VEDI ALLA VOCE AMORE
David Grossman
Recensione
Paolo Vitaliano Pizzato
[...] Si può scrivere un libro per molti motivi: per divertimento o per soldi, per gioia o per noia, per consolare se stessi o per consolare l’altro (il lettore). Si può scrivere – e non c’è nulla di male – per mestiere; i libri scritti per mestiere aumentano sempre più col crescere dell’industria culturale. Pochi sono i libri che l’autore scrive per necessità: per una propria ineliminabile necessità e sono i libri che restano, in genere […].
L’enorme letteratura sull’Olocausto si può dividere, molto approssimativamente, in due grandi filoni: quello che mostra la Cosa e quello che, la Cosa, la interroga. Nel primo caso l’esibizione […] è simile alla pornografia. Si mostra l’orrore come si mostra la carne e il lettore si trasforma in un voyeur dell’orrore […]. Il secondo filone, quello che la Cosa la interroga, senza tacerne i dettagli significativi, ma senza sentire il bisogno di mostrarla, ha un esempio perfetto nel lungo film-documentario – poi divenuto anche libro – di Claude Lanzmann, Shoah. Shoah è la Cosa. Nel film di Lanzmann l’Olocausto-Shoah viene interrogato implacabilmente, cercato nei luoghi che nella loro assoluta normalità (campi, boschi, paesi) sembrano teatri impossibili per tanta tragedia […]. Vedi alla voce: amore è il libro che un ex-bambino, messo a confronto con la memoria terribile di ciò che è stato, messo davanti alla Cosa, ha sentito come necessario”.
Nelle parole di Paolo Mauri che introducono quello che con ogni probabilità è il romanzo più complesso, impegnativo, doloroso e potente di David Grossman, quel Vedi alla voce: amore (edito da Einaudi nella traduzione di Gaio Sciloni) che si misura con l’indicibile eredità che ogni ebreo è costretto a portare con sé, a custodire in sé, con la follia dello sterminio nazista, con quell’impossibile sogno di annientamento di un intero popolo divenuto realtà, trasformato in perfetto meccanismo di morte, a farsi strada non è soltanto il bisogno, l’urgenza di raccontare dello scrittore, la sua ansia di trovare un modo per dire ciò che non può essere detto, ma anche (anzi soprattutto) il modo in cui la lingua, messa di fronte a un compito superiore alle proprie forze, si adopera per oltrepassare se stessa, per forzare quei confini al cui interno è racchiuso il senso di tutte le cose.
Vedi alla voce: amore narra l’Olocausto guardando a quel che è accaduto da una prospettiva che è al medesimo tempo nella storia e al di fuori di essa. La ricostruzione di ciò che è stato, pur priva di riferimenti diretti, è presentata al lettore in tutta la sua drammaticità; niente viene taciuto malgrado quasi nulla venga detto esplicitamente. Ci sono, della Shoah, i superstiti, c’è il loro comportamento ossessivo, il loro agire quasi da sonnambuli, incomprensibile a chi non ha conosciuto la realtà dei lager, delle violenze innominabili, delle camere a gas, che testimonia l’impossibilità, per coloro che hanno patito più di quanto sia possibile (a chi vive, e respira, e ama, e odia, e spera e chissà come, ora dopo ora, giorno dopo giorno, resiste) patire, di allontanarsi dalle esperienze fatte per ricongiungersi al presente, per continuare a esistere, e c’è l’innocenza violata di chi (un bambino, Momik Neuman, figlio di sopravvissuti, protagonista della prima parte del romanzo) questa Shoah che tutti cercano di nascondere ma che da ogni parte sfugge, come un urlo impossibile da trattenere, un pianto che non può cessare, un riso isterico che non conosce freno, si sforza di conoscere, di comprendere, di affrontare e di vincere.
E quando il bambino si fa uomo e niente di quel terribile passato è più un segreto per lui (ed eccoci alle altre tre parti del romanzo, che si possono considerare altrettanti tentativi di raggiungere la Cosa, di metterla a fuoco, di inquadrarla, di contemplarla, di studiarla, di farne, finalmente, un oggetto), ecco che è necessario riprendere in mano tutto ciò che la sua febbrile fantasia infantile aveva costruito, tutte le ipotesi fatte, tutti i sospetti coltivati, tutte le conclusioni raggiunte e dare il via a una monumentale opera di rielaborazione, a una fondazione ex nihilo nella quale possano abitare, fianco a fianco, fantasia e verità, bene e male, morte e vita. Scrive ancora Mauri: “Il giovane Neuman, ormai cresciuto, ragazzo almeno se non uomo, si mette a divorare un libro dopo l’altro […] fino a che non si imbatte nel suo autore: il mitico Bruno Shulz, lo scrittore delle Botteghe color cannella, ucciso da una pistola nazista. Momik decide di salvarlo: Bruno non è morto, ma ha preso un treno per Danzica e qui ha visitato una mostra di Edvard Munch […]. Poi è sceso fino al mare e nel mare si è immerso, accolto dalla femminile massa liquida con amore. Siamo ormai nel cuore di un mito, di una invenzione-trasfigurazione mitologica […]. Si tratta nientemeno che della palingenesi del mondo e dell’uomo in particolare, affidata alle personali mitologie di Neuman-Grossman, ed è forse il capitolo più ingenuo e la sfida più difficile”.
E di nuovo dal mare, che forse plasmerà un nuovo mondo come ha plasmato un uomo nuovo, alla terra, alla Cosa, alla tragedia dei milioni di morti e a quella, se possibile ancora maggiore, dei pochi, pochissimi che alla morte scamparono, che videro la fine dell’incubo solo per precipitare in qualcosa di ancora peggiore, nella prigione di un ricordo che non sbadisce. Dal mare alla storia del nonno di Momik, quell’Anshel Wasserman in giovane età scrittore di successo di racconti per ragazzi (che nella prima parte del romanzo, ridotto all’ombra di se stesso, non fa che ripetere in modo talmente sconnesso da risultare del tutto incomprensibile, la sua vicenda, la storia del patto stretto con l’ufficiale nazista a capo del campo di sterminio nel quale era stato internato e dove aveva visto morire moglie e figlia, desiderando, in conseguenza di ciò, soltanto una cosa; la morte anche per sé, la fine) che accetta di narrare al suo aguzzino un’altra delle avventure che lo avevano reso tanto celebre a condizione però che l’ufficiale, se soddisfatto di ciò che ha sentito, acconsenta a finirlo. E di qui, infine, a un’enciclopedia, a un esaustivo riassunto di quel che non può essere espresso filtrato, mascherato, come nel trucco di un illusionista, come in un astuto gioco di prestigio, da biografia di uno specialissimo bambino, un neonato che Wasserman inserisce nella favola che sta imbastendo per il suo carceriere, un bambino che viene al mondo con una strana sindrome, una malattia che gli concede soltanto un giorno di vita, un giorno nel quale egli conoscerà quello che è stato, saprà dell’orrore, della morte, della guerra, dei carnefici e delle vittime. E ogni cosa saprà per poter avere la coscienza di formulare un voto, una preghiera che dovrebbe essere la preghiera di qualsiasi uomo: “che sia possibile che un uomo viva in questo mondo tutta la sua vita, dal principio alla fine, senza mai conoscere la guerra”.
VEDI ALLA VOCE AMORE
MOMIK
Era andata csì, che qualche mese dopo che Nonna Heni fu morta e seppellita sottoterra, Momik ebbe un nuovo nonno. Questo nonno arrivò nel mese di Shevat dell'anno cinquemilasettecentodiciannove, che in lingua straniera sarebbe il mille novecento e cinquantanove, e non venne dal Dipartimento per la Ricerca dei Congiunti e Nuovi Immigranti, la cui trasmissione Momik doveva stare a sentire tutti i giorni tra l'una e venti e l'una e mezzo mentre mangiava la colazione, e star ben bene attento se alla radio dicevano uno dei nomi che il babbo gli aveva scritto su un foglio: no, il nonno era arrivato con un'ambulanza della Stella-di-Davide-Azzurra che si era fermata nel pomeriggio nel bel mezzo di una bufera di pioggia davanti alla Drogheria-Caffè di Bella Markus, e ne era sceso un uomo grasso e abbronzato ma non uno di quelli neri bensì uno dei nostri, e aveva chiesto a Bella se conosceva qui nella strada la famiglia Neuman, e Bella si era spaventata e si era asciugata presto presto le mani al grembiule e aveva chiesto sì sì è successo qualcosa Dio liberi? E l'uomo aveva detto che non c'era nulla da spaventarsene, nulla era successo, è solo che vi abbiamo portato qui un parente, e aveva additato col pollice all'indietro verso l'ambulanza che pareva del tutto silenziosa e vuota, e Bella s'era fatta tutt'a un tratto bianca come questo muro di calcina, e Bella si sa non ha paura di nulla, e però non era andata lì dove c'era l'ambulanza, e anzi s'era allontanata un po' verso dov'era Momik, che stava seduto a uno dei tavolini e faceva il compito di Torah e aveva detto wei is mir, ahi cosa mi capita, cos'è quest'affare d'un parente così tutt'a un tratto? E l'uomo aveva detto nu 'gnora, non abbiamo tempo da perdere, se li conosce, allora mi faccia su il piacere di dirmi dove sono, perché in casa loro non c'è nessuno. Parlava ebraico con sbagli anche se non pareva un immigrato, e Bella aveva detto subito, certo che da loro non c'è nessuno ora, perché quelli mica sono parassiti, sono gente che lavora duro e di molto per un tozzo di pane, dalla mattina alla sera son lì, nella strada qui accanto, nel botteghino del lotto,e questo qui, il bambino, è di loro, e lei aspetti qui un momento signore, che io già ci vado a chiamarli. E Bella corse via, nemmeno il grembiule s'era levato, e l'uomo guardò un momento Momik e gli strizzò l'occhio, e quando Momik non gli fece nulla di rimando, perché sapeva benissimo come comportarsi con persone estranee che lui non le conosce, l'uomo si strinse così nelle spalle e si mise a leggere il giornale che Bella aveva lasciato lì aperto, e disse così al muro, che perfino con la pioggia che vien giù ora quest'anno ci sarà una bella carestia, e solo questo ci voleva. Ma Momik, che di solito è un ragazzo beneducato, non era restato lì a sentire ma era uscito nella pioggia e era andato all'ambulanza, e s'era arrampicato sullo scalino di dietro che c'era lì e aveva asciugato le gocce di pioggia sul finestrino tondo e aveva guardato dentro e aveva visto l'uomo più vecchio del mondo che nuotava lì dentro come un pesce in un acquario. Era vestito con un pigiama a strisce blu, ed era rinsecchito come Nonna Heni prima che morisse. Aveva una pelle un po' gialla e un po' marrone come quella di una tartaruga, e la pelle gli penzolava dal collo e dalle mani che erano magre magre, e la testa ce l'aveva tutta calva, e gli occhi ce li aveva azzurri e vuoti. Nuotava nell'aria dell'ambulanza con movimenti forti in tutte le direzioni, e a Momik gli venne in mente quel contadino svizzero triste che Zia Itka e Zio Shimek gli avevano portato chiuso in una pallina di vetro tonda con