio padre non usciva più di casa. Badava alle stufe, studiava l'impenetrata essenza del fuoco, assaporava il gusto metallico e salato e l'odore affumicato delle fiamme invernali, la fredda carezza delle salamandre che lambivano la fuliggine rilucente nella gola del camino. Con amore si accingeva in quei giorni a compiere ogni sorta di riparazioni nelle regioni superiori della stanza. A tutte le ore del giorno lo si poteva vedere, appollaiato in cima alla scala, aggiustare qualcosa al soffitto, alle cornici delle alte finestre, ai pesi e alle catene delle lampade a sospensione. All'uso dei pittori si serviva della scala come di enormi trampoli e si sentiva a suo agio in quella prospettiva a volo di uccello, in vicinanza del cielo dipinto, degli arabeschi e degli uccelli del soffitto. Dalle questioni pratiche della vita si allontanava sempre più. Quando mia madre, preoccupata e inquieta per il suo stato, tentava di trascinarlo a parlare degli affari, dei pagamenti delle prossime scadenze, egli la stava ad ascoltare distrattamente, pieno di impazienza, il volto assente, contratto da tic. E capitava a volte che la interrompesse a un tratto con un gesto di scongiuro, per correre in un angolo della stanza, incollare l'orecchio a una fessura nel pavimento, e con l'indice di ambedue le mani alzato a significare la massima importanza della ricerca, restare così in ascolto. Noi allora non capivamo ancora il triste sottofondo di quelle stravaganze, di quel deplorevole complesso che maturava in profondità. Mia madre non aveva su di lui alcuna influenza. Per Adela, invece, egli nutriva grande rispetto e considerazione. Lo scopare la stanza era per lui una grande e importante cerimonia, alla quale non tralasciava mai di assistere, seguendo con un misto di paura e fremiti voluttuosi tutte le evoluzioni di Adela. A ogni sua operazione attribuiva un più profondo, simbolico significato. Quando la ragazza, con gesti giovanili e arditi, spingeva per il lungo manico lo spazzolone su e giù sul pavimento, ne era quasi sopraffatto. Lacrime gli scendevano allora dagli occhi, il volto si contraeva in un riso silenzioso, mentre il corpo era scosso dagli spasimi voluttuosi dell'orgasmo. Soffriva il solletico fino a rasentare la follia. Bastava che Adela agitasse un dito nella sua direzione, simulando di fargli il solletico, perché fuggisse in preda a panico selvaggio di stanza in stanza, sbattendosi dietro le porte, per andare infine a gettarsi, nell'ultima, bocconi sul letto e rotolarsi in un riso convulso provocato da quella stessa immagine interiore cui non poteva sottrarsi. In tal modo Adela esercitava su di lui un potere quasi illimitato. Fu a quel tempo che ci accorgemmo per la prima volta dell'appassionato interesse che mio padre nutriva per gli animali. All'inizio si trattava di una passione da cacciatore e da artista insieme; forse era anche una simpatia più profonda, zoologica, da parte di una creatura per forme di vita affini e pur così differenti, una sperimentazione sopra registri inesplorati dell'esistenza. Soltanto in una fase ulteriore la faccenda prese quella piega strana, complessa, profondamente peccaminosa e contro natura, che meglio sarebbe non esporre alla luce del giorno. Tutto cominciò quando fece covare uova d'uccello. Con grande spreco di fatica e soldi, mio padre si fece venire da Amburgo, dall'Olanda, dalle stazioni zoologiche dell'Africa uova fecondate di uccelli che dava via via a covare a enormi galline belghe. Ed era un processo quanto mai appassionante anche per me il venire alla luce di quegli uccellini, veri portenti per forma e per colore. In quei mostri dai becchi enormi, fantastici, che fin dalla nascita subito si spalancavano, sibilando ingordamente dal fondo della gola, in quelle salamandre dal corpo debole, nudo, gibboso, non si potevano certo riconoscere i futuri pavoni, fagiani, galli cedroni e condor. Sistemata in cestini fra l'ovatta, quella nidiata di dragoni sollevava sui colli sottili le teste cieche, dalle pupille velate di bianco, mentre dalle gole mute usciva un afono gracidio. Mio padre passava fra i ripiani in grembiale verde, come un giardiniere fra i cactus di una serra, e faceva scaturire dal nulla quelle vesciche cieche, palpitanti di vita, quei ventri impotenti che percepivano il mondo esterno solo sottoforma di cibo, quelle escrescenze della vita che a tastoni si facevano strada verso la luce. Qualche settimana più tardi, quando quei germogli di vita si schiusero alla luce del giorno, le stanze si riempirono del cicaleccio colorato, del guizzante cinguettio dei suoi nuovi abitanti. Questi si insediarono sulle cornici delle tende, in cima agli armadi, si annidarono nel folto dei rami metallici degli ampi lampadari a sospensione e degli arabeschi.
Quando mio padre si immergeva nello studio di grossi manuali di ornitologia e ne sfogliava le pagine colorate, pareva che proprio da esse prendessero il volo quei fantasmi pennuti e riempissero la stanza di uno svolazzio colorato, di lembi di porpora e brindelli di zaffiro, verde rame e argento. Al momento dei pasti essi formavano sul pavimento una falda colorata e ondeggiante, un tappeto vivente che ad ogni incauta intrusione si dileguava, si dissolveva in fiori mobili, svolazzanti nell'aria e si andava infine a posare nelle regioni superiori della stanza. Mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria un condor, un uccello immenso, dal collo nudo, dalla faccia rugosa e cosparsa di escrescenze. Era un asceta magro, uno di quei lama buddisti dall'atteggiamento pieno di imperturbabile dignità, che osservano il cerimoniale ferreo proprio della loro grande casta. Quando sedeva di fronte a mio padre, immobile nella posizione scultorea delle secolari divinità egizie, l'occhio coperto da un velo biancastro che spostava di lato fin sulla pupilla, per chiudersi completamente nella contemplazione della propria augusta solitudine, sembrava, col suo profilo di pietra, il fratello maggiore di mio padre. Uguale il tessuto del corpo, dei tendini e della pelle dura e rugosa, uguale il volto secco e ossuto, identiche le orbite profonde e corneiformi. Perfino le mani, le lunghe, magre, nodose mani di mio padre, dalle unghie ricurve, rassomigliavano agli artigli del condor. Vedendolo così addormentato, non potevo sfuggire all'impressione di trovarmi di fronte a una mummia, alla mummia rinsecchita, e perciò rimpicciolita, di mio padre. Credo che questa straordinaria rassomiglianza non fosse sfuggita neppure a mia madre, benché non abbiamo mai sollevato questo argomento. E' significativo che il condor e mio padre usassero in comune il vaso da notte. Non contento di far nascere sempre nuovi esemplari, mio padre organizzò in soffitta nozze di uccelli, inviando mezzani, legando nelle nicchie e nei buchi della soffitta attraenti e languide spose, e in tal modo ottenne che il tetto della nostra casa, un enorme tetto di assi a due spioventi, diventò un vero e proprio rifugio di uccelli, un'arca di Noè, cui giungevano da lontane regioni volatili d'ogni specie. Perfino molto tempo dopo l'eliminazione di quell'allevamento, questa tradizione della nostra casa si mantenne viva nel mondo dei pennuti e all'epoca delle migrazioni primaverili si abbattevano sul nostro tetto interi stormi di gru, pellicani, pavoni e ogni altra specie di uccelli. Quell'impresa, tuttavia, dopo un breve periodo di splendore, prese ben presto una triste piega. Si rivelò infatti necessario trasferire mio padre in due stanze sotto tetto che servivano di sbratto. Di là, fin dalle prime luci dell'alba, giungeva il clangore composito delle varie voci degli uccelli. Le gabbie di legno di quelle stanze in soffitta, favorite dalla risonanza degli spazi vuoti sotto il tetto, rimbombavano tutte di fremiti, di frulli, di canti, strida e tubanti gorgoglii. Fu così che perdemmo di vista mio padre per parecchie settimane. Soltanto di rado scendeva in casa, e ci potevamo accorgere allora che era come rimpicciolito, smagrito, accorciato. Talvolta, come dimentico di sé, balzava di scatto dalla sedia accanto al tavolo e si metteva a sbattere le braccia quasi fossero ali, emettendo un canto prolungato, mentre gli occhi gli si coprivano di un velo bianco. Più tardi, tutto vergognoso, rideva con noi e cercava di volgere in scherzo l'incidente. Una volta, durante le pulizie generali, Adela fece un'improvvisa irruzione nel regno alato di mio padre. Ritta sulla porta, essa si torse le mani dinanzi al fetore proveniente dalla stanza e ai cumuli di escrementi che coprivano il pavimento, i tavoli e i mobili. Senza esitare aprì la finestra, quindi con l'aiuto di una lunga scopa sollevò a turbine l'intiera massa degli uccelli. Subito si levò una nube infernale di penne, ali e strida, in mezzo alla quale Adela, simile a una Menade infuriante protetta dal mulinare del tirso, danzava una danza di distruzione. Assieme al branco degli uccelli mio padre tentava, in preda al panico, di sollevarsi in aria sbattendo le braccia. Poi, a poco a poco, la nube alata si diradò, finché sul campo di battaglia non rimasero che Adela, sfinita, ansimante, e mio padre con un'espressione afflitta e vergognosa, pronto ad accettare ogni capitolazione. Un istante più tardi mio padre scendeva gli scalini del suo dominio : uomo spezzato, re in esilio, che aveva perduto il trono e il regno.
I MANICHINI.
Quell'avventura di mio padre con gli uccelli fu l'ultima esplosione di colore, l'ultima e brillante contromarcia della fantasia che quell'incorreggibile improvvisatore, quel maestro schermitore dell'immaginazione condusse sui bastioni e le trincee di un inverno sterile e vuoto. Soltanto oggi comprendo il solitario eroismo con cui egli, da solo, mosse guerra all'elemento sconfinato della noia che soffocava la città. Senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento da parte nostra, quell'uomo straordinario difese la causa persa della poesia. Egli era come un mulino magico, nelle cui macine si riversava la crusca delle ore vuote, per riemergere dai suoi ingranaggi fiorita di tutti i colori e i profumi delle spezie d'Oriente. Ma abituati alle brillanti esibizioni di quel prestigiatore metafisico, noi tendevamo a misconoscere il valore della magia sovrana che ci salvava dal letargo di quei giorni e di quelle notti vuote. Adela non fu mai rimproverata per il suo vandalismo irriflessivo e ottuso. Al contrario, provavamo una sorta di basso compiacimento, di vergognosa soddisfazione a veder frenate quelle esuberanze che di nascosto gustavamo sommamente, per poi declinarne con perfidia ogni responsabilità. Ma forse, in quel tradimento, c'era anche un segreto ossequio nei confronti della vittoriosa Adela, alla quale attribuivamo vagamente una qualche missione e incombenza da parte di forze superiori. Tradito da tutti, mio padre abbandonò senza combattere i luoghi della sua gloria recente. Senza incrociare la spada, cedette in mano al nemico il regno del suo trascorso splendore. Esule volontario, si ritirò in una stanza vuota, in fondo al corridoio e vi si rintanò in solitudine. Ci dimenticammo di lui. Di nuovo, il funebre grigiore della città ci assediò da ogni parte, fiorendo alle finestre con l'esantema oscuro delle aurore, col muschio parassita dei crepuscoli che si espandeva fino a formare la folta pelliccia delle lunghe notti invernali. Le tappezzerie delle stanze, beatamente allentate per tutti quei giorni e aperte ai voli colorati di quella tribù alata, si richiudevano di nuovo, si riaddensavano, sprofondando nella monotonia di amari monologhi. I lampadari si annerivano e appassivano come vecchi cardi. Pendevano ora intristiti e sarcastici, facendo tintinnare adagio i pendagli di vetro non appena qualcuno si aggirava a tastoni nella penombra della stanza. Invano Adela disponeva su ogni braccio di quei lampadari candele colorate, inefficace surrogato, pallido ricordo delle splendide luminarie di cui fiorivano un tempo i loro giardini sospesi. Ahimè, dov'era quel germogliare cinguettante, quel rapido e fantastico fruttificare nei mazzi dei lampadari, dai quali, come da lievitanti torte incantate, prendevano il volo fantasmi alati, che solcavano l'aria in magici giochi di carte, disperdendole in applausi colorati, a loro volta riversantisi in fitte scaglie di color azzurro, verde pavone, verde pappagallo, di brillii metallici, disegnando nell'aria linee e arabeschi, tracce scintillanti di voli e giravolte, dispiegando ventagli colorati di svolazzi, che perduravano lungamente dopo il volo nell'atmosfera sontuosa e brillante?
Echi e possibilità di balenii colorati si celavano ancora nelle profondità dell'atmosfera ingrigita, ma nessuno fendeva col flauto, saggiava col trapano le intorbidate screziature dell'aria. Quelle settimane trascorsero sotto il segno di una strana sonnolenza. I letti, tutto il giorno disfatti, ingombri di lenzuola gualcite e avvoltolate da sonni pesanti, erano come barche profonde, pronte a salpare per i labirinti umidi e confusi di una nera Venezia senza stelle. Nel torpore dell'alba Adela ci portava il caffè. Ci vestivamo pigramente nelle camere fredde, alla luce di una candela più volte riflessa nei vetri neri delle finestre. Quei mattini erano pieni di un andirivieni disordinato, di prolisse ricerche nei vari armadi e cassetti. Per tutto l'appartamento si udiva il ciabattare di Adela. I commessi accendevano le lanterne, ricevevano dalle mani di mia madre le grosse chiavi del negozio e uscivano nella fitta e vorticosa oscurità. Mia madre non riusciva a venire a capo della sua toilette. Le candele si spegnevano nel candeliere. Adela scompariva chissà dove in stanze lontane o in soffitta, a stendere la biancheria. Non c'era verso che a chiamarla sentisse. Giovane ancora, incerto e sporco, il fuoco lambiva nel focolare le fredde, luccicanti escrescenze di fuliggine nella gola del camino. Spentasi la candela, la stanza piombava nell'oscurità. Con la testa sulla tovaglia, fra i resti della colazione, ci addormentavamo semivestiti. Giacendo così col viso sul ventre peloso dell'oscurità, navigavamo al ritmo del suo respiro ondeggiante in un nulla senza stelle. Ci svegliavano le rumorose pulizie di Adela. Mia madre non riusciva a concludere la sua toilette. Prima che avesse finito di pettinarsi, i commessi tornavano per il pranzo. La penombra della piazza prendeva un colore di fumo dorato. Per un attimo si poteva pensare che da quel miele fumoso, da quell'ambra opaca dovessero scaturire le tinte del più splendente pomeriggio. Ma l'istante felice passava, l'amalgama dell'alba appassiva, il turgido germe del giorno ormai quasi maturo ricadeva in un grigiore impotente. Ci sedevamo a tavola, i commessi si stropicciavano le mani rosse dal freddo ed ecco che la prosa dei loro discorsi introduceva di colpo il giorno fatto, un martedì grigio e vuoto, senza tradizioni né volto. Ma quando appariva in tavola il vassoio pieno di pesce in gelatina trasparente, due grossi pesci disposti l'uno accanto all'altro, testa contro coda, come nel segno dello Zodiaco, riconoscevamo in essi l'emblema di quel giorno, il simbolo calendarile di un anonimo martedì, e ce lo spartivamo in fretta, sollevati all'idea che il giorno vi avesse ritrovato la propria fisionomia. I commessi lo consumavano con compunzione, con una gravità da festa di precetto. Il profumo del pepe si diffondeva nella stanza. E
quando avevamo asciugato col pane gli ultimi avanzi di gelatina dal piatto, passando mentalmente in rivista l'araldica dei prossimi giorni della settimana, e nel vassoio non rimanevano che le teste con i loro occhi cotti, tutti allora sentivamo che quel giorno era ormai stato vinto dalle nostre forze congiunte e che ciò che ancora restava era ormai fuori causa. Con quei residui del giorno, infatti, lasciati in sua balia, Adela non faceva troppi complimenti. In mezzo a un gran fracasso di pentole e a getti d'acqua fredda, liquidava con energia quelle due o tre ore che in mancavano al crepuscolo, e che mia madre trascorreva a dormire sull'ottomana. Nella stanza da pranzo, nel frattempo, già si apprestava la scena della sera. Polda e Paulina, le due giovani sartine, vi si insediavano co i ferri del mestiere. Portata a braccia da loro, faceva il suo ingresso nella stanza una signora silenziosa e immobile, una dama di pezza e di stoppa, con una palla nera di legno al posto della testa. Ma pur abbandonata in un angolo, fra la porta e la stufa, quella tacita dama diventava padrona della situazione. Dal suo cantuccio, immobile, sorvegliava in silenzio il lavoro delle ragazze.
Con aria critica e sgarbata accoglieva le loro premure ed i corteggiamenti con cui le si inginocchiavano dinanzi, provando pezzi di vestito imbastiti di filo bianco. Attente e pazienti, esse servivano l'idolo silenzioso che niente riusciva a soddisfare. Quel Moloch era inesorabile, come soltanto le donne Moloch riescono ad esserlo, e le rimandava senza tregua al lavoro; e loro, affusolate e snelle come le spolette di legno da cui si dipanavano i fili, e come quelle sempre in movimento, maneggiavano con gesti agili il mucchio di seta e stoffa, ne ritagliavano a grandi sforbiciate la massa colorata, facevano ronzare le macchine, calpestando il pedale col piedino calzato di vernice a buon mercato; e tutt'attorno cresceva il mucchio dei ritagli, dei brandelli e degli stracci variopinti, come le bucce e i gusci risputati da due pappagalli difficili e spreconi. Le ganasce ricurve delle forbici stridevano nell'aprirsi come i becchi di quegli uccelli multicolori. Le ragazze calpestavano distratte gli avanzi variopinti, sguazzandovi incoscientemente come fra i rifiuti di un possibile carnevale, come nella stanza di sbratto di una grande mascherata irrealizzata. Si scuotevano di dosso quei brandelli con un riso nervoso, solleticavano con gli occhi gli specchi. I loro cuori, la rapida magia delle loro mani non erano negli uggiosi vestiti che restavano sul tavolo, ma in quelle centinaia di scarti, in quei trucioli frivoli e leggeri, di cui avrebbero potuto cospargere l'intera città come di una fantastica, multicolore nevicata. All'improvviso sentivano caldo e aprivano la finestra, per poter almeno, nell'impazienza della loro solitudine, nella loro avidità di volti nuovi, vedere un viso anonimo incollato alla finestra. Si sventolavano le guance accese di fronte alla notte invernale che si gonfiava nelle tende, scoprivano i brucianti décolletés, piene di odio e di rivalità l'una per l'altra, pronte a lottare per quel Pierrot che l'oscuro soffio della notte avesse deposto sulla finestra. Ah, quanto poco esigevano dalla realtà! Avevano tutto dentro di loro, avevano dentro una sovrabbondanza di tutto. Sarebbe bastato loro un Pierrot imbottito di segatura, una o due parole che attendevano da un pezzo, per poter entrare nella loro parte lungamente preparata, che da tempo si affollava sulle loro labbra, piena di un'amarezza dolce e terribile, travolgente come le pagine di un romanzo divorato di notte con le lacrime colanti sulle guance di fuoco. Durante una delle sue peregrinazioni serali per la casa, intraprese in assenza di Adela, mio padre si imbatté in quel silenzioso spettacolo vespertino.
Per un attimo rimase fermo sulla porta oscura della stanza accanto, la lampada in mano, incantato da quella scena piena di febbre e di rossori, da quell'idillio di cipria, velina colorata e atropina, cui era stato dato come sfondo pieno di significato la notte invernale alitante fra i gonfi tendaggi della finestra. Inforcando gli occhiali, si avvicinò di qualche passo e girò attorno alle ragazze, illuminandole con la lampada che teneva in mano. Una corrente d'aria dalla porta aperta sollevò le tende, le signorinette si lasciavano contemplare dondolandosi sui fianchi, facendo luccicare lo smalto degli occhi, la vernice delle scarpe scricchiolanti, le fibbie delle giarrettiere sotto le gonne gonfiate dal vento; gli stracci presero a correre sul pavimento, come topi, verso la porta socchiusa della stanza oscura, e intanto mio padre osservava attentamente quelle personcine frementi, mormorando sotto voce: Genus avium... se non erro, scansores o pistacci... interessanti, molto interessanti. Quell'incontro fortuito fu l'inizio di tutta una serie di sedute, durante le quali mio padre riuscì ben presto a incantare le due signorinette col fascino della sua straordinaria personalità. In cambio della conversazione galante e spiritosa con cui egli riempiva il vuoto delle loro serate, le ragazze permettevano a quel ricercatore appassionato di studiare la struttura dei loro corpi magri e ordinari. Ciò avveniva nel corso della conversazione, con una serietà e con un'eleganza che toglieva ai punti più scabrosi di quelle ricerche ogni aspetto equivoco. Sfilando la calza dal ginocchio di Paulina e studiando con occhio amoroso le scarne e nobili forme dell'articolazione, mio padre diceva: Com'è affascinante e felice la forma di essere che lor signore hanno scelto! Come è bella e semplice la tesi che è stata loro concesso di esprimere con la propria vita! E con quale maestria, quale finezza assolvono questo compito. Se, abbandonando ogni rispetto per il Creatore, volessi divertirmi a criticare la creazione, griderei: «Meno contenuto, più forma! Ah, quale sollievo sarebbe per il mondo questa diminuzione di contenuto! Un po' più di modesti a nelle intenzioni, un po' più di sobrietà nelle pretese, signori demiurghi, e il mondo sarebbe più perfetto!» Così gridava mio padre nel momento stesso in cui la sua mano liberava il polpaccio bianco di Paulina imprigionato dalla calza. In quel momento Adela apparve sulla porta aperta della stanza da pranzo recando il vassoio della merenda.
Era quello il primo incontro delle due potenze nemiche dal giorno della grande scenata. Noi tutti che assistevamo a quell'incontro vivemmo un momento di grande tensione. Eravamo estremamente seccati di dover far da testimoni a una nuova umiliazione di un uomo già così duramente provato.
Mio padre, che era inginocchiato, si alzò tutto confuso, e successive ondate di rossore gli imporporarono violentemente il viso per la vergogna. Ma Adela fu inaspettatamente all'altezza della situazione. Si avvicinò sorridendo a mio padre e gli dette un buffetto sul naso. A quel segnale, Polda e Paulina si misero ad applaudire gioiosamente, a battere i piedi e, attaccatesi una di qua una di là alle braccia di mio padre, presero a ballare con lui intorno al tavolo. Così, grazie al buon cuore delle ragazze, il germe di un amaro conflitto si dissolse nell'allegria generale. Questo fu l'inizio di una serie di curiosissime e stranissime conferenze che mio padre, ispirato dal fascino di quel piccolo e innocente uditorio, tenne nel corso delle successive settimane di quell'inverno precoce. Vale la pena notare come tutte le cose, a contatto con quell'uomo straordinario, risalissero in certo qual modo alla radice della loro esistenza, ricostruissero la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico, tornassero per così dire all'idea primigenia per distaccarsene poi a quel punto e volgere in quelle regioni dubbie, rischiose e ambigue che chiameremo qui, brevemente, regioni della grande eresia. Il nostro eresiarca si aggirava fra le cose come un magnetizzatore, contaminandole e incantandole col suo fascino pericoloso. Debbo forse chiamare Paulina la sua vittima? Essa divenne in quei giorni la sua allieva, l'adepta delle sue teorie, l'oggetto dei suoi esperimenti. Mi sforzerò qui di esporre, con tutte le dovute precauzioni, ed evitando ogni scandalo, la dottrina estremamente eretica che soggiogò allora per lunghi mesi mio padre e dominò tutto il suo agire.
TRATTATO DEI MANICHINI, OVVERO SECONDO LIBRO DELLA GENESI.
Il demiurgo, diceva mio padre, non ebbe il monopolio della creazione; la creazione è un privilegio di tutti gli spiriti. La materia è dotata di una fecondità senza fine, di un'inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare.
Nelle profondità della materia si delineano indistinti sorrisi, sorgono contrasti, si affollano abbozzi di forme. L'intera materia ondeggia di possibilità infinite che la percorrono con deboli fremiti. In attesa del soffio vivificatore dello spirito, essa fluttua in continuazione tentandoci con le mille curve dolci e molli che essa va farneticando nel suo cieco delirio. Priva di iniziativa propria, lascivamente arrendevole, malleabile come una donna, docile ad ogni impulso, essa costituisce un territorio fuori legge, aperto ad ogni genere di ciarlatanerie e dilettantismi, il regno di tutti gli abusi e di tutte le dubbie manipolazioni demiurgiche. La materia è l'entità più passiva e indifesa del cosmo. Ognuno può plasmarla, modellarla, a ognuno essa obbedisce. Tutte le organizzazioni della materia sono instabili e fragili, facili a regredire e a dissolversi. Non c'è alcun male a ridurre la vita ad altre e nuove forme. L'assassinio non è peccato.
Talvolta non è che una violenza necessaria nei confronti di forme refrattarie e cristallizzate dell'esistenza, che hanno cessato di essere interessanti. Ai fini di un esperimento curioso e importante può anche costituire un merito. Qui è il punto di partenza per una nuova apologia del sadismo. Mio padre non si stancava mai di glorificare quello straordinario elemento che è la materia. Non esiste la materia morta, insegnava, la morte è solo un'apparenza dietro cui si celano ignote forme di vita. La gamma di queste forme è infinita, i toni e le sfumature, inesauribili. Il Demiurgo era in possesso di importanti e curiose formule creative. Grazie ad esse, egli creò una moltitudine di specie capaci di rinnovarsi da sole. Si ignora se queste formule potranno mai essere ricostruite. Ma non è necessario, perché anche se quei metodi classici della creazione si dimostrassero una volta per tutte inaccessibili, resterebbero certi metodi illegali, tutta un'infinità di metodi eretici e criminali. Via via che mio padre da quei principî generali della cosmogonia si avvicinava al campo dei suoi più stretti interessi, la sua voce si abbassava fino a divenire un bisbiglio penetrante, la sua esposizione si faceva sempre più difficile e complicata, e le conclusioni cui giungeva si perdevano in regioni sempre più dubbie e rischiose. Il suo gesticolare acquistava una solennità esoterica. Socchiudeva un occhio, si portava due dita alla fronte, lo sguardo gli si faceva straordinariamente astuto. Egli penetrava con quella astuzia le sue interlocutrici, ne violava con il cinismo dello sguardo le riserve più pudiche, più intime, e mentre quelle si rintanavano nei più riposti recessi, le raggiungeva, le metteva al muro, le solleticava, le stuzzicava con dito ironico, fino a che non riusciva a suscitare una scintilla di comprensione e di riso, un riso di accordo e di complicità, di fronte al quale bisognava infine capitolare. Le ragazze sedevano immobili, la lampada filava, la stoffa da un pezzo era scivolata di sotto all'ago della macchina da cucire, e la macchina crepitava a vuoto, impunturando la stoffa nera e senza stelle che si dipanava dalla pezza della notte invernale fuori della finestra. Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto l'incubo dell'irraggiungibile perfezione del Demiurgo, diceva mio padre, troppo a lungo la perfezione della sua opera ha paralizzato il nostro slancio creativo. Non vogliamo competere con lui. Non abbiamo l'ambizione di eguagliarlo. Vogliamo essere creatori in una sfera nostra, inferiore, aspiriamo a una nostra creazione, aspiriamo alle delizie della creazione, aspiriamo, in una parola, alla demiurgia. Non so a nome di chi mio padre postulasse quelle rivendicazioni, quale associazione, quale corporazione, setta o ordine conferisse con la propria solidarietà pathos alle sue parole. Per parte nostra eravamo ben lontani da ogni tentativo demiurgico. Mio padre, tuttavia, aveva nel frattempo sviluppato il programma di quella seconda demiurgia, il quadro di quella seconda genesi di creature che doveva avvenire in aperta opposizione all'età dominante. Noi non teniamo, diceva, a opere di lungo respiro, a esseri fatti per vivere a lungo. Le nostre creature non saranno eroi di romanzi in più volumi. La loro parte sarà breve, lapidaria, i loro caratteri a una sola dimensione. Spesso, per un solo gesto, per una sola parola, ci prenderemo la briga di chiamarli alla vita un unico istante. Lo riconosciamo apertamente: non insisteremo né sulla durata, né sulla solidità dell'esecuzione, le nostre creazioni saranno quanto mai provvisorie, fatte per servire una volta soltanto. Se saranno esseri umani, daremo loro, per esempio, solo una metà del viso, una sola mano, una gamba, quella cioè di cui avranno bisogno nella loro parte. Sarebbe una pedanteria preoccuparsi della seconda gamba che non rientra nel giuoco. Dal di dietro potrebbero essere semplicemente cuciti con una tela, oppure imbiancati. Riporremo le nostre ambizioni in questo fiero motto: un attore per ogni gesto. Per ogni parola, per ogni azione, chiameremo alla vita un uomo diverso. Così piace a noi, e a piacer nostro sarà il mondo. Il Demiurgo si innamorò di materiali sperimentati, perfezionati e complessi; noi daremo la preferenza alla paccottiglia. E questo semplicemente perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale. Capite, domandava mio padre, il senso profondo di questa debolezza, di questa passione per le veline variopinte, per la cartapesta, per la vernice, la stoppa e la segatura? Questo, proseguiva con un sorriso doloroso, è il nostro amore per la materia come tale, per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita; Noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace vedere dietro ogni gesto, ogni movimento, il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua mite goffaggine da orso. Le ragazze sedevano immobili, gli occhi di vetro. I loro volti erano tirati e istupiditi dal lungo ascoltare, le guance chiazzate di rosso: sarebbe stato difficile in quel momento valutare se appartenevano alla prima o alla seconda genesi. In una parola, concludeva mio padre, noi vogliamo creare una seconda volta l'uomo, a immagine e somiglianza di un manichino. Dobbiamo qui, per fedeltà di cronaca, descrivere un piccolo e futile incidente che si produsse a quel punto della conferenza e al quale non attribuiamo alcuna importanza.
Questo incidente, totalmente incomprensibile e privo di senso in quella data successione di avvenimenti, può forse essere spiegato come una sorta di automatismo frammentario, senza antecedenti e senza conseguenze, come una specie di malizia dell'oggetto, trasferita in campo psichico. Consigliamo al lettore di ignorarlo, con la stessa nostra noncuranza. Ecco come si svolsero i fatti. Nell'attimo stesso in cui mio padre pronunziò la parola «manichino», Adela guardò il suo orologio da polso e scambiò un'occhiata d'intesa con Polda. Fece quindi, insieme con la sedia, un passo avanti, sollevò l'orlo della veste, ne estrasse lentamente un piede rivestito di seta nera e lo puntò come la testa di un serpente. In quella posizione rimase seduta durante tutta la scena, rigida, sbattendo gli occhi grandi e resi ancor più profondi dall'azzurro dell'atropina, con Polda e Paulina ai suoi fianchi. Tutte e tre guardavano mio padre a occhi sgranati. Mio padre tossì, tacque, si chinò avanti e si fece a un tratto tutto rosso. In un attimo i lineamenti del suo volto, fino allora tempestosi e vibranti, si chiusero in un'espressione di umiltà. Lui, l'eresiarca ispirato, appena sottrattosi alla tempesta dell'esaltazione, si ripiegò improvvisamente, si decompose, si accartocciò su se stesso. Ma forse lo si era scambiato con un altro. Quell'altro sedeva rigido, tutto rosso, a occhi bassi. La signorina Polda gli si avvicinò e si chinò su di lui. Battendogli un colpetto sulla spalla, disse con tono di gentile incoraggiamento: Jakub sarà ragionevole, Jakub ascolterà, Jakub non sarà ostinato. Su, da bravo... Jakub, Jakub... La scarpetta tesa di Adela tremò leggermente e brillò come la lingua di un serpente. Mio padre si alzò lentamente, sempre a occhi bassi, fece un passo avanti come un automa, e cadde in ginocchio. La lampada sibilava nel silenzio, nel folto delle tappezzerie correvano avanti e indietro sguardi eloquenti, volavano sussurri di lingue velenose, zigzag di pensieri... La sera dopo mio padre riprese con brio rinnovato il suo oscuro e complesso argomento. Il disegno delle rughe gli si era sviluppato e contorto con raffinata scaltrezza. In ogni piega si celava una frecciata ironica. Talvolta, tuttavia, l'ispirazione distendeva le curve delle sue rughe, che si ingrossavano in una sorta di immenso vorticoso orrore, fuggendo in volute silenziose nelle profondità della notte invernale. Figure da panottico, incominciò, caricature di manichini da presepe animato; ma perfino sotto questa veste guardatevi dal trattarle alla leggera. La materia non vuol saperne di scherzi. E' sempre piena di tragica serietà. Chi oserebbe pensare che si può giocare con la materia, che si può darle forma per scherzo, e che tale scherzo non penetra in essa, non vi si insinua immediatamente, come il destino, come una fatalità? Non immaginate il dolore, la sofferenza sorda, repressa, imprigionata nella materia di quel fantoccio che non sa chi è, né perché deve restare in quella forma imposta con la forza e che è soltanto una parodia? Non capite la potenza dell'espressione, della forma, dell'apparenza, il tirannico arbitrio con cui il dolore si avventa su di un tronco indifeso e se ne impadronisce, quasi ne fosse l'anima, tirannica e dispotica? Voi date a una qualsiasi testa di pezza e di stoppa un'espressione d'ira e la lasciate con quell'ira, con quello spasimo, con quella tensione una volta per sempre, chiusa in una collera cieca che non ha sfogo. La folla ride di questa parodia. Piangete, signore mie, sul vostro destino, a vedere la miseria della materia prigioniera, della materia oppressa, che non sa chi è, né perché, né a cosa mira quell'atteggiamento che le è s tato imposto una volta per sempre. La folla ride. Non capite lo spaventoso sadismo, la snervante crudeltà demiurgica di quel riso? Dovremmo in effetti piangere sul nostro destino, signore mie, alla vista di quella miseria della materia, della mate ria violentata, contro la quale è stata commessa una spaventosa illegalità. Di qui deriva, signore mie, la tristezza terribile di tutti i gole in buffoni, di tutti i fantocci tragicamente assorti nelle loro ridicole smorfie. Prendete l'anarchico Luccheni, l'uccisore dell'imperatrice Elisabetta; prendete Draga, diabolica e infelice regina di Serbia; prendete quel giovanetto geniale, orgoglio e speranza della stirpe, che la pratica funesta dell'onanismo ha perduto.
Oh, ironie di questi nomi, di queste apparenze! C'è davvero in questo fantoccio qualcosa della regina Draga, un suo sosia, un sia pur remotissimo riflesso della sua persona? La somiglianza, l'apparenza, il nome ci rassicurano e ci impediscono di domandare chi sia di per se stessa questa sfortunata creatura. Eppure deve ben essere qualcuno, signore mie, un qualcuno anonimo, minaccioso, infelice, un qualcuno che non ha mai sentito parlare nella sua cieca vita della regina Draga...
Avete mai udito di notte gli urli terribili di questi fantocci di cera, chiusi nei baracconi da fiera, il coro lamentoso di quei tronchi di legno di porcellana che tempestano di pugni le pareti delle loro prigioni? Sul volto di mio padre, sconvolto dall'orrore delle visioni che evocava dalle tenebre, si formò un vortice di rughe, un gorgo sempre più vasto in fondo al quale ardeva un occhio minaccioso di profeta. La barba gli si fece bizzarramente irta, i ciuffi e i pennacchi di peli che gli spuntavano dalle verruche, dai nei, dalle narici si drizzarono.
Rimase così, rigido, gli occhi fiammeggianti, fremente di agitazione interna, come un automa guastatosi e fermatosi a un punto morto. Adela si alzò dalla sedia e ci pregò di chiudere un occhio su quello che stava per accadere. Si avvicinò quindi a mio padre, e con le mani sui fianchi, assumendo una posa di ostentata risolutezza, chiese in modo chiaro e perentorio..... Le signorinette sedevano rigide, a occhi bassi, in uno strano torpore...
TRATTATO DEI MANICHINI: CONCLUSIONE.
Una delle sere seguenti mio padre continuò così la sua conferenza: Non è di questi equivoci incarnati, né di queste tristi parodie, frutto di intemperanza grossolana e volgare, che io volevo parlarvi, signore mie, quando annunciai il mio discorso sui manichini. Avevo in mente qualcosa di diverso. E qui mio padre cominciò a costruirci dinanzi agli occhi il quadro di quella generatio aequivoca che aveva immaginato. Una specie di generazione di esseri solo a metà organici, una sorta di pseudovegetazione e di pseudofauna, risultati di una fermentazione fantastica della materia. Erano creazioni apparentemente simili ad esseri viventi, a vertebrati, crostacei, artropodi, ma quell'apparenza ingannava. In realtà erano creature amorfe, senza struttura interna, prodotti delle tendenze imitatrici della materia, che, dotata di memoria, ripete per abitudine le forme una volta prese. La scala morfologica cui è soggetta la materia è generalmente limitata e una certa quantità di forme continua a ripetersi nei vari stadi dell'esistenza. Queste creature mobili, sensibili agli stimoli, e tuttavia lontane dalla vita reale potevano essere ottenute sospendendo certi complicati colloidi in soluzioni di sale da cucina. Questi colloidi dopo qualche giorno assumevano una forma, si organizzavano in condensazioni di una sostanza che ricordava le forme inferiori della fauna. Nelle creature nate in tal modo si potevano osservare il processo di respirazione e il metabolismo; ma un'analisi chimica non avrebbe mostrato traccia di sostanze albuminose e neppure di composti del carbonio. Tuttavia quelle forme primitive erano niente in confronto con la ricchezza di forme e con la magnificenza della pseudofauna e della pseudoflora che compaiono talvolta in certi ambienti strettamente delimitati: vecchi appartamenti, saturi delle emanazioni di molte esistenze e molti avvenimenti, atmosfere consunte, ricche di ingredienti specifici dei sogni umani, ruderi, traboccanti dell'humus dei ricordi, dei rimpianti, della noia sterile. In un simile terreno quella pseudovegetazione germogliava in fretta e superficialmente, parassitava rigogliosa ed effimera, faceva sbocciare generazioni fugaci che fiorivano improvvise e splendide per subito spegnersi e appassire. Le tappezzerie devono essere in quegli appartamenti ormai consunte e annoiate a furia di seguire senza tregua tutte le cadenze dei ritmi; niente di strano, quindi, se si lasciano fuorviare da sogni lontani e rischiosi. Il midollo dei mobili, la loro sostanza deve essere ormai allentata, degenerata, sensibile alle tentazioni colpevoli: su quel terreno malato, stanco e inselvatichito spunta allora simile a una bella eruzione, una coltre fantastica, una lanugine colorata ed esuberante.
Loro sanno, signore, diceva mio padre, che nei vecchi appartamenti esistono stanze di cui ci si dimentica. Trascurate per mesi, deperiscono in totale abbandono fra le vecchie mura, e accade che si richiudano in se stesse, si coprano di mattoni e, perdute ormai per sempre alla nostra memoria, smarriscano a poco a poco la propria esistenza. Le porte che vi conducono da un qualche pianerottolo delle scale di servizio, possono sfuggire per tanto tempo agli occhi degli inquilini da penetrare infine, entrare nella parete, che ne cancella ogni traccia nel disegno fantastico delle crepe e delle fessure. Una volta, diceva mio padre, di buon mattino, sul finire dell'inverno, dopo molti mesi di assenza, mi addentrai in uno di questi percorsi semidimenticati, e rimasi stupito dall'aspetto di quelle stanze. Da tutte le fessure del pavimento, da tutte le cornici e le nicchie spuntavano esili germogli e riempivano l'aria grigia di un merletto scintillante di fogliame filigranato, di una folta massa traforata, quasi fosse una serra piena di sussurri, di luccichii, di ondeggiamenti, una sorta di falsa e soave primavera.
Intorno al letto, sotto il lampadario, lungo gli armadi, fluttuavano ciuffi d'alberi delicati che sbocciavano in alto in corolle luminose, in fontane di fogliame trinato e si spingevano fin verso il cielo dipinto del soffitto con i loro spruzzi di clorofilla. In un processo affrettato di fioritura germogliavano in quel fogliame immensi fiori bianchi e rosa, sbocciavano a vista d'occhio, si gonfiavano al centro in una polpa rosata, si spampanavano e subito ricadevano, perdevano i petali, appassendo rapidamente. Ero felice, diceva mio padre, di quella fioritura inattesa che aveva riempito l'aria di un mormorio intermittente, di un soave fruscìo che si riversava come coriandoli colorati attraverso i tralci sottili dei virgulti. Vedevo come dal tremolio dell'aria, dalla fermentazione dell'atmosfera troppo ricca si fosse gene rata e si materializzasse quella fioritura affrettata, quel traboccare e appassire di fantastici oleandri che riempivano la stanza di una rada, pigra nevicata di grandi ciuffi di fiori rosa. Prima ancora che cadesse la sera, concluse mio padre, non c'era più traccia di quella splendida fioritura. Tutto quel miraggio era solo una mistificazione, un caso di strana simulazione della materia che aveva assunto l'aspetto di vita. Mio padre era quel giorno stranamente animato, e il suo sguardo malizioso ed ironico brillava di vivacità e di arguzia. Poi, fattosi improvvisamente serio, si rimise ad analizzare l'infinita varietà delle fogge e delle gradazioni che la materia multiforme può assumere. Lo affascinavano le forme limite, dubbie e problematiche, come l'ectoplasma dei medium, la pseudomateria, l'emanazione catalettica del cervello, che in certi casi uscendo dalla bocca del dormiente si era diffusa sopra un tavolo intero, aveva riempito un'intera stanza, come un tessuto fluttuante e rado, una pasta astrale, al limite fra corpo e spirito.
Chissà, diceva, quante forme dolorose, mutile, frammentarie della vita esistono, come quella artificiosamente incollata, frettolosamente inchiodata degli armadi e dei tavoli, legni crocifissi, martiri silenziosi della crudele ingegnosità umana. Orribili trapianti di razze di alberi estranee e avverse, incatenate le une alle altre in un'unica infelice individualità. Quale antico, sapiente tormento è nelle venature verniciate, nelle screziature, nei nodi dei nostri vecchi e cari armadi!
Chi vi riconoscerebbe gli antichi tratti, i sorrisi, gli sguardi piallati, levigati fino a diventare irriconoscibili? Nel pronunciare queste parole il volto di mio padre si ricoprì di una rete pensosa di rughe, divenne simile ai nodi e alle venature di una vecchia asse da cui fossero stati piallati tutti i ricordi. Per un attimo pensammo che mio padre stesse per cadere in quello stato di torpore di cui altre volte aveva sofferto, ma all'improvviso si risvegliò, si riprese, e proseguì: Alcune antiche tribù mistiche imbalsamavano i loro morti. Nelle pareti delle loro abitazioni erano incastrati, murati corpi e volti; nel salone c'era il padre, impagliato; conciata, la defunta madre serviva da tappeto sotto il tavolo. Ho conosciuto un capitano che teneva nella sua cabina una lampada melusina, confezionata da imbalsamatori malesi con il corpo della sua amante assassinata. Sulla testa aveva enormi corna di cervo. Nel silenzio della cabina quella testa, tesa fra i rami delle corna verso il soffitto, apriva lentamente le ciglia; sulle labbra dischiuse luccicava una bollicina di saliva che un tacito mormorio faceva scoppiare. Polipi, testuggini e immensi granchi, appesi alle travi del soffitto come candelabri e lampadari, agitavano senza posa in quel silenzio le loro gambe, camminavano e camminavano senza muoversi...
Il volto di mio padre assunse a un tratto un'espressione preoccupata e triste, mentre i suoi pensieri, attraverso chissà quali associazioni di idee, passavano a nuovi esempi: Devo tacere, diceva abbassando il tono della voce, che mio fratello in seguito a una lunga e incurabile malattia si trasformò progressivamente in un rotolo di tubi di gomma e che la mia povera cugina, notte e giorno, lo portava sopra un cuscino, canterellando all'infelice creatura le ninnenanne senza fine delle notti invernali? Può forse esservi cosa più triste di un uomo trasformato in un tubo di clistere? Che delusione per i genitori, quale disorientamento nei loro sentimenti, quale fine per le speranze da loro riposte in quel giovane così promettente! Eppure l'amore fedele della mia povera cugina gli era vicino anche in quella metamorfosi. «Ah, non ne posso più, non posso ascoltare queste cose!» gemette Polda, piegandosi sulla sedia.
Fallo tacere, Adela... Le ragazze si alzarono, Adela si avvicinò a mio padre e tendendo il dito lo agitò come per fargli il solletico. Mio padre perse il controllo, tacque e in preda allo spavento cominciò a indietreggiare davanti al dito ondeggiante di Adela. Questa continuò ad avanzare, minacciandolo maliziosamente col dito, e passo passo lo spinse fuori della stanza. Paulina sbadigliò stirandosi. Appoggiate con le spalle l'una all'altra, lei e Polda si guardarono negli occhi con un sorriso.
NEMROD.
Trascorsi tutto l'agosto di quell'anno giocando con un cuccioletto formidabile che un bel giorno apparve sul pavimento della nostra cucina, goffo e uggiolante, odoroso ancora di latte e d'infanzia, con una testina non ancora ben formata, ovale, tremante, le zampe divaricate in fuori come una talpa, e un pelo delicatissimo, morbido morbido. Fin dalla prima occhiata quella briciola di vita riuscì a guadagnarsi tutta l'ammirazione, tutto l'entusiasmo del mio animo di fanciullo. Da quale cielo era mai piovuto così inatteso quel prediletto degli dèi, il più caro al cuore di tutti i più bei giocattoli? Già, perché anche le vecchie sguattere, totalmente prive di interesse, hanno talvolta idee così splendide e portano dalla periferia in un'ora antelucana, trascendentale, mattutina un cagnolino come quello nella nostra cucina.
Eravamo, ahimè, ancora assenti, non nati dall'oscuro grembo del sonno, e già quella felicità si era compiuta, ci attendeva, distesa goffamente sul freddo pavimento della cucina, disprezzata da Adela e dagli altri di casa. Perché non mi si era svegliato prima? Il piattino di latte per terra testimoniava degli impulsi materni di Adela, ma testimoniava purtroppo anche dei momenti di un passato da me per sempre perduto, dei piaceri di una maternità adottiva cui non avevo partecipato. Ma davanti a me stava ancora tutto il futuro. Che infinità di esperienze, prove, scoperte si apriva ora! Il segreto della vita, il suo mistero essenziale, ridotto a quella forma semplificata, maneggevole, a un balocco, si svelava a un'insaziabile curiosità. Era estremamente interessante possedere quel frammento di vita, quella particella di mistero eterno, sotto un aspetto così divertente e nuovo che destava una curiosità infinita e un segreto rispetto per la sua stranezza, per l'inattesa trasposizione di quella stessa sostanza vitale presente anche in noi, in una forma diversa dalla nostra, in una forma animale.
Animali! Oggetto di insaziabile curiosità, esemplificazioni dell'enigma della vita, creati quasi per rivelare l'uomo all'uomo, mostrandone la ricchezza e complessità in migliaia di possibilità caleidoscopiche, ognuna delle quali portata a un limite paradossale, a un'esuberanza caratteristica. Non oppresso dal groviglio degli interessi eccentrici che turbano i rapporti umani, si aprì il cuore pieno di simpatia per quelle altre emanazioni dell'eterna vita, pieno di quella curiosità tenera e cooperatrice che era la voce mascherata della conoscenza di sé.
Il cucciolo era vellutato e caldo, e pulsava tutto ai battiti affrettati del suo piccolo cuore. Aveva due soffici petali d'orecchie, occhi azzurrini, opachi, una boccuccia rosea in cui si poteva mettere il dito senza alcun pericolo, zampine delicate e innocenti, con una piccola commovente escrescenza rosea sul dietro, sopra la pianta delle zampe anteriori. Con queste entrava nella ciotola del latte, vorace e impaziente, mentre leccava il liquido con la lingua rosea, e poi, una volta sazio, sollevava tristemente il musetto con una goccia sul mento e si ritirava maldestro dal bagno di latte. La sua andatura era un goffo rullare tutto di sbieco, in una direzione imprecisata lungo una linea vacillante e incerta. La nota dominante del suo umore era lo sgomento: una fondamentale, vaga tristezza, un senso di orfanezza, l'incapacità di riempire in qualche modo il vuoto della vita fra quei grandi avvenimenti che erano i pasti. Lo si vedeva dall'indecisione e dall'incoerenza dei movimenti, da certi attacchi irrazionali di nostalgia accompagnati da un triste uggiolare, e dall'impossibilità di trovare un posto dove stare.
Perfino nelle profondità del sonno, quando avrebbe dovuto appagare quell'esigenza di protezione e di appoggio servendosi del suo stesso corpo acciambellato in un gomitolo tremante, non poteva liberarsi dall'impressione di essere abbandonato e senza tetto. Ah, vita, giovane e fragile vita sospinta dall'oscurità familiare, dall'accogliente e tepido seno materno nel vasto mondo estraneo e luminoso, come si ritrae e indietreggia, come esita ad accettare il compito che le propongono, piena come è di ostilità e di ripugnanza! Ma a poco a poco il piccolo Nemrod (aveva ricevuto questo nome fiero e bellicoso) comincia a prendere gusto alla vita. Il predominio esclusivo dell'immagine di una primitiva unità materna cede il posto al fascino della pluralità. Il mondo incomincia a tendergli tranelli: l'ignoto e allettante sapore dei vari cibi, la chiazza quadrata di sole mattutino sul pavimento dove è così piacevole stendersi, il movimento delle proprie membra, le proprie zampe, la coda, maliziosamente invitante a giocare con se stesso, le carezze della mano umana, sotto le quali a poco a poco matura una certa voglia di ruzzare, un'allegria che colma il corpo e genera la necessità di movimenti assolutamente nuovi, violenti, rischiosi, tutto ciò corrompe, convince, incoraggia ad accettare, a sottomettersi all'esperimento della vita. E ancora una cosa. Nemrod incomincia a capire che ciò che gli si presenta qui, nonostante le apparenze di novità, è in fin dei conti qualcosa che è già stato, è già stato molte volte, un'infinità di altre volte. Il suo corpo riconosce le situazioni, le impressioni e gli oggetti. In fondo tutto ciò non lo stupisce eccessivamente. Di fronte a ogni nuova situazione fa un tuffo nella memoria, nella profonda memoria del corpo, e fruga, a tastoni, febbrilmente, e spesso trova in se stesso la reazione corrispondente già pronta: la saggezza di generazioni, accumulata nel suo plasma, nei suoi nervi. Trova azioni, decisioni che non sapeva fossero ormai maturate in lui e aspettassero quell'occasione per saltar fuori. Lo scenario della sua giovane vita, la cucina con i suoi secchi odorosi, con gli strofinacci dall'odore complicato e intrigante, con il ciabattare di Adela, con il suo rumoroso andirivieni, non lo spaventa più. Si è abituato a considerarla suo dominio, vi si è insediato, e ha cominciato a nutrire nei suoi confronti un vago sentimento di appartenenza, di patria. A meno che, all'improvviso, non gli capiti addosso un cataclisma, sotto forma di lavatura del pavimento: sovvertimento delle leggi di natura, schizzi di lisciva calda che bagnano tutti i mobili fra il minaccioso stropiccio degli spazzoloni di Adela. Ma il pericolo passa; lo spazzolone, ormai tranquillo e immobile, giace in un angolo silenziosamente, nell'asciugarsi il pavimento manda un simpatico odore di legno umido. Nemrod, nuovamente restituito alle sue leggi normali e alla libertà sul suo territorio, sente una gran voglia di afferrare con i denti la vecchia coperta sul pavimento e di tirarla a destra e a sinistra con tutte le sue forze. La pacificazione degli elementi lo colma di gioia indicibile. Ma eccolo fermarsi sbalordito: davanti a lui, a un tre passi di cane, si avanza un mostro nero, uno spauracchio che si muove rapido sulle bacchette delle sue molte gambe aggrovigliate.
Sconvolto, Nemrod segue con gli occhi la corsa obliqua di quell'insetto luccicante, e osserva tutto teso quel tronco piatto, acefalo e cieco, trasportato con eccezionale mobilità dalle zampe di ragno. Qualcosa si muove in lui a quella vista, qualcosa matura, lievita, un qualcosa che lui stesso ancora non capisce: un misto di collera e paura, ma piuttosto piacevole e collegato con un brivido di forza, di consapevolezza, di aggressività. E improvvisamente si affloscia sulle zampe davanti e emette un suono, ancora a lui stesso ignoto, strano, in tutto dissimile dai soliti guaiti. Lo emette una volta, e poi ancora una, e un'altra. Un tenue discanto che ad ogni istante si svia. Ma invano apostrofa l'insetto in quel nuovo linguaggio, nato da un'improvvisa aspirazione.
Nelle categorie mentali dello scarafaggio non c'è posto per quell'internerata, e l'insetto prosegue la sua corsa obliqua verso un angolo della stanza, fra i movimenti consacrati da un secolare rituale scarafaggesco. E tuttavia i sentimenti di odio non hanno ancora durata e vigore nell'animo del cucciolo. La ridestata gioia di vivere trasforma ogni sentimento in allegria. Nemrod abbaia ancora, ma il senso di quell'abbaiare è impercettibilmente mutato, è diventato la sua stessa parodia, nient'altro desiderando esprimere che l'indicibile successo di quella stupenda impresa che è la vita, piena di sapore, di fremiti inattesi, di emozioni.
PAN.
In un angolo del cortile, fra le mura posteriori delle rimesse e delle dépendance, c'era un vicolo cieco, un'ultima, estrema ramificazione, chiusa fra la dispensa, il gabinetto e il retro del pollaio: una sorda insenatura oltre la quale non vi era uscita. Era l'estremo promontorio, la Gibilterra di quel cortile, che sbatteva disperatamente la testa contro la cieca palizzata di assi trasversali, definitiva parete a chiusura di quel mondo. Sotto le assi ammuffite scorreva un rigagnolo d'acqua nera e graveolente, una vena di fango putrido, grasso, che non si asciugava mai: unica via che attraverso i confini della staccionata conducesse nel mondo. Ma la disperazione di quel fetido vicolo aveva così a lungo sbattuto la testa contro l'ostacolo, da riuscire infine ad allentare una di quelle assi potenti. Noi ragazzi compimmo il resto e scardinammo, strappammo quell'asse pesante e ammuffita dal suo sostegno.
Facemmo così una breccia, aprimmo una finestra al sole. Posando un piede sull'asse gettata di traverso sulla pozzanghera a mo' di ponte, il prigioniero del cortile poteva introdursi orizzontalmente nella fessura e sbucare così in un mondo nuovo, vasto, pieno d'aria. C'era là un vecchio giardino, ampio e incolto. Alti peri, larghi meli vi crescevano in gruppi folti e sparsi, tutti rivestiti di argentei fruscii, di una rete gorgogliante di luccicchii biancastri. Rigogliosa, aggrovigliata, intonsa l'erba copriva il terreno ondulato di un soffice manto. C'erano i comuni fili d'erba dei prati, coi pennacchi piumati delle spighe; c'erano le filigrane delicate del prezzemolo e della carota selvatici; le foglie rugose, ruvide dell'erba gatta e delle ortiche morte, odorose di menta; quelle filamentose, luccicanti della panicastrella, picchiettate di ruggine, da cui sbucavano pannocchie di spesso semolino rosso. Tutto ciò, aggrovigliato e soffice, era imbevuto di aria dolce, intessuto di brezze azzurrine, impregnato di cielo. Se ci si distendeva nell'erba si era ricoperti da un'intera azzurra geografia di nubi e continenti naviganti, si respirava l'intera vasta mappa dei cieli. Da quello stretto connubio con l'aria le foglie e i germogli uscivano coperti di peli delicati, d'un soffice strato di lanugine, di ruvide setole uncinate, quasi volessero afferrare e trattenere le folate di ossigeno. Quel manto delicato e biancastro imparentava le foglie con l'atmosfera, conferiva loro il luccichio argenteo, grigio delle ondate d'aria, degli ombrosi raccoglimenti fra due raggi di sole. Ma una di quelle piante, gialla, gonfia d'aria e colma di lattice nei pallidi steli, stillava dai vuoti germogli ormai solo aria pura, solo peluria sotto forma di piumini lattescenti che si disperdevano al vento e si dissolvevano senza rumore nel silenzio azzurro. Il giardino era vasto, suddiviso in molti rami, e aveva zone e climi diversi. Da un lato era aperto, colmo del latte dei cieli e dell'aria, e là dispiegava al cielo il verde più tenero, soffice e delicato. Ma a mano a mano che si addentrava in una di quelle lunghe ramificazioni e sprofondava nell'ombra dietro le mura di uno stabilimento abbandonato di acqua minerale, lo si vedeva rabbuiarsi, divenir sempre più brusco e trasandato, infoltirsi selvaticamente, sordidamente, imperversare d'ortiche, farsi irto di cardi, intignarsi d'ogni tipo d'erbacce, finché in fondo in fondo, a ridosso delle mura, in un'ampia insenatura rettangolare, perdeva ogni misura, esplodeva furioso. Laggiù ormai non era più un giardino, era solo un parossismo di follia, un'esplosione di furia, cinica impudicizia e lussuria. Là, imbestiati, dando sfogo alle proprie passioni, troneggiavano vuoti, selvaggi cespi di bardane, gigantesche megere, che si spogliavano in pieno giorno delle loro ampie gonnelle, strappandosele di dosso una dopo l'altra, finché i loro stracci rigonfi, fruscianti e bucherellati seppellivano sotto di sé fra i lembi impazziti quella razza litigiosa e bastarda. E ingorde le gonne si gonfiavano e si allargavano, si sovrapponevano l'una all'altra, si scansavano e si coprivano a vicenda, crescendo insieme in una massa rigonfia di lamine fogliacee, fino alla bassa grondaia del capannone. Fu là che lo vidi per l'unica volta nella mia vita, in un'ora del meriggio folle di calura. Era uno di quei momenti in cui il tempo, impazzito e selvaggio, si sottrae alla ruota degli avvenimenti e come un vagabondo in fuga si precipita gridando attraverso i campi. L'estate allora, priva di controllo, cresce senza più misura né calcolo nello spazio, si espande in ogni luogo con impeto selvaggio, raddoppiandosi, triplicandosi, in un qualche altro tempo degenerato, in una dimensione ignota, nel delirio. A quell'ora mi prendeva la frenesia di andare a caccia di farfalle, la passione di inseguire quelle macchioline guizzanti, quei bianchi fiocchi vagabondi che caracollavano per l'aria arroventata in goffi zig zag. E accadeva allora che una di quelle macchioline sgargianti si dividesse nel volo in due, poi in tre, e quel triangolo palpitante, bianco da abbagliare, mi conducesse come un fuoco fatuo, attraverso la giungla dei cardi che bruciavano al sole. Solo al limite delle bardane mi arrestavo, non osando avventurarmi in quella sorda voragine. E allora, improvvisamente, lo vidi. Immerso nelle bardane fino al petto se ne stava accovacciato davanti a me. Vedevo le sue larghe spalle nella camicia sporca e un sudicio brandello di giacca.
Rannicchiato, quasi fosse pronto a spiccare un salto, stava seduto con le spalle incurvate come da un grosso peso. Il suo corpo respirava affannosamente e il sudore colava dal volto bronzeo, luccicante al sole.
Immobile, pareva lavorare accanitamente, lottare senza un gesto con un enorme fardello. Io stavo fermo, inchiodato dal suo sguardo che mi teneva come in una morsa. Era il volto di un barbone o di un ubriaco. Un ciuffo di capelli sporchi gli si drizzava sulla fronte alta e prominente come un masso circondato da un fiume. Ma quella fronte era incisa da solchi profondi. Non si può sapere se fosse stato il dolore o la torrida calura del sole o la tensione sovrumana a scolpire così quel volto e a tenderne i tratti fino a scoppiare. I suoi occhi neri si conficcavano in me con l'intensità della suprema disperazione o del supremo dolore.
Quegli occhi mi guardavano e non guardavano, mi vedevano e non vedevano affatto. Erano bulbi esorbitanti, tesi da un elevatissimo impeto di dolore o da una selvaggia voluttà di estasi. E all'improvviso da quei tratti, tesi fino a scoppiare, scaturì una sorta di smorfia terribile, rotta dalla sofferenza, e quella smorfia crebbe, assorbì quel delirio e quell'estasi, gonfiandosene, dilatandosi sempre più, fino a esplodere in un mugghiante, stridente scroscio di risa. Sconvolto, vidi che si tirava su lentamente, sempre tuonando risa dal petto, ingobbito come un gorilla, le braccia tra gli stracci cadenti dei calzoni, e fuggiva, trascinandosi a gran passi fra le lamine svolazzanti delle bardane: Pan senza flauto, in fuga precipitosa verso la selva natia.
IL SIGNOR KAROL.
Il sabato pomeriggio mio zio Karol, vedovo temporaneo, si recava a piedi al luogo di villeggiatura, distante un'ora di cammino dalla città, dove la moglie e i bambini trascorrevano le vacanze. Da quando la moglie era partita l'appartamento non era stato spazzato, il letto mai rifatto. Il signor Karol tornava a casa a notte fonda, sbattuto, distrutto dalle baldorie notturne in cui lo trascinavano quelle giornate roventi e vuote. Le lenzuola spiegazzate, fresche, tutte in disordine, erano allora per lui un dolce rifugio, un'isola di salvezza cui approdava con le ultime forze che gli restavano, come un naufrago sballottato per giorni e notti dal mare in tempesta. Brancolando nel buio, piombava pesantemente fra nuvole biancastre, cumuli e valanghe di piume fresche, e dormiva così, come gli capitava, di traverso, a testa in giù, sprofondato nella soffice massa delle lenzuola, quasi volesse nel sonno perforare, esplorare in lungo e in largo quei potenti massicci del piumino, che crescevano durante la notte. Lottava nel sonno con le lenzuola, come un nuotatore con l'acqua, le impastava, le intrideva col corpo, come pasta in un'enorme madia in cui fosse caduto, e si svegliava prima dell'alba, ansimante, madido di sudore, abbandonato sulla sponda di quell'ammasso di lenzuola che non era riuscito a domare durante le ardue lotte notturne. Così, semirespinto dalle profondità del sonno, restava per un attimo sospeso nell'incoscienza sull'orlo della notte, respirando avidamente, mentre le lenzuola crescevano attorno a lui, lievitavano, fermentavano, e di nuovo lo seppellivano sotto una valanga di pesante pasta biancastra. Dormiva così fino a mattino inoltrato, e nel frattempo i cuscini si disponevano in una vasta distesa bianca e piatta, dove, ormai placato, errava il suo sonno. Su quelle strade bianche tornava a poco a poco a sé, al giorno, alla realtà, e infine apriva gli occhi come un viaggiatore addormentato quando il treno si ferma in stazione. Nella stanza regnava una penombra ormai depositata, con un fondiglio di giorni e giorni di solitudine e di silenzio. Solo la finestra ribolliva del brulichio mattutino delle mosche, e le stuoie sfavillavano di luce squillante. Il signor Karol sbadigliava esalando dal corpo, dalle più profonde cavità corporali, i resti del giorno prima. Quegli sbadigli lo afferravano così convulsi che sembrava volessero rovesciarlo completamente. In tal modo si liberava di quel pietrisco, di quei pesi, di quelle rimanenze non digerite del giorno prima. Sollevato e più libero, annotava le spese sul taccuino, calcolava, contava, e restava sovrappensiero. Poi giaceva a lungo immoto, lo sguardo vitreo negli occhi color dell'acqua, prominenti, umidi. Nella penombra acquosa della stanza, rischiarata dal riverbero del giorno infuocato al di là delle stuoie, i suoi occhi riflettevano come minuscoli specchi ogni oggetto che brillasse luminoso, i bianchi lembi di sole negli spiragli della finestra, il rettangolo dorato delle stuoie, e riproducevano come una goccia d'acqua l'intera stanza col silenzio dei tappeti e delle sedie vuote. Frattanto il giorno, al di là delle stuoie, rimbombava sempre più divampando del ronzio delle mosche infuriate dal sole. La finestra non riusciva a contenere quel bianco incendio e le stuoie venivano meno nel luminoso ondeggiare. Allora si dipanava dalle lenzuola e sedeva ancora un poco sul letto, gemendo inconsciamente. Il suo corpo, che aveva da poco passato la trentina, si stava avviando alla corpulenza. In quell'organismo reso enfio dal grasso, fiaccato dagli abusi sessuali, ma pur sempre traboccante di umori lussuriosi, pareva ora maturare lentamente in quel silenzio il suo futuro destino. Mentre sedeva così, in quello stato di stupore inerte, vegetativo, interamente tramutato in circolazione, respirazione, in un profondo pulsare di umori, all'interno del suo corpo sudato e variamente cosparso di peli nasceva uno sconosciuto, non formulato avvenire, quasi un'escrescenza mostruosa, fantasticamente dilatantesi in una dimensione ignota. Non ne era impaurito, poiché sentiva di essere ormai tutt'uno con quell'ignoto e immenso che doveva sopraggiungere, ed insieme con quello cresceva senza opporsi, in uno strano accordo, paralizzato da tranquillo orrore, riconoscendo il suo futuro io in quelle colossali efflorescenze, in quelle fantastiche stratificazioni che maturavano dinanzi al suo sguardo interiore. Uno dei suoi occhi, allora, si torceva appena verso l'esterno, quasi volesse entrare in un'altra dimensione.
Poi, da quegli annebbiamenti irrazionali, da quelle smarrite lontananze, tornava di nuovo a sé, al presente. Vedeva i suoi piedi sul tappeto, grassi e delicati come quelli di una donna, e lentamente sfilava i gemelli d'oro dai polsini della camicia quotidiana. Quindi andava in cucina e là, in un angolo ombroso, trovava il secchio dell'acqua, rotondo specchio silenzioso e vigile, che stava ad aspettare lui, l'unico essere vivente consapevole in quella casa vuota. Versava nel bacile l'acqua e ne gustava con la pelle il giovane e già decantato, dolciastro umidore. Faceva una lunga e accurata toilette, senza affrettarsi, intercalando pause fra le varie operazioni. L'appartamento, vuoto e abbandonato, non lo riconosceva, quei mobili e quelle pareti sfilavano accanto a lui con silenziosa riserva. Penetrando nel loro silenzio, si sentiva come un intruso in quel regno sottomarino, sommerso, in cui scorreva un tempo diverso, particolare. Nell'aprire i cassetti, aveva la sensazione di essere un ladro, e camminava senza volere in punta di piedi, temendo di destare echi rumorosi e smisurati, in impaziente attesa del più lieve pretesto per esplodere fragorosamente. E quando infine, passando senza far rumore d'armadio in armadio, trovava pezzo per pezzo tutto l'occorrente e terminava la sua toilette, fra quei mobili che lo tolleravano in silenzio, con espressione assente, e finalmente era pronto, fermo sulla soglia col cappello in mano, si sentiva imbarazzato di non saper trovare neppure in quell'ultimo istante le parole adatte ad interrompere quel silenzio ostile, e si avviava alla porta rassegnato, lentamente, a testa china: e contemporaneamente, dalla parte opposta, qualcuno che per sempre aveva voltato le spalle, si allontanava senza fretta, in fondo allo specchio, attraverso la vuota infilata di stanze che non esistevano.
LE BOTTEGHE COLOR CANNELLA.
All'epoca dei giorni più brevi, dei sonnolenti giorni d'inverno chiusi ai margini, al mattino e alla sera, nelle soffici bordure dei crepuscoli, quando la città si diramava addentrandosi sempre più nei labirinti delle notti invernali, a stento richiamata alla vita, indotta a recedere dalla breve aurora, mio padre era ormai perduto, alienato, votato all'altra sfera. Il volto e il capo egli aveva a quel tempo coperti di una selva rigogliosa e ispida di pelo grigio, che gli spuntava irregolarmente a ciuffi, a batuffoli, in lunghi pennacchi setolosi sbucanti dalle verruche, dalle sopracciglia, dai buchi del naso: e tutto ciò conferiva alla sua fisionomia l'aspetto di una vecchia volpe irsuta. L'odorato e l'udito gli si erano straordinariamente affinati e dal mutare del volto silenzioso e teso si capiva che per mezzo di quei sensi egli restava in continuo contatto con il mondo invisibile dei ripostigli oscuri, delle tane di topi, dei vuoti spazi tarlati sotto il pavimento e delle gole dei camini. Ogni cigolio, ogni scricchiolio notturno, la vita segreta e frusciante del pavimento trovavano in lui un osservatore infallibile e attento, una spia e un complice. Ne era così assorto da immergersi completamente in quella sfera per noi inaccessibile e di cui non faceva neppure il tentativo di metterci a parte. Talvolta, quando le bizzarrie di quella sfera invisibile divenivano troppo assurde, non poteva fare a meno di schioccare le dita e ridacchiare sottovoce fra sé; scambiava allora segni d'intesa con il nostro gatto, che, ugualmente iniziato a quel mondo, sollevava il muso cinico, freddo, tigrato, socchiudendo di noia e indifferenza le oblique fessure degli occhi. All'ora del pranzo, capitava che nel bel mezzo del pasto posasse all'improvviso coltello e forchetta e, il tovagliolo ancora legato al collo, si alzasse con movimenti felini, si avvicinasse in punta dei piedi alla porta della stanza accanto, vuota, e con estrema precauzione guardasse dal buco della serratura. Tornava poi a tavola come un po' vergognoso, con un sorriso imbarazzato, fra brontolii e borbottii incomprensibili riferentisi al monologo interno nel quale era immerso. Per distrarlo in qualche modo e strapparlo a quelle speculazioni morbose, mia madre lo trascinava in passeggiate serali, cui si sottoponeva in silenzio, senza opporsi, ma anche senza convinzione, disattento, assente. Una volta andammo perfino a teatro. Ci ritrovammo ancora una volta in quella grande sala male illuminata e sporca, piena di un sonnolento brusio umano e di confusa baraonda. Ma quando ci fummo aperti un varco tra la folla, dinanzi a noi emerse un immenso sipario azzurro pallido, come il cielo di un altro firmamento. Grandi maschere dipinte, rosee e paffute, affioravano nell'enorme estensione di tela. Quel cielo finto si espandeva e fluttuava in lungo e in largo, gonfiandosi al soffio potente del pathos e dei grandi gesti, all'atmosfera di quel mondo artificiale e scintillante che si ergeva là, sulle impalcature risonanti del palcoscenico. Il fremito che percorreva la superficie di quel cielo, il respiro di quell'immensa tela da cui crescevano e prendevano vita le maschere, tradivano l'illusorietà del firmamento, generavano quel palpito di realtà che nei momenti metafisici avvertiamo come il balenare ££del mistero. Le maschere sbattevano le palpebre rosse, le labbra colorate sussurravano silenziosamente, ed io sapevo che presto sarebbe venuto il momento in cui la tensione del mistero avrebbe raggiunto lo zenith, e allora il cielo rigonfio del sipario sarebbe esploso davvero, sollevandosi a mostrare cose inaudite e stupefacenti. Ma non mi fu concesso di restare fino a quel momento, poiché mio padre aveva nel frattempo cominciato a tradire una certa inquietudine e, dopo essersi frugato nelle tasche, aveva finito col dichiarare di aver dimenticato il portafoglio con il denaro e documenti importanti. Dopo un breve conciliabolo con mia madre, durante il quale la probità di Adela venne sottoposta ad un apprezzamento affrettato e sommario, mi si propose di fare una corsa a casa per cercare il portafoglio. A giudizio di mia madre, mancava ancora parecchio all'inizio dello spettacolo e, svelto com'ero, avrei potuto tornare in tempo. Uscii nella notte invernale colorata dall'illuminazione del cielo. Era una di quelle notti chiare in cui il firmamento stellato è così vasto e ramificato da sembrare frantumato, spezzato e suddiviso in un labirinto di cieli distinti, sufficienti a provvedere un intero mese di notti invernali e a ricoprire con le loro campane argentee e variopinte tutti i fenomeni, avvenimenti, vicende e carnevali notturni. E' una leggerezza imperdonabile mandare un ragazzo in una notte simile con un incarico importante e urgente, perché nella penombra le strade si moltiplicano, si confondono e si scambiano l'una con l'altra. Nel cuore della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci. Stregata, aberrante, l'immaginazione crea una pianta illusoria della città, apparentemente ben nota e risaputa, in cui quelle strade hanno un loro posto e un nome, mentre la notte nella sua inesauribile fecondità non trova di meglio da fare che fornire sempre nuove e immaginarie configurazioni. Queste tentazioni delle notti invernali hanno generalmente inizio dall'innocente desiderio di abbreviare il cammino, di usare una strada inconsueta e più rapida. Si presentano allettanti combinazioni di tagliare un percorso complicato prendendo una traversa non ancora sperimentata. Ma quella volta cominciò altrimenti. Fatti appena pochi passi, mi accorsi di essere senza cappotto. Stavo per tornare indietro, ma dopo un attimo mi parve un'inutile perdita di tempo, giacché la notte non era per niente fredda, anzi, venata da rivoli di uno strano tepore, brezze di una falsa primavera. La neve si era increspata in bianche pecorelle, in un vello innocente e dolce che profumava di violetta. E in tante pecorelle si dissolveva anche il cielo, in cui la luna si sdoppiava e si triplicava, mostrando in quel suo moltiplicarsi tutte le varie fasi e posizioni. Il cielo metteva a nudo quel giorno la sua struttura interna, come in tanti preparati anatomici che rivelavano le spirali e le venature di luce, gli spaccati delle masse verdazzurre della notte, il plasma degli spazi, il tessuto delle fantasticherie notturne. Impossibile in una notte come quella passare sotto le Mura o per qualcun'altra di quelle strade oscure che sono l'altra faccia, il rovescio in certo modo delle quattro linee rette della piazza del mercato, e non ricordarsi che a quell'ora tarda restano talvolta ancora aperte alcune di quelle botteghe singolari e tanto attraenti di cui ci si dimentica nei giorni comuni. Io le chiamerò botteghe di cannella, dal colore delle brune boiseries che le rivestono.
Quei negozi così nobili, ancora aperti a notte inoltrata, erano sempre stati per me oggetto di fervidi sogni. Fiocamente illuminati, scuri e solenni, i loro interni odoravano intensamente di vernici, lacca, incenso, aromi di terre lontane e merci rare. Ci si potevano trovare bengala, scatole magiche, francobolli di paesi da tempo scomparsi, decalcomanie cinesi, indaco, colofonie di Malabar, uova di insetti esotici, di pappagallo, di tucano, salamandre vive e basilischi, radici di mandragola, giocattoli meccanici di Norimberga, homunculi in vaso, microscopi e binocoli, ma soprattutto libri rari e curiosi, vecchi infolio pieni di incisioni straordinarie e di storie sorprendenti.
Ricordo quei vecchi, dignitosi venditori che servivano i clienti a occhi bassi, in un silenzio discreto, ed erano pieni di perspicacia e comprensione per i loro più segreti desideri. Ma soprattutto c'era là una libreria in cui una volta avevo dato una scorsa a certe edizioni rare e proibite, pubblicazioni di un qualche club clandestino, che mi avevano svelato misteri angosciosi ed eccitanti. Capitava così raramente di visitare quelle botteghe, e per di più con una somma piccola ma sufficiente di denaro in tasca, che non era possibile lasciarsi sfuggire quell'occasione, nonostante l'importanza della missione affidata al nostro zelo. Bisognava, secondo i miei calcoli, imboccare una viuzza laterale e lasciar passare due o tre traverse per raggiungere la via delle botteghe notturne. Ciò mi allontanava dalla meta, ma potevo recuperare il ritardo tornando per la strada delle Saline. Reso alato dal desiderio di visitare le botteghe di cannella, girai in una via che conoscevo e volai, più che camminai, badando a non sbagliare strada.
Oltrepassai così tre, quattro traverse, ma la via che cercavo non c'era.
E non solo, perfino la configurazione delle strade non corrispondeva all'immagine attesa. Nessuna traccia delle botteghe. Mi trovavo in una via in cui le case non avevano porte d'entrata: solo finestre ermeticamente chiuse, accecate dal riflesso della luna. «Dal lato opposto, pensai fra me, deve passare la strada da cui accedere a quelle case.» Inquieto, affrettai il passo, rinunciando in cuor mio all'idea di visitare le botteghe. Bisognava solo uscire al più presto di là per ritrovarsi in una zona conosciuta della città. Mi avvicinai allo sbocco della strada, domandandomi preoccupato dove mi avrebbe condotto. Mi ritrovai in un viale ampio, con rade costruzioni, molto lungo e diritto.
Sentii su di me improvviso il soffio del grande spazio. Lungo la strada o in fondo ai giardini sorgevano ville pittoresche, eleganti costruzioni di ricchi. Negli intervalli fra l'una e l'altra apparivano parchi e mura di frutteti. L'insieme ricordava vagamente la via Lesznianska nella sua parte bassa e raramente visitata. La luce della luna, dissolta in miriadi di nuvolette, di scaglie d'argento nel cielo, era pallida e chiara come quella del giorno: solo i parchi e i giardini nereggiavano in quel paesaggio argenteo. Osservando attentamente uno di quegli edifici, giunsi alla convinzione di trovarmi di fronte alla facciata posteriore, mai vista prima di allora, del ginnasio. Mi avvicinai al portone: con mio grande stupore era aperto, l'ingresso illuminato.