la neve che veniva giù, che Momik senza farlo apposta aveva rotto, e senza pensarci su tanto Momik aveva aperto lo sportello e si era spaventato sentendo che quell'uomo parlava a se stesso con una strana voce, tutta alti e bassi, d'un tratto con foga e d'un tratto quasi piangendo, come se recitasse qualcosa o raccontasse a qualcuno una storia incredibile, e tutt'a un tratto, e questo era davvero difficile da capirsi, Momik fu sicuro al mille per mille che questo vecchio era Anshel, il fratellino di Nonna Heni, lo zio della mamma, che dicevano sempre che Momik gli somigliava tanto soprattutto nel mento e nella fronte e nel naso, e scriveva storie per ragazzi sui giornali all'estero, ma Anshel non era morto lì dai nazisti che Dio li stramaledica? e questo qui pareva vivo, e Momik sperava proprio che il babbo e la mamma fossero d'accordo di tenerlo in casa, perché dopo la morte di Nonna Heni, la mamma aveva detto che solo una cosa voleva, vivere un po' in pace quanto le restava da vivere, e proprio in quel momento era arrivata la mamma, davvero peccato che Momik non avesse pensato in quel momento al Messia, perché così sarebbe arrivato subito com'era arrivata la mamma, e dietro alla mamma correva Bella, strascicando le gambe malate, che sono la gran fortuna di Marilyn Monroe, e gridava alla mamma in yiddish di non spaventarsi e di non spaventare il bambino, e dietro alla mamma e a Bella se ne veniva piano quel gigante del babbo di Momik, e respirava a fatica, e aveva la faccia rossa, e Momik pensava che davvero era qualcosa di serio se tutt'e due insieme avevano lasciato il botteghino del lotto. Bene, allora l'autista dell'ambulanza aveva ripiegato pian piano il giornale e aveva chiesto se loro erano i Neuman, e se erano parenti di Heni Minz che Dio la riposi, e la mamma aveva detto con una strana voce sì, quella era la mia mamma, ma cos'è mai successo, e il grasso autista aveva sorriso un grasso sorrisetto dicendo nulla è successo, e cosa mai doveva succedere, tutti si aspettano sempre che succeda qualcosa, è solo che vi abbiamo portato qui il nonno con tanti auguri. E allora erano andati tutti alla porta di dietro dell'ambulanza, e l'autista era entrato dentro e aveva preso in braccio come nulla il vecchio, e la mamma aveva detto ohi, così m'aiuti Iddio, questo è Anshel, e aveva cominciato a barcollare così, che Bella era dovuta correre al Caffè a prenderle una seggiola proprio a tempo, e l'autista aveva detto ancora che non c'era da spaventarsi così, che non ci aveva portato Dio liberi qualcosa di male, e dopo aver messo il vecchio coi piedi in terra gli dette un colpetto così, amichevole, sulla sua schiena rinsecchita che era anche tutta torta, e gli disse nu, eccoti la tua mishpuche, la tua famiglioletta, Signor Wasserman, e disse al babbo e alla mamma, vedete son già diec'anni che è lì da noi all'ospedale dei matti-di-cervello a Bat-Yam, e mai si capisce quel che dice, sempre canta e parla da solo come fa ora, forse prega o qualcosa così, e non sente nulla di quel che gli si dice, come se fosse sordo, nebech, ecco la tua mishpuche! gli urlò proprio all'orecchio, per far vedere a tutti che quello era davvero sordo, come una campana, ah, chissà quel che gli hanno fatto lì che Dio li maledica, nu, e noi non si sa nemmeno dov'era stato, in quale lager o giù di lì, che ne hanno portati di quelli in stato anche peggio da noi, bisognava vederli, che Dio ne liberi, ma ecco che un mese fa o giù di lì questo aveva cominciato tutt'a un tratto a aprir bocca, e a dire nomi di un mucchio di gente, e anche il nome della Signora Minz, e il nostro Direttore ha fatto un lavoretto proprio da, diciamo, detective, e ha scoperto che tutta la gente che quello diceva era già morta, che Dio la riposi, e che la Signora Heni Minz era domiciliata qui, a Bet Mazmil, a Gerusalemme, e che anche lei Dio la riposi era già morta, e che voi siete gli unici parenti, nu, e il Signor Wasserman più sano di così a quanto pare non sarà più, e sa mangiare quasi da sé, e anche con rispetto le cose sudice le fa da sé, e il nostro governo nebech è povero, e i dottori da noi hanno detto che può essere tenuto a casa anche nello stato che è, alla fin fine è la sua famiglia, vero? ed ecco avete qui una borsa con tutte le sue cose, i vestiti e i certificati medici e documenti e anche tutte le ricette per le medicine che gli davano lì da noi, e questo qui è davvero molto calmo e tranquillo, all'infuori di quei gesti e di quel vocìo, ma davvero non è nulla, da noi tutti gli volevano bene, lo chiamavano "i Melawsky" come quei cantori di sinagoga, perché canta sempre, ma per ridere, davvero, salutali i tuoi ragazzi! urlò all'orecchio del vecchio, ah, nulla di nulla, come una campana, ma ecco qui, Signor Neuman, lei mi firma qui e qui che ve l'ho consegnato io, e ci avete qualche documento? no? non fa nulla. Anche così vi credo. Nu, shoin, bene bene, con tanti auguri, penso che dev'essere una gran bella gioia, come un bambino o giù di lì che è nato, sì, vi ci abituerete tra un po', nu, e noi bisogna che ritorniamo già a Bat-Yam, lì c'è ancora un mucchio di roba da fare, grazie a Dio, shalom, Signor Wasserman, e non ti scordar di noi! E rise in faccia al vecchio che nemmeno s'accorgeva d'esser lì, e subito salì sull'ambulanza e partì di corsa.
Bella corse a prendere uno spicchio di limone per aiutare la mamma a riprendere un po' di forze. Il babbo stava lì immobile e guardava in basso la pioggia che gocciolava dentro l'aiola vuota, perché il Comune non ci aveva piantato un pino. L'acqua colava sul viso della mamma, che stava seduta sulla seggiola nella pioggia a occhi chiusi. Era così bassa, che le gambe grasse non le toccavano terra. Momik s'avvicinò al vecchio e con delicatezza gli prese la mano magra e lo portò fin sotto la tettoia della Drogheria di Bella. Momik e il vecchio erano quasi alti uguale, perché il vecchio era tutto curvo e aveva anche una gobbetta sotto il collo. In quel momento Momik vide che anche sul braccio del nuovo nonno c'era segnato un numero, come c'era anche sul braccio del babbo e della Zia Itka e di Bella, ma Momik vide che questo era un numero differente, e già da quel momento cominciò a impararlo a mente, e intanto Bella era tornata col limone e aveva cominciato a strofinare alla mamma la fronte e le tempie, e l'aria s'era riempita di buon odore, ma Momik aspettava, perché sapeva che la mamma non rinveniva tanto presto.
Proprio in quel momento vennero dall'altro capo del vicolo Max e Moritz, che in realtà si chiamavano Ginzburg e Seidman, ma nessuno se ne ricordava più, all'infuori di Momik, che ricorda tutto. Abitavano nella cantina del Blocco 12, e l'avevano riempita di stracci e di porcherie raccolte un po' dappertutto. Quand'erano venuti quelli del Comune a buttarli fuori, Bella aveva strillato tanto che i funzionari li avevano lasciati lì e se n'erano andati. Max e Moritz non parlavano mai con nessuno ma solo fra di loro. Ginzburg che era sudicio e puzzolente chiedeva sempre chi sono chi sono, e questo perché aveva perso la memoria quando era da quelli lì che Dio li maledica, e il piccolino, Seidman, sorrideva a tutti, e si diceva di lui che era vuoto dentro. Non si muovevano mai l'uno senza l'altro, Ginzburg il bruno andava avanti, e dietro veniva Seidman che teneva la borsa nera che puzzava tanto che si sentiva da un chilometro, e sorrideva al vento. Quando la mamma di Momik li vedeva avvicinarsi, diceva sempre tra sé basso basso e svelta svelta oif alle puste felder, oif alle viste velder , che il malanno pigli tutti i campi vuoti e tutti i boschi deserti, e naturalmente diceva a Momik di non avvicinarsi ai due, ma lui sapeva che quelli erano okay, e la prova era che Bella non li aveva lasciati cacciare dalla cantina, anche se lei stessa li chiamava con tanti soprannomi come Mupim e Chupim e Pat e Patachon - che sono due Michi Mausi che c'erano sui giornali nel paese da cui tutti loro erano venuti.
Ed ecco i due se ne venivano pian piano, ma questo c'era di strano, che stavolta pareva che non avessero paura della gente e addirittura si avvicinavano e si erano messi proprio accanto al nonno, e lo scrutavano ben bene, e Momik guardava il nonno e vedeva che il naso gli s'era mosso un po', come se li avesse sentiti all'odore, e questa non era una gran prodezza, perché Ginzburg lo può annusare perfino uno che è senza naso del tutto, ma qui c'era qualche altra cosa, perché il nonno aveva interrotto all'improvviso la cantilena e s'era messo a guardare i due citrulli, anche così li chiamava la mamma, e Momik aveva sentito che tutt'e tre i vecchi s'erano tesi d'un colpo come se avessero percepito qualcosa insieme, e allora il nuovo nonno aveva voltato le spalle ai due con una tal rabbia, come se avesse perso del tempo prezioso, e subito era tornato alla sua cantilena che dava sui nervi, e di nuovo era come se non vedesse nulla, solo muoveva forte le mani come se nuotasse per aria, o parlasse con qualcuno che non c'era, e Max e Moritz lo guardavano, e il piccolino, Seidman, prese a far movimenti e a emettere suoni come faceva il nonno, fa sempre così come vede che fanno gli altri, e Ginzburg gli fece una certa voce arrabbiata e cominciò ad andarsene, e Seidman gli si trascinò dietro. Anche quando Momik li disegna per i francobolli del Reame quei due sono sempre insieme.
Bene, intanto la mamma s'era alzata pallida come un morto e barcollando senza più forza, e Bella le aveva preso il braccio dicendole appoggiati a me, Gisele, e la mamma non aveva nemmeno guardato il nuovo nonno, e aveva detto a Bella questo m'ammazzerà, ricordati di quel che ti dico, ma perché Dio non ci lascia vivere un po' in pace, e Bella diceva tpfu, ma cosa dici, Gisele, ma questo non è mica un gatto, è un omovivo, così non sta bene, e la mamma diceva ma non basta che io sia rimasta orfana, e non basta quanto s'è sofferto ultimamente con mia madre, ora tutto ricomincerà da capo, ma guarda quello un po' com'è, è venuto a morire a casa mia è venuto, ecco cos'è venuto a fare, e Bella le diceva sha sha, e le prendeva la mano, e tutt'e due erano passate accanto al nonno e la mamma non l'aveva nemmeno guardato, e allora il babbo aveva tossito così, ah nu, cosa fate lì in piedi? e era venuto e coraggiosamente aveva messo una mano sulla spalla del vecchio, e aveva guardato Momik con una faccia un po' vergognosa, e allora aveva cominciato a portar con sé il vecchio, e Momik, che aveva già deciso di chiamare il vecchio Nonno, anche se poi non era un vero nonno suo, Momik si disse che il vecchio non era morto quando il babbo l'aveva toccato, ma in fondo era chiaro, perché chi viene di lì non può più esser colpito.
Quello stesso giorno Momik scese giù nel ripostiglio sotto casa e vi frugò. Aveva avuto sempre paura di scendere laggiù per via del buio e del sudiciume, ma questa volta proprio doveva. Laggiù tra i grandi letti di ferro e i materassi da cui sgocciolava la paglia, e tutti i mucchi di vestiti e di scarpe, c'era anche il chipat di Nonna Heni, che è una specie di cassone chiuso ben bene, con dentro tutti i vestiti e le cose che lei aveva portato di lì, e un libro di preghiere, che si chiama Zenaurena, e il grande asse su cui lei preparava la pasta, e quello ch'è più importante c'erano lì tre sacchetti pieni di penne prese dal culo delle oche, che quelli Nonna Heni li aveva portati con sé per mezzo mondo in nave e in treno e in mezzo ai più grandi pericoli, soltanto per poterne fare un'imbottita qui in Israele, per non aver freddo ai piedi, nu, e arrivata qui cosa era saltato fuori, era saltato fuori che Zia Itka e Zio Shimek che erano venuti qui prima di lei e s'erano subito arricchiti, le avevano già comprato un'imbottita doppia di penne d'oca, e queste penne erano restate nel ripostiglio e subito avevano preso la muffa e un mucchio di porcherie simili, ma una cosa così da noi non la si butta alla spazzatura, e quel che più conta è che dentro il chipat laggiù c'era un quaderno con tante cose che la nonna ci aveva scritto in yiddish, una specie di memorie che aveva avuto quando ancora aveva memoria, ma Momik si ricordava anche che una volta, ancora prima che lui imparasse a leggere, e prima che diventasse lui stesso un alter kap, e cioè una testa di vecchio saggio, la nonna gli aveva fatto vedere una pagina di giornale vecchio vecchio, e lì c'era scritto un racconto, che un fratello di Nonna Heni, quell'Anshel, aveva scritto cent'anni fa (circa), e la mamma s'era arrabbiata con la nonna che rompeva il cervello al bambino con robe finite da un pezzo e che non si dovevano ricordare, e davvero quella pagina di giornale era ancora lì dentro il quaderno, e quando Momik la prese in mano, la sentì subito sbriciolarsi e farsi polvere, e perciò Momik la prese di fra le pagine del quaderno e il cuore gli batteva gli batteva, e poi si mise a sedere sul chipat per legarlo con le sue corde, ma per far questo era troppo piccino e leggero, e il chipat rimase aperto, e Momik già voleva scappar via dal ripostiglio, e all'improvviso gli venne un'idea tanto strana, tanto strana che Momik restò fermo lì e dimenticò completamente quello che voleva fare ora, ma il pisello glielo ricordò eccome, e Momik riuscì a malapena a uscir fuori e ancora vicino alle scale dovette pisciare, perché così gli capita sempre quando scende nel ripostiglio.
Bene, Momik riuscì a portare il quaderno a casa senza che se ne accorgessero, e subito entrò nella sua stanza e aprì il quaderno e vide che strada facendo la pagina si era sbriciolata un altro po', e in alto era già tutta stracciata, e Momik seppe subito che la prima cosa da farsi era ricopiare quello che c'era scritto qui su un altro foglio, perché sennò era tutto kaputt. Prese il suo Quaderno di Spionaggio da sotto il materasso, e cominciò a copiare svelto svelto e tutto commosso parola per parola tutto il racconto che c'era nel giornale strappato:
"I Ragazzi di Cuore" vanno all'aiuto dei pelliros
storia in cinquanta capitoli
scritta dall'aut
preferito dai ragazzi
Anshel Wasserman "Sheheraz"
capitolo XXVII.
"Ohi Illustre Lettore! Nel Capitolo precedente abbiamo lasciato la brigata dei "Ragazzi di Cuore" che galoppava, veloce come un fulmine, sulle ali della "Macchina del Tempo", diretta al Pianeta Satellite, la Luna. La sullodata Macchina era frutto del grande ingegno del giovinetto così dotato, Sergej, esperto in ogni cosa Tecnica nonché Elettrica, e le qualità della sullodata Macchina, già furono esplicate a fondo nel precedente Capitolo, e il fedele Lettore le potrà a suo agio rivedere se putacaso le avesse dimenticate. E giust'assieme alla brigata si trovano sul ponte della Macchina anche i guerrieri della tribù dei Navajo, pellirosse del più buon sangue, e alla loro testa sta il loro fiero Re, da loro denominato "Calzarossa" (perciocché il Caro Lettore certo si sovverrà che i Pellirosse si appellano con gloriosi nomi quali il suddetto, che forse noi, al sentirli, rideremmo!), ed essi tutti fuggono l'ira di malvagi non peritantisi di voler sottrarre loro la Terra Avita, ed alla testa dei malvagi sta il sanguinario figlio d'Albione John Lee Stuart. Conciossiacosaché essi van tutti alla Luna a cercarvi rifugio, e a implorarvi consolazione a' loro guaj, e aprire una nuova pagina nel Libro della loro misera Vita. Ma guarda, o Lettore! La Macchina meravigliosa passa accanto alle Stelle Fisse, penetra tra gli Anelli di Saturno, s'affina tra i lampi, veloce come la Luce! E mentre essa va, ecco Otto Brieg, il caro Otto, il Duce dei "Ragazzi di Cuore", procurarsi a calmare l'animo dei Pellirosse, testé salvatisi dalle mani dell'oste nemico e subito involatisi nei cieli nel Carro di Fuoco, e dir loro tutte le maravigliose prodezze dei "Ragazzi di Cuore", che il fedele Lettore ben conosce, e non lo affaticheremo a ripetergliele ora. E la sorellina di Otto, l'amatissima Paola, dai biondi crini, preparava il pasto per gli ospiti, a ristorare la loro anima tormentata, e a rallegrarli un poco. E Albert Fried, il taciturno giovinetto, sedeva in quegli attimi chiuso nella segreta cella del Pilota, ponderando in cuor suo l'ardua domanda, se vagano Animali sulle piaghe della Luna, imperocché ben sai tu, o Cortese Lettore, che il nostro Albert approfondì la Scienza sua Naturale e conobbe Usi e Costumi dei più svariati esseri animati, dalle Uova di Pidocchio fino ai feroci Rinoceronti, non che possedeva la facoltà di conversare con ogni Animale nel suo linguaggio stesso com'era facoltà del Re Salomone ai suoi giorni, e Albert s'era affrettato a farsi una Rubrica per annotarvi tutti i fatti scientifici che avrebbe certo saputo tra non molto, in quanto che cultore d'ordine e di legittimità è il nostro Amico Albert Fried, e bene sarà che i nostri piccoli Lettori ne prendano salutare esempio. Ancora scrive e già gli giunge all'orecchio un dolce suono di flauto, ed egli si maraviglia oltremodo, e s'affretta ad alzarsi e ad andare verso la Sala dei Passeggeri e si sofferma sul soglio maravigliandosi tutto: perché ecco Herotion, il piccolo Armeno, esperto in ogni sorta di Magia e Incantesimi, eccolo qui suonare il flauto per gli ospiti, e i suoni prodotti dalle sue veloci ed esperte dita calmano in un attimo l'animo dei Pellirosse nonché tranquillano i più timorosi tra loro. I suoni del flauto hanno detto loro parole di consolazione. Né si deve maravigliarsene: imperocché il piccolo Herotion stesso l'han salvato "I Ragazzi di Cuore" alcuni anni orsono, quando il Turco dal Paese degli Ottomani prese d'attacco il villaggio Armeno sui Monti di Ararat, e Herotion solo tra tutti gli abitanti del villaggio e del circostante Mussa Dag si salvò, e i fatti successi colà sono stati descritti uno ad uno, per portarli a conoscenza dei nostri fedeli Lettori, nel racconto "I Ragazzi di Cuore al salvataggio degli Armeni", cosicché certo il giovinetto Herotion ben comprendeva l'animo di questi nuovi salvati. Ancora echeggiava il suono del flauto e una pesante nube venne a posarsi sul volto di Sergej che stava in guardia scrutando gli orizzonti, tenendo in mano il cannocchiale che ingrandisce ogni cosa mille e dugento volte, e Sergej esclamò: "Ohimè che la sventura ci coglie! Guardate! Guardate cosa c'è sulla Luna!". Tutti guardarono colà, e il terrore li afferrò con unghie di acciaio. Subito Otto, il Duce, s'affrettò pure lui ad osservare con l'aiuto del cannocchiale e si sentì venir meno, e impallidì come un morto. Paola gli prese la mano e gridò: "In nome di Dio, Otto, ma cos'hai mai visto?". Ma il palato di Otto era seccato e la lingua gli s'era impastata e non poteva risponderle nulla, e solo la sua faccia testimoniava chiaramente che una grande sventura li attendeva, e forse addirittura, Dio ne guardi, la Morte."
La storia continua nel prossimo numero di "Piccole Luci" che uscirà la prossima settimana!
E questa era la storia che Momik aveva trovato nel giornale, e nel momento che aveva cominciato a copiarla nel suo Quaderno di Spionaggio, già sapeva che era la storia più affascinante e più interessante che qualcuno al mondo avesse mai scritto, e la pagina mandava un odore millenario certamente, e sembrava proprio una pagina di un libro della Torah, e anche le parole erano parole della Torah, e Momik sapeva che anche se le avesse lette mille volte, non avrebbe capito davvero tutto, perché per capire storie come quella c'è bisogno di commenti come, diciamo, quello di Rashì e di qualcuno che capisce davvero la lingua, perché oggi nessuno parla più così, all'infuori forse del solo Nonno Anshel, ma anche senza capire Momik sapeva che questa pagina era in verità il principio di tutte le cose e di tutti i libri del mondo, e che tutto quello che tutti gli scrittori avevano scritto dopo di ciò nei loro libri, era solo una misera imitazione di questa pagina che Momik aveva avuto la fortuna di trovare come si trova un tesoro, ed era assolutamente chiaro che quando avesse saputo questa pagina avrebbe saputo tutto, e non avrebbe avuto più nemmeno bisogno di andare a scuola, e da quel preciso momento Momik aveva cominciato a imparare a memoria il racconto, e intelligente Momik lo è davvero grazie a Dio, e in una settimana già l'aveva imparato tutto, e quando andava a letto si diceva "Herotion, il piccolo Armeno, esperto in ogni sorta di Magia e Incantesimi, eccolo qui suonare ecc.", e anche in classe faceva lo stesso, e pian piano il racconto gli era penetrato in cuore e pensava continuamente cos'era mai quella cosa tremenda che avevano visto con quel cannocchiale sulla luna, e a volte cercava di trovare lui stesso una fine al racconto, ma ben sapeva che una vera fine biblica solo Nonno Anshel, lui solo, avrebbe potuto trovarla, ma Nonno Anshel niente.