Entrai e mi trovai sulla guida rossa di un corridoio. Speravo di poter attraversare non visto l'edificio e di uscire dal portone anteriore, abbreviando così di molto la strada. Mi venne in mente che a quell'ora tarda doveva svolgersi nell'aula del professor Arendt una di quelle lezioni facoltative che si tenevano di notte e alle quali ci riunivamo d'inverno, animati dal nobile entusiasmo per gli esercizi di disegno che quell'ottimo insegnante risvegliava in noi. Lo sparuto gruppetto degli assidui quasi si perdeva nella grande sala scura, sulle cui pareti si ingigantivano e si frantumavano le ombre delle nostre teste, gettate dalla luce di due candelotti accesi, infilati nel collo di due bottiglie. A onor del vero non disegnavamo molto in quelle ore, e il professore non esigeva troppo da noi. Alcuni si portavano un cuscino da casa e si sdraiavano sui banchi per un breve sonnellino. E solo i più diligenti disegnavano proprio sotto la candela, nel cerchio dorato della sua luce. In genere aspettavamo a lungo l'arrivo del professore, annoiandoci fra discorsi assonnati. Finalmente si apriva la porta della sua stanza ed egli entrava, piccolo, con una bella barba, pieno di sorrisi esoterici, di reticenze discrete e di un profumo di mistero.
Rapido si richiudeva alle spalle la porta dello studio, attraverso la quale, nel momento in cui era aperta, vedevamo affollarsi dietro la sua testa una turba di ombre di gesso, di frammenti classici, dolenti Niobidi, Danaidi, Tantalidi, un intero Olimpo triste e sterile, da anni languente in quel museo di calchi. La penombra si addensava in quella stanza anche durante il giorno, traboccava torpida di sogni di gesso, sguardi vuoti, ovali sempre più impallidenti e meditazioni svanenti nel nulla. Ci piaceva talvolta ascoltare dietro la porta il silenzio pieno di sospiri e sussurri di quei ruderi che si sgretolavano fra le ragnatele, di quel crepuscolo degli dèi che si decomponeva nella noia e nella monotonia. Il professore camminava avanti e indietro con aria dignitosa, pieno di affettazione, lungo i banchi vuoti fra i quali, sparsi a piccoli gruppi, disegnavamo al grigio riflesso della notte invernale. Regnava un'atmosfera tranquilla e sonnolenta. Qua e là i miei compagni si disponevano a dormire. Le candele si spegnevano lentamente sulle bottiglie. Il professore si tuffava in una vetrina fonda, piena di vecchi infolio, di illustrazioni, incisioni e stampe fuori moda. Fra gesti esoterici ci mostrava vecchie litografie di paesaggi crepuscolari, folte boscaglie notturne, viali di parchi invernali, nereggianti sui bianchi sentieri lunari. Fra discorsi assonnati il tempo, inosservato, passava in una corsa disuguale, formando una sorta di nodi nello scorrere delle ore, divorando qua e là intere pause vuote.
Inconsapevolmente, senza transizione, il nostro gruppo si ritrovava già sulla via del ritorno, sul sentiero bianco di neve fiancheggiato da una fitta siepe di arbusti neri e secchi. Camminando lungo quel soffice bordo delle tenebre, sfioravamo la pelliccia dei cespugli scricchiolanti sotto i nostri passi nella notte chiara e illune, nel giorno lattiginoso e illusorio di quelle ore antelucane. Il biancore diffuso di quella luce che filtrava dalla neve, dall'aria pallida, dagli spazi lattei, rammentava la carta grigia di un'incisione sulla quale si intrecciassero in un nero fitto tratti e tratteggi di folti macchieti. La notte ripeteva ora, molto dopo la mezzanotte, quella serie di notturni, di incisioni crepuscolari del professor Arendt, ne continuava le fantasie.
Nelle nere densità del parco, nella coltre villosa dei cespugli, nella massa fragile degli arbusti si trovavano qua e là nicchie, nidi di un nero ancor più fondo e peloso, pieni di disordine, di gesti segreti, di confusi cenni d'intesa. In quei nidi si stava tranquilli e caldi. Ci sedevamo là, sulla neve tepida e molle, nei nostri cappotti foderati di pelliccia, mangiano nocciole di cui la macchia abbondava in quell'inverno primaverile. Fra i cespugli scivolavano senza rumore martore, donnole e icneumoni, animaletti impellicciati, fiutanti, dal vello maleodorante, allungati sulle corte zampette. Noi sospettavamo che fra loro ci fossero esemplari del gabinetto di scienze, che, per quanto sventrati e spelacchiati, in quella notte bianca avessero sentito nelle loro viscere vuote la voce dell'istinto atavico, il richiamo della foia, e tornassero nelle loro tane per una breve, effimera esistenza. Ma a poco a poco la fosforescenza della neve primaverile si offuscava estinguendosi, e sopraggiungevano le tenebre dense e nere che precedono l'alba. Alcuni di noi si assopivano nella neve tiepida, altri brancolavano nel fitto dei portoni delle loro case, penetravano a tastoni negli interni scuri, nel sonno dei genitori e dei fratelli, nella continuazione del profondo ronfare che inseguivano per strade ritardate. Quelle scene notturne erano per me piene di un fascino segreto, e neppure quella volta potevo lasciarmi sfuggire l'occasione di dare un'occhiata all'aula di disegno, pur decidendo di non permettermi che una breve sosta. Ma nel salire la scala posteriore, i cui gradini in legno di cedro mandavano echi sonori, mi accorsi di trovarmi in un'ala diversa, mai vista dell'edificio. Nessun lieve fruscio turbava qui il silenzio solenne. I corridoi erano in quell'ala più ampi, rivestiti di tappeti vellutati, pieni di ricercatezza. Piccole lampade, dalla luce fioca, erano accese agli angoli. Oltrepassato uno di quei gomiti, mi trovai in un corridoio ancor più grande, addobbato con la sontuosità di un palazzo. Una delle sue pareti si apriva in ampie arcate a vetri verso l'interno di un'abitazione. Si apriva qui dinanzi agli occhi una lunga fuga di stanze, che si perdevano nel fondo, arredate con sfarzo e magnificenza. Fra ali di tappezzerie di seta, specchi dorati, mobili preziosi e lampadari di cristallo, correva lo sguardo verso la polpa vellutata di quegli interni lussuosi, pieni di volute colorate e arabeschi saettanti, di ghirlande intrecciate e fiori in boccio. Il silenzio profondo di quei saloni vuoti era rotto soltanto da occhiate segrete che gli specchi si riflettevano l'un l'altro, e dal panico degli arabeschi, che correvano verso l'alto nei fregi lungo le pareti e si perdevano negli stucchi dei soffitti bianchi. Stupefatto e ammirato mi fermai dinanzi a quel fasto, intuendo che quella scappata notturna mi aveva condotto, a mia insaputa, nell'ala del direttore, davanti al suo appartamento privato. Rimasi là, inchiodato dalla curiosità, con il cuore in tumulto, pronto a fuggire al minimo fruscio. Come avrei potuto, se mi avessero sorpreso, giustificare quel mio spiare notturno, quell'intrusione temeraria? In una di quelle profonde poltrone di peluche poteva essere seduta, non vista e silenziosa, la giovane figlia del direttore e improvvisamente sollevare gli occhi dal libro su di me occhi neri, sibillini, quieti, i cui sguardi nessuno di noi riusciva a sostenere. Ma fuggire così, a mezza strada, senza aver portato a termine il piano previsto, sarebbe stata una vigliaccheria. Del resto, un silenzio profondo regnava attorno in quelle stanze sontuose, illuminate da una luce velata di un'ora indefinita. Attraverso le arcate del corridoio vidi, all'altro estremo del vasto salone, una grande porta a vetri che immetteva su una terrazza. C'era tanto silenzio intorno che mi feci coraggio. Non mi sembrava troppo rischioso scendere i pochi scalini che portavano al livello della sala, percorrere in pochi balzi il grande e prezioso tappeto, e ritrovarmi sulla terrazza, da cui, senza difficoltà, avrei potuto raggiungere la strada che ben conoscevo. E così feci. Una volta sceso sul parquet del salone, sotto le grandi palme che dai vasi si slanciavano a raggiungere gli arabeschi del soffitto, mi accorsi di trovarmi già in territorio neutrale, poiché il salone non aveva parete frontale. Era una specie di grande loggia, unita alla piazza cittadina da qualche scalino soltanto. Era come una diramazione della piazza stessa, e alcuni mobili si trovavano addirittura sul selciato. Corsi giù per i gradini di pietra e mi trovai di nuovo sulla strada. Le costellazioni si erano ormai capovolte, tutte le stelle si erano girate dalla parte opposta; solo la luna, sprofondata nel piumino di nubi che essa illuminava con la sua invisibile presenza, pareva avesse ancora davanti a sé una strada senza fine e, tutta assorta nelle sue complicate procedure celesti, non pensava all'alba. Sulla strada spiccavano nere alcune carrozze, schiacciate e sgangherate come granchi o scarafaggi storpi e sonnecchianti. Un vetturino si sporse dalla sua alta cassetta. Aveva un volto minuto, rosso e bonario. Andiamo, signorino? domandò. La carrozza tremò in tutte le giunture e i legamenti del suo corpo pluriarticolato, e si mosse sulle ruote leggere. Ma chi può fidarsi, in una notte simile, dei capricci di un imprevedibile cocchiere? Fra il cigolio dei raggi e il rimbombare del mantice e del cassone non riuscii a mettermi d'accordo con lui sulla meta della corsa.
Per tutta risposta egli scuoteva il capo con noncurante indulgenza e canterellava, mentre girava in cerchio per la città. Davanti a un'osteria stava un gruppo di vetturini che agitarono le mani amichevolmente verso di lui. Egli rispose loro qualcosa allegramente, poi, senza arrestare la corsa, mi gettò le redini sulle ginocchia, saltò giù da cassetta, e si unì alla schiera dei colleghi. Il cavallo, un vecchio, saggio cavallo da fiaccheraio, si guardò attorno frettolosamente e proseguì il suo trotto regolare. In verità quel cavallo ispirava fiducia, pareva più saggio del conducente. Ma io non sapevo guidare, bisognava dunque rimettersi alla sua volontà. Imboccammo una strada di periferia fiancheggiata da giardini. I giardini, a mano a mano che proseguivamo, si trasformavano in parchi di alberi d'alto fusto, e questi, via via, in boschi. Non dimenticherò mai quella corsa luminosa nella notte più chiara dell'inverno. La mappa colorata dei cieli si allargava in una cupola smisurata, sulla quale si sovrapponevano continenti, oceani e mari fantastici, disegnati dalle linee dei vortici e delle correnti stellari, linee luminose della geografia celeste. L'aria era divenuta leggera a respirare e lucente come una garza d'argento. C'era odore di violette. Sotto la neve lanosa come bianchi caracul, spuntavano anemoni tremolanti, con una scintilla di luce lunare nel calice delicato. L'intero bosco pareva risplendere di mille e mille lumini, di stelle che il firmamento decembrino versava a profusione. L'aria pareva esalare una primavera segreta, l'indicibile purezza della neve e delle violette. Entrammo in una zona collinosa. Le linee delle alture, irte dei rami nudi degli alberi, si levavano verso il cielo come sospiri di beatitudine. Vidi su quei felici pendii gruppi di girovaghi raccogliere fra il muschio e i cespugli le stelle cadute, bagnate di neve. La strada diveniva sempre più scoscesa, il cavallo scivolava e trascinava a fatica la vettura che cigolava in tutte le sue giunture. Ero felice. Respiravo a pieni polmoni quella beata primavera che era nell'aria, la freschezza delle stelle e della neve. Sul petto del cavallo si era ammucchiato un cumulo sempre più alto di schiuma bianca, nevosa. A stento il cavallo si apriva un varco attraverso quella massa pura e fresca. Alla fine si fermò. Scesi dalla carrozza. Respirava pesantemente a testa china. Strinsi al petto il suo muso, nei grandi occhi neri brillavano lacrime. Fu allora che notai sul suo ventre una ferita nera e rotonda. Perché non me lo hai detto? sussurrai fra le lacrime. L'ho fatto per te, mio caro, disse, e divenne piccolo piccolo, come un cavallo di legno. Lo lasciai. Mi sentivo stranamente leggero e felice. Ero incerto se aspettare la piccola ferrovia locale che passava di là, oppure tornare in città a piedi. Cominciai a scendere lungo la ripida serpentina attraverso il bosco, dapprima a passo leggero, elastico, poi, preso lo slancio, passai a una corsa rapida e felice, che si trasformò ben presto in una discesa in sci. Potevo regolare a mio piacere la velocità, dirigere la corsa per mezzo di lievi torsioni del corpo. Nelle vicinanze della città frenai quella corsa trionfale, trasformandola in una composta andatura da passeggiata. La luna era ancora alta. Le trasformazioni del cielo, le metamorfosi delle sue molteplici volte in sempre più ingegnose configurazioni non avevano fine. Come un astrolabio d'argento, il cielo scopriva in quella notte magica il suo meccanismo interno e mostrava nelle sue infinite evoluzioni l'aurea matematica delle sue ruote e dei suoi ingranaggi.
Sulla piazza del mercato incontrai gente che si godeva la passeggiatina.
Tutti, incantati dallo spettacolo di quella notte, avevano i volti sollevati e argentei per la magia del cielo. Alla faccenda del portafoglio cessai completamente di pensare. Mio padre, tutto assorto nelle sue stravaganze, aveva certamente dimenticato quella perdita; di mia madre non mi curavo. In una notte simile, unica all'anno, vengono felici pensieri, ispirazioni, tocchi profetici della mano divina. Pieno di idee e di progetti, volevo dirigermi verso casa, quando per strada mi imbattei in un gruppo di compagni con i libri sotto il braccio. Erano usciti troppo presto per andare a scuola, destati dal chiarore di quella notte che non voleva finire. Ce ne andammo tutti insieme a spasso per una strada scoscesa, da cui soffiava un odore di violette, incerti se fosse ancora la magia della notte a inargentare la neve, o se già sorgesse l'alba...
LA VIA DEI COCCODRILLI.
Mio padre conservava nell'ultimo cassetto della sua profonda scrivania una vecchia, bella pianta della nostra città. Era un intero volume infolio di pagine di pergamena, che unite originariamente per mezzo di strisce di stoffa formavano un'immensa pianta murale, a guisa di panorama a volo di uccello. Appesa alla parete, occupava quasi l'intera superficie della stanza e apriva la vista a perdita d'occhio su tutta la valle della Tysmienica, che si snodava serpeggiante in un nastro di oro pallido, sull'ampia distesa acquitrinosa delle paludi e degli stagni, sugli ultimi contrafforti delle montagne, che si dirigevano a sud, dapprima radi, poi in catene sempre più numerose, in una scacchiera di alture arrotondate sempre più piccole e pallide via via che si avvicinavano alla nebbia giallastra e fumosa dell'orizzonte. Da quella sbiadita lontananza periferica affiorava la città e cresceva, avanzando dapprima in masse ancora indifferenziate, in blocchi compatti e agglomerati di case, intagliati dai solchi profondi delle strade, poi, più vicino, si scindeva in singoli edifici, incisi con la rigorosa precisione dei panorami visti col cannocchiale. In quei piani ravvicinati l'incisore aveva saputo rendere la complessa e tumultuosa profusione delle vie e delle viuzze, la nitida evidenza dei cornicioni, architravi, archivolti e pilastri rilucenti nell'oro tardo e scuro del nuvoloso pomeriggio, che affondava le rientranze e le nicchie nel seppia profondo dell'ombra. I blocchi e i prismi di quell'ombra si stagliavano, come favi di miele scuro, nelle gole delle strade, affondavano nella loro massa tiepida e densa ora la metà di una via, ora la breccia fra due case, drammatizzando e orchestrando con il lugubre romanticismo dell'ombreggiatura quella molteplice polifonia architettonica. Su quella pianta, disegnata nello stile delle vedute barocche, il quartiere della Via dei Coccodrilli spiccava come un vuoto bianco, lo stesso con cui nelle carte geografiche si suole indicare le regioni polari, i paesi inesplorati e di incerta esistenza. Solamente le linee di alcune strade vi erano disegnate a tratti neri e provviste di nomi scritti in caratteri semplici, non ornati, a differenza dei nobili caratteri romani delle altre scritte. Evidentemente il cartografo si era rifiutato di riconoscere l'appartenenza di quel settore al nucleo della città e aveva manifestato la sua opposizione con quel trattamento differenziato e sprezzante. Per comprendere tale riserva dobbiamo ora rivolgere l'attenzione al carattere duplice e dubbio di quel quartiere, così diverso dal tono fondamentale dell'intiera città. Era un distretto industrialecommerciale, con un carattere di sobrio utilitarismo chiaramente sottolineato. Lo spirito del tempo, il meccanismo dell'economia non avevano risparmiato neppure la nostra città e avevano messo radici ai margini della sua periferia, dove si erano sviluppati in un quartiere parassita. Quando ancora nella città vecchia regnava un commercio notturno, clandestino, contrassegnato da una solenne cerimoniosità, nel nuovo quartiere erano subito fiorite moderne, sobrie forme commercialistiche. Lo pseudoamericanismo, innestato sul suolo vecchio e putrido della città, vi aveva fatto scaturire una vegetazione esuberante, ma vuota e incolore, di una pretenziosità volgare, meschina.
Vi si vedevano edifici costruiti con economia, miseramente, dalle facciate caricaturali, coperte di mostruose decorazioni di stucco tutto sgretolato. Le vecchie, sghembe casupole della periferia erano state gratificate di portali abborracciati frettolosamente, che, solo a guardarli un poco più da vicino, si rivelavano pedestri imitazioni degli ornamenti in voga nelle metropoli. Le vetrine sporche, opache e difettose, dove le buie immagini della strada si spezzettavano in riflessi ondeggianti, il legno mal piallato dei portali, la grigia atmosfera di quegli interni sterili, ricoperti di ragnatele e bioccoli di polvere, su per le alte scaffalature e lungo le pareti graffiate e scrostate, tutto lasciava su quelle botteghe il marchio di un selvaggio Klondyke. Così, uno dopo l'altro, si susseguivano le sartorie e i negozi di confezioni, i magazzini di porcellane, le drogherie, i saloni di barbieri. Le loro ampie vetrine grigie recavano, disposte in tralice o a semicerchio, scritte in caratteri dorati e in rilievo: Confiserie, Manucure, King of England. I cittadini originari da tempo si tenevano alla larga da quel quartiere, abitato dal popolino, dalla feccia, da creature senza carattere, senza spessore, da un vero e proprio ciarpame morale, da quella specie inferiore dell'uomo che nasce in simili ambienti effimeri. Ma nei giorni di disfatta, nelle ore di basse tentazioni accadeva che questo o quell'abitante della città si perdesse come per caso in quel dubbio quartiere. Anche i migliori non sfuggivano talvolta alla tentazione di degradarsi volontariamente, di livellare le frontiere e le gerarchie, di tuffarsi in quella superficiale fanghiglia di comunanza, di intimità facile, di turpe promiscuità. Quel quartiere era un eldorado per simili disertori morali, per quegli apostati dalla bandiera della propria dignità. Tutto là sembrava sospetto ed equivoco, tutto invitava, con un ammiccare segreto, con gesti cinicamente articolati, con una strizzatina d'occhio ben evidente, a formulare impure speranze, tutto scatenava i più bassi istinti. Erano pochi coloro che, non prevenuti, notavano la strana particolarità di quel quartiere: la mancanza dei colori, come se in quella città mediocre, cresciuta in fretta, non ci si fosse potuti permettere quel lusso. Tutto là era grigio come nelle fotografie monocolori, come nei prospetti illustrati.
Questa rassomiglianza varcava i limiti di una semplice metafora, giacché a volte, aggirandosi in quella parte della città, si aveva veramente l'impressione di sfogliare un prospetto o le noiose rubriche di pubblicità commerciale, in cui si annidavano, come parassiti, annunci sospetti, note scabrose, illustrazioni equivoche; quelle scorribande erano ugualmente sterili e inutili come gli eccitamenti della fantasia scatenata dagli impaginati e dalle colonne di certe riviste pornografiche. Si entrava, per esempio, da un sarto per ordinare un abito, un abito dall'eleganza a buon mercato, tipico di quel quartiere.
Il locale era grande e deserto, molto alto e incolore. Immense scaffalature a più ripiani si levano l'una sull'altra per tutta l'altezza sconfinata di quello stanzone. Le impalcature delle assi vuote portano lo sguardo in alto, su fino al soffitto, che potrebbe essere un cielo, il cielo scadente, sbiadito, graffiato di quel quartiere. Invece gli altri magazzini che si intravedono attraverso la porta aperta sono pieni fino al soffitto di scatole e cartoni, sovrapposti l'un l'altro a formare un enorme classificatore che, su in alto, sotto quel cielo vago del soppalco, si frantuma in una cubatura del vuoto, in una sterile incastellatura del nulla. Dalle grandi finestre grigie, quadrettate come fogli di carta protocollo, la luce non penetra, poiché lo spazio del negozio è ormai tutto riempito da una luce anonima e grigia, quasi acqua, che non fa ombre e non dà rilievo a niente. Subito appare un giovane snello, straordinariamente servizievole, malleabile, compiacente, pronto a soddisfare i nostri desideri, a sommergerci con il suo eloquio facile e spicciolo da commesso. Ma, mentre chiacchierando egli dispiega immense pezze di stoffa, misura, avvolge e drappeggia il fiotto interminabile di tessuto che scorre dalle sue mani, formando con le onde di quello redingote e calzoni illusori, tutte quelle manipolazioni si rivelano a un tratto irreali, un'apparenza, una commedia, un velo ironicamente gettato sul vero significato della faccenda. Le commesse, brune e slanciate, ognuna con una macchia nella propria bellezza (caratteristica di quel quartiere di articoli di scarto), vanno e vengono, si fermano sulla soglia del magazzino, sondano con gli occhi se l'affare in questione (affidato alle mani esperte del commesso) matura al punto giusto. Il commesso si profonde in moine, in smancerie, e a tratti dà l'impressione di essere un travestito. Verrebbe voglia di prenderlo per il mento delicato e pizzicarlo sulle guance pallide e incipriate, quando, con una mezza occhiata di intesa, attira discretamente l'attenzione sulla marca depositata della merce, marca di trasparente simbolismo. A poco a poco la questione della scelta del vestito passa in second'ordine. Quel giovanotto effeminato e smidollato fino alla corruzione, pieno di comprensione per le più intime emozioni del cliente, sciorina adesso davanti ai suoi occhi etichette particolari, un'intera biblioteca di marche depositate, una collezione da raffinato conoscitore. Si rivela allora che il magazzino di confezioni altro non era che la facciata dietro la quale si nascondeva un negozio d'antiquario, una raccolta di pubblicazioni altamente equivoche, di riviste particolari. Il servizievole commesso apre altri magazzini, pieni fino al soffitto di libri, incisioni e fotografie.
Quelle vignette, quelle incisioni oltrepassano di gran lunga i nostri sogni più arditi. Mai avevamo sospettato simili vette di corruzione, simili vagheggiamenti di lussuria. Le commesse passano e ripassano con sempre maggior frequenza fra quelle file di libri, grigie e cartacee, ma piene di pigmento sui volti sciupati, di quel pigmento scuro, tipico delle brune, dal nero lustro e untuoso che, acquattato nei loro occhi, all'improvviso ne sgorga fuori con l'incedere a zig zag di un luccicante scarafaggio. Ma anche nei loro consunti rossori, nelle stigmate piccanti dei nèi, nelle tracce pudibonde di peluria bruna si tradiva il loro sangue denso e nero. Quel colorante troppo intenso, quel moka spesso e aromatico pareva macchiare i libri che esse prendevano nelle mani olivastre, il loro tocco pareva tingerli e lasciare nell'aria una pioggia scura di lentiggini, una scia di rapé, come una vescia dallo stimolante odore animale. Frattanto la dissolutezza generale si è andata sempre più liberando dai freni delle apparenze. Il commesso, esaurita la sua attività pervicace, è lentamente scivolato in una passività femminea. Giace adesso sopra uno dei tanti canapè disseminati fra gli scaffali dei libri, in un pigiama di seta che scopre un décolleté muliebre. Le commesse ostentano l'una dopo l'altra le figure e le posizioni delle incisioni in copertina, altre già si assopiscono sui loro giacigli provvisori. La pressione sul cliente si è allentata. Lo si è lasciato al di fuori del cerchio di insistente interessamento, lo si è abbandonato a se stesso. Le commesse, tutte prese dalla conversazione, non gli accordano più attenzione. Voltandogli la schiena o girate di fianco, assumono pose arroganti, si dondolano sulle gambe, giocherellando sulle calzature vezzose, si lasciano percorrere lungo il corpo flessuoso da movimenti serpentini, assediando in tal modo, dietro la facciata di un'incurante irresponsabilità, l'eccitato spettatore che esse ignorano. Ed è così, calcolatamente, che ci si è ritirati, si è andati lentamente a fondo, lasciando ampio spazio libero all'attività dell'ospite. Ma approfittiamo di questo momento di disattenzione per sottrarci alle imprevedibili conseguenze di quella visita innocente e per riguadagnare la strada. Nessuno ci trattiene. Attraverso corridoi di libri, fra lunghe scansie di riviste e stampe, riusciamo ad abbandonare il negozio, ed eccoci in quel punto della Via dei Coccodrilli da cui, per la sua posizione elevata, si può vedere quell'ampio tratto di strada in quasi tutta la sua lunghezza, giù fino alle lontane costruzioni incompiute della stazione ferroviaria. E' una giornata grigia, come sempre in quel quartiere, e l'intera scena sembra a tratti una fotografia di giornale illustrato, tanto grigie, tanto piatte sono le case, le persone e i veicoli. Quella realtà è sottile come carta e da tutti i pori tradisce il suo carattere imitativo. In certi momenti si ha l'impressione che soltanto in quello scorcio che abbiamo di fronte tutto sia predisposto per dare l'immagine precisa di una grande arteria cittadina, mentre già ai lati quella mascherata estemporanea si decompone, si dissolve e, incapace com'è di sostenere fino in fondo la sua parte, si sgretola dinnanzi a noi in un ammasso di gesso e di segatura, nel magazzino di sbratto di un immenso teatro vuoto. La tensione della posa, la serietà artificiosa di una maschera, un pathos ironico vibrano su quella superficie. Ma siamo ben lontani dal voler smascherare quello spettacolo. Pur essendone perfettamente consapevoli, ci sentiamo trascinati dall'incanto deteriore del quartiere. Del resto non mancano nel quadro della città anche certi tratti di autoparodia. Le file di basse casette periferiche a un piano si alternano con edifici a più piani, che sembrano fatti di cartone e sono conglomerati di insegne, cieche finestre di uffici, vetrine grigiastre, réclame, numeri. Ai piedi delle case scorre il fiume della folla. La strada è larga come una grande arteria, ma il piano stradale è fatto, come nelle piazze dei villaggi, di terra battuta, è pieno di buche, pozzanghere ed erba. Il traffico stradale di quel quartiere è termine di confronto nella città, gli abitanti ne parlano con orgoglio e con una luce d'intesa nello sguardo. Quella folla grigia, impersonale è fin troppo compresa della sua funzione e mette ogni zelo nel creare l'illusione di una metropoli.
Tuttavia, nonostante l'aria affaccendata e piena di interesse, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un errante, monotono vagabondaggio senza meta, a un sonnolento corteo di marionette. Un'atmosfera di strana futilità impregna tutta la scena. La folla scorre con monotonia e, cosa strana, la si vede sempre in modo indistinto, le figure scivolano in una dolce e confusa baraonda, senza mai arrivare ad essere perfettamente chiare. Solo di tanto in tanto riusciamo ad afferrare in quel tumulto di teste uno sguardo bruno, vivace, una bombetta nera ben calzata sul capo, una mezza faccia spaccata da un sorriso, con le labbra che paiono aver detto qualcosa proprio in quel momento, una gamba sollevata nel passo e irrigidita ormai per sempre in quella posa. Caratteristica del quartiere sono le carrozze senza conducenti, che se ne vanno tutte sole per la strada. Non che manchino i vetturini, solo che essi, mischiati alla folla e presi da mille affari, non si curano delle loro vetture. In quel quartiere tutto apparenza e gesti vuoti non si attribuisce troppa importanza alla meta precisa di una corsa e i passeggeri si affidano a quei veicoli erranti con la leggerezza che caratterizza tutto. Talvolta è possibile vederli in certe curve pericolose mentre, tutti protesi fuori dalle loro vetture sconquassate, cercano di dirigere, con le redini in mano, una difficile manovra di sorpasso. In quel quartiere abbiamo anche i tram. Con ciò l'ambizione dei consiglieri municipali ha conseguito il suo più alto trionfo. Ma pietoso è l'aspetto di quelle vetture fatte di cartapesta, dalle pareti incurvate e ammaccate per l'uso pluriennale. Spesso manca loro completamente la parete anteriore, così che al passaggio si possono vedere i viaggiatori che siedono rigidi in atteggiamento dignitoso. Questi tram sono spinti da facchini municipali. Ma la cosa più curiosa è il sistema di comunicazioni ferroviarie della Via dei Coccodrilli. Di tanto in tanto, a differenti ore del giorno, sul finire della settimana si può osservare una folla di persone che attendono il treno a un incrocio della strada. Non si è mai sicuri se passerà e dove fermerà, e spesso accade che la gente si disponga in due punti diversi, non riuscendo ad accordarsi sul luogo esatto della fermata. Aspettano per ore, fermi in una folla nera e silenziosa lungo le tracce appena disegnate delle rotaie, con i volti di profilo, come una serie di pallide maschere di carta, ritagliate secondo una fantastica linea di ansiosa fissità. E infine, all'improvviso, arriva: ecco che è già sbucato dalla stradina laterale da cui lo si aspettava, schiacciato come un serpente, un trenino in miniatura con la sua piccola, tozza, ansimante locomotiva. E entrato in quel corridoio nero, e la strada si fa buia per la fila di vagoni che seminano polvere di carbone. L'ansimare oscuro della locomotiva, l'ondata di gravità strana, colma di tristezza, l'affrettarsi e l'innervosirsi della folla trasformano per un attimo la strada nella hall di una stazione ferroviaria in un precoce crepuscolo d'inverno. La piaga della nostra città sono il bagarinaggio dei biglietti ferroviari e la corruzione.
All'ultimo momento, quando il treno è già in stazione, si svolgono frettolose e agitate trattative con i corruttibili impiegati della strada ferrata. Prima che i negoziati siano conclusi, il treno si muove, seguito da una folla lenta e delusa che lo accompagna per un lungo tratto prima di disperdersi. La strada, ridotta per un istante a quell'improvvisata stazione, piena di ombre e del soffio di remote contrade, di nuovo si schiara, si allarga e torna a lasciar scorrere lungo il suo alveo la spensierata e monotona folla dei passanti che vaga in mezzo al cicaleccio dei conversari, fra le vetrine dei negozi, quei rettangoli sporchi, grigi, pieni di merce scadente, grandi manichini di cera e bambole di parrucchieri. Vestite in modo provocante, in lunghi abiti di pizzo, passano le prostitute. Possono essere del resto mogli di parrucchieri o di suonatori d'orchestra in qualche caffè. Camminano col passo elastico degli animali rapaci e portano sui volti cattivi e depravati una piccola tara che li annulla: o mandano storti i neri occhi strabici, o hanno un labbro fesso, oppure mancano loro i lobi del naso.
Gli abitanti della città sono fieri di quell'odore di depravazione che emana la Via dei Coccodrilli. «Non abbiamo niente da rifiutarci, pensano con orgoglio. Possiamo permetterci anche una vera e propria dissolutezza da grande città.» Credono, loro, che ogni donna in quel quartiere sia una cocotte. In realtà basta osservarne una qualsiasi, e subito si incontra uno di quegli sguardi insistenti, vischiosi, che ci congela di voluttuosa certezza. Perfino le ragazzine di scuola hanno qui un loro modo caratteristico di portare il fiocco, avanzano in una maniera tutta loro le gambe slanciate e hanno nello sguardo quella macchia impura in cui si cela la futura e preesistente depravazione. Eppure... eppure dobbiamo proprio tradire l'ultimo segreto di quel quartiere, il segreto accuratamente dissimulato della Via dei Coccodrilli? Più volte nel corso del nostro racconto abbiamo collocato certi segni premonitori, abbiamo delicatamente espresso le nostre riserve. Il lettore attento non sarà impreparato a questa svolta finale. Abbiamo parlato del carattere imitativo, illusorio del quartiere, ma questi termini hanno un significato troppo preciso e definitivo per descrivere l'intermediarietà e l'indecisione della sua realtà. La nostra lingua non possiede definizioni atte a dosare in qualche modo il grado di realtà, a precisarne il carattere duttile. Diciamolo francamente: la fatalità di quel quartiere è che niente vi si conclude, niente vi giunge a un suo definitivum, tutti i movimenti abbozzati restano sospesi nell'aria, tutti i gesti si esauriscono prematuratamente e non riescono ad oltrepassare un certo punto morto. Abbiamo già potuto osservare l'esuberanza e la prodigalità nelle intenzioni, nei progetti, nelle anticipazioni che caratterizzano questo quartiere. Tutto ciò non era altro che una fermentazione di desideri, prematuratamente rigogliosa e perciò impotente e vuota. In un'atmosfera di eccessiva facilità, ogni più lieve capriccio germoglia, ogni tensione passeggera sboccia e si sviluppa in escrescenze vuote, gonfie, spunta grigia e lieve una vegetazione di erbe pelose, di papaveri irsuti e incolori, fatta del tessuto imponderabile dell'allucinazione e dell'hascisc. Sull'intiero quartiere si stende un pigro e licenzioso fluido di peccato, e le case, i negozi, la gente talvolta sembrano soltanto un fremito sul suo corpo febbricitante, una pelle d'oca sopra i suoi sogni febbrili. Da nessun altro luogo come qui ci sentiamo minacciati dalle possibilità, sconvolti dall'approssimarsi dell'adempimento, resi pavidi e inerti dal voluttuoso sbigottimento dell'attuazione. Ma a questo punto finisce tutto. Una volta oltrepassato un certo grado di tensione, il flusso si ferma e arretra, l'atmosfera si spegne e sfiorisce, le possibilità sfumano e tornano nel nulla, i grigi, folli papaveri dell'eccitamento si riducono in cenere. Rimpiangeremo in eterno di essere allora usciti per un istante da quell'equivoco negozio di confezioni. Non riusciremo mai più a trovarlo. Vagheremo da un'insegna all'altra e ci sbaglieremo cento volte. Visiteremo decine di negozi, ne troveremo di tutt'affatto simili, ci aggireremo fra scaffali di libri, sfoglieremo riviste e pubblicazioni, conferiremo a lungo e confusamente con commesse dall'eccessiva pigmentazione e dalla bellezza imperfetta, che non riusciranno a comprendere i nostri desideri. Saranno coinvolti in malintesi: fino a quando la nostra febbre e l'eccitazione si saranno consumate in inutili sforzi, in un vano inseguimento. Le nostre speranze erano un equivoco, l'aspetto ambiguo del locale e del personale un'apparenza, le confezioni vere confezioni, e il commesso non aveva alcuna intenzione nascosta. Quanto alle donne della Via dei Coccodrilli si distinguono per una depravazione fra le più misurate, soffocata sotto spessi strati di pregiudizi morali e di banale volgarità. In quella città di materiale umano a buon mercato manca anche ogni esuberanza dell'istinto, mancano le passioni eccezionali e oscure. La Via dei Coccodrilli era una concessione della nostra città alla modernità e alla corruzione delle metropoli. Ovviamente non potevamo permetterci altro che un'imitazione di carta, come in un fotomontaggio fatto con i ritagli di vecchi giornali gualciti.
GLI SCARAFAGGI.
Accadde al tempo delle grigie giornate che seguirono la splendida coloritura dell'epoca geniale di mio padre. Furono lunghe settimane di depressione, settimane grevi senza feste né domeniche, sotto un cielo chiuso e in un paesaggio impoverito. Mio padre, allora, non c'era già più. Le stanze al piano superiore erano state riordinate e affittate a una telefonista. Di tutto il regno pennuto ci rimaneva un unico esemplare, il condor impagliato, che ora stava sopra la libreria in salotto. Nella fredda penombra delle tende chiuse, esso si reggeva, come da vivo, sopra una gamba sola, in una posa da saggio buddista, mentre l'amara, prosciugata faccia da asceta era pietrificata in un'espressione di sublime indifferenza e abnegazione. Gli occhi erano caduti, e dalle orbite consunte, lacrimose, sgorgava la segatura. Soltanto le cornee escrescenze egizie sopra il becco nudo e potente e sul collo calvo, le escrescenze e i grumi di un celeste sbiadito conferivano a quella testa senile un'aria solennemente ieratica. La sua veste di piume era ormai rosa in più punti dalle tarme ed aveva perduto le penne più morbide e grigie, che Adela, una volta la settimana, scopava via assieme all'anonima polvere della stanza. Nei punti più radi si poteva vedere la grossa tela bucata da cui spuntavano ciuffi di canapa. Nutrivo verso mia madre un segreto rancore per la facilità con cui era passata all'ordine del giorno sulla perdita di mio padre. «Non lo ha mai amato, pensavo, e siccome mio padre non ha messo radici nel cuore di nessuna donna, per questo non ha neppure potuto incarnarsi in nessuna realtà, ed è rimasto eternamente sospeso alla periferia della vita, nelle regioni semireali ai margini dell'esistenza. Neppure un'onesta morte cittadina si è meritato, pensavo. Tutto in lui doveva essere stravagante e dubbio.»
Decisi che al momento opportuno avrei colto di sorpresa mia madre con un discorso aperto. Quel giorno (era un greve giorno invernale e fin dal mattino si era diffuso un soffice manto crepuscolare) mia madre aveva l'emicrania ed era distesa tutta sola sul sofà del salotto. In quella stanza raramente usata, di rappresentanza, regnava dal tempo della morte di mio padre un ordine esemplare, mantenuto a furia di cera e spazzolone da Adela. I mobili erano coperti di fodere, tutti i soprammobili erano sottoposti alla ferrea disciplina che Adela aveva introdotto in quella stanza. Soltanto un fascio di penne di pavone disposte in un vaso sul comò non si era lasciato irreggimentare. Era un elemento malizioso, pericoloso, di inafferrabile rivoluzionarietà, come una classe di ginnasiali scatenati, tutti devozione negli occhi, ma dietro a quelli pieni di sfrenata impertinenza. Quegli occhi non cessavano durante il giorno di esplorare, perforavano i muri, ammiccavano, si affollavano sbattendo le ciglia e portando il dito alla bocca, gli uni sugli altri, fra risatine maliziose. Riempivano la stanza di chiacchiericci e mormorii, si disseminavano come farfalle attorno al lampadario a braccia, urtavano in folla colorata contro i vecchi specchi opachi, disabituati a tutto quel movimento e a quell'allegria, spiavano dal buco della serratura. Persino in presenza di mia madre che giaceva sul sofà con la testa bendata non riuscivano a trattenersi, facevano l'occhietto, si scambiavano cenni d'intesa, parlavano con il loro alfabeto muto, colorato, pieno di significati segreti. Mi irritavano quella complicità beffarda, quella connivenza ammiccante alle mie spalle. Le ginocchia strette contro il sofà di mia madre, tastando sovrappensiero con due dita il tessuto delicato della sua vestaglia, dissi come distrattamente: Volevo da tempo farti una domanda: è vero che è lui? E per quanto non indicassi il condor neppure con lo sguardo, mia madre indovinò subito, si confuse e abbassò gli occhi. Lasciai consapevolmente trascorrere un istante per assaporare il suo turbamento, quindi con tutta calma, dominando la collera crescente, domandai: Che senso hanno, allora, tutte le chiacchiere e fandonie che vai mettendo in giro su mio padre? Ma i suoi lineamenti che in un primo momento si erano stravolti nel panico, già si ricomponevano. Quale fandonie? domandò, socchiudendo gli occhi, che erano vuoti, colmi di azzurro cupo, senza bianco. Ne ho sentito parlare da Adela, dissi, ma so che provengono da te. Voglio conoscere la verità. La sua bocca tremava lievemente, le pupille, evitando il mio sguardo, si aggiravano negli angoli degli occhi. Non ho mentito, disse, mentre la bocca si gonfiava divenendo a un tempo più piccola. Sentivo che stava civettando con me, come una donna con un uomo. La storia di quegli scarafaggi è vera, tu stesso ricordi... Ero sconcertato.
Ricordavo in realtà quell'invasione di scarafaggi, il flusso nero e brulicante che aveva riempito l'oscurità di un notturno andirivieni da ragno. Tutte le fessure erano piene di antenne tremolanti, ogni spiraglio poteva vomitare all'improvviso uno scarafaggio, da ogni spaccatura dell'impiantito poteva sbucare una di quelle folgori nere, lanciata in un folle zig zag lungo il pavimento. Ah, quel selvaggio delirio di panico, tracciato con una linea nera guizzante sulle mattonelle! Ah, quelle grida terrorizzate di mio padre, che balzava di sedia in sedia con un giavellotto in mano! Senza toccare cibo né bevanda, il volto chiazzato per la febbre, una smorfia di disgusto impressa attorno alla bocca, mio padre era completamente inselvatichito.
E' evidente che nessun organismo può sopportare a lungo una simile carica di odio. Una spaventosa repulsione aveva trasformato la sua faccia in una pietrificata maschera tragica, in cui soltanto le pupille, nascoste sotto la palpebra inferiore, erano all'erta, tese come corde, in perenne sospetto. Con un urlo selvaggio balzava all'improvviso dal sedile, correva alla cieca in un angolo della stanza e già alzava il giavellotto con infilzato un enorme scarafaggio che agitava disperatamente il groviglio delle sue zampe. Adela giungeva allora in soccorso di mio padre, pallido per l'orrore, e prendeva in consegna la lancia insieme col suo trofeo per annegarlo nel secchio. E tuttavia, già allora non avrei saputo dire se queste immagini mi venivano istillate attraverso i racconti di Adela, o se io stesso ne ero stato testimone.
Mio padre, a quel tempo, non possedeva più quella capacità di resistenza che protegge le persone sane dal fascino della repulsione. Invece di tenersi lontano dalla terribile forza d'attrazione di quel fascino, mio padre, ormai in preda alla follia, vi si assoggettava sempre più. Le tristi conseguenze non si fecero attendere. Ben presto i primi sintomi sospetti apparvero riempiendoci di paura e tristezza. Il comportamento di mio padre cambiò. La sua pazzia, l'euforia del suo eccitamento svanirono. Nei gesti e nella mimica cominciarono a mostrarsi segni di cattiva coscienza. Prese ad evitarci. Si nascondeva per giornate intere negli angoli, negli armadi, sotto la trapunta. Lo vedevo talvolta mentre si osservava pensieroso le mani, si esaminava la consistenza della pelle, delle unghie, sulle quali cominciavano ad apparire macchie nere, simili a scaglie di scarafaggio. Di giorno riusciva ancora a resistere con quel tanto di forze che gli restavano e lottava, ma di notte quel fascino lo assaliva attaccandolo violentemente. Lo osservavo a notte fonda, alla luce della candela posata sul pavimento. Mio padre giaceva a terra nudo, cosparso di nere macchie da totem, tutto segnato dalle linee delle costole, dal fantastico disegno dell'anatomia che traspariva all'esterno; giaceva bocconi interamente dominato da quel fascino dell'avversione che lo trascinava nell'abisso dei suoi contorti recessi.
Mio padre si muoveva seguendo complessi, pluriarticolati movimenti di uno strano rituale, nel quale con orrore riconobbi un'imitazione del cerimoniale scarafaggesco. Da quel momento ripudiammo mio padre. La somiglianza con uno scarafaggio appariva ogni giorno più chiara: mio padre si era trasformato in uno di essi. Cominciammo ad abituarcisi. Lo vedevamo sempre più di rado, per settimane intiere scompariva chissà dove nelle sue regioni scarafaggesche; cessammo di distinguerlo, si era completamente fuso con quella singolare razza nera. Chi poteva dire se egli viveva ancora in una qualche fessura del pavimento? Se di notte correva su e giù per le stanze, tutto immerso in faccende scarafaggesche, o se per caso era fra gli insetti morti che Adela, ogni mattina, trovava a pancia in su, le zampe rigide, e che piena di ribrezzo raccoglieva nella pattumiera e poi gettava? Eppure dissi sconcertato, sono sicuro che quel condor è lui. Mia madre mi guardò da sotto le ciglia: Non tormentarmi, caro, ti ho già detto che tuo padre è in giro per il paese come commesso viaggiatore: e sai bene che talvolta di notte viene a casa per ripartirsene di nuovo prima dell'alba.
LA BUFERA.
Durante quel lungo e vuoto inverno l'oscurità produsse nella nostra città un raccolto immenso, centuplicato. Per troppo tempo, evidentemente, non si era fatto ordine nei solai e nei ripostigli, si erano ammucchiate pentole su pentole, fiasche su fiasche, si erano lasciate accumulare senza fine batterie di bottiglie vuote. Là, in quelle foreste bruciate, fitte di travi delle soffitte e dei tetti, l'oscurità aveva cominciato a degenerare, a fermentare liberamente. Là cominciarono quei neri parlamenti di pentole, quelle assemblee verbose e vane, quei ribollimenti gorgoglianti, quel borbogliare di bottiglie e bocce. Finché una notte, sotto le distese dei tetti, intere falangi di pentole e bottiglie si levarono, riversandosi in una grande folla compatta sulla città. Gli sbratti sbrattati dalle soffitte si dispiegavano l'uno dopo l'altro lanciandosi verso l'alto in nere pareti, mentre attraverso i loro echi distesi irrompevano cavalcate di assi e travi, cariche di cavalletti di legno, ginocchioni sui loro ginocchi d'abete, che una volta in libertà riempivano gli spazi notturni con un galoppo di capriate e un frastuono di spranghe e travicelli. Fu allora che si riversarono quelle nere fiumane, migrazioni di botti e bidoni, e corsero attraverso le notti. I loro neri, luccicanti, rumorosi assembramenti assediarono la città. Di notte quell'oscura ressa di stoviglie brulicava e fremeva come un esercito di pesci chiacchieroni, un'inarrestabile invasione di secchie vocianti e catini vaneggianti.
Tamburellando sul fondo si ammucchiavano i secchi, le botti e i bidoni, si dondolavano le bacinelle di terracotta dei vasai, mentre i vecchi cappelli e i cilindri dei dandies si arrampicavano l'uno sull'altro, innalzandosi al cielo in colonne che subito crollavano. E tutti sbattevano senza grazia i pioli delle loro lingue di legno, rimestavano goffamente nelle bocche di legno un borbottio di maledizioni e insulti, schizzando fango sugli interi spazi notturni. Fino a bestemmiare se stessi, a imprecare il suo. Richiamate dallo strepito delle stoviglie, spettegolanti da una riva all'altra, giunsero infine le carovane, si avanzarono le tende possenti dell'uragano e avvolsero la notte.
L'immenso accampamento, il nero anfiteatro mobile cominciò a calare in vortici potenti sulla città. E l'oscurità esplose in un'immensa bufera scatenata e infuriò per tre giorni e per tre notti... Oggi non andrai a scuola, disse al mattino mia madre, c'è una bufera terribile. Nella stanza fluttuava un delicato velo di fumo che odorava di resina. La stufa ululava e fischiava come se vi fosse stata legata dentro un'intera muta di cani o di demoni. La grossa, rozza pittura istoriata sulla sua pancia prominente si deformava in smorfie colorate, farneticava con le guance rigonfie. A piedi nudi corsi alla finestra. Il cielo era spazzato in lungo e in largo dai venti. Argenteo e vastissimo, era tutto intagliato di linee di forza, tese fino al limite di rottura, di solchi crudeli, simili a vene irrigidite di stagno e piombo. Suddiviso in campi magnetici e fremente per le varie tensioni, era pieno di dinamica nascosta. Vi erano disegnati i diagrammi della bufera che, invisibile e inafferrabile, caricava il paesaggio con la sua potenza. Non la si vedeva. La si riconosceva dalle case, dai tetti, nei quali entrava la sua furia. Una dopo l'altra le soffitte parevano gonfiarsi ed esplodere in follia, non appena la sua violenza vi penetrava. Essa ripuliva le piazze, lasciava dietro di sé un vuoto bianco nelle strade, scopava accuratamente l'ampio spazio della piazza del mercato. A mala pena qua e là si scorgeva, curva sotto la sua furia e tremante, una figura solitaria aggrappata allo spigolo di una casa. L'intera piazza pareva rigonfiarsi e luccicare come vuota calvizie sotto le sue raffiche potenti. Nel cielo il vento soffiava colori freddi e smorti, strisce verdognole, gialle, violette, lontane volte e arcate del suo labirinto.
I tetti sotto quei cieli apparivano neri e curvi, pieni di impazienza e di attesa. Quelli in cui era penetrato il vento si sollevavano in un moto di ispirazione, sovrastando le case vicine, e profetizzavano sotto il cielo scompigliato dal vento. Poi ricadevano e si afflosciavano, non riuscendo a contenere più a lungo quel soffio potente che correva oltre e riempiva lo spazio di frastuono e terrore. E di nuovo altre case si sollevavano con un grido, in un parossismo di chiaroveggenza, e vaticinavano. Gli enormi faggi attorno alla chiesa levavano le braccia al cielo, come testimoni di sconvolgenti rivelazioni, e gridavano, gridavano. Più in là, oltre i tetti della piazza, vedevo i lontani comignoli, le nude cuspidi delle case di periferia. Si arrampicavano l'uno sull'altro e crescevano, paralizzati dallo spavento e dallo stupore. Un remoto, freddo riflesso rosso li tingeva di colori tardivi.
Non pranzammo quel giorno, perché il fuoco nella cucina economica rientrava nella stanza in nugoli di fumo. Nelle camere faceva freddo e c'era odore di vento. Verso le due del pomeriggio in periferia scoppiò un incendio, che si estese violentemente. Mia madre si mise a imballare con Adela biancheria, pellicce e altri oggetti di valore. Venne la notte. L'uragano si intensificò in forza e violenza, crebbe a dismisura e invase lo spazio intero. Ora non visitava più le case e i tetti, ma costruiva al di sopra della città uno spazio a molti piani, più volte ripetuto, un nero labirinto che si espandeva in dimensioni infinite. Da quel labirinto esso faceva scaturire intere gallerie di stanze, estraeva fulmineo ali e larghi passaggi, dipanava tuonando lunghi corridoi, e poi lasciava crollare tutti quei piani immaginari, i voltoni e le casematte, e saliva ancora più su, a creare un'immensità amorfa con il suo soffio ispirato. La stanza tremava leggermente. I quadri tintinnavano alle pareti. I vetri brillavano al grasso riflesso della lampada. Le tende appese alla finestra si gonfiavano al soffio di quella notte tempestosa.
Ci ricordammo a un tratto che non si era più visto mio padre dal mattino. Doveva essersi recato in negozio molto presto, pensammo, e là lo aveva sorpreso la bufera, impedendogli di rincasare. Non ha mangiato niente in tutto il giorno, gemeva mia madre. Teodor, il capocommesso, si offrì di affrontare la notte e la bufera per portargli qualcosa da mangiare. Mio fratello si unì alla spedizione. Avvolti in ampie pellicce d'orso, si appesantirono le tasche di ferri da stiro e mortai, di zavorra che impedisse loro di essere trascinati via dal vento. Con precauzione fu aperta la porta che introduceva nella notte. Appena il commesso e mio fratello, con i loro mantelli rigonfi, ebbero posto piede nell'oscurità, subito la notte li inghiottì sulla soglia stessa di casa.
La bufera cancellò istantaneamente le tracce della loro uscita. Dalla finestra non si riusciva a vedere neppure la lanterna che avevano preso con loro. Dopo averli inghiottiti, la bufera per un istante si placò.
Adela e mia madre provarono di nuovo ad accendere il fuoco nella cucina.
I fiammiferi si spensero uno dopo l'altro, attraverso lo sportello uscivano folate di cenere e fuliggine. Ci mettemmo dietro la porta in ascolto. Negli ululati della bufera si poteva udire ogni tipo di voce, esortazioni, richiami, dialoghi. Ci pareva di distinguere invocazioni di aiuto lanciate da mio padre perduto nella bufera, e poi di nuovo credevamo di sentire mio fratello e Teodor discorrere incuranti dietro la porta. L'impressione era così verosimile che Adela aprì la porta, ed effettivamente vide Teodor e mio fratello riemergere a fatica dalla bufera in cui erano affondati fino al collo. Entrarono nell'ingresso ansimanti, richiudendosi faticosamente la porta alle spalle. Per un momento dovettero puntellarsi allo stipite, tanta era la violenza con cui la bufera infuriava contro la porta. Finalmente tirarono il paletto e il vento proseguì altrove la sua corsa. Raccontarono confusamente della notte, della bufera. Le loro pellicce, impregnate di vento, odoravano ora di aria aperta. Sbattevano le palpebre alla luce; i loro occhi ancora pieni della notte grondavano oscurità a ogni batter di ciglio. Non avevano potuto arrivare fino al negozio, si erano perduti per strada e a fatica erano riusciti a tornare indietro. Non avevano riconosciuto la città, tutte le strade parevano spostate. Mia madre sospettava che mentissero. Effettivamente tutta la scena dava l'impressione che durante quel quarto d'ora fossero rimasti nel buio sotto le finestre, senza allontanarsene affatto. Ma forse davvero la città e la piazza non esistevano più, e la bufera e la notte avevano circondato la nostra casa soltanto di oscure coulisse, piene di urla, sibili e lamenti. Forse quegli immensi, lugubri spazi che la bufera ci suggeriva non esistevano affatto, forse non esistevano né quei deplorevoli labirinti, né quei passaggi e corridoi dalle tante finestre nei quali il vento soffiava come entro lunghi flauti neri. Sempre più si rafforzava in noi la convinzione che tutta quella tempesta fosse soltanto una donchisciotteria notturna, volta a imitare nello spazio angusto di quelle coulisse la tragica immensità, il cosmico vagabondare da orfano della bufera. Sempre più spesso si apriva ora la porta dell'ingresso per lasciare entrare visitatori avvolti in gabbane e scialli. Ora un vicino, ora un conoscente, ansimante, si liberava lentamente dalla sciarpa, dal mantello, ed emetteva con voce fioca racconti, parole sconnesse, confuse, che ingrandivano fantasticamente, esageravano in modo spropositato le dimensioni della notte. Sedevamo tutti nella cucina chiaramente illuminata. Dietro la stufa e l'ampia cappa nera del camino una breve serie di gradini recava alla porta del solaio. Su quegli scalini sedeva il capocommesso Teodor, tutto teso ad ascoltare il frastuono del vento che soffiava nella soffitta. Negli intervalli della bufera udiva i mantici dell'ossatura del solaio ripiegarsi su se stessi e il tetto afflosciarsi e pendere come un immenso polmone da cui fosse uscito il respiro, e poi riprender fiato, drizzarsi in palizzate di capriate, innalzarsi come volte gotiche, espandersi in una foresta di travi, piena di echi centuplicati, e ululare come casse di enormi contrabbassi. Ma poi ci dimenticammo della bufera. Adela si mise a pestare rumorosamente la cannella nel mortaio.
Zia Perazja venne in visita. Minuta, svelta, perennemente indaffarata, col merletto del suo scialle nero sul capo, cominciò a correre su e giù per la cucina aiutando Adela. Adela pelava un gallo. Zia Perazja accese sotto la cappa del camino una manciata di carta, e larghe lingue di fuoco si levarono verso la gola nera. Adela, tenendo il gallo per il collo, lo sollevò sulla fiamma per bruciacchiarne i resti delle piume.
All'improvviso il gallo sbatté le ali, cantò e prese fuoco. Allora zia Perazja si mise a sbraitare, a lanciare bestemmie e imprecazioni.
Tremante per la collera, minacciava gesticolando Adela e mia madre. Non riuscivo a capire che cosa le stesse capitando, ma intanto lei si infuriava sempre più e diventava un solo fascio di gesticolazioni e di insulti. Pareva che in quell'accesso di rabbia dovesse gesticolare in tanti pezzi, scomporsi, frantumarsi, disperdersi in mille ragni, suddividersi sul pavimento in un nero e guizzante groviglio di corse pazze di scarafaggi. E invece cominciò improvvisamente a rimpicciolire, a restringersi, sempre scossa dal tremito e vomitante imprecazioni. A un tratto, ingobbita e piccola, trotterellò in un angolo della cucina dove stava la legna da ardere e, bestemmiando e tossendo, si mise a scegliere febbrilmente tra le fascine scricchiolanti finché trovò due sottili schegge gialle. Le afferrò con le mani malferme per l'agitazione, se le aggiustò alle gambe, quindi vi si issò sopra come se fossero trampoli, e reggendosi su quelle stampelle prese a camminare tamburellando l'assito del pavimento, correndo avanti e indietro lungo una linea obliqua, sempre più in fretta, sempre più in fretta; poi, continuando ad arrancare rumorosamente, salì sopra un banco di legno d'abete, e di là sopra la mensola dei piatti, una mensola sonora, di legno, che correva lungo le pareti della cucina, e la percorse tutta, caracollando sui trampoli, finché in un angolo, rimpicciolendo sempre più e facendosi tutta nera, si arrotolò come un pezzo di carta spiegazzata e bruciata, si consumò fino a ridursi una falda di cenere, si disintegrò in polvere, nel nulla. Noi tutti assistemmo impotenti a quel furioso accesso di collera, che aveva finito col distruggere e divorare se stessa. Con rincrescimento seguimmo il triste corso di quel parossismo, e con un certo sollievo tornammo alle nostre occupazioni, quando quel deplorevole processo giunse alla sua naturale conclusione. Adela fece di nuovo risuonare il mortaio, pestando la cannella. Mia madre riprese la conversazione interrotta, mentre il commesso Teodor nel tendere l'orecchio alle vaticinazioni del solaio faceva ridicole smorfie, sollevava alte le sopracciglia e ridacchiava fra sé.
LA NOTTE DELLA GRANDE STAGIONE.
Ognuno sa che in un seguito di anni comuni, normali, talvolta quel grande eccentrico che è il tempo crea dal suo seno altri anni, diversi, particolari, degeneri, ai quali come un sesto, piccolo dito in una mano cresce da qualche parte un tredicesimo, falso mese. Falso, dicevamo, perché raramente esso giunge a maturazione. Come i bambini concepiti a tarda età, rimane indietro nella crescita, resta un mese gobbo, un germoglio semiappassito, e più ipotetico che reale. La colpa di ciò risiede nell'incontinenza senile dell'estate, nella sua libidinosa e tardiva vitalità. Accade talvolta che agosto passi, e il vecchio e spesso tronco dell'estate continui per forza di abitudine a procreare, a generare dalle sue viscere tarlate questi giornipiante selvatiche, giornigramigna, sterili e idioti, a elargirci in sovrappiù, gratis, giornicartoccio di mais, vuoti e immangiabili, giorni bianchi, perennemente stupiti, inutili. Essi spuntano, irregolari e ineguali, informi e uniti fra di loro come dita di una mano mostruosa, appena sbocciate e ripiegate a pugno. Altri paragonano questi giorni ad apocrifi segretamente introdotti fra i capitoli del grande libro dell'anno, a palinsesti, nascostamente inseriti fra le sue pagine, oppure a quei fogli bianchi non stampati sui quali gli occhi, stanchi di leggere e saturi di contenuti, possono riversare le immagini e lasciare sbiadire i colori, sempre più e più su quelle pagine vuote, per riposare infine sulla loro nullità prima di essere trascinati nei labirinti di nuove avventure e di nuovi capitoli. Ah, quel vecchio romanzo ingiallito dell'anno, quel grande libro semisfasciato del calendario! Giace dimenticato chissà dove negli archivi del tempo, e il suo contenuto si accresce ancora in mezzo alle copertine, gonfiandosi senza posa con le chiacchiere dei mesi, con il rapido riprodursi delle invenzioni, con le ciance e i sogni che in esso si moltiplicano. Ah, anche trascrivendo questi miei racconti, ordinando queste storie di mio padre sul margine consunto del testo, non accarezzo forse la segreta speranza che essi un giorno siano inavvertitamente assorbiti fra le carte ingiallite di quel libro meraviglioso e in sfacelo, che penetrino nel gran frusciare delle sue pagine per esserne inghiottiti? Quello che racconteremo ora accadde proprio nel tredicesimo mese, soprannumerario e in certo senso falso, di quell'anno, nella quindicina di pagine vuote della grande cronaca del calendario. A quell'epoca le mattinate erano stranamente brusche e rinfrescanti. Dal ritmo più lento e freddo del tempo, dal profumo tutto nuovo dell'aria, dalla mutata consistenza della luce si capiva di essere entrati in un'altra serie di giorni, in una nuova epoca dell'Anno del Signore. La voce tremava, sotto quei nuovi cieli, sonora e chiara come in una casa ancor nuova e vuota, piena soltanto di odori di vernice e di pittura, di cose incominciate e non provate. Con una strana emozione si sperimentava una nuova eco, la si assaggiava con curiosità, come in un fresco e sobrio mattino, alla vigilia di un viaggio, si assaggia il pasticcino col caffè. Mio padre era di nuovo seduto dietro al banco posteriore del negozio, in uno stanzino a volta, che era quadrettato come un favo in tanti casellari pluricellulari, e si sfaldava all'infinito in strati di carta, lettere e fatture. Dal frusciar delle pagine, dall'incessante sfogliare delle carte scaturiva l'esistenza quadrettata e vuota di quella stanza, mentre i continui spostamenti dei fascicoli ricreavano nell'aria, attraverso le innumerevoli intestazioni commerciali, un'apoteosi in forma di città industriale, vista a volo d'uccello, irta di ciminiere fumanti, incorniciata da festoni di medaglie, chiusa nei ghirigori e negli svolazzi di pomposi «E» e «C.» Là sedeva mio padre, come in un'uccelliera, sopra un alto sgabello, mentre le piccionaie dei casellari frusciavano di fascicoli, e tutti i nidi e le nicchie erano pieni del cinguettio delle cifre. L'interno dell'ampio negozio si oscurava e si arricchiva di giorno in giorno di partite di panno, cheviot, velluto e tweed. Sugli scaffali bui, magazzini e dispense di fredda tinta feltrata, si potenziava l'oscura, decantata colorazione delle cose, si moltiplicava saturandosi il poderoso capitale dell'autunno. Là cresceva, nereggiava quel capitale, e si estendeva sempre più sugli scaffali, come nelle gallerie di un grande teatro, completandosi ancora, arricchendosi ogni mattino di nuove forniture di merce, che in casse e balle, assieme al freddo mattutino, facchini lamentosi, irsuti, portavano sulle loro spalle da orsi fra odore di frescura autunnale e di wòdka. I commessi scaricavano quelle nuove partite di tessuti saturi di colore e riempivano con quelli, otturavano tutti i buchi e le fessure degli alti armadi. Era come un immenso registro di tutte le tinte dell'autunno, disposto a strati, assortito per sfumature, che percorreva su e giù, come nelle scale musicali, l'intera gamma delle ottave colorate. Cominciava dal basso e tristemente, timidamente tentava le scoloriture e i semitoni del contralto, passava poi alle ceneri stinte della lontananza, agli azzurri dei gobelin, e risalendo verso l'alto in accordi sempre più ampi, giungeva ai cupi turchini, all'indaco dei boschi remoti e alle soffici densità dei parchi fruscianti, per entrare infine, attraverso tutti gli ocra, sanguigno, ruggine e seppia, nell'ombra sussurrante dei giardini appassiti e arrivare all'oscuro odore dei funghi, alle zaffate di legno marcio nelle profondità della notte autunnale e al sordo accompagnamento dei bassi più cupi. Mio padre passava lungo gli arsenali di quell'autunno tessile, e calmava, placava quelle masse, la loro forza crescente, la quieta potenza della Stagione. Voleva mantenere il più a lungo possibile intatte quelle riserve di colori immagazzinati. Aveva paura di intaccare, di trasformare in moneta spicciola quel capitale aureo dell'autunno. Ma sapeva, sentiva che sarebbe presto giunto il momento in cui il vento autunnale, un vento devastatore e ancor caldo, avrebbe soffiato su quegli armadi, e questi allora avrebbero ceduto e niente sarebbe riuscito a contenere la loro piena, quelle fiumane di colore che avrebbero inondato l'intera città. Si avvicinava il momento della Grande Stagione. Le vie si animavano. Alle sei del pomeriggio la città era febbricitante, le case si coprivano di rossori, la gente si aggirava animata come da un fuoco interiore, vistosamente truccata e dipinta, gli occhi lucidi di una febbre festiva, bella e malvagia. Nelle strade laterali, nei vicoli tranquilli che finivano già nelle regioni della sera, la città era deserta. Solo i bambini giocavano nelle piazzette sotto i balconi, giocavano senza respiro, rumorosamente, assurdamente. Si portavano alla bocca piccole vesciche e ci soffiavano dentro per imporporarsi all'improvviso violentemente come bargiglioni gloglottanti e gurguglianti di tacchino, o trasformarsi in una stupida maschera gallesca, rossa e chicchirichiante, in colorati travestimenti autunnali, fantastici e assurdi. Pareva che così gonfi e chicchirichianti dovessero sollevarsi nell'aria in lunghe catene colorate e sorvolare la città come stormi di uccelli migratori: fantastiche flottiglie fatte di carta velina e di tempo autunnale.
Oppure si spingevano gridando sopra carretti rumorosi che rotolavano in un colorato frastuono di ruote, raggi e sterzi. I carretti, carichi delle loro grida, scendevano a precipizio giù per la strada fino al giallo e piatto fiumiciattolo vespertino, dove si fracassavano in un ammasso di rotelle, cunei e schegge. E mentre i giochi infantili si facevano sempre più rumorosi e confusi, e i rossori della città si scurivano e fiorivano di porpora, all'improvviso il mondo intero cominciava ad appassire, ad annerire, e subito secerneva un incerto crepuscolo che contagiava ogni cosa. Traditore e velenoso, quel contagio si propagava attorno, andava di cosa in cosa, e tutto ciò che toccava, immediatamente putrefaceva, anneriva, si riduceva in polvere. La gente fuggiva dinnanzi al crepuscolo in panico silenzioso, ma subito quel morbo la raggiungeva e fioriva sulle fronti in un'eruzione scura; i volti scomparivano e cadevano in grandi macchie informi, e la gente proseguiva ormai senza tratti, senza occhi, seminando per via una maschera dopo l'altra, così che il crepuscolo pullulava di queste larve abbandonate, disperse nella fuga. Poi tutto si ricopriva di una nera scorza putrescente che si squamava in grandi falde, in croste malaticce d'ombra. E mentre in basso tutto si dissolveva e si annullava in quel silenzioso disordine, nel panico di una rapida decomposizione, in alto perdurava ancora e s'innalzava sempre più il muto allarme del tramonto, palpitante per il tintinnio di un milione di silenziosi campanelli sollevati nell'ascesa di un milione di invisibili allodole che volavano assieme in un'unica sconfinata immensità d'argento. Poi fu subito notte, una notte vasta, ancor più accresciuta dal soffiare del vento che la dilatava. Nel suo labirinto molteplice erano incassati nidi di luce: negozi, grandi lampioni colorati, colmi di merce accatastata e del frastuono di clienti. Attraverso i vetri chiari di quei lampioni si poteva seguire il rito rumoroso, pieno di uno strano cerimoniale, degli acquisti autunnali. Quella grande notte d'autunno ondulata, ampia d'ombre, dilatata dai venti, celava nelle sue nere pieghe tasche luminose, sacchetti di cianfrusaglia colorata, di articoli variopinti, cioccolatini, biscotti, generi coloniali dai mille colori. Quelle baracche e bottegucce, fatte di scatole di caramelle, vistosamente tappezzate di réclame di cioccolata, piene di saponette, di allegra paccottiglia, sciocchezzuole dorate, stagnole, trombette, wafer e mente colorate, erano stazioni di leggerezza, sonagli di spensieratezza, disseminati negli abissi dell'immensa notte tortuosa e battuta dai venti. Grandi folle nere scorrevano nell'oscurità, in una baraonda chiassosa, in uno strascicare di migliaia di piedi, in un chiacchiericcio di migliaia di bocche: brulicante, confusa migrazione lungo le arterie della città autunnale. Così scorreva quel fiume, pieno di brusio, di sguardi oscuri, di occhiate astute, inframmezzato dalle conversazioni, spezzettato dal cicaleccio, enorme impasto di pettegolezzi, risa e grida. Pareva che si fosse messa in moto una folla di teste di papavero, secche, autunnali, spargenti tutt'attorno i loro semi: testesonagli, uominibatacchi. Mio padre, col viso in fiamme e gli occhi lampeggianti, passeggiava nervosamente su e giù per il negozio chiaramente illuminato e tendeva l'orecchio. Attraverso i cristalli della vetrina e della porta entrava là dentro il lontano mormorio della città, il brusio soffocato della folla in movimento. Sopra il silenzio del negozio bruciava chiara una lampada a petrolio, sospesa alla grande volta, e scacciava ogni minima traccia d'ombra dalle fessure e dai cantucci. Il pavimento, vasto e vuoto, scricchiolava nel silenzio e a quella luce contava in lungo e in largo i suoi luccicanti quadrati, scacchiera di tavole che conversavano tra loro crepitando e si rispondevano ora qui ora là con schianti sonori. I tessuti, invece, se ne stavano quieti e silenziosi nella loro felpatura ovattata e si lanciavano occhiate lungo le pareti, alle spalle di mio padre, si scambiavano da un armadio all'altro taciti segni d'intesa. Mio padre stava in ascolto. Le sue orecchie in quel silenzio notturno parevano allungarsi e ramificarsi oltre la finestra: fantastico corallo, polipo rosso ondeggiante nelle torbide acque della notte. Tendeva l'orecchio e ascoltava. Ascoltava con inquietudine crescente la marea della folla che avanzava. Con terrore si guardava attorno nel negozio vuoto. Cercava i commessi. Ma quegli angeli bruni o rossicci erano scomparsi chissà dove.
Era rimasto soltanto lui, terrorizzato all'idea di quelle folle che ben presto avrebbero invaso la quiete del negozio in orde rumorose e saccheggiatrici e si sarebbero spartite, disputate come a un'asta tutto quel ricco autunno, da anni e anni accumulato in quel grande e appartato granaio. Dov'erano i commessi? Dov'erano quei bei cherubini cui spettava di difendere le oscure scorte di tessuti? Mio padre ebbe il doloroso sospetto che essi peccassero in qualche remoto angolo della casa con le figlie degli uomini. Immobile e pieno di apprensione, gli occhi lampeggianti nel silenzio chiaro del negozio, egli avvertiva con una sorta di udito interno ciò che accadeva nelle profondità della casa, negli estremi recessi di quel grande lampione colorato. La casa si apriva dinanzi a lui, stanza dopo stanza, camera dopo camera, come una casa fatta di carte, ed egli vedeva i commessi a caccia di Adela attraverso tutte le stanze vuote e illuminate, giù per le scale, su per altre scale, finché essa riusciva a sfuggire loro e a raggiungere la cucina chiara, dove si barricava dietro la credenza. Là essa si fermava, affannata, lucente, divertita, battendo le lunghe ciglia nel sorriso. I commessi ridacchiavano, accovacciati dietro la porta, La finestra della cucina era aperta sulla notte vasta e nera, piena di intricate fantasticherie. I vetri neri, socchiusi splendevano al riflesso di un'illuminazione lontana. Lucide pentole e bottiglie stavano attorno immobili e mandavano nel silenzio bagliori di smalto grasso. Adela sporgeva cautamente dalla finestra il volto dipinto, truccato, dagli occhi frementi. Cercava i commessi nel cortile scuro, subodorando un agguato. E finalmente li vide camminare prudentemente in fila indiana sullo stretto cornicione che correva sotto le finestre lungo la parete, rossa per il riflesso di una luce lontana, e accostarsi con cautela alla finestra. Mio padre lanciò un grido di rabbia e di disperazione, ma in quello stesso istante il rumore delle voci divenne vicinissimo e all'improvviso le vetrine chiare del negozio si affollarono di volti vicini, deformati dal gran ridere, volti parlanti, che appiattivano il naso contro le vetrine lucenti. Mio padre si fece di porpora per l'agitazione e saltò sul banco. E quando la folla mosse all'assalto della fortezza e in orda rumorosa fece irruzione nel negozio, mio padre con un balzo si arrampicò sullo scaffale delle stoffe e, appeso lassù, alto sopra la folla, dette fiato con tutte le sue forze a un immenso sciofar e suonò l'allarme. Ma la volta non si riempì del fruscio degli angeli accorrenti in soccorso, anzi, ad ogni gemito del corno corrispondeva il grande coro sghignazzante della folla. Smerciare, Jakub! Vendere, Jakub! gridavano tutti, e quelle grida ripetute in continuazione ritmavano in coro e si trasformavano lentamente nella melodia di un ritornello intonato da tutte le gole assieme. Allora mio padre si dette per vinto, saltò giù dall'alta cornice e con un grido si gettò sulle barricate di stoffa. Ingigantito dall'ira, il capo rigonfio in un pugno purpureo si lanciò come un profeta in lotta sulle scorte di tessuti e prese a scatenarsi contro di quelle. Faceva forza con tutto il peso del corpo sulle possenti balle di lana, sollevandole dal loro posto, si infilava sotto immense pezze di stoffa e le scaricava sul banco con sordo fracasso. Le balle volavano dispiegandosi con un frullo nell'aria a formare immensi stendardi, gli scaffali esplodevano da ogni parte in scoppi di drapperie, cascate di stoffe, come sotto i colpi della verga di Mosè. Così si disperdevano le provviste degli armadi, violentemente espulse, rovesciandosi in ampie fiumane. Così scorreva via il contenuto variopinto degli scaffali, cresceva, si moltiplicava, inondando tutti i banchi ed i tavoli. Le pareti del negozio sparirono sotto le potenti formazioni di quella cosmogonia di tessuti, sotto quelle catene montuose che si accatastavano in imponenti massicci. Ampie vallate si aprivano fra pendii scoscesi, mentre le linee dei continenti tuonavano nel vasto pathos delle vette. Lo spazio del negozio si ampliava nel panorama di un paesaggio autunnale, pieno di laghi e di lontananze: su quello sfondo mio padre si aggirava fra le pieghe e le valli di una fantastica terra di Canaan, vagava a grandi passi, le mani profeticamente levate al cielo, e plasmava il paesaggio a colpi di ispirazione. E in basso, ai piedi di quel Sinai sorto dalla collera di mio padre, il popolo gesticolava, imprecava, adorava Baal e contrattava.
Affondavano le mani dentro le pieghe morbide, si drappeggiavano nelle stoffe colorate, si avvolgevano in dòmini e mantelli improvvisati, e parlavano confusamente e senza posa. Mio padre sorgeva improvvisamente al di sopra di quei gruppi di acquirenti ingigantito dalla collera, e tuonava dall'alto contro gli idolatri col suo verbo possente. Quindi, trascinato dalla disperazione, si arrampicava ancora sulle alte gallerie degli armadi, correva all'impazzata lungo le tavole degli scaffali, lungo le assi rimbombanti delle impalcature nude, inseguito dalle immagini di spudorata lussuria che supponeva svolgersi alle sue spalle nelle profondità della casa. I commessi avevano proprio allora raggiunto il balcone di ferro all'altezza della finestra e, appesi alla balaustra, avevano afferrato Adela alla vita e la tiravano verso la finestra, mentre lei sbatteva gli occhi e si trascinava dietro le gambe snelle inguainate di seta. Mio padre, annichilito dall'odiosità del peccato, si integrava, mediante la collera dei gesti, nell'orrore del paesaggio; e intanto in basso lo sconsiderato popolo di Baal si abbandonava a un'allegria sfrenata. Una passione parodistica, un'epidemia di riso si era impadronita di quella marmaglia. Come si poteva esigere serietà da loro, da quel popolo di batacchi e di schiaccianoci? Come si poteva esigere comprensione per le gravi angosce di mio padre da quei macinini che macinavano incessantemente una colorata poltiglia di parole? Sordi ai fulmini di quella collera profetica, i mercanti in cappe di seta si accovacciavano a piccoli gruppi intorno alle montagne sinuose di tessuto, discutendo animatamente, in mezzo a scoppi di risa, sulla qualità della merce. Quella borsa nera polverizzava nelle sue lingue veloci la nobile sostanza del paesaggio, la triturava in un impasto di chiacchiere e quasi l'inghiottiva. Altrove, gruppi di ebrei in gabbani colorati e grandi colbacchi di pelo stavano dinanzi alle alte cascate di stoffa chiara. Erano membri del Grande Sinedrio, signori distinti e pieni di affettazione che si lisciavano le lunghe barbe ben curate e tenevano sobrie e diplomatiche conversazioni. Ma anche in quei discorsi cerimoniosi, negli sguardi che si scambiavano, c'era un barlume di sorridente ironia. Fra quei gruppi circolava la gente comune, una folla amorfa, plebaglia senza volto e senza individualità. Essa pareva colmare le brecce del paesaggio, tappezzare lo sfondo con i campanelli e i sonagli di un vacuo cicaleccio. Era un elemento buffonesco, una folla danzante di Pulcinella e Arlecchini, che, senza alcuna seria intenzione di fare acquisti, con i suoi scherzi da pagliaccio portava all'assurdo le transazioni che qua e là si venivano intrecciando. A poco a poco, tuttavia, stanco delle sue buffonerie, quel popolino allegro si disperdeva in più remote zone del paesaggio e là lentamente spariva negli anfratti rocciosi e nelle valli. Probabilmente quei buontemponi si inabissavano uno dopo l'altro in qualche crepaccio o piega del terreno, così come i bambini stanchi di giocare scompaiono negli angoli e nei cantucci della casa nella notte in un ballo. Frattanto gli anziani della città, i membri del Grande Sinedrio, si aggiravano in gruppi seri e dignitosi, sostenendo a voce bassa profonde discussioni. Sparpagliati in quel vasto paesaggio montuoso, passeggiavano a due, a tre, lungo strade lontane e tortuose. Le loro piccole e scure silhouette popolavano l'intero altopiano deserto, sul quale gravava un cielo greve e fosco, pieghettato e nuvoloso, arato in lunghi solchi paralleli, in strisce argentate e bianche che mettevano a nudo in profondità sempre nuovi livelli della sua stratificazione. La luce della lampada creava un giorno artificiale nel paesaggio, un giorno strano, senza alba né tramonto. Mio padre si calmava a poco a poco. La sua collera si depositava congelandosi nei vari piani e strati del paesaggio. Sedeva adesso nelle gallerie degli alti scaffali e guardava l'orizzonte lontano, autunneggiante. Scorgeva una scena di pesca sopra laghi remoti.