Il babbo e la mamma di Momik avevano stabilito che il Nonno stesse nella stanzetta che era stata la stanza di Nonna Heni, ma all'infuori di questo il Nonno non assomigliava affatto alla nonna. Non era capace di star fermo nemmeno un momento, e anche dormendo si rivoltava sempre e parlava nel sonno, e le mani gli balzellavano e si muovevano. Ben presto s'era visto che era impossibile tenerlo chiuso in casa, perché cominciava a piangere e a gridare, e perciò lo lasciavano andare quando voleva. La mattina, quando il babbo e la mamma andavano al botteghino del lotto e Momik andava a scuola, il Nonno Anshel camminava sempre su e giù per il vicolo, e quando era stanco si metteva a sedere sulla panchina verde di fronte alla Drogheria-Caffè di Bella, e parlava da solo. Erano passati cinque mesi precisi da che era venuto a stare con Momik e con i suoi genitori, quando tutt'a un tratto scomparve. La settimana stessa che era arrivato, Momik aveva cominciato a disegnare il suo ritratto per i francobolli del Reame, e sotto il suo ritratto aveva scritto (in onore al Nonno) queste parole: "Anshel Wasserman. Scrittore Ebreo scomparso nell'Olocausto". Bella portava al Nonno una tazza di tè leggero, e anche gli ricordava gentilmente che lei medaf piscen, deve pisciare, Signor Wasserman, e lo portava come un bambino nella sua toilette. Bella è davvero un angelo. Suo marito, Hezkel Markus, è morto un mucchio di anni fa, e l'ha lasciata sola con Yehoshua, che era un ragazzo scapestrato e un po' meschugghener, matto, e lei, da sola, con le sue mani, ne aveva fatto un alto ufficiale dell'esercito, e anche accademico-universitario o giù di lì. Oltre a lasciarle Yehoshua, Hezkel le aveva lasciato in eredità anche suo padre, il vecchio Signor Markus, un uomo - soll er sein gesund un stark, Dio lo tenga forte e in buona salute - malato e debole, che non sa più cosa gli capita, e quasi non scende più dal letto, e Bella, che con Hezkel faceva la regina, e a casa lui non le permetteva nemmeno di muovere da qui a lì un bicchiere, ecco ora che Hezkel era morto non era stata davvero colle mani in mano, e subito aveva cominciato a lavorare nella piccola drogheria per tenersi almeno i clienti fissi, e poi aveva perfino allargato il locale e aveva aggiunto i tre tavolini e aveva fatto mettere anche il rubinetto dell'acqua di selz e la macchina per l'espresso, e stava in piedi dalla mattina alla sera a sudar sangue, e solo il cuscino del suo letto sa quante lacrime ha pianto, ma Yehoshua non era andato mai a letto a stomaco vuoto, e poi chi mai è morto a questo mondo dal troppo lavoro?
Nel suo caffè Bella serviva prime colazioni leggere ma scelte, e anche colazioni di mezzogiorno per buongustai. Momik ricordava perfettamente queste espressioni, perché aveva scritto lui il menu, tre volte (perché c'erano tre tavolini), e ci aveva disegnato anche degli uomini grassi e tutti sorridenti che se la godevano a mangiare da Bella. Nel caffè c'erano naturalmente anche dolci casalinghi, di produzione propria, freschi più di Bella stessa, come diceva lei a chi glielo chiedeva, ma il male era che solo pochi glielo chiedevano, perché non veniva quasi mai nessuno al caffè. Solo gli operai marocchini che costruivano i nuovi caseggiati a Bet Mazmil venivano alle dieci di mattina a comprarsi una bottiglia di latte e un po' di pane e yogurt, e anche qualche cliente fisso di qui dal vicolo veniva, e Momik veniva, naturalmente. Ma Momik veniva senza quattrini. Altra gente non veniva a comprare, perché proprio in quei giorni avevano aperto nel centro commerciale un nuovo e moderno supermercato, e chi faceva acquisti per trenta lire riceveva in regalo dei piattini di sughero per il tè, come se fossero stati tutti da sempre abituati a prendere il tè con i piattini con le principesse, e tutti correvano lì come se lì dessero oro e non pesce affumicato e raperonzoli, e anche perché lì ognuno si prendeva un tassì: un carrettino così, di ferro, magari li portassero via tutti con un carretto di ferro, diceva Bella ma senza arrabbiarsi sul serio, e tutte le volte che parlava del supermercato, Momik arrossiva e guardava da un'altra parte, perché a volte lui era entrato lì a guardare tutte le luci e le cose che c'erano lì da comprare, e come le casse elettriche lavoravano e tintinnavano, e come ammazzavano le carpe nella vasca dei pesci vivi, ma quell'affare che i clienti l'avevano lasciata tutti quanti questo non gliene importava (così diceva Bella), e anche il fatto che ormai ricca non sarebbe più diventata, e poi, Rockefeller forse che mangia due colazioni o una sola come tutti? E Rothschild, forse che dorme in due letti? No, ma quello che l'impensieriva erano l'ozio, la noia, e se fosse andata avanti così, lei sarebbe andata perfino a far la serva, ma solo non starsene qui così, senza far nulla, perché a Hollywood, beh, quest'anno ormai non ci sarebbe più andata, a quanto pare per via delle gambe, e Marilyn Monroe avrebbe potuto star tranquilla e dormire tranquilla accanto al suo nuovo marito ebreo. Bella stava seduta tutto il giorno ad uno dei tavoli vuoti, leggendo "Laishà", la Rivista della Donna, o il quotidiano "Yedioth Achronoth", e fumando sigarette "Savion" una dopo l'altra. Lei, si sa, non ha paura di nulla, e ha sempre detto in faccia a tutti cosa ne pensava. Così ha fatto cogli Ispettori del Comune che eran venuti a buttar fuori Max e Moritz da quello scantinato, e Bella si rivolse loro così, che la coscienza gli avrebbe rimorso per tutta la vita, ma perfino di Ben Gurion lei non aveva paura, e quando leggeva qualcosa su di lui lo chiamava "il dittatorino di Plonsk", ma non di ogni cosa lei parlava così, perché bisogna dire che anche lei, come tutti i grandi che Momik ha conosciuto, è venuta da quel paese che si chiama Quel Paese Lì, di cui è proibito sempre parlare troppo, così, ed è permesso solo pensarci dentro e sospirare con un krekz lungo così, ohiiiiii, così fanno tutti quelli lì, ma Bella però è un po' diversa, e dalla sua bocca Momik ha sentito delle cose davvero importanti su Quel Paese, e anche se pure a lei naturalmente era proibito raccontargli quei segreti, lei ciononostante gli aveva rivelato qualche cosa sulla casa che il babbo e la mamma avevano avuto in Quel Paese Lì, ed era dalla bocca di Bella che Momik aveva sentito parlare la prima volta della Belva Nazista.
Bene, bisogna dire la verità, dapprincipio Momik pensava che Bella intendesse parlare davvero di un mostro immaginario o di un dinosauro gigantesco che esisteva una volta e tutti ne avevano paura. Ma non aveva avuto tanto coraggio di chiederle chi e cosa. Ed ecco, da quand'era arrivato il Nonno nuovo, e il babbo e la mamma di Momik erano ancora più intristiti e sofferenti e urlavano di notte, e non era più possibile andare avanti, Momik aveva deciso di chiederlo di nuovo a Bella, e Bella gli aveva risposto con un tono aspro, che ci son certe cose che grazie a Dio un ragazzo di nove anni ancora non è obbligato a saperle, e con mano nervosa gli aveva aperto come al solito il bottone del colletto della camicia, e gli aveva detto che si sentiva soffocare al solo vederlo in quel modo, ma Momik aveva deciso di insistere, e le aveva chiesto chiaramente che razza di bestia fosse precisamente la Belva Nazista (perché sapeva bene che al mondo non c'erano più bestie immaginarie e certamente non dinosauri), e Bella aveva tirato una lunga boccata di fumo dalla sua sigaretta, e poi l'aveva spiaccicata forte forte nel posacenere, e aveva fatto krekz, e l'aveva guardato, e poi aveva storto le labbra, e non voleva dir nulla, però le era sfuggito di bocca, e aveva detto che la Belva Nazista in fondo poteva venir fuori da qualunque bestiaccia, se solo l'avessero allevata in modo adatto e col mangiare adatto, e allora aveva subito acceso un'altra sigaretta, e le mani le tremavano un po', e Momik aveva visto che di più da lei questa volta non avrebbe cavato, ed era uscito in strada tutto impensierito, e trascinava la cartella sul marciapiede bagnato, e senz'accorgersene s'abbottonava il bottone del colletto della camicia, e allora s'era fermato e s'era messo a guardare il Nonno Anshel che come al solito sedeva sulla panchina verde dall'altra parte della strada stretta, tutto assorto in se stesso, e discuteva con le mani con quell'uomo che era impossibile ma proprio impossibile vederlo e che non gli dava pace un istante, ma la cosa più interessante era che il Nonno ora non era più solo sulla panchina.
Ed era successo così, che negli ultimi giorni e senza che il Nonno nemmeno se ne accorgesse, aveva cominciato ad attirare un mucchio di gente. E proprio gente così vecchia, che fino allora quasi non ne avevano avvertito la presenza nel vicolo, e se l'avevano avvertita avevano fatto di tutto per non parlarne, per esempio di Ginzburg e di Seidman, che venivano qui e lo guardavano da vicino, e Seidman cominciava subito a far dei gesti come li faceva il Nonno, perché lui fa sempre come fanno quelli che vede, e veniva qui anche Yedidiah Munin, quello che sta di casa e anche dorme di notte nella sinagoga vuota insieme ai Santi Martiri. È quel tale Yedidiah Munin che cammina a gambe larghe per via dell'ernia, e porta due paia d'occhiali uno sopra l'altro, un paio da sole, e un paio no, e ai bambini è assolutamente proibito avvicinarlo perché è un tipo osceno, ma Momik sa bene che Munin in fondo è un bonomo, che tutto quello che lui vuole a questo mondo è di voler bene a qualche donna di buona e famosa famiglia, e farle fare dei bambini in un modo che lui solo sa, e per questo Momik gli ritaglia in segreto tutti i venerdì dal giornale di Bella gli avvisi matrimoniali della famosa sensale di matrimoni, la Signora Ester Levin - sistemi moderni e sicuri -, la più rinomata in Israele per i suoi contatti con turisti esteri, ma tutto questo Dio ci scampi che nessuno lo venga a sapere. Bene, e dopo era sceso qui nel vicolo anche il Signor Aharon Markus, il babbo di Hezkel di Bella, che già da dieci anni nessuno l'aveva visto e tutti qui da noi l'avevano già pianto per morto e gli avevano detto la preghiera del Kaddish, e ecco era vivo, e vestito bene e elegante (va bene, Bella non gliel'avrebbe mai fatto fare di uscire per strada vestito come uno zingaro, questo è chiaro), e solo la faccia ce l'ha che Dio ci scampi e non la smette di saltellare e di torcersi e contorcersi in mille musi buffi che è meglio non vederli. E era venuta anche la Signora Hannah Citrin, quella che il sarto, suo marito, l'ha piantata ed è scappato, Dio lo maledica, e l'ha lasciata vedova col marito vivo, così lei strilla sempre per la strada, e per fortuna che sono arrivati i soldi delle riparazioni di guerra tedesche, perché sennò sarebbe morta di fame, Dio ne guardi, perché il sarto, psiakrew, figlio d'un cane, non gli aveva lasciato nemmeno lo sporco sotto le unghie, tutto le aveva preso, che lo pigli ma a lui il colera, e la Signora Citrin è davvero una buona donna, però fa la puttana e va a letto coi neri, a schwarze jar oif ir, che le venga a lei un anno nero, come dice sempre la mamma quando quella passa di qui, e la Signora Citrin fa davvero davvero quella cosa lì con Sasson Sasson, che è terzino nella squadra dell'Appoel di Gerusalemme, e con Victor Arussi che è tassinaro, e anche con Azura che c'ha la macelleria in centro, e c'ha i capelli sempre pieni di penne, e lui parrebbe proprio un buon uomo e non uno che va a letto, ma tutti sanno che sì. E dapprincipio Momik odiava Hannah d'odio nero, e s'era giurato di sposarsi solo con una ragazza di famiglia buona e famosa, come c'è scritto negli annunci matrimoniali di Ester Levin, la sensale, e cioè con una che l'avrebbe amato per la sua bellezza e la sua saggezza e la sua timidezza, e in nessunissimo modo sarebbe andata a letto con quelli lì, ma poi quando aveva detto qualcosa su Hannah Citrin a Bella, Bella s'era arrabbiata con lui e aveva preso a dirgli quant'era da compiangersi, Hannah, e che bisognava aver pietà di lei, come poi si deve aver pietà di tutti, e poi Momik non sapeva tutto quello che era successo a Hannah in Quel Paese Lì, e che quando Hannah era nata lei certo non si sognava di finir così, tutti c'abbiamo un mucchio di sogni e di speranze, dapprincipio, così aveva detto Bella, nu, e allora Momik aveva cominciato a guardare Hannah un po' differente, e aveva visto che alla fin fine era una donna molto bella e aveva una gran parrucca bionda, come i capelli di Marilyn Monroe, e una facciona rossa con dei simpatici baffetti, e due gambe gonfie avvoltolate in un mucchio di fasce, e in fondo era abbastanza okay, e solo odiava lei stessa il proprio corpo, e sempre se lo graffiava con le unghie, e lo chiamava il mio forno infuocato e la mia disgrazia, ed era stato Munin a spiegare a Momik che Hannah strillava così perché era costretta sempre a andare a letto, perché sennò sarebbe uscita di qualcosa o giù di lì, e per questo il sarto l'aveva piantata, perché non era di ferro, e aveva anche qualche problema di corna, e anche di questo bisognava chiedere a Bella, e tutte queste storie avevano impensierito un po' Momik, perché cosa sarebbe successo se tutti quelli che andavano a letto con lei non fossero venuti più, per caso, e lei avesse visto per sbaglio Momik passare di lì? Però grazie a Dio questo non era successo, e bisognava dire anche che Hannah Citrin oltre che col suo corpo ce l'aveva anche con Dio, e gli sventolava in faccia le mani, e gli faceva certi brutti gesti, e strillava e lo bestemmiava in polacco, e questo ancora passi, ma in yiddish? che questa lingua certo Dio la capisce bene. E cos'era poi che voleva sempre, che lui avesse il coraggio una buona volta di scender giù e mettersi faccia a faccia con una povera donna di Dynòw, e in ogni modo fin qui lui non ne aveva avuto il coraggio, ma tutte le volte che cominciava a strillare e a correre per il vicolo, Momik correva subito alla finestra a guardare, per non perdere l'occasione di assistere all'incontro, perché quanto può Dio trattenersi di fronte a tali insulti, e per di più se tutti li sentono qui attorno? Ma è forse fatto di ferro, Dio? E ecco, anche questa Signora Hannah Citrin aveva preso ultimamente a venire alla panchina, e a sedersi accanto al Nonno, ma delicatamente, come una bamboletta, continuando sì a graffiarsi tutto il corpo, ma senza strillare e senza litigare con nessuno, perché perfino lei aveva capito subito che il Nonno dentro di sé era una persona tanto ma tanto delicata e gentile.
E Momik si vergognava un po' a venir qui e star proprio vicino a loro, e soltanto s'avvicinava pian piano, trascinava la cartella sul marciapiede, finché d'un tratto per caso si trovava proprio accanto alla panchina, e poteva sentire quello che dicevano lì in yiddish, era un yiddish un po' differente da quello che parlavano il babbo e la mamma, però ecco lui lo capiva parola per parola: il nostro Rabbi, mormorava il piccolo Seidman, era così sapiente, che i più importanti dottori avevano detto che aveva due cervelli! E Yedidiah Munin, lui diceva: et! (questo è una specie di suono che loro fanno sempre) il nostro Rebbele a Neistadt, il Poppante lo chiamavano, anche lui nebech se n'è andato Lì, lui non avrebbe voluto scrivere in un libro i suoi commenti nuovi, nu e allora, anche i Grandoni dei Hassidim non lo volevano sempre fare, ma poi cos'era successo? Ve lo dicerò io cos'è successo: son successi tre casi che il Rebbele che Dio lo riposi era stato costretto a vederci segni dall'alto! Sente, Signor Wasserman? Dall'alto! E da noi a Dynòw, diceva la Signora Citrin, così, come se parlasse al vento, da noi, in piazza, la statua di Jagello era alta un cinquanta metri, e tutta di marmo! Marmo importato!
Momik dimentica perfino di chiuder la bocca dall'emozione. Perché è chiaro che questi qui parlano del tutto liberamente di Quel Paese Lì! È una cosa quasi pericolosa come si permettono di parlarne così, ma lui deve cogliere l'occasione e sentir tutto, tutto, e poi correre e annotar tutto in quel suo quaderno, e anche a disegnare, perché ci sono cose che è meglio disegnarle. Così è per esempio quando quelli parlano di certi posti in Quel Paese Lì, e lui li può disegnare nell'atlante segreto che sta preparando. E ci può già segnare quella montagna di cui gli ha raccontato il Signor Munin, che c'era in Quel Paese Lì una montagna immensa, forse la seconda del mondo in grandezza, e i goyim la chiamavano, quella montagna, il Monte degli Ebrei, e era davvero una montagna incantata, così ci mandi Iddio cose buone, così ce le mandi a me e a lei, Signor Wasserman, e se uno trovava lì qualcosa, la cosa spariva prima che quello arrivasse a casa, roba da far spavento per davvero! Schrecklich, che paura! E la legna quella che si tagliava lì su quel monte non bruciava! Come il roveto ardente! Così dice il Signor Markus, e sulla faccia gli si disegnano svelte svelte una dopo l'altra tutte le facce Dio ci scampi, ma il Signor Munin tira il Nonno Anshel per la giacca, come un bambino tira la mamma, e gli dice, questo non è ancora nulla Signor Wasserman, da noi a Neistadt c'era un certo Weintraub, Shaie Weintraub si chiamava. Un giovanotto. Uno zuzzik, un ragazzino. Ma così bravo! Perfino a Varsavia sapevano di lui! Aveva avuto una borsa di studio speciale dal Ministero dell'Educazione! Figuratevi, i polacchi gli avevano dato, proprio a lui, una borsa di studio! E ora stia bene a sentire, dice Munin, e la mano gli si torce come sempre nel fondo della tasca (lui cerca lì quel tesoro che ogni povero vi può trovare, dice di lui Bella), quel Weintraub, se gli si fosse per esempio domandato nel mese di Tamuz, per esempio di Tamuz, va bene? dicci per favore, Shaie, quanti minuti ci sono coll'aiuto di Dio da oggi a quest'ora fino a Pesach di quest'altro anno, quanti minuti! non quanti giorni o quante settimane, va bene? lui subito, così ci conceda Iddio di vedere i nostri figli maritati, Signor Wasserman, lui subito rispondeva giusto giusto, come un automa fatte le debite differenze! E la Signora Hannah Citrin smetteva un momento di grattarsi e di tirarsi su la sottana e di graffiarsi le gambe che erano nude fin su, e guardava Munin con uno sguardo tutto pieno di disprezzo e gli diceva ma quello era quel Weintraub che aveva, Dio ci scampi, una testa lunga come una pannocchia di granturco? che poi era andato a Cracovia? E il Signor Munin pareva tutt'a un tratto un po' nervoso, e diceva a voce più bassa, sì è quel giovanotto, dotto come non c'era l'uguale... e Hannah Citrin buttava la testa indietro, e rideva di un riso che strideva come i graffi che si graffiava, e gli diceva: allora sappi che quello è diventato poi uno speculatore di Borsa, ed è sceso in basso ma proprio in basso, sai? Un dotto! Ma va!
E quelli continuano a chiacchierare così, senza fermarsi, senza nemmeno starsi a sentire l'un l'altro, con una cantilena così che a Momik gli pare di conoscerla, e dicono così senza alcuna precauzione tutte quelle parole di Quel Paese Lì, le parole d'ordine più segrete, dicono Provincia di Lwów, Distretto di Bedzodzów, e il Mercato Vecchio del Bestiame, e il grande incendio della sinagoga del Kloiz, e il Servizio Militare, e i Faccendieri più Efficaci, e i Convertiti Arrabbiati, e Feige-Lea la Rossa e Feige-Lea la Nera, e il Golden Bergel, la Montagnola D'Oro che c'era fuori la borgata di Seidman, che lì c'erano seppellite le botticelle d'oro che ci aveva nascosto il Re di Svezia quando fuggiva l'esercito russo, ah, e Momik deglutiva e si ricordava di tutto, per quelle cose lui c'ha un gran cervello, un cervello proprio da alter kap, bene, forse lui ancora non è all'altezza di quel Shaie Weintraub, che è come un robot, fatte le debite differenze, ma anche Momik certamente ma davvero è capace di dirti ad ogni istante quante lezioni di ginnastica son restate fino alle prossime vacanze, e quante ore di studio in tutto (e anche quanti minuti), senza dir poi di altre cose che Momik sa, e senza parlare delle sue profezie, perché Momik è davvero davvero quasi un profeta, una specie di Cosino Indovino, ed è capace di indovinare per esempio quando la maestra farà uno di quegli esamini all'improvviso in aritmetica, e davvero la maestra, la Signora Aliza, entrò in classe e disse: per favore, ragazzi, mettete i quaderni in cartella e tirate fuori dei fogli a quadretti. E i ragazzi guardarono tutti Momik, tutti stupiti ma proprio, e questa poi era solo una profezia da poco, perché già tre mesi prima, quando il babbo era andato a farsi fare la solita visita cardiaca all'Ospedale "Bikkur Holim", che vorrebbe dire "Visitate gli ammalati", c'era stato un esame così, e dopo Momik era già capace di indovinare da sé che tra quattro settimane la maestra avrebbe rifatto l'esame, e gli altri ragazzi tutti quanti non erano capaci nemmeno di concepire una cosa così, per loro quattro settimane son troppa roba per farci su calcoli, e quelli pensano davvero che Momik è un mago, ma chi c'ha a casa un Quaderno di Spionaggio e ci segna tutto quel che succede, lui può sapere che quel ch'è successo una volta ne succederà anche un'altra, e così Momik può davvero far ammattire i ragazzi con una profezia precisa e proprio ma proprio spionistica sulla fila di mezzi blindati che passa per la strada di Malha una volta ogni ventun giorni alle dieci di mattina, e lui può sapere anche (e questa è una cosa che spaventa un po' anche lui stesso) quando rispunteranno quelle pustoline tanto brutte e strane sulla faccia della maestra Netta, ma tutte queste non sono naturalmente che le profezie piccine e sceme, una specie di Abracadabra fatto così in modo che i ragazzi gli portino un po' di rispetto e la smettano di insultarlo sempre, perché le profezie vere e decisive quelle sono solo e soltanto per Momik stesso, e di quelle lui non può dir nulla a nessuno, e per esempio tutte quelle spionierie sui genitori, e tutto quel suo lavoro spionieristico di ricostruire come si fa con un puzzle Quel Paese Lì che era scomparso per tutti, un mucchio di lavoro lui fa su quest'affare, e lui è l'unica persona al mondo capace di farlo, perché lui solo è capace di salvare il babbo e la mamma dalla paura che hanno, e dai mutismi e dai krekzi e dalla maledizione, che poi tutte quelle robe lì si sono fatte ancora peggio da quando il Nonno Anshel è venuto a star da loro, e ha fatto rammentare, senza volere, tutto quello che loro s'erano tanto sforzati di scordare e di tacere.