Nei fragili gusci delle barche sedevano a due a due i pescatori, che gettavano le reti in acqua. Sulla riva garzoni portavano sul capo ceste ricolme di pesca palpitante, argentea. Fu allora che scorse un gruppo di viandanti levare in lontananza le facce al cielo, indicando qualcosa con le braccia levate. E subito il cielo brulicò di una sorta di eruzione colorata, fiorì di chiazze ondeggianti che crescevano, maturavano e subito riempivano lo spazio di uno strano popolo di uccelli volteggianti e roteanti in grandi spirali intersecantisi. Il cielo intero era riempito dal loro volo elevato, dal battito delle loro ali, dalle linee maestose delle loro silenziose planate. Alcuni, come immense cicogne, fluttuavano immobili sulle ali tranquillamente spiegate, altri, simili a colorati pennacchi, a trofei barbari, annaspavano pesantemente e senza grazia per mantenersi sulle onde dell'aura tiepida; altri infine, informi conglomerati di ali, zampe potenti e colli spennacchiati, ricordavano avvoltoi e condor male impagliati, dai quali si spande a fiotti la segatura. C'erano fra loro uccelli a due teste, uccelli plurialati, c'erano anche sciancati, claudicanti nell'aria, in un volo monoalato, goffo. Il cielo era diventato simile a un antico affresco, pieno di mostri e animali fantastici che volteggiavano, si rasentavano, e di nuovo tornavano in ellissi variopinte. Mio padre si issò sul pennone, circonfuso di luce improvvisa, e tese le mani chiamando gli uccelli con un'antica magia. Li aveva riconosciuti, pieno di emozione.
Era la lontana, dimenticata progenie di quella generazione di uccelli che un tempo Adela aveva disperso ai quattro venti. Tornava adesso, corrotta e lussureggiante, quella progenie artificiale, quella razza degenere di uccelli, avvizzita all'interno. Stupidamente cresciuta, assurdamente ingigantita, essa era vuota dentro e senza vita. Tutta la vitalità di quegli uccelli era passata nelle loro piume, lussureggiava in una dimensione fantastica. Era come un museo di specie estinte, come i ruderi di un Paradiso degli uccelli. Alcuni volavano sul dorso, avevano grossi becchi deformi, simili a lucchetti e a serrature, carichi di escrescenze colorate, ed erano ciechi. Quale emozione fu per mio padre quel ritorno inatteso! Come rimase stupito dall'istinto di quegli uccelli, dall'attaccamento al Maestro che quel popolo esiliato aveva conservato nell'animo come una leggenda, per tornare infine, dopo molte generazioni, proprio l'ultimo giorno prima dell'estinzione della razza, all'antica Patria! Ma quegli uccelli ciechi, fatti di cartapesta, non potevano più riconoscere mio padre. Invano egli li chiamava con le antiche magie, con il linguaggio dimenticato degli uccelli: non lo udivano e non lo vedevano. Improvvisamente pietre fischiarono nell'aria.
Quell'allegra, stupida e sventata genia si era messa a lanciare proiettili in quel fantastico cielo di uccelli. Invano mio padre li ammonì, invano li minacciò con gesti magici. Non fu ascoltato, non fu visto. E gli uccelli cadevano. Colpiti dai proiettili, ricadevano pesantemente e si afflosciavano già in aria. Ancor prima di toccare terra erano soltanto un ammasso informe di piume. In un batter d'occhio tutto l'altopiano si coprì di quelle strane, fantastiche carogne. Prima che mio padre accorresse sul luogo della strage, tutto quel meraviglioso popolo di uccelli giaceva morto, sparpagliato sulle rocce. Soltanto allora, da vicino, mio padre poté valutare tutta la meschinità di quella generazione impoverita, tutta la ridicolaggine di quell'anatomia dozzinale. Non erano altro che enormi ciuffi di penne, imbottiti alla meno peggio di putridume. In molti non si riusciva a distinguere la testa, giacché quella parte del corpo a forma di bastone non recava alcun segno dell'anima. Alcuni erano coperti di una sorta di vello appiccicoso, come bisonti, e puzzavano atrocemente. Altri ricordavano cammelli morti, gibbosi e calvi. Altri, infine, erano evidentemente fatti con un certo tipo di carta, vuoti dentro e splendidamente colorati fuori. Alcuni da vicino si rivelavano nient'altro che grandi code di pavone, ventagli variopinti, nei quali si era riusciti a infondere, non si sa bene come, una qualche apparenza di vita. Ho assistito al triste ritorno di mio padre. Il giorno artificiale si tingeva ormai a poco a poco dei colori di un'alba qualsiasi. Nel negozio deserto gli scaffali più alti traboccavano delle tinte di un cielo mattutino. In mezzo ai frammenti del paesaggio ormai spento, tra le quinte distrutte dello scenario notturno, mio padre osservava i commessi destarsi dal sonno.
Spuntavano fra le balle di stoffa e sbadigliavano al sole. Nella cucina, al primo piano, Adela, calda di sonno e scarmigliata, macinava il caffè stringendosi il macinino al seno bianco, da cui i grani ricevevano luce e calore. Il gatto si lavava al sole.
IL SANATORIO ALL'INSEGNA DELLA CLESSIDRA. IL LIBRO.
«Jòzefina Szelinska Il Libro
Lo chiamerò semplicemente Libro, senza alcuna definizione o epiteto, e c'è in questa astinenza e restrizione un sospiro di perplessità, una tacita capitolazione di fronte all'inafferrabilità del trascendente, giacché nessuna parola, nessuna allusione riuscirà mai a brillare, odorare, scorrere con quel fremito di terrore, presentimento della cosa senza nome, il cui solo primo gusto sulla punta della lingua va oltre la capacità della nostra estasi. A che cosa mai servirebbe il pathos degli aggettivi e l'ampollosità degli epiteti di fronte a questa cosa incommensurabile, a questo incalcolabile splendore? Il lettore, del resto, il vero lettore, sul quale fa affidamento questo racconto, capirà anche così, quando lo guarderò profondamente negli occhi e in fondo ad essi brillerò di quella luce. In quello sguardo breve e intenso, in quella fuggevole stretta di mano egli coglierà, afferrerà, riconoscerà e socchiuderà gli occhi estasiato per quella profonda ricezione. E infatti, sotto il tavolo che ci divide, non ci teniamo forse tutti segretamente per mano? Il Libro... Sul mattino dell'infanzia, ai primi albori della vita l'orizzonte si era rischiarato alla sua luce soave.
Giaceva glorioso sulla scrivania di mio padre e questi, immersovi in silenzio, strofinava pazientemente col dito bagnato di saliva il dorso di quelle calcomanie, finché la carta opaca cominciava ad annebbiarsi, a intorbidarsi, a baluginare in un dolce presentimento e all'improvviso si sfaldava in tanti pezzi di carta assorbente e svelava un bordo ciliato, a occhio di pavone, e lo sguardo scivolava languendo in un'alba vergine di colori divini, in un prodigioso umidore di azzurri purissimi. Oh, rivelazione, oh, invasione di luce, oh, dolce primavera, oh, padre...
Talvolta mio padre si sollevava dal Libro e si allontanava. Allora rimanevo a tu per tu con quello, e il vento passava attraverso le sue pagine e le immagini ne balzavano fuori. E mentre il vento sfogliava così in silenzio quelle carte, soffiandone fuori colori e figure, fra le colonne del testo correva un fremito che lasciava sfuggire fra le lettere stormi di rondini e allodole. Così prendeva il volo, sparpagliandosi, una pagina dopo l'altra, e penetrava dolcemente nel paesaggio che saturava di colore. Talvolta dormiva e il vento allora lo disperdeva silenziosamente, come una rosa multipla, e ne schiudeva le foglie, un petalo dopo l'altro, una palpebra dopo l'altra, tutte cieche, vellutate e assopite, celanti nel loro nucleo, in fondo in fondo, una pupilla azzurra, un occhio di pavone, un nido urlante di colibrì. Questo accadeva molto tempo fa. Mia madre ancora non c'era. Trascorrevo i giorni solo con mio padre nella nostra stanza, allora grande come un mondo intero. I cristalli prismatici che pendevano dal lampadario riempivano la stanza di colori frantumati, di un arcobaleno spruzzato in tutti gli angoli, e quando la lampada ruotava sulla catena, tutta la stanza si muoveva con quei frammenti di arcobaleno, come se le sfere dei sette pianeti si spostassero girando l'una sull'altra. Mi piaceva stare fra le ginocchia di mio padre, abbracciandole di qua e di là, come colonne. A volte scriveva lettere. Sedevo alla scrivania e seguivo estatico gli svolazzi della firma, contorti e volteggianti come trilli di un soprano leggero. Nelle tappezzerie germogliavano sorrisi, si schiudevano occhi, rimbalzavano scherzi. Per farmi divertire, mio padre lanciava da una lunga cannuccia bolle di sapone nello spazio dell'arcobaleno. Andavano a sbattere contro la parete e scoppiavano lasciando nell'aria i loro colori. Poi sopraggiunse mia madre e quel precoce, limpido idillio finì. Sedotto dalle sue carezze, dimenticai mio padre, la mia vita prese una svolta nuova, diversa, senza feste né miracoli, e avrei forse per sempre dimenticato il Libro, se non fosse stato per quella notte e per quel sogno. Ii. Mi destai una volta in un fosco mattino invernale sotto la coltre delle tenebre ardeva, laggiù in lontananza, una livida aurora e avendo ancora negli occhi un brulicare di figure e segni nebulosi, presi a farneticare oscuramente, confusamente, fra il tormento e un diverso rimorso, del vecchio Libro scomparso. Nessuno mi capiva ed io, esasperato da quella ottusità, cominciai a infastidire, a molestare con insistenza i genitori in uno stato di febbrile impazienza. Scalzo e con la sola camicia addosso mi misi a sfogliare, tremante per l'eccitazione, la biblioteca di mio padre, e deluso, furibondo, cercavo di descrivere incoerentemente dinanzi a un uditorio sbalordito quella cosa che non si poteva descrivere e che nessuna parola, nessuna immagine tracciata dal mio dito tremante e puntato, poteva uguagliare. Mi sfinivo in interminabili relazioni confuse e contraddittorie e piangevo di impotente disperazione. Se ne stavano davanti a me perplessi e turbati, vergognosi della loro impotenza. In fondo al cuore non erano senza colpa. La mia violenza, il tono impaziente e collerico delle mie domande mi conferivano un'apparenza di ragione, la superiorità di una pretesa ben fondata. Accorrevano con i libri più svariati e a forza me li mettevano in mano. Li gettavo via con indignazione. Uno di quei libri, un volumone grosso e pesante, mio padre continuava a ripropormelo con timido incoraggiamento. L'aprii. Era una Bibbia. Vidi nelle sue pagine un lungo migrare di animali che scorreva per ampie strade, ramificandosi in cortei nel lontano paese, vidi il cielo tutto a stormi e a voli, enorme piramide rovesciata la cui punta estrema toccava l'Arca. Sollevai su mio padre gli occhi colmi di rimprovero: Tu sai, padre, gridai, tu sai perfettamente, non nasconderti, non sfuggire! Quel libro ti ha tradito.
Perché mi dai questo apocrifo corrotto, questa millesima copia, miserabile falsificazione? Cosa ne hai fatto del Libro? Mio padre volse gli occhi. Iii. Trascorsero le settimane e la mia agitazione si attenuò, si placò, ma l'immagine del Libro continuò ad ardere nel mio cuore di vivida fiamma, grande, frusciante Codice, Bibbia in tempesta, attraverso le cui pagine correva il vento saccheggiandola come un'immensa rosa spampanata. Mio padre, vedendomi più quieto, mi si avvicinò un giorno cautamente e disse con tono di benevola proposta: In fin dei conti esistono soltanto i libri comuni. Il Libro è un mito in cui crediamo in gioventù, ma col passare degli anni si smette di trattarlo seriamente.
Io allora avevo già un'altra convinzione, sapevo che il Libro è un postulato, che è un programma. Sentivo sulle spalle il peso di una grande missione. Non risposi niente, pieno di sdegno e di tetro accanito orgoglio. A quel tempo infatti ero già in possesso di quel frammento di libro, di quei miserevoli resti che uno strano caso del destino aveva fatto cadere nelle mie mani. Avevo nascosto accuratamente il mio tesoro agli occhi di tutti, rammaricando la profonda decadenza di quel libro, per i cui resti mutili non ero riuscito a conquistare la comprensione di nessuno. Era accaduto così. Un giorno di quell'inverno sorpresi Adela durante le pulizie, mentre se ne stava, con la scopa in mano, appoggiata a un leggio sul quale giaceva semistracciata una scartoffia. Mi chinai al di sopra della sua spalla, non tanto per curiosità, quanto per inebriarmi ancora una volta del profumo del suo corpo, il cui fascino giovane si era rivelato ai miei sensi da poco desti. Guarda, disse accettando senza proteste il mio abbraccio, è mai possibile che a qualcuno siano cresciuti i capelli fino a terra? Mi piacerebbe averli così. Osservai il disegno. Sull'ampia pagina c'era il ritratto di una donna dalle forme piuttosto robuste e tozze, dal viso pieno di energia e di esperienza. Dalla testa di quella dama scendeva un immenso manto di capelli, che ricadeva pesantemente dalle spalle strascicando al suolo le estremità delle grosse ciocche. Era un inverosimile capriccio di natura, un mantello ricco e ondulato, filato dalle radici dei capelli, ed era difficile immaginare che quel peso non provocasse un dolore sensibile e non immobilizzasse la testa su cui gravava. Ma la proprietaria di quella magnificenza sembrava portarla con orgoglio e il testo stampato accanto in grassetto narrava la storia di quel miracolo, cominciando con queste parole: : Io, Anna Csillag, nata a Karlovice in Moravia, avevo una scarsa crescita dei capelli... Era una lunga storia, simile nel costrutto a quella di Giobbe. Anna Csillag era, per decreto divino, affetta da scarsa crescita dei capelli. Tutta la cittadina si impietosiva per quel difetto di natura che le era perdonato in considerazione della sua vita irreprensibile, anche se non poteva non essere in qualche modo causato da colpa. Ed ecco che in seguito alle ardenti preghiere affinché le fosse allontanata dal capo quella maledizione, Anna Csillag ottenne la grazia di una rivelazione, ricevette segni e indicazioni, e confezionò uno specifico, un farmaco miracoloso che ridette fertilità alla sua testa. Cominciarono a crescerle i capelli, e non solo, anche il marito, i fratelli, i cugini da un giorno all'altro si ricoprirono di un vigoroso e nero strato di peli. Nella seconda pagina si vedeva Anna Csillag sei settimane dopo la rivelazione della ricetta, circondata dai fratelli, cognati e nipoti, tutti uomini con barbe fino alla cintola e baffuti, e con stupore si osservava quella vera e propria esplosione di autentica, orsesca virilità. Anna Csillag aveva fatto felice l'intera cittadina, sulla quale si era riversata una vera benedizione sotto forma di capigliature fluenti e criniere immense, e la cui terra i cittadini spazzavano con le barbe ampie come scope. Anna Csillag divenne l'apostolo della pelosità.
Dopo aver fatto felice la città natale, desiderava rendere felice il mondo intero e pregava, incitava, implorava di accettare per la propria salvezza quel dono di Dio, quel farmaco miracoloso di cui era l'unica a conoscere il segreto. Questa storia lessi sopra la spalla di Adela, e ad un tratto mi balenò un'idea, e a quel colpo mi feci di fuoco. Ma sì, quello era il Libro, le sue ultime pagine, la sua appendice ufficiosa, la facciata posteriore, piena di detriti e di rovine! Frammenti di arcobaleno turbinavano nelle tappezzerie volteggianti; strappai dalle mani di Adela quei fogli e con voce che non riuscivo a padroneggiare sibilai: Dove hai preso questo libro? Sciocco, disse alzando le spalle, ma se sta qui da sempre e ogni giorno ne strappiamo un foglio per involtare la carne dal macellaio e la colazione di tuo padre... Iv.
Corsi in camera mia. Sconvolto, il viso in fiamme, presi a sfogliare con mani che volavano quelle pagine. Disgraziatamente ce n'erano appena una quindicina. Neppure una pagina del testo vero e proprio, soltanto pubblicità e annunci. Subito dopo le profezie della sibilla lungicrinita seguiva una pagina dedicata a un farmaco miracoloso per tutte le malattie e infermità. «Elsa fluido di cigno» si chiamava quel balsamo, e faceva miracoli. Il foglio era pieno di testimonianze accreditate, di commoventi relazioni di persone sulle quali il miracolo si era compiuto.
Dalla Transilvania, dalla Slavonia, dalla Bucovina giungevano convalescenti entusiasti a testimoniare, a raccontare con parole ardenti e commosse la propria storia. Camminavano fasciati e curvi, agitando un'ormai inutile stampella, strappandosi i cerotti dagli occhi e le bende dalle scrofole. Attraverso quei cortei di infermi si intravedevano lontane e tristi cittadine dal cielo bianco come carta, indurite dalla prosa e dalla quotidianità. Erano città dimenticate nelle profondità del tempo, dove la gente era legata al suo piccolo destino da cui non si staccava neppure per un istante. Un calzolaio era fino in fondo un calzolaio, odorava di cuoio, aveva il viso piccolo e segnato dalla miseria, occhi pallidi e miopi sopra baffi incolori e fiutanti, e si sentiva interamente calzolaio. E se i loro foruncoli non dolevano, se non avevano le ossa rotte e l'idropisia non li costringeva sui giacigli, erano felici, di una felicità incolore, grigia, fumavano tabacco da poco prezzo, il giallo tabacco imperialregio, o sognavano ottusamente davanti al botteghino del lotto. Gatti tagliavano loro la strada, ora da destra, ora da sinistra, appariva loro in sogno un cane nero e prudeva loro una mano. A volte scrivevano lettere, copiandole dal Segretario galante, vi incollavano accuratamente il francobollo e le affidavano, non senza esitazione e diffidenza, alla cassetta postale, picchiandovi sopra col pugno, quasi volessero svegliarla. E nei loro sogni volavano poi bianche colombe con lettere nel becco che sparivano nelle nubi. Le pagine seguenti si sollevavano oltre la sfera dei problemi quotidiani, verso regioni di pura poesia. C'erano fisarmoniche, cetre e arpe, un tempo strumenti di cori angelici, oggi, grazie ai progressi dell'industria, resi accessibili a prezzi popolari all'uomo semplice, alla gente timorata, per rinfrancare il cuore e godersi una lecita distrazione.
C'erano organetti di Barberia, veri miracoli della tecnica, che celavano flauti, ugole e zufoli, armoniche dal trillo soave come nidi di usignoli singhiozzanti, inestimabile tesoro per gli invalidi, fonte di lucro per gli infermi, e assolutamente indispensabili in ogni casa musicale. E questi organetti bellamente dipinti li si vedevano poi aggirarsi sulle spalle di insignificanti vecchietti grigi, i cui volti, svuotati dalla vita, erano come coperti da una ragnatela e completamente indistinti, volti dagli occhi lagrimosi, immobili, che scivolavano via lentamente, volti privi di vita, scoloriti e innocenti come la corteccia degli alberi screpolata dalle intemperie e al pari di questa odorosi ormai solo di pioggia e di cielo. Da tempo hanno dimenticato come si chiamavano e chi erano, e così, perduti in se stessi, si sono trascinati con le ginocchia piegate, a passi piccoli e uguali, nelle loro enormi e pesanti scarpe, lungo una linea perfettamente diritta e uniforme fra le strade tortuose e confuse dei passanti. Nelle bianche mattinate senza sole, irrigidite dal freddo, immerse nei problemi quotidiani, essi sgusciavano furtivamente fuori dalla folla, sistemavano l'organetto sul trespolo a un incrocio di strade, sotto una fetta gialla di cielo disegnata dal filo del telegrafo, fra gente che si affrettava ottusamente con il colletto alzato, e cominciavano la loro melodia non dall'inizio, ma dal punto in cui si erano interrotti il giorno prima, e suonavano: «Daisy, Daisy, tu mi risponderai...», mentre dai comignoli si alzavano gonfiandosi bianchi pennacchi di fumo. E il fatto strato era che quella melodia appena iniziata balzava subito in una breccia vuota, al suo posto in quell'ora e in quel paesaggio, come se da sempre appartenesse a quel giorno assorto e smarrito in se stesso, e al suo ritmo corressero i pensieri e i grigi affanni dei passanti frettolosi. E quando dopo un certo tempo quella musica terminava con un lungo, prolungato acuto, strappato alle viscere dell'organetto che stava già passando ad altro, pensieri e affanni si arrestavano per un istante, come in una danza, per mutare passo, e poi, senza fermarsi, prendevano a girare nella direzione opposta, al ritmo di una nuova melodia che prorompeva dalle canne dell'organetto: «Margherita, tesoro dell'anima mia...» E nell'apatia di quella mattinata, nessuno si era accorto che il senso del mondo era totalmente mutato, che non correva più al ritmo «Daisy, Daisy...», bensì a quello «Margherita...» Voltiamo ancora pagina... Che è mai? Forse una pioggia primaverile? No, quel cinguettio di uccellini si riversa come un grigio fiotto di granelli sull'ombrello, perché qui si vendono veri canarini di Hartz, gabbie piene di cardellini e storni, ceste di canterini e garruli volatili. Affusolati e leggeri quasi fossero imbottiti d'ovatta, convulsamente saltellanti, agili come se ruotassero su perni cigolanti e lisci, loquaci come i cucù degli orologi, erano il conforto della solitudine, sostituivano per gli scapoli il calore del focolare domestico, strappavano ai cuori più incalliti la soavità di un sentimento materno, tanto avevano di pulcinesco e commovente; e quando si voltava la pagina sopra di loro, inviavano ancora a chi se ne andava il loro collettivo, seducente cinguettio. Ma in seguito quel miserevole scritto precipitava sempre più in basso. Adesso aveva imboccato la strada di una dubbia ciarlataneria.
Avvolto in un lungo mantello, col sorriso seminascosto dalla barba nera, chi mai si presentava al servizio del pubblico? Il signor Bosco di Milano, sedicente maestro di magia nera, che parlava a lungo e oscuramente, mostrando qualcosa sulla punta delle dita, senza pertanto rendere la cosa più comprensibile. E benché egli fosse convinto di essere giunto a stupefacenti conclusioni, che pareva soppesare per un attimo fra le dita sensibili, prima che il loro senso alato fuggisse dalle dita in aria, e benché punteggiasse i sottili nessi della dialettica con un ammonitore surcigliare che preparava a cose non comuni, non lo si capiva e, quel che è peggio, non si aveva voglia di capire niente e lo si lasciava col suo gesticolare, col suo tono in sordina e con tutta la gamma dei suoi oscuri sorrisi, per sfogliare velocemente le ultime pagine, che cadevano ormai a pezzi. In quegli ultimi fogli, che scivolavano evidentemente in un delirio febbrile, in un chiaro non senso, un gentleman offriva il suo metodo infallibile per diventare energici e risoluti nelle decisioni, e parlava molto di principî e di carattere. Ma bastava solo voltare la pagina per essere totalmente disorientati sull'argomento della risolutezza dei principî.
Là, a piccoli passi, giungeva intralciata dallo strascico del vestito una certa signora Magda Wang e annunciava, dall'alto del suo décolleté prorompente dai lacci del busto, che lei se ne infischiava della risolutezza degli uomini e dei principî, e che la sua specialità era infrangere i caratteri più forti. (E qui, con un movimento del piedino, si aggiustava lo strascico per terra). A tale scopo esistevano metodi, proseguiva attraverso i denti stretti, metodi infallibili, sui quali non voleva dilungarsi, rinviando alle sue memorie intitolate Dai giorni purpurei (Edizione dell'Istituto di antroposofia di Budapest), dove aveva steso i risultati delle sue esperienze coloniali nel campo dell'ammaestramento degli uomini (questa espressione accentuata e con un brillio ironico nell'occhio). Cosa strana, quella dama che parlava lentamente e senza cerimonie pareva essere sicura dell'approvazione di coloro dei quali parlava con tanto cinismo; e fra quella svolta singolare e quel brillio ci si accorgeva che il senso delle definizioni morali si era stranamente spostato e noi eravamo ormai in un altro clima in cui la bussola girava alla rovescia. Questa era l'ultima parola del Libro, che lasciava uno strano sapore di stordimento, un misto di fame e di eccitazione nell'animo. V. Chino su quel Libro, il volto acceso di colori come un arcobaleno, ardevo silenziosamente passando di estasi in estasi. Immerso nella lettura, mi dimenticai del pranzo. Il presentimento non mi aveva ingannato. Quello era l'Autentico, il sacro originale, benché in tale stato di profondo scadimento e degradazione. E quando nel tardo crepuscolo, sorridendo beato, posai quei fogli nel cassetto di fondo, nascondendolo sotto altri libri, mi parve di avere riposto un'aurora a dormire nel comò, un'aurora che continuava ad accendersi da sola e passava attraverso tutte le fiamme e le porpore per tornare ancora una volta, e non voleva finire. Come mi erano diventati indifferenti tutti i libri! Perché i libri comuni sono come meteore.
Ognuno di essi ha un unico istante, un momento come quello, quando con un grido si invola come una fenice, prendendo fuoco con tutte le sue pagine. Per quell'unico istante, per quell'unico momento li amiamo poi, sebbene allora siano soltanto cenere. E con amara rassegnazione ci aggiriamo talvolta tardi tra quelle pagine ormai spente, facendo scorrere con uno scricchiolio ligneo, come se fosse un rosario, le loro formule morte. Gli esegeti del Libro ritengono che tutti i libri abbiano come meta l'Autentico. Essi vivono soltanto una vita presa a prestito, che nel momento di prendere il volo torna alla sua fonte antica. Ciò significa che i libri diminuiscono, mentre l'Autentico cresce. Tuttavia non vogliamo stancare il lettore con l'esposizione della Dottrina.
Vorremmo soltanto attirare l'attenzione su un fatto: l'Autentico vive e cresce. Che cosa ne deriva? Che, quando la prossima volta apriremo la nostra scartoffia, chissà dove saranno ormai in quel momento Anna Csillag e i suoi seguaci. Forse la vedremo, pellegrina lungicrinita, spazzare col suo mantello le strade della Moravia, vagare per un paese lontano, attraverso cittadine bianche, sprofondate nella prosa della vita quotidiana, e distribuire campioni del balsamo Elsa fluido fra i poveri di spirito afflitti da flussi o dalla tigna. Che cosa faranno allora i bravi barbuti del paese, immobilizzati dal loro immenso crine, che farà questa comunità fedele, condannata a curare e ad amministrare la propria messe smisurata? Chissà che non si comprino tutti dei veri organetti di Schwarzwald e non corrano per il mondo dietro al loro apostolo, a cercarlo attraverso il paese suonando in ogni luogo: «Daisy, Daisy»! Oh, odissea di barbuti, erranti con gli organetti di città in città alla ricerca della propria madre spirituale! Quando mai si troverà il rapsodo degno di tale epopea? A chi infatti lasciarono la città affidata alle loro cure, a chi trasmisero il governo delle anime nel paese di Anna Csillag? Non potevano prevedere che, priva della sua élite spirituale, dei suoi magnifici patriarchi, la città sarebbe caduta nel dubbio e nello scisma e avrebbe aperto le porte... «chi? ahimè, alla cinica e perversa Magda Wang (Edizioni dell'Istituto di antroposofia di Budapest), che vi avrebbe fondato la scuola dell'ammaestrare e infrangere i caratteri. Ma torniamo ai nostri pellegrini. Chi non conosce quella vecchia guardia, quei Cimbri nomadi, quei mori profondi, dai corpi solo apparentemente potenti e invece fatti di una fibra senza robustezza né sostanza? Tutta la loro forza, tutto il loro vigore era passato nel loro crine. Gli antropologi da tempo si rompono la testa su quella razza singolare, avvolta sempre di vesti nere, con grosse catene d'argento sul ventre, le dita in pesanti anelli di ottone. Mi piacciono questi volta a volta Gaspari e Baldassarri, la loro profondità, il loro funebre decorativismo, questi meravigliosi esemplari umani dai begli occhi, dallo splendore grasso del caffè tostato, mi piace quella loro nobile mancanza di vivacità nei corpi esuberanti e spugnosi, la morbidezza di quelle stirpi in via di estinzione, il loro respiro affannoso dai petti possenti e perfino quell'odore di valeriana che emana dalle loro barbe. Come Angeli del Divino Aspetto, talvolta appaiono all'improvviso sulla porta della nostra cucina, enormi e ansimanti, e subito stanchi si tergono il sudore dalla fronte madida, ruotando il bianco azzurrino degli occhi, e in quel momento dimenticano la propria missione e stupiti, cercando una scusa, un pretesto alla loro comparsa, tendono la mano per una elemosina. Torniamo all'Autentico. Ma non l'abbiamo mai abbandonato. E qui tocchiamo con mano la strana caratteristica di quel fascicolo, ormai chiara al lettore, e cioè che esso si espande durante la lettura, che ha i confini aperti ad ogni influsso e corrente. Adesso, per esempio, più nessuno offre laggiù cardellini di Hartz, giacché dagli organetti di quei mori, dalle pause e dai passaggi della melodia, quegli spazzolini piumati prendono il volo a intervalli irregolari e la piazza ne è coperta come di caratteri variopinti. Ah, che moltiplicarsi guizzante e pieno di cinguettii...
Intorno a ogni sporgenza, bacchettina e banderuola si creano veri e propri assembramenti colorati, svolazzii, lotte per il posto. E basta allungare fuori della finestra un manico ricurvo di bastone, per ritirarlo in casa con incollato un grappolo greve e fremente. Ci avviciniamo ora a gran passi, nel nostro racconto, a quell'epoca meravigliosa e catastrofica che nella nostra biografia porta il nome di epoca geniale. Invano negheremmo che fin d'ora sentiamo quella stretta al cuore, quella dolce inquietudine, quel sacro timore che precede i momenti estremi. Ben presto ci mancheranno nella tavolozza i colori e nell'animo la luce per apporre i più alti accenti, sottolineare i più luminosi e ormai trascendentali contorni di questo quadro. Che è mai quest'epoca geniale e quando fu? Qui siamo costretti a divenire per un istante totalmente esoterici, come il signor Bosco di Milano, e a ridurre la voce a un penetrante bisbiglio. Dobbiamo punteggiare i nostri argomenti con sorrisi ambigui e, come una presa di sale, frantumare sulla punta delle dita la delicata materia delle cose imponderabili. Non è colpa nostra se a volte avremo l'aspetto di quei venditori di tessuti invisibili che mostrano con gesti ricercati la loro merce fasulla.
Quest'epoca geniale, dunque, ci fu o non ci fu? Difficile rispondere. E sì, e no. Ci sono infatti cose che completamente, fino in fondo, non possono accadere. Sono troppo grandi per rientrare in un avvenimento, e troppo magnifiche. Tentano soltanto di accadere, tastano il fondo della realtà per sapere se le sostiene. E subito si ritraggono temendo di perdere la propria integrità in una realizzazione difettosa. Ma se hanno intaccato il proprio capitale e hanno perduto questo o quello in simili tentativi di incarnazione, allora subito gelose riprendono ciò che è di loro proprietà, lo richiamano a sé, si reintegrano, e poi, nella nostra biografia, restano quelle macchie bianche, stimmate odorose, quelle perdute orme argentee di piedi nudi angelici, disseminate a gran passi lungo i nostri giorni e le nostre notti, mentre quella pienezza di gloria cresce e si completa incessantemente e culmina sopra di noi, passando nel trionfo di estasi in estasi. Eppure, in un certo senso, essa è contenuta intera e integrale in ognuna delle sue difettose e frammentarie incarnazioni. Subentra qui il fenomeno della rappresentazione e dell'esistenza compensativa. Un avvenimento può essere per la sua provenienza e per i suoi propri mezzi piccolo e povero, eppure, avvicinato all'occhio, può aprire nel suo interno una prospettiva infinita e radiosa grazie al fatto che un ente supremo si sforza di esprimersi in esso e vi risplende vigorosamente. Così, dunque, raccoglieremo queste allusioni, queste approssimazioni terrestri, queste soste e tappe lungo le strade della nostra vita, come frammenti di uno specchio rotto. Raccoglieremo pezzo per pezzo ciò che è uno e indivisibile: la nostra grande epoca, l'epoca geniale della nostra vita.
Forse, nell'impeto di diminuirla, terrorizzati dall'inafferrabilità del trascendente, l'abbiamo troppo limitata, discussa, fatta vacillare.
Perché, nonostante tutte le riserve: essa fu. Essa fu e niente ci toglierà questa certezza, questo sapore luminoso che abbiamo ancora sulla lingua, questo freddo fuoco nel palato, questo sospiro vasto come il cielo e fresco come un sorso di puro oltremare. Abbiamo preparato in certa misura il lettore alle cose che si diranno, possiamo dunque arrischiare un viaggio nell'epoca geniale? La nostra paura si è comunicata al lettore. Sentiamo il suo nervosismo. Nonostante le apparenze di vivacità, anche noi abbiamo un peso sul cuore e siamo pieni di timore. In nome del cielo, allora, sediamoci e via!
L'EPOCA GENIALE.
I fatti comuni sono schierati nel tempo, allineati lungo il suo corso come su un filo. Là essi hanno i loro antefatti e le loro conseguenze, che si affollano e si susseguono senza tregua né interruzione. Ciò ha la sua importanza anche per la narrazione, la cui anima sono la continuità e la successione. Che fare, invece, degli avvenimenti che non hanno il loro posto nel tempo, degli avvenimenti verificatisi troppo tardi, quando ormai l'intero tempo è stato distribuito, suddiviso, ripartito, e che ora sono rimasti in certo modo per aria, non incolonnati, sospesi, vaganti e senza dimora? Che il tempo sia troppo ristretto per tutti gli avvenimenti? Possibile che tutti i posti nel tempo siano stati esauriti?
Preoccupati, percorriamo l'intero treno degli avvenimenti, preparandoci ormai al viaggio. Per amor del cielo, che non esista una specie di bagarinaggio dei biglietti per il tempo?... Controllore! Calma, calma!
Senza fretta eccessiva, sbrigheremo la faccenda senza chiasso tra noi.
Il lettore ha mai sentito parlare di linee parallele del tempo in un tempo a doppio binario? Sì, esistono tali diramazioni secondarie, un po' illegali a dire il vero e problematiche, ma quando si introduce di contrabbando, come facciamo noi, un avvenimento in soprannumero da non classificare, non si può fare troppo i difficili. Proviamo, dunque, a lasciar diramare a un certo punto della storia una via secondaria, un binario morto, per dirottarvi questi avvenimenti illegali. Niente paura.
Ciò accadrà senza che ci se ne accorga, il lettore non avvertirà la minima scossa. Chissà, forse mentre ne stiamo parlando questa oscura manovra è già stata compiuta alle nostre spalle e noi viaggiamo ormai su un binario morto. Ii. Mia madre accorse spaventata e contenne il mio grido fra le braccia, cercando di coprirlo come un incendio e soffocarlo fra le pieghe del suo amore. Mi chiuse la bocca con la sua e gridò insieme con me. Ma la respinsi, e indicando la colonna di fuoco, la trave d'oro che stava obliqua in aria, come una scheggia e non si lasciava respingere, piena di splendore e di pulviscolo turbinante, gridai: Prendila, portala via! La stufa si imporporò come un tacchino, enfiando di sangue la grande pittura colorata che le stava in fronte, mentre pareva che dal convulso delle vene, dei tendini e di tutta quell'anatomia gonfia fino a scoppiare si liberasse un urlo squillante di gallo. Me ne stavo a braccia aperte in ispirazione e con le dita tese, allungate mostravo, mostravo in preda all'ira, in uno stato di terribile eccitazione, dritto come un palo e tremante nell'estasi. La mia mano mi guidava, estranea e pallida, mi trascinava con sé, irrigidita mano di cera, simile alle grandi mani votive, alla mano angelica levata nello scongiuro. Accadde sul finire dell'inverno. I giorni erano fatti di pozzanghere e bagliori d'incendio, e nel palato avevano il gusto infuocato del pepe. Coltelli luccicanti ritagliavano la polpa mielata del giorno in fette argentate, in prismi che nel taglio mostravano colori e spezie piccanti. Ma a mezzogiorno il quadrante concentrava in uno spazio ristretto l'intero splendore di quei giorni e indicava tutte le ore ardenti e piene di fuoco. A quell'ora, non riuscendo a contenere l'incendio, il giorno si sfaldava in fogli di lamiera argentata, scricchiolanti come stagnola, e strato dopo strato svelava il suo nucleo dal compatto splendore. E come se questo non bastasse, i comignoli fumavano, si impennacchiavano di vapore lucente, e ogni istante esplodeva in un gran volo d'angeli, in una tempesta di ali che il cielo, mai sazio, assorbiva, sempre aperto a nuovi scoppi. Le sue chiare merlature esplodevano in bianchi pennacchi, i lontani fortilizi si schiudevano in silenziosi ventagli di scoppi sovrapposti sotto il cannoneggiare luminoso di un'invisibile artiglieria. La finestra della stanza, colma di cielo fino ai bordi, si gonfiava di quei voli senza fine e traboccava di tende che, tutte in fiamme, fumando nel fuoco, ondeggiavano in ombre dorate e in un fremito di rivoli d'aria. Sul tappeto giaceva obliquo un rettangolo ardente, fluttuante di luce, che non riusciva a staccarsi dal pavimento. Quella colonna di fuoco mi sconvolgeva profondamente. Me ne stavo incantato a gambe divaricate e con voce alterata la coprivo di insulti strani e duri. Sulla soglia, nell'ingresso, stavano costernati, spaventati, torcendosi le mani, parenti, vicini, zie, tutti elegantemente vestiti. Si avvicinavano in punta di piedi e se ne andavano, guardavano attraverso la porta, pieni di curiosità. E intanto io gridavo. Vedete, gridavo a mia madre, a mio fratello, ve lo dicevo sempre che tutto è costretto, murato dalla noia, prigioniero! E ora, guardate che inondazione, che fioritura di tutto, che beatitudine!... E piangevo di felicità e di impotenza. Svegliatevi, urlavo, affrettatevi ad aiutarmi! Posso io solo affrontare questa alluvione, posso contenere questo diluvio? Come posso, da solo, rispondere al milione di abbaglianti domande con cui Dio mi sommerge? E poiché tacevano gridavo furibondo: Affrettatevi, raccogliete a secchi questa abbondanza, fate provvista! Ma nessuno poteva mettersi al mio posto, se ne stavano attoniti e si guardavano l'un l'altro, si ritraevano dietro le spalle dei vicini. Allora capii che cosa dovevo fare, e pieno di ardore cominciai a tirar fuori dagli armadi vecchie bibbie, registri di mio padre tutti scritti e sfasciati, e li gettai sul pavimento, sotto quella colonna di fuoco che era nell'aria e ardeva. La carta non poteva bastarmi. Mio fratello e mia madre accorrevano continuamente con nuove bracciate di vecchie riviste e giornali e li gettavano a mucchi per terra. Io sedevo fra quelle carte, accecato dal bagliore, gli occhi pieni di esplosioni, razzi e colori, e disegnavo.
Disegnavo in fretta, affannosamente, di traverso, di sbieco, per le pagine stampate e scritte. Le mie matite colorate volavano ispirate attraverso le colonne di testi illeggibili, correvano in geniali scarabocchi, in zigzag precipitosi, annodandosi improvvisamente negli anagrammi di una visione, nei rebus di luminose rivelazioni, e di nuovo dissolvendosi in vuoti e ciechi lampeggiamenti, alla ricerca di una traccia di ispirazione. Oh, disegni luminosi, sgorganti come da sotto una mano estranea, oh, limpidi colori ed ombre! Quante volte, ancora oggi, li ritrovo nei sogni, dopo tanti anni, in fondo a vecchi cassetti, lucenti e freschi come il mattino, umidi ancora della prima rugiada del giorno: figure, paesaggi, volti! Oh, azzurri così intensi da mozzare il respiro con un brivido di paura, oh, verdi più verdi dello stupore, oh, preludi e cinguettii di colori appena intuiti, ancora in cerca di un nome! Perché li ho sperperati allora in tale sventata sovrabbondanza, con quell'incomprensibile leggerezza? Permettevo ai vicini di frugare e saccheggiare quei mucchi di disegni. Ne prendevano a pacchi interi. In quali case non arrivarono, in quali mucchi di spazzatura non finirono!
Adela ne aveva tappezzata la cucina, che così divenne chiara e colorata, come se di notte fosse nevicato fuori della finestra. Era quello un disegnare pieno di crudeltà, di tranelli e di assalti. Mentre sedevo così, teso come un arco, immobile in agguato, e nel sole attorno a me bruciavano avvampando i fogli, bastava che il disegno, inchiodato alla mia matita, facesse il più lieve movimento per fuggire. Allora la mia mano, nello spasimo di nuovi riflessi e impulsi, si gettava su di esso con rabbia come un gatto, e ormai estranea, inselvatichita, rapace, a morsi fulminei uccideva quel mostro che voleva sfuggire da sotto la matita. E si staccava dal foglio solo quando, ormai morte e immobili, le spoglie dispiegavano come in un erbario la loro colorata e fantastica anatomia sul quaderno. Era una caccia micidiale, una lotta per la vita o la morte. Chi mai poteva distinguere l'attaccante dall'attaccato in quella matassa sprizzante rabbia, in quel groviglio di strida e di terrore? Poteva succedere che la mia mano si lanciasse due o tre volte all'assalto, per raggiungere la vittima al quarto o quinto foglio.
Talvolta gridava di dolore e di paura nelle pinze e nelle tenaglie di quei mostri che si torcevano sotto il mio bisturi. Di ora in ora sempre più numerose, le visioni affluivano, si affollavano formando ingorghi, finché un bel giorno tutte le strade e i sentieri formicolarono di lunghi cortei in marcia, e il paese intero si ramificò in migrazioni, si suddivise in sfilate trascinantisi, in interminabili pellegrinaggi di bestie e animali. Come ai tempi di Noè, sfilavano quei cortei colorati, quelle fiumane di pelo e di criniere, quelle groppe e code ondeggianti, quelle teste annuenti senza fine nella cadenza del passo. La mia stanza era il confine e la barriera. Qui si arrestavano, si affollavano, belando imploranti. Si aggiravano, scalpitavano, terrorizzate e selvagge, creature gobbe e cornute, cucite dentro tutti i costumi e le armature della zoologia, spaventate di se stesse, sgomente della loro stessa mascherata, guardavano con occhi inquieti e sbalorditi attraverso le fessure delle loro pelli pelose e muggivano lugubremente quasi fossero imbavagliate sotto le proprie maschere. Aspettavano forse che le chiamassi, risolvessi il loro enigma che non capivano? Mi chiedevano forse il loro nome per entrarvi dentro e riempirlo col proprio io?
Giungevano mostri strani, creaturedomanda, creatureproposta, e io dovevo gridare e respingerli con le mani. Si ritraevano, chinando il capo e guardando da sotto il muso, e si perdevano in se stessi, tornavano dissolvendosi nel caos senza nome, nel guazzabuglio delle forme. Quante groppe orizzontali e gobbe passarono allora sotto la mia mano, quante teste vi scivolarono sotto con vellutata carezza! Compresi allora perché le bestie hanno le corna. Era... era quell'incomprensibile che non poteva trovar posto nella loro vita, un capriccio selvaggio e ostinato, un'irragionevole e cieca testardaggine. Una specie di idée fixe, cresciuta oltre i confini del loro essere, al di sopra della testa, e immersa a un tratto nella luce, fissata in una materia palpabile e dura.
Là assumeva una forma strana, incalcolabile e inverosimile, contorta in un fantastico arabesco, invisibile ai loro occhi e pur terrificante, in una cifra ignota sotto il cui terrore vivevano. Capii perché quegli animali erano inclini al panico irragionevole Il e selvaggio, allo smarrimento e alla follia: trascinati dalla loro furia, non riuscivano a districarsi dal groviglio di quelle corna, fra le quali chinando il capo guardavano con aria triste e feroce, come cercando un passaggio fra i loro rami. Quelle bestie cornute erano lontane dall'emancipazione e portavano con tristezza e rassegnazione sulla testa le stimmate del loro errore. Ma ancor più lontani dalla luce erano i gatti. La loro perfezione metteva paura. Chiusi nella precisione e nell'accuratezza dei loro corpi, non conoscevano errore né deviazione. Per un istante scendevano nel profondo, alle basi stesse del loro essere, e allora si immobilizzavano nella loro morbida pelliccia, divenivano minacciosamente, solennemente seri e i loro occhi si arrotondavano come lune, inghiottendo lo sguardo nei propri gorghi di fuoco. Ma dopo un attimo appena, rigettati a riva, alla superficie, sbadigliavano la propria nullità, disincantati e senza illusioni. Nella loro vita, piena di grazia, chiusa in se stessa, non c'era posto per altra alternativa. E annoiati in quella prigione di perfezione senza uscita, presi dallo spleen, brontolavano arricciando il labbro, pieni di gratuita crudeltà nel muso corto e allargato dalle strisce. In basso passavano furtivamente martore, puzzole e volpi, animali ladri, creature dalla cattiva coscienza. Si erano conquistati con l'astuzia, l'intrigo e i trucchi il loro posto nell'esistenza contro i disegni della creazione e inseguiti dall'odio, minacciati, costantemente in guardia, sempre in allarme per quel posto, amavano ardentemente la propria vita rubata, sempre nascosta nelle tane, pronti a farsi fare a pezzi per difenderla.
Infine tutti erano passati e il silenzio tornò nella mia stanza. Ripresi a disegnare, immerso nelle mie scartoffie, che respiravano luce. La finestra era aperta e sul davanzale vibravano nell'aura primaverile tortore e colombe. Chinando il capo, mostravano nel profilo l'occhio rotondo e vitreo, come spaventate e piene di volo. Le giornate, al calar della sera, diventavano morbide, opalescenti e luminose, e di nuovo perlacee e piene di dolcezza velata. Giunsero le feste di Pasqua e i miei genitori andarono per una settimana da una mia sorella sposata. Fui lasciato solo in casa, in preda alle mie ispirazioni. Adela mi portava ogni giorno la colazione e il pranzo. Non mi accorgevo neppure della sua presenza quando si fermava sulla soglia, vestita a festa, fragrante di primavera, nei suoi abiti di seta e di mussola. Attraverso la finestra aperta giungevano effluvi soavi che riempivano la stanza col riflesso di paesaggi lontani. Per un attimo si fermavano nell'aria quei colori di chiare lontananze soffiati dal vento, e subito si fondevano, si disperdevano in un'ombra azzurrina, in tenerezza e commozione. La moltitudine delle immagini si placò un poco, l'ondata delle visioni si attenuò e tacque. Stavo seduto per terra. Intorno a me giacevano sul pavimento matite e pastelli, colori divini, azzurri che spiravano freschezza, verdi smarriti ai limiti dello sbigottimento. E quando presi in mano una matita rossa, nel mondo chiaro passarono le fanfare felici del rosso e tutti i balconi ondeggiarono di rosse bandiere, mentre le case si disponevano lungo la strada in due spalliere trionfali. Cortei di pompieri nelle uniformi color lampone sfilavano sulle strade chiare, felici, e i signori salutavano con le bombette color ciliegia. Una dolcezza di ciliegia, un cinguettio ciliegia di cardellini colmava l'aria fragrante di lavanda e di riflessi beati. E quando stendevo la mano per cogliere l'azzurro, passava per le vie, attraverso tutte le finestre, il riflesso di una primavera di cobalto, si aprivano tintinnando i vetri, uno dopo l'altro, pieni di azzurro e di fuoco celeste, le tende si alzavano come per un allarme, e una corrente gioiosa e lieve trascorreva quella spalliera di ondeggianti mussole e oleandri sui balconi vuoti, come se all'altro capo di quel viale lungo e chiaro qualcuno fosse apparso molto lontano e si avvicinasse raggiante, preceduto da avvisi, da un presagio, preannunciato da voli di rondini, da segnali luminosi, diffusi di luogo in luogo. Iii. Proprio durante le feste di Pasqua, alla fine di marzo o all'inizio di aprile, Szloma, figlio di Tobiasz, usciva di prigione, dove lo si rinchiudeva durante l'inverno, dopo le bravate e le follie dell'estate e dell'autunno. Un pomeriggio di quella primavera lo vidi dalla finestra mentre usciva dal parrucchiere che era al tempo stesso il barbiere, il cerusico e il chirurgo della città apriva con distinzione, acquisita nei rigori del carcere, la scintillante porta a vetri della bottega e scendeva i tre scalini di legno, rinfrescato, ringiovanito, la testa accuratamente acconciata, in giacchetta cortissima e calzoni a quadretti ben tirati, snello e giovanile nonostante i suoi quarant'anni. La piazza della Santissima Trinità era a quel tempo vuota e pulita. Dopo il disgelo primaverile e il fango, sciacquati poi dalle piogge, restava ora un selciato nitido, ormai asciugatosi in molti giorni di bel tempo silenzioso e tranquillo, in quei giorni grandi ormai e forse troppo ampi per quell'epoca precoce, eccessivamente allungati, specialmente la sera, quando il crepuscolo si prolungava senza fine, vuoto ancora nel suo intimo, vano e sterile nella sua immensa attesa. Appena Szloma ebbe chiuso dietro di sé la porta a vetri della bottega del barbiere, subito vi entrò il cielo, come in tutte le piccole finestre di quel basso edificio, aperto alle limpide profondità dell'ombreggiato firmamento.
Scesi gli scalini, Szloma si trovò completamente solo sull'orlo della grande conchiglia vuota della piazza, percorsa dall'azzurro del cielo senza sole. Quella piazza, ampia e pulita, appariva in quel pomeriggio come un'ampolla, come un anno nuovo non ancora cominciato. Szloma stava ai suoi bordi tutto grigio e spento, coperto dal cielo azzurro, e non osava infrangere con una decisione il globo perfetto del giorno non consumato. Solo una volta all'anno, il giorno dell'uscita dal carcere, Szloma si sentiva così pulito, leggero, spoglio di colpa e nuovo. Il giorno lo accoglieva allora lavato dai peccati, rinnovato, riconciliato col mondo, apriva dinanzi a lui con un sospiro i nitidi cerchi dei suoi orizzonti, coronati di silenziosa bellezza. Non aveva fretta. Rimaneva al limite del giorno e non osava oltrepassare, cancellare con il suo passo breve, giovane, leggermente zoppicante quella conca beatamente arcuata del pomeriggio. Un'ombra trasparente si stendeva sulla città. Il silenzio delle tre pomeridiane sprigionava dalle case un bianco puro come gesso e lo stendeva senza alcun rumore, come un mazzo di carte, intorno alla piazza. Dopo aver distribuito un primo giro, ne cominciava subito un altro, attingendo riserve di bianco dalla grande facciata barocca della Santissima Trinità, che, simile a un'immensa camicia di Dio che volava dal cielo, ondulata in pilastri, aggetti e cornici, sovraccarica del pathos delle volute e degli archivolti, si aggiustava addosso in fretta quella grande veste agitata. Szloma sollevò il capo fiutando l'aria. Una brezza lieve portava profumo di oleandri, profumo di case in festa e di cannella. Allora starnutì potentemente col suo celebre e potente starnuto, per cui i colombi del comando di polizia si alzarono spaventati in volo e fuggirono via. Szloma sorrise fra sé: Dio faceva sapere per mezzo del sussulto delle sue narici che la primavera era giunta. Era un segno più sicuro dello stesso arrivo delle cicogne e da allora i giorni dovevano essere contrassegnati da quelle detonazioni che, perdute nel frastuono della città, ne chiosavano, ora da vicino, ora da lontano, gli avvenimenti col loro spiritoso commento. Szloma! chiamai dalla finestra del primo piano. Szloma mi vide, sorrise col suo sorriso gentile e salutò militarmente. Siamo soli adesso in tutta la piazza, io e te, dissi a bassa voce, poiché il globo rigonfio del cielo suonava come una notte. Io e te, ripeté con un sorriso triste, come è vuoto oggi il mondo. Avremmo potuto di nuovo separarlo e dargli un nome, tanto era aperto, indifeso e di nessuno. In un giorno come quello il Messia si avvicina fino al limite dell'orizzonte e di là guarda la terra. E vedendola così bianca, silenziosa, con i suoi azzurri e le sue meditazioni, può accadere che gli si confondano negli occhi i confini, che le strisce celesti delle nubi si dispongano come un ponte, e senza sapere quel che sta facendo, scenda sulla terra. E la terra neppure si accorgerà, tutta assorta com'è nelle sue meditazioni, di colui che è sceso sulle sue strade, e gli uomini si sveglieranno dal sonnellino pomeridiano e non si ricorderanno di niente. La storia intera sarà come cancellata, sarà come secoli e secoli fa, prima che cominciasse il mondo. Adela è in casa? domandò sorridendo. Non c'è nessuno, vieni dentro un istante, ti mostrerò i miei disegni. Se non c'è nessuno, non mi priverò di questo piacere. Aprimi. E guardandosi attorno sul portone, con mossa di ladro vi penetrò. Sono disegni fantastici, disse allontanandoli da sé con gesto da intenditore. Il suo viso si era rischiarato al riflesso dei colori e delle luci. Di tanto in tanto arrotolava la mano a cerchio attorno all'occhio e guardava attraverso quel cannocchiale improvvisato, contraendo i lineamenti in una smorfia piena di serietà e competenza. Si potrebbe affermare, disse, che il mondo è passato attraverso le tue mani per rinnovarsi, per mutare pelle e squamarsi come una lucertola meravigliosa. Oh, credi che avrei rubato e commesso migliaia di follie se il mondo non fosse stato così consunto e in disfacimento, se le cose non vi avessero perduto la loro doratura, pallido riflesso della mano divina? Che mai si può fare in un mondo come questo? Come non dubitare, come non perdersi d'animo, quando tutto è ermeticamente chiuso, murato nel suo significato, e tu da ogni parte vai a battere contro una parete, come in una prigione? Ah, Jòzef, avresti dovuto nascere prima. Stavamo in quella stanza semioscura, profonda, prolungantesi in prospettiva verso la finestra aperta sulla piazza. Di là giungevano fino a noi in dolci pulsazioni ondate d'aria che si allargavano come macchie di silenzio. Ogni ondata ne portava un nuovo carico, intriso dei colori della lontananza, come se il precedente fosse consunto ed esaurito. Quella stanza buia viveva solo dei riflessi delle case lontane fuori della finestra, ne riverberava i colori nel suo interno come una camera oscura. Attraverso la finestra si potevano vedere, come per il tubo di un cannocchiale, i piccioni sul comando di polizia passeggiare tutti gonfi lungo il cornicione dell'attico. Di tanto in tanto si alzavano in volo tutti assieme e descrivevano un semicerchio sulla piazza. Allora la stanza si illuminava per un istante di quelle loro ali spiegate, si allargava al riflesso dei loro voli lontani, ma poi si spegneva, non appena, ricadendo, chiudevano le ali. A te, Szloma, dissi, posso rivelare il segreto di questi disegni. Fin dall'inizio mi è sorto il dubbio di esserne davvero l'autore. Talvolta mi sembrano un plagio involontario, qualcosa che mi è stato suggerito, indicato... Come se qualcosa di estraneo si fosse servito della mia ispirazione per scopi a me ignoti. Perché devo confessarti, aggiunsi a bassa voce, guardandolo negli occhi, che ho trovato l'Autentico...
L'Autentico? domandò col volto illuminato da un lampo improvviso. E così, guarda tu stesso, del resto, dissi inginocchiandomi davanti a un cassetto del comò. Tirai fuori dapprima un abito di seta di Adela, una scatola di nastri, le sue pantofole nuove dai tacchi alti. Un odore di cipria e di profumo si sparse nell'aria. Sollevai ancora qualche libro: sul fondo giaceva effettivamente l'amata scartoffia, da molto tempo non vista, e riluceva. Szloma, dissi commosso, guarda, qui c'è... Ma lui era immerso in meditazione con una pantofola di Adela in mano e mi osservava con immensa serietà. Questo, Dio non l'ha detto, disse. Eppure come mi convince profondamente, mi mette al muro, mi toglie l'ultimo argomento.
Queste linee sono irrefutabili, sconvolgentemente giuste, definitive, e colpiscono come il fulmine proprio al centro delle cose. Dietro a che cosa ti nasconderai, che mai potrai contrapporre loro, dal momento che tu stesso sei già corrotto, messo in minoranza e tradito dai più fedeli alleati? Sei giorni della creazione furono divini e chiari. Ma il settimo giorno Dio crollò. Il settimo giorno Egli si sentì una materia estranea sotto le mani e, spaventato, ritrasse la mano dal mondo, benché il suo ardore creativo fosse calcolato per ancora molti giorni e notti.
Oh, Jòzef, fa' attenzione al settimo giorno... E sollevando con orrore la snella pantofola di Adela diceva, come ammaliato dalla scintillante, ironica espressione di quella vuota scaglia di vernice: Ma capisci il mostruoso cinismo di questo simbolo al piede di una donna, la provocazione della sua andatura libertina sopra questi tacchi raffinati?
Come potrei lasciarti in balia di questo simbolo? Dio mi guardi dal farlo... Così dicendo, con gesti abili si fece scivolare in seno le pantofole, il vestito, i coralli di Adela. Che fai, Szloma? dissi sbalordito. Ma egli si allontanava velocemente verso la porta, zoppicando leggermente nei suoi cortissimi calzoni a quadretti. Sulla porta girò ancora una volta il viso grigio, poco chiaro e sollevò la mano in un gesto tranquillizzante. Era già fuori della porta.
PRIMAVERA.
Questa è la storia di una certa primavera, di una primavera che fu più genuina, molto più fulgida e smagliante delle altre primavere, di una primavera che aveva semplicemente preso sul serio il suo testo letterale, quel manifesto ispirato, scritto col rosso più brillante e festivo, il rosso dei sigilli postali e del calendario, il rosso di una matita colorata e il rosso dell'entusiasmo, l'amaranto dei beati telegrammi di laggiù... Ogni primavera comincia così, con quegli oroscopi immensi, frastornanti, non a misura di una stagione; in ognuna sia detto una volta per sempre c'è di tutto: infiniti cortei e manifestazioni, rivoluzioni e barricate; attraverso ognuna passa in un determinato momento quell'ardente ventata di frenesia, quella sconfinata tristezza ed esaltazione che invano cercano un equivalente nella realtà.
Ma poi queste esagerazioni e questi estremi, questi eccessi e queste estasi raggiungono la fioritura, entrano per intero nel rigoglio del fresco fogliame, nei giardini primaverili agitati di notte, e il fruscio li inghiotte. Così le primavere vengono meno a se stesse, una dopo l'altra immerse nello stormire ansante dei parchi in fiore, nel loro gonfiarsi e crescere, scordano i loro giuramenti, perdono una foglia dopo l'altra dai loro testamenti. Questa fu l'unica primavera ad avere il coraggio di perseverare, di restare fedele, di mantenere tutte le promesse. Dopo tante prove fallite, slanci, incantesimi, finalmente essa volle costituirsi davvero, esplodere alla luce come primavera generale e ormai definitiva. Che tempesta di avvenimenti, che uragano di eventi: felice colpo di stato quei giorni patetici, sublimi e trionfali! Vorrei che il passo di questa storia prendesse il loro ritmo avvincente e ispirato, assumesse il tono eroico di quell'epopea, si adeguasse nella marcia al tempo di quella Marsigliese primaverile. Così inafferrabile è l'oroscopo della primavera! Chi mai potrà rimproverarle di imparare a leggerlo al tempo stesso in cento modi, a risolverlo alla cieca, a sillabarlo in tutte le direzioni, felice se le riesce di decifrare qualcosa in mezzo alle ingannevoli congetture degli uccelli? Essa legge quel testo per dritto e per traverso, perdendo il senso e ritrovandolo di nuovo, in tutte le versioni, nelle ennesime varianti, trilli e gorgheggi. Poiché il testo della primavera è tutto chiuso fra sottintesi, reticenze ed ellissi, pieno di puntini al posto di una parola nel vuoto azzurro, e negli spazi liberi fra le sillabe gli uccelli dispongono capricciosamente le loro congetture e le loro soluzioni. Perciò questa storia, sull'esempio di quel testo, si protrarrà in molte ramificazioni e sarà tutta costellata di lineette, puntini e sospiri primaverili. Ii. In quelle notti di quasi primavera, selvagge e dilatate, coperte da cieli immensi, ancora acerbi e senza profumo, che portavano attraverso impervi sentieri aerei negli spazi stellari, mio padre mi conduceva con sé a cena in un piccolo ristorante all'aperto, racchiuso fra le mura posteriori delle ultime case in fondo alla piazza. Camminavamo alla luce umida dei lampioni cigolanti sotto le folate del vento, attraverso la grande piazza coperta dalla volta del cielo, soli, soffocati dall'immensità dei labirinti aerei, smarriti e disorientati negli spazi deserti dell'atmosfera. Mio padre levava al cielo il volto inondato dal pallido chiarore e guardava con amara apprensione quella ghiaia di stelle disseminata nelle secche da vortici ramificati e dilaganti. I loro addensamenti irregolari e innumerevoli non si erano ancora ordinati in costellazioni, nessuna figura dominava quei vasti e sterili straripamenti. La tristezza dei deserti stellari gravava sulla città, dabbasso i lampioni intessevano la notte con fasci di raggi, legandoli indifferentemente di nodo in nodo. Sotto quei lampioni i passanti si soffermavano a due, a tre, in un cerchio di luce che creava attorno a loro la fuggevole illusione di una stanza illuminata da una lampada da tavolo: la notte indifferente e inospitale si sgretolava in alto in spazi irregolari, in selvaggi paesaggi aerei, sfilacciati dai colpi del vento, lugubri e vagabondi. Le conversazioni languivano, i passanti con gli occhi nell'ombra profonda dei cappelli sorridevano ascoltando pensosi il lontano fruscio delle stelle, in cui crescevano a vista d'occhio gli spazi di quella notte. Nel giardino del ristorante i sentieri erano cosparsi di ghiaia. Due lampioni sibilavano pensierosi sugli steli. Signori in redingote nera stavano seduti a gruppi di due o tre, curvi sopra i tavoli coperti di bianco, gli occhi ottusamente fissi sui piatti lucenti. Così seduti, calcolavano mentalmente le mosse e gli spostamenti sulla grande scacchiera nera del cielo, vedevano col pensiero fra le stelle cavalli saltellanti, figure perdute e costellazioni immediatamente subentranti al loro posto. I musicanti sul palco bagnavano i baffi nei boccali di birra amara, tacevano torpidi, assorti in se stessi. I loro strumenti, violini e violoncelli dai nobili contorni, giacevano gettati in un canto sotto la pioggia sommessamente frusciante delle stelle. Di tanto in tanto li prendevano in mano e si accingevano a provare, li accordavano lamentosamente col tono dei loro stessi petti, che controllavano con qualche colpo di tosse. Poi di nuovo li mettevano da parte, come se fossero ancora immaturi, non all'altezza di quella notte che scorreva via con indifferenza. Ma poi, nel silenzio e nel fluire del pensiero, mentre forchette e coltelli tintinnavano appena sulle tavole coperte di bianco, all'improvviso quei violini si alzavano da soli, precocemente adulti e maggiorenni; fino a poco prima così lamentosi e incerti, se ne stavano là adesso eloquenti, snelli e col vitino stretto, e rendevano conto della loro missione, riprendevano il processo umano momentaneamente sospeso e proseguivano quella causa persa dinanzi al tribunale indifferente delle stelle, fra le quali si stagliavano in filigrana le esse dei manici e i profili degli strumenti, chiavi frammentarie, lire e cigni abbozzati, imitativo, meccanico commentario stellare al margine della musica. Il fotografo, che già da qualche tempo ci gettava da sopra il tavolo vicino occhiate d'intesa, si sedette infine accanto a noi, trasportando il proprio boccale di birra da un tavolo all'altro. Sorrideva significativamente, lottava con i propri pensieri, faceva schioccare le dita, riperdendo in continuazione il nocciolo della situazione. Ne avevamo sentito fin dall'inizio la paradossalità. Quell'improvvisato accampamento ristorantesco sotto gli auspici delle stelle lontane falliva senza scampo, si sgretolava miseramente, non riuscendo a fronteggiare le pretese smisuratamente crescenti della notte. Che cosa mai potevamo opporre a quei deserti illimitati? La notte cancellava quell'impresa umana che invano i violini tentavano di difendere, invadeva quella breccia, trascinava le sue costellazioni sulle posizioni riconquistate. Vedevamo l'accampamento di tavoli frantumarsi, il campo di battaglia dei tovaglioli e delle tovaglie abbandonate che la notte oltrepassava in trionfo, luminosa e incalcolabile. Ci alzammo anche noi, mentre il nostro pensiero, precedendo il corpo, correva già da tempo dietro il frastuono fragoroso dei suoi carri, dietro al lontano e ampiamente disperso rumore stellare di quelle piste grandi e chiare. Ce ne andavamo così, sotto i razzi delle sue stelle, anticipando mentalmente a occhi chiusi i suoi sempre più alti sfavillii. Ah, quel cinismo della notte trionfante!
Impadronitasi di tutto il cielo, essa ora giocava a domino nei suoi spazi, pigramente e senza tener conto del gioco, accaparrandosi con indifferenza vincite di milioni. Poi, annoiata, tracciava nel campo di battaglia delle tessere rovesciate scarabocchi trasparenti, visi sorridenti, sempre lo stesso sorriso in mille ripetizioni, un sorriso che di lì a un istante passava ormai eterno alle stelle, dissolvendosi nell'indifferenza stellare. Strada facendo ci fermammo in una pasticceria. Appena entrati attraverso le tintinnanti porte a vetri in quell'interno bianco e glassato, pieno di dolci luccicanti, la notte subito si mise all'erta con tutte le sue stelle, improvvisamente guardinga e vigile, attenta a che non le sfuggissimo. Ci attese pazientemente per tutto il tempo, sorvegliando da sotto la porta, risplendendo dall'alto attraverso i vetri con le stelle immobili, mentre con profonda attenzione sceglievamo i pasticcini. Fu allora che vidi per la prima volta Bianka. Stava di profilo davanti al banco, insieme con la governante, vestita di bianco, snella e calligrafica come se fosse uscita dallo Zodiaco. Non si voltava, tenendosi esemplarmente nella posizione composta delle giovinette, e mangiava un pasticcino alla crema. Non la vedevo distintamente, ancora tutto rigato dagli zig zag delle linee stellari. Così per la prima volta si incrociarono i nostri oroscopi, ancora molto confusi: si incontrarono e si separarono con indifferenza. Non comprendemmo ancora il nostro destino in quel precoce aspetto stellare e uscimmo con indifferenza facendo tintinnare le porte a vetri. Tornammo poi facendo un giro per remoti sobborghi. Le case diventavano sempre più basse e rade, infine si levarono davanti a noi le ultime ed entrammo in un altro clima. Penetrammo improvvisamente in una beata primavera, in una notte tiepida, inargentata nei pantani dalla luna giovane, appena sorta, violetta. Quella notte quasi primaverile avanzava a ritmo accelerato, anticipava febbrilmente le sue fasi ulteriori. L'aria, appena allora intrisa della consueta asprezza di quella stagione, divenne improvvisamente dolce, stucchevole, odorosa d'acqua piovana, di terriccio molle, dei primi bucaneve che fiorivano nottambuli in quella magica luce bianca. Ed era fin strano che sotto quella luna generosa la notte non brulicasse negli argentei pantani della gelatina delle ranocchie, non si schiudesse in larve, non rumoreggiasse in mille bocche vociferanti sopra la ghiaia delle rive, percorsa in tutti i suoi pori dalla rete luccicante dell'acqua dolce. E bisognava evocarlo, immaginarselo quel gracidio, nella notte rumorosa e sorgiva, piena di fremiti sotterranei, perché fermatasi un istante potesse proseguire oltre e la luna giungesse al culmine, sempre più bianca, come se travasasse il suo biancore di coppa in coppa, sempre più alta e sempre più radiosa, sempre più magica e trascendentale.
Camminavamo così, sotto il crescente gravitare della luna. Mio padre e il fotografo mi avevano preso in mezzo, poiché non mi reggevo in piedi dal sonno. I nostri passi scricchiolavano nella sabbia molle. Già da tempo dormivo camminando e avevo ormai sotto le palpebre tutta la fosforescenza del cielo, piena di tracce luminose, di segnali, di fenomeni stellari, quando infine ci fermammo in aperta campagna. Mio padre mi sistemò sul cappotto steso per terra. Ad occhi chiusi vedevo il sole, la luna e undici stelle disporsi in parata nel cielo, sfilandomi davanti. Bravo, Jòzef! gridò mio padre e applaudì con approvazione. Fu un evidente plagio commesso ai danni di un altro Jòzef, applicato in tutt'altre circostanze. Nessuno ebbe niente da ridire per questo. Mio padre Jakub chinò più volte la testa e fece schioccare la lingua, mentre il fotografo piantava il suo treppiede nella sabbia, allungando il soffietto della macchina come una fisarmonica e si immergeva tutto nelle pieghe del panno nero: fotografava quel singolare fenomeno, quel lucente oroscopo nel cielo, mentre io, col capo fluttuante nello splendore, giacevo abbagliato sul cappotto e inerte tenevo in posa quel sogno. Iii.
I giorni si fecero lunghi, chiari e vasti, quasi troppo vasti per il loro contenuto ancora povero e inesistente. Erano giorni a crescenza, giorni pieni di attesa, impalliditi di noia e di impazienza. Un soffio chiaro, un vento luminoso passava attraverso il vuoto di quei giorni, non ancora turbato dalle esalazioni dei giardini nudi e pieni di sole, ripuliva le strade e queste diventavano lunghe e chiare, scopate a festa come se aspettassero un qualche arrivo ancora lontano e ignoto. Il sole si dirigeva lentamente verso gli equinozi, rallentava la corsa, giungeva ad una posizione esemplare, in cui doveva fermarsi immobile in ideale equilibrio, gettando spruzzi di fuoco, uno spruzzo dopo l'altro sulla terra deserta e avida. Una corrente chiara ed infinita soffiava su tutta l'ampiezza dell'orizzonte, ordinava siepi e viali lungo le linee pure della prospettiva, si limava nella sua grande corsa vuota e si arrestava infine, ansante, immensa e cristallina, come se volesse nel suo specchio onnicapiente racchiudere l'immagine ideale della città, un miraggio prolungato in fondo alla sua cavità luminosa. Allora il mondo si immobilizzava per un attimo, si arrestava senza respiro, abbagliato, volendo entrare tutto in quell'immagine illusoria, in quell'eternità provvisoria che gli si apriva. Ma l'offerta felice passava, il vento infrangeva il suo specchio e il tempo ci prendeva di nuovo in suo possesso. Sopraggiunsero le vacanze pasquali, lunghe, indeterminabili.
Liberi dalla scuola, bighellonavamo per la città senza meta né bisogno, incapaci di profittare della nostra libertà. Era una libertà completamente vuota, indefinita, inutile. Noi stessi, ancora indefiniti, l'attendevamo dal tempo, il quale però non sapeva trovarla, perdendosi fra mille scappatoie. Davanti al caffè avevano già disposto i tavolini sulla strada. Le signore vi stavano sedute in abiti chiari, colorati, e inghiottivano il vento a piccole sorsate, come gelati. Le gonne sventolavano, e il vento le mordeva dal basso come un cagnolino arrabbiato; le signore avevano le guance accese, i volti avvampavano per il vento secco e le labbra si screpolavano. Durava ancora l'entracte e la sua grande noia, il mondo si avvicinava lentamente e con tremore a un certo limite, si accostava anzi tempo a una certa meta e aspettava.
Avevamo tutti, in quei giorni, una fame da lupi. Prosciugati dal vento, correvamo a casa a consumare con ottuso raccoglimento enormi pezzi di pane e burro, compravamo per strada grandi ciambelle fragranti di freschezza, sedevamo tutti in fila nell'ampio androne della casa sulla piazza, sotto la volta vuota, senza un solo pensiero in testa.
Attraverso le basse arcate si vedeva la piazza del mercato bianca e pulita. Le botti per il vino stavano in fila sotto il muro e odoravano.
Sedevamo sopra il lungo banco sul quale, nei giorni di mercato, si vendevano fazzoletti colorati da contadini e con le gambe tamburellavamo le assi, indolenti e annoiati. A un tratto Rudolf, con la bocca piena di ciambella, si tirò fuori dal seno un album di francobolli e me lo spiegò davanti.
Capii allora perché quella primavera era stata fino allora così vuota, cava e ansimante. Senza saperlo, essa si era acquetata, azzittita, ritratta in se stessa, facendo posto, aprendosi tutta intera nello spazio puro, vuoto, azzurro, senza idea e senza definizioni: stupita forma nuda pronta ad accogliere un ignoto contenuto. Di qui quella neutralità azzurra, come destata dal sogno, quella grande e indifferente disponibilità. Quella primavera si teneva tutta pronta, deserta e spaziosa com'era, si metteva a disposizione, trattenendo il respiro, dimentica di tutto; aspettava, in una parola, la rivelazione. Chi mai poteva prevedere che questa rivelazione sarebbe uscita già pronta, in piena forma e abbagliante, dall'album di Rudolf? Erano stranissime abbreviazioni e formule, ricette di civiltà, amuleti maneggevoli, nei quali si poteva afferrare fra due dita l'essenza di climi e di regioni, erano vaglia per un impero o una repubblica, per arcipelaghi e continenti. Che cosa mai potevano avere di meglio imperatori e usurpatori, conquistatori e dittatori? Conobbi improvvisamente la dolcezza del potere sulla terra, il pungolo di quella sete che può essere saziata solo col dominio. Come Alessandro il Macedone, desiderai il mondo intero. E non un palmo di terra in meno del mondo intero.
Cupo, ardente, pieno d'amore febbrile, assistevo alla sfilata della creazione, paesi in marcia, cortei lucenti, che vedevo a intervalli attraverso purpurei offuscamenti, stordito dal battito del sangue che affluiva al cuore al ritmo di quella marcia universale di tutti i popoli. Rudolf mi faceva sfilare davanti agli occhi quei battaglioni e reggimenti, celebrava la parata, zelante e indaffarato. Lui, proprietario di quell'album, si degradava volontariamente quasi al ruolo di aiutante, faceva solennemente rapporto, commosso, come se prestasse giuramento, accecato e disorientato nella sua parte poco chiara e ambigua. Alla fine, sull'onda di un'appassionata magnanimità, mi appuntò sul petto con entusiasmo, quasi fosse una decorazione, una Tasmania rosa, ardente come un maggio, e un Hyderabad brulicante del balbettio zingaresco di confusi alfabeti. Vi. Fu allora che ebbe luogo quella rivelazione, quella visione improvvisamente apparsa della divampante bellezza del mondo, fu allora che giunse quella felice novella, messaggio segreto, missione speciale, sulle inafferrabili possibilità dell'esistenza. Si spalancarono orizzonti fulgidi, severi, da togliere il respiro, il mondo tremava e vacillava sulle sue giunture, si inclinava pericolosamente, minacciando di sottrarsi a ogni regola e misura. Che cos'è per te, caro lettore, un bollo? Che cos'è questo profilo di Francesco Giuseppe I, dalla calvizie coronata da una ghirlanda d'alloro? Non è forse il simbolo della quotidianità, la determinazione di tutte le possibilità, la garanzia degli invalicabili confini nei quali, una volta per sempre, il mondo è racchiuso? Il mondo era a quell'epoca contenuto da ogni parte da Francesco Giuseppe I e non c'era via di uscita fuori di lui. Sopra tutti gli orizzonti si levava, da dietro tutti gli angoli spuntava quel profilo onnipresente e inevitabile, che racchiudeva il mondo a chiave, come in una prigione. Ed ecco che quando avevamo ormai perduta la speranza, pieni di amara rassegnazione, e ci eravamo intimamente adattati all'univocità del mondo, a quell'angusta immobilità, il cui potente garante era Francesco Giuseppe I, allora, all'improvviso, come una cosa di poco conto, mi apristi dinanzi quell'album, o Dio, mi permettesti di gettare una rapida occhiata su quel libro, che si squamava tutto di luce, sull'album che lasciava cadere le sue vesti, pagina dopo pagina, sempre più fulgido e sempre più terrificante... Qualcuno mi rimprovererà di essere rimasto allora accecato, impotente per l'emozione, mentre dagli occhi ricolmi di luce sgorgavano lacrime. Che abbagliante relativismo, che atto copernicano, che fluidità di tutte le categorie e idee! Dunque tanti modi di esistere hai concesso, o Dio, dunque questo tuo mondo è così incommensurabile! Questo è più di quel che abbia immaginato nei sogni più audaci. Dunque è vera questa precoce anticipazione dell'animo, che contro l'evidenza si ostinava a sostenere che il mondo è incommensurabile!