E certo anche il Nonno Anshel stesso Momik lo vuol salvare, solo che ancora non sa precisamente come. Momik aveva provato diversi sistemi, ma per ora non gli era riuscito di far nulla. Dapprincipio, quand'era solo col Nonno e gli dava da mangiare la colazione, Momik batteva come per caso dei colpettini sulla tavola di faccia al Nonno, come facevano in carcere Rafael Blitz e Nachman Farkash quando progettavano di scappare. Momik stesso non sapeva se quei colpettini poi dicessero davvero qualcosa a qualcuno, ma aveva il presentimento, o meglio la speranza, che qualcuno che si trovava dentro il Nonno gli avrebbe risposto con altri colpetti. Ma non era successo nulla di nulla. Poi Momik aveva cercato di decifrare il codice segreto che il Nonno portava scritto sul braccio. Già ci aveva provato una volta coi codici del babbo e di Bella e della Zia Itka, e anche allora non c'era riuscito. Quei numeri l'avevano fatto proprio impazzire, perché non li avevano scritti a penna e non si cancellavano coll'acqua o con lo sputo. Momik aveva provato di tutto mentre lavava le mani al Nonno, ma il numero era restato lì, e per via di questo Momik aveva cominciato a pensare che quello era forse un numero che l'avevano scritto non dal di fuori ma dal di dentro, e per questo era diventato ancora più sicuro che ci fosse qualcuno dentro il Nonno, e forse anche dentro gli altri, e questo era il loro modo di chiedere aiuto, e Momik si rovistava il cervello per capire cosa mai potesse essere, e si era annotato sul quaderno il numero del Nonno accanto ai numeri del babbo e di Bella e di Itka, e aveva fatto con quelle cifre tutta una serie di esperimenti aritmetici, e poi - ma guarda un po' che fortuna - proprio i7n quei giorni avevano imparato a scuola il valore numerico delle lettere, sarebbe a dire che la prima lettera, la alef, vale 1, e la seconda, la beth, vale 2, eccetera, e Momik era stato naturalmente il primo che in classe aveva capito tutto l'affare, e appena tornato a casa aveva provato a tradurre quelle cifre in lettere in tanti modi, ma anche questo senza arrivare a nulla ma solo a un mucchio di parole strambe che lui non ci capiva nulla, ma Momik non s'era perso d'animo, vi pare?; e una volta, e era già notte fonda, aveva avuto un'idea degna di Einstein nientepopodimeno, o quasi, perché s'era ricordato che ci sono delle cose che le chiamano casseforti, e nelle casseforti i ricchi ci nascondono i soldi e i brillanti che c'hanno, e una cassaforte così si apre solo se si azionano sette lucchetti in un certo ordine preciso e segreto, e potete star sicuri che Momik passò metà della notte a far calcoli e prove, e all'indomani, appena tornato da scuola e dopo aver preso il Nonno dalla panchina e dopo avergli dato la colazione, gli s'era messo a sedere di fronte, e con una voce seria e importante aveva cominciato a dirgli un mucchio di combinazioni delle cifre che c'erano scritte sul braccio del Nonno. Le diceva in una maniera che pareva un po' come quella degli speaker che dicevano alla radio qual era il numero che aveva vinto al lotto trentamila lire, e aveva un presentimento forte forte per davvero che tra un momento il Nonno si sarebbe aperto del tutto, si sarebbe aperto in mezzo e per il lungo come un baccello, e si sarebbe spaccato così in due, e un Nonno Pollicino, un Nonno piccino piccino e ridanciano e bonario e pieno d'amore per i bambini ne sarebbe saltato fuori, ma non era successo così, e Momik aveva sentito tutt'a un tratto dentro di sé un dolore e una strana tristezza, e s'era alzato ed era andato vicino a quel suo Nonno lì, e l'aveva abbracciato forte forte, e aveva sentito quant'era caldo, come un forno ma davvero, e il Nonno aveva smesso di parlare da solo, e per un mezzo minuto o giù di lì era stato zitto, e la faccia e le mani gli stavano ferme, e era come se stesse in ascolto di un mucchio di cose che c'aveva dentro, ma come ben si sa al Nonno è proibito star senza quel suo chiacchierio per troppo tempo tutt'insieme.
E allora Momik aveva cominciato a usare sistemi di spionaggio seri e ben calcolati proprio come lui solo sapeva fare. Quand'era solo in casa col Nonno, aveva preso a andargli dietro col quaderno e la penna in mano, e con una pazienza di ferro annotava sul quaderno in lettere ebraiche il chiacchierio sconclusionato del Nonno. Bene, è chiaro che non scriveva proprio tutto, e perché poi scrivere tutto tutto?, ma scriveva le cose che gli parevano le più importanti, un monte di suoni che il Nonno faceva tante volte, e già dopo qualche giorno a Momik era stata chiara una strana cosa, e cioè che il Nonno non diceva scemenze, ma invece raccontava davvero una storia a qualcuno, come Momik in fondo aveva pensato fin dal principio. Ora cercava di rammentarsi le cose che Nonna Heni gli aveva raccontato su Anshel (era stato tanto tempo prima, quando Momik ancora non capiva sul serio le cose, e non era ancora un alter kap, e si poteva svelargli cose di Quel Paese Lì), e rammentava solo che la Nonna gli aveva detto che il Nonno scriveva anche poesie per i grandi, e che aveva moglie e una figlia e che tutt'e due se n'erano andate tra quelli lì laggiù, e lui, Momik, aveva cercato di trovare un monte di spiegazioni da quel pezzo di giornale vecchio che aveva scovato, ma nulla di nulla aveva trovato, e allora Momik era andato in biblioteca, a scuola, e aveva chiesto alla bibliotecaria, la Signora Govrin, se aveva un libro dello scrittore Anshel Wasserman, e lei l'aveva guardato da sopra gli occhiali, e gli aveva detto che di uno scrittore di questo nome lei non ne aveva mai sentito parlare, e lei, gli scrittori, li conosceva tutti. Bene, Momik non le aveva detto nulla, solo aveva sorriso tra sé.
Era andato poi a raccontare a Bella la sua scoperta (cioè che il Nonno raccontava una storia), e lei l'aveva guardato ben bene con quella faccia che a lui non gli piaceva, un po' con compassione, e aveva scosso la testa di qua e di là, e gli aveva aperto il bottone del colletto della camicia e gli aveva detto, sport, yinghele, bisogna curare un po' anche il corpo, ma guarda come sei pallido e deboluccio e magrolino, proprio a fertel of, un quarto di pollo, come ti piglieranno a fare il soldato ma come, ma Momik aveva insistito e le aveva detto che il Nonno Anshel raccontava una storia. E poi anche Nonna Heni raccontava storie quando aveva ancora il cervello a posto, e Momik si rammentava ancora benissimo la sua voce, che aveva una voce speciale quando raccontava, e le parole che si tendevano nella sua voce all'infinito, e come a lui gli si tendeva la pancia insieme alle parole, e come gli veniva uno strano sudorino sulle palme delle mani, e dietro i ginocchi, e proprio questo era quello che sentiva ora, quando il Nonno parlava. E quando ebbe spiegato a Bella, allora anche lui capì tutt'a un tratto che il suo povero Nonno era chiuso ora dentro il racconto come il contadino dalla faccia triste e la bocca spalancata per urlare che la Zia Itka e lo Zio Shimek avevano portato dalla Svizzera, e quel contadino viveva tutta la vita chiuso dentro il piccolo globo di cristallo che ci nevicava dentro se lo si scuoteva, e il babbo e la mamma l'avevano messo sul buffet in salotto, e Momik non poteva sopportare quella bocca, finché una volta aveva rotto per caso il globo e aveva liberato il contadino, e intanto Momik continuava a annotare nel suo Quaderno di Spionaggio, su cui con furbizia aveva scritto "Quaderno di Geografia", le parole affastellate tutte insieme che diceva il Nonno, e pian piano cominciava a cavarne fuori parole chiare come "herrneigel" per esempio, e "sheherazadah" per esempio, ma di questo l'Enciclopedia Ebraica non diceva nulla, e Momik aveva chiesto a Bella così come per caso cosa fosse "sheherazadah", e Bella era stata contenta di sentire che lui non si interessava più solo e soltanto di Quel Paese Lì, ed era andata a chiarire la cosa dal suo Yehoshua, il Maggiore, e due giorni dopo aveva risposto a Momik che Sheherazada era una principessa araba che viveva a Baghdad, e la cosa pareva piuttosto strana, perché chiunque legge un giornale sa benissimo che a Baghdad non ci sono affatto principesse, e lì c'è solo il principe Kassem, psiakrew, che anche lui ci odia a morte come ci odiano tutti i goyim che Dio li maledica, ma Momik non sapeva nemmeno cosa volesse dire lasciar cadere qualcosa senza andare fino in fondo, lui c'aveva una pazienza grossa così e sapeva che tutto quello che oggi ci sembra misterioso e spaventoso e poco chiaro, se ne può fare una cosa chiara come il sole, perché è tutta una questione di logica, e a ogni cosa c'è una spiegazione, così è in aritmetica e così in ogni cosa, però fino a che la verità non viene a galla bisogna continuare a far tutto come sempre, come se non fosse successo nulla, bisogna andare tutte le mattine a scuola, e star lì tutte le ore di scuola, e non offendersi se i ragazzi gli dicevano che camminava come un cammello, con quei saltellini strambi, ma cosa vogliono, tanto non capiscono nulla di nulla, e non aversene a male se lo chiamano Helen Keller per via degli occhiali e per via del ponte sui denti o come si chiama quella roba ortodontica, che per questo lui cerca un po' di non parlar mai, e anche di non dar troppo retta ai ragazzi quando venivano a leccarlo che dicesse quando ci sarebbe stato l'esame di aritmetica, e bisognava anche continuare a mantenere quel patto con Leizer il delinquente che gli fregava un panino tutte le mattine, e tutti i giorni bisognava conquistarsi la strada tra la scuola e casa, e come si sa questo lo si può fare solo coll'aiuto dell'aritmetica, perché settecentosettantasette passi preciso preciso, né uno di più né uno di meno, ci sono dalla porta di scuola fino al botteghino del lotto, e lì ci sono il babbo e la mamma pigiati l'uno contro l'altro senza spiccicare una parola tutto il giorno, e vedono Momik nel momento che cammina in fondo alla strada, da lontano, loro c'hanno sensi bestiali per questo, e quando lui arriva lì la mamma esce e gli dà la chiave di casa. La mamma è molto piccina e grassa, e sembra un po' come un sacchetto di farina, un sacchetto da un chilo, e si bagna le dita con lo sputo e gli pettina i capelli alla Mottel figlio di Pessie il Cantore di Sinagoga, perché lui non sia tanto spettinato, e gli leva anche un sudicino dalla guancia e dalla manica, e Momik sa perfettamente che lì non c'è nessun sudicio, ma a lei gli piace toccarlo, e lui, l'orfanello, sta lì pazientemente e senza muovere un dito di fronte alle unghie e alle mani della mamma, le guarda timorosamente gli occhi, che se poi la mamma avrà gli occhi malati allora forse non ci daranno il certificato per andare in America, e la mamma, che non sa nemmeno di essere ora la mamma di Mottel, gli dice presto presto e a voce bassa che proprio non se ne può più col babbo, proprio è impossibile sopportarlo ancora e sopportare i suoi krekzi come se fosse un vecchio di novant'anni, e lei si volta indietro a guardare svelta svelta il babbo che non si è mosso, che guarda in aria come se nulla fosse, e dice a Momik che è già una settimana che quello lì non si lava, e solo per via dell'odorino nessuno viene a comprare da loro i biglietti delle lotterie, son già due giorni che non è venuto più nessuno all'infuori dei due o tre clienti fissi, e il Lotto non vorrà tenere più qui il botteghino se non c'è clienti, e di dove si piglieranno i quattrini per mangiare io domando e dico, e se lei deve starsene qui con lui tutto il santo giorno pigiata lì con lui come due acciughe è solo per via che su di lui non si può fare affidamento per questioni di denaro, lui è capace di vendere i biglietti della Lotteria Nazionale ma con lo sconto, e poi anche per vedere che non gli pigli Dio ne scampi un colpo per via di quei selvaggi, ma perché Dio mi punisce così, perché non mi fa morir subito, invece di ammazzarmi a rate a pezzettini, lei chiede e poi sta zitta, e la faccia le casca giù stanca morta, ma allora per un momento tira su gli occhi e lo guarda, e gli occhi della mamma sono tutt'a un tratto giovani e belli, non sono pieni di paura e di rabbia per nessuno, al contrario, è come se facesse a Momik qualche chendelach, qualche vezzo, che lui le sorrida, che le faccia qualcosa di speciale, una luce le si accende negli occhi, ma tutto questo non dura più di un mezzo minuto, e lei già torna a essere com'era, e Momik vede come le si mutano gli occhi, e Mottel le dice senza parole, colla voce di mio fratello Elyahu, basta, basta, mamma, nu, basta col pianto, il Signor Dottore ha detto che non si deve affaticare l'occhio con le lacrime, fallo per noi, mamma, e Momik si giura, tpfu potesse esser morto nella tomba nera di Hitler se non lo farà, si giura che lui le porterà la pietra verde, quella che guarisce gli occhi malati e forse anche tante altre pestilenzialità, e per merito di questi pensieri che Momik pensa forte forte dentro di sé ora riesce quasi a non sentire quei selvaggi della 7a che stanno a rispettosa distanza dal suo grasso babbo, e urlano: "Lotto in città, lotto in campagna, il lotto mette il povero in castagna", questa è una specie di canzone che quelli cantano, invece di quella vera che dicono alla radio che sarebbe "Lotto in città, lotto in campagna, il lotto porta al povero cuccagna", ma Momik e la mamma non sentono nulla e Momik vede che anche il babbo, il gigantesco imperatore triste, si ficca gli occhi nelle manone, no, loro tre non li sentono quei ragazzacci, perché loro sono disposti a sentire solo parole in quella loro lingua segreta, lo yiddish, e tra un po' anche la bellissima Marilyn Monroe potrà chiacchierare con loro, perché s'è sposata con un certo Signor Miller che è ebreo, e ogni giorno impara tre parole in yiddish, e tutti gli altri che vadano al diavolo amen così sia, e la mamma continua a toccare Momik qua e là e lui intanto si dice fra sé sette volte la parola magica "Haimowa", quella che si deve dire ai goyim all'osteria vicino alla frontiera, così c'è scritto nel libro di Mottel figlio di Pessie, perché quando si dice ai goyim "Haimowa", allora quelli lasciano subito subito tutto quello che stavano facendo e fanno con grande ubbidienza tutto quello che tu gli dici di fare, e in particolare se chiedi che ti aiutino a passare di nascosto il confine coll'America, senza poi dire di cose molto più semplici, come picchiare i selvaggi della 7a, che solo perché lui c'ha il cuore buono Momik non li ha fatti ancora picchiare dai goyim.
"C'è delle cosce di pollo in ghiacciaia per te e per lui" dice la mamma, "e stai attento agli ossicini, a non inghiottirli Dio ne guardi, e che anche lui non li inghiotta. Stacci attento." "Va bene." "E fai attenzione col gas, e spegni subito il fiammifero, che non scoppi Dio ne guardi un incendio." "Va bene." "E quando hai finito guarda bene se hai chiuso il rubinetto del gas, anche quello a muro. Quello a muro è il più importante." "Va bene." "E non bere l'acqua di selz che c'è in ghiaccio. Ieri ho visto che dalla bottiglia mancava almeno un bicchiere, sei stato tu a berla, e ora è inverno. E appena entrato a casa chiudi a doppia mandata. Anche la serratura di sopra e anche quella di sotto. Una sola non serve." "Va bene." "E guarda che lui vada a dormire subito dopo mangiato. Che non mi esca a gironzolare sotto la pioggia. Fuori lui non ci ha nulla da fare. Già tutti dicono che noi lo si lascia uscire fuori tutto trasandato." "Va bene." Lei parla ancora un po' a se stessa, controlla così con la lingua se non le fosse restata ancora qualche parola in bocca, perché è chiaro che se ha scordato qualcosa, anche una sola parolina, allora tutto quello che ha detto fin qui non vale un fico secco, però tutt'e due pensano proprio che tutto è a posto, e che lei non s'è scordata di nulla, e perciò a Momik non gli succederà nulla Dio ne liberi, e così la mamma può dire le ultime cose, come sarebbe a dire: "Non aprire a nessuno. Non aspettiamo nessun ospite. E il babbo e io torneremo come al solito alle sette, non stare in pensiero. E fai i compiti. Non accendere la stufa anche se fa freddo. Dopo fatti i compiti puoi andare a giocare un po', ma non scatenarti, bada, e non legger troppo, che ti rovini gli occhi. E non litigare con nessuno. Se qualcuno ti picchia vieni subito qui". La voce della mamma si era fatta pian piano sempre più debole e lontana. "Addio Shleime, vai a salutare anche il babbo. Addio Shleime. E sta' attento."
Così certo lo aveva salutato anche quell'ultima volta, quando lui era ancora un poppante nella culla regale. E il babbo, che allora era ancora un imperatore e un soldato dei marines o giù di lì, aveva chiamato il Capocaccia del Regno, e con una voce soffocata dalle lacrime gli aveva dato ordine di prendere il bambino e di portarlo nel bosco, e di lasciarlo lì che lo sbranassero gli uccelli di preda o come li chiamano. Perché c'era lì una maledizione su tutti i bambini che nascevano. Quest'affare Momik non l'aveva ancora capito fino in fondo. Ed era stata proprio una bella fortuna che il cacciatore aveva avuto compassione di lui e l'aveva allevato a casa sua in gran segreto, e dopo anni e anni Momik era tornato al Palazzo sotto le vesti di un ragazzo sconosciuto, e subito era diventato Consigliere Segreto del Re e della Regina, e anche Traduttore in Capo del Regno, e così poteva far la guardia da vicino, e senza che nessuno lo sapesse, al Re e alla Regina che, poveretti, l'avevano cacciato dal Regno, chiaro che queste son solo fantasie e basta, perché Momik è un ragazzo del tutto scientifico e aritmetico, nessuno gli sta alla pari in tutte le 4e, ma intanto fino a che la verità non si sarà fatta strada, Momik dovrà per forza basarsi almeno un po' su fantasie e cercare di indovinare e fondare le ricerche su certi sussurrii che si sono zittiti nel momento che lui è entrato nella stanza, così era stato quando il babbo e la mamma stavan lì seduti a parlare con Itka e con Shimek delle riparazioni di guerra tedesche, e il babbo aveva aperto tutt'a un tratto la bocca e aveva detto tutto arrabbiato, e uno come me per esempio, che ho perso Lì un bambino, e per questo Momik non è poi tanto sicuro che le sue fantasie sono solo e soltanto fantasie, e a volte quando proprio non ne può più, allora è capace di farsi allegria e di commuoversi tanto, pensando a quanto saranno tutti contenti il momento in cui lui potrà finalmente rivelare ai genitori che lui è il bambino che loro hanno consegnato al Guardacaccia, e sarà come fu un tempo con Giuseppe e i suoi fratelli. Ma a volte Momik la pensa in modo del tutto diverso, e cioè che il ragazzo che è andato perso era il suo gemello, perché Momik sente chissà perché che una volta aveva un gemello siamese, e appena nati li avevano tagliati in due come dice il libro intitolato Incredibile, trecento casi straordinari che hanno commosso il mondo, e una volta forse si incontreranno, e allora potranno riappiccicarsi (se vorranno).
E dal botteghino del lotto Momik va avanti con un passo preciso e scientifico, loro lo chiamano un passo da cammello, e non capiscono che lui sta semplicemente attento a ogni passo che fa, per tutti i passaggi segreti che solo lui conosce e tutte le scorciatoie che solo lui le sa, e c'è un mucchio di alberi che bisogna toccarli come per caso, perché lui sente qualcosa per quegli alberi, e forse lui deve dimostrare a qualcuno che c'è lì dentro quegli alberi che lui, Momik, non l'ha dimenticato, e poi passa per il cortile sudicio della Sinagoga abbandonata, che solo il vecchio Munin ci abita e bisogna passare di lì svelti svelti, sia per via di Munin e sia per via di tutti i Santi Martiri Ammazzati che non ne possono più di aspettare che qualcuno li tiri fuori dalla loro Santitudine e dalla loro Ammazzatudine e di lì ci sono dieci passi preciso preciso fino al cortile di casa, e già si può vedere la casa, che è una specie di quadrato di cemento ritto su quattro zampe fini e tremolanti e sotto c'è un piccolo ripostiglio, la verità è che loro dovevano avere un solo appartamento in questa casa, e non due come c'hanno, ma loro avevano fatto registrare Nonna Heni come facente famiglia a parte, lo Zio Shimek aveva detto di far così, e così erano riusciti ad avere una casa intera, ed è vero che nell'altra metà non ci sta nessuno e nessuno ci entra nemmeno, però è di loro, e in Quel Paese Lì hanno sofferto abbastanza, e questo governo qui, colera! è un santo dovere ingannarlo, e nel cortile c'è un pino immenso e antico, che non lascia passare il sole, e già due volte il babbo era sceso lì con l'accetta per buttar giù l'albero, e tutt'e due le volte si era spaventato di quel che stava per fare, ed era tornato zitto zitto a casa, e la mamma s'era arrabbiata perché lui aveva pietà dell'albero e non aveva pietà del bambino che cresceva al buio senza le vitamine che le dà il sole, e Momik ha per sé tutta una stanza, per lui solo, con la foto del nostro Capo del Governo David Ben Gurion, e con una foto degli aerei Vautour che hanno le ali aperte come uccelli d'acciaio coraggiosissimi per difendere i cieli del nostro Paese, peccato solo che il babbo e la mamma non danno il permesso di mettere sui muri delle altre foto, perché dicono che i chiodi sciupano l'intonaco ma all'infuori delle foto che sciupano davvero un po', la stanza di Momik è tutta pulita e in ordine, ogni cosa al suo posto, ed è una stanza che certamente potrebbe esser d'esempio ad altri ragazzi, se per esempio venissero.