Il mondo era a quell'epoca limitato da Francesco Giuseppe I. Sopra ogni bollo, sopra ogni moneta e ogni timbro la sua effigie attestava l'immutabilità del mondo, l'inconcusso dogma della sua univocità. Questo è il mondo e non hai altri mondi all'infuori di quello, proclamava il sigillo col vecchio imperial regio. Tutto il resto è fantasia, bizzarra pretesa e usurpazione. Al di sopra di tutto si impresse Francesco Giuseppe I e frenò il mondo nel suo sviluppo. Dal profondo del nostro essere noi ci inchiniamo alla lealtà, caro lettore. La lealtà della nostra natura cortese non è insensibile al fascino dell'autorità.
Francesco Giuseppe I era la più alta autorità. Se quel vecchio autoritario gettava tutto il suo prestigio sul piatto di quella verità, non c'era rimedio: bisognava rinunziare ai sogni dell'animo, alle sue ardenti anticipazioni, arrangiarsi come si poteva in quell'unico mondo possibile, senza illusioni e senza romanticismi, e dimenticare. Ma quando ormai la prigione stava per chiudersi irrevocabilmente, quando anche l'ultima apertura era mutata, quando tutto era ormai stabilito per tacerti, o Dio, quando Francesco Giuseppe I aveva ostruito, tappato l'ultima fessura perché non Ti si vedesse, allora sorgesti nel manto frusciante dei mari e dei continenti, e lo smentisti. Tu, Dio, Ti assumesti allora l'odium dell'eresia ed esplodesti nel mondo con questo enorme, colorato e meraviglioso blasfema. Oh, sublime Eresiarca! Mi colpisti allora con quel libro fiammeggiante, irrompesti dalla tasca di Rudolf sotto forma di un album di francobolli. Non conoscevo ancora a quel tempo l'aspetto triangolare dell'album. Nella mia cecità, lo scambiavo con una pistola di carta, con la quale sparavamo a scuola sotto il banco per la disperazione dei professori. Oh, come ne irrompesti, o Dio! Era la Tua tirata ardente, era la fiammeggiante e meravigliosa filippica Tua contro Francesco Giuseppe I e il suo dominio prosaico, era il vero libro dello splendore. L'aprii e tutto mi brillò dinanzi coi colori del mondo, col vento di spazi inafferrabili, col panorama di orizzonti vorticosi. Tu vi passavi attraverso, pagina dopo pagina, trascinandoti dietro quello strascico intessuto di tutte le regioni e di tutti i climi. Canadà, Honduras, Nicaragua, Abracadabra, Hiporabundia... Ti compresi, o Dio. Erano tutte scappatoie della Tua ricchezza, erano le prime parole che Ti venivano in mente. Mettesti la mano in tasca e mi mostrasti, come una manciata di bottoni, le possibilità che pullulavano in Te. Tu non badavi all'esattezza, dicesti ciò che Ti venne sulla punta della lingua. Avresti potuto dire egualmente: Panfibras e Haleliva, e l'aria avrebbe crepitato, fra le palme, di pappagalli elevati a potenza, mentre il cielo, come un'immensa rosa stradoppia di zaffiro, aperta con un soffio fino al cuore, avrebbe mostrato il suo fondo, il Tuo occhio, simile ad un occhio di pavone, cigliato e abbagliante, e avrebbe scintillato nel nucleo fulgido della Tua saggezza, brillato di sopraccolore, esalato sopraodore. Tu volevi abbagliarmi, o Dio, vantarti, civettare con me, poiché anche Tu hai momenti di vanità, quando Ti lasci affascinare da Te stesso. Oh, come amo questi momenti! Come rimanesti sconfitto, Francesco Giuseppe I, tu e il tuo vangelo di prosa! Invano ti cercavano i miei occhi, alla fine ti trovai. Eri anche tu in quella folla, ma come piccolo, detronizzato e grigio. Marciavi con gli altri nella polvere della strada, subito dopo l'America del Sud, ma prima dell'Australia, e cantavi con gli altri: Osanna! Viii. Divenni un adepto del nuovo vangelo. Feci amicizia con Rudolf. Lo ammiravo, presentendo oscuramente che egli era solo uno strumento, che il libro era ad altri predestinato. In effetti egli dava l'impressione di esserne piuttosto il custode. Catalogava, incollava, scollava, conservava sotto chiave nell'armadio. In realtà era triste come colui che sapeva che sarebbe diminuito mentre io sarei cresciuto, era come colui che venne per Raddirizzare i sentimenti del Signore.
Avevo molte ragioni per ritenere che quel libro fosse destinato a me.
Molti segni mostravano che esso mi era indirizzato quale missione speciale, quale messaggio e incarico personale. Lo compresi già dal fatto che nessuno se ne sentiva il proprietario. Neppure Rudolf, che ne era piuttosto il servitore. Lo sentiva, in fin dei conti, estraneo. Era come un servo svogliato e pigro, obbligato a una corvée. Talvolta l'invidia gli gonfiava il cuore di amarezza. Si rivoltava internamente contro la sua parte di custode di un tesoro che non gli apparteneva.
Guardava con invidia il riflesso di mondi lontani che errava con una tacita gamma di colori sul mio viso. Solo, rispecchiato dal mio volto, lo raggiungeva il riflesso lontano di quelle pagine, cui il suo animo non partecipava. X. Ho visto una volta un prestigiatore. Stava sul palcoscenico, magro, visibile da ogni parte e presentava il suo cilindro, mostrandone a tutti il fondo vuoto e bianco. Garantita in tal modo la propria arte al di sopra di ogni dubbio e di ogni sospetto di manipolazioni artificiose, tracciava in aria con la bacchetta il suo complicato segno magico, e immediatamente cominciava con affettata precisione ed evidenza ad estrarre con la bacchetta dal cilindro nastri di carta, nastri colorati, a cubiti, a braccia, infine a chilometri. La stanza si riempiva di quella massa colorata e frusciante, si faceva più chiara per quell'incessante moltiplicarsi, per la spumeggiante, leggera carta velina, per il luminoso accumularsi, e lui intanto non cessava di estrarre quella trama infinita, nonostante le voci impaurite, piene di rapita protesta, di grida estatiche, di pianti convulsi, finché non risultava chiaro come il sole che a lui non costava niente, che attingeva quella profusione non dalle sue risorse, che gli si erano aperte semplicemente fonti soprannaturali, fuori dalle misure e dai calcoli umani. Qualcuno allora, predestinato ad accogliere il profondo senso di quella dimostrazione, se ne tornava a casa pensieroso, abbagliato nel suo intimo, profondamente penetrato della verità che era entrata in lui: Dio è incommensurabile...
E' questo il momento di svolgere un breve parallelo fra Alessandro Magno e la mia persona.
Alessandro Magno era sensibile agli aromi dei paesi. Le sue narici fiutavano straordinarie possibilità. Era uno di quelli cui Dio ha passato la mano sul viso nel sonno, così che sanno ciò che non sanno, diventano pieni di congetture e di sospetti, mentre attraverso le loro palpebre chiuse passano i riflessi di mondi lontani. Tuttavia egli aveva preso le allusioni divine troppo alla lettera. Essendo uomo d'azione, ovvero di spirito superficiale, interpretò la propria missione come quella di conquistatore del mondo. La stessa sete inappagata riempiva il suo petto e il mio, gli stessi sospiri li dilatavano, penetrando nell'animo di lui, un orizzonte dopo l'altro, un paesaggio dopo l'altro.
Non aveva nessuno che potesse correggere il suo errore. Perfino Aristotele non lo capì. Così morì deluso, sebbene avesse conquistato il mondo intero, disperando di Dio, che sempre si era ritirato davanti a lui, e dei Suoi miracoli. Il suo ritratto adornò monete e francobolli d'ogni paese. Per castigo divenne il Francesco Giuseppe dei suoi tempi.
Vorrei dare al lettore un'immagine almeno approssimativa di ciò che era allora quel libro, coi cui fogli si valutavano preventivamente e si componevano le questioni decisive di quella primavera. Un vento indefinibile, inquietante passò lungo la rilucente spalliera di quei francobolli, lungo la strada decorata dagli stemmi e dagli stendardi, dispiegando febbrilmente i simboli e gli emblemi ondeggianti nel silenzio ansante, all'ombra delle nubi minacciosamente levatesi all'orizzonte. Poi, all'improvviso, apparivano i primi araldi sulla via deserta in uniforme di gala, con fasce rosse sulle spalle, lucidi di sudore, imbarazzati, tutti compresi della loro missione e indaffarati.
Facevano segnali in silenzio, profondamente commossi e pieni di solenne gravità, e subito la via si oscurava per quella dimostrazione che andava approssimandosi, nereggiavano le spalliere da ogni traversa al crepitare di mille piedi sopraggiungenti. Era un'immensa manifestazione dei paesi, un Primo Maggio universale, una parata monstre dei mondi. Il mondo manifestava con migliaia di mani levate come in giuramento, con migliaia di bandiere e stendardi, manifestava con migliaia di voci di non essere per Francesco Giuseppe I, ma per qualcuno molto, molto più grande. Sopra tutti ondeggiava un color rosso chiaro, quasi rosato, l'indefinibile, liberatrice tinta dell'entusiasmo. Da San Domingo, da San Salvador, dalla Florida giungevano delegazioni ansimanti ed entusiaste, tutte in montura color lampone, e si inchinavano con le bombette color ciliegia, da sotto le quali prendevano il volo cardellini vocianti a due, a tre.
Un vento lucente ravvivava in felici incursioni il brillio delle trombe, spolverava mollemente, debolmente i bordi degli strumenti, che lasciavano cadere sui loro margini mute scintille di elettricità.
Nonostante la ressa, nonostante le sfilate di tutte quelle migliaia, tutto avveniva con ordine, l'immensa parata si svolgeva pianamente in silenzio. Vi sono momenti in cui le bandiere, ondeggiando dai balconi con ardore e violenza, avvolgendosi nell'aria rarefatta in torsioni color amaranto, in sventolii veementi e silenziosi, in vani slanci di entusiasmo, si drizzano immobili come per un appello, e l'intera via si fa rossa, accesa e piena di tacito allarme, mentre nelle lontananze sempre più oscure si contano attentamente le sorde salve delle cannonate, quarantanove detonazioni, nell'aria che imbruna. Poi, l'orizzonte si rannuvola improvvisamente, come prima di un temporale primaverile, brillano vividi solo gli strumenti delle orchestre e nel silenzio si ode solo il rimbombo del cielo che si oscura, il mormorio di spazi lontani, mentre dai giardini vicini il profumo del ciliegio promana in cariche concentrate e passivamente si disperde in estensioni indefinibili. Xiii. Finché, verso la fine di aprile, ci fu un pomeriggio grigio e tiepido, la gente camminava guardando per terra davanti a sé, sempre in quel metro quadrato di terra umida che aveva dinanzi, senza accorgersi che di lato scorrevano gli alberi del parco, oscuramente ramificati, lacerati in più punti e aperti in ferite dolci e purulente.
Impigliato nella nera rete ramosa degli alberi, un cielo grigio, soffocante gravava sul capo degli uomini, stratificato a colpi di vento, informemente pesante e immenso come una trapunta di piuma. La gente si trascinava sotto il suo peso sulle mani e sui piedi, come maggiolini che fiutassero in quell'umidità tiepida la terra molle con le antenne sensibili. Il mondo giaceva sordo, si espandeva e cresceva ora in alto, ora all'indietro, ora in profondità, beatamente spossato, e fluttuava. A volte si diradava e ricordava qualcosa di nebuloso, si ramificava in alberi, occhieggiava attraverso la fitta rete lucente del cinguettio degli uccelli, gettata su quel giorno grigio, e penetrava in profondità, nel serpeggiare sotterraneo delle radici, nel cieco pulsare dei vermi e dei bruchi, nel sordo nereggiare dell'humus e dell'argilla. E sotto quella mole informe stavano accucciati gli uomini assordati e senza un solo pensiero in testa, rannicchiati con la testa fra le mani pendevano tutti curvi dalle panchine del parco, con un foglio di giornale sulle ginocchia, da cui il testo rifluiva nella vasta, grigia balordaggine del giorno, pendevano sgraziati ancora nella posa del giorno prima e sbavavano senza accorgersene. Forse li aveva assordati il fitto martellare del cinguettio, quelle infaticabili teste di papavero riversanti una grigia pioggia di granelli che ottenebravano l'aria.
Camminavano assonnati sotto quella grandine plumbea e chiacchieravano a gesti in mezzo a quel diluvio scrosciante, oppure rassegnati tacevano.
Ma quando verso le undici del mattino, in un punto dello spazio, attraverso il grande corpo rigonfio delle nuvole eruppe il sole come un pallido germe, allora, all'improvviso, nei canestri ramosi degli alberi brillarono fitti i germogli e il velo grigio del cinguettio si staccò lentamente in una rete di oro pallido dal volto del giorno, che aprì gli occhi. E quella fu la primavera. E improvvisamente, in un attimo, il viale del parco, deserto fino allora, si dissemina di gente che si affretta in direzioni diverse, quasi fosse il punto di congiunzione di tutte le vie della città, e fiorisce di toilettes femminili. Alcune di queste snelle e flessuose fanciulle corrono al lavoro, ai negozi e agli uffici, altre ad appuntamenti, ma per quei pochi istanti che impiegano ad attraversare il canestro traforato del viale, esalante umidità di serra e spruzzato di trilli di uccelli, appartengono a quel viale e a quell'ora, sono, senza saperlo, comparse di quella scena nel teatro della primavera, quasi fossero nate sulla passeggiata insieme con quelle ombre delicate degli arbusti e delle foglie che germogliano a vista d'occhio sullo sfondo oro scuro della ghiaia umida; e corrono per qualche battuta dorata, ardente, preziosa e poi subito impallidiscono e svaniscono nell'ombra, si infiltrano nella sabbia, come quelle filigrane trasparenti, allorché il sole penetra nella pensosità delle nubi. Ma per un attimo esse hanno fatto brulicare il viale con il loro fresco affrettarsi, e dal frusciare della loro biancheria sembra provenire quell'odore indefinibile del viale. Ah, quelle camicette aeree e fresche d'amido, portate a spasso sotto l'ombra traforata del corridoio della primavera, quelle camicette con le macchie umide sotto le ascelle, che si asciugano ai soffi violetti della lontananza. Ah, quelle gambe giovani, ritmiche, riscaldate dal moto nelle calze di seta nuove, fruscianti, sotto le quali si nascondono macchie rosse e foruncoletti, salutari sfoghi primaverili di un sangue troppo caldo. Ah, l'intero parco impudicamente cosparso di foruncoli e tutti gli alberi coperti di pustolette in boccio, che esplodono cinguettando. Poi il viale si svuota di nuovo e sotto la volta della passeggiata cigola piano coi suoi raggi di ferro una carrozzina da bimbo sulle esili molle. Nella navicella laccata, sepolto in un'aiola di alte gale di seta inamidate, dorme come in un bouquet di fiori qualcosa di ancor più delicato. La ragazza che spinge lentamente la carrozzzina si piega di tanto in tanto su di lui, inclina sulle ruote posteriori, facendo gemere gli assi dei cerchioni, quel cestino dondolante, tutto fiorito di bianca frescura, e rassetta carezzevolmente quel bouquet di tulle fino al suo dolce nucleo addormentato, dove il sonno si aggira come una fiaba, mentre la carrozzina sfiora le strisce d'ombra, quel trascorrere di nuvole e di luci. Poi, a mezzogiorno, nel giardino in boccio luci ed ombre si intrecciano ancora, e attraverso gli occhi delicati di quella rete si diffonde senza posa il cinguettio degli uccelli, si propaga cristallino di ramo in ramo, attraverso la gabbia del giorno. Ma le donne che passano lungo il margine della passeggiata sono ormai stanche e hanno i capelli in disordine per l'emicrania e i volti sfatti dalla primavera.
Ed ecco che già il viale si svuota completamente e attraverso il silenzio del pomeriggio giunge lentamente l'odore di ristorante del padiglione del parco. Xiv. Ogni giorno alla stessa ora per il viale del parco passa Bianka con la sua governante. Che dire di Bianka, come descriverla? So soltanto che è meravigliosamente conforme a se stessa, che esegue fino in fondo il suo programma. Col cuore serrato da profonda gioia, la vedo ogni volta entrare nuovamente, passo a passo, nel suo essere, lieve come una ballerina, e inconsapevolmente, con ogni suo gesto, colpire il segno. Cammina in modo tutt'affatto normale, senza grazia eccessiva, ma con una semplicità che va diretta al cuore, e il cuore si stringe per la felicità che si possa essere così semplicemente Bianka, senza alcun artificio e senza alcuna tensione. Una volta alzò gli occhi su di me e l'intelligenza di quello sguardo mi penetrò fino in fondo, mi trafisse come una freccia da parte a parte. Da allora so che niente le è segreto, che conosce tutti i miei pensieri fin dal principio. Da quel momento mi misi a sua disposizione senza limiti, indivisibilmente. Accettò battendo le palpebre in modo appena percettibile. Ciò accadde senza parole, en passant, in un solo sguardo.
Se voglio raffigurarmela, posso evocare soltanto un particolare insignificante: la sua pelle screpolata ai ginocchi come in un ragazzo, il che è altamente eccitante e trascina il pensiero nelle tormentose strettoie della contraddizione, fra allietanti antinomie. Tutto il resto, più su e più giù, è trascendentale e ineffabile. Xv. Oggi mi sono di nuovo immerso nell'album di Rudolf. Che studio meraviglioso! Quel testo è pieno di rinvii in nota, di allusioni, di accenni e anche di un ambiguo lampeggiare. Ma tutte le linee confluiscono in Bianka. Che felici supposizioni! Di nodo in nodo corre il mio sospetto come lungo una miccia, acceso da una luminosa speranza, sempre più abbagliato. Ah, quanto mi pesano, come mi stringono il cuore i segreti che presagisco.
Nel parco cittadino ogni sera si fa musica e per il viale scorre il passeggio primaverile. Si gira e si rigira, ci si sfiora e ci s'incontra in simmetrici, sempre ripetuti arabeschi. I giovani indossano cappelli nuovi, primaverili e tengono con indifferenza i guanti in mano.
Attraverso i tronchi degli alberi e le siepi rilucono nei viali vicini gli abiti delle ragazze. Camminano, queste ragazze, a coppie, dondolandosi sulle anche, spumeggianti di nastri e di gale, recano con sé, come cigni, quegli sboffi rosa e bianchi, campane ricolme di mussola in fiore, e a volte li depongono su una panchina, come se fossero stanche della loro vuota parata, e si siedono con tutta quella grande rosa di garza e di batista che sboccia spandendo i petali. E allora si scoprono le gambe posate l'una sull'altra, incrociate, intrecciate in una bianca forma piena di irresistibile eloquenza, e i giovani che camminando passano loro accanto tacciono e impallidiscono, colpiti dalla giustezza dell'argomento, profondamente persuasi e convinti. Giunge il momento che precede il crepuscolo e i colori del mondo si abbelliscono.
Tutte le tinte mettono i coturni, si vestono a festa, febbrili e tristi.
Presto il parco si copre di una vernice rosata, di una lacca lucente per cui le cose risultano subito molto più colorate e luminose. Ma già c'è in quelle tinte un azzurro troppo profondo, una bellezza troppo smagliante e ormai sospetta. Ancora un attimo e il folto del parco, appena cosparso di tenera verzura, ramoso ancora e nudo, traluce tutto dell'ora rosata del crepuscolo, percorsa da un fresco balsamo, impregnata della tristezza indicibile delle cose per sempre immortalmente belle. Allora improvvisamente tutto il parco diventa come un'immensa tacita orchestra che attenda, solenne e raccolta, sotto la bacchetta alzata del direttore, che la musica maturi in essa e cresca, e a un tratto, sopra quell'immensa sinfonia potenziale e ardente, cala, rapido e colorato, un crepuscolo teatrale, come sotto l'influsso dei toni impetuosamente crescenti di tutti gli strumenti. Da qualche parte, su in alto, trapassa la tenera verzura la voce del rigogolo, rintanato nel folto, e subito tutto attorno si fa solenne, solitario e tardo come in un bosco a sera. Un alito appena percepibile soffia attraverso le cime degli alberi da cui si riversa in un fremito la pioggia asciutta del prugnolo, indefinibile e amaro. Si spande alto sotto il cielo crepuscolare e si diffonde in uno sconfinato sospiro di morte quell'aroma amaro in cui le prime stelle versano le loro lacrime, come fiori di lillà colti da quella notte pallida e liliale. Ecco, lo so: suo padre è medico di bordo, sua madre era una meticcia. Lei, di notte in notte, aspetta nel porto quel piccolo e nero battello fluviale con le ruote sui fianchi e non accende la lanterna. Allora, in quelle coppie che circolano, in quei giovani e in quelle ragazze che si incontrano continuamente in giri regolari, penetra una strana forza e ispirazione.
Ogni giovane si trasforma in un Don Giovanni bello e irresistibile, ostenta un'aria fiera e vittoriosa e imprime allo sguardo quella forza assassina che fa trepidare i cuori delle fanciulle. E intanto alle fanciulle si fanno più profondi gli occhi, si aprono in essi profondi giardini ramificati in viali, labirinti di parchi neri e fruscianti. Le loro pupille si dilatano in uno splendore festivo, si aprono senza resistere, lasciando entrare quei conquistatori fra le siepi dei loro oscuri giardini, che si suddividono più volte e simmetricamente in sentieri, come le strofe di una ballata, fino ad incontrarsi e a trovarsi, come in una rima triste, negli spiazzi rosati, attorno alle aiole rotonde, o presso alle fontane infiammate dal fuoco ormai tardivo del crepuscolo, e di nuovo separarsi e disperdersi tra le masse nere del parco, densità serali, sempre più fitte e fruscianti, in cui si smarriscono e si perdono, come fra quinte intricate, cortine di velluto e tranquille alcove. E non si sa quando, attraverso il fresco di quei giardini che imbrunano, passano in recessi totalmente dimenticati, ignoti, in un altro, più oscuro stormire di alberi, ondeggiante come un velo da lutto, in cui l'oscurità fermenta e degenera, e il silenzio durante anni di tacita decomposizione marcisce fantasticamente come in certe vecchie, obliate botti di vino. Così, errando alla cieca nella coltre nera di quei parchi, si incontrano infine in una radura solitaria, sotto l'ultima porpora del crepuscolo, presso uno stagno che da secoli pullula di limo e sopra una balaustra sgretolata, da qualche parte al limite del tempo, all'estrema porta del mondo, di nuovo si ritrovano in una vita trascorsa da tempo, in una lontana preesistenza, e racchiusi in un altro tempo, nei costumi di secoli passati, singhiozzano senza fine sopra la mussola di uno strascico, e fondandosi su inadempibili giuramenti, risalendo lungo i gradini della memoria, raggiungono una vetta o un confine, oltre i quali è ormai solo la morte e il torpore di un'ineffabile voluttà. Xvii. Che cos'è il crepuscolo primaverile? Siamo dunque arrivati al nocciolo della questione? Questa strada non porta più in là? Siamo alla fine delle nostre parole, che ormai qui vaneggiano, delirano e si fanno imprevedibili. Eppure soltanto oltre il loro confine comincia ciò che in questa primavera sfugge e non si può esprimere. Mistero del crepuscolo! Solo oltre le nostre parole, dove la forza della nostra magia non giunge, mormora quell'oscuro, inafferrabile elemento. La parola si scompone qui e si dissolve, torna alla sua etimologia, penetra di nuovo in profondità, nella sua oscura radice. E come in profondità? Lo intendiamo letteralmente. Ed ecco farsi scuro, le nostre parole si perdono fra associazioni non chiare.
Acheronte, Orco, Inferi... Sentite come si fa buio a queste parole, come brulica di talpaie, come spira profondità, sottosuolo, tomba. Che cos'è il crepuscolo primaverile? Ancora una volta avanziamo questa domanda, questo ritornello ardente delle nostre indagini, per cui non c'è risposta. Quando le radici degli alberi vogliono parlare, quando sotto il tappeto erboso si accumulano molti e molti passati, vecchi racconti, antichissime storie, quando sotto la radice si ammucchia troppo brusio soffocato, troppo tessuto inarticolato, e quell'oscuro affanno che è prima di ogni parola, allora la corteccia degli alberi annerisce e si fa tutta rugosa, spaccandosi in grosse scaglie, in solchi profondi, il midollo si dilata in pori oscuri, come una pelliccia d'orso. Affondando il viso in quella folta pelliccia del crepuscolo, per un attimo tutto diventa buio, sordo e soffocante, come sotto un coperchio. Bisogna fissare gli occhi come sanguisughe nella più nera oscurità, far loro lieve violenza, spingerli a forza attraverso l'impenetrabile, lasciarli scorrazzare attraverso il suolo sordo, ed eccoci subito vicini alla meta, dall'altra parte della questione, nelle profondità, negl'Inferi. E vediamo... Non è completamente buio, qua, come si potrebbe supporre. Al contrario, l'interno palpita tutto di luce. E', evidentemente, la luce interiore della radice, la pallida fosforescenza, le esili venoline di chiarore di cui è marmorizzata l'oscurità, vaganti barbagli luminosi della sostanza. Proprio come quando dormiamo, isolati dal mondo, smarriti lontano in una profonda introspezione, in un viaggio di ritorno verso se stessi: noi vediamo lo stesso, vediamo chiaramente sotto le palpebre chiuse, poiché allora i pensieri si accendono in noi alla fiaccola interiore e covano farneticando in lunghe micce, rinfocolandosi di nodo in nodo. Così si compie in noi una regressione su tutta la linea, un ritrarsi in profondità, un ritorno alle radici. Così ci ramifichiamo entro di noi per mezzo dell'anamnesi, rabbrividendo ai fremiti sotterranei che ci percorrono, fantastichiamo a fior di pelle per tutta la superficie farneticante. Poiché in alto, alla luce occorre dirlo una volta per tutte siamo un vibrante fascio articolato di melodie, un luminoso volo verticale di allodole; nell'intimo, ci dissolviamo di nuovo in un nero borbottio, in un parlottio, in una moltitudine di storie interminabili. Soltanto adesso vediamo su che cosa cresce questa primavera, perché è così ineffabilmente triste e carica di conoscenza. Ah, non lo avremmo creduto se non lo avessimo visto coi nostri occhi. Ecco i labirinti dell'interno, i magazzini e i granai delle cose, ecco ancora calde le tombe, la polvere e lo strame. Storie vetuste. Sette strati, come nell'antica Troia, corridoi, sale, camere del tesoro. Quante maschere dorate, una maschera dopo l'altra, sorrisi appiattiti, volti corrosi, mummie, vuote larve... Qui sono i colombari, quelle cassette per i morti, in cui giacciono disseccati, neri come radici, e aspettano il loro tempo. Qui sono le grandi drogherie, dove sono in vendita entro lacrimatoi, crogiuoli, ampolle. Per anni stanno nei loro scaffali, in lunghe file solenni, benché nessuno li compri.
Forse sono già tornati a vivere negli scomparti dei loro nidi, ormai completamente risanati, puri come incenso e profumati: cinguettanti specifici, ridesti, impazienti farmaci, balsami e unguenti mattutini, assaporanti il proprio gusto acerbo sulla punta della lingua. Quelle piccionaie murate sono piene di piccoli becchi schiudentisi e del loro primissimo, tentante, luminoso pigolio. Come fa giorno presto, anzi tempo, in quelle vuote e lunghe spalliere, dove i morti si destano in fila, profondamente riposati, a un'alba completamente nuova...!
Ma non è ancora la fine, scendiamo più giù. Soltanto, niente paura.
Datemi la mano, prego; ancora un passo e siamo alla radice; e subito tutto diventa buio, ramoso e barbicato come nel folto di un bosco. C'è odore di borraccina e di legno marcio, le radici vagano nell'oscurità, si aggrovigliano, si sollevano, le linfe vi penetrano come aspirate da pompe. Siamo dall'altra parte, siamo nel rovescio delle cose, nell'oscurità imbastita di confusa fosforescenza. Che traffico, che movimento e che folla! Che formicolio e che miscuglio, quanti popoli e generazioni! Bibbie e iliadi mille volte moltiplicate! Che processione e che tumulto, che baraonda e fracasso della storia! Più avanti ormai questa strada non porta. Siamo proprio al fondo, alle oscure fondamenta, siamo alle Madri. Qui stanno gl'Inferi interminabili, quegli spazi ossianici senza speranza, quei miserabili nibelunghi. Qui sono quelle grandi incubatrici della storia, quelle fabbriche della favolistica, nebbiosi fumatoi di fiabe e racconti. Ora finalmente si capisce il grande e triste meccanismo della primavera. Ah, essa cresce dalle storie! Quanti avvenimenti, vicende, destini! Tutto ciò che possiamo aver letto, tutte le storie ascoltate e riascoltate e tutte quelle mai udite, che dall'infanzia ci balenano dinanzi, qui, non altrove, hanno la loro dimora e patria. Di dove mai avrebbero preso gli scrittori i loro argomenti, di dove avrebbero tratto l'audacia creativa, se non avessero sentito dietro di sé queste riserve, questi capitali, queste infinite molteplicità di cui vibra il mondo sotterraneo? Che intreccio di sussurri, che borbottante parlottio della terra! Ai tuoi orecchi pulsa una perenne lusinga. Cammini a occhi chiusi in quel tepore di bisbigli, sorrisi e promesse, stimolato senza posa, pungolato all'infinito da mille e mille domande, come da milioni di dolci pungiglioni di zanzare.
Vorrebbero che tu prendessi qualcosa di loro, una cosa qualsiasi, almeno un frammento di quelle vicende incorporee e sussurranti e l'accogliessi Il ella tua giovane vita, nel tuo sangue, e lo preservassi e continuassi a viverci assieme. Perché, che cos'è mai la primavera se non una reviviscenza della storia? Essa è l'unica fra quegli incorporei, viva, reale, fredda e ignara di tutto. Oh, come attrae quegli spettri al suo sangue giovane e verde, alla sua ignoranza vegetale, tutti quei fantasmi, quelle larve, quei farfarelli! Essa li accoglie nel suo sonno, inerme ed ingenua, e con quelli dorme e si sveglia trasognata all'alba, e non ricorda niente. Perciò è così carica di tutta quella somma di cose obliate e così triste, perché deve, tutta da sola, vivere per tante esistenze, e per tanti reietti e abbandonati essere bella... E per far questo ha a sua disposizione soltanto un inesauribile profumo di prugnolo, che scorre in un unico, eterno, infinito corso, in cui è tutto... E infatti, che mai significa dimenticare? Sopra le vecchie storie crebbe durante la notte una nuova verzura, un morbido strato verde, un chiaro e fitto germogliare si diffuse per tutti i pori, in un manto uniforme, come la zazzera dei ragazzi all'indomani del taglio.
Come rinverdisce la primavera nell'oblio, come riacquistano quei vecchi alberi la loro dolce e ingenua ignoranza, come si destano coi loro rami e non oppressi dal ricordo, con le radici affondate nelle antiche vicende! Quel verde le leggerà ancora una volta come nuove e le sillaberà dall'inizio, e da quel verde ringiovaniranno le storie e ricominceranno ancora una volta, come se non fossero mai state. Tante sono le vicende non nate. Oh, quei lamentosi cori fra le radici, quelle ciarle sovrapponentisi a vicenda, quei monologhi inesauribili fra improvvisazioni d'un tratto prorompenti! Basterà la pazienza per stare ad ascoltarli fino in fondo? Prima della più vecchia storia ascoltata ce ne furono altre che non avete udito, vi furono anonimi precursori, racconti senza nome, epopee colossali, pallide e monotone, informi byline, tronchi amorfi, giganti senza faccia, invadenti l'orizzonte, testi oscuri per drammi serali di nuvole, e oltre ancora...librileggende, libri mai scritti, libri eterni pretendenti, libri erranti e perduti in partibus infidelium... Fra tutte le storie che premono in un groviglio alle radici della primavera, ce n'è una che ormai da lungo tempo è divenuta di proprietà della notte, si è stabilita per sempre sul terreno dei firmamenti, eterno accompagnamento e sfondo degli spazi stellari. Attraverso ogni notte primaverile, qualunque cosa in essa accada, questa storia scorre a gran passi sopra l'immenso gracidio delle rane e l'infinita corsa dei mulini. Cammina quell'uomo sotto la farina stellare che si riversa dalle macine della notte, cammina a gran passi per il cielo, stringendosi al seno un bimbo, fra le pieghe del manto, sempre in cammino, in una marcia incessante attraverso gli infiniti spazi della notte. Oh, tristezza immensa della solitudine, oh, smisurata orfanezza degli spazi notturni, oh, bagliori di stelle lontane! In questa storia il tempo non cambia ormai niente. In ogni momento essa passa proprio attraverso gli orizzonti stellari, ci sta giusto superando a gran passi, e così ormai sarà sempre, continuamente di nuovo, poiché una volta sviata dai binari del tempo è diventata ormai insondabile, illimitata, non esaurita da alcuna ripetizione. Cammina quell'uomo e stringe il bambino fra le braccia deliberatamente ripetiamo questo ritornello, questo lugubre motto della notte, per esprimere quella continuità intermittente dell'andare, ora velata dal groviglio delle stelle, ora del tutto invisibile attraverso i lunghi, muti intervalli, per i quali spira l'eternità. Mondi lontani si approssimano, terribilmente sfolgoranti, mandano attraverso l'eternità potenti segnali in muti, inesprimibili rapporti ed egli cammina e ninna senza fine una bambinetta con monotonia e disperazione, impotente di fronte a codesto sussurro, a quelle lusinghe terribilmente dolci della notte, a quell'unica parola in cui si atteggiano le labbra del silenzio, allorché nessuno l'ascolta... Questa è la storia di una principessina rapita e scambiata. Xviii. Ma quando a tarda notte tornano silenziosi all'ampia villa fra i giardini, nella camera bianca e bassa in cui troneggia lungo, nero e lucente un pianoforte e tace con tutte le sue corde, e attraverso la grande parete a vetri, come attraverso le vetrate di un’ orangerie, l'intera notte primaverile si piega, pallida e stillante di stelle, e da tutte le bottiglie e i flaconi odora amaro il prugnolo sulle fresche lenzuola del letto bianco, allora per la grande notte insonne corrono le inquietudini e le attese, e il cuore parla nel sonno e vola e incespica e singhiozza attraverso la notte vasta e rugiadosa, brulicante di falene, amara di prugnolo e luminosa... Ah, come il prugnolo amaro dilata la notte sconfinata e il cuore tormentato dai voli, sfiancato da felici inseguimenti, vorrebbe assopirsi un istante sopra un aereo confine, sopra un margine sottilissimo, ma da quella pallida notte senza fine si slarga una notte sempre nuova, sempre più pallida e più incorporea, disegnata da linee e zigzag luminosi, da spirali di stelle e di pallidi voli, mille volte punte da invisibili pungiglioni di zanzare, silenziose e dolci per il sangue di fanciulle, e il cuore infaticabile già delira di nuovo nel sonno, irresponsabile, immerso in complesse questioni stellari, in corse a perdifiato, in panici lunari, esultante e centuplicato, coinvolto in pallide fascinazioni, in sogni torpidi e sonnambuli, in fremiti letargici. Ah, tutti quei rapimenti e le corse di quella notte, tradimenti e sussurri, negri e piloti, grate di balconi e gelosie notturne, gonne di mussola e veli alitanti dietro la corsa affannosa...! Finché attraverso un improvviso offuscamento, una pausa sorda e nera, giunge quell'istante: tutte le marionette giacciono nelle loro scatole, tutte le tende tirate e tutti i respiri da tempo pregiudicati si aggirano tranquillamente qua e là, attraverso tutta l'ampiezza di quella scena, mentre nel vasto cielo pacato l'aurora costruisce tacitamente le sue lontane città rosate e bianche, le sue chiare, rigonfie pagode e i minareti. Xix. Soltanto ad un lettore attento del Libro la natura di quella primavera si fa chiara e leggibile. Tutti quei preparativi mattutini del giorno, l'intera sua precoce toilette, tutte quelle esitazioni, dubbi e scrupoli di scelta svelano il loro nocciolo a un iniziato di francobolli. I francobolli introducono in quel complesso gioco della diplomazia mattutina, in quelle trattative prolisse, in quei destreggiamenti atmosferici, che precedono la redazione definitiva del giorno. Dalle nebbie rossastre delle nove vorrebbe districarsi lo si vede chiaramente un variopinto, maculato Messico, con un serpente attorcigliato nel becco di un condor, bruciante e screpolato da una vistosa eruzione, ma in una breccia di azzurro, nel verde alto degli alberi, un pappagallo ripete in continuazione: «Guatemala», ostinato, a intervalli regolari, con la stessa intonazione, e da quella parola verde a poco a poco tutto si fa color ciliegia, fresco e frondoso. E così, lentamente, fra difficoltà e conflitti procede la votazione, si fissa lo svolgimento della cerimonia, la lista della parata, il protocollo diplomatico del giorno. In maggio, i giorni erano rosati come l'Egitto. Nella piazza del mercato la luce si riversava da ogni parte, fluttuando. Nel cielo, i cumuli delle nubi estive si ripiegavano raggomitolandosi sotto gli squarci di luce, vulcanici, stagliati luminosamente, e Barbados, Labrador, Trinidad tutto trapassava al rosso, come visto con occhiali di rubino; e attraverso quei due, tre palpiti e offuscamenti, attraverso quel rosso annebbiamento del sangue che batteva alla testa, scorreva per il cielo intero la grande corvetta della Guiana, in un'esplosione di vele.
Scivolava rigonfia, sbuffante di tele, pesantemente trainata fra corde tese e l'urlo dei rimorchiatori, in mezzo al sollevarsi dei gabbiani e alla luce rossa del mare. Allora in tutto il cielo cresceva e si innalzava un immenso, intricato castello di cordami, scale e alberi, e tuonando alto con la velatura spiegata, si svolgeva un molteplice, sovrapposto spettacolo aereo di vele, antenne e funi, nelle cui brecce si mostravano per un istante piccoli e innocenti negretti, e si disperdevano in un labirinto di tela, smarrendosi fra i segni e le figure del fantastico cielo dei tropici. Poi lo scenario cambia, nel cielo, nei massicci delle nuvole si accumulavano fino a tre annebbiamenti rosati alla volta, fumava lava luccicante, disegnando con una linea luminosa i contorni minacciosi delle nubi, e Cuba, Haiti, Giamaica il nucleo del mondo andava in profondità, maturava sempre più vistosamente, penetrava fino al midollo e all'improvviso sgorgava la pura essenza di quei giorni: la frusciante oceanicità dei tropici, dell'azzurro degli arcipelaghi, delle felici distese e dei gorghi, dei monsoni equatoriali e salati. Con l'album di francobolli in mano leggevo quella primavera. Non era forse il grande commentario dei tempi, la grammatica dei loro giorni e notti? Quella primavera si declinava attraverso tutte le Colombie, i Costarica e i Venezuela, giacché cos'altro sono in realtà il Messico e l'Ecuador e la Sierra Leone, se non un ingegnoso specifico, un acuirsi del gusto del mondo, un ultimo, ricercato estremo, un vicolo cieco dell'aroma in cui si avventura il mondo nelle sue ricerche, provando ed esercitandosi con tutti i tasti?
Cosa essenziale, per non dimenticare, come Alessandro Magno, che nessun Messico è definitivo, che è un punto di passaggio, oltre il quale il mondo procede, che di là da ogni Messico si apre un nuovo Messico, ancor più brillante: sovraccolori e sovraromi...
Bianka è tutta grigia. La sua carnagione scura ha in sé come un ingrediente diluito di cenere spenta. Penso che il tocco della sua mano debba superare ogni possibilità di immaginazione. Intere generazioni di ammaestramenti sono racchiuse nel suo sangue disciplinato. E' commovente quella sua rassegnata sottomissione agli imperativi del ritmo, che testimonia di una puntigliosità vinta, di ribellioni domate, di taciti singhiozzi e violenze fatte al proprio orgoglio. Con ogni movimento essa si atteggia, piena di buona volontà e di malinconica grazia, nella forma prescritta.
Non fa niente senza necessità, ogni suo gesto è avaramente misurato, esegue appena la forma, vi entra senza entusiasmo, come soltanto per un passivo senso del dovere. Dal profondo di queste sue vittorie Bianka attinge le sue esperienze precoci, la sua conoscenza di tutte le cose.
Bianka sa tutto. E non sorride di questo suo sapere, la sua conoscenza è grave e colma di tristezza, e le labbra sono chiuse su di essa in una linea di compiuta bellezza, le sopracciglia disegnate con cura severa.
No, dalla sua conoscenza essa non trae alcun impulso a un indulgente rilassamento, alla mollezza e alla dissoluzione. Esattamente al contrario. Come se all'altezza di quella verità, in cui sono fissi i suoi tristi occhi, fosse possibile giungere soltanto con un'attenzione estrema, con la più stretta osservanza della forma. E in questo infallibile ritmo, in questa lealtà nei confronti della forma, c'è tutto un mare di tristezza e di sofferenza vinta a fatica. Eppure, benché spezzata dalla forma, ne è uscita vittoriosamente. Ma quale sacrificio è costato quel trionfo! Quando cammina, snella e diritta, non si sa di dove provenga la fierezza che porta con semplicità nel ritmo naturale dell'andatura, se dalla propria vinta fierezza, oppure dal trionfo dei principî ai quali ha ceduto. Ma in compenso, quando guarda con quel suo schietto, triste sguardo, immediatamente sa tutto. La giovinezza non l'ha preservata dall'indovinare le cose più segrete. La sua silenziosa serenità è una quiete raggiunta dopo lunghi giorni di pianto e di singhiozzi. Per questo i suoi occhi sono cerchiati e hanno un fuoco ardente e umido dentro di loro, e quella parsimoniosa opportunità di sguardi che non fallisce.
Bianka, la meravigliosa Bianka è per me un enigma. La studio con ostinazione, con accanimento e disperazione basandomi sull'album di francobolli. E come? Forse un album di francobolli tratta anche di psicologia? Domanda ingenua! L'album è un libro universale, è il compendio di ogni scienza dell'umano.
Naturalmente per allusioni, con detrazioni e reticenze. Occorre una certa sagacia, un certo coraggio del cuore, una capacità di slancio per trovare la trama, quella traccia di fuoco, quel lampo che guizza fra le pagine del libro. Da una sola cosa bisogna guardarsi in queste faccende: dalle strettoie della meschinità, dalla pedanteria, dall'ottuso rigorismo. Tutte le cose sono collegate, tutti i fili sboccano in un unico gomitolo. Avete notato che in mezzo ai versi di certi libri passano a volo stormi di rondini, interi versetti di rondini palpitanti, affusolate? Bisogna leggere nel volo di quegli uccelli... Ma ritorniamo «Bianka. Come sono sconvolgentemente belli i suoi gesti. Ognuno è compiuto con ponderazione, deciso da secoli, intrapreso con rassegnazione, come se essa conoscesse in anticipo tutti gli svolgimenti, l'inevitabile successione dei propri destini. Accade che mentre le siedo di fronte nel viale del parco voglia interrogarla con lo sguardo, chiederle qualcosa col pensiero e cerchi di formulare la mia richiesta. E prima che mi sia riuscito, essa mi ha già risposto. Ha risposto con un'unica, triste, profonda, concisa occhiata. Perché tiene il capo chino? Che cosa fissano i suoi occhi così attenti e pensierosi?
Così sconfinatamente triste è il fondo del suo destino? Eppure, nonostante tutto, non sopporta forse quella rassegnazione con dignità, con fierezza, come se dovesse essere proprio così, come se quella sua consapevolezza, privandola dell'allegria, la dotasse però di una sorta di intangibilità, di una certa superiore libertà, conseguita per mezzo di una volontaria obbedienza? Ciò conferisce alla sua arrendevolezza il fascino del trionfo, e questo la sopraffà. Siede di fronte a me sulla panchina, accanto alla governante. Ambedue leggono. Il suo vestito bianco mai l'ho veduta in un altro colore si posa come un fiore dischiuso sulla panchina. Le sue gambe snelle, dalla carnagione bruna, sono appoggiate con indicibile grazia l'una sull'altra. Toccare il suo corpo deve essere quasi doloroso per la devota santità del contatto.
Poi, chiuso il libro, si alzano entrambe. Con un'unica breve occhiata, Bianka accoglie e ricambia il mio fervido saluto, e come priva di gravità si allontana col meandrico intreccio delle gambe, che si accompagna melodicamente al ritmo dei grandi, elastici passi della governante.
Ho esplorato tutt'attorno l'intera estensione della proprietà. Ho fatto più volte il giro di tutto quel vasto terreno, circondato da un'alta palizzata. I muri bianchi della villa, con le sue terrazze, le ampie verande, mi apparivano continuamente sotto nuovi aspetti. Dietro la villa si estende il parco, che si trasforma, poi, in una pianura senza alberi. Vi si trovano strane costruzioni, metà officine, metà fabbricati di fattoria. Accostai gli occhi a una fessura della palizzata. Ciò che vidi doveva essere un'illusione. In quell'aura primaverile, rarefatta dalla calura, si sognano talvolta cose lontane, riflesse attraverso miglia e miglia d'aria tremula. Eppure la testa mi scoppia dai pensieri più contraddittori. Devo consultare l'album.
E' mai possibile? La villa di Bianka, terreno extraterritoriale? La sua casa sotto la protezione di trattati internazionali? A quali stupefacenti scoperte mi conduce lo studio dell'album! E sono io l'unico in possesso di questa strabiliante verità? D'altra parte non si possono sottovalutare tutti gli indizi e gli argomenti che l'album accumula attorno a questo punto. Ho esplorato oggi da vicino tutta la villa. Da settimane giravo attorno al grande, artistico portone in ferro battuto con lo stemma. Ho approfittato del momento in cui due grandi equipaggi vuoti uscivano dal giardino della villa. I battenti del portone erano spalancati. Nessuno venne a richiuderli. Entrai con fare indifferente, estrassi dalla tasca l'album degli schizzi, fingendo di disegnare, appoggiato allo stipite del portone, un qualche particolare architettonico. Me ne stavo sul sentiero coperto di ghiaino, sul quale tante volte era passato il piede leggero di Bianka. Il cuore mi si era fermato ammutolito nel felice terrore che da una delle portefinestre uscisse la sua figura slanciata nel leggero abito bianco. Ma tutte le finestre e le porte erano chiuse da stuoie verdi. Neppure il minimo fruscio lasciava trapelare la vita nascosta in quella casa. Il cielo si era rannuvolato all'orizzonte. In lontananza lampeggiava. Nell'aria tiepida e rarefatta non c'era alito di vento. Nel silenzio di quel giorno grigio le mura della villa, bianche come gesso, conversavano con la tacita ma faconda eloquenza di un'architettura riccamente frastagliata. Il suo brio leggero si effondeva in pleonasmi, in mille varianti dello stesso motivo. Lungo il fregio candido, ghirlande in bassorilievo correvano in ritmiche cadenze a sinistra e a destra, fermandosi agli angoli indecise. Dall'alto della terrazza centrale scale di marmo, patetiche e solenni, correvano fra balaustre e vasi architettonici, subito scostantisi, e parevano, nel loro ampio riversarsi a terra, raccogliere e ritrarre le vesti sollevate in profonda riverenza. Sono straordinariamente sensibile allo stile. Quello stile mi irritava e mi infastidiva per qualcosa di inspiegabile. Di là dal suo classicismo ardente, a stento padroneggiato, da quell'eleganza apparentemente fredda, si celavano fremiti inafferrabili. Quello stile era troppo caldo, troppo sottilmente punteggiato, pieno di pepe inatteso. Qualche goccia di ignoto veleno, iniettata nelle vene di quello stile, ne rendeva il sangue oscuro, esplosivo, pericoloso.
Profondamente disorientato, fremente di impulsi contrastanti, costeggiai in punta di piedi la facciata della villa, seminando il panico fra le lucertole addormentate sulle scale. Attorno a una vasca rotonda, asciutta, la terra era spaccata dal sole e ancora nuda. Solo qua e là, da una crepa del terreno spuntava un po' di verde ardente, fanatico.
Strappai un ciuffo di quell'erba e la riposi nell'album degli schizzi.
Tremavo tutto di interna agitazione. Su quella vasca gravava un'aria grigia, trasparentissima e lucente, fluttuante per il caldo. Il barometro sulla colonna vicina indicava un abbassamento catastrofico. Il silenzio regnava attorno. Non un filo d'aria faceva muovere le fronde.
La villa dormiva con le gelosie abbassate, rilucendo di un biancore di gesso nella morte sconfinata dell'aura grigia. All'improvviso, come se quel ristagnare avesse raggiunto il punto critico, l'aria precipitò in un fermento colorato, si frantumò in petali variopinti, in frulli guizzanti. Erano immense, pesanti farfalle, a due a due intente nel gioco amoroso. Il goffo, tremulo svolazzare si arrestava per un attimo nell'aura morta. Si superavano a vicenda di un palmo, e di nuovo si univano in volo, mescolando nell'aria che imbruniva un intero mazzo di sfavillii colorati. Forse fu solo una rapida decomposizione dell'atmosfera troppo rigogliosa, un'allucinazione dell'aria piena di hashish e di stravaganza? Detti un colpo col berretto e una pesante farfalla pelosa cadde a terra, sbattendo le ali. La raccolsi e la misi da parte. Una prova di più.
Ho scoperto il segreto di quello stile. Così a lungo le linee di quell'architettura hanno ripetuto nel loro brio insistente la stessa frase inintelligibile, che io ho finalmente compreso quel cifrario ingannevole, quell'ammiccare, quella solleticante mistificazione. Era davvero una mascherata troppo trasparente. In quelle linee mosse e ricercate di calcata eleganza c'era un pizzico di paprica in più, un eccesso di pepe che bruciava la gola. C'era qualcosa di vivo, di fervente, di troppo vistosamente gesticolante: qualcosa, insomma, di colorato, di coloniale, di occhieggiante... Già, quello stile aveva nel fondo qualcosa di estremamente disgustoso, era dissoluto, raffinato, tropicale ed estremamente cinico. Xxv. Non ho bisogno di spiegare come quella scoperta mi sconvolse. Linee lontane si avvicinano e si uniscono, convergono inaspettatamente rapporti e parallele. Agitatissimo, misi al corrente Rudolf della mia scoperta. Parve poco commosso. Reagì perfino di malavoglia, rinfacciandomi di avere esagerato e inventato. Sempre più spesso mi accusa di raccontare frottole, di voler mistificare deliberatamente. Se provavo per lui, quale proprietario dell'album, ancora un qualche sentimento, i suoi scoppi invidiosi, pieni di malcelata amarezza, mi allontanano sempre più da lui. E tuttavia non gli mostrerò rancore: purtroppo dipendo da lui. Che farei senza l'album di francobolli? Lui lo sa, e approfitta di questa superiorità. Xxvi. Troppe cose accadono in questa primavera. Troppe aspirazioni, pretese senza limiti, ambizioni gonfiate e incontenibili invadono quelle profondità oscure. La sua espansione non conosce limiti. L'amministrazione di quell'immensa, ramificata e straripante impresa è al di sopra delle mie forze. Deciso a riversare una parte del peso su Rudolf, lo nominai coreggente. Naturalmente, una società anonima. Insieme con il suo album, costituiamo tutti e tre un triumvirato ufficioso sul quale grava il peso della responsabilità per tutto questo impenetrabile, indefinibile affare. Xxvii. Non ho avuto il coraggio di fare il giro della villa e di arrivare dall'altra parte. Sarei stato sicuramente scoperto. Perché, nonostante tutto, ho la sensazione di esserci già stato una volta, molto tempo fa? In fin dei conti, non conosciamo forse già in anticipo tutti i paesaggi che incontreremo in vita nostra? Può forse mai accadere qualcosa di ancora totalmente nuovo, di cui nel più profondo di noi non abbiamo già da tempo avuto presentimento? So che un giorno, in un'ora tarda, sarò là, al limitare dei giardini, la mano nella mano di Bianka.
Entreremo in quei recessi perduti, dove, fra vecchie mura, sono racchiusi parchi avvelenati, quei paradisi artificiali di Poe, pieni di cicuta, papavero ed erbe oppiacee, antichissimi affreschi fiammeggianti sotto il cielo plumbeo. Desteremo il marmo bianco di una statua dormiente a occhi vuoti in quell'estremo limite del mondo, oltre i margini del pomeriggio che langue. Metteremo in fuga il suo unico amante, un rosso vampiro addormentato nel suo grembo con le ali ripiegate. Fuggirà senza rumore, molle, sgusciante e ondeggiante come rossa polpa flaccida e incorporea, senza scheletro né sostanza, volteggerà, svolazzerà fino a svanire senza lasciar traccia nell'aria intorpidita. Attraverso una porticina penetreremo in una radura totalmente deserta. La vegetazione laggiù sarà bruciata come tabacco, come una prateria nella tarda estate indiana. Potrà essere, forse, nello stato di New Orleans o della Louisiana: del resto i paesi sono solo un pretesto. Siederemo sul muricciolo di pietra di una vasca quadrata, Bianka tufferà le candide dita nell'acqua tiepida, piena di foglie gialle e non alzerà gli occhi. Dall'altra parte siederà una figura nera, sottile, tutta velata. Domanderò chi è, in un sussurro, e Bianka scuoterà la testa e dirà sottovoce: Non temere, non sente, è la mia povera mamma che abita qui. Poi mi dirà cose dolcissime, lievissime e tristissime. Non vi sarà ormai consolazione alcuna. Scenderà il crepuscolo...
Gli avvenimenti si susseguono a ritmo folle. E' arrivato il padre di Bianka. Me ne stavo oggi all'incrocio fra via delle Fontane e via dello Scarabeo, quando sopraggiunse una luccicante carrozza aperta dalla cassa ampia e piatta come una conchiglia. In quel bianco guscio setoso vidi Bianka semisdraiata in un abito di mussola. Il suo grazioso profilo era valorizzato dalla tesa del cappello, che ricadeva giù trattenuta da un nastro sotto il mento. Spariva quasi nelle gale di seta bianca, mentre sedeva accanto a un signore in redingote nera e gilet di piqué bianco, sul quale scintillava una pesante catena con un'infinità di ciondoli.
Sotto la bombetta nera ben calcata, grigeggiava un volto chiuso, tetro, con i favoriti. Rabbrividii fin nel midollo a quella vista. Non potevano esserci dubbi. Era il signor de V... Quando l'elegante equipaggio mi passò accanto, rimbombando discretamente con la sua elastica cassa, Bianka disse qualcosa al padre, il quale si voltò e diresse su di me lo sguardo dei suoi grandi occhiali neri. Aveva il volto grigio di un leone senza criniera. In un attimo di esaltazione, quasi offuscato dai sentimenti più contrastanti, gridai: Conta su di me!... e fino all'ultima goccia di sangue... e sparai in aria con la pistola che avevo estratta dal petto. Xxix. Molti elementi suffragano la tesi che Francesco Giuseppe I fosse in realtà un potente e triste demiurgo. I suoi occhi sottili, ottusi come bottoncini, situati nei delta triangolari delle rughe, non erano gli occhi di un uomo. Il suo volto ombreggiato dai favoriti bianchi come latte, pettinati all'indietro come nei demoni giapponesi, era la faccia di una vecchia volpe immusonita. Da lontano, dall'alto della terrazza di Schönbrunn, quella faccia, grazie a una particolare disposizione delle rughe, pareva sorridere. Da vicino quel sorriso si rivelava una smorfia di amarezza e di piatta concretezza, non rischiarata dal barlume di alcuna idea. Nell'istante in cui era apparso sulla scena del mondo, in pennacchio verde da generale, col mantello turchese fino a terra, leggermente curvo nel saluto, il mondo nella sua evoluzione era giunto a un limite felice. Tutte le forme, esaurito il loro contenuto in infinite metamorfosi, pendevano ormai fiaccamente dalle cose, semisfaldate, pronte allo sfacelo. Il mondo tramutava impetuosamente, sbocciava in colori giovani, cinguettanti e incredibili, si distendeva felicemente in tutti i suoi nodi e le sue giunture. Poco mancava che la mappa del mondo, quella tela piena di anni e di colori, si involasse, ondeggiando ispirata in aria.
Francesco Giuseppe I sentì tutto ciò come un pericolo personale. Il suo elemento era un mondo racchiuso nei regolamenti della prosa, nella prammatica della noia. Lo spirito delle cancellerie e dei distretti era il suo spirito. E, cosa strana, quel vecchietto inaridito e ottuso, che non possedeva niente di allettante nella sua persona, era riuscito ad attirare al suo fianco gran parte del creato. Tutti i leali e previdenti padri di famiglia si sentivano minacciati insieme con lui, e avevano respirato di sollievo quando quel demone potente si era disteso con tutto il suo peso sulle cose e aveva frenato il volo del mondo.
Francesco Giuseppe I aveva suddiviso il mondo in rubriche, ne aveva regolato la corsa con l'aiuto di patenti, l'aveva tenuto nei limiti procedurali e preservato dal deviare nell'imprevisto, nell'avventuroso e nell'assolutamente incalcolabile. Francesco Giuseppe I non era nemico del godimento lecito e timorato di Dio. E fu lui a inventare, in una sorta di previdente benevolenza, la Imperial Regia Lotteria Popolare, i libri dei sogni, i calendari illustrati nonché gli I.R. Tabaktrafik.
Uniformò la milizia celeste, la rivestì di simboliche divise celesti, e inviò nel mondo, ripartito in dicasteri e gradi, un personale di schiere angeliche sotto l'aspetto di postini, bigliettai e guardie di finanza.
Il più miserevole di questi messaggeri celesti aveva ancora sul viso il riflesso, mutuato dal creatore, della saggezza eterna e il sorriso gioviale della grazia, chiuso nella cornice dei favoriti, perfino quando i suoi piedi, in seguito alle prolungate peregrinazioni terrene, puzzavano di sudore. Ma qualcuno avrà forse sentito parlare del complotto fallito sulla soglia stessa del trono, della grande rivoluzione di palazzo soffocata sul nascere proprio agli inizi del glorioso regno dell'Onnipotente. I troni languono non alimentati di sangue, la loro vitalità si accresce da questa massa di ingiustizie, di vita negata, di quell'eternamente altro che è stato da essi respinto e ripudiato. Riveliamo qui cose segrete e proibite, tocchiamo qui segreti di stato, mille volte chiusi e sigillati da mille sigilli di silenzio.
Il Demiurgo aveva un fratello cadetto di tutt'altro animo e di tutt'altre idee. E chi non l'ha, in questa o quell'altra forma, a chi non si accompagna come un'ombra un'antitesi, come il partner di un eterno dialogo? Secondo una versione, egli era soltanto un cugino, secondo un'altra non era mai neppure nato. Lo si era soltanto ricavato dalle paure, dalle fantasticherie del Demiurgo, origliate nel sonno.
Poteva darsi che egli lo avesse inventato alla meglio, che avesse messo al suo posto uno qualunque, soltanto per poter recitare simbolicamente quel dramma, ripetere ancora una volta, per quale volta non si sa, cerimonialmente e ritualmente quell'atto eterno e fatale che non si poteva esaurire in mille ripetizioni. Quell'infelice antagonista, nato sub condicione, in qualche modo danneggiato professionalmente dalla sua stessa parte, portava il nome di arciduca Massimiliano. Già il solo nome pronunciato in un bisbiglio rinfresca il sangue nelle nostre vene, lo rende più chiaro e più rosso, lo fa pulsare in fretta di quel colore acceso dell'entusiasmo, della lacca postale e della matita rossa con cui sono segnati i felici telegrammi di laggiù. Aveva guance rosate e azzurri occhi radiosi, tutti i cuori gli correvano incontro, le rondini, garrendo di gioia, gli fendevano la strada, sempre di nuovo lo racchiudevano entro guizzanti virgolette, felice citazione scritta in un bel corsivo da giorno di festa e piena di cinguettii. Lo stesso Demiurgo lo amava segretamente, benché ne meditasse la rovina. Lo aveva nominato dapprima comandante della squadra levantina, nella speranza che avventurandosi nei mari del Sud annegasse miseramente. Ben presto, tuttavia, concluse una convenzione segreta con Napoleone Iii, il quale lo trascinò a tradimento nell'avventura messicana. Tutto era stato concertato. Quel giovane pieno di fantasia, allettato dalla speranza di costituire un nuovo, felice mondo sul Pacifico, rinunciò a tutti i diritti di agnazione alla corona e alle eredità degli Asburgo. Sulla nave di linea francese Le Cid partì direttamente per l'imboscata preparata per lui. Gli atti di quel complotto segreto non hanno mai veduto la luce del giorno. Così svanì l'ultima speranza dei malcontenti.
Dopo la sua tragica morte, Francesco Giuseppe I, con il pretesto del lutto di corte, proibì il colore rosso. Un lutto giallonero divenne il colore ufficiale. Il colore amaranto, fluttuante stendardo dell'entusiasmo, sventolò da allora soltanto in segreto nel cuore dei suoi seguaci. Non riuscì tuttavia al Demiurgo di estirparlo totalmente dalla natura. Lo contiene pur sempre potenzialmente la luce del sole.
Basta chiudere gli occhi al sole primaverile per assorbirlo sotto le palpebre, a caldo, un'onda dopo l'altra. La carta fotografica brucia proprio per quel rosso nella luce primaverile che si diffonde oltre ogni confine. I tori, trascinati con una pezza sulle corna per le strade assolate della città, lo vedono a macchie sgargianti e chinano la testa, pronti all'attacco contro immaginari toreador in fuga precipitosa per arene infocate. Talvolta trascorre un intero giorno sfolgorante negli scoppi di sole, nei cumuli di nubi luminosamente e cromaticamente bordati, pieno fino all'orlo di un rosso prorompente. La gente cammina ebbra di luce, a occhi chiusi, esplodendo intimamente in fuochi d'artificio, botti e mortaretti. Poi, verso sera, quell'uragano di luce si placa, l'orizzonte si arrotonda, si abbellisce e si riempie di azzurro come un globo di vetro da giardino con il luminoso panorama in miniatura del mondo, con le vedute felicemente ordinate, sulle quali, come coronamento finale, si schierano all'orizzonte le nubi, dispiegate in lunga fila come rotoli di medaglie d'oro, oppure suoni di campane susseguentisi in rosate litanie. La gente si raduna sulla piazza, in silenzio sotto quell'immensa cupola luminosa, si raggruppa involontariamente in un grande, immobile finale, in una raccolta scena d'attesa, le nubi si accumulano sempre più rosee, in fondo agli occhi di tutti c'è una pace profonda e il riflesso di una lontananza luminosa: e all'improvviso, mentre tutti così attendono, il mondo raggiunge il suo zenith, matura, in due o tre ultimi sussulti, alla suprema perfezione. I giardini si dispongono ormai definitivamente sulla coppa di cristallo dell'orizzonte, la verzura di maggio spumeggia e gorgoglia come vino lucente per traboccare un istante dall'orlo, le colline si plasmano a somiglianza delle nuvole: raggiunto l'apice estremo, la bellezza del mondo si scioglie e con un aroma immenso si libra in volo nell'eternità.
E mentre la gente sta immobile, abbassando il capo ancora pieno di chiare e sconfinate visioni, incantata da quel grande, luminoso volo del mondo, corre fuori della folla inaspettato colui che inconsciamente si attendeva, messaggero ansimante, tutto roseo nella bella maglia color lampone, adorno di campanelli, medaglie e decorazioni, corre attraverso la piazza vuota, fiancheggiata da una folla silenziosa, ancora pieno del suo volo e del suo annunzio: aggiunta fuori programma, guadagno netto reso da quella giornata che lo aveva felicemente risparmiato dal suo intero bagliore. Sei o sette volte fa il giro della piazza in bei cerchi mitologici, in cerchi ben ricurvi e descritti. Corre liberamente sotto gli occhi di tutti, le palpebre abbassate come se si vergognasse, le mani sulle anche. Il ventre un po' pesante gli pende scosso dalla corsa ritmica. Il viso imporporato dallo sforzo luccica di sudore sotto il nero baffo bosniaco, mentre le medaglie, le decorazioni e i campanelli saltano ritmicamente sul bronzeo decolleté come un finimento di nozze.
Lo si vede di lontano, mentre gira all'angolo con una linea parabolica, si avvicina con la cadenza giannizzera dei suoi campanelli, bello come un dio, inverosimilmente roseo, con il torso immobile e, balenando di fianco gli occhi, si difende a colpi di frusta dalla muta dei cani che lo insegue abbaiando. Allora Francesco Giuseppe I, disarmato dalla armonia generale, proclama una tacita amnistia, concede il rosso, lo concede per quell'unica sera di maggio in una forma stemperata, dolciastra, caramellosa, e, riconciliato col mondo e la sua antitesi, sta davanti alla finestra aperta di Schönbrunn e lo si vede in quel momento in tutto il mondo, per tutti gli orizzonti, sotto i quali nelle vuote piazze del mercato, fiancheggiate di tacita folla, corrono rosei velocisti; lo si vede come un'immensa I.R. apoteosi sullo sfondo delle nubi, appoggiato con le mani guantate al davanzale della finestra nella sua tunica azzurro turchese, con la sciarpa della commenda dell'ordine di Malta, gli occhi stretti quasi in un sorriso nei delta delle rughe, bottoni azzurri senza benevolenza né pietà. E così resta, con i nivei favoriti lisciati all'indietro, camuffato da buono, volpe inasprita, e imita da lontano il sorriso con la sua faccia senza humour e senza genialità. Xxx. Dopo lunghe esitazioni ho raccontato a Rudolf gli avvenimenti degli ultimi giorni. Non ho potuto serbare più a lungo il segreto che mi premeva dentro. Si è rabbuiato in viso, ha gridato, mi ha accusato di mentire, e finalmente ha avuto un'aperta esplosione di gelosia. Tutte fandonie, pure fandonie, gridava con le mani alzate.
Extraterritorialità! Massimiliano! Messico! ah, ah! piantagioni di cotone! Basta, è finita, non pensare di usare più il mio album per simili aberrazioni. Fine della società. Denuncia del contratto. Si strappò i capelli per l'agitazione. Era fuori dei gangheri, deciso a tutto. Spaventatissimo, cominciai a spiegargli, cercando di calmarlo.
Riconobbi che la questione, a una prima occhiata, era effettivamente inverosimile, addirittura incredibile. Io stesso, riconoscevo, non potevo riavermi dallo stupore. Nessuna meraviglia che gli fosse difficile, a lui non preparato, accettarla di colpo. Mi appellai al suo cuore e al suo onore. Come poteva conciliare con la sua coscienza il fatto di rifiutarmi aiuto proprio allora che la questione entrava nello stadio decisivo, e farla naufragare ritirando la sua partecipazione?
Alla fine mi presi la briga di dimostrare, sulla base dell'album, che tutto era vero, parola per parola. Un po' placato, aprì l'album. Mai avevo parlato con tanto brio e fuoco, superai me stesso. Argomentando sulla base dei francobolli, non solo confutai tutte le accuse, dissipai tutti i dubbi, ma giunsi infine a conclusioni così chiaramente rivelatrici da rimanere io stesso abbagliato dalle prospettive che si aprivano. Rudolf taceva sconfitto, non si parlò più di sciogliere la società. Xxxi. Si deve forse considerare un caso il fatto che proprio in quei giorni arrivasse un grande teatro illusionista, un meraviglioso panottico, e che piantasse le tende in piazza della Santissima Trinità?
Da tempo lo prevedevo e trionfante lo annunciai a Rudolf. Era una serata piena di vento e di tensione. Si preparava a piovere. Sugli orizzonti gialli e incerti il giorno si disponeva già ad andarsene, sollevava in fretta le tende grigie e impermeabili sul convoglio dei suoi carri che procedevano in fila verso tardi e freddi oltremondi. Sotto quella cortina, ormai per metà abbassata e sempre più oscureggiante, apparivano ancora per un attimo le lontane, ultime tracce del tramonto, che si riducevano a una grande e piatta, sconfinata distesa, cosparsa di laghi e specchi d'acqua. Sgomenta, ormai quasi spacciata, una luce gialla passava da quelle tracce chiare obliquamente attraverso metà del cielo, la cortina ricadeva in fretta, i tetti rimandavano pallidi riflessi bagnati, e intanto imbruniva e un attimo più tardi le grondaie cominciarono a cantare monotone. Il panottico era ormai tutto illuminato. In quel crepuscolo inquieto e frettoloso la gente si affollava, sagome scure, riparate da ombrelli, alla scialba luce del giorno cadente verso l'entrata luminosa del tendone, dove effettuava ossequiosamente il pagamento a una dama scollata e colorata, scintillante di gioielli e di piombature d'oro nei denti: busto vivo, ben stretto e dipinto, che in basso finiva imperscrutabilmente nell'ombra delle tende di velluto. Attraverso la portiera alzata entrammo in uno spazio chiaramente illuminato. Era già affollato. Gruppi di persone dai mantelli bagnati di pioggia, con i colletti rialzati, si spostavano da una parte all'altra, in silenzio, si soffermavano in gremiti semicerchi. Tra loro riconobbi senza difficoltà quelli che solo in apparenza appartenevano a questo mondo, mentre in realtà conducevano una vita appartata, rappresentativa e imbalsamata sopra un piedistallo, una vita esibita e vuota come un giorno di festa. Se ne stavano in un silenzio pauroso, vestiti di solenni redingote, cappe e giacche di buona stoffa, cucite loro su misura, pallidissimi, con in viso le tracce delle ultime malattie di cui erano morti, e mandavano lampi con gli occhi.
Nelle loro teste non c'era più da tempo alcun pensiero, soltanto la consuetudine di mostrarsi da ogni parte, l'abitudine di rappresentare la propria vuota esistenza che li sosteneva con un estremo sforzo. Già da un pezzo avrebbero dovuto trovarsi a letto, dopo aver sorbito un cucchiaino di medicina, avvolti nelle loro fresche lenzuola a occhi chiusi. Era un abuso tenerli ancora a notte così inoltrata sui loro stretti basamenti e sedili, su cui stavano rigidi, dentro strette scarpe di vernice, mille miglia lontani dalla loro antica esistenza, gli occhi lampeggianti e totalmente privi di memoria. A ognuno di loro pendeva dalle labbra, ormai morto, simile alla lingua di uno strangolato, un ultimo grido, da quando avevano lasciato il manicomio dove avevano trascorso un certo tempo come in purgatorio, passando per maniaci, prima di varcare quell'ultima soglia. Sì, non erano effettivamente proprio gli autentici Dreyfus, Edison e Luccheni, erano in una certa misura simulatori. Forse erano realmente pazzi, pizzicati in flagrante nell'attimo in cui era penetrata in loro quell'accecante idée fixe, nel momento in cui la loro pazzia era stata per un istante verità e sapientemente preparata diventava il cardine della loro nuova esistenza, pura come un elemento gettato interamente su quell'unica carta e ormai immutabile. Avevano ormai da allora quell'unico pensiero in testa, come un punto esclamativo, e su quello si reggevano, sopra una sola gamba, come in volo, fermati a metà movimento. Lo cercavo con gli occhi in quella folla, passando inquieto di gruppo in gruppo. Finalmente lo trovai, ma non nella splendente uniforme di ammiraglio della squadra levantina, con la quale si era imbarcato da Tolone sulla nave ammiraglia Le Cid, l'anno in cui doveva salire sul trono messicano, e neppure nella tunica verde da generale di cavalleria che portava così volentieri nei suoi ultimi giorni. Indossava una redingote comune, dalle falde a pieghe, e pantaloni chiari, l'alto colletto inamidato gli sosteneva la barba. Con rispetto ed emozione ci fermammo ambedue, Rudolf e io, nel gruppo di persone che lo circondavano a semicerchio. A tre passi da noi, nella prima fila degli spettatori, c'era Bianka in abito bianco, con la sua governante. Stava là ferma, e guardava. Il suo visino si era fatto più pallido e smagrito negli ultimi giorni, e i suoi occhi cerchiati e pieni d'ombra guardavano tristi fino alla morte. Se ne stava così immobile, le piccole mani intrecciate nascoste nelle pieghe del vestito, osservando da sotto le sopracciglia aggrottate con occhi colmi di lutto profondo. Il cuore mi si strinse dolorosamente a quella vista. Senza volere seguii con gli occhi il suo sguardo mortalmente triste, ed ecco ciò che vidi: il volto di lui si mosse, come se si fosse destato, gli angoli della bocca si sollevarono in un sorriso, gli occhi scintillarono e presero a roteare nelle orbite, il petto rutilante di decorazioni si sollevò in un sospiro. Non era un miracolo, era un comune trucco meccanico. Convenientemente caricato l'arciduca teneva circolo secondo il principio del meccanismo, artificiosamente, cerimoniosamente, come era abituato in vita. Volse lo sguardo a turno sui presenti, soffermandolo per un attimo attentamente su ognuno. Così, a un certo momento, si incrociarono i loro sguardi. Trasalì, esitò, inghiottì saliva come se volesse dire qualcosa, ma dopo un attimo appena, obbedendo al meccanismo, il suo sguardo passò oltre, si spostò sui visi seguenti con quello stesso sorriso incoraggiante e radioso. Si accorse forse della presenza di Bianka, essa gli giunse forse al cuore? Chi poteva saperlo? Egli non era neppure nel pieno significato della parola se stesso, era appena un suo lontano sosia, molto ridotto e in stato di profonda prostrazione. Ma, stando ai fatti, bisognava ammettere che egli era in certo senso il suo più prossimo agnato, era forse perfino se stesso nella misura in cui ciò era ancora possibile in quello stato di cose, a tanti anni dalla sua morte. Difficile era certamente, in quella resurrezione di cera, entrare perfettamente in se stesso. Senza volere, in quell'occasione, doveva essersi infiltrato in lui qualcosa di nuovo e di terribile, qualcosa di strano si era dovuto aggiungere della follia di quel geniale maniaco che lo aveva inventato nella sua megalomania, qualcosa che doveva aver riempito Bianka di terrore. Già chi è molto malato si discosta e allontana dal suo antico io, tanto più chi è così illegittimamente risuscitato. Come si comportava infatti adesso di fronte al suo sangue più prossimo? Pieno di artificiosa allegria e brio, egli recitava la sua buffonescoimperial commedia, brillante e sorridente. Doveva forse mascherarsi a tal punto, temeva tanto i custodi che da ogni parte lo sorvegliavano, mentre si esibiva nell'ospedale delle figure di cera, dove vivevano tutti nel terrore dei rigori ospedalieri? Distillato a fatica dall'altrui follia, puro, guarito e finalmente salvato, doveva forse temere che essi potessero ripiombarlo nella bufera e nel caos? Quando il mio sguardo cercò di nuovo Bianka, vidi che nascondeva il viso nel fazzoletto. La governante l'aveva circondata con un braccio, lampeggiando vanamente con gli occhi di smalto. Non potei più sopportare la vista del dolore di Bianka, mi sentii afferrare da un groppo di pianto e trascinai Rudolf per la manica. Ci avviammo all'uscita. Alle nostre spalle quell'antenato tutto imbellettato, quel vegliardo nel fiore degli anni, lanciava tutto attorno i suoi radiosi, regali saluti, per eccesso di zelo sollevò perfino la mano, quasi ci gettava dietro baci in quel silenzio immobile, fra il sibilo delle lampade ad acetilene e il sommesso fruscio della pioggia sul tendone di tela, si alzava sulle punte dei piedi con le poche forze che gli restavano, completamente ammalato e, come tutti gli altri, pieno di rimpianto per la bara mortale. Nel vestibolo il busto dipinto della cassiera si volse verso di noi, rutilante di brillanti e di piombature d'oro sullo sfondo nero dei magici tendaggi. Uscimmo nella notte umida e tiepida di pioggia. I tetti luccicavano gocciolando acqua, le grondaie piangevano con monotonia. Corremmo attraverso lo scroscio ruscellante, rischiarato dai lampioni accesi che tintinnavano sotto la pioggia. Xxxii. Oh, abissi dell'umana perversità, oh, intrigo veramente infernale! In quale cervello poté mai fissarsi quel pensiero velenoso e satanico che per arditezza supera le più ricercate invenzioni della fantasia? Quanto più profondamente penetro in quel baratro d'infamia, tanto maggiore stupore mi prende per la sconfinata perfidia, per il lampo di geniale malvagità nel nocciolo di quell'idea criminosa. Dunque il presentimento non mi aveva ingannato. Qui, alle nostre spalle, nel bel mezzo dell'apparente legalità, fra la pace generale e il pieno vigore dei trattati si compiva quel crimine che faceva drizzare i capelli in testa. Il fosco dramma si compiva qui in perfetto silenzio, così camuffato e tramato che nessuno avrebbe potuto indovinarlo e scoprirlo dietro l'aspetto innocente di quella primavera. Chi poteva sospettare che tra quel manichino imbavagliato, muto, che roteava gli occhi, e la delicata Bianka, così accuratamente allevata, così bene educata si svolgesse una tragedia familiare? Chi era finalmente Bianka?
Dobbiamo sollevare infine il velo del mistero? Che importanza ha il fatto che essa non discenda né dalla legittima imperatrice del Messico, e neppure da quella moglie di mano sinistra, dalla morganatica Isabella d'Orgaz, che dalle scene di un teatro ambulante conquistò l'arciduca con la sua bellezza? Che importa che sua madre fosse quella piccola Creola cui fu posto il nome carezzevole di Conchita e che sotto questo nome entrò nella storia, in certo qual modo per le scale di servizio? Le notizie di lei che mi è riuscito raccogliere sulla base dell'album si possono riassumere in due parole. Dopo la caduta dell'imperatore, Conchita partì con la figlioletta per Parigi, dove visse della rendita vedovile, conservandosi rigorosamente fedele allo sposo imperiale. La storia perde qui ogni ulteriore traccia di quella figura commovente, lasciando la parola alle congetture e alle intuizioni. Del matrimonio della figlia e dei suoi ulteriori destini non sappiamo niente. Tuttavia nell'anno 1900 una certa signora de V., persona di non comune ed esotica bellezza, viaggia assieme alla figlioletta e al marito con passaporto falso dalla Francia all'Austria. A Salisburgo, alla frontiera bavarese, proprio al momento di salire sul treno per Vienna, l'intera famiglia viene fermata dalla gendarmeria austriaca ed arrestata. Ciò che stupisce è che, una volta esaminati i suoi documenti falsi, il signor de V. viene rilasciato, ma non compie alcun tentativo per ottenere il rilascio della moglie e della figlia. Riparte quello stesso giorno per la Francia e ogni sua traccia svanisce. A questo punto tutte le fila si perdono nel buio più completo. In un momento di illuminazione ritrovai le sue tracce, che scaturivano lungo una linea fiammeggiante dall'album di francobolli. Il mio merito, la mia scoperta resterà per sempre l'avere identificato il sunnominato signor de V. con un certo personaggio altamente sospetto, apparso sotto tutt'altro nome in altro paese. Ma sssst... Di questo, neppure una parola, per ora. Basti dire che la genealogia di Bianka è stata stabilita al di sopra di ogni dubbio.
Queste, le vicende canoniche. Ma la storia ufficiale è incompleta. Vi sono in essa lacune deliberate, lunghe pause e reticenze, nelle quali rapidamente si insedia la primavera. Essa invade velocemente queste lacune con le sue note marginali, profonde fogliame che ricade senza fine, e si espande a gara, frastorna con le assurdità degli uccelli, con i battibecchi di questi pennuti, pieni di contrasti e di menzogne, d'ingenue domande senza risposta, di ostinate, pretenziose ripetizioni. Occorre molta pazienza per trovare dietro questa confusione il vero testo. Ad esso conduce un attento esame della primavera, l'analisi grammaticale delle sue frasi e periodi. Chi, che cosa? di chi, di che cosa? Occorre eliminare i cicalecci frastornanti degli uccelli, i loro aguzzi avverbi e preposizioni, i loro fuggevoli pronomi e riflessivi, per isolare a poco a poco un sano granello di significato.
L'album di francobolli mi è di guida preziosa a questo scopo. Stupida, facilona primavera! Ricopre tutto senza discernimento, confonde il senso con il nonsenso, eternamente buffona, finta tonta, di una leggerezza senza limiti. Che fosse anch'essa alleata con Francesco Giuseppe I, legata a lui dai vincoli di un complotto comune? Bisogna ricordare che ogni grammo di buon senso che spuntava in quella primavera era subito sviato da mille fandonie, da un qualsiasi nonsenso cianciante. Gli uccelli cancellano qui le tracce, confondono i progetti con una falsa interpunzione. Così la verità è soppiantata in ogni parte da quella rigogliosa primavera, che subito riveste con il suo manto di foglie ogni palmo libero, ogni fessura. Dove deve mai rifugiarsi, allora, così messa al bando, dove può trovare asilo, se non là dove nessuno la cerca, in quegli almanacchi da fiera, in quei trattatelli popolari, in quei cantari di mendicanti e accattoni, che discendono in linea retta dall'album di francobolli?
Dopo molte settimane di sole, giunse una serie di giorni nuvolosi e caldi. Il cielo si oscurò come negli affreschi antichi, gli ammassi delle nuvole si aggomitolarono nel silenzio soffocante, simili ai tragici campi di battaglia nei quadri di scuola napoletana. Sullo sfondo di quelle matasse oscure, plumbee, splendevano le case di un bianco caldo di gesso, che le ombre aguzze dei cornicioni e dei pilastri mettevano ancora più in risalto. La gente camminava a capo chino, internamente piena di quell'oscurità che si ammassava in lei, come prima di una tempesta, fra silenziose scariche elettriche. Bianka non si fa più vedere nel parco. E' evidente che la sorvegliano, che non le permettono di uscire. Hanno fiutato il pericolo. Ho visto oggi in città un gruppo di signori in frak e cilindro nero che avanzavano attraverso la piazza del mercato col passo misurato dei diplomatici. Gli sparati bianchi spiccavano luminosi nell'aria plumbea. Guardavano in silenzio le case, come se volessero valutarle. Camminavano a passi concordi, lenti, ritmici. Hanno baffi neri come il carbone sui volti perfettamente lisci e rasati, e occhi lucenti che roteano scivolando nelle orbite. Di tanto in tanto si tolgono il cilindro e si asciugano il sudore dalla fronte.
Sono tutti alti, magri, di età media, e hanno facce scure da gangster.
Le giornate sono diventate buie, nuvolose e grigie. Una lontana, potenziale burrasca ristagna giorno e notte sui remoti orizzonti, senza scaricarsi in un diluvio. Nel grande silenzio passa di tanto in tanto per l'aria di acciaio un soffio di ozono, un odore di pioggia, una brezza umida e fresca. Ma poi di nuovo soltanto i giardini gonfiano l'aria di immensi sospiri e moltiplicano il fogliame frettolosamente, giorno e notte, a cottimo. Tutte le bandiere ricadono pesantemente, e debolmente versano le ultime ondate di colore nell'aria ispessita.
Talvolta, nella breccia di una strada, qualcuno rivolge al cielo una metà illuminata del volto. Stagliata nell'oscurità, l'occhio spaventato e lucente, ascolta il fruscio degli spazi, il silenzio elettrico delle nubi che avanzano, e intanto nelle profondità dell'aria guizzano come frecce, frementi e aguzze, rondini bianconere. L'Ecuador e la Colombia mobilitano. Nel silenzio minaccioso si affollano sul molo plotoni di fanteria, calzoni bianchi, fasce bianche incrociate sul petto.
L'Unicorno cileno si è impennato. Lo si vede di sera sullo sfondo del cielo, animale patetico, immobilizzato dal terrore, gli zoccoli in aria.
I giorni sprofondano sempre più nell'ombra e nelle fantasticherie. Il cielo si è chiuso, barricato, gonfiandosi di una burrasca sempre più grigia e oscura, e tace acquattato. La terra riarsa e pezzata ha smesso di respirare. Solo i giardini crescono senza un attimo di respiro, si coprono di fogliame, incoscienti ed ebbri, e riempiono ogni fessura libera di fresca sostanza fogliare. (I bocci dei germogli, che erano viscidi come un'eruzione pruriginosa, doloranti e gementi, ora cicatrizzano nella fresca verzura, si rimarginano ripetutamente, foglia a foglia, riguadagnano una salute centuplicata, facendone provvista senza calcolo né misura. Già hanno coperto e soffocato sotto l'oscura coltre del verde i perduti richiami del cuculo, si ode ormai solo la sua voce lontana e attutita, sepolta nel profondo del parco, perduta sotto una cascata di lieta fioritura). Perché le case splendono tanto in quel paesaggio oscurato? Quanto più si addensa il fruscio dei parchi, tanto più crudo si fa il bianco di calce delle case e splende senza sole al caldo riflesso della terra bruciata, sempre più intenso, come se di lì a un momento dovesse picchiettarsi delle macchie nere di una malattia vistosa e variopinta. I cani corrono inebriati, naso in aria. Fiutano qualcosa, assorti ed eccitati, frugando nel folto del verde. Qualcosa vuol fermentare nel fruscio denso di quei giorni nuvolosi: qualcosa di rivelatore, di smisuratamente enorme. Io cerco di capire quale avvenimento possa essere all'altezza di quella somma negativa di attesa, che si accumula in un'immensa carica di elettricità, che cosa possa eguagliare quel catastrofico calo barometrico. Da qualche parte già cresce e si fa più potente ciò per cui nella natura nostra si prepara quella cavità, quella forma, quello iato senza respiro che i parchi non possono riempire con l'inebriante profumo dei lillà.
Negri, negri, folle di negri in città! Se ne vedono qua e là, contemporaneamente in più punti della città. Corrono per le vie come un branco frettoloso e cencioso, irrompono nei negozi di alimentari, li saccheggiano. Scherzi, spintoni, risate, bianco di occhi roteanti, suoni gutturali e denti candidi, scintillanti. Prima che la polizia riuscisse a mobilitarsi, svanivano come la canfora. L'avevo presentito, non poteva essere altrimenti. Era la conseguenza naturale della tensione meteorologica. Soltanto adesso mi rendo conto di avere avuto fin dall'inizio questa sensazione: questa primavera è imbottita di negri.
Che mai facevano da quelle parti i negri, di dove arrivavano quelle orde di negri in pigiama di cotone a righe? Forse il grande Barnum aveva piantato le sue tende nelle vicinanze, trascinando con un interminabile convoglio uomini, animali e demoni; forse nelle vicinanze stazionavano da qualche parte i carrozzoni rigurgitanti di una folla vociante di angeli, belve e acrobati? Niente affatto. Barnum era lontano. I miei sospetti sono puntati in tutt'altra direzione. Non dirò niente. Taccio per te, Bianka, e nessuna tortura mi strapperà una confessione.
Feci una lunga e accurata toilette, quel giorno. Infine, ormai pronto, ritto davanti allo specchio, atteggiai il viso a un'espressione di calma e irrevocabile decisione. Caricai la pistola con cura prima di riporla nella tasca posteriore dei calzoni. Gettai ancora una volta un'occhiata allo specchio, toccai con la mano la redingote, sotto la quale, sul petto, erano nascosti i documenti. Ero pronto a tenergli testa. Mi sentivo profondamente calmo e deciso. Eppure si trattava di Bianka, e che cosa non sarei stato capace di fare per lei! A Rudolf avevo stabilito di non confidare niente. Quanto più da vicino lo conoscevo, tanto più forte si consolidava in me la convinzione che egli fosse un uccello di basso volo, incapace di sollevarsi al di sopra della banalità. Ne avevo ormai abbastanza di quel viso irrigidito dalla costernazione e pallido di invidia con cui salutava ogni mia nuova rivelazione. Riflettendo, percorsi rapidamente il breve tratto di strada. Quando il grande cancello di ferro si fu richiuso alle mie spalle, vibrando di un tremito soffocato, penetrai di colpo in un clima diverso, in un'altra aria, in una regione estranea e fresca del grande anno. I rami neri degli alberi si ramificavano in un tempo distaccato e astratto, le loro cime, ancora senza foglie, si biforcavano in neri virgulti contro il cielo bianco che trascorreva alto ed era il cielo di un'altra, diversa regione, chiuso da ogni parte da viali, ritagliato e dimenticato come un golfo senza sbocco. Le voci degli uccelli, perdute e attutite negli spazi lontani di quel vasto cielo, ritagliavano altrimenti il silenzio, lo portavano pensose alla ribalta, greve, grigio, riflesso alla rovescia nel tacito stagno, e il mondo trascorreva in quel riflesso senza memoria, gravitava cieco e impetuoso in quel vasto, universale, grigio raccoglimento, in quei cavatappi rovesciati degli alberi, che fuggivano senza fine, in quel grande, fluttuante pallore, senza limiti e senza meta. A testa alta, freddo e calmo fino in fondo all'anima, mi feci annunziare. Fui introdotto in una hall semibuia. Vi regnava una penombra vibrante di tacito lusso. Attraverso l'alta finestra aperta, quasi fosse la bocchetta di un flauto, l'aria del giardino soffiava in placide ondate balsamiche e caute, come se dovessero entrare nella camera di un malato inguaribile. Da quei taciti influssi, che penetravano invisibili attraverso i filtri dolcemente respiranti delle tende, appena sollevate dalla brezza del giardino, riprendevano vita gli oggetti, si destava con un sospiro, e uno scintillante presentimento percorreva in trepidi passaggi le file dei bicchieri veneziani nella profonda vetrina, mentre le foglie delle tappezzerie stormivano timide e argentee. Poi le tappezzerie si spegnevano, cadevano nell'ombra, e le loro intense meditazioni, da anni racchiuse in quelle selve fitte di oscure speculazioni, si liberavano fantasticando tumultuosamente in un cieco vaneggiamento di aromi, come antichi erbari, attraverso le cui ormai secche praterie volano stormi di colibrì e mandrie di bisonti, incendi di steppe e inseguimenti con gli scalpi sventolanti alla sella. E' strano come questi vecchi interni non riescano a passare tranquillamente sopra il loro agitato, oscuro passato, come nel loro silenzio persistano nel tentativo di inscenare nuovamente la storia già pregiudicata e perduta, come le stesse situazioni si presentino in infinite varianti rovesciate da ogni parte dall'infruttuosa dialettica delle tappezzerie. Così si scompone quel silenzio, totalmente corrotto e demoralizzato, in mille e mille riflessioni, in solitarie deliberazioni, percorrendo all'impazzata le tappezzerie sotto forma di lampi senza luce. Perché nasconderlo? Non si doveva forse qui placare di notte in notte quei fermenti smisurati, quegli accumulati parossismi di febbre, non li si doveva forse risolvere con iniezioni di droghe segrete, che li conducevano in vasti paesaggi dolci e riposanti, pieni, fra le tappezzerie scostantesi, di lontani specchi d'acqua? Udii un fruscio. Preceduto da un lacchè, scendeva le scale, tarchiato e conciso, parco nei gesti, accecato dal riflesso dei grandi occhiali di corno. Per la prima volta mi trovavo faccia a faccia con lui. Era impenetrabile, ma non senza soddisfazione notai, fin dalle mie prime parole, due solchi di afflizione e di amarezza affondargli nei tratti. Mentre oltre il luccichio cieco dei suoi occhiali drappeggiava il viso con una maschera di magnifica inaccessibilità, vidi fra le pieghe di quella maschera passare per un attimo furtivo un pallido sgomento. A poco a poco si fece più interessato, dall'espressione più attenta si vedeva che soltanto allora cominciava a prendermi in considerazione. Mi invitò nel suo gabinetto situato lì accanto. Al nostro ingresso una figura femminile in veste bianca si scostò dalla porta, spaventata, come se avesse origliato, e si allontanò verso l'interno dell'abitazione. Era la governante di Bianka? Mi parve, varcando la soglia di quella stanza, di entrare nella giungla. La penombra verdetorbido che vi regnava era rigata acquosamente dalle ombre delle gelosie a stecche abbassate alle finestre. Le pareti erano tappezzate di tavole botaniche, in grandi gabbie svolazzavano piccoli uccelli colorati. Nel tentativo evidente di guadagnare tempo, mi mostrò alcuni esemplari di armi primitive, giavellotti, boomerang, tomahawak, appesi alle pareti. Il mio olfatto acutissimo fiutò odore di curaro.
Mentre maneggiava un certo tipo di alabarda barbarica, gli raccomandai la massima prudenza, nonché dominio dei propri gesti, e sottolineai il mio avvertimento estraendo improvvisamente la pistola. Sorrise spiacevolmente, piuttosto sconcertato, e ripose l'arma al suo posto. Ci sedemmo vicino a una possente scrivania di ebano. Ringraziai del sigaro che mi offriva, trincerandomi dietro l'astinenza. Tanta prudenza mi accattivò tuttavia la sua approvazione. Con il sigaro nell'angolo della bocca cascante, mi osservava con benevolenza minacciosa, che non suscitava confidenza. Poi, sfogliando con noncuranza, come per distrazione, il libretto degli chèque, mi propose all'improvviso un compromesso, nominando una cifra con molti zeri, mentre roteava le pupille negli angoli degli occhi. Il mio sorriso ironico lo convinse ad abbandonare subito l'argomento. Con un sospiro tirò fuori alcuni libri di conti. Cominciò a spiegarmi lo stato degli interessi. Il nome di Bianka non cadde neppure una volta fra noi, benché in ogni nostra parola essa fosse presente. Lo guardavo senza un fremito, con lo stesso sorriso ironico costantemente sulle labbra. Finalmente si appoggiò spossato allo schienale. Lei è implacabile, disse come se parlasse a se stesso. Ma che cosa vuole, insomma? Ripresi a parlare, parlai con voce soffocata, con foga rattenuta. Le guance mi si erano fatte di porpora. Più di una volta pronunciai con un tremito il nome di Massimiliano. Lo nominai posandovi l'accento, osservando come di volta in volta il viso del mio interlocutore diventasse di una sfumatura più pallido. Terminai, infine, respirando pesantemente. Era distrutto. Non riusciva più a padroneggiare il suo volto, che divenne a un tratto vecchio e stanco. Le sue decisioni mi diranno, terminai, se ella sia giunta alla comprensione del nuovo stato di cose e se sia pronta a riconoscerlo nei fatti. Esigo fatti, e ancora una volta fatti... Con mano tremante cercò di raggiungere il campanello. Lo trattenni con un gesto e con il dito sul calcio della pistola, mi ritirai dalla stanza camminando a ritroso. All'uscita un servitore mi porse il cappello. Mi ritrovai sulla terrazza invasa di sole, gli occhi ancora pieni di oscurità turbinante e di vibrazioni.
Scesi la scala senza voltarmi, trionfante e certo che ormai da nessuna delle persiane chiuse del palazzo sarebbe sporta alle mie spalle la canna di una doppietta assassina.
Questioni importanti, affari di Stato di estrema gravità mi costringono ora, spesso, a tenere intime sedute con Bianka. Mi preparo ad esse scrupolosamente, restando fino a notte fonda a tavolino, chino sopra quelle questioni dinastiche di delicatissima natura. Il tempo scorre, la notte si sofferma silenziosa nella finestra aperta sopra la lampada da tavolo: sempre più tarda e solenne, incide strati sempre più tardi e oscuri, oltrepassa stadi sempre più profondi di iniziazione, e si arresta, sfinita, alla finestra in ineffabili, sospiri. In lunghe, lente sorsate, la stanza oscura risucchia nelle sue profondità i recessi del parco, scambia in fresche trasfusioni la sua sostanza con la grande notte che avanza rigonfia di tenebre, con una manciata di semi piumati, di granelli oscuri e di mute falene vellutate, svolazzanti alle pareti in fughe silenziose. Le selve delle tappezzerie si drizzano spaventate nell'oscurità in un cipiglio argenteo, setacciando attraverso il fogliame ricadente quei fremiti fallaci e letargici, le fresche estasi e gli slanci, le inquietudini e gli smarrimenti trascendentali di cui è piena la notte di maggio oltre i suoi margini, molto dopo la mezzanotte.
La sua fauna trasparente e vitrea, il lieve plancton dei moscerini mi circonda mentre sono curvo sulle carte, affollando l'aria lassù, sempre più in alto, con quel bianco ricamo spumeggiante e delicato, di cui si intesse la notte molto dopo la mezzanotte. Sulle carte si posano cavallette e zanzare fatte quasi del tessuto trasparente delle speculazioni notturne, farfarelli di vetro, sottili monogrammi, arabeschi inventati dalla notte, sempre più grandi e fantastici, grandi come pipistrelli, come vampiri, fatti di pura calligrafia e di aria. La tenda pullula tutta di questo merletto vagante, della silenziosa invasione di quella bianca fauna immaginaria. In una notte simile, senza limiti, fuori da ogni margine, lo spazio perde il suo senso. Racchiuso in quel chiaro vortice danzante di moscerini, con il plico delle carte finalmente pronte, muovo qualche passo in una direzione imprecisata, nel vicolo cieco della notte che deve finire alla porta, proprio alla candida porta di Bianka. Premo la maniglia, entro da lei come da una stanza all'altra. Nonostante ciò il mio cappello nero da carbonaro sventola come al soffio di una lontana spedizione, mentre oltrepasso la soglia la mia cravatta scomposta fruscia fantasticamente nella corrente d'aria, e io mi stringo al petto la cartella piena di documenti segretissimi. Come se dal vestibolo della notte fossi entrato nella notte vera! Come si respira profondamente in quell'ozono notturno! Qui è il nucleo, qui è il fondo della notte colma di gelsomino. Soltanto qui comincia la sua vera storia. Una grande lampada dall'abatjour rosa è accesa a capo del letto. In quella rosea penombra Bianka riposa fra enormi cuscini, sorretta dal lenzuolo rigonfio come dal soffio della notte, sotto la finestra spalancata, traspirante. Bianka legge appoggiata al braccio pallido. Al mio profondo inchino risponde con un rapido sguardo al di sopra del libro. Vista da vicino, la sua bellezza è come contenuta, rientra in se stessa come una lampada smorzata. Con gioia sacrilega osservo che il suo naso non è affatto così nobilmente tagliato, e la carnagione è lontana dalla perfezione ideale. Osservo tutto ciò con un certo sollievo, sebbene sappia che questo suo contenere il proprio splendore è come dovuto soltanto a pietà e ha il solo scopo di non mozzare il respiro e togliere la parola. Quella bellezza si rigenera poi rapidamente attraverso il medium della lontananza e diventa dolorosa, insopportabile, oltre ogni misura. Incoraggiato dal suo cenno, mi siedo accanto al letto e incomincio la mia relazione, servendomi dei documenti preparati. Attraverso la finestra aperta dietro la testa di Bianka fluisce inconsapevole il fruscio del parco. Il bosco intero che si affolla alla finestra scivola dentro in un girotondo di alberi, trapassa le pareti, si dilata, onnipresente e onnicomprendente. Bianka ascolta piuttosto distratta. E' davvero irritante che durante tutto ciò non smetta di leggere. Lascia che io illustri ogni questione in ogni suo aspetto, che ne mostri tutti i pro e i contra, poi, sollevando gli occhi dal libro e battendo appena le palpebre inconsapevolmente, decide in fretta, superficialmente e con stupefacente precisione. Vigile e attento ad ogni sua parola, mi sforzo di afferrare il tono della voce, per penetrarne la riposta intenzione. Poi le sottopongo umilmente i decreti da firmare, e Bianka firma, con le ciglia abbassate che gettano una lunga ombra, e al di sotto di quelle mi osserva con lieve ironia, mentre appongo la mia controfirma. Può darsi che l'ora tarda, la mezzanotte trascorsa da un pezzo, non favorisca la concentrazione sugli affari di stato. La notte, oltrepassato l'ultimo confine, inclina a una certa dissolutezza. Mentre così conversiamo, l'illusione della stanza si dissolve sempre più, siamo davvero in un bosco, ciuffi di felci invadono ogni angolo, qui dietro il letto si leva un muro di piante, mobile e avviluppato. Da quella parete di foglie spuntano alla luce della lampada scoiattoli grandocchiuti, picchi e animaletti notturni che fissano immobili la luce con pupille luccicanti e sporgenti. A partire da un dato momento entriamo in un tempo illegale, nella notte priva di controllo, soggetta a ogni capriccio e pretesa notturna. Ciò che ancora accade è in certo senso ormai fuori del conto, non si calcola più, pieno com'è di futilità, di incalcolabili eccessi, di folli giochi notturni. A questo soltanto posso attribuire gli strani mutamenti che sopraggiungono nell'umore di Bianka. Essa, sempre così seria e padrona di sé, personificazione stessa dell'obbedienza e della disciplina, diventa ora capricciosa, intrattabile e imprevedibile. I fogli giacciono sparsi sulla vasta distesa della sua coperta, Bianka li prende distrattamente in mano, vi getta con noncuranza l'occhio e se li lascia sfuggire con indifferenza di fra le dita allentate. Le labbra tumide, il braccio pallido ripiegato sotto la testa, rinvia ogni decisione e mi lascia in attesa. Oppure si volta, dandomi le spalle, si tappa le orecchie con le mani, sorda alle mie preghiere e profferte. All'improvviso, senza una parola, con un solo brusco movimento del piede da sotto la coperta, fa precipitare tutti i fogli a terra e dall'alto dei suoi cuscini mi osserva, al di sopra della spalla, con occhi enigmaticamente dilatati, mentre chinato li raccolgo febbrilmente da terra, soffiandovi sopra gli aghi di pino. Questi capricci, peraltro affascinanti, non mi facilitano la parte già così difficile e piena di responsabilità di reggente.
Durante la nostra conversazione il fruscio del bosco traboccante di fresco gelsomino vaga per la stanza, recando con sé intere miglia di paesaggi. Sempre nuovi frammenti di bosco scivolano dentro e si aggirano, cortei danzanti di alberi e di arbusti, interi scenari boschivi scorrono dilatandosi attraverso la stanza. Allora risulta chiaro che fin dall'inizio siamo in un tipo particolare di convoglio, in un boschivo treno notturno, aggirantesi lentamente sull'orlo di un burrone nella zona boscosa della città. Da qui viene quella corrente inebriante e profonda che percorre in lungo e in largo quegli scompartimenti con una trama sempre nuova, prolungantesi in un'infinita prospettiva di presentimenti. Perfino il bigliettaio con la sua lanterna sbuca fuori da chissà dove, esce di fra gli alberi e ci fora i biglietti con le pinze. Così viaggiamo nella notte sempre più fonda, ne apriamo sempre nuovi corridoi, pieni di porte che si chiudono sbatacchiando e di correnti d'aria. Gli occhi di Bianka si fanno più profondi, le sue guance bruciano, un sorriso ammaliatore dischiude la sua bocca. Che voglia confidarmi qualcosa? Qualcosa di segretissimo? Bianka parla di tradimento e il suo visino brucia di estasi, gli occhi si restringono in un accesso di voluttà, mentre, torcendosi come una lucertola sotto le coperte, mi insinua di tradire la più sacra delle missioni. Sonda con ostinazione il mio volto impallidito, con occhi dolci che mi guardano in tralice. Fallo, mormora insistente, fallo! Diverrai uno di loro, uno di quei negri d'ebano... E quando con un gesto di scongiuro porto il dito alle labbra, disperato, il suo visino si fa improvvisamente cattivo e velenoso. Sei ridicolo con la tua incrollabile fedeltà e con tutta la tua missione. Dio sa che cosa ti immagini sulla sua indispensabilità. E se scegliessi Rudolf? Lo preferisco mille volte a te, noioso pedante.
Ah, lui sì, sarebbe devoto, docile fino al delitto, fino alla cancellazione della sua persona, fino al proprio annientamento. Poi all'improvviso, con espressione trionfante, domanda: Ti ricordi di Lonka, la figlia di Antosia, la lavandaia, con cui giocavi quando eri piccolo? La guardai stupito. Ero io, disse ridendo sommessamente. Solo che allora ero ancora un ragazzo. Ti piacevo a quel tempo? Ah, nel fondo stesso della primavera qualcosa marcisce e si dissolve. Bianka, Bianka, mi tradisci anche tu?
Ho paura di svelare anzi tempo gli ultimi atout. Sto giocando a una posta troppo alta per poter correre questo rischio. A Rudolf da tempo ho cessato di fornire ragguagli sul corso degli avvenimenti. Il suo comportamento, del resto, è cambiato da qualche tempo a questa parte.
L'invidia, che era la nota dominante del suo carattere, ha ceduto il posto a una certa magnanimità. Una sorta di premurosa benevolenza mista a imbarazzo appare nei suoi gesti e nelle sue parole maldestre, ogni volta che ci incontriamo per caso. Un tempo, sotto l'espressione imbronciata di taciturno, sotto il suo vigile riserbo, si nascondeva tuttavia una divorante curiosità, avida di ogni nuovo particolare, di ogni nuova versione sull'argomento. Adesso è stranamente tranquillo, non vuole sapere più niente da me. Ciò mi fa molto comodo, a dire il vero, ora che ogni notte tengo nel panottico quelle sedute estremamente importanti che debbono restare per un certo tempo avvolte nel più profondo segreto. I guardiani, sopraffatti dalla wòdka, che io non lesino loro, dormono nei loro sgabuzzini il sonno dei giusti, mentre io, alla luce di qualche candela fumosa, conferisco con quella nobile assemblea. Fra questi, tuttavia, vi sono anche teste coronate, e trattare con loro non è cosa delle più facili. Fin da tempi antichissimi hanno conservato quell'eroismo inutile, vuoto ora e senza contenuto, quella fiamma, quel bruciarsi al fuoco di una qualche idea, quel puntare tutta la propria vita sopra una sola carta. Le idee per cui sono vissuti si sono screditate l'una dopo l'altra nella prosa della vita quotidiana, le loro micce si sono bruciate; essi sono ormai svuotati, pieni soltanto di dinamica non sopita, e lampeggiando con gli occhi inconsapevolmente aspettano l'ultima parola della loro parte. Com'è facile, in quel momento, falsificare quella parola, suggerire loro la prima idea che viene in mente, mentre sono così acritici e indifesi! Ciò mi facilita egregiamente il compito. D'altra parte, tuttavia, è estremamente difficile giungere al loro intelletto, accendere in loro la luce di qualche pensiero, tale è la corrente d'aria che passa nel loro animo, tale è il vento vuoto che soffia loro attraverso. Già lo stesso destarli dal sonno è costato molta fatica. Giacevano tutti sui loro giacigli, mortalmente pallidi e senza respiro. Mi sono chinato sopra ognuno, pronunciando in un bisbiglio le parole per loro essenziali, le parole che avrebbero dovuto trapassarli come la corrente elettrica. Aprirono un occhio. Avevano paura dei guardiani, facevano finta di essere morti e sordi. Solo quando si furono accertati che eravamo soli, si sollevarono sui giacigli, tutti fasciati, composti di pezzi, stringendo a sé le protesi di legno, i polmoni e i fegati falsi, imitati. Sulle prime erano molto diffidenti e volevano recitare le parti che avevano imparato. Non potevano comprendere che si potesse domandare loro qualcos'altro. E così stavano seduti ottusamente, borbottando di tanto in tanto, quegli uomini illustri, fiore dell'umanità, Dreyfus e Garibaldi, Bismarck e Vittorio Emanuele Ii, (1) Gambetta, Mazzini e molti altri. Il più duro a capire era l'arciduca Massimiliano. Quando in un bisbiglio febbrile ripetevo più e più volte al suo orecchio il nome di Bianka, strizzava gli occhi trasognato, uno stupore straordinario gli si dipingeva sul volto, e nessun barlume di comprensione gli illuminava i tratti. Soltanto quando gli pronunciai lentamente e con energia il nome di Francesco Giuseppe I, sul suo viso passò a volo una strana smorfia, un puro movimento riflesso, che non aveva ormai corrispondenza nel suo animo. Quel complesso era stato da tempo scacciato dalla sua co (1) Nel testo: Vittorio Emanuele I. scienza; e come avrebbe potuto viverci assieme, con quella carica esplosiva di odio, lui, a fatica ricomposto e cicatrizzato dopo quella sanguinosa fucilazione a Vera Cruz? Dovetti insegnargli di nuovo la sua vita fin dall'inizio. L'anamnesi fu estremamente fiacca, mi appellavo a qualche barlume subcosciente del sentimento. Gli inoculavo elementi di amore e di odio. Ma la notte seguente risultava che aveva dimenticato tutto. I suoi colleghi, più capaci di lui, mi aiutavano, gli suggerivano la reazione con cui avrebbe dovuto rispondere, e così l'educazione procedeva a passi lenti. Era molto trascurato, semplicemente svuotato internamente dai guardiani; ciò nonostante arrivai a ottenere che al suono del nome di Francesco Giuseppe estraesse la sciabola dal fodero. Per poco non infilzò Vittorio Emanuele Ii, che non si era scansato abbastanza in fretta. Così avvenne che il resto di quell'illustre assemblea si accese molto più in fretta e afferrò l'idea prima dell'infelice arciduca, che a stento li seguiva. Il loro entusiasmo non conobbe limiti. Con tutte le mie forze dovetti tenerli a freno. Impossibile dire se avessero afferrato in tutta la sua portata l'idea per cui dovevano lottare. La parte essenziale non era affar loro.
Predestinati a bruciarsi al fuoco di qualche dogma, erano incantati di aver trovato, grazie a me, la parola d'ordine nel nome della quale potevano morire in battaglia, nel turbine della passione. Li calmai con l'ipnosi, li abituai a fatica a mantenere il segreto. Ero fiero di loro.
Quale capo ebbe mai ai suoi ordini uno stato maggiore così illustre, un drappello di generali composto di spiriti così ardenti, una guardia...quasi soltanto di invalidi, in verità, ma come geniali! Giunse infine quella notte, tempestosa e gonfia di bufera, scossa fin nei suoi più profondi recessi da ciò che in essa si stava preparando, enorme, illimitato. Le folgori fendevano una dopo l'altra le tenebre. Il mondo si apriva lacerato fin dentro le sue viscere, mostrava il suo interno sfacciatamente colorato, terrificante, senza respiro, e lo richiudeva di nuovo. E scorreva oltre, col fruscio dei parchi, col corteo dei boschi, con la schiera volteggiante degli orizzonti. Col favore delle tenebre lasciammo il museo. Mi misi alla testa di quella coorte ispirata, che avanzava tra un violento zoppicare, sbatacchiare e tamburellare di stampelle e pezzi di legno. Lampi guizzavano sulle lame sguainate delle sciabole. Raggiungemmo così nell'oscurità il portone della villa. Lo trovammo aperto. Inquieto, presentendo un agguato, ordinai di accendere le torce. L'aria si arrossò per le fiaccole, gli uccelli spaventati si levarono alti nel rosso splendore, e in quella luce di bengala scorgemmo chiaramente la villa, le sue terrazze e i balconi immobili, come al bagliore di un incendio. Sul tetto sventolava una bandiera bianca.
Colpito da un cattivo presentimento, irruppi nel cortile alla testa dei miei prodi. Sul terrazzo apparve il maggiordomo. Scese inchinandosi le scale monumentali e si avvicinò esitando, pallido e incerto nei movimenti, sempre più chiaro alla fiamma delle fiaccole. Puntai contro il suo petto la mia lama. I miei fidi stavano immobili, tenendo alte le torce fumiganti. Si poteva udire nel silenzio lo sfrigolìo delle fiamme che correvano orizzontali. Dov'è il signor de V'? domandai. Aprì le braccia con un gesto vago. E' partito, signore, rispose. Ci accerteremo subito se è vero. Ma dov'è l'Infanta? Sua Altezza è partita anch'essa, tutti sono partiti... Non avevo ragione di dubitarne. Qualcuno doveva avermi tradito. Non c'era tempo da perdere. A cavallo! gridai. Dobbiamo tagliar loro la strada! Forzammo la porta della scuderia, nel buio ci avvolsero il tepore e l'odore degli animali. Un attimo dopo eravamo tutti sui destrieri, che si impennavano sotto di noi, nitrendo.
Trascinati dal loro galoppo, piombammo fra lo scalpiccio degli zoccoli sull'acciottolato in una lunga cavalcata dispiegantesi lungo la strada notturna. Al fiume per il bosco! lanciai dietro di me e piegai per il viale boscoso. Attorno a noi si scatenavano le profondità della selva.
Nell'oscurità si aprivano come paesaggi di catastrofi e diluvi accatastati gli uni sugli altri. Volammo fra cascate di scrosci, fra agitate masse boscose, le fiamme delle torce si staccavano a grandi lembi dietro il nostro galoppo dispiegato. Nella mia testa passava un uragano di pensieri. Bianka era stata rapita, oppure in lei la bassa eredità paterna aveva prevalso sul sangue della madre e sulla missione che invano avevo tentato di inocularle? Il viale divenne più stretto, si trasformò in una gola al cui sbocco si apriva una vasta radura. Là infine li raggiungemmo. Ci avevano visti fin da lontano e fermarono la carrozza. Il signor de V. scese e incrociò le braccia sul petto. Venne verso di noi lentamente, lugubre, mandando lampi con gli occhiali, purpureo al bagliore delle torce. Dodici lame scintillanti puntarono contro il suo petto. Ci avvicinammo formando un ampio semicerchio, in silenzio. I cavalli andavano al passo. Mi feci scudo con la mano sugli occhi per vedere meglio. La luce delle torce cadde sulla carrozza, e in fondo al sedile vidi Bianka, mortalmente pallida, e accanto a lei Rudolf. Le teneva una mano e se la stringeva al petto. Lentamente scesi da cavallo e a passo incerto andai verso la carrozza. Rudolf si alzò adagio, come se volesse venirmi incontro. Ritto accanto alla carrozza mi rivolsi alla cavalcata che seguiva lentamente su vasto fronte, con le spade pronte a colpire e dissi: Signori, vi ho scomodato inutilmente.
Queste persone sono libere e partiranno indisturbate, senza essere attaccate da nessuno. Non verrà torto loro un solo capello. Avete compiuto il vostro dovere. Ringuainate le sciabole. Non so fino a che punto abbiate compreso l'idea al servizio della quale vi ingaggiai, fino a che punto essa sia penetrata in voi e divenuta sangue del vostro sangue. Questa idea, come vedete, fallisce, fa bancarotta su tutta la linea. Ritengo che per quel che vi riguarda sopravvivrete a questo fallimento senza maggior danno di quando sopravviveste al fallimento della vostra stessa idea. Siete ormai indistruttibili. Quanto a me... Ma poco importa della mia persona. Vorrei soltanto, e qui mi rivolsi a quegli altri nella carrozza, non pensaste che quanto è avvenuto mi abbia trovato del tutto impreparato. Non è così. Da tempo avevo previsto tutto ciò. Se apparentemente ho persistito così a lungo nel mio errore, se mi sono rifiutato di conoscere meglio la situazione, ciò è avvenuto unicamente perché non era di mia competenza sapere cose che oltrepassano il mio ambito, non era di mia competenza anticipare gli avvenimenti.
Volevo restare nel posto in cui mi aveva collocato il destino, volevo portare a termine fino in fondo il mio programma, rimanere fedele alla parte che io stesso avevo usurpato per me. Giacché, lo riconosco adesso con contrizione, nonostante le insinuazioni della mia ambizione, ero solo un usurpatore. Nel mio accecamento mi ero accollato la spiegazione della scrittura, volevo essere il traduttore della volontà divina, in una falsa ispirazione avevo afferrato le oscure tracce e i contorni che passavano attraverso l'album di francobolli. Purtroppo li avevo uniti soltanto in una figura arbitraria. Avevo imposto a quella primavera la mia regia, messo alle basi della sua illimitata fioritura il mio programma, e volevo piegarla, indirizzarla secondo i miei piani. Essa mi accolse per un certo tempo nella sua fioritura, paziente e impassibile, appena avvertendomi. La sua insensibilità la presi per tolleranza, anzi, per solidarietà, per approvazione. Pensavo che avrei indovinato dai suoi tratti, meglio di lei stessa, le sue più riposte intenzioni, che avrei letto nel suo animo, che avrei anticipato ciò che essa, sedotta dalla propria illimitatezza, non avrebbe saputo esprimere. Trascuravo tutti i segni della sua selvaggia e sfrenata indipendenza, mi lasciai sfuggire le violente perturbazioni che la scuotevano fin nel suo intimo ed erano incalcolabili. Mi spinsi tanto lontano nella mia megalomania da osare ingerirmi in questioni dinastiche delle più alte potenze, vi mobilitai, signori, contro il Demiurgo, abusai della vostra incapacità di resistere alle idee, della vostra nobile acriticità per instillarvi una dottrina falsa e sovvertitrice, per trascinare il vostro ardente idealismo ad azioni folli. Non voglio qui decidere se fui chiamato o meno agli altissimi compiti cui aspirava la mia ambizione. Forse fui chiamato soltanto a prendere l'iniziativa, fui sospinto, poi subito abbandonato.
Oltrepassai i miei confini, ma anche questo era previsto. In realtà conoscevo fin da principio il mio destino. Come il destino di quello sventurato Massimiliano, anche il mio era il destino di Abele. Ci fu un momento in cui il mio sacrificio fu profumato e caro al Signore, e il tuo fumo cadde in basso, Rudolf. Ma Caino vince sempre. Questo gioco era concertato in potenza. In quell'istante una lontana detonazione squarciò l'aria. Una colonna di fuoco si levò sopra i boschi. Tutti girarono il capo. State tranquilli, dissi, è il panottico che brucia. Ho lasciato là, uscendo dal museo, un barilotto di polvere con la miccia accesa. Non avete più casa, nobili signori, siete dei senzatetto. Ho speranza che questo non vi sconvolga eccessivamente. Ma quelle possenti personalità, quel fior fiore dell'umanità tacevano e lampeggiavano perplessi gli occhi, restando ottusamente nell'ordine di battaglia al lontano bagliore dell'incendio. Si guardavano l'un l'altro assolutamente senza un pensiero in testa, sbattendo le palpebre. Tu, Sire, e qui mi rivolsi all'arciduca, hai avuto torto. Forse anche da parte tua si è trattato di megalomania. Ingiustamente in tuo nome volevo riformare il mondo. Del resto, forse questo non era neppure nelle tue intenzioni. Il rosso è un colore tale e quale agli altri, soltanto tutti assieme i colori compongono la totalità della luce. Perdonami se ho abusato del tuo nome per scopi a te estranei. Evviva Francesco Giuseppe I! A questo nome l'arciduca trasalì e mise mano alla sciabola, ma dopo un attimo appena tornò in sé: un più vivo rossore gli colorò le guance truccate, gli angoli della bocca gli si sollevarono come in un sorriso, gli occhi cominciarono a roteargli nelle orbite, ritmicamente e dignitosamente compì un cerchio, passando lentamente dall'uno all'altro con un sorriso radioso. Si allontanarono scandalizzati. Quella recidiva di imperialità in circostanze così inopportune produsse una pessima impressione.
Rinuncia, Sire, dissi, non dubito che tu conosca a memoria il cerimoniale della tua corte, ma non è questo il momento adatto. Volevo leggervi, illustri signori, e anche a te, Infanta, l'atto della mia abdicazione. Abdico su tutta la linea. Sciolgo il triumvirato. Depongo la reggenza nelle mani di Rudolf. E voi, nobili signori, qui mi rivolsi al mio stato maggiore, siete liberi. Avete avuto le migliori intenzioni e vi ringrazio calorosamente in nome dell'idea, della nostra idea detronizzata, e qui gli occhi mi si riempirono di lacrime, che nonostante tutto... In quell'istante risuonò là vicino uno sparo.
Volgemmo tutti la testa da quella parte. Il signor de V. se ne stava con la pistola fumante in mano, stranamente rigido e allungato di sbieco. Si piegò malamente. All'improvviso barcollò e cadde sulla faccia. Padre, padre! gridò Bianka e si gettò sul morente. Sopravvenne una grande confusione. Garibaldi, che si intendeva, come vecchio uomo del mestiere, di ferite, visitò lo sventurato. La pallottola aveva perforato il cuore.
Il re del Piemonte e Mazzini lo presero delicatamente per le braccia e lo deposero su una lettiga. Bianka singhiozzava, sostenuta da Rudolf. I negri, che soltanto allora si erano radunati sotto gli alberi, fecero cerchio attorno al loro signore. Massa, massa, il nostro buon massa! gemettero in coro. Questa notte è veramente funesta! gridai. Ma nella sua memorabile storia, quella che ora è avvenuta non sarà l'ultima tragedia. Confesso, tuttavia, che questo non l'avevo previsto. Gli ho fatto torto. In realtà, nel suo petto batteva un nobile cuore. Ritiro il mio giudizio su di lui, miope e offuscato. Doveva essere un buon padre, un buon padrone per i suoi schiavi. La mia idea anche qui riconosce il suo fallimento. Ma la sacrifico senza rimpianti. A te, Rudolf, spetta consolare il dolore di Bianka, amarla di duplice amore, sostituire suo padre. Vorrete certamente portarlo con voi a bordo, formiamo perciò il corteo e dirigiamoci al porto. Il battello da tempo vi chiama con l'urlo della sirena. Bianka tornò a sedersi nella carrozza. Noi salimmo a cavallo. I negri presero la barella sulle spalle e ci avviammo al porto.
La cavalcata dei cavalieri chiudeva quel mesto corteo. La tempesta si era placata durante il mio discorso, la luce delle torce apriva nel folto del bosco profonde fessure, ombre nere, allungate guizzavano a centinaia di fianco e in alto, avanzando in un ampio semicerchio alle nostre spalle. Finalmente uscimmo dal bosco. Si scorgeva già in lontananza il vapore con le sue ruote. Poco, ormai, resta da aggiungere, la nostra storia finisce. Fra il pianto di Bianka e dei negri, il corpo del morto fu trasportato a bordo. Per l'ultima volta ci schierammo sulla riva. Ancora una cosa, Rudolf, dissi prendendolo per un bottone della giacca. Parti erede di un'immensa fortuna, non voglio rimproverarti niente, a me spetterebbe piuttosto provvedere alla vecchiaia di questi eroi dell'umanità, ormai senzatetto. Purtroppo sono un povero diavolo.
Rudolf mise immediatamente mano al libretto degli chèques. Ci consultammo brevemente da una parte, giungemmo ben presto a un accordo.
Signori! gridai rivolgendomi alla mia guardia. Questo mio magnanimo amico ha deciso di riparare al mio operato che vi privava del pane e di un tetto sulla testa. Dopo ciò che è accaduto nessun panottico vi accoglierà, tanto più che la concorrenza è forte. Dovrete rinunciare in parte alle vostre ambizioni. Diverrete però uomini liberi, e so che saprete apprezzarlo. Poiché non vi è stata purtroppo insegnata alcuna professione pratica, a voi, predestinati a pura rappresentanza, il mio amico ha istituito un fondo sufficiente all'acquisto di dodici organetti di Schwarzwald. Vi sparpaglierete per il mondo, suonando alla gente per il conforto dei cuori. La scelta delle arie spetta a voi. Ma a che scopo sprecare tante parole? Non siete proprio gli autentici Dreyfus, Edison e Napoleone. Lo siete, se è lecito dirlo, solo in mancanza di meglio.
Ingrosserete adesso la schiera dei molti vostri predecessori, di quegli anonimi Garibaldi, Bismarck e Macmahon che girano a migliaia, misconosciuti, per il mondo. In fondo ai vostri cuori resterete tali per sempre. Ma ora, cari amici e illustri signori, levate con me il vostro grido: evviva gli sposi novelli, evviva Rudolf e Bianka! Evviva!
gridarono in coro. I negri intonarono un loro song. Quando si fece silenzio li radunai di nuovo con un gesto della mano, poi, stando in mezzo, estrassi la pistola e gridai: E ora salutate, signori, anche ciò che vedrete fra un istante, e traetene avvertimento affinché nessuno si arrischi a indovinare le intenzioni divine. Nessuno aveva mai sondato i disegni della primavera. Ignorabimus, signori miei, ignorabimus!
Avvicinai la pistola alla tempia e sparai, ma in quell'attimo qualcuno mi deviò l'arma. Accanto a me stava un ufficiale dei Feldjäger, che, tenendo un foglio in mano, mi domandò: Lei è Jòzef N'? Sì, risposi stupito. Per un certo tempo, disse l'ufficiale, lei ha sognato il sogno tipico del Giuseppe biblico? Può darsi... Torna, disse l'ufficiale, guardando il foglio. Sa lei che quel sogno è stato notato in un altissimo luogo e severamente criticato? Non rispondo dei miei sogni, dissi. Certo che ne risponde. In nome di Sua Imperial Regia Maestà, lei è in arresto! Sorrisi. Com'è lenta la macchina della giustizia. La burocrazia di Sua Imperial Regia Maestà si è alquanto appesantita. Da gran tempo ho distanziato quel sogno remoto con azioni di molto maggior calibro, per le quali da solo volevo farmi giustizia, ed ecco che quel sogno superato mi salva la vita. Sono a vostra disposizione. Vidi avvicinarsi una colonna di Feldjäger. Io stesso allungai le mani affinché mi fossero messi i ferri. Voltai ancora una volta gli occhi.
Vidi per l'ultima volta Bianka. Sventolava un fazzolettino a bordo del vapore. La guardia degli invalidi mi salutò in silenzio.
LA NOTTE DI LUGLIO.
Le notti estive le conobbi per la prima volta l'anno della mia maturità, durante le vacanze. La nostra casa, che per tutto il giorno era percorsa attraverso le finestre aperte dagli effluvi, i sussurri, gli scintillii delle calde giornate estive, ospitava un nuovo inquilino, una creaturina minuscola che frignava e vagiva, l'ultimo nato di mia sorella. Il suo arrivo aveva provocato nella nostra casa una sorta di ritorno alle condizioni primitive, ne aveva fatto retrocedere l'evoluzione sociale all'atmosfera nomade, da harem, tipica del matriarcato, con l'accampamento di lenzuola, pannolini e biancheria eternamente lavata e asciugata, con la sciatteria dell'abbigliamento femminile tendente ai floridi denudamenti, dal carattere vegetativamente innocente, con l'odore acido dell'infanzia e dei seni gonfi di latte. Mia sorella, dopo un parto laborioso, era partita per le terme, mio cognato appariva soltanto alle ore dei pasti, mentre i miei genitori restavano in negozio fino a notte inoltrata. Sulla casa aveva dispiegato il suo dominio la balia del bambino, la cui espansiva femminilità si moltiplicava sempre più e attingeva una sanzione nella sua stessa parte di madrenutrice.
Dall'alto di quella sua augusta carica, essa imprimeva a tutta la casa, con la sua ampia e ponderosa presenza, il marchio della ginocrazia, che era al tempo stesso il predominio di una corporeità sazia e fiorente suddivisa con saggia gradualità fra lei stessa e le due giovani domestiche, alle quali ogni azione permetteva di spiegare, come una coda di pavone, l'intera gamma della propria autosufficiente femminilità.
Alla silenziosa fioritura e maturazione del giardino, pieno di fruscii di foglie, di luccichii argentei e ombrose meditazioni, faceva riscontro la nostra casa col suo aroma di femminilità e maternità esalante al di sopra della biancheria candida e delle carni fiorenti; e quando, nell'ora atrocemente sfolgorante del meriggio, tutte le tende si sollevavano in preda al panico dalle finestre spalancate, e tutte le pezze appese sui fili si drizzavano in una barriera scintillante, attraverso quel bianco allarme delle sete e delle tele fluttuavano granelli piumati, polline, petali caduti, e il giardino con il trascorrere delle sue luci e ombre, col migrare dei fruscii e delle meditazioni, attraversava lentamente la stanza, come se in quell'ora sacra a Pan si fossero sollevati tutti i tramezzi e tutte le pareti e per il mondo intero passasse, in un riflusso di pensiero e sentimento, un fremito di onnicapiente unità. Le sere di quell'estate le passavo nel cinemateatro della nostra città. Ne uscivo soltanto dopo l'ultimo spettacolo. Dal nero della sala cinematografica, lacerato da un tumulto di luci ed ombre vaganti, si entrava nel chiaro vestibolo silenzioso come dall'immensità di una notte di bufera in una tranquilla locanda.
Dopo il fantastico inseguimento lungo i sentieri scoscesi del film, si placava il cuore sfiancato dagli eccessi dello schermo in quella chiara sala d'aspetto, che le pareti proteggevano dalla pressione della vasta e patetica notte, in quel porto sicuro, dove il tempo si era fermato da un pezzo, mentre le lampadine diffondevano invano una luce sterile, un'onda dopo l'altra, secondo il ritmo fissato una volta per tutte dal sordo ronzio del motore, che faceva vibrare leggermente la cabina della cassiera. Quel vestibolo, immerso nella noia delle ore tarde, come le sale d'aspetto delle stazioni ferroviarie quando da un pezzo sono partiti tutti i treni, pareva, a tratti, il fondo estremo dell'esistenza, ciò che resterà quando tutto ormai sarà accaduto, quando si sarà spento il tumulto della molteplicità. Sopra un grande manifesto colorato, Asta Nielsen vacillava ormai per sempre con la nera stimmate della morte sulla fronte, la bocca per sempre aperta nell'ultimo grido, gli occhi fissi in uno sguardo sovrumanamente e definitivamente bello.
La cassiera da tempo era tornata a casa. Si aggirava ora, certamente, nella sua stanzetta attorno al letto rassettato che l'aspettava come una navicella per trasportarla fra le nere lagune del sonno, nei meandri avventurosi dei sogni. Quella che sedeva nella cabina, era soltanto la sua larva, Il fantasma illusorio che fissava con occhi affaticati e vistosamente dipinti il vuoto della luce, sbattendo macchinalmente le palpebre per scuoterne la polvere dorata della sonnolenza profusa senza fine dalle lampade elettriche. Di tanto in tanto rivolgeva un pallido sorriso al sergente dei pompieri, il quale, abbandonato anch'egli da tempo dalla sua stessa realtà, se ne stava appoggiato alla parete, per sempre immobile nel suo casco lucente, nello sterile splendore delle spalline, dei nastri argentei e delle medaglie. In lontananza vibravano al ritmo del motore i vetri delle porte che introducevano nella tarda notte di luglio, ma il riflesso del lampadario accecava il vetro, negava la notte, rappezzava come poteva l'illusione di un porto sicuro non minacciato dall'elemento della notte immensa. Alla fine, tuttavia, l'incanto della sala d'aspetto doveva rompersi, le vetrate si aprivano, la portiera rossa si gonfiava al soffio della notte, che all'improvviso sostituiva tutto. Percepite il senso misterioso e profondo di questa avventura, l'avventura del maturando debole e pallido che esce attraverso la porta a vetri dal porto sicuro, per ritrovarsi tutto solo nell'immensità della notte di luglio? Riuscirà mai ad attraversare quelle nere paludi, quegli acquitrini e quegli abissi della notte infinita per sbarcare un bel mattino in un porto tranquillo? Quante decine di anni durerà questa nera odissea? Nessuno ancora ha descritto l'esatta topografia di una notte di luglio. Nella geografia del cosmo interiore queste carte non sono state annotate. Notte di luglio! A che cosa paragonarla, come descriverla? La confronterò forse al cuore di un'immensa rosa nera che ci ricopre con il sonno moltiplicato di mille petali vellutati? Il vento notturno sfoglierà fino all'ultimo quel velluto, e sul suo fondo profumato ci raggiungerà lo sguardo delle stelle. Oppure dovrò paragonarla al nero firmamento delle nostre palpebre chiuse, cosparso di pulviscolo vagante, di una bianca polvere di stelle, razzi e meteore? O confrontarla a un treno notturno lungo come il mondo, che corre in uno sconfinato tunnel nero? Attraversare la notte di luglio è passare a fatica da un vagone all'altro, in mezzo a viaggiatori sonnolenti, lungo corridoi affollati, fra scompartimenti soffocanti e correnti d'aria incrociate. Notte di luglio! Misterioso fluido del crepuscolo, viva, sensibile, mobile materia delle tenebre, incessantemente intenta a foggiare forme dal caos e ogni forma subito pronta a rigettare! Nero materiale da costruzione, che attorno al viandante assonnato accatasta grotte, volte, nicchie, cavità. Come un chiacchierone importuno, essa accompagna il viandante solitario racchiudendolo nel cerchio dei suoi spettri, infaticabile nell'inventare, nel divagare, nell'improvvisare fantasie, facendogli balenare dinanzi come allucinazioni lontananze astrali, bianche vie lattee, labirinti di infiniti colossei e fori. L'aria della notte, nero Proteo che per divertimento forma addensamenti vellutati, scie di profumo al gelsomino, cascate di ozono, vuoti d'aria improvvisi che sbocciano all'infinito come ampolle nere, mostruosi grappoli di oscurità, gonfi di nero succo. Io mi insinuo fra quelle strette insenature, chino il capo sotto quegli archi e quelle volte basse; e a un tratto il soffitto si spacca, con un sospiro stellato si apre per un attimo una cupola immensa, che subito si chiude per reintrodurmi subito fra strette pareti, passaggi e nicchie. In quei recessi silenziosi, in quei golfi oscuri, si trovano ancora brani di conversazione abbandonati dai viandanti notturni, frammenti di scritte sui manifesti, cadenze perdute di risa, frange di sussurri, che la brezza notturna non ha disperso. A volte la notte mi rinchiude come in uno stanzino stretto senza uscita. Il sonno mi invade, non mi rendo conto se le gambe camminano ancora o se da tempo riposo in quella cameretta d'albergo della notte. Ma ecco che sento un caldo bacio vellutato, perduto nello spazio da labbra odorose, ecco che si aprono le stuoie di una finestra, ed io oltrepasso con un balzo il parapetto e proseguo oltre sotto parabole di stelle cadenti. Dal labirinto della notte emergono due viandanti. Assieme intrecciano, estraendolo dall'oscurità, un lungo, inutile nastro di conversazione. Uno dei loro ombrelli batte con monotonia sul selciato (questi ombrelli si usano per la pioggia di stelle e di meteore) mentre vagano come grosse teste di ubriachi in panciute bombette. Altrove mi colpisce per un attimo lo sguardo cospiratore di un nero occhio strabico, mentre una grande mano ossuta dalle nocche sporgenti passa zoppicando attraverso la notte sopra la canna di un bastone, stretta attorno all'impugnatura di corno (in quei bastoni si celano talvolta lunghe lame sottili). Infine, all'estremo limite della città, la notte rinuncia ai suoi giochi, getta il velo, scopre il suo volto secolare e grave. Non ci racchiude più in un illusorio labirinto di allucinazioni e visioni, ci apre dinanzi la sua eternità astrale. Il firmamento si accresce all'infinito, le costellazioni rifulgono in tutto il loro splendore, sempre al loro solito posto, disegnando magiche figure nel cielo, come se volessero annunciare, proclamare qualcosa di definitivo con il loro terribile silenzio. Dallo scintillio di quei mondi lontani discende un gracidio di rane, un tumulto argenteo di stelle. I cieli di luglio diffondono come semi di papavero una pioggia inaudita di meteore, che silenziosamente si infiltra nell'universo. A una certa ora della notte le costellazioni sognavano in cielo il loro sogno secolare mi ritrovai nella mia strada.
Al suo sbocco c'era una stella che esalava un profumo strano. Una folata d'aria percorse la via come un corridoio stretto, quando aprii la porta di casa. Nella sala da pranzo era ancora acceso, quattro candele fumavano nei candelabri di bronzo. Mio cognato ancora non c'era. Da quando era partita mia sorella faceva tardi a cena, rincasava a notte alta. Destandomi dal sonno, lo vedevo talvolta spogliarsi, l'occhio ebete e pensieroso. Poi spegneva la luce, si metteva nudo e giaceva a lungo insonne sul letto fresco. A poco a poco scendeva in lui un inquieto dormiveglia che fiaccava gradatamente il suo grande corpo.
Borbottava ancora qualcosa, stronfiava, respirava pesantemente, si dibatteva come se avesse un peso che gli opprimeva il petto. Talvolta accadeva che all'improvviso scoppiasse in sommessi singhiozzi senza lacrime. Spaventato, domandavo nel buio: Che hai, Karol? Ma nel frattempo egli era già lontano, e vagava lungo il pesante cammino del sonno, scalando faticosamente la ripida montagna del ronfare. Attraverso la finestra aperta la notte respirava in libere cadenze. Nella sua vasta massa informe circolava un fresco fluido odoroso, nei suoi neri blocchi si allentavano le giunture, filtravano sottili rivoli di profumo. La materia morta delle tenebre cercava di liberarsi in slanci ispirati di profumo al gelsomino, ma le nere masse che nel più profondo della notte non ne erano avvolte restavano ancora prigioniere e inerti. Nella fessura della porta che comunicava con la stanza accanto brillava un filo d'oro, sonoro e fragile come il sonno del neonato che vagiva là nella culla. Giungeva da quella stanza tutto un cinguettio di carezze, l'eco dell'idillio fra la balia e il bambino, di quel primo amore intessuto di sofferenze e di bronci affettuosi, da ogni parte minacciato dai demoni della notte che affollavano l'oscurità fuori della finestra, attratti da quella tepida, piccola scintilla di vita che ardeva là dentro. Dall'altra parte, attigua alla nostra camera, c'era una stanza vuota e buia, poi la camera da letto dei genitori. Tendendo l'orecchio potevo udire mio padre che, appeso alle mammelle del sonno, si lasciava trasportare in estasi lungo le sue piste aeree, abbandonandosi completamente a quel volo lontano. Il suo russare remoto e cantilenante raccontava le gesta di quel lungo peregrinare per gli ignoti sentieri del sonno. Così entravano lentamente gli animi nell'oscuro afelio, quella faccia senza sole della vita, i cui contorni nessuno vide mai da vivo. Giacevano come morti, ragliando atrocemente e piangendo, mentre una nera eclisse si stendeva sul loro spirito come una sorda cappa di piombo. E quando infine lambivano il nero Nadir, il più profondo Orco delle anime, quando ne doppiavano in mortale sudore gli strani promontori, allora i mantici dei loro polmoni ricominciavano a gonfiarsi di una nuova melodia, risalendo in un ronfare ispirato verso l'aurora.
Una sorda, fitta oscurità opprimeva la terra, i suoi corpi mostruosi giacevano immobili come nere bestie inerti, con la lingua penzolante e un rivolo di saliva che colava dai musi senza vita. Ma già un altro profumo, un altro colore delle tenebre annunciava il lontano avvicinarsi dell'alba. L'oscurità si gonfiava dei fermenti velenosi del nuovo giorno, la sua pasta cresceva a vista d'occhio fantasticamente, lievitava in forma di follia, traboccava dai recipienti e dai bacili, fermentava in fretta in preda al panico, perché l'alba non la sorprendesse in quello stato di sfrenata fecondità e non inchiodasse per sempre quelle escrescenze malate, quei frutti mostruosi dell'autogenesi, sbocciati dalle madie della notte come demoni che fanno il bagno a due a due nelle vaschette da bambini. Questo è il momento in cui sulla testa più lucida, più insonne scende per un attimo un velo di sonno. I malati, tristi e straziati, hanno allora un istante di sollievo. Chi può mai sapere quanto dura quel momento in cui la notte cala una cortina su ciò che accade nel suo intimo. Ma quel breve intervallo basta a cambiare scena, a far sparire l'immensa apparecchiatura, ad eliminare la grande impresa della notte con tutta la sua pompa oscura e fantastica. Ti svegli spaventato con la sensazione di essere in ritardo, e in quello stesso istante vedi all'orizzonte la fascia chiara dell'alba e la massa nera della terra che si consolida.
MIO PADRE ENTRA NEL CORPO DEI POMPIERI.
Ai primi giorni di ottobre tornavamo con mia madre dalla villeggiatura, situata in una regione vicina, nel bacino boscoso della Slotwinka, tutto imbevuto del mormorio sorgivo di mille corsi d'acqua. Con le orecchie ancora piene del fruscio degli ontaneti frammisto al cinguettio degli uccelli, viaggiavamo su una grande e vecchia carrozza, accresciuta ancora da un immenso mantice che ricordava una taverna vasta e oscura, ammucchiati fra i bagagli, in un'alcova profonda, tappezzata di velluto, in cui, foglio dopo foglio, cadevano attraverso il finestrino i quadri colorati del paesaggio come se fossero carte mescolate lentamente da una mano all'altra. Verso sera arrivammo sopra un alto piano spazzato dai venti, un ampio, stupefatto crocevia del paese. Il cielo gravava su quel crocicchio profondo, senza un alito, girandosi allo zenith come una colorata rosa dei venti. Là era l'estrema barriera del paese, l'ultima curva oltre la quale si apriva in basso il vasto e tardo paesaggio dell'autunno. Là era la frontiera e là si ergeva il vecchio palo di confine, tutto tarlato, con la scritta cancellata, e cigolava al vento.
Le grandi ruote della carrozza stridettero e sprofondarono nella sabbia, tacquero i raggi chiassosi e guizzanti, soltanto il grande mantice rintronò sordo, sbattendo oscuramente ai venti incrociati del quadrivio come un'arpa incagliata nel deserto. Mia madre pagò il pedaggio, la sbarra del confine si sollevò cigolando, quindi la carrozza entrò pesantemente nell'autunno. Penetrammo nella monotonia appassita di un'immensa pianura, in un soffiare stinto e pallido che apriva qua, sopra una lontananza gialla, il suo infinito placido e scipito. Una sorta di tarda e immensa eternità si levava da quelle lontananze scolorite e soffiava. Come in un vecchio romanzo, le pagine ingiallite del paesaggio giravano sempre più pallide e sfibrate, come se dovessero dissolversi in un grande deserto percorso dai venti. In quel nulla ventoso, in quel nirvana giallo, avremmo potuto andare oltre il tempo e la realtà, e restare ormai per sempre in quel paesaggio, in quel soffiare sterile una diligenza immobile sulle alte ruote, imprigionata fra le nubi sulla pergamena del cielo, antica illustrazione, incisione dimenticata in un vecchio romanzo slegato quando il nostro cocchiere, con un ultimo sforzo, dette uno strattone alle redini e, portando la carrozza fuori dal dolce letargo di quei venti, girò bruscamente nel bosco. Entrammo in un folto denso e asciutto, in un avvizzimento di tabacco. A un tratto tutto divenne attorno a noi silenzioso e bruno come in una scatola di Trabucos. In quella penombra di cedro ci sfilavano accanto tronchi d'albero secchi e profumati come sigari. Si andava, il bosco diventava sempre più oscuro, odorava sempre più dell'aroma del tabacco, finché ci racchiuse come nella scatola asciutta di un violoncello, che il vento sordamente accordava. Il cocchiere non aveva fiammiferi, non poteva accendere il fanale. I cavalli, sbuffando, trovavano istintivamente la strada nel buio. Lo sfrigolio dei raggi rallentò e tacque, i cerchi delle ruote scivolavano lievi sul tappeto odoroso di aghi. Mia madre si assopì. Il tempo scorreva incalcolabile, creando strani legami e abbreviazioni nel suo scorrere. L'oscurità era impenetrabile, sul mantice risuonava ancora il secco stormire del bosco, quando il terreno si addensò a un tratto sotto gli zoccoli dei cavalli nel duro selciato di una strada, la carrozza girò bruscamente e si fermò. Si fermò così vicino al muro da sfiorarlo. Di fronte allo sportello della carrozza, mia madre trovò a tastoni il muro della casa.
Il cocchiere scaricava i bagagli. Entrammo in un ampio vestibolo ramificato. Era scuro, tiepido e silenzioso come un vecchio forno vuoto sul far del mattino, dopo che il fuoco si è spento, oppure come uno stabilimento di bagni a tarda notte, quando le vasche e i secchi abbandonati si raffreddano nell'oscurità, nel silenzio ritmato dallo stillicidio di una goccia. Un grillo scuciva pazientemente dal buio illusorie impunture di luce, quasi fosse un punto, che tuttavia non faceva più chiaro. A tentoni trovammo le scale. Quando a una svolta raggiungemmo il pianerottolo scricchiolante, mia madre disse: Svegliati, Jòzef. Non ti reggi in piedi, ancora qualche scalino e ci siamo. Ma io, vinto dal sonno, mi strinsi più forte a lei e mi addormentai per davvero. Non sono mai riuscito a sapere da mia madre quanto di vero vi fosse in ciò che vidi quella notte attraverso le palpebre chiuse, schiacciato com'ero da un sonno pesante, continuamente ricadendo in un sordo oblio, e quanto invece fosse frutto della mia immaginazione. Vi fu, quella notte, una violenta discussione tra mio padre, mia madre e Adela, protagonista di quella scena, discussione che doveva essere, come oggi presumo, di significato fondamentale. Se invano tento di afferrarne il senso, che tuttora mi sfugge, ne hanno colpa certe lacune della mia memoria, certe macchie di sonno che mi sforzo di colmare con congetture, supposizioni e ipotesi. Inerte e incosciente, scivolavo incessantemente in una muta assenza, mentre sulle palpebre chiuse scendeva il soffio della notte stellata, dispiegata nella finestra aperta. La notte respirava in cadenze pure, e improvvisamente gettava il velo trasparente delle stelle, frugava dall'alto nei miei sonni con la sua vecchia faccia secolare. Il raggio di una stella lontana, impigliatosi nelle mie ciglia, si riversava argenteo sul bianco cieco dell'occhio, e attraverso una fessura delle palpebre vedevo la stanza, alla luce della candela, avviluppata in un intrigo di linee e zigzag dorati. Può darsi, del resto, che quella scena sia accaduta un'altra volta. Molti fatti indicano che io ne fui testimone solo molto più tardi, una sera che tornavamo a casa dopo la chiusura del negozio con mia madre e i commessi. Sulla soglia di casa mia madre gettò un grido di sorpresa e meraviglia, i commessi, sbalorditi, ammutolirono. In mezzo alla stanza stava uno splendido cavaliere di bronzo, un vero e proprio San Giorgio, ingigantito dalla corazza, dagli scudi dorati dei bracciali, da tutto il sonoro armamentario di lucide placche metalliche. Con stupore e gioia riconobbi i baffi irti e la barba ispida di mio padre, che sbucava da sotto il pesante elmo da pretoriano. La corazza ondeggiava sul suo petto vibrante, gli anelli di ottone respiravano in tutte le loro giunture come il corpo di un insetto immenso. Gigantesco nell'armatura, al riflesso delle placche dorate, pareva un arcistratega di legioni celesti. Purtroppo, Adela, diceva mio padre, non hai mai compreso niente delle questioni di ordine superiore. Sempre e dappertutto hai contrastato le mie iniziative con ciechi scoppi di collera. Ma, tutto armato come sono, io oggi me ne infischio del tuo solletico, con cui, quand'ero disarmato, mi hai ridotto alla disperazione. Un furore impotente trascina oggi la tua lingua a una chiacchiera deplorevole, in cui grossolanità e faciloneria si mescolano all'idiozia. Credimi, ciò mi riempie solo di tristezza e di pietà. Sprovvista di un nobile slancio di fantasia, tu bruci di odio incosciente per tutto ciò che si leva al di sopra del comune. Adela squadrò mio padre con uno sguardo colmo di sconfinato disprezzo, e, rivolta a mia madre, disse con voce alterata, senza riuscire a trattenere lacrime di irritazione: Prende tutto il nostro sciroppo! Porta via tutte le bottiglie di sciroppo di lampone che abbiamo preparato insieme quest'estate. Vuole darlo da bere a quei fannulloni di pompieri. E per di più mi ricopre di impertinenze. Adela emise un lieve singhiozzo. Capitano dei pompieri, capitano di mascalzoni! gridò squadrando mio padre con uno sguardo pieno di odio. Ce n'è dappertutto. La mattina, quando voglio andare dal fornaio, non riesco ad aprire la porta. Naturalmente due di loro si sono addormentati sulla soglia nell'atrio e hanno sbarrato il passaggio. Per le scale, su ogni gradino, ce n'è uno in casco di ottone che dorme. Fanno di tutto per entrare in cucina, infilano nella fessura della porta le loro facce di conigli tutte bardate di ottone, fanno cenno con le dita come scolaretti a scuola, e guaiscono imploranti: Zucchero, zucchero... Mi strappano di mano il secchio e corrono a prendere l'acqua, mi ballano attorno, fanno i cascamorti. Poco ci manca che scodinzolino. Ruotano intanto di volta in volta i loro occhi rossi e si leccano i baffi in modo indecente. Basta che io guardi fisso uno di loro, perché subito gli si gonfi sulla faccia una rossa escrescenza oscena come a un tacchino. E noi dovremmo dare a gente simile il nostro sciroppo!... La tua natura volgare, disse mio padre, contamina tutto ciò che tocca. Hai disegnato un quadro di quei figli del fuoco degno del tuo spirito sfatto. Per quel che mi riguarda, tutta la mia simpatia va a quell'infelice stirpe di salamandre, a quelle povere, diseredate creature del fuoco. La sola colpa di quella stirpe, un tempo illustre, è stata di essersi messa al servizio dell'uomo, di essersi venduta all'uomo per una cucchiaiata di misero nutrimento. La si è ripagata con il disprezzo. L'ottusità della plebe è senza limiti. Si sono ridotte queste delicate creature al più nero fallimento, a un avvilimento totale. Che c'è di strano se a loro non piace il vitto insipido e grossolano che la custode della scuola comunale prepara nella stessa marmitta per loro e per i detenuti della città? Il loro palato, il delicato e geniale palato di spirito del fuoco brama balsami nobili e oscuri, fluidi aromatici e colorati. Perciò, quella notte solenne in cui sederemo tutti festosamente nella grande sala della Stauropigia municipale, attorno alle tavole imbandite di bianco, in quella sala dalle alte finestre illuminate che riversano il loro riflesso nel profondo della notte autunnale, e tutto intorno la città brulicherà di mille luci accese, ognuno di noi, col religioso rispetto e la golosità propri dei figli del fuoco, intingerà il pane nella coppa di sciroppo di lampone e lentamente degusterà quel nobile e denso liquore. Ecco come si ristora l'intimo essere del pompiere, come si rigenera la molteplicità di colori che quel popolo diffonde sotto forma di fuochi d'artificio, razzi e bengala. Il mio cuore è colmo di compassione per la loro miseria, per la loro incolpevole degradazione.
Se ho preso dalle loro mani la sciabola di capitano è unicamente nella speranza di riuscire a salvare dalla rovina questa stirpe, di strapparla all'avvilimento, e di far sventolare su di essa lo stendardo di una nuova idea. Come sei cambiato, Jakub! disse mia madre. Sei magnifico! Ma non vorrai restare tutta la notte fuori di casa? Non dimenticare che da quando sono tornata non abbiamo avuto modo di parlare un po' insieme.
Per quel che riguarda i pompieri, invece, proseguì rivolgendosi ad Adela, mi sembra che a questo proposito ti sia lasciata trascinare da una certa prevenzione. Sono bravi ragazzi, anche se fannulloni. Guardo sempre con piacere questi bei giovanotti slanciati nelle loro uniformi ben fatte, anche se un po' troppo strette in cintura. Hanno una grande eleganza naturale, ed è commovente lo zelo ardente che mostrano ogni volta che si tratta di render servigio a una dama. Ogni volta che per strada mi cade di mano l'ombrello, o mi si scioglie il laccio di una scarpa, subito accorre uno di loro, pieno di premura e di zelanti intenzioni. Non ho cuore di deludere quel fervore, quella buona volontà, e aspetto sempre con pazienza che uno di loro accorra e mi aiuti, il che sembra renderlo estremamente felice. Non appena si allontana, dopo aver compiuto il suo dovere di cavaliere, subito lo circonda un gruppo di colleghi che commenta con lui vivacemente l'accaduto, mentre l'eroe ripete con la mimica il modo in cui tutto si è svolto. Al tuo posto, approfitterei senza esitare della loro galanteria. Per me, sono soltanto dei mangiaufo, disse il più anziano dei commessi, Teodoro. Ma se non li lasciamo neppure spegnere un incendio, tanto sono infantili e irresponsabili! Basta vedere con che invidia si fermano sempre a guardare i ragazzini che giocano a tirar bottoni contro il muro per apprezzare la maturità dei loro cervelli da gallina. Se arriva dalla strada un frastuono selvaggio di giuochi, si può essere quasi sicuri, guardando dalla finestra, di vedere in mezzo al gruppo dei ragazzini qualcuno di questi furfanti indaffarati e scalmanati, quasi intontiti, impegnarsi in una corsa sfrenata. Alla vista degli incendi impazziscono di gioia. Battono le mani e ballano come selvaggi. No, per spegnere gli incendi non è possibile servirsene. Per questo scopo ci serviamo di spazzacamini e della milizia civica. Restano soltanto i divertimenti e le feste popolari, dove sono indispensabili. Per esempio, quando d'autunno, all'alba, c'è il cosìddetto assalto al Campidoglio, si travestono da cartaginesi e assediano con fracasso infernale la collina dei basiliani. Tutti allora cantano «Hannibal, Hannibal ante portas.»
Dopo di che, sul finire dell'autunno, diventano pigri e indolenti, si addormentano in piedi, e quando cade la prima neve non se ne vede più neppure uno. Mi raccontava un vecchio fumista che, riparando camini, se ne trovano di abbarbicati alle gole, immobili come larve, sempre vestiti delle loro uniformi scarlatte e con i caschi luccicanti in testa.
Dormono così, in piedi, ingozzati di sciroppo di lampone, ricolmi dentro di una dolcezza appiccicosa e di fuoco. Bisogna allora tirarli fuori di là per le orecchie e portarli in caserma, ebbri come sono di sonno e istupiditi, attraverso le mattutine strade autunnali, colorate dalle prime brinate, mentre la folla per strada tira loro dietro sassi, ed essi sorridono con il loro sorriso vergognoso, pieno di colpa e di cattiva coscienza, e oscillano sulle gambe come ubriachi. Comunque sia, disse Adela, io lo sciroppo non glielo do. Non mi sono sciupata la pelle in cucina a prepararlo perché questi fannulloni se lo bevano. Invece di rispondere, mio padre si portò un fischietto alle labbra ed emise un fischio stridente. Come se fossero stati ad ascoltare dal buco della serratura, quattro giovani slanciati fecero irruzione nella stanza e si schierarono lungo la parete. La stanza si illuminò tutta al luccichio dei loro elmi, mentre, immobili nell'attenti militaresco, bruni e abbronzati sotto i caschi chiari, aspettavano gli ordini. A un cenno di mio padre, due di loro afferrarono per i manici di vimini un grosso bottiglione pieno di liquido purpureo e, prima ancora che Adela riuscisse a trattenerli, già correvano con gran fracasso giù dalle scale, trasportando il loro prezioso bottino. I due rimasti, eseguito il saluto militare, si allontanarono dietro agli altri. Per un istante parve che Adela si sarebbe lasciata andare a gesti inconsulti, tale era il fuoco che lanciavano i suoi begli occhi. Ma mio padre non aspettò l'esplosione della sua collera. Con un solo balzo raggiunse il davanzale della finestra e aprì le braccia. Ci precipitammo dietro di lui. La piazza fittamente disseminata di luci brulicava di una folla multicolore. Sotto la nostra casa otto vigili del fuoco tendevano in cerchio un grande telone. Mio padre si girò ancora una volta e, rilucendo con tutta la magnificenza dell'armatura, ci salutò militarmente in silenzio, poi, a braccia aperte, chiaro come una meteora, saltò nella notte sfavillante di mille luci. Fu uno spettacolo così bello che tutti, entusiasti, battemmo le mani. Perfino Adela, dimenticando le offese patite, applaudì a quel salto eseguito con tanta eleganza. Mio padre, frattanto, era rimbalzato con elasticità dal lenzuolo e, scuotendo con fragore il suo guscio metallico, si era messo alla testa del plotone, che allineato a due per due si snodò nella marcia in lunga fila e si allontanò lentamente fra una scura siepe di folla, rutilante nei caschi di ottone.
IL SECONDO AUTUNNO.
Fra le tante ricerche scientifiche intraprese da mio padre nei rari momenti di calma e serenità interiore, frammezzo ai colpi inflittigli dalle sconfitte e dalle catastrofi di cui abbondava la sua vita burrascosa, i più vicini al suo cuore furono gli studi di meteorologia comparata, e in particolare quelli sul clima specifico della nostra provincia, ricco di caratteristiche uniche nel loro genere. Fu proprio lui, mio padre, a porre le basi della dotta analisi delle diverse formazioni climatiche. Il suo : Compendio di una sistematica generale dell'autunno chiarì una volta per tutte la natura essenziale di una stagione che nel nostro clima provinciale assume quella forma cronica, parassitariamente sviluppata, che sotto il nome di «estate cinese» si prolunga addentrandosi fin nelle profondità dei nostri inverni colorati.
Che altro dire? Per primo egli spiegò il carattere secondario, derivato di quella tarda formazione, la quale altro non è che un certo tipo di inquinamento del clima da parte dei miasmi di quella troppo matura, degenerata arte barocca ammassata nei nostri musei. Quest'arte da museo, che si decompone nella noia e nell'oblio, tira fuori tutto lo zucchero, chiusa ermeticamente com'è, al pari delle vecchie marmellate, addolcisce il nostro clima ed è causa di quella bella febbre malarica, di quei deliri colorati per cui agonizza il nostro cronico autunno. Il bello, infatti insegnava mio padre è malattia, è un brivido di segreta infezione, un oscuro annuncio di decomposizione, che si leva dagli abissi della perfezione e dalla perfezione è salutato con un sospiro di infinita gioia. A questo punto, qualche osservazione preliminare sul nostro museo provinciale gioverà a comprendere meglio il problema... I suoi inizi risalgono al secolo Xviii e sono legati a quell'ammirevole entusiasmo da collezionisti dei padri basiliani, i quali, nel dotare la città di questa escrescenza parassitaria, gravarono il bilancio cittadino di un onere eccessivo e improduttivo. Per un certo numero di anni il tesoro della Repubblica, acquistate per un nonnulla tali collezioni all'ordine impoverito, si rovinò magnanimamente per quella mecenateria degna di una residenza reale. Ma già la nuova generazione degli edili, molto più pratica nei suoi orientamenti e non disposta a chiudere gli occhi di fronte alle necessità economiche, dopo inutili trattative con i conservatori delle collezioni arciducali, cui tentava di cedere il museo, lo chiuse e ne liquidò la direzione, non senza avere assegnato all'ultimo custode una pensione a vita. Al tempo di quelle trattative fu scoperto da parte di esperti al di sopra di ogni dubbio che il valore di quelle collezioni era stato grossolanamente sopravvalutato dai patrioti locali. I bravi padri avevano acquistato con lodevole entusiasmo più di un falso. Il museo non conteneva neppure un quadro di un maestro di prim'ordine, al contrario, le intere collezioni erano di autori di terzo o quart'ordine, tutte scuole provinciali, vicoli ciechi e ormai dimenticati della storia dell'arte, noti solo agli specialisti. Cosa strana, i bravi monaci avevano un gusto militare: la maggior parte dei quadri rappresentava infatti battaglie. Una penombra d'oro bruciato scendeva ad offuscare quelle tele corrose dalla vecchiaia, sulle quali flotte di galere e caravelle, vecchie armate dimenticate marcivano nelle rade senza risacca, cullando sulle vele spiegate la maestà di repubbliche morte da tempo. Sotto le vernici affumicate e annerite si intravedevano appena i contorni di scaramucce a cavallo. Attraverso il deserto bruciato dei campi di battaglia, sotto un cielo buio e tragico, sfilavano a passo serrato in minaccioso silenzio lunghe cavalcate racchiuse fra gli ammassamenti di truppa e le deflagrazioni del fuoco di artiglieria. Nei quadri di scuola napoletana invecchia senza fine un pomeriggio bruno, affumicato, quasi visto attraverso una bottiglia scura. Il sole, offuscato, sembra appassire a vista d'occhio in quei paesaggi sperduti, come alla vigilia di un cataclisma cosmico. Ed è per questo che sono così futili i sorrisi e i gesti delle pescatrici dorate che vendono con grazia affettata mazzi di pesci ai commedianti girovaghi. Tutto quel mondo è da tempo condannato e spento. E di qui proviene la dolcezza sconfinata dell'ultimo gesto, che unico dura ancora, estraneo a se stesso e già perduto, sempre rinnovato e ormai immutabile. Più lontano, in fondo a quel paese, abitato da uno spensierato popolo di buontemponi, arlecchini e uccellai con le loro gabbie, in quel paese senza peso né realtà, piccole turche impastano con le loro mani grassocce dolci al miele, che poi depongono sopra assi, due ragazzi in cappello napoletano portano una cesta piena di piccioni chiassosi sopra un bastone che si incurva appena sotto quel peso tubante e alato. E ancora più in fondo, ai margini stessi della sera, sull'ultimo lembo di terra, dove ai confini del nulla color dell'oro pallido oscilla un ciuffo quasi appassito di acanto, là ancora si gioca una partita a carte, ultima posta umana prima della grande notte che avanza. Tutto quel vecchiume, quei resti di antica bellezza hanno subito, sotto la pressione di interi anni di noia, un doloroso processo di distillazione. Riuscite a immaginare, domandava mio padre la disperazione di quella bellezza condannata, dei suoi giorni e delle sue notti? Essa rischia in continuazione false vendite all'asta, inscena finte liquidazioni, incanti rumorosi e affollati, si appassiona a questo selvaggio gioco d'azzardo, gioca al ribasso, getta via le sue ricchezze con gesto da prodigo, da scialacquatore; per poi tornare in sé e accorgersi che tutto ciò è vano, che non porta fuori del suo cerchio chiuso una perfezione condannata per se stessa, né può alleviare il suo immenso dolore. Non c'è da stupirsi che quell'impazienza, quella perplessità del bello abbia finito col riflettersi nel nostro cielo, accendersi di bagliori d'incendio lungo il nostro orizzonte, degenerare in trucchi atmosferici, in quegli arrangiamenti di nubi, enormi e fantastici, che io chiamo il nostro secondo, il nostro pseudoautunno.
Questo secondo autunno della nostra provincia non è altro che un miraggio malato, proiettato in dimensioni ingigantite nel nostro cielo dalla bellezza morente, chiusa nei nostri musei. Questo autunno è un grande teatro ambulante che inganna con la poesia, un'immensa cipolla variopinta che si sfoglia, un velo dopo l'altro, in un panorama sempre nuovo. Mai si raggiunge il fondo. Dietro ogni quinta, appena questa sfiorisce e si accartoccia frusciando, appare un nuovo e radioso fondale, vivo e reale per un istante, prima di tradire, spegnendosi, la sua natura di carta. E tutte le prospettive sono dipinte, e tutti i panorami di cartone, e soltanto l'odore è vero, profumo di quinte sfiorite, profumo di un grande camerino pieno di cerone e di incenso. E al crepuscolo resta solo un grande disordine e un groviglio di quinte, una confusione di costumi gettati qua e là, in mezzo ai quali si sguazza come tra foglie secche fruscianti. Regna il caos, e ognuno tira le corde del sipario, e il cielo, il grande cielo d'autunno, appare negli squarci dei fondali e risuona tutto del cigolio delle carrucole. E al di sopra di tutto questo, una fretta febbrile, un carnevale in ritardo e senza fiato, un panico da sala da ballo innanzi l'alba, una torre di Babele di maschere che non riescono a trovare i loro abiti veri. Autunno, autunno, epoca alessandrina dell'anno, che raccoglie nelle sue immense biblioteche la sterile saggezza dei 365 giorni dell'orbita solare.
O mattini senili, gialli come pergamena, dolci di saggezza come tarde serate! Mattinate dal sorriso astuto come saggi palinsesti, stratificate come vecchi tomi ingialliti! Ah, giorno autunnale, vecchio bibliotecario briccone, sempre intento ad arrampicarsi su e giù per le scale in grembiule stinto e a gustare le confetture di tutti i secoli e tutte le culture! Ogni paesaggio è per lui come l'introduzione a un vecchio romanzo. Come si diverte a lasciare gli eroi di antichi racconti passeggiare sotto quel cielo mielato e fumoso, in quella tarda dolcezza di luce così torbida e triste! Quali nuove avventure conoscerà don Chisciotte a Soplicowo? Come si presenterà la vita a Robinson dopo il ritorno al natio Bolechowo? Nelle serate soffocanti, immobili, dorate dal tramonto, mio padre ci leggeva brani dal suo manoscritto. Il volo esaltante del pensiero gli permetteva di tanto in tanto di scordare la presenza minacciosa di Adela. Vennero i tepidi venti della Moldavia, sopraggiunse quell'immensa monotonia gialla, quella dolce, sterile brezza dal mezzogiorno. L'autunno non voleva finire. Come bolle di sapone sorgevano giorni sempre più belli ed eterei, e ognuno appariva così perfettamente annobilito che ogni momento in più era un miracolo prolungato oltre misura e quasi doloroso. Nel silenzio di quei giorni profondi e belli, si trasformava impercettibilmente la materia delle foglie. Finché un bel giorno gli alberi si levarono avvolti in un fuoco di paglia di foglie completamente smaterializzate, in uno splendore lieve come il fiore della pula, come una pioggia di coriandoli multicolori: meravigliosi pavoni e fenici cui basta appena scuotersi e sbattere le ali per far cadere quelle piume stupende, più lievi della carta velina, già mutate e ormai inutili.
LA STAGIONE MORTA.
Alle cinque del mattino un mattino sfolgorante di primo sole la nostra casa già da un pezzo era immersa nel bagliore ardente e silenzioso dell'alba. In quell'ora solenne, senza essere spiata da nessuno, essa entrava tutta intera tacitamente mentre attraverso le stanze, nella penombra delle tende abbassate, passava ancora solidarmente uniforme il respiro dei dormienti nella facciata fiammeggiante al sole, nel silenzio dell'incendio mattutino, quasi fosse modellata in tutta la sua superficie di palpebre beatamente addormentate. Così, approfittando del silenzio di quelle ore gravi, la casa assorbiva il primo fuoco dell'alba nella sua faccia beatamente assopita, illanguidita dalla luce, nei tratti appena tremolanti per effetto dei sogni di quell'ora intensa.
L'ombra dell'acacia davanti alla casa, ondeggiando vistosa su quelle palpebre ardenti, ripeteva sulla loro superficie, come sopra un pianoforte, sempre la stessa frase scintillante, risciacquata dal vento, invano tentando di penetrare nel fondo di quel sonno dorato. Le tende di tela bevevano l'incendio del mattino, una sorsata dopo l'altra, e si abbronzavano sempre più illanguidendosi in quello sconfinato bagliore.
In quell'ora mattinale mio padre, incapace di ritrovare il sonno, scendeva le scale carico di registri per aprire il negozio situato al piano terreno dell'edificio. Per un attimo si arrestava sul portone, immobile, affrontando a occhi chiusi il potente assalto del fuoco solare. Il muro assolato della casa lo attirava piano piano nella sua piattezza dolcemente livellata, levigata fino all'annientamento. In un istante egli diventava un padre piatto, compenetrato nella facciata, e sentiva le sue mani divaricate, tremanti e tiepide, cicatrizzarsi piattamente tra gli stucchi dorati della casa. (Quanti padri alle cinque del mattino, nel momento stesso in cui scendevano dall'ultimo gradino delle scale, si sono per sempre fusi con la facciata di una casa! Quanti padri sono così diventati per sempre custodi del proprio portone, scolpiti in una nicchia come in bassorilievo, la mano sul battente e il volto scomposto in quegli stessi solchi uniformi e beati lungo i quali poi scorrono amorosamente le dita dei figli, alla ricerca delle ultime tracce paterne, immerse ormai per sempre nel sorriso universale della facciata). Ma poi, con un ultimo sforzo di volontà, mio padre si staccava di là, ricuperava la terza dimensione e, tornato uomo, liberava la porta sprangata del negozio dai catenacci e dalle sbarre di ferro.
Quando apriva quel pesante battente rinforzato della porta del negozio, l'ombra mormorando si ritirava di un passo dall'entrata, rientrava di un palmo verso l'interno del negozio, per insediarsi e depositarsi pigramente sul fondo. Fumando impercettibilmente dalle pietre ancora fredde del marciapiede, la frescura mattutina si arrestava timidamente sulla soglia, in un sottile, tremolante filo d'aria. All'interno, l'oscurità di molti giorni e molte notti precedenti giaceva sulle pezze intatte di tessuto, stratificata, prolungandosi verso il fondo in spalliere, in marce e cortei affollati, per finire, estenuata, nel cuore stesso del negozio, nell'oscuro magazzino, dove si dissolveva, indifferenziata e satura ormai di se stessa, in una sorda, vacillante protomateria tessile. Mio padre passava lungo quelle alte pareti di cheviot e cardati, sfiorando con la mano i bordi delle pezze di stoffa come fossero spacchi di abiti femminili. Al suo tocco quelle file di tronchi ciechi, sempre pronti al panico, a rompere le righe, si placavano, fortificandosi nelle loro gerarchie e nei loro ordini tessili. Per mio padre il nostro negozio era un luogo di eterni tormenti e dispiaceri. Non era da un sol giorno che quella creatura delle sue stesse mani aveva cominciato, via via che cresceva, ad opprimerlo con sempre maggiore insistenza, a sovrastarlo minacciosamente e incomprensibilmente. Esso costituiva per lui un dovere troppo gravoso, un dovere al di sopra delle sue forze, un dovere sublime e senza limiti.
L'enormità di quella pretesa lo spaventava. Guardando con terrore all'ampiezza del compito, cui, pur prodigandovi tutta la propria vita, non avrebbe mai potuto soddisfare, egli osservava con disperazione la leggerezza dei commessi, il loro ottimismo frivolo e spensierato, le loro manipolazioni maliziose e sventate, che correvano ai margini di quel grande problema. Con amara ironia, studiava quella galleria di volti non turbati da alcuna preoccupazione, di fronti mai assalite da alcuna idea, sondava fino in fondo quegli occhi, la cui fiducia innocente non era turbata dalla minima ombra di sospetto. Come poteva aiutarlo mia madre, pur con tutta la sua lealtà e la sua devozione? Il riflesso di quella cosa smisurata non toccava il suo animo semplice e imperturbato. Non era destinata a compiti eroici. Ma non vedeva, mio padre, come essa scambiava alle sue spalle rapide occhiate con i commessi, felice di ogni attimo incontrollato in cui poteva partecipare alle loro buffonate? Da quel mondo di svagata spensieratezza mio padre si allontanava sempre più, rifugiandosi nella dura regola del suo ordine. Terrorizzato dalla dissoluzione che gli dilagava attorno, si rinchiudeva nel solitario servizio di un alto ideale. Mai la sua mano si lasciò sfuggire le redini che teneva saldamente in pugno, mai si concesse un rilassamento, un facile accomodamento in quella rigida disciplina. Cose del genere potevano permettersele Balanda e C. e gli altri dilettanti di quel ramo, cui era estranea la sete di perfezione, l'ascesi dell'alta maestria. Mio padre guardava con dolore a quella decadenza del mestiere. Quale fra i commercianti di stoffe della nuova generazione conosceva ancora le buone tradizioni dell'antica arte, chi fra loro sapeva ancora, per esempio, che una colonna di pezze di stoffa, disposta sugli scaffali secondo i principî dell'arte drappiera, doveva, sotto il dito che la percorreva dall'alto in basso, emettere una tonalità simile a quella di una tastiera? Chi, fra quelli del giorno d'oggi, avrebbe potuto afferrare le estreme finezze dello stile in uno scambio di note, memorandum e lettere? Chi conosceva ancora tutto il fascino della diplomazia commerciale, diplomazia di buona, vecchia scuola, tutto lo svolgersi carico di tensione del negoziato, che andava dal rigore intransigente, dalla chiusa riserva all'apparire del ministro plenipotenziario di una ditta straniera, attraverso un lento disgelo dovuto agli infaticabili sforzi e alle premurose attenzioni del diplomatico, via via fino alla cena comune, col vino, servita sulla scrivania, sulle carte, in un clima solenne sia pure in mezzo a qualche pizzicotto al deretano della cameriera Adela e a una conversazione libera e pepata, come si conviene tra signori che sanno cos'è dovuto al momento e alla circostanza e conclusa con reciproco proficuo interesse?
Nel silenzio di quelle ore mattutine, durante le quali il calore aumentava, mio padre sperava di trovare l'attimo felice d'ispirazione che gli permettesse di finire la lettera ai signori Chrystian Seipel e Figli, Filature e Tessiture Meccaniche. Era, questa, una netta replica alle infondate pretese di quei signori, replica interrotta proprio nel momento decisivo, là dove lo stile della lettera doveva innalzarsi in un vigoroso e arguto periodo culminante, nel cui preciso istante si produce quel corto circuito, avvertito mediante un lieve tremito interno, e dopo il qual e la lettera non poteva che ricadere, con una frase costruita di slancio, elegante, ma ormai conclusiva. Egli sentiva la forma di quel periodo che da giorni gli sfuggiva, l'aveva quasi tra le dita, sempre inafferrabile. Gli mancava quell'attimo di buonumore, quel momento felice di verve per prendere d'assalto l'ostacolo contro il quale andava ogni volta a sbattere. Era continuamente alla ricerca di un foglio bianco, che gli facesse superare con uno slancio nuovo quella difficoltà che pareva irridere ogni suo sforzo. Nel frattempo il negozio si andava a mano a mano popolando di commessi. Entravano rossi per il fuoco mattutino, aggirando di lontano la scrivania di mio padre, verso il quale lanciavano timide occhiate, di chi ha cattiva coscienza. Pieni d'infamia e di debolezza, sentivano sopra di sé il peso della sua tacita disapprovazione, cui non avevano niente da opporre. Niente infatti poteva placare quel padrone chiuso nei suoi pensieri, nessuno zelo poteva ammansirlo, in agguato com'era, simile a uno scorpione, dietro la scrivania, di dove fulminava velenoso con i vetri degli occhiali, frusciando come un topo fra le carte. La sua eccitazione cresceva, la sua passione sconfinata aumentava via via che l'ardore del sole si faceva più forte. Sul pavimento bruciava un rettangolo di luce.
Metallici e luccicanti, i tafani solcavano guizzando la soglia del negozio, si fermavano un attimo sull'intelaiatura della porta, come soffiati da vetro metallico: bolle di vetro, uscite dalla cannuccia ardente del sole, dalla fucina di quel giorno fiammeggiante, si fermavano con le alucce spiegate, vibranti di volo e di velocità, scambiandosi il posto con furiosi zig zag. Dentro il rettangolo chiaro della porta languivano nel bagliore i tigli lontani del parco comunale, il campanile remoto della chiesa baluginava vicinissimo in quell'aria trasparente e tremula, come nelle lenti di un canocchiale. Le lastre dei tetti ardevano. Sopra il mondo si gonfiava un'immensa, dorata bolla di calura. L'irritazione di mio padre cresceva ancora. Si guardava attorno perplesso, dolorosamente contratto, estenuato dalla diarrea. La sua bocca aveva un sapore più amaro dell'assenzio. La calura aumentava, acuiva il furore delle mosche, accendeva punti luminosi sulle loro calotte metalliche. Il rettangolo di luce aveva raggiunto la scrivania e le carte bruciavano come un'apocalisse. Gli occhi, accecati da quell'eccesso di luce, non riuscivano più a sopportare la sua bianca uniformità. Attraverso le spesse lenti cromatiche, mio padre comincia a vedere tutti gli oggetti orlati di porpora, entro bordi verdevioletto, e lo invade la disperazione per quell'esplosione di colore, per quell'anarchia di tinte che infuria sul mondo in orge luminose. Le sue mani tremano. Il palato è amaro e secco, come prima di un attacco. Nelle fessure delle rughe, gli occhi sempre in agguato seguono con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti in profondità. Ii. Quando a mezzogiorno mio padre, ormai sull'orlo della follia, sfinito dal caldo e fremente di agitazione irragionevole, si ritirava nelle stanze al piano di sopra, e i soffitti scricchiolavano qua e là nel silenzio, seguendo i suoi appostamenti, nel negozio subentrava un momento di pausa e di distensione, giungeva l'ora della siesta meridiana. I commessi facevano capriole sulle pezze di tessuto, alzavano tende sugli scaffali, lasciavano pendere altalene di stoffa. Svolgendo quelle pezze pesanti e sorde ne liberavano un'oscurità vellutata, cento volte arrotolata, centenaria. Gualcito dagli anni, quel crepuscolo di feltro finalmente libero, riempiva lo spazio sovrastante di un profumo di altri tempi, un profumo di giorni passati, pazientemente sovrapposti in innumerevoli strati, da remoti, freschi autunni. Nugoli ciechi di tarme sciamavano nell'aria imbrunita, fiocchi di piume e di lana volteggiavano per l'intero negozio insieme con quella semenza d'ombra, mentre l'odore di appretto, profondo e autunnale, saturava quell'oscuro accampamento di stoffa e di velluto. Bivaccando fra quegli accampamenti, i commessi meditavano burle e scherzi. Si lasciavano avvolgere strettamente dai colleghi fino alle orecchie nel tessuto scuro e fresco, e restavano là, distesi in fila, beatamente immobili sotto il peso della stoffa: pezze viventi, mummie di tessuto, che roteavano gli occhi simulando terrore per la propria immobilità. Oppure si lasciavano dondolare e lanciare fino al soffitto dentro enormi tovaglie di tela spiegate. Lo sbattere sordo di quei tagli di stoffa e il soffio dell'aria sventagliata li mettevano in uno stato di estatico rapimento. Sembrava che l'intero negozio si librasse in volo, i tessuti si sollevavano ispirati, i commessi si alzavano con le vesti svolazzanti, simili a profeti, in rapide ascensioni. Mia madre osservava con indulgenza quegli scherzi: il rilassamento di quelle ore di siesta giustificava ai suoi occhi i peggiori eccessi. D'estate il negozio veniva letteralmente invaso dalle erbe selvatiche. Dalla parte del cortile, verso il magazzino, la finestra verdeggiava tutta di gramigne e di ortiche, acquatica e scintillante di luccichii di foglie, di riflessi fluttuanti. Come sul fondo di una vecchia bottiglia verde, le mosche vi ronzavano nella penombra dei lunghi pomeriggi estivi con insanabile malinconia: esemplari malati, mostruosi, tirati su a vino dolce da mio padre, eremiti pelosi, che piangevano tutto il giorno la loro sorte maledetta in lunghe e monotone epopee. Incline alle mutazioni brusche e inattese, quella razza declinante di mosche di negozio abbondava d'individui eccentrici, frutto d'incroci incestuosi, tendeva a degenerare in una sottospecie di giganti appesantiti, di veterani dal timbro profondo e funereo, di selvatici e tetri druidi della propria sofferenza. Sul finire dell'estate si schiudevano poi finalmente quei solitari figli postumi, ultimi della stirpe, simili a grossi scarabei azzurri, muti ormai e con le ali atrofizzate, che chiudevano la loro triste esistenza percorrendo all'infinito i vetri verdi in errabonde, infaticabili peregrinazioni. La porta, raramente aperta, si ricopriva di ragnatele.
Mia madre dormiva dietro la scrivania in un'amaca di tela, sospesa fra gli scaffali. Tormentati dalle mosche, i commessi trasalivano, pieni di tic, agitandosi nell'inquieto sonno estivo. Nel cortile, intanto, dilagavano le erbacce. Sotto il selvaggio imperversare del sole, sui mucchi d'immondizia si moltiplicavano intere generazioni di ortiche giganti e di malvoni. Dalla congiunzione del sole e di una goccia d'acqua lievitava su quel pezzo di terra la virulenta sostanza delle erbacce, decotto litigioso, velenoso derivato della clorofilla. Là quel fermento febbrile ribolliva al sole e proliferava in lievi formazioni di foglie, molteplici, dentellate e rugose, mille volte ripetute secondo un unico modello, secondo un'unica idea in esse riposta. Cogliendo il suo momento, quel concetto contagioso, quell'idea fiammante e selvaggia si propagava come il fuoco: evitata dal sole, cresceva sotto la finestra in un vuoto cicaleccio cartaceo di verdi pleonasmi, ciarpame vegetale centuplicato in pura e semplice chiacchiera, volgare rabberciamento di carta che tappezzava il muro del magazzino di lembi sempre più grandi e fruscianti, gonfi e pelosi, una striscia dopo l'altra. I commessi si destavano dal fugace sonnellino con le guance infuocate. Stranamente eccitati, si alzavano dai loro giacigli pieni di febbrile intraprendenza, fantasticando eroiche pagliacciate. Divorati dalla noia, si dondolavano sugli alti scaffali e tamburellavano con le gambe, scrutando invano la vuota distesa della piazza spazzata dalla canicola, in attesa di un qualsiasi avvenimento. Accadeva allora che un contadino venuto di campagna, scalzo e vestito di ruvidi panni, si fermasse sulla porta del negozio esitante, sbirciando timidamente all'interno. Per i commessi annoiati era una fortuna insperata. Si precipitavano giù dalle scale in un baleno, come ragni alla vista di una mosca, e il contadino, subito circondato, tirato, spinto, soffocato da mille domande, si schermiva con un sorriso vergognoso dalle richieste di quegli importuni.
Si grattava la testa, sorrideva, guardava con diffidenza quei seduttori da strapazzo. Allora, si trattava di tabacco? Ma quale? Superiore, Macedonia, Ambradorata? No? Bastava comune, da pipa? Mahorka? Solo si avvicini, prego, si avvicini. Senza paura. Fra grandi complimenti, i commessi lo dirigevano, a furia di leggere spinte, all'interno del negozio, verso il banco laterale accosto alla parete. Il commesso Leon, passato dietro il banco, si sforzava di aprire un immaginario cassetto.
Oh, come faticava il poveretto, come si mordeva le labbra in un vano sforzo! Ma no! Bisognava prendere a pugni il ventre del banco, di slancio, con tutte le forze. Il contadino, incoraggiato dai commessi, lo faceva di buon animo, concentrandosi con attenzione. Infine, visto che non serviva, si arrampicava sul tavolo, pestando a piedi nudi tutto curvo e grigio. Noi ci torcevamo dal gran ridere. Fu allora che si produsse quell'increscioso incidente che ci riempì tutti di tristezza e di vergogna. Nessuno di noi era senza colpa, per quanto non avessimo agito in malafede. Fu piuttosto la nostra leggerezza, la mancanza di serietà e di comprensione per le gravi preoccupazioni di mio padre, fu la nostra imprevidenza che, di fronte a quella natura incalcolabile, perennemente minacciata, incline agli estremismi, portò a quelle conseguenze veramente fatali. Mentre, stando così in semicerchio, ci divertivamo come matti, mio padre si introdusse silenziosamente nel negozio. Ci lasciammo sfuggire il momento della sua entrata. Ci accorgemmo di lui solo quando l'improvvisa comprensione dell'insieme dei fatti lo trapassò come un fulmine, deformando il suo viso in un selvaggio parossismo d'ira. Mia madre accorse spaventata: Che ti succede, Jakub? gridava senza fiato. Disperata, voleva battergli la schiena come a chi è andato per traverso qualcosa, ma era ormai troppo tardi. Mio padre si era già fatto livido, rigido, il suo viso si scomponeva rapidamente negli elementi simmetrici della paura, si trasformava irresistibilmente, a vista d'occhio, sotto il peso di una disfatta senza limiti. Prima che riuscissimo a capire quel che era successo, si mise a vibrare violentemente, a ronzare e ad alitarci davanti agli occhi come una mosca mostruosa, ronzante, pelosa, dagli azzurri riflessi metallici, che andava a sbattere nel suo folle volo contro tutte le pareti del negozio. Sconvolti, ascoltavamo quel lamento senza speranza, quel sordo compianto sapientemente modulato che percorreva dall'alto in basso il registro completo di un insondabile dolore, di un'inconsolabile sofferenza sotto il soffitto oscuro del negozio. Restammo là costernati, profondamente vergognosi di quel fatto increscioso, evitando di guardarci in faccia. In fondo al cuore sentivamo un certo sollievo al pensiero che nel momento critico egli avesse pur trovato una via d'uscita da quella situazione estremamente ridicola. Ammiravamo l'eroismo intransigente con cui si era lanciato a corpo morto in quel vicolo cieco di disperazione, dal quale sembrava non ci fosse più ritorno. Occorreva considerare, del resto, quel gesto di mio padre cum grano salis. Era piuttosto un gesto interiore, una dimostrazione violenta e disperata, operante in una dose minima di realtà. Non bisogna infatti dimenticare che la maggior parte di ciò che stiamo qui raccontando può essere imputata a quelle aberrazioni estive, a quella semirealtà canicolare, a quegli irresponsabili marginalia che costellano senza alcuna garanzia i confini della stagione morta.
Tendevamo l'orecchio in silenzio. Era, quella, la raffinata vendetta di mio padre, la sua rivincita sulle nostre coscienze. D'ora innanzi eravamo condannati per sempre ad ascoltare quel lugubre, basso ronzio, che diventava sempre più lamentoso, sempre più dolente e all'improvviso taceva. Per un attimo gustavamo con sollievo quel silenzio, quella pausa salutare, durante la quale si destava in noi una timida speranza. Ma dopo un istante tornava inconsolabile, sempre più lagnoso ed esasperante, e noi comprendevamo che per quel dolore sconfinato, per quella maledizione ronzante, condannata a sbattersi raminga contro tutte le pareti, non c'era meta né liberazione. Quel monologo lamentoso, sordo ad ogni richiamo, e quelle pause durante le quali mio padre sembrava per un attimo dimenticarsi di sé, per ridestarsi subito e riprendere il pianto con sempre maggior forza e veemenza, come se volesse rinnegare disperatamente il breve istante di calma, ci esasperavano profondamente.
La sofferenza che non conosce limiti, la sofferenza ostinatamente chiusa nel cerchio della sua stessa mania, che si flagella da sola freneticamente, con accanimento, diventa alla fine insopportabile per gli impotenti testimoni di tanta sventura. Quell'appello incessante, collerico, alla nostra pietà conteneva un rimprovero troppo chiaro, un'accusa troppo lampante al nostro benessere, per non suscitare la nostra protesta. A quel rimprovero replicammo tutti in ispirito, pieni di furore, invece che di pentimento. Ma veramente non c'era ormai altra via d'uscita per lui, se non gettarsi alla cieca in quello stato deplorevole e senza speranza? E, una volta piombato in quello stato, per colpa sua o nostra, non poteva proprio trovare maggior forza d'animo, maggior dignità per sopportarlo senza lamentarsi? Mia madre dominava la collera a stento. I commessi, seduti sulle scale in ottuso sbalordimento, sognavano sangue e correvano col pensiero lungo gli scaffali con uno scacciamosche di cuoio in mano, mentre gli occhi si velavano loro di rosso. La tenda di tela che stava sopra la porta ondeggiava luminosa al sole, la canicola pomeridiana percorreva a gran passi la bianca pianura, devastando il mondo dietro di sé, mentre nella penombra del negozio, sotto il soffitto oscuro, mio padre volteggiava impazzito, irretito senza scampo nell'intreccio del suo volo, avviluppandosi da solo nei disperati zig zag della sua corsa sfrenata.
Quale scarso significato abbiano, in fondo, contro ogni apparenza, tali episodi risulta dal fatto che quella sera stessa mio padre sedeva come al solito dietro le sue carte. L'incidente pareva ormai dimenticato da tempo, il profondo trauma superato e cancellato. Naturalmente ci astenevamo da qualsiasi allusione. Con soddisfazione lo guardavamo scrivere in un equilibrio spirituale assolutamente apparente, in una sorta di serena contemplazione, accuratamente una pagina dopo l'altra, con la sua bella scrittura uniforme. Molto più difficile, invece, cancellare le tracce della compromettente personalità del povero contadino: si sa con quanta tenacia si radichino sopra certi terreni vestigia di tal genere. Nel corso di quelle vuote settimane facemmo di tutto per perderlo di vista, mentre lui continuava a ballare in quell'angolo oscuro sul banco, di giorno in giorno sempre più piccolo, sempre più grigio. Ormai quasi impercettibile, continuava a saltellare sempre nello stesso punto, fedele al suo posto: sorridendo bonariamente, tutto curvo sul banco, batteva infaticabile, e intanto ascoltava attento, parlava sottovoce tra sé. Battere era diventata la sua vera vocazione, e in essa era sprofondato irreparabilmente. Non lo richiamavamo più. Era andato ormai troppo lontano perché lo si potesse ancora raggiungere. I giorni estivi non hanno crepuscolo. Prima che ce ne accorgessimo, era ormai notte nel negozio. Si accendeva la grande lampada a petrolio e le cose di negozio procedevano normalmente. In quelle brevi notti estive non valeva la pena di tornare a casa. Mentre le ore trascorrevano, mio padre sedeva in apparente concentrazione e con lievi tocchi di penna costellava i margini delle lettere di neri asterischi volanti, diavoletti d'inchiostro, piumini pelosi che volteggiavano errabondi nel campo visivo, atomi di oscurità, strappati alla grande notte estiva fuori della porta. Quella notte dietro la porta si sbriciolava come una vescia, nell'ombra fitta si diffondeva quel nero microcosmo dell'oscurità, quell'eruzione contagiosa delle notti estive.
Gli occhiali lo accecavano, la lampada a petrolio era appesa dietro ad essi, come un bracere attorniato da un viluppo di lampi. Mio padre aspettava, aspettava impaziente, e tendeva l'orecchio fissando il candore abbagliante della carta, sul quale scorrevano quelle oscure galassie di stelle e pulviscolo nero. Alle spalle di mio padre, quasi senza la sua partecipazione, si svolgeva il grande scontro sulle faccende del negozio, si svolgeva, cosa strana, sul quadro appeso dietro la sua testa, fra lo schedario e lo specchio, alla luce chiara della lampada a petrolio. Era un quadrotalismano, un quadro indecifrabile, un quadroenigma, interpretato senza fine, tramandato di generazione in generazione. Che cosa rappresentava? Una discussione, una controversia dibattuta da secoli, un processo mai concluso fra due principî divergenti. Due mercanti stavano là, uno di fronte all'altro, due antitesi, due mondi. Io ho venduto a credito, gridava il magro, cencioso e attonito, e la voce gli si spezzava dalla disperazione. Io ho venduto a contanti, replicava il grasso nella poltrona, incrociando le gambe e girando i pollici delle mani intrecciate sul ventre. Come odiava il grasso, mio padre! Li conosceva fin dall'infanzia. Già sui banchi di scuola lo riempiva di disgusto quel grassone egoista, che negli intervalli divorava una quantità sconfinata di panini imburrati. Ma non solidarizzava neppure col magro. Con stupore vedeva l'intera iniziativa sfuggirgli dalle mani, accaparrata dai due avversari. Trattenendo il respiro, lo strabismo fisso dietro gli occhiali messi di traverso, mio padre aspettava il risultato, tutto teso e preoccupato. Il negozio, il negozio era impenetrabile. Era l'oggetto di tutti i pensieri, delle veglie notturne, delle spaventate considerazioni di mio padre.
Irraggiungibile e senza limiti, esso restava al di là di tutto ciò che accadeva, crepuscolare e universale. Di giorno quella progenie di tessuti, piena di patriarcale gravità, riposava disposta per ordine di anzianità, schierata per generazioni e discendenze. Ma di notte, tutto quel nero di stoffe rompeva le file, ribellandosi, e dava l'assalto al cielo con lunghe tirate pantomimiche, con improvvisazioni diaboliche.
D'autunno il negozio stormiva e si riversava fuori, rigonfio dell'oscuro assortimento di merce invernale, come se interi ettari di bosco si fossero messi in cammino per formare un grandioso, frusciante paesaggio.
D'estate, invece, nella stagione morta, si oscurava, ritirandosi nelle sue nere riserve, borbottante e inaccessibile, in quella sua giungla di tessuti. I commessi infierivano di notte con i metri di legno, quasi fossero trebbie, contro la sorda parete delle pezze, tendendo l'orecchio al mugghio doloroso che il negozio, murato in quella profonda tana di stoffa, lanciava dai suoi visceri. Lungo quei sordi scalini di feltro mio padre discendeva lentamente al nocciolo della genealogia, al fondo dei tempi. Era l'ultimo della stirpe, era Atlante, sulle cui spalle gravava il peso di un immenso testamento. Per giorni e notti mio padre aveva riflettuto sul significato di quel testamento, si era sforzato di afferrarne, in un lampo improvviso, il merito. Talvolta guardava con aria interrogativa, carica di attesa, i commessi. Privo di direttive, senza un segno, senza uno sprazzo di luce nell'animo, aspettava che a quei giovani ingenui, appena usciti dal guscio, si rivelasse a un tratto il vero senso del negozio, che a lui si nascondeva. Li stringeva contro il muro con occhiate ostinate, ma quelli, ottusi e farfuglianti, si sottraevano al suo sguardo, giravano gli occhi, vaneggiando confusamente frasi senza senso. Certi giorni, al mattino, appoggiato al suo alto bastone, mio padre si aggirava come un pastore in mezzo a quel cieco gregge lanuto, a quegli ingorghi affollati, a quei tronchi ondeggianti e senza testa, che belavano all'abbeveratoio. Aspettava ancora, differiva ancora il momento in cui avrebbe sollevato l'intero suo popolo e si sarebbe mosso verso la notte tumultuosa con quella carica, brulicante, centuplicata tribù d'Israele... La notte fuori della porta era come di piombo: senza spazio, senza un alito, senza strada. Dopo qualche metro appena finiva a tastoni. Si avanzava passo passo, come in dormiveglia, sempre sull'orlo di quella subitanea frontiera, e mentre i piedi si inceppava no, esaurito quel magro spazio, il pensiero correva oltre, senza fine, incessantemente sottoposto a interrogatori, trascinato lungo tutte le false piste di quella nera dialettica. L'analisi differenziale della notte si svolgeva da sola. Finché i piedi si fermavano del tutto in quel vicolo cieco senza uscita. Si restava là, al buio, nell'angolo più remoto della notte, come davanti a un pisciatoio, in un silenzio sordo, per ore intere, con una beata sensazione di ridicolo. Solo il pensiero, lasciato a se stesso, si districava lentamente, mentre la contorta anatomia del cervello si sdipanava come un gomitolo, e fra i veleni della dialettica si svolgeva senza tregua l'astratto trattato della notte estiva, saltabeccando fra acrobazie logiche, sorretto qua e là da infaticabili e pazienti indagini, da mille interrogativi sofistici per i quali non c'era risposta. Così, filosofeggiando faticosamente per l'intero spazio speculativo di quella notte, il trattato entrava, ormai incorporeo, nel definitivo silenzio. La mezzanotte era ormai trascorsa da un pezzo quando mio padre sollevò bruscamente la testa dalle carte.
Si alzò pieno d'importanza, gli occhi dilatati, tutto teso nell'ascolto.
Arriva, disse col volto raggiante. Aprite. Prima che il più anziano dei commessi, Teodoro, avesse fatto in tempo a raggiungere la porta a vetri sbarrata dalla notte, già attraverso quella si era introdotto, carico di pacchi, nerobarbuto, splendido e sorridente, l'ospite da tempo atteso.
Il signor Jakub, profondamente commosso, gli si precipitò incontro, salutandolo e tendendo le mani. Si abbracciarono. Per un istante sembrò che la locomotiva nera bassa e luccicante del suo treno fosse arrivata senza far rumore fino davanti alla porta stessa del negozio. Un facchino col berretto da ferroviere entrò portando sulle spalle un enorme baule.
Non riuscimmo mai a sapere chi fosse in verità quell'ospite illustre. Il vecchio commesso Teodoro sosteneva fermamente che si trattava di Chrystian Seipel e Figli (Filature e Tessiture Meccaniche) in persona.
L'ipotesi non era molto attendibile, mia madre non nascondeva le sue riserve. Comunque si mettessero le cose, tuttavia, non c'erano dubbi che doveva trattarsi di un demone potente, di uno dei pilastri dell'Unione Nazionale dei Creditori. Una nera barba profumata gli incorniciava il viso grasso, lucido e pieno di dignità. Circondato con un braccio da mio padre, fra grandi inchini, si diresse alla scrivania. Senza capire una parola di quel linguaggio straniero, ascoltavamo con rispetto quella conversazione cerimoniosa, piena di sorrisi, di strizzatine d'occhio, di affettuosi e delicati colpetti sulle spalle. Dopo lo scambio di queste cortesie preliminari, i signori passarono alla questione vera e propria.
Si stesero registri e incartamenti sulla scrivania, si stappò una bottiglia di vino bianco. Un sigaro coloniale all'angolo della bocca, il volto contratto in una smorfia di rude soddisfazione, i signori scambiarono alcune brevi parole d'ordine, monosillabici segni di reciproca intesa, soffermandosi nervosamente col dito su un particolare articolo nel libro dei conti, con il lampo malizioso degli àuguri nello sguardo. A poco a poco, la discussione divenne più accesa, si capiva che trattenevano a stento l'eccitazione. Si mordevano le labbra, i sigari pendevano, amari e spenti, dai volti improvvisamente delusi e pieni di avversione. Fremevano dall'agitazione. Mio padre respirava col naso, i pomelli accesi, i capelli dritti sulla fronte imperlata di sudore. La situazione si infiammò. Ci fu un momento in cui i due signori balzarono di scatto dai loro posti e restarono così, uno di fronte all'altro, quasi fuori di sé, ansando pesantemente e dardeggiando all'impazzata con le lenti degli occhiali. Spaventata, mia madre si mise a dare colpetti supplichevoli sulle spalle di mio padre, nel tentativo di prevenire una catastrofe. Alla vista di una dama, i due signori tornarono in sé, quindi, memori del codice commerciale, si scambiarono un inchino sorridendo e si rimisero al lavoro. Verso le due di notte mio padre chiuse finalmente con fragore la copertina del libro mastro. Inquieti, cercavamo di indovinare dai volti dei due interlocutori da quale parte pendesse la vittoria. Il buonumore di mio padre ci sembrava artificioso e voluto; il barbanera, invece, comodamente sprofondato nella poltrona, con le gambe incrociate, spirava tutto affabilità e ottimismo. Con generosità ostentata si accinse a distribuire mance ai commessi. Deposte carte e conti, i signori si alzarono dalla scrivania. Le loro espressioni erano quanto mai promettenti. Strizzando l'occhio ai commessi con aria d'intesa, lasciavano capire di essere pronti a qualsiasi impresa. Manifestavano una gran voglia di far baldoria alle spalle di mia madre. Ma erano pure millanterie. I commessi sapevano che cosa pensarne. Quella notte non portava da nessuna parte. Finiva sull'orlo del rigagnolo di scarico, in un luogo ben noto, cieca parete di nulla e di ridicola vergogna. Tutti i sentieri che portavano ad essa, riconducevano al negozio, tutte le scappate per esplorarne il fondo, avevano fin dall'inizio le ali spezzate. I commessi rispondevano agli ammicchi per mera cortesia. Il barbanera e mio padre, presisi a braccetto, uscirono dal negozio ben disposti, accompagnati dagli sguardi indulgenti dei commessi. Appena dietro la porta, la ghigliottina della notte li decapitò con un sol colpo, ed essi si tuffarono nel buio come in acque nere. Chi ha mai esplorato gli abissi della notte di luglio, chi ha misurato a quante braccia si sprofondi nel vuoto in cui niente accade? Dopo avere percorso a volo tutto quel nero infinito, apparvero di nuovo sulla porta del negozio, come se ne fossero appena usciti, recuperando le teste perdute con ancora sulla bocca la parola che ieri non avevano finito di usare. Fermi, così, non si sa per quanto, chiacchieravano con monotonia, quasi tornassero da una lontana spedizione, legati dalla complicità di pretese avventure e baldorie notturne. Si tiravano indietro il cappello col gesto di chi è brillo, vacillando sulle gambe molli. Evitando la porta illuminata del negozio, entrarono furtivi nel portone di casa, e cominciarono a salire zitti zitti su per le scale scricchiolanti che portavano al piano di sopra.
Giunsero così sul balcone posteriore, davanti alla finestra di Adela, e di là cercarono di sorprendere la dormiente. Non riuscirono a distinguerla, giaceva al buio con le gambe scostate, agitata da spasmi incoscienti nella stretta del sonno, la testa in fiamme gettata all'indietro, fanaticamente votata ai sogni. Bussarono sui vetri neri, cantarono canzoni oscene. Ma essa, con un sorriso letargico sulle labbra dischiuse, vagava rigida e catalettica lungo strade remote, mille miglia lontana e irraggiungibile. Allora, riversi sulla ringhiera del balcone, sbadigliarono lungamente e rumorosamente, ormai rassegnati, e tamburellarono con i piedi contro le assi della balaustra. A un'ora tarda e imprecisata della notte finirono col ritrovare i loro corpi non si sa in che modo sopra due stretti lettini, issati sopra un ammasso di lenzuola. Navigavano paralleli nella corsa del sonno, sorpassandosi a vicenda in un laborioso galoppo di ronfamento. A un certo chilometro di quella corsa sia che la corrente del sonno avesse unito i loro corpi, sia che i loro sogni fossero impercettibilmente confluiti in uno arrivati a un punto di quel nulla nero, essi sentirono che giacendo abbracciati, combattevano fra loro una battaglia sorda e ottusa.
Ansimanti, si soffiavano in faccia fra sterili sforzi. Il barbanera era disteso sopra mio padre come l'Angelo su Giacobbe. Ma mio padre lo teneva stretto con tutte le sue forze tra le ginocchia e, navigando torpido in una sorda assenza, riusciva a rubare ancora furtivamente un breve sonnellino ristoratore fra un round e l'altro. Lottavano così per che cosa? per il nome? per Dio? per il contratto? si battevano in un sudore mortale, raccogliendo le loro ultime forze, mentre la corrente del sonno li trasportava in regioni sempre più remote e strane della notte. Iv. L'indomani mio padre zoppicava leggermente da una gamba. Il suo viso era raggiante. Al primo spuntare dell'alba trovò, pronta e sfavillante, quella frase culminante della lettera per cui aveva lottato invano durante tanti giorni e tante notti. Non vedemmo più il barbanera.
Era partito di primo mattino col baule e i bagagli, senza salutare nessuno. Quella fu l'ultima notte della stagione morta. A partire da quella notte estiva cominciarono per il negozio sette lunghi anni di abbondanza.
IL SANATORIO ALL'INSEGNA DELLA CLESSIDRA.
Il viaggio fu lungo. Su quella linea secondaria, dimenticata, sulla quale solo una volta alla settimana viaggia un treno, c'erano pochi passeggeri. Non avevo mai visto vagoni di quel tipo arcaico, da tempo ritirati su altre linee, vasti come stanze, oscuri e pieni di ripostigli. Quei corridoi suddivisi in tanti angoli, quegli scompartimenti vuoti, labirintici e freddi davano una strana impressione di abbandono, quasi di paura. Passavo di vagone in vagone alla ricerca di un angolino confortevole. Dappertutto soffiava vento, correnti fredde si aprivano la strada attraverso quegli interni, trapassavano il treno da parte a parte. Qua e là poche persone sedevano sul pavimento con i loro bagagli, non osando occupare i vuoti divani troppo alti. Del resto, quei sedili rigonfi, coperti di tela cerata, erano freddi come ghiaccio e resi scivolosi dalla vecchiaia. Alle stazioni deserte nessun passeggero saliva. Senza un fischio, senza un soffio, il treno scivolava lentamente sulla sua strada, come assorto. Per un certo tempo mi fu compagno di viaggio un uomo vestito di una lacera uniforme di ferroviere, silenzioso, sprofondato nei suoi pensieri. Si premeva un fazzoletto contro il viso gonfio e dolorante. Poi anche questi sparì da qualche parte, doveva essere sceso a una fermata senza che lo vedessi.
Di lui restò il posto schiacciato sulla paglia che ricopriva il pavimento, e una valigia nera, malandata, che aveva dimenticato.
Inciampando nella paglia e nei rifiuti, erravo con passo incerto da un vagone all'altro. Le porte degli scompartimenti oscillavano nella corrente, spalancandosi. Non c'era anima viva. Incontrai, infine, un controllore nell'uniforme nera del servizio ferroviario di quella linea.
Si stava avvolgendo il collo in un grosso fazzoletto, e raccoglieva le sue cose, la lanterna, le sue carte. Arriviamo, signore, disse guardandomi con occhi completamente bianchi. Il treno rallentava, senza un soffio, senza una scossa, come se la vita lo stesse pian piano abbandonando insieme con l'ultimo sbuffo di vapore. Ci fermammo.
Silenzio e deserto, neppure l'ombra di una stazione. Mi mostrò ancora, scendendo, la direzione in cui si trovava il Sanatorio. La valigia in mano, mi incamminai per uno stretto sentiero bianco, che si inoltrava quasi subito nel folto oscuro di un parco. Osservai il paesaggio con una certa curiosità. La strada sulla quale camminavo saliva e conduceva in cima a una collinetta di dove si abbracciava un vasto panorama. Il giorno era tutto grigio, spento, uniforme. E forse per influsso di quell'atmosfera pesante e incolore, era così scuro tutto quel vasto bacino dell'orizzonte su cui si stendeva un vasto paesaggio boscoso, disposto come in uno scenario a bande e strati di rimboschimento, sempre più lontani e grigi, digradanti in strisce, in dolci declivi, ora a sinistra, ora a destra. Tutto quel paesaggio buio e grave sembrava scorrere da solo in modo appena percettibile e scivolare involontariamente come un cielo fosco e nuvoloso, pieno di movimento nascosto. I nastri e le bordure fluide dei boschi parevano frusciare e crescere in quel fruscio come il flusso del mare che sale impercettibilmente verso terra. La strada bianca che saliva fra l'oscura dinamica del terreno boscoso, serpeggiava come una melodia sul dorso di ampi accordi, stretta dalla pressione di potenti masse musicali, che alla fine l'assorbivano. Colsi un ramoscello da un albero, lungo la strada. Il verde delle foglie era scurissimo, quasi nero. Era un nero stranamente saturo, profondo e salutare, come un sonno forte e ristoratore. E tutti i grigi del paesaggio derivavano da quell'unica tinta. Un colore del genere riveste talvolta il paesaggio dalle nostre parti nei crepuscoli nuvolosi d'estate, saturi di lunghe piogge. Quella stessa profonda e serena abnegazione, lo stesso torpore rassegnato e definitivo, che non ha ormai bisogno della gioia dei colori. Nel bosco faceva buio come a notte. Camminavo a tentoni lungo il silenzioso tappeto di aghi. Quando gli alberi si diradarono, udii risuonare sotto i miei piedi le assi di un ponte. All'altra estremità, fra il nero degli alberi, si intravedevano i muri grigi, dalle ampie finestre, dell'albergo che si faceva chiamare Sanatorio. La doppia porta a vetri dell'entrata era aperta. Vi si accedeva direttamente dal ponticello, chiuso da una doppia oscillante ringhiera di rami di betulla. Nel corridoio regnava la penombra e un silenzio solenne. Cominciai ad avanzare in punta di piedi di porta in porta, leggendo nell'oscurità i numeri che vi erano affissi. A una svolta m'imbattei finalmente in una cameriera. Usciva correndo da una camera, come se sfuggisse a mani importune, tutta scomposta e sfiatata. Comprese appena quello che le dicevo. Dovetti ripetere. Si muoveva continuamente senza ragione.
Avevano ricevuto il mio telegramma? Aprì le braccia, il suo sguardo schivò il mio. Aspettava soltanto l'occasione di poter correre fino alla porta socchiusa verso la quale sbirciava. Arrivo da lontano, ho prenotato telegraficamente una camera, dissi con una certa impazienza. A chi devo rivolgermi? Non sapeva. Può andare al ristorante, divagò.
Adesso dormono tutti. Quando il Dottore si alzerà, l'annuncerò. Dormono?
Ma è giorno, manca ancora molto alla notte... Qui dormono in continuazione. Non lo sapeva? sollevò su di me due occhi incuriositi.
Del resto, qui non fa mai notte, aggiunse con una certa civetteria. Non aveva più voglia di scappare e gualciva fra le mani la trina del grembiule, sempre dimenandosi. La lasciai. Entrai nel ristorante semibuio. C'erano dei tavolini, un grande buffet occupava una parete in tutta la sua lunghezza. Dopo un lungo momento mi sentii di nuovo pieno d'appetito. Mi rallegrava la vista delle paste e delle torte che guarnivano in abbondanza i ripiani del buffet. Posai la valigia sopra uno dei tavolini. Erano tutti vuoti. Battei le mani. Nessuna risposta.
Sbirciai nella sala accanto, più grande e più chiara. Una vasta finestra o loggia si apriva qui sul paesaggio a me noto, che nell'inquadratura del vano costituiva, con la sua profonda tristezza e rassegnazione, come un funebre memento. Sulla tovaglia si vedevano i resti di un pasto recente, bottiglie stappate, bicchieri semivuoti. Qua e là c'erano perfino mance non raccolte dalle cameriere. Tornai al buffet, osservando le torte e i pasticci. Avevano un aspetto quanto mai appetitoso. Mi domandavo se bisognasse servirsi da soli. Sentii affluire in me una straordinaria golosità. Soprattutto un certo tipo di pasta frolla con la marmellata di mele mi faceva venire l'acquolina in bocca. Stavo ormai per sollevarne una con una spatola d'argento, quando mi sentii alle spalle una presenza estranea. La cameriera era entrata con le sue pantofole silenziose e mi toccava le spalle con le dita. Il Dottore l'aspetta, disse esaminandosi le unghie. Mi precedette e, sicura della forza magnetica che esercitava il movimento delle sue anche, non si volse mai. Si divertiva a rafforzare quel magnetismo, regolando la distanza fra i nostri corpi, mentre oltrepassavamo decine di porte contrassegnate da numeri. Il corridoio diventava sempre più buio.
Nell'oscurità ormai totale si appoggiò fuggevolmente a me. Ecco la porta del Dottore, sussurrò. Entri, prego. Il Dottor Gotard mi accolse ritto in mezzo alla stanza. Era un uomo di bassa statura, dalle spalle larghe e i capelli neri. Abbiamo ricevuto il suo telegramma fino da ieri, disse. Abbiamo mandato la carrozza dello stabilimento alla stazione, ma lei è arrivato con un altro treno. Purtroppo il collegamento ferroviario non è dei migliori. Come sta? E' vivo mio padre? domandai affondando lo sguardo inquieto nel suo viso sorridente. Certo che è vivo, rispose sostenendo con tranquillità il mio sguardo di fuoco. Naturalmente nei limiti concessi dalla situazione, aggiunse socchiudendo gli occhi. Lei sa bene quanto me che dal punto di vista della sua casa, del suo paese, suo padre è morto. Ormai non c'è più rimedio. Questa morte getta qualche ombra sulla sua esistenza di qui. Ma mio padre, personalmente, non sa, non intuisce? domandai in un bisbiglio. Scosse la testa con profonda convinzione. Stia tranquillo, disse con voce sorda, i nostri pazienti non intuiscono, non possono intuire... Il trucco consiste in questo, aggiunse, pronto a illustrare il meccanismo sulle dita, già preparate allo scopo. Abbiamo retrocesso il tempo. Noi lo ritardiamo di un certo intervallo di cui non è possibile determinare l'entità. La cosa si riduce a un puro e semplice relativismo. Per intenderci, qui ancora la morte di suo padre non si è verificata, quella morte che invece l'ha già raggiunto nel suo paese. In questo modo, dissi, mio padre è morente o prossimo alla morte... Lei non mi ha capito, rispose con un tono di indulgente impazienza, noi riattiviamo qui il tempo trascorso con tutte le sue possibilità, ivi compresa la possibilità di una guarigione. Mi guardò con un sorriso, accarezzandosi la barba. Ma lei, adesso, probabilmente vuole vedere suo padre. Come desidera, le abbiamo riservato un secondo letto nella stessa camera. L'accompagno. Appena entrammo nel buio corridoio, il Dottor Gotard si mise a parlare sussurrando. Notai che portava ai piedi pantofole di feltro, come la cameriera. Noi lasciamo dormire a lungo i nostri pazienti, economizziamo la loro energia vitale. Del resto, anche così, non hanno niente di meglio da fare. Davanti a una certa porta, in fondo al corridoio, si fermò. Si portò un dito alle labbra. Faccia piano nell'entrare, suo padre dorme. Si corichi anche lei. E' la miglior cosa che possa fare in questo momento. Arrivederci. Arrivederci, mormorai sentendo il cuore salirmi in gola. Abbassai la maniglia, la porta cedette da sola, si dischiuse come una bocca si schiude indifesa nel sonno. Entrai. La stanza era quasi vuota, grigia e nuda. Sopra un comune letto di legno, vicino a una finestrella, mio padre giaceva avvolto nelle coperte e dormiva. Il suo respiro pesante scaricava dalle profondità del sonno interi depositi di ronfamenti. La camera sembrava ormai interamente rivestita, dal pavimento al soffitto, da quel suo ronfare, ne arrivavano continuamente nuove derrate. Guardai commosso il viso smagrito, emaciato di mio padre, tutto assorto in quel momento nel lavoro del russare, quel volto che in un remoto trance, abbandonato il proprio involucro terrestre, confessava sopra una riva lontana la sua esistenza, enumerandone solennemente ogni singolo minuto. Il secondo letto non c'era. Dalla finestra entrava un freddo penetrante. La stufa non era accesa. «Non sembrano preoccuparsi troppo dei pazienti, qui, pensai. Un uomo così malato, lasciato in pasto alle correnti! E si direbbe che nessuno spazza, qui.» Uno spesso strato di polvere ricopriva il pavimento, rivestiva il comodino da notte con le medicine e il bicchiere di caffè freddato. «Sul buffet ci sono mucchi di dolci, ai pazienti, però, dànno solo caffè nero, invece che qualcosa di nutriente! Ma in confronto ai benefici del tempo retrocesso, naturalmente è un'inezia.»
Mi spogliai lentamente e mi infilai nel letto di mio padre. Non si svegliò. Solo il suo russare, evidentemente ormai troppo alto, scese di un'ottava, rinunciando alla sua enfasi declamatoria. Divenne come un ronfamento privato, individuale. Avvolsi la trapunta di piuma attorno a mio padre, cercando di proteggerlo, per quanto era possibile, dalla corrente d'aria che soffiava dalla finestra. In breve mi addormentai al suo fianco. Ii. Quando mi svegliai, nella stanza era quasi buio. Mio padre, già pronto, era seduto davanti al tavolo e beveva il tè inzuppandovi biscotti zuccherati. Indossava un abito nero ancora nuovo, di stoffa inglese, che si era fatto l'estate scorsa. La sua cravatta era annodata malamente. Vedendo che non dormivo, disse con un sorriso mite sul viso reso pallido dalla malattia: Sono molto contento che tu sia venuto, Jòzef. Che bella sorpresa! Mi sento così solo, qui. Non ci si può lamentare, è vero, nelle mie condizioni, ne ho passate di peggio, e se si volesse tirare le somme di tutte le situazioni... Ma poco importa.
Figurati che il primo giorno mi fu servito uno splendido filet de boeuf con funghi. Era un pezzo di carne infernale, Jòzef. Ti consiglio caldamente, se mai dovessero offrirti del filet de boeuf... Mi sento ancora il fuoco nel ventre. Diarrea su diaarrea... Non sapevo proprio come cavarmela. Ma devo annunciarti una novità, proseguì. Non ridere, ho affittato qui un locale per uso di negozio. Già. E mi rallegro di questa idea. Mi annoiavo, sai, con tutta l'anima. Non puoi immaginare la noia di qui. Mentre così, per lo meno, ho una piacevole occupazione. Ma non immaginarti poi niente di grandioso. Tutt'altro. E' un locale infinitamente più modesto del nostro magazzino di un tempo. E' una baracca, in confronto. Da noi, in città, ci si vergognerebbe di una bottega così malmessa, ma qui, dove abbiamo dovuto talmente mollare le nostre pretese... Non ti pare, Jòzef? sorrise dolorosamente. E così, bene o male, si vive. Quelle parole mi fecero pena. Provavo vergogna per l'imbarazzo di mio padre, che si era accorto di avere usato un'espressione poco adatta. Vedo che hai sonno, disse dopo un istante.
Dormi ancora un po', e dopo mi raggiungerai in negozio. D'accordo? Io devo proprio sbrigarmi per vedere come vanno gli affari. Non hai idea come sia stato difficile col credito, come siano diffidenti nei confronti dei vecchi commercianti, di quelli che pure hanno un passato serio... Ricordi il locale dell'ottico in piazza? Ecco, il nostro negozio è subito accanto. Non c'è ancora insegna, ma anche così lo trovi di sicuro. Difficile sbagliarsi. Ma uscite senza cappotto? domandai preoccupato. Si sono dimenticati di mettermelo via, figurati, nel baule non l'ho trovato; ma non ne sento alcun bisogno. Questo clima temperato, quest'aria così dolce!... Prendete il mio, insistetti. Prendetelo, ve ne prego. Ma mio padre si stava già mettendo il cappello. Mi fece un gesto di saluto e scomparve. No, non avevo più sonno. Mi sentivo riposato... e affamato. Con piacere ricordai il buffet gremito di dolci.
Mi vestii pensando a come me la sarei goduta con tutte quelle ghiottonerie. Mi proponevo di dare la priorità alla torta di mele, senza dimenticare uno squisito dolce farcito di scorze d'arancio che avevo egualmente notato. Mi posi davanti allo specchio per annodarmi la cravatta, ma la sua superficie, come uno specchio concavo, nascondeva al suo interno la mia immagine, nei gorghi delle sue torbide profondità.
Invano regolai la distanza, accostandomi e allontanandomi: da quella fluida nebbia argentea non usciva alcun riflesso. «Devo farmi dare un altro specchio», pensai, uscendo dalla stanza. Il corridoio era completamente buio. L'impressione di silenzio solenne era ancora rafforzata dal misero lume a gas che a un angolo diffondeva una fioca luce azzurrognola. In quel labirinto di porte, di vani e ripostigli, mi era difficile ricordare dove fosse l'entrata del ristorante. «Andrò in città, decisi improvvisamente. Mangerò là da qualche parte. Troverò pure una buona pasticceria.» Fuori della porta mi avvolse l'aria pesante, umida e dolce di quel clima singolare. Il grigiore cronico dell'atmosfera era calato ancora di qualche sfumatura. Era come se il giorno fosse visto attraverso un crespo funebre. Non mi saziavo di contemplare quel nero denso e vellutato delle parti più scure, la gamma di grigi spenti, soffici come cenere, che percorreva con passaggi di toni soffocati, smussati dalla sordina di una tastiera, il notturno del paesaggio. L'aria ricca e sinuosa mi sfiorava il viso come un telo molle. Aveva la dolcezza insipida dell'acqua piovana ristagnante. E di nuovo quel fruscio di nere foreste che tornava su se stesso, quegli accordi sordi che sconvolgevano gli spazi oltre i limiti dell'udibilità.
Mi trovavo nel cortile posteriore del Sanatorio. Osservai il muro alto di quell'ala dell'edificio principale costruito a ferro di cavallo.
Tutte le finestre erano chiuse da imposte nere. Il Sanatorio dormiva profondamente. Oltrepassai la cancellata di ferro. Accanto alla porta c'era un canile di dimensioni straordinarie, vuoto. Di nuovo mi assorbì, stringendomisi attorno, il bosco nero nelle cui tenebre procedevo a tastoni, come a occhi chiusi, sul silenzioso tappeto di aghi. Quando si fece un po' più chiaro, fra gli alberi si delinearono i contorni delle case. Ancora pochi passi e mi trovai nella vasta piazza del paese.
Strana, ingannevole somiglianza con la piazza della nostra città! Come si assomigliano, in fondo, tutte le piazze del mercato di questo mondo!
Quasi le stesse case e gli stessi negozi. I marciapiedi erano semideserti. Un mezzo chiarore funebre e tardivo di un'ora indeterminata spioveva dal cielo di un grigio indefinibile. Lessi con facilità tutti i cartelli e le insegne, eppure non mi sarei stupito se mi avessero detto che era notte fonda. Solo alcuni negozi erano aperti. Altri avevano le saracinesche semiabbassate, e le stavano chiudendo in fretta. Un'aria vivida e rigogliosa, un'aria inebriante e ricca assorbiva a tratti una parte della vista, cancellava come una spugna umida qualche cosa, un lampione, un pezzo d'insegna. In certi momenti era difficile sollevare le palpebre, rese pesanti da una strana apatia o sonnolenza. Mi misi a cercare il negozio dell'ottico, che aveva menzionato mio padre. Ne aveva parlato come di cosa a me nota, come richiamandosi a una mia conoscenza della situazione locale. Non sapeva che ero là per la prima volta? Senza dubbio doveva essersi confuso. Ma che cosa ci si poteva aspettare da un padre a metà soltanto reale, che viveva una vita così condizionata, relativa, limitata da tante riserve? Occorreva molta buona volontà difficile nasconderlo per riconoscergli una sorta di esistenza. La sua, era un pietoso surrogato di vita, derivante dalla generale indulgenza, da quel consensus omnium, da cui traeva i suoi scarsi succhi. Era chiaro che solo grazie a un solidale lasciar correre, a un collettivo chiudere gli occhi di fronte alle evidenti e tangibili deficienze di quello stato di cose, quella lugubre apparenza di vita poteva ancora mantenersi nel tessuto della realtà. La più lieve opposizione poteva farla vacillare, il minimo soffio di scetticismo, spazzarla via. Il Sanatorio del Dottor Gotard poteva assicurarle quell'atmosfera da serra, di benevola tolleranza, difenderla dalle gelide ventate del buon senso e della critica? C'era da stupire se in quella situazione così minacciata, discussa, mio padre riusciva ancora a mantenere quell'aspetto eccellente. Mi rallegrai nel vedere la vetrina di una pasticceria colma di dolci e di torte. Il mio appetito si risvegliò. Aprii la porta a vetri che aveva appeso il cartello «gelati», ed entrai nell'oscuro locale. C'era odore di caffè e di vaniglia. Dal retro del negozio uscì una fanciulla col volto cancellato dalla penombra, che prese l'ordinazione. Finalmente, dopo tanto tempo, potevo riempirmi a sazietà di quei meravigliosi pasticcini all'arancio, che inzuppavo nel caffè.
Nell'oscurità, fra gli arabeschi volteggianti del crepuscolo che mi danzavano attorno, divoravo una pasta dopo l'altra, sentendo che quei mulinelli di tenebre mi si introducevano sotto le palpebre, che si impadronivano furtivamente di me con il loro tiepido pulsare, col brulichio di mille tocchi delicati. Alla fine, solo il rettangolo della finestra riluceva, macchia grigia nella più completa oscurità. Invano battei il cucchiaino sul piano del tavolo. Nessuno apparve per regolare il conto. Lasciai una moneta d'argento sul tavolo e uscii per strada.
Nella libreria accanto c'era ancora luce. I commessi erano occupati a riordinare i libri. Domandai del negozio di mio padre. E' proprio il secondo locale dopo il nostro, mi spiegarono. Un ragazzino servizievole accorse perfino alla porta per indicarmi dove. La porta d'accesso era a vetri, la vetrina, non ancora pronta, era coperta da una carta grigia.
Fin dalla porta mi accorsi con stupore che il negozio era pieno di acquirenti. Mio padre stava dietro il banco e sommava, bagnando continuamente di saliva la matita, un lungo conto. Il signore per cui veniva preparato quel conto, chino sul banco, seguiva con l'indice ogni cifra aggiunta, contando sottovoce. Il resto dei clienti osservava in silenzio. Mio padre mi lanciò uno sguardo al di sopra degli occhiali e disse, segnando col dito dove si era fermato: C'è qui una lettera per te, è sulla scrivania fra le carte, e di nuovo si sprofondò nei suoi calcoli. I commessi nel frattempo mettevano da parte le merci vendute, le incartavano, le legavano con lo spago. Gli scaffali erano solo in parte riempiti di stoffe. Per lo più erano ancora vuoti. Perché non vi sedete? domandai piano a mio padre, passando dietro il banco. Non vi riguardate per niente, malato come siete. Sollevò la mano in un gesto di difesa, come se volesse allontanare il mio invito, senza smettere di contare. Aveva un bruttissimo aspetto. Era fin troppo evidente che solo un'eccitazione fittizia, un'attività febbrile sostenevano le sue forze, allontanavano ancora il momento del crollo definitivo. Cercai sulla scrivania. Era più un pacchetto che una lettera. Qualche giorno prima avevo scritto a una libreria per un certo libro pornografico, ed ecco che me l'avevano inviato là: avevano già trovato il mio indirizzo, o meglio, l'indirizzo di mio padre, che aveva appena aperto il negozio, senza insegna e senza registrazione. Davvero stupefacente la loro rete d'informazioni, ammirevole il servizio spedizioni! E quale straordinaria rapidità! Puoi leggere con comodo là dietro il banco, disse mio padre, lanciandomi un'occhiata scontenta. Vedi bene che qui non c'è posto. Il retrobottega era ancora vuoto. Attraverso una vetrata vi arrivava un po' di luce dal negozio. Alle pareti erano appesi i cappotti dei commessi.
Aprii la lettera e cominciai a leggere alla pallida luce che filtrava dalla porta. Mi si informava che il libro richiesto non era purtroppo in magazzino. Ne avevano intraprese le ricerche, ma, senza voler pregiudicare il risultato, la ditta nel frattempo si permetteva di inviarmi senza impegno un certo articolo che si prevedeva mi avrebbe sicuramente interessato. Seguiva poi una complicata descrizione di un rifrattore astronomico pieghevole, di grande potenza luminosa e dalle molteplici qualità. Incuriosito, estrassi dalla busta quello strumento fatto di incerato o tela rigida nera, ripiegata a fisarmonica. Avevo sempre avuto un debole per i telescopi. Cominciai a svolgere il mantice più volte ripiegato dello strumento. Tenuto rigido da bacchette sottili, mi si costruì fra le mani un enorme soffietto di canocchiale, che si estendeva per tutta la lunghezza della stanza col suo involucro vuoto, labirinto di cellule nere, lungo complesso di camere oscure, infilate per metà l'una nell'altra. Ricordava, per la sua forma, una di quelle lunghe automobili di tela verniciata, una sorta di accessorio teatrale, che, col suo leggero materiale di carta, di rigido traliccio, imita la corposità del reale. Guardai nell'imboccatura nera del canocchiale, e vidi delinearsi in fondo, appena appena baluginante, la facciata posteriore del Sanatorio. Incuriosito mi spinsi più addentro nella camera posteriore dell'apparecchio. Potevo seguire, adesso, nel campo visivo del cannocchiale la cameriera che camminava nel corridoio semibuio del Sanatorio con un vassoio in mano. Si voltò e sorrise. «Che mi veda?» pensai. Un'invincibile sonnolenza mi annebbiava gli occhi.
Stavo seduto nella camera posteriore del cannocchiale, come nella berlina di un'automobile. Un leggero movimento della leva, ed ecco che l'apparecchio cominciò a fremere, come una farfalla di carta, e io lo sentii mettersi in moto insieme con me, girando verso la porta. Come un grosso bruco nero, il cannocchiale si dirigeva verso il negozio illuminato: tronco pluriarticolato, enorme scarafaggio di carta, con due imitazioni di fari sul davanti. I clienti si ammassarono l'uno sull'altro, indietreggiando di fronte a quel drago cieco, i commessi spalancarono la porta di strada ed io uscii lentamente su quell'auto di carta, fra due ali di persone che accompagnavano con uno sguardo indignato quella partenza davvero scandalosa. Iii. Così si vive in questa città e il tempo passa. Per la maggior parte del giorno si dorme, e non soltanto nel letto. No, non si fanno difficoltà su questo punto.
In qualsiasi luogo e in qualsiasi momento del giorno, qui si è sempre pronti a concedersi un saporito sonnellino. Con la testa appoggiata sul tavolo al ristorante, in carrozza e perfino in piedi per strada, nell'androne di qualche casa, dove si entra un attimo soltanto per cedere a un'irrefrenabile necessità di dormire. Al risveglio, ancora annebbiati e incerti, riprendiamo la conversazione interrotta, continuiamo la strada faticosa, portiamo avanti un complicato affare, senza capo né coda. Così spariscono per strada, involontariamente, interi intervalli di tempo, così perdiamo il controllo sulla continuità della giornata, e alla fine smettiamo di insistervi, rinunciamo senza rimpianti allo scheletro di un'ininterrotta cronologia, alla cui vigile sorveglianza ci abituarono un tempo l'uso e la severa disciplina quotidiana. Da un pezzo abbiamo sacrificato questa costante prontezza a tener conto del tempo trascorso, questa scrupolosità nel contare al centesimo le ore spese, orgoglio e ambizione della nostra economia. A queste virtù cardinali, che nel passato osservammo senza mai un'esitazione né una mancanza, abbiamo rinunciato da tempo. Qualche esempio mi servirà a illustrare questa situazione. A una qualsiasi ora del giorno o della notte una sfumatura quasi impercettibile del cielo differenzia queste ore mi sveglio vicino alla ringhiera del ponticello che porta al Sanatorio. E' il crepuscolo. Oppresso dal sonno, devo aver vagato a lungo inconsapevolmente per la città prima di trascinarmi, mortalmente stanco, a quel ponticello. Non potrei dire se per tutta la strada mi abbia accompagnato il Dottor Gotard, che adesso si trova davanti a me e sta terminando un lungo ragionamento, traendone le ultime conclusioni. Trasportato dalla propria eloquenza, mi prende perfino sottobraccio e mi trascina con sé. Lo seguo e, ancor prima di avere oltrepassato le assi risonanti del ponticello, già sto dormendo di nuovo. Attraverso le palpebre chiuse vedo confusamente il gesticolare insistente del Dottore, il suo sorriso in fondo alla barba nera, e mi sforzo invano di afferrare quel fondamentale nesso logico, quell'atout decisivo, per cui, al culmine della sua argomentazione, arrestandosi con le braccia tese, trionfa. Non so per quanto tempo camminiamo così, uno accanto all'altro, sprofondati nella conversazione piena di malintesi, quando a un tratto mi sveglio completamente: il Dottor Gotard non c'è più, è tutto buio, ma solo perché tengo gli occhi chiusi. Li apro, e sono a letto, nella mia camera, che ho raggiunto non so in che modo.
Altro esempio, ancora più efficace. Entro all'ora di pranzo in un ristorante in città, fra il brusìo e la confusione dei clienti che mangiano. E chi incontro, qui in mezzo alla sala, davanti a un tavolo che si incurva sotto il peso delle vivande? Mio padre. Tutti gli occhi sono rivolti verso di lui, che scintillante come la sua spilla di brillanti, straordinariamente animato, al settimo cielo, si inchina con affettazione da tutte le parti, intrattenendosi diffusamente con tutta la sala nello stesso tempo. Con coraggio fittizio, che non posso considerare senza la più grande inquietudine, continua a ordinare nuove pietanze, che si ammucchiano sul suo tavolo. Se le raduna attorno compiaciuto, benché non sia ancora arrivato in fondo al primo piatto.
Schioccando la lingua, masticando e parlando contemporaneamente, sottolinea con i gesti, con la mimica, la sua più viva soddisfazione per quel festino, e segue con occhio rapito il signor Adam, il cameriere, cui lancia con un sorriso da innamorato sempre nuove ordinazioni. E quando il cameriere, agitando il tovagliolo, corre ad eseguirle, mio padre si appella con gesto implorante a tutti e prende tutti a testimoni dell'irresistibile fascino di quel Ganimede. Che ragazzo inestimabile, grida con un sorriso beato, socchiudendo gli occhi, che angelo! Dovete riconoscere, signori, che è affascinante. Me ne vado disgustato, senza che mio padre se ne accorga. Se fosse stato messo là apposta per réclame dalla direzione dell'albergo allo scopo di animare i clienti, non avrebbe potuto comportarsi in modo più provocante e ostentato. Con la testa annebbiata dal sonno mi aggiro barcollando per le strade, cercando la via di casa. Sopra una cassetta postale appoggio il capo e mi faccio una rapida siesta. Finalmente trovo a tastoni nell'oscurità il portone del Sanatorio ed entro. In camera c'è buio. Giro l'interruttore, ma l'elettricità non funziona. Dalla finestra soffia aria fredda. Il letto scricchiola nell'oscurità. Mio padre solleva la testa dalle lenzuola e dice: Ah, Jòzef, Jòzef! Io sono qui già da due giorni senza cure. I fili dei campanelli sono tagliati, nessuno viene a vedermi, e anche mio figlio mi abbandona, gravemente malato come sono, per correre dietro alle ragazze in città. Guarda come mi batte il cuore! Come conciliare le due cose? Mio padre è seduto al ristorante, tutto preso da un'insana voracità, oppure è a letto nella sua camera, gravemente ammalato? Ci sono forse due padri? Niente di tutto ciò. La colpa di tutto è il rapido sfacelo del tempo, non più sorvegliato con costante vigilanza. Sappiamo tutti che questo elemento indisciplinato solo a stento è tenuto entro certi limiti grazie a una cura incessante, a un'amorevole sollecitudine, a una scrupolosa regolazione e correzione dei suoi scarti. Privo di questa tutela, esso si mostra subito incline alle infrazioni, a singolari aberrazioni, a scherzi imprevedibili, a informi buffonate.
Sempre più chiara si delinea l'incongruenza dei nostri tempi individuali. Il tempo di mio padre e il mio non coincidono più. Sia detto fra parentesi, il rimprovero mossomi da mio padre di avere costumi dissoluti è un'insinuazione priva di fondamento. Non ho ancora avvicinato nessuna ragazza qui. Barcollando come un ubriaco di sonno in sonno, faccio appena attenzione al bel sesso locale nei momenti di maggior sobrietà. Del resto, la penombra costante per le strade non permette neppure di distinguere nettamente i volti. La sola cosa che sono riuscito a notare, come giovanotto che, per quanto sia, conserva ancora un certo interesse per questo campo, è l'andatura singolare di queste fanciulle. E' un'andatura inesorabilmente rettilinea, che non tiene conto di nessun ostacolo e obbedisce soltanto a un certo ritmo interiore, a una certa legge che esse dipanano come da un gomitolo nel filo di un piccolo trotto diritto, pieno di precisione e di grazia misurata. Ciascuna porta in sé una regola diversa, individuale, come una molla tesa. Quando camminano così, dritto davanti a sé, immerse in quella regola, piene di raccoglimento e di gravità, sembra che siano penetrate da un'unica preoccupazione, di non perdere niente, di non deviare da quella regola difficile, di non allontanarsene neppure di un millimetro. E allora diventa chiaro che ciò che esse portano in sé con tanta serietà e concentrazione è soltanto una certa idée fixe della loro perfezione, che grazie alla forza della propria convinzione diventa quasi realtà. E' una sorta di anticipazione che esse assumono a loro rischio, senza alcuna garanzia, un dogma intangibile innalzato al di sopra di ogni dubbio. Quante mancanze e pecche, quanti nasi a patata o appiattiti, quante macchie e quanti foruncoletti hanno il coraggio di far passare sotto la bandiera di quella finzione! Non c'è bruttezza né volgarità che lo slancio di quella fede non riesca a trascinare in quel fittizio cielo di perfezione. Con la sanzione di quella fede il corpo imbellisce visibilmente e le gambe, le gambe realmente ben fatte, elastiche, entro scarpe irreprensibili, parlano con la loro andatura, esplicano fervidamente col fluido, scintillante monologo del passo, la ricchezza di quell'idea, che il volto chiuso per l'orgoglio tace. Le mani, le tengono nelle tasche delle loro corte e attillate giacchette.
Al caffè e al teatro incrociano le gambe, scoprendole su fino al ginocchio in un silenzio eloquente. Questa, incidentalmente, è una delle particolarità di questo luogo. Ho già ricordato la nera vegetazione locale. Merita attenzione soprattutto una certa specie di felce nera, di cui si vedono fasci enormi ornare vasi in ogni abitazione di qui e in ogni locale pubblico. E' quasi il simbolo luttuoso, l'emblema funebre di questa città. Iv. La situazione in Sanatorio diventa ogni giorno più insostenibile. E' ormai innegabile che siamo semplicemente caduti in una trappola. Dal momento del mio arrivo, quando di fronte al nuovo venuto si erano sfoggiate certe apparenze di premurosa ospitalità, la direzione del Sanatorio non si è più minimamente curata di lasciarci almeno l'illusione di una qualche assistenza. Siamo semplicemente abbandonati a noi stessi. Nessuno si preoccupa delle nostre necessità. Da tempo mi sono accorto che i fili dei campanelli elettrici si interrompono subito sopra la porta e non conducono da nessuna parte. Non si vede servitù in giro. I corridoi sono sprofondati giorno e notte nel buio e nel silenzio. Ho la ferma convinzione che siamo gli unici ospiti del Sanatorio e che l'espressione misteriosa e discreta della cameriera quando chiude la porta delle camere, entrando o uscendo, sia solo una pura e semplice mistificazione. Qualche volta avrei voglia di aprire una dietro l'altra le porte di queste camere e di lasciarle così spalancate per smascherare l'ignominioso imbroglio di cui siamo vittime. Eppure non sono del tutto sicuro delle mie supposizioni. A volte, in piena notte, mi capita di vedere il Dottor Gotard affrettarsi nel corridoio da qualche parte, in camice bianco da sala operatoria, con l'irrigatore degli enteroclismi in mano, preceduto dalla cameriera. Mi è difficile allora fermarlo così in fretta e inchiodarlo al muro con una domanda precisa. Se non ci fossero il ristorante e la pasticceria in città, si potrebbe morire di fame. Finora non sono riuscito, nonostante le preghiere, a ottenere un secondo letto. Di biancheria pulita non se ne parla neppure. Bisogna riconoscere che questo generale rilassamento dei costumi civili non ha risparmiato neppure noi. Entrare a letto vestito e con le scarpe era sempre stato per me, come per ogni uomo civile, una cosa addirittura impensabile. Ora, invece, rientro tardi a casa, ubriaco di sonno: la stanza è nella penombra, un soffio gelido gonfia le tende alla finestra. Inebetito, crollo sul letto e mi infilo sotto la trapunta. Dormo così per lunghi spazi irregolari di tempo, giorni o settimane, attraverso i deserti paesaggi del sonno, sempre in cammino lungo gli impervi sentieri della respirazione, ora scivolando lieve ed elastico giù per dolci declivi, ora di nuovo risalendo a fatica la parete verticale del russare. Giunto in vetta, abbraccio con lo sguardo l'immenso panorama di quel deserto roccioso e sordo del sonno. A un certo momento, in un punto sconosciuto, a una qualche svolta repentina di questo ronfare, mi sveglio, semincosciente, e sento ai piedi il corpo di mio padre. Giace là, acciambellato, piccolo come un gattino. Mi riaddormento con la bocca aperta e quell'intero, immenso panorama di montagne scivola al mio fianco ondulato e maestoso. In negozio mio padre lavora alacremente, porta avanti transazioni, impiega tutto il suo brio per convincere i clienti. Ha le guance accese per l'animazione, gli occhi gli brillano. In Sanatorio è a letto gravemente ammalato, come nelle ultime settimane a casa. Difficile nascondersi che il processo si sta avviando rapidamente verso la fine fatale. Con voce debole mi dice: Dovresti venire più spesso in negozio, Jòzef. I commessi ci derubano.
Vedi bene che non posso più far fronte ai miei impegni. Da settimane sono a letto ammalato, e il negozio va in malora, lasciato in balìa del destino. Non c'era posta da casa? Comincio a deplorare tutta questa impresa. Non si può dire che abbiamo avuto un'idea felice mandando qui mio padre, attratti da una rumorosa propaganda. Retrocessione del tempo... effettivamente suona bene, ma a che cosa corrisponde in realtà?
Arriva forse qui un tempo pienamente valido, onesto, un tempo in certo senso appena svolto da una pezza fresca, odoroso di novità e di tinta?
Tutto il contrario. E' un tempo usato, consumato dagli altri, un tempo logoro e bucherellato in più punti, trasparente come un setaccio. Niente di strano, questo è un tempo vomitato non vorrei mi si fraintendesse un tempo di seconda mano. Che tristezza, mio Dio!... E come se non bastasse, tutte queste altamente sconvenienti manipolazioni del tempo, questi complotti immorali, questo arrivare furtivamente alle spalle del suo meccanismo, questi arrischiati maneggi attorno ai suoi delicati segreti! A volte si avrebbe voglia di dare un pugno sul tavolo e gridare a squarciagola: Basta! alla larga dal tempo! Il tempo non lo si può provocare! Non vi basta lo spazio? Lo spazio è per l'uomo, nello spazio potete muovervi liberamente, far capriole, rotolarvi, saltare da una stella all'altra. Ma per amor del cielo, non toccate il tempo! D'altra parte, si può forse pretendere che sia io a rompere il contratto col Dottor Gotard? Per quanto miserabile possa essere l'esistenza di mio padre, almeno posso vederlo, stare con lui, parlargli... Veramente devo al Dottor Gotard una gratitudine infinita. Più volte ho cercato di parlargli apertamente. Ma il Dottor Gotard è inafferrabile. Si è appena diretto verso la sala da pranzo, mi annunzia la cameriera. Vado là, quando essa mi raggiunge di corsa per dirmi che si è sbagliata. Il Dottor Gotard è in sala operatoria. Mi affretto al primo piano, domandandomi quali operazioni si possano eseguire qua. Entro nell'anticamera ed effettivamente mi dicono di aspettare. Il Dottor Gotard uscirà fra un momento, ha appena finito un'operazione, si lava le mani. Quasi lo vedo, piccolo, che cammina a gran passi con il camice slacciato, e percorre in fretta la lunga fila delle sale d'ospedale.
Dopo un attimo, che cosa si viene a sapere? Il Dottor Gotard non è mai stato là. Da anni non si fanno operazioni. Il Dottor Gotard dorme in camera sua, con la barba nera che sbuca fuori, all'aria. Il suo ronfare riempie la stanza come di nuvole che crescono, si accumulano, sollevano sui loro addensamenti il Dottor Gotard insieme col suo letto, sempre più in alto. Grande, patetica ascensione sulle onde di quel russare e delle lenzuola rigonfie. Accadono qui cose ancora più strane, cose che taccio a me stesso, cose semplicemente fantastiche per la loro assurdità. Ogni volta che esco di camera mi sembra che qualcuno si allontani in fretta da dietro la porta e giri nel corridoio laterale. Oppure qualcuno cammina davanti a me, senza voltarsi. Non è un'infermiera. So chi è!
Mamma! grido con voce tremante di emozione, e mia madre gira il capo e mi guarda per un attimo con un sorriso implorante. Dove sono? Che succede qui? In quale trappola sono caduto?
Il Sanatorio all'insegna della clessidra. Non so se sia per colpa della stagione avanzata, ma i giorni si fanno di un colore sempre più cupo, più oscuro, più buio. E' come se si guardasse il mondo attraverso un paio di occhiali neri. L'intero paesaggio evoca il fondo di un immenso acquario, di inchiostro sbiadito. Alberi, persone e case si fondono in nere sagome oscillanti come piante sottomarine contro quell'abisso d'inchiostro. I dintorni del Sanatorio brulicano di cani neri, di varia grandezza e forma, che percorrono ventre a terra nel crepuscolo le strade e i sentieri, tutti assorti nei loro affari canini, silenziosi, tesi e attenti. Passano correndo a gruppi di due o tre, il collo sensibile ben teso, le orecchie a punta, con lievi guaiti lamentosi che involontariamente sfuggono loro dalla gola, segno evidente di una fortissima agitazione. Assorti nei loro affari, frettolosi, sempre in movimento, tutti presi da un loro scopo sconosciuto, fanno appena attenzione ai passanti. Talvolta girano appena gli occhi verso uno di loro correndo, e allora da quello sguardo sbieco, nero e intelligente traspare una rabbia frenata nel suo slancio solo dalla mancanza di tempo. Altre volte capita perfino che, dando sfogo alla loro malvagità, si lancino alle gambe a testa bassa, con un ringhio sinistro, ma solo per cambiare idea a metà strada e ripartire di corsa con grandi balzi canini. Contro questa piaga dei cani non c'è rimedio. Ma perché diavolo la direzione del Sanatorio tiene alla catena un enorme cane lupo, un bestione spaventoso, un vero lupo mannaro di ferocia addirittura demoniaca? Mi viene la pelle d'oca ogni volta che passo accanto al suo casotto presso il quale sta immobile, attaccato alla corta catena, con un bavero di pelo selvaggiamente irto attorno al capo, baffuto, setoloso e barbuto, con il macchinario delle fauci potenti pieno di denti aguzzi.
Non abbaia mai. Solo il suo muso selvaggio alla vista di un uomo diventa ancora più terribile, i tratti si irrigidiscono in un'espressione di rabbia sconfinata e, sollevando lentamente l'orribile ceffo, si lascia andare a un convulso silenzioso, con un ululato cupo e ardente che scaturisce da un abisso di odio e in cui risuonano il dolore e la disperazione dell'impotenza. Mio padre passa con indifferenza accanto a quella belva ogni volta che usciamo dal Sanatorio. Quanto a me sono sempre profondamente sconvolto da quella primitiva manifestazione di odio impotente. Supero adesso di due teste mio padre, che, piccolo e magro, trotterella al mio fianco col suo piccolo passo di vecchio.
Mentre ci avviciniamo alla piazza, notiamo un insolito movimento. Folle di persone percorrono le strade. Ci giungono notizie improbabili di un'invasione della città da parte di un esercito nemico. Fra la generale costernazione, la gente si scambia notizie allarmanti e contraddittorie.
Difficile capire. Una guerra non preceduta da trattative diplomatiche?
Una guerra nel bel mezzo di una pace felice, non turbata da alcun conflitto? Una guerra contro chi e perché? Ci informano che l'invasione dell'esercito nemico ha incoraggiato il partito dei malcontenti, che è sceso in piazza con le armi in pugno, terrorizzando i pacifici cittadini. Abbiamo visto effettivamente un gruppo di questi attentatori, vestiti di neri abiti civili con bande bianche incrociate sul petto, avanzare in silenzio, i fucili spianati. La folla indietreggiava al loro passaggio, si stringeva sui marciapiedi, mentre essi camminavano lanciando da sotto i cilindri neri sguardi ironici, sguardi in cui era dipinto un sentimento di superiorità, un lampo di divertimento maligno e una sorta di ammiccamento d'intesa, come se trattenessero uno scoppio di risa rivelatore di tutta quella mistificazione. Alcuni vengono riconosciuti dalla folla, ma le esclamazioni gioiose sono soffocate dalla minaccia delle canne spianate. Ci oltrepassano senza aver abbordato nessuno. Di nuovo per tutte le strade dilaga una folla allarmata, lugubremente silenziosa. Un sordo mormorio percorre febbrilmente la città. Sembra di sentire in lontananza il rombo dell'artiglieria, il frastuono dei carri di munizioni. Devo assolutamente arrivare al negozio, dice mio padre pallido ma deciso. Non c'è bisogno che tu mi accompagni, mi saresti solo d'impiccio, aggiunge.
Torna al Sanatorio. La voce della vigliaccheria mi consiglia di obbedire. Vedo mio padre aprirsi un varco nel muro compatto della folla e lo perdo di vista. Attraverso viuzze laterali mi dirigo in fretta verso la città alta. Mi rendo conto che passando per quelle strade ripide riuscirò ad aggirare a semicerchio il centro della città chiuso da una ressa umana. Là, in quella parte alta, la folla era più rada, infine spariva del tutto. Camminai tranquillamente per vie deserte fino al parco municipale. I lampioni bruciavano qui di una fiammella scura, azzurrina, come funebri asfodeli. Attorno a ogni lampione danzava una nube di maggiolini, pesanti come pallottole, che volavano di sbieco sostenuti dalle ali vibranti. Alcuni, caduti, si trascinavano penosamente sulla sabbia col dorso rigonfio, incurvati dai duri gusci, sotto i quali tentavano di ripiegare le delicate membrane distese delle ali. Lungo i prati e i sentieri camminavano passanti immersi in conversazioni spensierate. Gli ultimi alberi si chinavano sui cortili delle case situate giù in basso e appoggiate al muro del parco. Me ne andavo lungo quel muro, che da quel lato mi arrivava appena all'altezza del petto, ma all'esterno strapiombava fino al livello dei cortili con un salto di un piano. A un certo punto una rampa di terra battuta attraversava i cortili, raggiungendo l'altezza del muro. Scavalcai con facilità una staccionata e attraverso quella stretta diga mi inoltrai fra i blocchi di case addossati l'uno all'altro, verso la strada. I miei calcoli, basati sopra un eccellente senso dell'orientamento, erano esatti. Mi ritrovai quasi di fronte all'edificio del Sanatorio, di cui un'ala biancheggiava vagamente nel folto nero degli alberi. Entro come al solito dal cortile posteriore, attraverso la porta nella cancellata di ferro, e già da lontano vedo il cane al suo posto di guardia. Come sempre, un brivido di repulsione mi percorre a quella vista. Voglio superarlo al più presto, per non udire quel latrato pieno di odio che gli esce dal fondo del cuore, quando terrorizzato, non credendo ai miei stessi occhi, lo vedo balzare dalla cuccia slegato e correre attorno al cortile con un abbaiare sordo che sembra uscire da una botte, nel tentativo evidente di tagliarmi la ritirata. Impietrito dal terrore indietreggio nell'angolo opposto, il più lontano del cortile, e, cercando istintivamente un nascondiglio, mi rifugio in un piccolo pergolato, pienamente cosciente della vanità dei miei sforzi. La belva irsuta si avvicina a gran balzi, ecco il suo ceffo ormai all'imbocco del pergolato, e io sono chiuso in trappola. Mezzo morto di paura, mi accorgo che il cane, trascinatasi dietro la catena attraverso il cortile, l'ha ormai tirata in tutta la sua lunghezza, e che soltanto il pergolato è fuori della portata delle sue zanne. Malconcio, schiacciato dal terrore, provo appena un certo sollievo. Barcollando malfermo sulle gambe, prossimo a svenire, alzo gli occhi. Non l'avevo mai visto così da vicino, e soltanto adesso mi cade come un velo dagli occhi. Potenza dei pregiudizi, della suggestione dovuta alla paura! Come sono stato cieco!
Era un uomo. Un uomo alla catena, che in un'approssimazione semplicistica, metaforica, complessiva avevo preso, non so come, per un cane. Non vorrei essere frainteso. Era un cane senza possibilità di dubbio, ma sotto forma umana. La natura canina è un dato interiore e può manifestarsi altrettanto bene sotto forma umana, quanto sotto forma animale. Quello che stava davanti a me all'imbocco del pergolato, digrignando col labbro rovesciato all'indietro, con tutti i denti in mostra in un ringhio spaventoso, era un uomo di media statura, dai capelli neri. Il volto era giallo, ossuto, gli occhi scuri, cattivi e infelici. A giudicare dal vestito nero, dal taglio civile della barba, lo si poteva prendere per un intellettuale, per uno studioso. Avrebbe potuto essere un fratello maggiore, malriuscito, del Dottor Gotard. Ma questa prima apparenza ingannava. Le sue mani grandi, macchiate di colla, i due brutali, cinici solchi attorno al naso che si perdevano nella barba, le volgari rughe orizzontali sulla fronte bassa dissipavano rapidamente quella prima illusione. Era piuttosto un rilegatore, un urlone, un comiziante o un attivista di partito: un uomo violento, dalle oscure passioni esplosive. E proprio là, in quell'abisso di passione, in quel convulso drizzarsi di tutte le fibre, in quell'esplosione di furia rabbiosamente abbaiante contro l'estremità del bastone puntato verso di lui, era al cento per cento cane. «Se riuscissi a saltare oltre il recinto posteriore del pergolato, penso fra me, sarei una volta per tutte fuori della portata della sua furia e potrei per un altro sentiero raggiungere la porta del Sanatorio.» Già sto per scavalcare la ringhiera, quando a un tratto mi fermo a metà movimento. Sento che sarebbe troppo crudele andarmene così e lasciarlo in preda alla sua furia selvaggia ed esorbitante. Mi immagino la sua terribile delusione, il dolore inumano nel vedermi uscire dalla trappola, allontanarmi per sempre. Rimango. Mi avvicino a lui e dico con voce naturale, tranquilla: Si calmi, vengo a slegarla. A queste parole la sua faccia solcata da spasmi, sconvolta dalle contrazioni del ringhiare, si ricompone, si distende e ne emerge un viso quasi completamente umano. Mi avvicino senza timore e stacco il fermaglio sulla sua nuca. Camminiamo ora uno accanto all'altro. Il rilegatore indossa un dignitoso abito nero, ma è scalzo. Cerco di attaccare discorso, ma dalla sua bocca non esce che un borbottio incomprensibile. Soltanto negli occhi, in quegli eloquenti occhi neri, leggo un selvaggio slancio d'affetto, di simpatia, che mi toglie ogni paura. Di tanto in tanto inciampa in un sasso o in una zolla di terra, e allora per effetto della scossa la sua faccia subito si frantuma, si decompone, lasciando trasparire un terrore pronto a erompere, e subito dietro una rabbia che da un momento all'altro può trasformare quel viso in un groviglio di vipere sibilanti. Lo richiamo all'ordine con un brusco, amichevole avvertimento. Gli do perfino qualche colpetto sulle spalle. E in certi momenti pare quasi che sul suo viso sbocci un sorriso stupito, sospettoso, diffidente. Ah, come mi pesa questa terribile amicizia! Come mi spaventa questa insolita simpatia!
Come sbarazzarsi di quest'uomo Il che mi cammina accanto e tiene gli occhi fissi sul mio viso con tutto l'ardore della sua anima canina? Ma non posso tradire la mia impazienza. Estraggo il portafoglio e dico in tono formale: Avrà sicuramente bisogno di denaro, posso prestargliene con piacere. Ma a quella vista la sua faccia assume un'espressione così spaventosamente selvaggia, che ripongo il portafoglio in tutta fretta. E per molto tempo ancora egli non riesce a calmare e a dominare i suoi tratti, che un convulso di latrati deforma. No, non posso sopportare ciò più a lungo. Tutto piuttosto che quello. Comunque sia, le cose si sono ormai complicate, imbrogliate senza speranza. Sopra la città vedo il bagliore di un incendio. Mio padre chissà dove nel fuoco della rivoluzione, dentro il negozio in fiamme, il Dottor Gotard irraggiungibile, e per di più quell'inconcepibile apparizione di mia madre, in incognito, per una qualche missione misteriosa! Sono le maglie di un grande, incomprensibile complotto che si stringe intorno alla mia persona. Fuggire, fuggire di là. Non importa dove. Liberarsi da quell'orribile amicizia, da quel rilegatore che puzza di cane e non mi perde di vista. Ci fermiamo sulla porta del Sanatorio. Prego, si accomodi in camera mia, dico con gesto cortese. Le buone maniere lo affascinano, assopiscono la sua selvatichezza. Lo introduco nella mia stanza. Lo faccio sedere su una sedia. Vado al ristorante a prendere un cognac, dico. A queste parole si alza di scatto, spaventato, facendo l'atto di accompagnarmi. Lo rassicuro con pacata fermezza. Stia pure comodo, aspetti tranquillamente, gli dico con voce profonda, vibrante, nella quale risuona una paura nascosta. Si siede con un sorriso incerto.
Esco e percorro lentamente il corridoio, poi le scale che scendono in basso, il corridoio che porta all'uscita, oltrepasso la porta, attraverso il cortile, sbatto dietro di me il cancellino di ferro, e adesso mi metto a correre a perdifiato, col cuore che mi batte, le tempie che pulsano, lungo il viale oscuro che conduce alla stazione. In testa mi si accavallano le immagini, una più spaventosa dell'altra.
L'impazienza del mostro, il suo terrore, la disperazione quando si accorgerà di essere stato ingannato. Il ritorno della sua furia, la nuova violenta esplosione di rabbia irrefrenabile. Il ritorno di mio padre al Sanatorio, il suo bussare alla porta senza sospettare niente, e l'inatteso trovarsi faccia a faccia con quella belva spaventosa. «E' una fortuna che in fondo mio padre non viva, che tutto ciò ormai non lo tocchi veramente», penso con sollievo e vedo ormai davanti a me la fila nera dei vagoni pronti a partire. Mi siedo in un vagone e il treno, come se non aspettasse che quello, si mette piano piano in moto, senza un fischio. Al finestrino scivola girando ancora una volta lentamente quell'enorme bacino dell'orizzonte, fitto di neri boschi fruscianti, fra i quali biancheggiano le mura del Sanatorio. Addio padre, addio città che non vedrò mai più. Da allora viaggio, viaggio in continuazione. Ho eletto in certo senso a domicilio la ferrovia, dove mi tollerano vagabondante di vagone in vagone. Immense come sale, le vetture rigurgitano di rifiuti e di paglia, le correnti d'aria le attraversano in lungo e in largo, nei grigi giorni incolori. Il mio vestito si è strappato, lacerato. Mi hanno regalato un'uniforme usata da ferroviere.
Ho il viso avvolto in uno straccio sporco a causa di una guancia gonfia.
Sto seduto sulla paglia sonnecchiando, e quando ho fame mi metto nel corridoio davanti agli scompartimenti di seconda classe e canto. Allora mi gettano monetine nel berretto da controllore, nel nero berretto da ferroviere con la visiera che casca a pezzi.
DODO.
Veniva da noi ogni sabato pomeriggio, con la sua redingote scura sopra il panciotto di piqué bianco, con la bombetta che doveva essere stata confezionata apposta sulle misure del suo cranio, veniva per stare seduto un quarto d'ora o poco più davanti a un bicchiere d'acqua e sciroppo di lampone, per meditare con la barba appoggiata al pomo d'osso del bastone che teneva in mezzo alle ginocchia, riflettere sul fumo azzurrino di una sigaretta. Generalmente c'erano allora in visita anche altri parenti, ma durante il libero svolgersi della conversazione Dodo si teneva in certo qual modo in ombra, scivolava nel ruolo passivo della comparsa in quell'animata riunione. Senza mai aprir bocca, girava da un interlocutore all'altro gli occhi espressivi sotto le superbe sopracciglia, e intanto, a poco a poco, il suo viso si allungava, quasi uscendo dalle giunture, istupidiva completamente, da niente trattenuto in quell'elementare sforzo di non perdere una sillaba. Parlava soltanto quando ci si rivolgeva direttamente a lui, e allora rispondeva alle domande per lo più a monosillabi, come malvolentieri, guardando da un'altra parte, sempre che quelle domande non oltrepassassero un certo ambito di questioni elementari, facili da risolvere. Talvolta gli riusciva di prolungare la conversazione per ancora un paio di domande al di fuori di quell'ambito, e questo con l'aiuto di un'infinità di atteggiamenti e gesti espressivi, di cui disponeva e che proprio per la molteplicità dei significati gli rendevano un servizio universale, riempiendo le lacune del discorso articolato e suscitando con la loro viva espressività mimica una suggestione di suoni intelligenti. Era però soltanto un'illusione che svaniva in fretta, e la conversazione cadeva tristemente, mentre lo sguardo dell'interlocutore si allontanava a poco a poco pensosamente da Dodo, che, abbandonato a se stesso, di nuovo ripiombava nella sua parte di comparsa e di passivo osservatore sullo sfondo della conversazione generale. Com'era infatti possibile continuare il discorso quando, per esempio, alla domanda se avesse accompagnato sua madre in campagna, rispondeva in tono minore: «Non so», e il suo era un triste e vergognoso dire la verità, giacché la memoria di Dodo non arrivava effettivamente oltre l'attimo precedente e la più prossima attualità. Dodo aveva avuto molto tempo prima, ancora nell'infanzia, una grave malattia al cervello, durante la quale era rimasto per molti mesi incosciente, più vicino alla morte che alla vita, e allorché infine, nonostante tutto, era guarito, apparve chiaro che era ormai in certo modo fuori circolazione e non apparteneva più alla comunità degli uomini raziocinanti. La sua educazione avvenne privatamente, quasi pro forma, con grande circospezione. Le pretese, ferme e intransigenti nel confronto degli altri, si attenuavano per Dodo, contenevano la loro severità, divenivano più indulgenti. Attorno a lui si era creata una sfera di strano privilegio, che lo separava, mediante una cintura di protezione, una zona neutrale, dalla pressione della vita e dalle sue esigenze. Tutti al di fuori di quella sfera erano assaliti dai suoi flutti, vi sguazzavano rumorosamente, si lasciavano trasportare, tutti presi e rapiti in una sorta di strano oblio di sé; dentro quella sfera, invece, non c'era che pace, e come una pausa, una cesura in quel generale tumulto. Così crebbe, e la singolarità del suo destino crebbe insieme con lui, quasi fosse stata di per se stessa comprensibile e senza opposizione da nessuna parte. Dodo non aveva mai avuto un abito nuovo, solo e sempre quelli usati del fratello maggiore.
Mentre la vita dei coetanei era suddivisa in fasi e periodi, articolata in avvenimenti determinanti, in momenti sublimi e simbolici onomastici, esami, fidanzamenti, promozioni la sua vita scorreva in un'indifferenziata monotonia, non turbata da alcunché di piacevole né di spiacevole, e anche il futuro si presentava come una strada uguale e uniforme senza avvenimenti né sorprese. Sbagliava chi avesse creduto che Dodo si opponesse interiormente a quello stato di cose. Lo accettava con semplicità come una forma di vita che gli era propria, senza meravigliarsi, con realistico assenso, con austero ottimismo, e si organizzava, sistemava i particolari, nei limiti di quella monotonia imperturbata. Ogni giorno, al mattino, usciva a spasso in città e faceva sempre lo stesso giro lungo tre strade che percorreva fino in fondo, per poi tornare a casa per la stessa strada. Vestito di un completo elegante, anche se usato, del fratello, le mani con cui teneva stretto il bastone all'altezza delle spalle, si muoveva con distinzione e senza fretta. Sembrava un signore in viaggio di piacere che visitasse la città. Quella mancanza di fretta, di una qualunque direzione o meta, che si esprimeva nei suoi movimenti, assumeva talvolta forme compromettenti, poiché Dodo si mostrava incline a incantarsi: davanti alle porte dei negozi, davanti alle officine dove si battesse o si eseguissero riparazioni, e perfino davanti a gruppi di persone in conversazione. La sua fisionomia aveva cominciato a maturare molto presto e, cosa strana, mentre i drammi e gli scossoni della vita si arrestavano sulla soglia di quell'esistenza, risparmiandone la vuota integrità, la straordinaria singolarità, i suoi lineamenti si erano formati su quelle vicende che accadevano suo malgrado, anticipavano un'irrealizzata biografia, che, delineata appena nella sfera del possibile, modellava e scolpiva quel viso in una maschera illusoria di grande tragico, piena della sapienza e della tristezza di tutti i tempi. Le sue sopracciglia si arcuavano magnificamente, immergendo nell'ombra i grandi e tristi occhi profondamente cerchiati. Intorno al naso affondavano due solchi, pieni di astratta sofferenza e illusoria saggezza, che correvano agli angoli della bocca e ancora più giù. La bocca, piccola e tumida, era dolorosamente chiusa e la mosca civettuola sul lungo mento borbonico gli conferiva un aspetto di anziano ed esperto buontempone. Non fu possibile evitare che quella sua privilegiata eccezionalità fosse scoperta, fiutata rapacemente dalla malevolenza umana, sempre perfidamente in agguato e avida di cibo. Capitava quindi sempre più spesso che egli trovasse compagnia durante le sue passeggiate mattutine, e dipendeva dalle condizioni di quella privilegiata eccezionalità che si trattasse di una compagnia di tipo speciale, non nell'accezione di cameratismo o di comunanza d'interessi, ma in senso altamente problematico e poco onorevole. Erano per lo più ragazzi considerevolmente più giovani che si affollavano intorno a lui, così pieno di dignità e di serietà, e i discorsi che facevano avevano un tono speciale, allegro e scherzoso, per Dodo bisogna riconoscerlo piacevoli e vivificanti. Quando camminava così, sovrastando con la testa quell'allegro e spensierato gruppetto, sembrava un filosofo peripatetico circondato dai suoi allievi, e sul suo volto, sotto la maschera di serietà e tristezza, si schiudeva un sorriso frivolo, nettamente in contrasto con l'elemento tragico dominante di quella fisionomia. Dodo ora tardava dalle sue passeggiate mattutine, ne rincasava con le chiome scomposte, l'abito leggermente in disordine, ma animato e incline a far allegre baruffe con Karola, la cugina povera accolta in casa dalla zia Retycja. Del resto, come per una sensazione di scarsa onorevolezza di quegli incontri, Dodo osservava a casa, su questo tema, una totale discrezione. Una volta o due si verificarono in quella monotona vita eventi che per formato erano al di sopra delle secche quotidiane. Una volta, uscito al mattino, non tornò per l'ora di pranzo.
Non tornò neppure per cena, né per il pranzo del giorno dopo. Zia Retycja era prossima alla disperazione. Ma quella sera arrivò, un po' spiegazzato, con la bombetta acciaccata e messa di traverso, ma per il resto in buona salute e con l'animo in pace. Fu difficile ricostruire la storia di quella scappata, verso la quale Dodo manteneva un assoluto silenzio. Probabilmente, incantatosi durante la passeggiata, si era inoltrato in un quartiere sconosciuto della città, forse lo avevano aiutato in questo i giovani peripatetici, sempre propensi a mettere Dodo in nuove e ignote condizioni di vita. Può darsi che fosse uno di quei giorni in cui Dodo mandava in vacanza la sua povera memoria affaticata, e dimenticava il suo indirizzo, perfino il cognome e le date, che del resto gli altri giorni aveva sempre presenti. Non riuscimmo mai a conoscere particolari più precisi di quell'avventura. Quando il fratello maggiore di Dodo andò all'estero, la famiglia si restrinse a tre o quattro persone. Oltre allo zio Hieronim e alla zia Retycja, c'era ancora Karola, che aveva la mansione di governante nella grande proprietà degli zii. Zio Hieronim non usciva più di camera da molti anni. Dal tempo in cui la Provvidenza gli aveva dolcemente tolto di mano il timone di quella nave della vita sconquassata e arenata in una secca, egli conduceva un'esistenza da pensionato, sopra una stretta striscia di terreno compresa fra il vestibolo e una buia alcova che gli era stata destinata. Vestito di un grembiule lungo fino a terra, se ne stava seduto in fondo all'alcova, di giorno in giorno sempre più ricoprendosi di un fantastico manto peloso. La lunga barba brizzolata (quasi bianca all'estremità delle lunghe ciocche) gli fluiva tutto intorno al viso, arrivava a metà guancia, lasciando libero soltanto il naso aquilino e due occhi che roteavano scoprendo il bianco all'ombra delle sopracciglia cespugliose. Nell'alcova buia, in quell'angusta prigione dove era costretto come un grosso gatto rapace a girare avanti e indietro davanti alla porta a vetri che dava sul salone, c'erano due enormi letti di quercia, giaciglio nuziale degli zii, mentre la parete dietro a quelli era interamente coperta da un grande arazzo che si intravedeva appena in quell'oscura profondità. Quando gli occhi si erano abituati al buio, fra i bambù e le palme spuntava un enorme leone, possente e lugubre come un profeta, maestoso come un patriarca. Seduti schiena contro schiena, il leone e zio Hieronim sapevano l'uno dell'altro, e si odiavano. Senza guardarsi, si minacciavano digrignando i denti e con sordi brontolii. A volte il leone irritato si alzava perfino sulle zampe, sollevava la criniera sul collo teso, e il suo ruggito minaccioso si propagava fino al nuvoloso orizzonte. Allora, a sua volta, zio Hieronim si ergeva sopra di lui con una tirata profetica, e il suo viso si modellava minacciosamente sui paroloni che gli sgorgavano dal petto, mentre la barba ondeggiava ispirata. Allora il leone restringeva dolorosamente gli occhi e voltava adagio la testa, girandosi sotto la potenza della parola divina. Quel leone e quel Hieronim riempivano la buia alcova degli zii con le loro eterne contese. Zio Hieronim e Dodo vivevano in quella ristretta abitazione quasi loro malgrado, in due diverse dimensioni, che si incrociavano senza mai toccarsi. I loro occhi, quando si incontravano, proseguivano oltre, l'uno al di là dell'altro come fra animali di due specie diverse e lontane che non si notano neppure incapaci di trattenere un'immagine estranea che attraversava loro velocemente la coscienza, non potendo essere da questa realizzata. Non si parlavano mai. Quando erano a tavola, zia Retycja, seduta fra marito e figlio, costituiva un confine fra due mondi, un istmo fra due mari di follia. Zio Hieronim mangiava agitandosi, la lunga barba gli ricadeva nel piatto. Se la porta scricchiolava in cucina, balzava a metà dalla sedia, afferrava il piatto della minestra, pronto a fuggire nell'alcova con la sua porzione per timore che qualche estraneo entrasse in casa.
Allora zia Retycja lo calmava: Non aver paura, non viene nessuno, è la domestica. Frattanto Dodo lanciava verso il padre terrorizzato dai globi lucenti degli occhi uno sguardo pieno di collera e di indignazione, borbottando fra sé disgustato: Pazzo da legare... Prima di essere assolto dai troppo complicati obblighi della vita e di ottenere il permesso di ritirarsi nel suo solitario rifugio entro l'alcova, zio Hieronim era un uomo di tutt'altro stampo. Chi lo conosceva da ragazzo, affermava che il suo temperamento irruente non conosceva freni né riguardi o scrupoli. Tutto soddisfatto, parlava agli ammalati inguaribili della morte che li aspettava. Approfittava delle visite di condoglianza per sottoporre a feroce critica, davanti alla famiglia costernata, la vita del defunto, per il quale non si erano ancora asciugate le lacrime. Alle persone che nascondevano qualche spiacevole e scabrosa questione personale, la ricordava a voce alta e con tono di scherno. Ma una notte tornò da un viaggio completamente trasformato e fuori di sé dallo spavento, tanto da cercare di nascondersi sotto il letto. Qualche giorno dopo si diffuse in famiglia la notizia che zio Hieronim aveva rinunciato a tutti i suoi complessi, dubbi e azzardati interessi, che gli erano cresciuti fin sopra la testa, che aveva abdicato su tutta la linea e definitivamente e incominciava una nuova vita, una vita contenuta da una regola stretta e severa, anche se a noi incomprensibile. La domenica pomeriggio andavamo tutti da zia Retycja per una piccola merenda familiare. Zio Hieronim non ci riconosceva.
Seduto nell'alcova, lanciava su quella riunione al di là della porta a vetri occhiate selvagge e terrorizzate. A volte, tuttavia, usciva improvvisamente dalla sua solitudine, col grembiule lungo fino a terra, la barba ondeggiante attorno al viso, e, facendo con le mani un gesto come se ci volesse dividere, diceva: E ora vi scongiuro, così come siete, separatevi, disperdetevi, di nascosto, in silenzio e senza farvi vedere... Poi, minacciandoci misteriosamente con un dito, a voce bassa aggiungeva: Dicono ormai universalmente: Dida. La zia lo spingeva con dolcezza nell'alcova, ma lui, sulla porta, si girava ancora una volta minacciosamente e ripeteva col dito alzato: Dida. Dodo non capiva subito. Ci arrivava lentamente: prima che la situazione si chiarisse nella sua mente, trascorreva qualche attimo di silenzio e di costernazione. Allora, posando gli occhi dall'uno all'altro, come per accertarsi che fosse accaduto qualcosa di allegro, scoppiava a ridere e rideva soddisfatto, rumorosamente, scuotendo la testa con aria di compassione e ripetendo fra le risa: Pazzo da legare... La notte scendeva sulla casa di zia Retycja, le vacche, munte, si strofinavano al buio contro le assi di legno, le ragazze dormivano già in cucina, dal giardino rifluivano bolle di ozono notturno che scoppiavano nella finestra aperta. Zia Retycja dormiva sprofondata nel suo grande letto.
Nell'altro letto stava seduto come un allocco sui cuscini zio Hieronim.
I suoi occhi scintillavano al buio, la barba gli ricadeva sulle ginocchia sollevate. Lentamente scese dal letto e si avvicinò in punta di piedi alla zia. Restò così sopra la dormiente, pronto a saltare come un gatto, con le sopracciglia e i baffi dritti. Il leone alla parete sbadigliò rapidamente e girò il capo. La zia, svegliatasi, si spaventò alla vista di quella testa stronfiante dagli occhi simili a faville. Su, va' a letto, disse scacciandolo come un galletto, con un gesto della mano. Si ritirò sempre sbuffando e guardandosi attorno con movimenti nervosi della testa. Nell'altra stanza giaceva Dodo. Dodo non sapeva dormire. I centri del sonno nel suo cervello malato non funzionavano regolarmente. Si contorceva, si avvoltolava nelle lenzuola, si girava da un fianco all'altro. Il materasso scricchiolava. Dodo sospirava profondamente, sbuffava, si sollevava sui cuscini senza saper che fare.
Quella vita non vissuta si tormentava, si torturava disperatamente, si contorceva come un gatto in gabbia. Nel corpo di Dodo, in quel corpo di scervellato, qualcuno invecchiava senza vivere, qualcuno maturava fino alla morte, senza una briciola di sostanza. A un tratto si mise a singhiozzare spaventosamente nel buio. Zia Retycja accorse precipitandosi dal letto: Che cos'hai, Dodo? Ti senti male? Dodo girò la testa con stupore: Chi? domandò. Perché piangi? domanda la zia. Non sono io, è lui... Chi, lui? Il murato... E chi è? Ma Dodo fece un gesto di rassegnazione: Eh..., e si voltò dall'altra parte. Zia Retycja tornò a letto in punta di piedi. Zio Hieronim la minacciò al passaggio col dito: Dicono ormai universalmente: Dida...
EDZIO.
I. Al nostro stesso piano, in un'ala stretta e lunga del cortile, abita Edzio con la sua famiglia. Edzio non è più da tempo un ragazzino, Edzio è un uomo fatto, dalla voce tonante e maschia, di cui si serve talvolta per cantare arie d'opera. Edzio ha una certa tendenza a diventare corpulento, ma non in forma spugnosa e molle, atletica piuttosto, e muscolosa. Di spalle è robusto come un toro, ma a che gli serve se le sue gambe, totalmente degenerate e informi, sono inabili all'uso? Quando si guardano le gambe di Edzio, non si sa bene in che cosa consista quella strana infermità. Sembra quasi che fra il ginocchio e la caviglia abbiano troppe giunture, almeno due articolazioni in più delle gambe normali. Niente di strano che all'altezza di quelle articolazioni in soprannumero le gambe si flettano tristemente, e non soltanto di fianco, ma anche in avanti e in tutte le direzioni. Edzio si muove dunque con l'aiuto di due stampelle, stampelle di ottima fattura, verniciate di un bel color mogano. Con quelle stampelle scende ogni giorno a comprare il giornale, e questa è la sua unica passeggiata e il suo unico svago. Fa pena vederlo arrancare per le scale. Le sue gambe si piegano irregolarmente, ora di fianco, ora all'indietro, si spezzano nei punti più impensati, mentre i piedi, piccoli e alti, simili a zoccoli di cavallo, battono sulle assi come blocchi di legno. Ma una volta che si trovi in piano, Edzio si trasforma inaspettatamente. Si raddrizza, il suo torso si gonfia magnificamente, il corpo prende slancio.
Appoggiandosi alle stampelle come a due braccioli, getta lontano davanti a sé le gambe, che urtano per terra con un martellio diseguale, poi sposta le stampelle e, riprendendo lo slancio, si butta con forza in avanti. E' con questi lanci del corpo che Edzio conquista lo spazio.
Talvolta, durante queste sue manovre sulle stampelle nel cortile riesce a dare, impiegando tutte le forze accumulate nelle lunghe ore trascorse in posizione sedentaria, con passione veramente magnifica, una dimostrazione di quell'eroico metodo di locomozione per l'ammirato stupore delle domestiche del pianterreno e del primo piano. Il suo collo allora si gonfia, sotto il mento si disegnano due pieghe, mentre sul viso, tenuto obliquo, dalle labbra strette per la tensione, appare furtiva una smorfia dolorosa. Edzio non ha un mestiere né un'occupazione, come se il destino, sobbarcandolo di quell'infermità, lo avesse in cambio tacitamente esonerato da quella maledizione dei figli di Adamo. All'ombra della sua infermità, Edzio approfitta in pieno di quell'eccezionale diritto all'ozio e nel profondo dell'animo è contento di quella sua privata, individuale transazione col destino. A volte, tuttavia, ci domandiamo come riempia il suo tempo questo giovane di più di vent'anni. Molto occupato lo tiene la lettura del giornale. Edzio è un lettore meticoloso. Alla sua attenzione non sfugge una sola noterella, né un solo annuncio. E quando finalmente arriva all'ultima pagina del quotidiano, per il resto della giornata non lo aspetta la noia, anzi. Soltanto allora ha inizio il suo vero lavoro, lavoro di cui Edzio si rallegra in anticipo. Dopo pranzo, mentre gli altri si coricano per il sonnellino pomeridiano, Edzio tira fuori i suoi grossi quaderni, li stende sul tavolo davanti alla finestra, prepara la colla, il pennello e le forbici e incomincia il suo piacevole e interessante lavoro, che consiste nel ritagliare gli articoli più importanti e nell'inserirli secondo un certo sistema nei suoi quaderni. Le stampelle, per ogni evenienza, sono pronte, appoggiate al davanzale della finestra, ma Edzio non ne ha bisogno dal momento che ha tutto sotto mano: e così, immerso in quel lavoro diligente, trascorre alcune ore fino alla merenda. Ogni due giorni Edzio si rade la barba rossiccia. Gli piace quell'operazione, con tutti i suoi accessori: l'acqua calda, il sapone che fa la schiuma e il rasoio che scorre liscio, dolce. Sciogliendo il sapone, affilando la lama alla coramella, Edzio canta, senza grande abilità né pretesa artistica, ma piuttosto alla buona, a gola spiegata, e Adela trova che ha una voce piacevole. A parte ciò, non tutto sembra filare liscio in casa di Edzio. Purtroppo fra lui e i genitori c'è un grave disaccordo, di cui non si conoscono le cause. Senza ripetere congetture o pettegolezzi, ci limiteremo ai fatti empiricamente accertati. Capita, generalmente verso sera, nella stagione calda, quando la finestra di Edzio è aperta, che ci arrivino echi di questi litigi.
Noi veramente udiamo solo una parte del dialogo, quella di Edzio, mentre la replica dei suoi interlocutori, nascosti in più lontane ubicazioni dell'appartamento, non ci raggiunge. E' difficile in tal modo riuscire a capire che cosa essi rimproverino a Edzio, ma dal tono della sua reazione si deve dedurre che egli sia punto sul vivo, quasi esasperato.
Le sue parole sono violente e avventate, dettate da un'eccessiva agitazione, ma il tono, per quanto collerico, è timoroso e meschino. Sì, è così, urla con voce lacrimosa, e con ciò?... Quando ieri?... Non è vero!... E se fosse così?... Non è vero quello che dice papà! e così prosegue per interi quarti d'ora, con la sola variante di qualche esplosione di dolore e di indignazione da parte di Edzio, il quale si dà grandi manate in testa e si strappa i capelli con furia incosciente. Ma a volte e questo è il vero punto culminante di queste scene, che le condisce con un brivido particolare sopraggiunge ciò che aspettavamo trattenendo il fiato. All'interno della casa sembra che qualcosa sbatta, porte si aprono con fracasso, mobili si rovesciano fragorosamente, poi arrivano le grida laceranti di Edzio. Stiamo ad ascoltare sconvolti e pieni di vergogna, ma anche di una straordinaria soddisfazione, al pensiero di quella selvaggia e fantastica violenza compiuta sulla persona di un giovane atletico, anche se impotente nelle gambe. Ii. Al crepuscolo, quando le stoviglie della cena precocemente consumata sono ormai lavate, Adela siede sul balcone dalla parte del cortile, non lontano dalla finestra di Edzio. Due lunghi balconi a ferro di cavallo corrono lungo il cortile, uno al pianterreno, l'altro all'altezza del primo piano. Nelle fessure di quei balconi di legno cresce l'erba, e in una spaccatura fra le assi è spuntata perfino una piccola acacia, che ondeggia ormai alta sul cortile. Oltre ad Adela, siedono qua e là, davanti alle loro porte, i vicini, abbandonati sopra sedie e poltroncine basse, siedono appassendo indistintamente in quella penombra, pieni di stanchezza per la giornata faticosa, come sacchi legati e muti, in attesa che il crepuscolo li sciolga dolcemente. In basso il cortile si impregna in fretta di oscurità, un'onda dopo l'altra, mentre in alto l'aria non vuole ancora rinunciare alla luce e splende tanto più chiara quanto più tutto si carbonizza e nereggia lugubremente in basso: risplende chiara, tremula e luccicante, oscurandosi appena al volo incerto di qualche pipistrello. Ma in basso è già iniziato il rapido e silenzioso lavoro del crepuscolo, già brulica di quelle formiche veloci e voraci che disgregano e demoliscono la sostanza delle cose, le rosicchiano fino a ridurle ossa bianche, scheletro e costole vagamente fosforescenti su quel triste campo di battaglia. Quei fogli bianchi, quegli stracci sopra il mucchio della spazzatura, quelle tibie non consunte della luce resistono a lungo nell'oscurità verminosa e non possono finire. Di volta in volta sembra che il crepuscolo li abbia ormai inghiottiti, ma poi di nuovo riappaiono e risplendono, a ogni istante perduti dagli occhi pieni di vibrazioni e di formiche; ma ormai non c'è più differenza fra quei resti di cose e le fantasie dell'occhio, che proprio allora comincia a vaneggiare come in sogno, finché ognuno siede nella propria atmosfera come in una nube di moscerini, avvolto in un danzante brulichio stellare che pulsa come un cervello, farneticante anatomia di un'allucinazione. Allora cominciano a levarsi dal fondo del cortile quelle venuzze d'aria, incerte ancora della propria esistenza e già pronte a rinunciarvi prima di giungere al nostro volto, quelle strisce di frescura di cui la notte estiva riveste dal di sotto le sue pieghe, come fosse una fodera di seta. E mentre in cielo si accendono le prime stelle luccicanti e sempre spolverate, si squarcia lentissimamente quel velo soffocante del crepuscolo intessuto di visioni turbinanti e si apre con un sospiro la notte estiva, profonda e nel suo fondo piena di polvere di stelle e di un remoto gracidare di rane. Adela si corica al buio nella biancheria gualcita e avvoltolata dalla notte precedente, e appena chiude gli occhi, inizia quell'inseguimento per tutti i piani e gli appartamenti della casa. Soltanto per i profani la notte estiva è riposo e oblio. Appena finiscono le attività del giorno e il cervello, affaticato, vorrebbe assopirsi e dimenticare, comincia quel disordinato andirivieni, quel confuso, immenso trambusto della notte di luglio.
Tutti gli appartamenti della casa, tutte le stanze e le alcove si riempiono allora di chiacchiere, di gente che gira, che va e viene in continuazione. Alle finestre si vedono lampade da tavolo col paralume, perfino i corridoi sono chiaramente illuminati, e le porte si aprono e si chiudono senza tregua. Un'unica vasta, confusa, semironica conversazione si addentra diramandosi fra continui malintesi per tutte le celle di quell'alveare. Al primo piano non sanno esattamente che cosa succede al pianterreno, e inviano messi con istruzioni urgenti. Volano i corrieri per tutti gli appartamenti, su per le scale, giù per altre scale, dimenticando per strada le istruzioni, continuamente richiamati indietro per nuovi ordini. E c'è sempre qualcosa da completare, sempre qualche questione da chiarire, e tutto quell'andirivieni fra risa e scherzi non porta alla soluzione. Soltanto le stanze laterali, non trascinate in quella grande sarabanda notturna, hanno un loro tempo particolare, cadenzato dal ticchettio degli orologi, dai monologhi del silenzio, dal respiro profondo dei dormienti. Là giacciono le balie ampie e gonfie di latte, dormono succhiando febbrilmente dai seni della notte, le guance in fiamme per l'estasi, mentre i neonati vagano lungo il loro sonno, a occhi chiusi, si aggirano carezzevolmente come animaletti fiutanti per la mappa azzurrina delle vene sulle bianche colline di quei petti, si arrampicano delicatamente, cercando con i volti ciechi la tiepida fessura, l'accesso a quel sonno profondo, finché le loro labbra sensibili trovano la poppa del sonno, la fida mammella colma di dolce oblio. Ma coloro che nei loro letti il sonno ha afferrato, non lo abbandonano più e lottano con esso come con l'angelo che sfugge, finché riescono a vincerlo, a stringerlo contro il lenzuolo, e con esso ronfano alternativamente, come se litigassero e si rinfacciassero irosamente la storia del loro odio. E quando quei lamenti e quei rimbrotti tacciono acquetati e tutta quella scorribanda si sgretola e si sperde negli angoli, una stanza dopo l'altra piomba nel silenzio e nel nulla: sale il commesso Leon a tastoni per le scale, sale lentamente con le scarpe in mano e cerca con la chiave al buio il buco della serratura. Torna come ogni notte dal lupanare, gli occhi iniettati di sangue, scosso dal singhiozzo, un filo di bava che gli cola dalla bocca semiaperta. Nella camera del signor Jakub la lampada è accesa ed egli, curvo sul tavolo, scrive a Chrystian Seipel e Figli, Filature e Tessiture Meccaniche, una lettera lunga molte pagine. Sul pavimento giace una lunga serie di fogli scritti, ma siamo ancora lontani dalla fine. Ogni momento egli balza di scatto dal tavolo e corre attorno alla stanza con le mani nei capelli arruffati, e mentre così si aggira, talvolta succede che si alzi in volo su per una parete, che voli lungo le tappezzerie come un grosso, indistinto moscerino e vagolando vada a sbattere contro gli arabeschi dei disegni alle pareti, per poi di nuovo correre sul pavimento, proseguendo la sua corsa ispirata tutto attorno.
Adela dorme profondamente, la sua bocca è dischiusa, il volto è allungato e assente, ma le palpebre abbassate sono trasparenti e sulla loro pergamena sottile la notte scrive il suo autografo, per metà testo e per metà disegno, pieno di freghi, correzioni e sgorbi. Edzio è nella sua camera, seminudo, e fa ginnastica con i pesi. Egli ha bisogno di molte forze, di forze raddoppiate nelle braccia, che sostituiscono le gambe impotenti, e perciò si esercita con zelo, si esercita di nascosto per notti intere. Adela scivola a ritroso, dietro di sé, nel nulla, e non può gridare, chiamare, impedire che Edzio salti dalla finestra.
Edzio esce sul balcone, senza stampelle, e Adela guarda con terrore se le gambe lo sostengano. Ma Edzio non tenta neppure di camminare. Come un grosso cane bianco, si avvicina carponi a grandi passi strascicati sulle assi risonanti del balcone, ed è già alla finestra di Adela. Come ogni notte preme il viso pallido e grasso, contratto da una smorfia dolorosa, contro il vetro che luccica al riflesso della luna e dice qualcosa con voce lamentosa, insistente, racconta piangendo che di notte gli chiudono le grucce nell'armadio e che perciò deve correre a quattro zampe come un cane. Adela è tuttavia inerte, completamente abbandonata al profondo ritmo del sonno che la percorre. Non ha neppure la forza di tirarsi la coperta sulle cosce nude, e non può impedire che per il suo corpo si aggirino le cimici, schiere e colonne di cimici. Quelle leggere e sottili foglioline torsi corrono sul suo corpo così delicatamente che essa non si accorge neppure di esserne sfiorata. Sono borsette piatte per il sangue, borsellini fulvi per il sangue, senza occhi e senza fisionomie, e ora marciano a clan interi, grande migrazione di popolo suddivisa per generazioni e famiglie. Corrono con le loro migliaia di gambe in movimento, in una passeggiata innumerevole, sempre più grandi, grandi come falene, come portafogli piatti, come grandi vampiri rossi senza testa, lievi e cartacei sulle loro gambe più sottili di una ragnatela. E quando anche le ultime cimici ritardatarie sono andate via, sparite ecco, ancora una, gigantesca, e poi l'ultima si fa silenzio, silenzio assoluto, e mentre le stanze si impregnano lentamente del grigiore dell'alba, attraverso i corridoi e gli appartamenti vuoti passa un sonno profondo. In tutti i letti giacciono persone con le ginocchia piegate e i volti gettati con forza di fianco, profondamente immersi, sprofondati nel sonno, e ad esso completamente abbandonati. Come uno riesce a impadronirsene, lo tiene spasmodicamente stretto col viso in fiamme e incosciente, mentre il respiro, sorpassandolo, vaga solitario per strade remote. Ed è davvero un'unica grande storia divisa in parti, in capitoli, in rapsodie distribuite fra quei dormienti. Quando uno si interrompe e tace, il secondo raccoglie il filo e così quel racconto prosegue sempre uguale in un ampio, epico zig zag, mentre essi giacciono nelle stanze di quella casa, inerti come i semi di papavero negli scomparti di una grossa, sorda testa di papavero, e crescono a quel respiro verso l'alba.
IL PENSIONATO.
Sono un pensionato nel senso letterale e integrale del termine, spinto molto lontano in questa qualità, seriamente avanzato, di grado molto elevato. Può darsi che sotto questo aspetto abbia perfino superato certi limiti estremi ed ammissibili. Non voglio nasconderlo, che c'è di tanto straordinario? A che scopo spalancare subito gli occhi e guardare con quel rispetto ipocrita, con quella gravità solenne, in cui c'è tanta segreta gioia per i peccati altrui? Quante persone mancano in fondo del tatto più elementare! Fatti del genere bisogna accettarli con l'aria più normale, con una certa noncuranza e con la leggerezza inerente a questo tipo di cose. Bisogna sorvolare e passare direttamente all'ordine del giorno, canterellando qualcosa fra i denti, così come faccio io agilmente e senza farmene un problema. Forse è per questo che sono un po' incerto sulle gambe e devo appoggiare i piedi lentamente e con precauzione, un piede dopo l'altro, e stare molto attento alla direzione. E' così facile scostarsene in questo stato di cose. Il lettore capirà che non posso essere troppo esplicito. La mia forma di esistenza è affidata in buona parte alla perspicacia e a questo riguardo necessita di molta buona volontà. Io dovrò farvi appello più di una volta, dovrò richiamarmi alle sue sottilissime sfumature, cui si può ricorrere solo con una discreta strizzatina d'occhio, per me particolarmente difficile a causa della rigidità della maschera disabituata ai movimenti mimici. Del resto, io non m'impongo a nessuno, sono ben lontano dal profondermi in ringraziamenti per l'asilo gentilmente accordatomi da qualcuno nella sua perspicacia. E a questa concessione rinuncio senza emozione alcuna, a freddo e con assoluta indifferenza. Non mi piace che qualcuno, assieme al beneficio della comprensione, mi presenti il conto della gratitudine. La cosa migliore è trattarmi con una certa leggerezza, con una sana mancanza di rispetto, scherzando amichevolmente. Sotto quest'aspetto i miei colleghi d'ufficio bonaccioni e semplici di spirito, i colleghi più giovani in ordine di gerarchia, hanno trovato il tono giusto. In ufficio vado ancora qualche volta per abitudine, intorno al primo di ogni mese, e mi fermo in silenzio vicino al tramezzo in attesa che si accorgano di me. Si svolge allora la scena seguente. A un certo momento il capufficio, il signor Kavvalkiewicz, posa la penna, fa segno con gli occhi agli impiegati e dice a un tratto, guardando nell'aria vuota come se non esistessi e portandosi una mano all'orecchio: Se l'udito non m'inganna, è lei, signor consigliere, quello che si trova fra noi qui nella stanza. Mentre così parla, i suoi occhi fissi nel vuoto molto sopra di me si fanno strabici e il volto sorride malizioso. Ho udito una voce negli spazi interplanetari e subito mi sono detto: questo deve essere il nostro amato signor consigliere! grida a voce alta, tutto teso, come se parlasse a qualcuno molto distante. Faccia un cenno, dunque, smuova almeno l'aria là dove sta sospeso. Lei vuole scherzare, signor Kavvalkiewicz, dico sottovoce guardandolo dritto in faccia, sono venuto per la mia pensione. Per la pensione! esclama il signor Kavvalkiewicz, guardando strabico per aria. Lei ha detto: per la pensione? Ma scherza, caro signor consigliere. Da tempo il suo nome è cancellato dalla lista dei pensionati. Per quanto tempo vuole ancora prendere la pensione, egregio signore? Ecco come scherzano con me, in modo calmo, vivificante e umano. Quella rozza giovialità, quel loro prendermi per un braccio senza tante cerimonie mi procura uno strano senso di sollievo. Esco di là riconfortato e più allegro, e mi affretto verso casa per portare nella mia stanza un po' di quel piacevole calore interno che già si sta volatilizzando. Altra gente, invece... Quella domanda importuna, mai pronunciata, che leggo continuamente nei loro occhi. Impossibile sottrarvisi. Ammettiamo pure che sia così: perché subito quei visi allungati, quelle facce solenni di circostanza, quel silenzio che per rispetto sembra ritrarsi, quella circospezione timorosa? Per non urtarmi neppure con una mezza parola, per tacere delicatamente il mio stato...
Come è facile afferrare questo gioco! Da parte della gente non è nient'altro che una forma di sibaritico compiacimento di sé, un modo di rallegrarsi di essere per fortuna diversi, una maniera violenta, ma mascherata dall'ipocrisia, di scongiurare segnandosi il mio stato. Si scambiano sguardi eloquenti e tacciono, lasciando che la cosa si sviluppi in silenzio. Il mio stato! Può darsi che non sia del tutto irreprensibile. Forse contiene una mancanza insignificante, ma di natura fondamentale. Mio Dio! e con ciò? Non è ancora una buona ragione per giustificare la loro subitanea e spaventata arrendevolezza. Talvolta mi viene una gran voglia di ridere, quando vedo quella comprensione che si fa improvvisamente seria, la premurosa considerazione con cui fanno, per così dire, posto al mio stato. Come se fosse un argomento del tutto inoppugnabile, definitivo, irrevocabile. Perché insistono tanto su questo punto, perché per loro è più importante di tutto il resto e constatarlo dà loro quella profonda soddisfazione che nascondono dietro una maschera di allarmata devozione? Ammettiamo che io sia, se si può dir così, un passeggero di peso leggero, in effetti di peso estremamente leggero, ammettiamo che mi mettano in imbarazzo certe domande per esempio: quanti anni ho, quand'è il mio onomastico, ecc. è forse questa una ragione sufficiente per girare senza tregua attorno a queste domande, come se soltanto in quelle stesse il nocciolo della faccenda?
Non che mi vergogni del mio stato. Tutt'altro. Ma non posso sopportare l'esagerazione con cui ingigantiscono il significato di un certo fatto, di una certa differenziazione, in realtà sottile come un capello. Mi fa ridere tutta quella falsa teatralità, quel pathos solenne che si è accumulato attorno alla questione, quel rivestire il momento di un costume tragico, pieno di lugubre pompa. Mentre in realtà? Niente che sia più privo di pathos, niente di più naturale, di più banale al mondo.
Leggerezza, indipendenza, irresponsabilità... E musicalità, una straordinaria musicalità delle membra, per esprimersi così. Non si può passare accanto a un organetto e non mettersi a ballare. Non di allegria, ma perché ci è tutto lo stesso, e la melodia ha una sua volontà, un suo ritmo ostinato. E allora si cede. «Margherita, tesoro dell'anima mia...» Si è troppo leggeri, troppo indifesi per opporsi a una proposta così allettante e così poco impegnativa, così senza pretese. Dunque io ballo, o piuttosto trotterello al ritmo della melodia, al piccolo trotto dei pensionati, saltellando di tanto in tanto. Pochi se ne accorgono, tutti occupati dagli andirivieni quotidiani. Di una cosa soltanto vorrei avvertire il lettore perché non si faccia un'idea esagerata delle mie condizioni. Vorrei metterlo esplicitamente in guardia dal sopravvalutarlo, e questo tanto in plus, quanto in minus. Soprattutto niente romanticherie. E' una condizione come un'altra, e come ogni altra reca in sé il marchio della più naturale comprensibilità e della banalità. Ogni aspetto paradossale scompare una volta che ci si trovi da questa parte del problema. Un grande disebriamento, così potrei chiamare il mio stato. Uno sbarazzarsi di tutti i pesi, una leggerezza di danza, un vuoto, una irresponsabilità, un livellamento delle differenze, una dissoluzione di tutti i legami, un allentamento dei confini. Niente mi trattiene e niente mi lega, mancanza di resistenza, libertà illimitata. Strana indifferenza con cui scivolo leggermente attraverso tutte le dimensioni dell'essere: dovrebbe essere veramente piacevole, non vi pare? Questo vivere senza fondo, questa ubiquità perenne, questa quasi totale assenza di preoccupazioni, indifferente e lieve... non posso lamentarmi. Esiste un modo di dire: non riscaldare mai troppo un posto. Ecco, è proprio questo: da tempo ho smesso di scaldarmi il posto. Quando dalla finestra della mia camera, situata molto in alto, guardo la città, i tetti, i muri e i comignoli alla luce plumbea di un'alba autunnale, quando osservo a volo d'uccello tutto quel paesaggio irto di costruzioni, appena uscito dalla notte, pallidamente albeggiante verso l'orizzonte giallo, ritagliato a strisce chiare dalle forbici nere e fluttuanti del gracchio delle cornacchie, ecco, io sento che questa è la vita. Gli altri, ognuno è fisso in se stesso in un giorno verso il quale si sveglia, in un'ora che gli appartiene, in un momento. Là, da qualche parte, in una cucina semibuia si prepara il caffè, la cuoca è uscita, il riflesso sporco della fiamma danza sul pavimento. Il tempo, ingannato dal silenzio, rifluisce per un attimo a ritroso, dietro di sé, e durante quei momenti supplementari la notte ricomincia a crescere sulla pelliccetta ondulata del gatto. Al primo piano Zosia sbadiglia a lungo e si stira languidamente, prima di aprire la finestra per scopare; l'aria della notte, dormita e russata a sazietà, pigramente si avvia alla finestra, l'oltrepassa, penetra adagio nel plumbeo e fumoso grigiore del giorno. La fanciulla affonda le mani esitanti nella pasta delle lenzuola ancora calda, lievitata dal sonno. Infine, con un brivido interno, gli occhi ancora pieni di notte, scuote alla finestra la grande trapunta rigonfia, e sulla città volano ciuffi di piume, stelline piumate, pigra semente delle fantasticherie notturne. Allora sogno di essere un garzone di fornaio, un montatore di impianti elettrici, o un esattore della Cassa Malattia. Oppure, almeno, uno spazzacamino. Al mattino, allo spuntare dell'alba, si entra in un portone appena dischiuso, alla luce della lanterna del portiere, alzando distrattamente due dita alla visiera, con una facezia sulle labbra, e si penetra in quel labirinto per lasciarlo a tarda sera, da qualche parte, all'altro capo della città. Durante tutto il giorno, passare da un'abitazione all'altra, tenere da un capo all'altro della città un'unica, incompiuta, confusa conversazione suddivisa fra i vari inquilini, domandare qualcosa in un appartamento e ottenere risposta nel seguente, lanciare una battuta in un posto e raccogliere a lungo nei successivi i frutti del riso. Fra lo sbattere di porte, infilarsi per stretti corridoi, in camere da letto ingombre di mobili, rovesciare vasi da notte, urtare carrozzine cigolanti, entro cui piangono bambini, chinarsi a raccogliere i sonagli perduti dai neonati. Trattenersi molto più del necessario nelle cucine e nelle anticamere, dove le domestiche scopano. Le fanciulle, sbrigandosi, stirano le gambe giovani, tendono il collo arcuato del piede, giocano, brillano con le loro scarpe a buon mercato, ciabattano rumorosamente con le pantofole troppo larghe. Questi sono i miei sogni nelle ore irresponsabili, fuori dei margini. Non li rinnego, benché veda che sono privi di senso. Ognuno dovrebbe conoscere i limiti della sua condizione e sapere che cosa gli conviene. Per noi pensionati l'autunno è in generale una stagione pericolosa. Chi sa con quanta fatica si giunge, nel nostro stato, a una certa stabilità e come è difficile proprio per noi pensionati evitare le dispersioni, lo smarrirsi di propria mano, capirà che l'autunno con le sue burrasche, le sue perturbazioni e confusioni atmosferiche, non favorisce la nostra già così precaria esistenza. Possono esserci, tuttavia, in autunno giorni diversi, pieni di calma e di riflessione, che ci sono favorevoli. Capitano talvolta di queste giornate senza sole, tiepide, brumose e ambrate sui bordi lontani. Negli interstizi fra le case si apre a un tratto una vista in profondità, sopra un lembo di cielo che scende in basso, sempre più in basso, fino a quell'estremo giallo diffuso degli ultimi orizzonti. In quelle prospettive che si aprono sulle profondità del giorno, lo sguardo si aggira come nell'archivio di un calendario e, come in sezione, distingue le stratificazioni del giorno, le registrazioni infinite del tempo, che scorrono in due spalliere nella gialla e luminosa eternità.
Tutto ciò si sovrappone e si ordina nelle fulve e remote formazioni del cielo, mentre in primo piano restano il giorno e il momento attuali, e raramente qualcuno solleva gli occhi verso le scaffalature lontane di quell'illusorio calendario. Curvi a terra, tutti si affrettano da qualche parte, scansandosi impazienti, e la strada è completamente segnata dalle linee di queste corse, di questi incontri e schivamenti.
Ma in questa breccia fra le case, di dove lo sguardo spazia su tutta la parte bassa della città, su tutto quel panorama architettonico che una fascia luminosa, svanente verso gl'incerti orizzonti, illumina da dietro, c'è un intervallo e una pausa a quel tumulto. Là, in una piazzetta allargata e chiara, si sega la legna per la scuola comunale.
Si innalzano là, a prismi e cubi, le cataste di legno sano, vigoroso, che fonde lentamente, ceppo dopo ceppo, sotto le seghe e le asce dei taglialegna. Ah, la legna, fida, onesta, pienamente valida materia del reale, integra e limpida fino in fondo, incarnazione della rettitudine e della prosa della vita. Per quanto profondamente tu le frughi dentro fino al midollo, non troverai mai niente che essa non abbia già rivelato in superficie, semplicemente e senza riserve, sempre ugualmente sorridente e chiara, di quel caldo e sicuro chiarore della sua polpa fibrosa, tessuta a imitazione del corpo umano. In ogni fresca spaccatura del ceppo tagliato appare un volto nuovo, e tuttavia sempre lo stesso, sorridente e dorato. Straordinario colorito del legno, caldo senza esaltazioni, perfettamente sano, profumato e piacevole. Attività veramente sacramentale, piena di gravità e di simbolismo. Spaccare legna! Potrei restare per ore così, in quella breccia chiara, aperta nelle profondità del tardo pomeriggio, e guardare le seghe che suonano melodiosamente, il lavoro uniforme delle asce. Qui c'è una tradizione antica come il genere umano. In quella breccia chiara del giorno, in quella lacuna del tempo, aperta sopra un'eternità gialla e appassita, si tagliano quintali di legna di faggio dai tempi di Noè. Gli stessi gesti patriarcali ed eterni, gli stessi colpi, gli stessi piegamenti. Stanno fino alle ascelle in mezzo a quelle strutture dorate e a poco a poco penetrano nei cubi e nelle cataste di legna, ricoperti di segatura, con una piccola scintilla riflessa negli occhi; si incastrano sempre più profondamente nella polpa tiepida e sana, nella massa compatta e ad ogni colpo hanno un guizzo dorato negli occhi, come se cercassero qualcosa nel fondo del legno, come se a furia di tagliare volessero farne uscire quella salamandra d'oro, quello stridulo animaletto di fuoco che sempre più si rintana nel fondo del midollo. No, essi dividono semplicemente il tempo in schegge minute, lo amministrano, riempiono le cantine di un avvenire solido, uniformemente tagliato, per i mesi invernali. Purché riesca a superare questo periodo critico, queste poche settimane, ben presto cominceranno le prime gelate mattutine e l'inverno. Come mi piace questo preludio all'inverno ancora senza neve, ma con l'odore di gelo e di fumo nell'aria. Ricordo certi pomeriggi domenicali durante un autunno tardivo. Supponiamo che per tutta la settimana precedente abbia piovuto, un lungo acquivento autunnale, finché la terra si sia saturata d'acqua, e che adesso invece incominci ad asciugare e a farsi opaca in superficie, esalando un freddo vigoroso e sano. Il cielo di tutta la settimana, con la sua coltre di nubi a brandelli, si è rappreso come fango da una sola parte della volta celeste dove si accumula nero, pieghettato e grinzoso, mentre da occidente cominciano a filtrare lentamente i sani, verdi colori della sera autunnale che punteggiano il paesaggio nuvoloso. E mentre da quella parte il cielo si rasserena a poco a poco, secernendo un chiarore trasparente, passano le domestiche con il vestito della domenica, passano a gruppi di tre o quattro tenendosi per mano lungo la strada vuota, pulita a festa, quasi asciutta fra le casette della periferia, colorate in quell'acerba tonalità dell'aria che si imporpora prima del crepuscolo; passano colorite e arrotondate in viso per il freddo sano, e posano elasticamente i piedi nelle strette scarpe nuove. Piacevole, commovente ricordo estratto dal ripostiglio della memoria! In questi ultimi tempi sono andato quasi ogni giorno in ufficio. Capita di tanto in tanto che qualcuno si ammali, e allora mi permettono di lavorare al suo posto. A volte qualcuno ha più semplicemente un affare urgente da sbrigare in città e si fa sostituire in ufficio. Purtroppo, non è un lavoro regolare. E tuttavia è piacevole avere, anche se per qualche ora soltanto, la propria sedia con il cuscino di cuoio, i propri righelli, le proprie matite e penne.
E' piacevole essere urtati o addirittura rimbrottati cameratescamente dai propri colleghi. Qualcuno si rivolge a noi, ci dice qualche parola, ci prende in giro, scherza: e si rifiorisce per un attimo. Ci si attacca a qualcuno, si aggancia la propria esistenza vagabonda e il proprio nulla a qualcosa di vivo e caldo. Poi l'altro se ne va, e non sente il mio peso, non si accorge che mi porta con sé, che io parassito per un attimo nella sua vita... Ma da quando è arrivato il nuovo capufficio anche questo è finito. Siedo ora spesso, se fa bel tempo, su una panchina nella piazzetta di fronte alla scuola comunale. Dalla strada accanto arriva il rumore sordo delle asce che spaccano la legna. Ragazze e giovani donne tornano dal mercato. Alcune hanno sopracciglia severe e regolari, e camminano guardando da sotto in su con aria minacciosa, svelte e corrucciate: angele con la sporta piena di verdura e di carne.
Talvolta si fermano davanti ai negozi e si specchiano nelle vetrine. Poi se ne vanno, dopo aver gettato dall'alto uno sguardo fiero e ispezionante dietro di sé, alla punta delle proprie scarpe. Alle dieci esce il custode sulla soglia della scuola e la sua stridula campanella riempie di frastuono la strada. Allora l'interno della scuola sembra improvvisamente gonfiarsi di un trambusto violento, che per poco non fa saltare per aria l'edificio. Come se fossero fuggiaschi, da quella generale baraonda schizzano fuori della porta con la rapidità di un fulmine ragazzini cenciosi che volano giù schiamazzando dagli scalini di pietra, per poi mettersi, una volta in libertà, a saltare come matti e a improvvisare folli scorribande fra un gran roteare di occhi. A volte in quelle corse sfrenate si spingono fino alla panchina, lanciano al volo verso di me incomprensibili ingiurie. Le loro facce sembrano sgangherarsi per le smorfie violente che mi rivolgono. Come un gregge di scimmie indaffarate a commentare, parodiandole, le loro prodezze da pagliacci, la banda mi passa accanto gesticolando con un baccano d'inferno. Vedo allora i loro nasi all'insù e appena accennati che non riescono a trattenere il gocciolio, le loro bocche squarciate da un grido e coperte di bolle, i piccoli pugni stretti. Capita che si fermino un momento accanto a me. Cosa strana, mi prendono per un coetaneo. La mia statura è da tempo in diminuzione, il mio viso, afflosciato e molle, ha assunto un aspetto infantile. Sono un po' imbarazzato quando mi urtano senza cerimonie. Quando per la prima volta uno di loro mi colpì alla sprovvista sul petto, rotolai sotto la panchina. Ma non mi offesi.
Mi tirarono fuori di là beatamente confuso e incantato da un così fresco e vivificante comportamento. Il fatto che non mi offenda per la violenza del loro impetuoso savoirvivre mi conquista gradatamente rispetto e popolarità. E' facile indovinare che da allora rifornisco assiduamente le mie tasche di un'adeguata collezione di bottoni, sassolini, rocchetti di filo, pezzetti di gomma. Ciò facilita enormemente gli scambi di idee e costituisce una piattaforma naturale per stringere amicizia. Inoltre, tutti presi da interessi materiali, prestano meno attenzione a me. Con la scusa dell'arsenale estratto dalle tasche, non ho più da temere che la loro curiosità e la loro indiscrezione diventino troppo insistenti nei miei confronti. Finalmente ho deciso di mettere in pratica una certa idea che da un po. di tempo mi rode dentro sempre più insistente. Era una giornata senza vento, dolce e pensierosa, una di quelle giornate di tardo autunno in cui l'anno, esauriti tutti i colori e le sfumature della stagione, sembra tornare ai registri primaverili del calendario.
Il cielo senza sole era disposto a strisce colorate, sereni strati di cobalto, verderame e acquamarina, chiusi all'orlo da un nastro di un bianco puro come l'acqua: un colore da aprile, inesprimibile e dimenticato da tempo. Indossai i miei abiti migliori e uscii in città non senza una certa tremarella. Camminai in fretta, senza impedimenti, nell'atmosfera tranquilla di quella giornata, senza sgarrare una sola volta dalla retta via. Salii di corsa i gradini di pietra. «Alea iacta est», mi dicevo, bussando alla porta della segreteria. Mi fermai in atteggiamento modesto davanti alla scrivania del direttore, come si addiceva alla mia nuova situazione. Ero un po. confuso. Il direttore estrasse da una scatoletta di vetro un maggiolino infilzato in uno spillo e se lo avvicinò di sbieco all'occhio, guardandolo sotto la luce.
Aveva le dita macchiate d'inchiostro, le unghie corte e tagliate dritte.
Mi guardò al di sopra degli occhiali. Il signor consigliere vorrebbe iscriversi alla prima classe? mi disse. Molto lodevole e degno di stima.
Capisco, il consigliere vuole ricostruire la sua educazione dalle basi, dalle fondamenta. Lo ripeto sempre: grammatica e tabelline delle moltiplicazioni, ecco le basi dell'istruzione. Naturalmente non possiamo trattare il consigliere come uno scolaro sottoposto alla disciplina scolastica. Piuttosto come uditore, come veterano dell'abbicì, per così dire, che dopo una lunga vita errabonda è approdato in certo qual modo di nuovo al banco di scuola. Ha puntato la sua nave per così dire in disarmo verso questo porto. Sì, sì, signor consigliere, non sono molti quelli che ci dimostrano tanta gratitudine, tanta riconoscenza per i nostri meriti da tornare, dopo una vita di lavoro, una vita di difficoltà da noi, per fermarsi qua definitivamente come volontari ripetenti a vita. Il signor consigliere beneficerà qui di diritti eccezionali. Ho sempre detto... Mi scusi, lo interruppi, ma vorrei far notare che, per quanto riguarda i diritti eccezionali, vi rinuncio completamente... Non desidero privilegi. Anzi, al contrario... Non vorrei in alcun modo differenziarmi dagli altri, certo, ci tengo a confondermi il più possibile, a sparire nella massa grigia della classe.
Tutto il mio progetto mancherebbe il suo scopo se fossi in una cosa qualsiasi privilegiato rispetto agli altri. Perfino per le punizioni corporali, e qui sollevai il dito, ne riconosco in pieno l'efficacia salutare e moralizzatrice, e pongo come chiara condizione che a questo riguardo non si faccia alcuna eccezione nei miei confronti. Molto lodevole, molto pedagogico, disse il signor direttore approvando.
Ritengo inoltre, aggiunse, che la sua istruzione, a causa del lungo disuso, già mostri in realtà certe lacune. Generalmente, a questo proposito noi ci lasciamo andare a ottimistiche illusioni, che è facile dissipare. Si ricorda ancora, per esempio, quanto fa cinque per sette?
Cinque per sette... ripetei confuso, sentendo che quella confusione, affluendo al cuore come un'ondata dolce e tiepida, velava di nebbia la chiarezza delle mie idee. Colpito dalla mia ignoranza come da una rivelazione, semiaffascinato dall'idea di tornare realmente all'incoscienza infantile, cominciai a balbettare e a ripetere: cinque per sette, cinque per sette... Ebbene, vede, disse il direttore, quale miglior momento per iscriversi di nuovo a scuola? Poi, presomi per mano, mi accompagnò in classe, dove si stava facendo lezione. Di nuovo, come mezzo secolo prima, mi trovavo nella baraonda di quella sala buia e formicolante di teste in movimento. Me ne stavo là in mezzo, piccolo, sempre attaccato alle falde del vestito del direttore, mentre cinquanta paia di giovani occhi mi scrutavano con l'indifferente, crudele oggettività delle bestiole che vedono un individuo della loro stessa specie. Da più parti mi si indirizzarono boccacce, mi giunsero smorfie di una rapida e banale ostilità, si tirò fuori la lingua. Non reagivo a quelle provocazioni, memore della buona educazione ricevuta un tempo.
Osservando quei visi mobili, pieni di inutili smorfie, mi tornò in mente una stessa situazione di cinquant'anni prima. Allora stavo accanto a mia madre che parlava di me con la maestra. Adesso, al posto di mia madre, il signor direttore bisbigliava qualcosa nell'orecchio del signor maestro, che faceva di sì con la testa e mi osservava attentamente. E' un orfano, disse infine rivolto alla classe, non ha né padre né madre, non maltrattatelo troppo. A questa presentazione gli occhi mi si riempirono di lacrime, vere lacrime di tenerezza, mentre il direttore, anch'egli commosso, mi spingeva verso il primo banco. Da allora è cominciata per me una nuova vita. La scuola mi ha assorbito subito completamente. Mai, dal tempo della mia vecchia vita, ero stato così occupato da mille faccende, intrighi e interessi. Vivevo in un unico grande affaccendamento. Al di sopra del mio capo si incrociavano a migliaia i più diversi interessi. Mi si trasmettevano segnali e telegrammi, mi si indirizzavano cenni d'intesa, si faceva pissipissi, si ammiccava e in tutti i modi mi si ricordavano a gesti i mille impegni che avevo assunto. A stento riuscivo ad aspettare la fine della lezione, durante la quale, per innata buona creanza, sopportavo con stoicismo tutti gli attacchi per non perdere una sola parola degli insegnamenti del maestro. Ma appena si diffondeva il suono della campanella quella masnada urlante mi si rovesciava addosso, mi assaliva con rozza violenza, riducendomi quasi a pezzi. Accorrevano dal di dietro scavalcando i banchi, facendo risuonare i piani di legno, saltavano sopra la mia testa, facevano le capriole sopra di me. Ognuno mi berciava nell'orecchio le sue richieste. Ero diventato il centro di tutti gli interessi: le più importanti transazioni, gli affari più complicati e scabrosi non potevano fare a meno della mia partecipazione. Camminavo per strada sempre attorniato da una marmaglia rumorosa e veementemente gesticolante. I cani ci aggiravano di lontano con le code ritte, i gatti saltavano sui tetti al nostro avvicinarsi, e i bambini soli che incontravamo per strada nascondevano la testa fra le braccia con passivo fatalismo, preparati al peggio. L'insegnamento scolastico non aveva minimamente perso ai miei occhi il fascino della novità. Per esempio, l'arte del sillabare. Il maestro si richiamava semplicemente alla nostra ignoranza, sapeva farla affiorare con grande sagacia e abilità, arrivava infine in noi a quella tabula rasa, che è la base di ogni insegnamento.
Dopo aver così sradicato dentro di noi tutti i pregiudizi e le abitudini, cominciava a istruirci dalle fondamenta. A stento e con fatica scandivamo melodiosamente le sillabe sonore, tirando su col naso nelle pause e spremendo dal libro col dito una lettera dopo l'altra. Il mio abbecedario recava le stesse tracce dell'indice, più fitte alle lettere difficili, degli abbecedari dei miei compagni. Una volta, non ricordo più per quale ragione, entrò in classe il direttore e in mezzo al silenzio che immediatamente si diffuse, segnò col dito tre di noi, tra i quali c'ero anch'io. Dovemmo subito seguirlo in direzione.
Sapevamo che cosa ciò significasse, e i miei due complici cominciarono subito a belare. Contemplavo con indifferenza il loro tardivo pentimento, i visi deformati dal pianto improvviso, come se con le prime lacrime fosse loro caduta la maschera umana, mettendo a nudo la polpa informe della carne piangente. Quanto a me, ero calmo e, con la determinazione delle nature morali e giuste, mi lasciavo andare al corso delle cose, pronto a sopportare con stoicismo le conseguenze dei miei atti. Quella forza di carattere che poteva apparire durezza, non piacque al signor direttore, allorché tutti e tre noi colpevoli ci ritrovammo davanti a lui in direzione (il signor maestro assisteva a quella scena con la verga in mano). Con fare indifferente mi slacciai la cintura, ma il signor direttore, accortosene, gridò: Vergogna, è mai possibile? A quell'età! e guardò scandalizzato il signor maestro. Strano capriccio di natura, aggiunse con una smorfia di disgusto. Poi, congedati i piccoli, mi tenne un lungo e grave sermone, pieno di disapprovazione e di rammarico. Ma non lo capivo. Rosicchiandomi macchinalmente le unghie, guardai ottusamente davanti a me e poi dissi: Scusi, signol maestlo, è stato Wacek a sputale sul panino del signol maestlo. Ero ormai davvero un bambino. Per la ginnastica e il disegno andavamo in un'altra scuola, dove c'erano speciali attrezzature e aule per queste materie. Marciavamo a due per due, chiacchierando accanitamente e portando in ogni strada per cui giravamo l'improvviso fracasso dei nostri mischiati soprani.
Quella scuola era un grande edificio di legno ricavato da una sala di teatro, vecchio e pieno di annessi. L'interno dell'aula di disegno rassomigliava a un immenso stabilimento di bagni: il soffitto era sorretto da colonne di legno, sotto il soffitto correva tutto attorno una galleria di legno che noi invademmo subito, prendendo d'assalto le scale che risonavano sotto i nostri piedi come un temporale. I numerosi camerini laterali servivano perfettamente per giocare a nascondino. Il professore di disegno non veniva mai, noi ci divertivamo a più non posso. Di tanto in tanto capitava nell'aula il direttore di quella scuola, che metteva nel cantuccio qualcuno fra i più rumorosi, tirava le orecchie a un altro paio dei più scatenati, ma appena si girava verso la porta, subito alle sue spalle si riaccendeva il tumulto. Non udivamo la campanella che annunciava la fine delle lezioni. Fuori era un pomeriggio autunnale, breve e colorato. A prendere alcuni ragazzi venivano le madri, che se li portavano via riluttanti, fra rimproveri e botte. Ma per gli altri, privi di una così sollecita assistenza familiare, il vero e proprio divertimento cominciava appena allora. Solo più tardi, al crepuscolo, il vecchio custode, chiudendo la scuola, ci cacciava a casa.
Al mattino, quando uscivamo per andare a scuola, regnava ancora una fitta oscurità. La città era profondamente addormentata. Avanzavamo a tentoni con le mani tese, frusciando con i piedi nelle foglie secche che invadevano a mucchi le strade. Camminando ci tenevamo ai muri delle case per non perderci. All'improvviso, in una nicchia, palpavamo con la mano il viso di un compagno che camminava nella direzione opposta. Quante risate ne nascevano allora, quanti indovinelli e sorprese. Alcuni avevano candelotti di sego, li accendevano e la città era tutta disseminata di queste processioni di moccoli che avanzavano quasi raso terra, in un tremulo zigzag, si incontravano e si fermavano per illuminare un albero, un cerchio di terra, un mucchio di foglie appassite, in mezzo alle quali i più piccoli cercavano le castagne. Ma già in alcune case si accendono al piano superiore le prime lampade, la luce incerta esce ingigantita dai riquadri dei vetri nella notte urbana, per deporsi in grandi figure sulla piazza davanti a casa, sul palazzo comunale, sulle cieche facciate delle altre case. E quando qualcuno va da una stanza all'altra con una lampada in mano, fuori, quegli enormi rettangoli di luce ruotano come pagine di un libro immenso e la piazza sembra muoversi con tutti i suoi edifici e spostare le ombre e le case, come se facesse un solitario con un gran mazzo di carte. Infine arrivavamo a scuola. I moccoli si spegnevano, l'oscurità ci circondava, e al buio raggiungevamo a tastoni i nostri posti nei banchi. Poi entrava il maestro, introduceva una candela in una bottiglia, e cominciava una noiosa interrogazione sui sostantivi e le declinazioni. In mancanza di luce, l'insegnamento si faceva mnemonico e verbale. Mentre qualcuno recitava con monotonia, guardavamo strizzando gli occhi le frecce dorate e i contorti zigzag che scaturivano dalla candela e si impigliavano, frusciando come paglia, alle nostre ciglia socchiuse. Il maestro versava l'inchiostro nei calamai, sbadigliava, guardava la notte nera attraverso la finestra bassa. Sotto i banchi regnava una fitta ombra. Ci tuffavamo là dentro, soffocando le risa, ci aggiravamo a quattro gambe fiutandoci come animali, compivamo al buio e sottovoce le solite transazioni. Non dimenticherò mai quelle beate ore premattutine a scuola, mentre al di là dei vetri sorgeva lentamente l'alba. Venne infine l'epoca dei venti autunnali. Quel giorno, fin dal mattino il cielo si era fatto giallo e tardivo, modellandosi su quello sfondo in linee grigiastre di immaginari paesaggi, di vasti e nuvolosi deserti, che si allontanavano prospetticamente in quinte sempre più piccole di colline e solchi, e si infittivano rimpicciolendo fino laggiù ad oriente, dove il cielo si squarciava improvvisamente come il bordo ondeggiante di un sipario che si alzi e mostrava un altro piano successivo, un cielo più profondo, una breccia di un pallore spaventato, la luce pallida e sgomenta di una più remota lontananza: luce incolore, trasparente come l'acqua, con cui, come in un estremo stupore, terminava e si chiudeva quell'ultimo orizzonte. Come nelle incisioni di Rembrandt si potevano vedere in quei giorni, sotto quella fascia luminosa, regioni lontane, microscopicamente chiare che, finora mai viste, si levavano adesso al di là dell'orizzonte sotto quella chiara fenditura di cielo, inondate da una luce pallida e violenta, panica, come emerse da un'altra età e da un altro tempo, come una terra promessa mostrata solo per un istante ai popoli languenti. In quel paesaggio miniaturistico e chiaro si riusciva a distinguere con straordinaria acutezza, benché appena visibile in quella lontananza, un treno che avanzava sopra i binari di una sinuosa ferrovia gonfiandosi di un nastro bianco argenteo di fumo, per poi svanire nel nulla luminoso.
Ma poi si levò il vento. Scaturì come erompendo da quella chiara breccia del cielo, turbinò e si rovesciò sulla città. Era tutto mollezza e amabilità, ma per una strana forma di megalomania recitava la parte del bruto e del violento. Impastava, rovesciava e tormentava l'aria fino a farla morire di beatitudine. All'improvviso si irrigidiva nello spazio e si impennava, si dispiegava come le vele di una nave, come immense lenzuola tese, schioccanti sotto i colpi di una frusta, si attorcigliava in nodi solidi, frementi di tensione, con espressione severa, quasi volesse legare strettamente tutta l'aria al vuoto, ma poi tirava l'estremità traditrice, scioglieva quel falso nodo scorsoio, e già lontano un miglio lanciava con un sibilo il suo lazo, la sua corda strangolatrice che non afferrava niente. E cosa non combinava col fumo dei comignoli! Il povero fumo non sapeva più come evitare i suoi rimbrotti, come chinare il capo a destra o a sinistra sotto i suoi colpi. Così spadroneggiava per la città, come se quel giorno volesse stabilire una volta per tutte un memorabile esempio del proprio illimitato arbitrio. Fin dal mattino avevo il presentimento di una disgrazia. A fatica attraversai la burrasca. Agli angoli delle strade, agli incroci delle correnti i compagni mi tenevano per le falde della giacca. Così attraversai la città e tutto andò bene. Poi andammo a fare ginnastica nell'altra scuola. Per strada ci comprammo delle ciambelle.
Il lungo serpente di ragazzi disposti a due per due penetrò chiacchierando fitto fitto dentro la scuola attraverso il portone.
Ancora un istante e sarei stato salvo, in luogo sicuro, tranquillo fino a sera. In caso di necessità potevo perfino pernottare nell'aula di ginnastica. I fidi compagni mi avrebbero fatto compagnia durante la notte. Disgrazia volle che Wicek avesse ricevuto in dono proprio quel giorno una trottola nuova e che la facesse andare con grande slancio davanti alla soglia della scuola. La trottola ronzava, si creò un ingorgo attorno all'ingresso. Fui spinto fuori dall'area del portone e in quell'istante fui trascinato via. Cari compagni, aiuto! gridai già sospeso per aria. Vidi ancora le loro mani tese e le loro bocche aperte in un grido, un attimo dopo facevo una capriola e prendevo il volo lungo una splendida linea ascendente. Ormai volavo alto sopra i tetti e così volando senza respiro vedevo con gli occhi dell'immaginazione i miei compagni in classe alzare le mani gesticolando violentemente e gridare al maestro: «Scusi, signor maestro, Sczymcio l'hanno portato via!» Il signor maestro guardò attraverso gli occhiali, si avvicinò tranquillamente alla finestra e, facendosi schermo con la mano sugli occhi, scrutò attentamente l'orizzonte. Ma non poteva più vedermi. Il suo viso, allo scialbo riflesso del cielo fulvo, si incartapecorì tutto.
Bisogna cancellarlo dall'elenco, disse con espressione amara, e andò verso il tavolo. E io, io fui portato in alto, sempre più in alto, verso gli spazi gialli e inesplorati dell'autunno.
SOLITUDINE.
Da quando posso andare in città, per me è un grosso sollievo. Ma per quanto tempo non ho lasciato la mia stanza! Sono stati mesi e anni amari. Non so spiegarmi come mai questa sia la mia vecchia camera d'infanzia, l'ultima dal balcone, fin da quei tempi raramente frequentata, sempre dimenticata, come se non appartenesse alla casa. Non ricordo più come ci sono arrivato. Mi sembra che fosse una notte chiara, una notte senza luna, trasparente come l'acqua. Vedevo ogni particolare nel chiarore grigio. Il letto era disfatto, come se qualcuno l'avesse lasciato appena allora; rimasi ad ascoltare in silenzio se per caso non si udisse il respiro di qualche dormiente. Ma chi mai poteva respirarvi?
Da allora abito qui. Siedo qui da anni e mi annoio. Se almeno avessi pensato per tempo a far provviste! Ah, voi che ancora potete, che avete ancora un po' di tempo a disposizione per farlo, raccogliete provviste, mettete da parte il grano, il buon grano nutriente e dolce, perché verrà il lungo inverno, verranno anni magri e di fame, e non fruttificherà il suolo in terra d'Egitto. Purtroppo non ho fatto come l'operoso criceto, sono stato come uno spensierato topo di campagna, ho vissuto giorno per giorno senza preoccuparmi del domani, fiducioso nel mio talento di digiunatore. Come un topo pensavo fra me: che cosa potrà mai farmi la fame? Nel peggiore dei casi posso rodere anche il legno o ridurre col musino la carta in minuscoli ritagli. L'animale più povero, il grigio topo di chiesa all'ultimo posto nel libro della creazione riesce a vivere di niente. Ed è proprio così che io vivo di niente in questa camera morta. Le mosche da un pezzo vi sono crepate, una dopo l'altra.
Appoggio l'orecchio al legno per sentire se per caso non vi scricchioli un tarlo. Silenzio di tomba. Soltanto io, topo immortale, solitario figlio postumo, fruscio leggero in quella stanza morta, percorro senza fine il tavolo, la libreria, le sedie. Scivolo simile alla zia Tekla, nel vestito grigio lungo fino a terra, piccolo, agile, rapido, trascinandomi dietro il codino frusciante. Siedo adesso alla chiara luce del giorno, immobile davanti al tavolo, come impagliato: i miei occhi, simili a due perle di vetro, sporgono luccicanti. Solo la punta del musino vibra appena percettibilmente, masticando fitto fitto per abitudine. Tutto ciò, è naturale, va inteso metaforicamente. Sono un pensionato, non un topo. Dipende da una caratteristica della mia esistenza che io parassiti nelle metafore, che mi lasci così facilmente trascinare dalla prima metafora che trovo. Una volta cacciatomi dentro, così, riesco soltanto a fatica a tirarmene fuori, tornando lentamente alla ragione. Che aspetto ho? Di tanto in tanto mi guardo nello specchio. Che cosa strana, ridicola e dolorosa! Fa vergogna confessarlo.
Non mi vedo mai en face, faccia a faccia. Ma un po' più dentro, un po'
più lontano, sto là, in fondo allo specchio, mezzo di fianco, mezzo di profilo, sto là pensieroso e guardo di lato. Sto là immobile, guardando di lato, un po' dietro di me. I nostri sguardi hanno smesso di incontrarsi. Quando io mi muovo, anche lui si muove, ma semivoltato all'indietro, come se non sapesse di me, come se fosse passato al di là di molti specchi e non potesse più tornare. Mi si stringe il cuore a vederlo così estraneo e indifferente. Eppure, vorrei gridare, sei stato tu il mio ritratto fedele, mi hai accompagnato per tanti anni, e ora non mi riconosci! Dio! Estraneo, gli occhi fissi da qualche parte, di fianco, te ne stai là e sembri ascoltare qualcosa là in fondo, aspettare una parola, ma di là, da quelle profondità di vetro, ubbidendo a qualcun altro, aspettando ordini da un'altra parte. Siedo così al tavolo e sfoglio gli appunti vecchi e ingialliti dell'università, unica mia lettura. Guardo la tenda sbiadita, consunta, la vedo gonfiarsi leggera al soffio freddo che viene dalla finestra. All'asta che la sostiene potrei fare ginnastica. Una sbarra perfetta. Come volteggio leggero appeso ad essa nell'aria sterile, mille volte ormai adoperata. Quasi involontariamente si può compiere un elastico salto mortale a freddo, senza partecipazione interna, in modo, si direbbe, puramente speculativo. Quando ci si trova in equilibrio su quella sbarra, in punta dei piedi, toccando con la testa il soffitto, si ha la sensazione che a quell'altezza faccia un po' più caldo, si ha l'illusione appena percettibile di un'atmosfera più dolce. Fin dall'infanzia mi piace guardare la stanza a volo d'uccello. Siedo e ascolto in silenzio. La camera è semplicemente imbiancata a calce. A volte sul soffitto bianco si apre improvvisamente una crepa a zampa di gallina, talvolta si stacca scricchiolando un pezzo d'intonaco. Devo rivelare che la mia stanza è murata? E come mai? Murata? In che modo ho potuto uscirne? Ecco, appunto: per la buona volontà non ci sono ostacoli, a un desiderio intenso niente può opporsi. Devo soltanto immaginarmi una porta, una buona vecchia porta, come nella cucina della mia infanzia, con il batacchio e il chiavistello. Non c'è stanza così murata che non si apra a una simile, fida porta, purché bastino le forze per insinuarvela.
L'ULTIMA FUGA DI MIO PADRE.
Accadde in un tardo, remoto periodo di totale confusione, al tempo della definitiva liquidazione dei nostri interessi. L'insegna già da un pezzo era stata rimossa da sopra la porta del nostro negozio. Con la saracinesca semiabbassata, mia madre smerciava clandestinamente le rimanenze. Adela era partita per l'America. Si disse che la nave sulla quale viaggiava fosse affondata e che tutti i passeggeri vi avessero perso la vita. Non verificammo mai queste voci, le notizie sulla ragazza si persero. Non sentimmo mai più parlare di lei. Subentrò una nuova era, vuota, sobria, senza gioia: bianca come un foglio di carta. La nuova domestica Genia, anemica, pallida, disossata, passava e ripassava lieve da una stanza all'altra. Se capitava di accarezzarle le spalle, si torceva stirandosi come una serpe e faceva le fusa come una gatta. Aveva la carnagione bianchiccia e perfino sotto le palpebre degli occhi di smalto non era rosea. Per distrazione faceva ogni tanto una specie di minestra con vecchie copie e fatture, insipida e immangiabile. A quel tempo mio padre era ormai morto definitivamente. Era morto molte volte, mai completamente, sempre con certe riserve, che costringevano quel fatto a una revisione. Il che aveva il suo lato buono. Sminuzzando così a rate la morte, mio padre ci aveva familiarizzato con la sua dipartita.
Eravamo diventati ormai indifferenti ai suoi ritorni, ogni volta sempre più ridotti e sempre più incresciosi. La fisionomia dell'assente si era come disseminata nella stanza in cui viveva, si era ramificata creando in certi punti stranissimi legami di somiglianza, di incredibile espressività. Le tappezzerie imitavano qua e là le contrazioni del suo tic, gli arabeschi si conformavano all'anatomia dolorosa del suo sorriso, scomposta in membri simmetrici come l'impronta pietrificata di un trilobite. Per un certo tempo girammo attorno al suo pastrano foderato di pelli di puzzola. La pelliccia respirava. Il panico delle bestiole, appuntate e cucite assieme, la percorreva di fremiti impotenti, perdendosi nelle pieghe delle pelli. Appoggiando l'orecchio si poteva udire il melodioso ronzio del loro sonno concorde. In quella forma ben conciata, con quel lieve odore di puzzola, di uccisione e di fregola notturna, avrebbe potuto conservarsi per anni. Ma anche là non durò a lungo. Una volta mia madre arrivò da fuori con un'espressione costernata. Guarda, Jòzef, disse, che combinazione. L'ho acchiappato sulle scale che saltellava da un gradino all'altro. E sollevò il fazzoletto da sopra qualcosa che teneva in un piatto. Lo riconobbi a prima vista. La somiglianza non poteva passare inosservata, sebbene egli ora fosse un gambero o un grosso scorpione. Ce ne convincemmo osservandolo con i nostri occhi, profondamente stupiti dell'evidenza di quella somiglianza che, pur attraverso mutamenti e trasformazioni, si imponeva con forza irrefutabile. E' vivo? domandai. Si capisce, faccio fatica a tenerlo, disse mia madre; devo lasciarlo andare sul pavimento?
Posò il piatto per terra e, chini su di lui, lo osservammo ora con maggiore attenzione. Sprofondato fra le sue molte gambe arcuate, oscillava appena su quelle. Le pinze e le antenne sollevate sembravano stare in ascolto. Inclinai il piatto e mio padre scese cautamente, con una certa esitazione sul pavimento, ma appena ebbe toccato il suolo piatto sotto di sé, corse via improvvisamente con tutte le sue gambe ticchettando sulle dure caviglie di artropodo. Gli sbarrai la strada. Si fermò esitante, toccando con le antenne ondeggianti l'ostacolo, poi sollevò le pinze e girò di fianco. Lo lasciammo correre nella direzione prescelta. Da quella parte nessun mobile poteva offrirgli rifugio.
Correndo così, ondeggiante e fremente, sulle innumerevoli gambe, giunse alla parete e prima ancora che ce ne accorgessimo corse su leggero, senza mai fermarsi, con tutta l'armatura delle sue branche. Rabbrividii di ribrezzo istintivamente, osservando quel pluriarticolato vagabondare che avanzava frusciando lungo le tappezzerie di carta. Mio padre, frattanto, era arrivato all'armadietto a muro di cucina: per un attimo si inarcò sul bordo, esplorandone con le pinze il terreno interno, poi vi scivolò dentro tutto intero. Sembrava quasi che da quella nuova prospettiva di granchio riconoscesse l'appartamento e ne recepisse gli oggetti, forse col fiuto, poiché, nonostante accurati esami, non riuscii a scoprire in lui nessun organo della vista. Pareva come riflettere sugli oggetti che incontrava sulla sua strada, si soffermava accanto ad essi toccandoli appena con le antenne oscillanti, li afferrava perfino con le pinze, come se volesse saggiarli, ne prendeva conoscenza, e solo dopo un attimo se ne distaccava e correva via, trascinandosi dietro la corazza leggermente sollevata sul pavimento. Nello stesso modo si comportava con i pezzi di pane e di carne che gli gettavamo sul pavimento nella speranza che se ne cibasse. Li tastava solo frettolosamente e correva oltre, senza sospettare in quegli oggetti roba da mangiare. Si sarebbe potuto pensare, vedendo quelle sue pazienti ricognizioni nell'ambito della stanza, che cercasse qualcosa con insistenza e accanimento. Di tanto in tanto correva in un angolo della cucina, sotto il secchio dell'acqua che perdeva, e arrivato alla pozza pareva bere. Talvolta spariva per giornate intere. Sembrava fare perfettamente a meno del mangiare e non ci accorgemmo che per questa ragione avesse mai perso qualcosa delle sue manifestazioni di vitalità.
Con un sentimento misto di vergogna e ribrezzo, nutrivamo durante il giorno il recondito timore che di notte potesse venire a trovarci a letto. Ma questo non accadde neppure una volta, sebbene di giorno si aggirasse per tutti i mobili e gli piacesse soprattutto fermarsi nella fessura fra gli armadi e la parete. Non potevano passare inosservate certe manifestazioni di intelligenza e perfino di una certa maliziosa birichineria. Mai, per esempio, mio padre tralasciò di mostrarsi all'ora dei pasti nella sala da pranzo, sebbene la sua partecipazione al pranzo fosse puramente platonica. Se per caso a quell'ora la porta della stanza da pranzo era chiusa e mio padre si trovava nella camera accanto, scricchiolava sotto la porta a furia di correre avanti e indietro lungo la fessura, finché non si faceva aprire. In seguito imparò ad infilare in quella stretta fenditura le pinze e le gambe per riuscire, dopo molti sforzi e contorcimenti, a sgusciare di fianco nella stanza da sotto la porta. Ciò sembrava rallegrarlo. Si metteva allora immobile sotto il tavolo e restava là in silenzio, solo vibrando appena con la sua corazza. Che cosa significasse quel ritmico palpitare della calotta lucente, non riuscimmo mai a scoprirlo. Era un che di ironico, di sconveniente e maligno, qualcosa che pareva esprimere al tempo stesso una bassa e voluttuosa soddisfazione. Nemrod, il nostro cane, gli si accostava piano piano e senza convinzione, lo fiutava prudentemente, starnutiva e se ne andava con indifferenza, senza essersi fatto un giudizio preciso. La dissoluzione nella nostra casa si estendeva sempre di più. Genia dormiva per giornate intere, il suo corpo snello ondeggiava sfibrato al respiro profondo. Trovavamo spesso nella minestra rocchetti di filo che essa vi gettava assieme alle verdure per disattenzione e strana distrazione. Il negozio era aperto ininterrottamente giorno e notte. La liquidazione con le saracinesche semiabbassate proseguiva di giorno in giorno sempre più complicata fra contrattazioni e allettamenti. Per colmo di sventura arrivò lo zio Karol. Era stranamente abbattuto e taciturno. Dichiarò con un sospiro che dopo le ultime dolorose esperienze aveva deciso di cambiar vita e di dedicarsi allo studio delle lingue. Non usciva di casa, si chiudeva nell'ultima stanza dalla quale Genia aveva asportato tutti i tappeti e tutte le stoffe di guarnizione, piena di disapprovazione per il nuovo ospite, e si sprofondava nello studio di vecchi listini di prezzi. Più di una volta cercò malignamente di calpestare mio padre. Con un grido di orrore glielo impedimmo. Si mise soltanto a ridere fra sé malignamente, non convinto, mentre mio padre, senza rendersi conto del pericolo, si soffermava con attenzione sopra certe macchie del pavimento. Mio padre, svelto e agile finché stava ritto sulle gambe, divideva con tutti i crostacei la proprietà di diventare, una volta girato sul dorso, completamente indifeso. Era una vista ben penosa e triste quando, agitando disperatamente tutte le sue branche, girava impotente sul dorso attorno al proprio asse. Non si poteva guardare senza fastidio quella meccanica della sua anatomia troppo evidente e articolata, quasi impudica, tutta in superficie com'era, da niente velata sul nudo ventre pluriarticolato. Lo zio Karol aspettava solo uno di questi momenti per calpestarlo. Correvamo in aiuto e porgevamo a mio padre un oggetto qualsiasi: egli lo afferrava convulsamente con le pinze e recuperava così con destrezza la posizione normale, per poi subito abbandonarsi con raddoppiata velocità a una corsa circolare, a uno zig zag fulmineo, quasi volesse cancellare quella compromettente caduta. Solo a malincuore e facendo forza a me stesso, mi accingo ora a raccontare senza discostarmi dal vero quel fatto inconcepibile, di fronte alla cui realtà arretra inorridito tutto il mio essere. Ancora oggi non riesco a rendermi conto come abbiamo potuto essere gli autori interamente coscienti di quel fatto. In questa luce l'accaduto assume aspetti di una strana fatalità. La fatalità, infatti, non elude la nostra coscienza e la nostra volontà, ma le fonde nel suo meccanismo in modo da farci ammettere e accettare in un sonno letargico cose di fronte alle quali arretriamo in condizioni normali. Quando, sconvolto dal fatto compiuto, domandai disperato a mia madre: «Come hai potuto farlo? Se almeno lo avesse fatto Genia, ma proprio tu...» mia madre piangeva, si torceva le mani, non riusciva a dare una risposta. Pensava forse che per mio padre sarebbe stato tanto di guadagnato, vedeva in ciò l'unica via di uscita dalla sua situazione senza speranza, oppure l'aveva fatto semplicemente per incomprensibile leggerezza e sbadataggine?... Il fato trova mille scappatoie quando si tratta di far passare a forza la sua inafferrabile volontà. Certi piccoli, momentanei annebbiamenti della nostra mente, un attimo di accecamento o di disattenzione sono sufficienti per introdurre di soppiatto un'azione fra le Scilla e Cariddi della nostra decisione.
Poi si può continuare senza fine a interpretare a posteriori e spiegare i motivi, analizzare gl'impulsi: il fatto compiuto resta irrevocabile e deciso una volta per sempre. Tornammo in noi e ci scuotemmo dal nostro accecamento soltanto quando fu deposto in un piatto. Giaceva grande e gonfio per la cottura, grigio pallido e gelatinoso. Ci sedemmo in silenzio depressi: solo lo zio Karol allungò la forchetta verso il piatto, ma l'abbassò incerto a mezza strada, guardandoci con stupore.
Mia madre ordinò di portare il piatto nel salotto. Giaceva là, sul tavolo, coperto da un manto peloso, accanto all'album di fotografie e all'organetto meccanico con le sigarette, se ne stava là evitato da noi e immobile. Non così, tuttavia, doveva finire il peregrinare terreno di mio padre: ed è proprio il seguito, quel prolungarsi della storia oltre gli apparentemente estremi e ammissibili confini, il punto più dolente.
Perché non si dette infine per vinto, perché non si riconobbe sconfitto, quando ormai aveva davvero tutte le ragioni per esserlo e il suo destino non poteva più proseguire nella sua opera di totale annientamento? Dopo alcune settimane di immobilità parve consolidarsi, sembrò tornare a poco a poco in sé. Un bel mattino trovammo il piatto vuoto. Solo una gamba giaceva sull'orlo del piatto, smarrita nella salsa di pomodoro ormai fredda e nella gelatina calpestata nella fuga. Cotto, perdendo le gambe per strada, con le ultime forze che gli restavano, si trascinò in un ramingo vagabondaggio e non lo vedemmo mai più.
LA COMETA.
L'inverno terminò quell'anno sotto il segno di una congiuntura astronomica particolarmente favorevole. I pronostici colorati del calendario fiorivano in rosso sulla neve ai bordi dei mattini. Il rosso fiammeggiante delle domeniche e delle feste gettava il suo riflesso su metà della settimana, e quei giorni bruciavano a freddo in un fuoco falso, di paglia, i cuori illusi battevano per un attimo più in fretta, accecati da quel rosso annunciatore, che non annunciava niente ed era solo un allarme prematuro, una finzione colorata del calendario dipinta in vivace cinabro sulla copertina della settimana. A partire dall'Epifania, sedevamo ogni notte alla bianca parata del tavolo risplendente di candelieri e di argenti, facendo solitari senza fine. Di ora in ora la notte fuori della finestra diventava più chiara, tutta glassata e luccicante, coperta di mandorle e confetti germoglianti senza posa. La luna, inesauribile trasformista, tutta immersa nelle sue tarde pratiche lunari, celebrava una dopo l'altra le sue fasi, sempre più chiara, impersonava tutte le figure delle carte da gioco, si alternava in tutti i colori. Già durante il giorno si metteva spesso in un canto, prematuramente pronta, gialla come l'ottone e senza splendore melanconico fante col suo fiore lucente e aspettava il suo turno.
Frattanto interi cieli a pecorelle passavano attraverso il suo profilo solitario in un vasto corteo bianco e silenzioso, appena velandolo con le scaglie cangianti di madreperla in cui si coagulava a sera il firmamento colorato. Poi ormai i giorni si sfogliarono a vuoto. Il vento volava ululando sui tetti, soffiava fino in fondo ai comignoli gelati, costruiva sulla città immaginarie impalcature e sopraelevazioni per demolire poi quelle costruzioni risonanti e aeree con gran fracasso di capriate e travi. Talvolta, in un lontano sobborgo scoppiava un incendio. Gli spazzacamini percorrevano la città all'altezza dei tetti e dei ballatoi sotto un cielo lacerato color verderame. Passando da un tetto all'altro fra le cuspidi e le banderuole della città, sognavano in quell'aerea prospettiva che il vento aprisse loro per un attimo i coperchi dei tetti sopra alcove di fanciulle e li richiudesse subito sul gran libro in tempesta della città: inebriante lettura per molti giorni e molte notti. Poi i venti si smorzarono e cessarono del tutto. Nel negozio i commessi pavesarono la vetrina di tessuti primaverili e i soffici colori della lana addolcirono immediatamente l'atmosfera. Questa si colorò di lavanda, fiorì di pallida reseda. La neve si ritrasse, si increspò nel vello ricciuto di un neonato, svanì nell'aria, bevuta dalle brezze di cobalto, riassorbita dal cielo, vasto e concavo, senza sole e senza nubi. Qua e là, nelle case, già fiorivano gli oleandri, si aprivano le finestre e il cinguettio spensierato dei passeri riempiva le stanze torpidamente immerse nella meditazione del giorno azzurro. Sulle piazze deserte correvano per un attimo inseguendosi violente schermaglie di fringuelli, ciuffolotti e cinciallegre che fuggivano pigolando spaventati in tutte le direzioni, spazzati via dalle brezze, cancellati, annientati nel vuoto azzurro. Per un attimo, dopo che erano scomparsi, restavano nell'occhio come dei puntolini colorati una manciata di coriandoli gettati alla rinfusa nello spazio chiaro che si dissolvevano poi in fondo all'occhio in un azzurro neutro. Cominciò una precoce primavera. I praticanti degli studi legali portavano i baffetti a torciglione girati all'insù, i colletti alti e rigidi ed erano modelli di chic e di eleganza. Nei giorni lavati dalla burrasca come da un'inondazione, mentre il vento passava ululando alto sulla città, salutavano di lontano con le bombette colorate le signore di conoscenza, le spalle controvento, le falde rialzate, e subito giravano lo sguardo con spirito di abnegazione e delicatezza per non esporre alle chiacchiere le loro beneamate. Le dame si sentivano mancare per un attimo il terreno sotto i piedi, mandavano gridolini di spavento con le gonne sventolanti, poi, ricuperando l'equilibrio, rispondevano al saluto con un sorriso. Nel pomeriggio talvolta il vento si placava, Adela puliva sul balcone le grandi casseruole di rame che risuonavano metalliche al suo tocco. Il cielo stava immobile sui tetti di legno, trattenendo il respiro, ramificato in strade celesti. I commessi, mandati dal negozio per commissioni, si fermavano lungamente attorno a lei sulla soglia della cucina, appoggiati alla ringhiera del balcone, ubriachi per quel vento che durava tutto il giorno, la testa frastornata dall'assordante cinguettio dei passeri. La brezza portava di lontano un ritornello perduto di organetto. Non si riusciva ad afferrare le parole sommesse che essi pronunciavano a bassa voce, quasi sbadatamente, con espressione innocente, e in realtà rivolte a scandalizzare Adela. Punta sul vivo, essa reagiva violentemente, li insultava con foga, tutta infuriata, mentre il viso, grigio e intorpidito dai sogni primaverili, le si faceva rosso per la rabbia e il divertimento. Abbassavano gli occhi con meschina devozione, vilmente soddisfatti di essere riusciti a farla uscire dai gangheri. Passarono giorni e pomeriggi, trascorsero confusi gli avvenimenti quotidiani sulla città vista dall'alto del nostro balcone, sul labirinto dei tetti e delle case alla luce incerta di quelle grige settimane. Gli stagnini si aggiravano offrendo ad alta voce i loro servigi, di tanto in tanto i potenti starnuti di Szloma sottolineavano di lontano con comica enfasi il remoto e diffuso tumulto della città; in una piazza distante la pazza Tluja, esasperata dalle continue molestie dei ragazzini, si metteva a ballare la sua selvaggia sarabanda sollevando alta la gonna fra il sollazzo di quella marmaglia.
Le folate di vento levigavano, livellavano quelle esplosioni, le diluivano in un frastuono monotono e grigio, disperdendole uniformemente sul mare dei tetti di legno nell'aria lattiginosa e fumosa del pomeriggio. Adela, appoggiata alla ringhiera del balcone, china su quel lontano e confuso frastuono della città, ne afferrava a volo gli accenti più sonori, metteva assieme sorridendo quelle sillabe perdute, sforzandosi di unirle, di leggere un qualche senso in quella grande, grigia, ascendente e discendente monotonia del giorno. L'epoca era sotto il segno della meccanica e dell'elettricità, e un'intera moltitudine di invenzioni sciamava nel mondo da sotto le ali del genere umano. Nelle case borghesi facevano la loro comparsa i servizi da sigari, forniti di accendino elettrico. Si girava l'interruttore e un fascio di scintille accendeva lo stoppino imbevuto di benzina. Ciò faceva nascere straordinarie speranze. Il carillon a forma di pagoda cinese, appena si girava la chiavetta, cominciava a suonare un rondò in miniatura, ruotando come un carosello. I campanelli trillavano agli angoli, i battenti delle porticine si spalancavano mostrando il rullo dell'organetto, un triolet da tabacchiera. In tutte le case venivano installati campanelli elettrici. La vita domestica si svolgeva sotto il segno del galvanismo. Un rocchetto di filo isolante divenne il simbolo dei tempi. Nei salotti, giovani eleganti davano dimostrazioni dell'esperimento di Galvani e riscuotevano gli sguardi infuocati delle signore. Un conduttore elettrico apriva la strada al cuore delle donne.
Ad esperimento riuscito, gli eroi del giorno gettavano baci fra gli applausi dei salotti. Non passò molto tempo e la città brulicò di velocipedi di ogni forma e grandezza. Avere una concezione filosofica del mondo costituiva un impegno. Chi aderiva all'idea del progresso, ne traeva le conseguenze e andava in velocipede. I primi furono naturalmente i praticanti degli studi legali, quell'avanguardia delle nuove idee, coi baffetti girati all'insù e le bombette colorate, speranza e fiore della nostra giovinezza. Aprendosi un varco tra la folla chiassosa, viaggiavano sopra enormi bicicli o tricicli, in un guizzante sfrigolio di raggi metallici. Le mani appoggiate sull'ampio manubrio, manovravano dall'alto della sella l'immenso cerchione della ruota, che si insinuava tra la folla divertita in linea ondeggiante e sinuosa. Alcuni erano colti da fervore apostolico. Sollevandosi sui pedali in movimento come sopra staffe, apostrofavano dall'alto la gente, annunciando una nuova, felice era dell'umanità, la salvezza per mezzo della bicicletta... E proseguivano oltre fra gli applausi del pubblico inchinandosi a destra e a sinistra. Eppure c'era un che di deplorevolmente compromettente in quelle splendide e trionfali esibizioni, c'era come una stonatura dolorosa e spiacevole, che al culmine del trionfo faceva loro perdere l'equilibrio, precipitandoli nella parodia di se stessi. Essi dovevano accorgersene da soli, quando, appesi come ragni a quel congegno filigranato, divaricati sui pedali come grosse rane saltellanti, compivano i loro movimenti da anatre sopra il cerchione ampiamente ruotante. Un solo passo li separava dal ridicolo ed essi lo compivano con disperazione, chini sul manubrio e raddoppiando la velocità: gomitolo ginnasticante fra violente contorsioni e vorticose capriole. Che c'è di strano? L'uomo entrava qui, in virtù di una barzelletta illecita, in una sfera di inaudite facilitazioni, conquistate troppo a buon mercato, sottocosto, quasi gratis, e questa sproporzione fra investimento e reddito, questo inganno evidente della natura, questo eccessivo pagare un trucco geniale, veniva compensato dall'autoparodia. Passavano fra violenti scoppi di risa, compianti vincitori, martiri della propria genialità, tanto grande era la forza comica di quei prodigi della tecnica. Quando mio fratello portò per la prima volta da scuola un elettromagnete, quando con un fremito sperimentammo al tatto la vita segretamente vibrante racchiusa in un circuito elettrico, mio padre sorrise con aria di superiorità. Nella sua testa stava maturando un'idea lungimirante, là convergeva e si chiudeva la catena di sospetti che egli nutriva da tempo. Perché mio padre sorrideva fra sé? Perché i suoi occhi roteavano lacrimando nelle orbite, simulando ridicolmente un'esagerata devozione? Chi poteva saperlo?
Presentiva forse un trucco grossolano, un volgare tranello, una macchinazione trasparente al di là di quelle stupefacenti manifestazioni di forza segreta? A quel momento risale la svolta che portò mio padre a dedicarsi alle esperienze di laboratorio. Il laboratorio di mio padre era semplice: qualche pezzo di filo di ferro arrotolato, qualche barattolo di acido, zinco, piombo, carbone, questo era tutto l'armamentario di quello stravagante esoterico. La materia, diceva abbassando pudicamente gli occhi sopra uno sbuffo soffocato, la materia, signori miei,... e non finiva la frase, lasciava capire di essere sulle tracce di una truffa grossolana, mentre tutti noi che sedevamo là eravamo stati bellamente messi nel sacco. A occhi bassi mio padre si burlava silenziosamente di quel feticcio secolare. Panta rei! gridava e indicava con un gesto l'eterno circolare della sostanza. Da tempo desiderava mobilitare le forze in essa nascoste, mitigarne la rigidità, aprirne le strade alla penetrazione universale, alla trasfusione, all'universale circolazione, che è l'unica propria alla sua natura.
Principium individuationis, scempiaggini! diceva, e con questo esprimeva il suo sconfinato disprezzo per quel principio guida dell'umanità.
Lanciava queste parole di sfuggita, mentre correva lungo il filo, e socchiudeva gli occhi, tastava delicatamente i vari punti del circuito percependo le più minute differenze dei potenziali. Incideva tacche nel filo, si chinava ad ascoltare, ed era già a dieci passi di distanza per ripetere quell'operazione in un altro punto del circuito. Pareva avesse dieci mani e venti sensi. La sua attenzione lavorava suddivisa in cento posti contemporaneamente. Nessun punto dello spazio era esente dai suoi sospetti. Si chinava a punzecchiare il filo in un punto qualsiasi del circuito, quando, con uno scatto improvviso all'indietro, balzava come un gatto verso il luogo prestabilito, mancandolo con sua grande vergogna. Chiedo scusa, diceva rivolgendosi a un tratto all'attonito spettatore, che osservava quel suo armeggiare, chiedo scusa, avrei bisogno proprio di quella porzione di spazio che lei occupa con la sua persona; non sarebbe così gentile da spostarsi per un istante? E compiva in fretta le sue fulminee misurazioni, agile e svelto come un canarino, saltellando abilmente sotto gli impulsi dei nervi motori. I metalli, immersi nelle soluzioni degli acidi, salati e corrosi dalla ruggine in quel bagno doloroso, cominciavano a condurre nell'oscurità. Destati da quella rigida inerzia, ronzavano con monotonia, cantavano metallici, rilucevano intermolecolarmente nell'incessante crepuscolo di quei giorni funebri e tardi. Cariche invisibili si accumulavano ai poli e li oltrepassavano, uscendo nell'oscurità turbinante. Un solletico appena percettibile, cieche correnti di formicolio percorrevano lo spazio polarizzato in concentriche linee di forza, nei cerchi e nelle spirali di un campo magnetico. Ora qua, ora là, le apparecchiature lanciavano segnali dal sonno, si rispondevano con ritardo, fuori tempo, a disperati monosillabi linea, punto nelle pause del loro profondo letargo. Mio padre stava in mezzo a quelle correnti vaganti con un sorriso doloroso, scosso da quella balbettante articolazione, da quella miseria per sempre chiusa e senza via d'uscita, che da non liberate profondità segnalava con monotonia in zoppicanti semisillabe. A conclusione di quelle ricerche mio padre raggiunse risultati stupefacenti. Provò, ad esempio, che il campanello elettrico, basato sul principio del cosìddetto martelletto di Neeff, è una volgare mistificazione. Non era stato l'uomo a introdursi nel laboratorio della natura, bensì la natura che lo aveva attirato nelle sue macchinazioni per raggiungere, sfruttando gli esperimenti di lui, i propri fini che miravano non si sa dove. Mio padre, durante il pranzo, toccava con l'unghia del pollice il manico del cucchiaio immerso nella minestra, ed ecco che nella lampada cominciava a tintinnare il campanello di Neeff. L'intera apparecchiatura era solo un pretesto, superfluo ed estraneo alla questione. Il campanello di Neeff era il luogo di convergenza di determinati impulsi della materia che cercavano la propria strada attraverso l'ingegno umano. La natura voleva e operava, l'uomo era una freccia oscillante, una navetta di telaio sfrecciante ora qui, ora là, secondo la volontà di lei. Egli era solo una componente, una parte del martelletto di Neeff. Qualcuno lanciò la parola «mesmerismo» e mio padre fu pronto ad afferrarla. Il cerchio della sua teoria si chiudeva. Aveva trovato l'anello mancante. L'uomo, secondo la sua teoria, era soltanto uno stadio transitorio, una momentanea congiunzione delle correnti mesmeriche, che si incrociavano vagando in seno alla materia eterna. Tutte le invenzioni che costituivano il suo vanto, erano trappole in cui la natura lo attirava, erano trabocchetti dell'ignoto. Gli esperimenti di mio padre assunsero a poco a poco un carattere di magia, di prestidigitazione, un sapore di parodistico gioco di destrezza. Non parlerò dei numerosi esperimenti con i piccioni, che, manovrando una bacchetta, moltiplicava per due, quattro, dieci, e poi, gradatamente, con evidente sforzo, riassorbiva nella bacchetta. Sollevava il cappello, ed eccoli uscire in volo uno dopo l'altro, sbattendo le ali, eccoli tornare alla realtà, al completo, riempiendo il tavolo di uno stormo ondeggiante, mobile, tubante.
Talvolta si interrompeva in un punto inatteso dell'esperimento, restava indeciso a occhi chiusi, e dopo un istante correva a piccoli passetti nell'anticamera, dove infilava la testa nello sportello del camino. Là era tutto buio, ovattato dalla fuliggine e beatamente piacevole, come al centro stesso del nulla, tiepide correnti vagavano su e giù. Mio padre socchiudeva gli occhi e restava per qualche tempo in quel nulla tiepido e nero. Noi tutti sentivamo che quell'incidente non aveva niente a che fare con la questione in atto, che si produceva in certo modo dietro le quinte della faccenda, e dentro di noi chiudevamo gli occhi su quel fatto marginale, che apparteneva a tutt'altro ordine di cose. Mio padre aveva nel suo repertorio trucchi veramente deprimenti, che riempivano di melanconia. Nella nostra stanza da pranzo le sedie avevano alti schienali artisticamente intagliati. Erano ghirlande di foglie e fiori di gusto realistico, ma bastava un lieve tocco di mio padre perché quelle sculture assumessero all'improvviso una fisionomia straordinariamente spiritosa, un'arguzia indefinita, perché cominciassero a lampeggiare e ad ammiccare d'intesa, ed era una cosa estremamente imbarazzante, quasi insopportabile, finché quell'ammiccare non prendeva una direzione ben definita, un'inoppugnabile irrefutabilità, e questo o quello dei presenti non cominciava ad esclamare: Zia Wandzia, quanto è vero Iddio, zia Wandzia! e le signore si mettevano a piagnucolare, perché era proprio zia Wandzia come viva, anzi, era lei stessa in visita, si era già seduta e aveva preso a discorrere ininterrottamente senza lasciar parlare nessun altro. I miracoli di mio padre si annientavano da soli, poiché non era affatto una visione, era la zia Wandzia viva e vegeta, in tutta la sua normalità e banalità, che non permetteva neppure lontanamente di pensare a qualche miracolo. Prima di passare agli altri eventi di quel memorabile inverno, occorre ancora menzionare brevemente un certo incidente che nella nostra cronaca familiare è sempre stato vergognosamente taciuto. Che ne era stato dello zio Edward? Era venuto a quel tempo a trovarci, senza sospettare di niente, sprizzando salute e intraprendenza, dopo aver lasciato la moglie e la figlioletta in provincia ad aspettare con nostalgia il suo ritorno: era arrivato di ottimo umore per divertirsi un poco, per divagarsi lontano dalla famiglia. E che cosa era successo? Gli esperimenti di mio padre produssero in lui un effetto folgorante. Subito dopo i primi trucchi si tolse il paltò e si mise completamente a disposizione di mio padre. Senza riserve! Pronunciò queste parole con uno sguardo insistente e una forte stretta di mano. Mio padre capì. Si accertò che lo zio non avesse prevenzioni tradizionali nei confronti del principium individuationis. Risultò che no, non ne aveva nessuna, assolutamente nessuna. Lo zio era liberale e senza pregiudizi. La sua unica passione era servire la scienza. All'inizio mio padre gli aveva lasciato ancora una certa libertà. Stava facendo i preparativi per un esperimento fondamentale. Lo zio Edward approfittava della libertà per visitare la città. Si comprò un velocipede di dimensioni imponenti, e, arrampicato sulla sua enorme ruota, fece il giro della piazza, guardando dall'alto della sella dentro le finestre del primo piano. Passando attorno alla nostra casa, con un gesto elegante si tolse il cappello di fronte alle signore che stavano alla finestra. Aveva i baffi a torciglione e una barbetta a punta. In breve, tuttavia, si convinse che un velocipede non era capace di introdurlo nei più profondi segreti della meccanica, che quel geniale apparecchio non era in grado di procurare durevolmente fremiti metafisici. E allora cominciarono quegli esperimenti per i quali la mancanza di prevenzioni dello zio nei confronti del principium individuationis si dimostrò così indispensabile. Lo zio Edward non poneva riserve al fatto di essere fisicamente ridotto, per il bene della scienza, al nudo principio del martelletto di Neeff. Accondiscese senza rammarico a una graduale riduzione di tutte le sue facoltà al fine di mettere a nudo il suo io più profondo, identico, come da tempo sentiva, al sunnominato principio.
Chiuso nel suo gabinetto, mio padre cominciò una graduale analisi della complicata personalità dello zio Edward, una faticosa psicoanalisi, che durò molti giorni e molte notti. Il tavolo del gabinetto cominciò a riempirsi degli smembrati complessi del suo io. Da principio lo zio, benché fortemente ridotto, partecipò ancora ai nostri pasti, cercò di prendere parte alle nostre conversazioni, riuscì perfino ad andare ancora una volta in velocipede. Poi vi rinunciò, vedendosi sempre più incompleto. Si manifestò in lui una sorta di vergogna, caratteristica dello stadio in cui si trovava. Cominciò ad evitare la gente.
Contemporaneamente mio padre si avvicinava sempre più all'obiettivo di tutti i suoi sforzi. Aveva ridotto lo zio al minimo indispensabile, ne aveva rimosso gradatamente tutto l'inessenziale. Lo aveva collocato in alto, dentro una nicchia della parete nella gabbia delle scale, disponendo i suoi elementi sulla base del principio della pila di Leclanché. Il muro, in quel punto, era ammuffito e un fungo vi aveva diffuso la sua coltre biancastra. Mio padre sfruttava senza scrupoli l'intero capitale di entusiasmo dello zio, ne snodava il filo per tutta la lunghezza dell'entrata e l'ala sinistra della casa. Spostandosi su una scala a pioli lungo la parete del corridoio oscuro, piantava chiodi nel muro seguendo il percorso dell'esistenza attuale dello zio. Quei fumosi, giallastri pomeriggi erano quasi completamente bui. Mio padre si serviva di una candela accesa per illuminare da vicino, palmo a palmo, la parete marcia. Circolano voci che all'ultimo momento lo zio Edward, comportatosi fino allora così eroicamente, abbia tuttavia manifestato una certa impazienza. Si dice perfino che giungesse a una violenta, seppur tardiva esplosione, che per poco non annullò l'opera quasi terminata. Ma l'impianto era ormai pronto e lo zio Edward, così come per tutta la vita era stato marito, padre e uomo d'affari esemplare, anche in quell'ultima sua parte si sottomise infine alle necessità superiori.
Lo zio funzionava a perfezione. Mai, in nessuna occasione si rifiutò di obbedire ai comandi. Uscito da quel suo complicato groviglio, in cui tante volte un tempo si era perso e confuso, aveva infine trovato la purezza di un principio unitario e rettilineo, al quale d'ora in poi sottomettersi senza limitazioni. A scapito della propria complessità così faticosamente amministrata, aveva ora raggiunto una semplice, non problematica immortalità. Era felice? Inutile chiederlo. Questa domanda ha un senso qualora si riferisca a una persona in cui sia contenuta una ricchezza di alternative e di possibilità, così che la realtà attuale possa contrapporsi alle possibilità parzialmente reali e specchiarsi in esse. Ma lo zio Edward non aveva alternative, contrapposizioni: «feliceinfelice» per lui non esisteva, poiché era fino all'estremo limite identico a se stesso. Non si riusciva a trattenere un moto di approvazione nel vederlo funzionare così puntualmente, così rigorosamente. Perfino sua moglie, la zia Teresa, allorché giunse qualche tempo dopo sulle tracce del marito, non poté frenarsi dal premere ogni momento l'interruttore per udire quella voce stridula e sonora, in cui riconosceva l'antico timbro della voce di lui quando era irritato. Quanto alla figlioletta Edzia, si può dire che rimase affascinata dalla carriera del padre. Più tardi, è vero, si prese una specie di rivincita su di me, vendicandosi dell'operato di mio padre, ma questo ormai appartiene a un'altra storia. Ii. I giorni passavano, i pomeriggi diventavano sempre più lunghi. Non si sapeva come impiegarli.
L'eccesso di tempo, ancora grezzo, vacuo, non adoperato, prolungava le serate in squallidi crepuscoli. Adela, dopo avere lavato rapidamente le pentole e scopato la cucina, se ne stava indolente sul balcone, guardando senza pensare la lontananza serale che si arrossava appena. I suoi begli occhi, così eloquenti in altro momento, restavano immobili in ottusa meditazione, convessi, grandi e luccicanti. La sua carnagione, opaca e grigia alla fine dell'inverno per gli odori di cucina, ringiovaniva ora per effetto della gravitazione primaverile della luna, crescente di quarto in quarto, acquistava riflessi lattei, sfumature opaline, lucentezza di smalto. Essa prendeva ora il sopravvento sui commessi, che sotto i suoi neri sguardi perdevano ogni baldanza, rinunciavano alla parte di annoiati frequentatori di taverne e lupanari, e, scossi dalla sua nuova bellezza, cercavano un'altra piattaforma d'approccio, pronti a far concessioni a vantaggio di un nuovo assetto dei rapporti, a riconoscere fatti positivi. Gli esperimenti di mio padre non produssero, contrariamente ad ogni aspettativa, una rivoluzione nella vita della comunità. L'innesto del mesmerismo sul corpo della fisica moderna non si dimostrò fertile. Non che nelle scoperte di mio padre mancasse un qualche granello di fondamento. Ma la verità non decide del successo di un'idea. La nostra fame metafisica è limitata e giunge presto alla sazietà. Mio padre si trovava proprio sulla soglia delle nuove scoperte rivelatrici allorché in noi tutti, nella schiera dei seguaci e degli adepti, cominciò ad insinuarsi un senso di avversione e di stanchezza. Sempre più frequenti furono i segni di impazienza, che sboccarono in aperte proteste. La nostra natura si ribellava al cedimento delle leggi fondamentali, ne avevamo abbastanza dei miracoli, desideravamo ardentemente tornare alla vecchia, sempre fida e solida prosa dell'ordine eterno. E mio padre capì. Capì di essersi spinto troppo oltre e pose un freno al volo delle sue idee. Il cerchio delle adepte eleganti e degli adepti coi baffi arricciati all'insù si assottigliò di giorno in giorno. Desideroso di ritirarsi onorevolmente, mio padre aveva appunto in animo di tenere un'ultima lezione conclusiva, quando un nuovo, improvviso avvenimento rivolse l'attenzione generale in una direzione del tutto imprevista. Un giorno mio fratello, di ritorno da scuola, recò l'improbabile e pur vera notizia di una prossima fine del mondo. Lo pregammo di ripeterci quanto aveva detto, pensando di avere inteso male. E invece no. Così suonava quell'incredibile, assolutamente inconcepibile notizia. Sì, proprio così, come si trovava, impreparato e incompiuto, in un punto fortuito del tempo e dello spazio, senza chiudere i conti, senza aver raggiunto uno scopo, quasi a metà di un discorso, senza punto né punto esclamativo, senza giudizio né ira divina quasi in perfetta armonia, lealmente, secondo accordi reciproci e regole riconosciute da ambo le parti il mondo doveva semplicemente e irrevocabilmente andare a catafascio. No, non era il tragico finale escatologico, da tempo previsto dai profeti, l'ultimo atto della divina commedia. No, era piuttosto una fine del mondo circociclistica, hoplàprestigiatoria, uno splendido hocuspocus didatticosperimentale fra gli applausi di tutti gli spiriti del progresso. Non ci fu quasi nessuno che non ne rimase subito convinto. I paurosi e i protestatari venivano immediatamente zittiti.
Perché mai non capivano che era semplicemente una chance inaudita, una fine del mondo quanto mai progressiva, da liberi pensatori, all'altezza dei tempi, addirittura gloriosa e tale da far onore alla Saggezza Suprema? Si discuteva animatamente, si disegnava ad oculos sopra foglietti strappati ai taccuini, si fornivano dimostrazioni irrefutabili, si sgominavano gli oppositori e gli scettici. Nei giornali illustrati apparvero disegni grandi come un'intera pagina, immagini anticipate della catastrofe, in allestimenti scenici di effetto. Vi si vedevano popolose città in preda al panico notturno sotto un cielo risplendente di segnali luminosi e di fenomeni celesti. Già si vedevano i mirabolanti effetti del bolide lontano, la cui sommità parabolica, sempre puntata verso il globo terrestre, restava nel cielo in un volo immobile, avvicinandosi alla velocità di tante e tante miglia al secondo. Come in una farsa da circo volavano in aria cappelli e bombette, e i capelli si drizzavano in testa, gli ombrelli si aprivano da soli, nude calvizie apparivano al sollevarsi delle parrucche, sotto un cielo nero e immenso, sfavillante del simultaneo allarme di tutte le stelle. Un che di festivo si era infiltrato nella nostra vita, una sorta di fervido entusiasmo, una certa importanza e solennità permeavano i nostri gesti dilatando i nostri petti in un sospiro cosmico. Il globo terrestre ribolliva di notte per quel trambusto solenne, per l'estasi solidale di mille e mille persone. Le notti si susseguivano nere e immense. Nebulose di stelle si addensavano attorno alla terra in sciami innumerevoli. Nei neri spazi interplanetari quegli sciami si sparpagliavano variamente, seminando polvere di meteore di abisso in abisso. Sperduti negli spazi infiniti, avevamo quasi smarrito il globo terrestre sotto i piedi e disorientati, senza più direzione, pendevamo come antipodi, a testa in giù, sopra uno zenith rovesciato, e ci aggiravamo fra quegli ammassi stellari, passando il dito bagnato di saliva lungo interi anniluce di stella in stella. Così vagavamo nel cielo in lungo ordine sparso, disperdendoci in tutte le direzioni per gli scalini infiniti della notte: emigranti di un globo abbandonato, che saccheggiavano le sconfinate masse formicolanti di stelle. Caddero le ultime barriere e i ciclisti irruppero nel nero spazio stellare, impennandosi sui velocipedi e arrestandosi in un volo immobile nel vuoto interplanetario che si schiudeva in sempre nuove costellazioni. Così volando su un binario morto, tracciavano strade e sentieri di un'insonne cosmografia, mentre in realtà restavano in un letargo interplanetario, neri come fuliggine, quasi avessero infilato la testa nella cappa del camino, ultima meta e scopo di tutti quei voli ciechi. Dopo un giorno corto, disordinato, per metà trascorso a dormire, la notte si apriva come un'immensa, popolosa patria. Folle di persone dilagavano per le strade, si riversavano nelle piazze, una testa accanto all'altra, come se si fosse forzato un barile di caviale e questo si rovesciasse in torrenti di pallini luccicanti e scorresse a fiumi sotto la notte nera come pece e rumorosa di stelle. Le scale crollavano sotto il peso di quelle migliaia, a tutte le finestre apparivano figurette disperate, uominifiammifero sopra mobili stecchini scavalcavano il parapetto in lunatico fervore, creavano, come le formiche, catene viventi, mobili impalcature e colonne uno sulle spalle dell'altro, scivolando dalle finestre sulle piattaforme delle piazze, illuminate dal bagliore dei barili di pece. Chiedo scusa se descrivendo queste scene piene di enormi affollamenti e di baraonda cadrò in esagerazioni, prendendo involontariamente a modello certe vecchie incisioni nel gran libro dei disastri e delle catastrofi del genere umano. Ma esse mirano a un'unica protoimmagine e queste esagerazioni da megalomane, l'enorme pathos di quelle scene mostra che abbiamo sfondato l'eterno barile dei ricordi, una sorta di protobarile del mito, e che siamo penetrati in una notte preumana, piena di un elemento borbottante, di una gorgogliante anamnesi, e non possiamo più arrestare quel flusso crescente. Ah, notti pescose e brulicanti, popolate di stelle come pesci e luccicanti di squame, ah, banchi di fauci infaticabilmente trangugianti a piccole boccate, a sorsate fameliche tutti i rivoli gonfi, non bevuti di quelle notti nere e diluvianti! In quali nasse fatali, in quali miserevoli reti attiravano quelle oscure generazioni mille volte moltiplicate? Oh, cieli di quei giorni, tutti a meteore e segnali luminosi, tutti tracciati dai calcoli degli astronomi, mille volte ricalcati, numerati, segnati dalle filigrane dell'algebra! Con i volti azzurri per la gloria di quelle notti, vagavamo nei cieli palpitanti per gli scoppi di soli lontani in bagliori siderei: formicai umani, fluenti in vasta rotta lungo le secche della via lattea dispiegata nel cielo, fiumana umana sovrastata dai ciclisti sulle loro macchineragno. Oh, arena stellata della notte, disegnata fino ai bordi estremi dalle evoluzioni, dalle spirali, dai lazi e cappi di quelle corse elastiche, oh, cicloidi ed epicicloidi eseguiti in ispirazione lungo le diagonali del cielo, perdendo raggi di ferro, smarrendo con indifferenza luccicanti cerchioni, fino a raggiungere, ormai nudi, ormai ridotti soltanto a pura idea ciclistica, la meta luminosa! Ed è appunto da quei giorni che data una nuova costellazione, il tredicesimo asterismo incluso per sempre nel novero dello Zodiaco, risplendente da allora nel cielo delle nostre notti: il Ciclista. Le abitazioni spalancate durante quelle notti rimanevano vuote al lume delle lampade che filavano violentemente. Le tende alle finestre, scagliate lontano nella notte, ondeggiavano lasciando quelle lunghe file di stanze in un'avvolgente, incessante corrente d'aria, che passava loro attraverso con un unico, prolungato, violento allarme. Era lo zio Edward che dava l'allarme. Sì, alla fine aveva perso la pazienza, aveva rotto tutti gli indugi, calpestato l'imperativo categorico, si era sottratto ai rigori della propria alta moralità e aveva suonato l'allarme. Si cercò di zittirlo in fretta e furia con l'aiuto di una lunga canna, con stracci di cucina ci si sforzò di arrestare quella violenta esplosione. Ma anche così imbavagliato continuò ad agitarsi selvaggiamente, a trillare incoscientemente, a trillare senza rendersi conto, gli era ormai tutto indifferente e la vita lo abbandonava con quel trillo, si dissanguava davanti agli occhi di tutti, senza rimedio, in una frenesia fatale. Talvolta qualcuno irrompeva per un attimo in quelle stanze vuote trapassate da quel violento allarme, fra le lampade che ardevano di un'alta fiamma, faceva qualche passo avanti in punta di piedi e si fermava esitante, come cercando qualcuno. Gli specchi lo accoglievano senza parlare nelle loro profondità trasparenti, se lo spartivano in silenzio. Lo zio Edward trillava a squarciagola attraverso tutte quelle stanze vuote e chiare, e il solitario disertore delle stelle, pieno di cattiva coscienza, come se fosse venuto per compiere una brutta azione, si ritirava furtivo dalla casa, assordato dall'allarme, e si dirigeva verso la porta, accompagnato dai vigili specchi che lo lasciavano passare attraverso le loro spalliere lucenti, mentre in fondo ad essi scivolava in punta dei piedi, in diverse direzioni, una folla di sosia impauriti con il dito sulle labbra. Di nuovo si apriva sopra di noi il cielo con le sue immensità disseminate di polvere stellare. In quel cielo appariva ormai ogni notte, in una delle sue prime ore, quel bolide fatale inclinato obliquamente, appeso alla sommità della sua parabola, orientato immobile verso terra, e inutilmente divorante centinaia di miglia al secondo. Tutti gli sguardi gli erano puntati addosso, mentre risplendendo metallicamente, oblungo di forma, appena un po' più chiaro nel suo nucleo rigonfio, compiva con matematica precisione il suo pensum quotidiano. Com'era difficile credere che quel vermiciattolo che luccicava innocente fra gli innumerevoli sciami di stelle fosse il dito infuocato di Baldassarre, che scriveva sulla lavagna del cielo la rovina del nostro globo. Eppure ogni bambino conosceva a memoria quella formula fatale racchiusa nella pipa di un integrale multiplo, dal quale, dopo aver posto i limiti, risultava la nostra inevitabile distruzione. Che cosa mai poteva ancora salvarci? Mentre la folla si disseminava nella grande notte, perdendosi fra i bagliori delle stelle e i fenomeni celesti, mio padre restava clandestinamente in casa. Lui solo conosceva l'uscita segreta da quel vicolo cieco, la porta di servizio della cosmologia, e sorrideva di nascosto. Mentre lo zio Edward suonava disperatamente l'allarme, soffocato dagli stracci, mio padre infilò zitto zitto la testa nello sportellino della canna fumaria. C'era silenzio e buio là dentro. Un buio impenetrabile. C'era odore di aria tiepida, di fuliggine, di rifugio quieto e sicuro. Mio padre si installò comodamente, socchiuse beato gli occhi. In quel nero scafandro della casa, che emergeva sopra il tetto nella notte stellata, penetrava il debole raggio di una stella che, rifrangendosi come nelle lenti di un cannocchiale, germogliava di luce nel focolare, attecchiva come un embrione nell'oscura storta del camino. Mio padre girò con attenzione la vite del micrometro ed ecco scivolare lentamente nel campo visivo del cannocchiale quella creatura fatale, chiara come la luna, portata dalla lente alla distanza di un palmo, plastica e splendente come una scultura calcarea nei neri silenzi del vuoto interplanetario. Era leggermente scrofoloso, butterato quel fratello germano della luna, sosia smarrito che tornava dopo mille anni di vagabondaggio al pianeta natio. Mio padre lo sposta a avvicinandolo al suo occhio spalancato come una forma di formaggio svizzero, fittamente bucherellato, giallo pallido, vivamente illuminato, coperto da una crosta bianca come lebbra. Con una mano sulla vite del micrometro, l'occhio violentemente abbagliato dalla luce dell'oculare, mio padre faceva scorrere lo sguardo freddo sul globo calcareo, scorgeva sulla sua superficie l'impronta confusa del morbo che lo rodeva dal di dentro, i contorti canaletti di quel tarloincisore che grufolava nella superficie formaggiosa e vermicolante. Mio padre rabbrividì e si accorse del suo errore: no, non era formaggio svizzero, era evidentissimamente un cervello umano, un preparato anatomico del cervello in tutta la sua complessa struttura. Mio padre vedeva chiaramente i confini dei lobi, le circonvoluzioni della sostanza grigia. Aguzzando lo sguardo, riusciva perfino a decifrare le minuscole lettere delle scritte che correvano in varie direzioni sulla mappa confusa dell'emisfero. Il cervello sembrava cloroformizzato, profondamente addormentato, e nel sonno beatamente sorridente. Penetrando al fondo di quel sorriso, mio padre vide attraverso l'intricato disegno della superficie il nocciolo del fenomeno e sorrise fra sé. Che cosa mai non ci lascia scoprire il nostro fido camino, nero e vuoto come una zucca! Attraverso le circonvoluzioni della sostanza grigia, attraverso la sottile granulazione delle incrostazioni, mio padre scorse chiaramente in trasparenza i contorni di un embrione nella caratteristica posizione a testa in giù, coi pugnetti vicini al viso, che dormiva capovolto il suo sonno beato nel chiaro liquido amniotico. In quella posizione lo lasciò mio padre. Si rialzò con sollievo e chiuse la valvola della canna. Fin qui e non oltre. Ma che cosa era successo della fine del mondo, di quello splendido finale dopo un'introduzione così magnificamente svolta? Occhi bassi e un sorriso. Si era forse infiltrato un errore nel calcolo, un piccolo sbaglietto nella somma, un maligno refuso nel trascrivere le cifre? Niente di tutto ciò.
Il calcolo era esatto, nessun errore si era introdotto nella colonna delle cifre. E allora, cos'era accaduto? Prego, statemi bene a sentire.
Il bolide procedeva bravamente, galoppava rapido come un ambizioso destriero per raggiungere in tempo il traguardo. La moda della stagione correva insieme con lui. Per un certo tempo il bolide fu alla testa di quell'epoca, cui prestava la propria forma e il proprio nome. Poi i due bravi corridori si affiancarono e procedettero paralleli in un galoppo estenuante, mentre i nostri cuori battevano solidali con loro. A poco a poco, però, la moda prese il sopravvento per la lunghezza di un naso e sorpassò l'infaticabile bolide. Quel millimetro decise la sorte della cometa. Era ormai spacciata, distanziata per sempre. I nostri cuori correvano già con la moda, lasciavano indietro quel bolide splendido, lo guardavano con indifferenza impallidire, rimpicciolire e fermarsi infine rassegnato all'orizzonte, inclinato di fianco, affrontare ormai invano l'ultima curva della sua traiettoria parabolica, lontano e azzurro, per sempre innocuo. Si ritirò dal concorso, la forza dell'attualità si era esaurita. Nessuno si preoccupò più di quel concorrente rimasto indietro.
Abbandonato a se stesso, avvizzì silenziosamente fra l'indifferenza generale. Tornammo a capo chino alle occupazioni quotidiane, con una delusione in più. Accantonate in fretta le prospettive cosmiche, la vita tornò al suo ritmo normale. Dormivamo a quei tempi giorno e notte senza interruzione, recuperando il sonno perduto. Giacevamo uno accanto all'altro nelle case ormai buie, sommersi dal sonno, trasportati dal proprio respiro lungo il binario morto dei sogni senza stelle. Navigando così, ondeggiavamo ventri striduli, cornamuse e zampogne russando sonoramente a gara lungo i sentieri delle notti ormai chiuse e senza stelle. Lo zio Edward si era zittito per sempre. C'era ancora nell'aria l'eco della sua allarmata disperazione, ma egli non viveva più. La vita l'aveva abbandonato insieme con quel trillante parossismo, il circuito si era aperto, ed egli stesso stava salendo senza ostacoli verso sempre più alti gradi di immortalità. Nell'appartamento buio mio padre era l'unico sveglio, e vagava in silenzio per le stanze piene di quel sonno canoro. Di tanto in tanto apriva lo sportello del camino e guardava con un sorriso nell'oscuro abisso, dove per sempre sorridente dormiva in un sonno luminoso l'Homunculus, chiuso in un'ampolla di vetro, immerso in un mare di luce simile al neon, ormai giudicato, cancellato, messo agli Natti: pratica archiviata l grande schedario del cielo. Fine.