E questa è una via tranquilla, in fondo nemmeno una via, ma un vicoletto piccino piccino. Solo sei case, e sempre tranquilla, meno che quando Hannah Citrin offende il Buon Dio. E anche la casa di Momik è tranquilla, abbastanza. Il babbo e la mamma non hanno molti amici. In fondo non hanno affatto amici all'infuori naturalmente di Bella, che la mamma la va a trovare il sabato pomeriggio, quando il babbo sta seduto in maglietta accanto alla finestra e guarda fuori, e oltre naturalmente Zia Itka e Zio Shimek che vengono due volte all'anno e stanno qui una settimana, e allora tutto cambia. Loro sono gente differente. Assomigliano più a Bella. E anche se Itka ha il numero sul braccio, loro vanno al ristorante e a teatro e a sentire Dzigan e Schumacher, e ridono sempre a voce così alta che la mamma volta la testa da una parte, e svelta svelta si bacia la punta delle dita e se le mette sulla fronte, e Itka dice ma poi cosa può succedere Gisele se si ride un po', e la mamma fa un sorrisino scemo come se l'avessero sorpresa a far qualcosa e dice: no, anzi va bene, ridete, ridete, io così, per nulla, male non farà. Itka e Shimek giocano anche a carte e vanno al mare, e Shimek sa perfino nuotare. Una volta hanno fatto una crociera sulla nave di lusso Gerusalemme un mese intero, perché Shimek c'ha un grande garage a Netanya, e c'è solo un piccolo problema, quell'affare che non gli vengono bambini, perché Itka ha fatto un mucchio di esperimenti scientifici quando era in Quel Paese Lì.
Il babbo e la mamma di Momik non viaggiano mai in nessun posto, nemmeno in Israele, è solo una volta all'anno, qualche giorno dopo Pesach, vanno per tre giorni in una pensioncina a Tiberiade. La cosa è davvero un po' strana, tanto più che son capaci perfino di levare Momik di scuola per quei giorni. A Tiberiade cambiano un po'. Non proprio cambiano, ma sono un po' differenti dal solito. Per esempio, vanno al caffè e si fanno portare gazose e brioches per tutt'e tre. Una mattina, in uno di quei giorni a Tiberiade, vanno sulla riva del lago e siedono sotto l'ombrello giallo della mamma, che davvero si può dire che sia un ombrellone, e tutti si mettono abiti leggeri leggeri. Le gambe se le ungono con la vasellina, perché non si brucino, e sul naso c'hanno tutti e tre una piccola copertura di plastica bianca. Momik non ha costume da bagno, perché sarebbe da scemi spender quattrini per comprar qualcosa che poi si userebbe solo una volta all'anno, e i pantaloncini corti bastano eccome. Può correre sulla riva e allontanarsi proprio fino all'acqua, ma potete star sicuri che lui sa meglio di tutti quei selvaggi che nuotano lì dentro quant'è precisamente profondo il Lago di Tiberiade, e quant'è lungo e quant'è largo, e quali tipi di pesci ci sono. Tutti gli anni passati, quando Momik e i suoi andavano a Tiberiade, Zia Itka veniva a Gerusalemme per aver cura di Nonna Heni. Portava con sé da Netanya un mucchio di giornali polacchi, e quando poi tornava a casa sua li lasciava a Bella. Momik ne ritagliava (soprattutto dallo "Przeglad") fotografie di partite di calcio della Nazionale Polacca, e soprattutto del portiere-della-nazionale-dai-salti-da-gatto Szymkowiak, ma l'anno ch'era venuto il Nonno Anshel, Itka non aveva voluto restare sola con lui perché con lui è difficile, e perciò il babbo e la mamma erano andati da soli, e Momik era restato con la Zia Itka e col Nonno, perché solo Momik sapeva come trattarlo.
Allora, cioè quell'anno, Momik aveva scoperto per la prima volta che i suoi genitori scappavano di casa e dalla città per via del Giorno dell'Olocausto. Momik aveva già nove anni e un quarto. Bella lo chiamava "il malanno della contrada", ma la verità è che era l'unico bambino lì. Così era stato da quando era venuto qui la prima volta in carrozzina, e le vicine si erano chinate su di lui e avevano detto tutte allegre: ohi, Signora Neuman, wos far a miuskeit, ma che brutto bambino, ma che bruttezza, e quelle che sapevano ancora meglio cosa si deve fare, quelle si erano anche voltate da una parte e avevano sputato tre volte per proteggerlo da quella cosa che loro c'hanno dentro il corpo come una malattia, e da allora son già nove anni e un quarto che Momik passa di qui e sente quei bei saluti e quegli sputacchi, e Momik era sempre stato un bambino gentile e beneducato, perché lui sa benissimo cosa pensano degli altri ragazzi che stanno qui nei dintorni, che sono sfacciati e selvaggi e neri tanto neri tutti quanti, e davvero si può dire che Momik si sentiva tanto responsabile di tutti i grandi che stavano di casa qui nel suo vicolo.
E bisogna dire anche che il nome vero e completo di Momik è Shlomo Efraim Neuman. Chiamato così col nome di e col nome di. Se fosse stato possibile, gli avrebbero affibbiato cento nomi. Nonna Heni lo faceva sempre. Lo chiamava Mordechai e Leibele e Shepsele e Mendel e Anshel e Sholem e Homek, e Shlomo-Haim, e Momik aveva imparato così a conoscerli tutti tutti, Mendel che era andato in Russia a fare il comunista, nebech, e era scomparso lì, e Sholem l'yiddishista, che era partito col piroscafo per l'America e il piroscafo era affondato, e Isser che suonava il violino ed era morto dai nazisti che Dio li stermini e li stramaledica, e Leibele e Shepsele che erano piccolini, che per loro non c'era più posto a tavola, la famiglia allora era così grande, e il babbo di Nonna Heni diceva a tutti che mangiassero come si mangia dai signori, e loro mangiavano per terra, sotto la tavola, buoni buoni, e Shlomo-Haim che era diventato uno sportivo campione, e Anshel-Efraim che scriveva poesie così belle e così tristi e poi era andato a vivere a Varsavia e lì era diventato, nebech, uno scrittore ebreo, e tutti tutti quanti se n'erano andati coi nazisti che Dio li stermini e li stramaledica, un bel giorno erano piombati sul borgo, e avevano preso tutti quelli che erano lì e li avevano portati in un cortile vicino al fiume e-ahiiii, e Leibele e Shepsele resteranno per sempre piccolini a ridere lì sotto la tavola, e Shlomo-Haim, che era mezzo paralizzato ed era guarito per miracolo, ed era diventato proprio un eroe Sansone, resterà sempre a muscoli gonfi lì nell'Olimpiade delle borgate ebraiche sullo sfondo del fiume Prut, e il piccolo Anshel, che era sempre stato il più debolino di tutti, e avevano sempre paura che non passasse l'inverno, e gli mettevano mattoni caldi sotto il letto perché non gelasse, eccolo qui seduto calmo calmo col vestito alla marinara, con una buffa scriminatura in mezzo al capo, e dei grandi occhialoni sugli occhi seri, così Iddio non mi conceda vita, e la Nonna batteva le mani, se non è vero che tu gli assomigli tanto. La Nonna gli raccontava storie di loro, un monte d'anni fa, quando lei aveva ancora la memoria sana, e quando tutti credevano che lui non fosse ancora arrivato all'età in cui si comincia a capire, ma quando la mamma gli aveva visto negli occhi che lui non guardava quelle fotografie solo così per fare, subito aveva detto alla Nonna di smetterla e aveva perfino nascosto l'album con quelle belle fotografie (pareva che l'avesse dato alla Zia Itka). Ora Momik cerca con tutte le forze di rammentare cosa precisamente ci fosse in quelle fotografie e in quei racconti. Ogni cosa nuova di cui si rammenta subito l'annota. Perfino piccolezze che gli sembrano senza importanza. Perché questa è una guerra, e in guerra si deve far tesoro di quel che c'è. Così fa anche lo Stato d'Israele che è in guerra con gli arabi psiakrew. È vero che Bella a volte l'aiuta, ma non tanto volentieri, e la parte più grossa lui la deve fare da sé. Momik non ce l'ha con Bella, niente affatto, è chiaro lampante che chi era stato in Quel Paese Lì non avrebbe potuto dargli delle indicazioni vere e proprie, e nemmeno lui avrebbe potuto chiedere a uno di loro aiuto in maniera semplice e diretta. Si vede che loro avevano un mucchio di leggi fatte così con l'obbligo di serbare il segreto, lì in quel Regno. Ma Momik non si sgomenta di fronte alle difficoltà e a quei problemi; perché semplicemente lui non ha scelta, e bisogna finirla con quest'affare una volta per tutte. E nelle ultime settimane ci sono nel suo Quaderno di Spionaggio un monte di righe storte, perché lui scrive al buio, senza vederci per nulla, sotto le coperte. Non sempre sa con precisione come si deve scrivere in ebraico le parole che il babbo urla ogni notte nel sonno. E poi: negli ultimi anni il babbo aveva cominciato a calmarsi un po' e aveva quasi smesso di far sognacci, però da quando era venuto Nonno Anshel tutto era tornato come prima. E quegli urli sono davvero una cosa strana, ma per cosa esistono al mondo la logica e il cervello e Bella? Dopo aver indagato su quegli urli alla luce del sole, tutto comincia a diventare molto più chiaro e semplice. Ed era successo così, che in quel Regno c'era la guerra, e il babbo era l'Imperatore lì ma anche il Capo dei Guerrieri. Un guerriero di truppe commando, ecco cos'era. Uno dei suoi compagni (forse il suo vice-comandante o una cosa così) lo chiamavano Zonder, o forse è meglio scriverlo Sonder. È un nome strambo e forse un nome da cospiratori, un soprannome clandestino, come facevano al tempo dell'Irgun e della Banda Stern. E quelli stavano tutti in un grande campo che si chiamava con un nome complicato. Lì facevano esercitazioni e di lì uscivano anche per sortite coraggiosissime, che erano così segrete, che ancora oggi non se ne può dir nulla e bisogna tacerle. C'erano anche dei treni lì nei dintorni, ma questo non era tanto chiaro. Forse come quei treni di cui gli racconta il suo fratello segreto Bill. Treni come quelli che i selvaggi indiani attaccavano? Tutto è molto confuso. Nel Regno del babbo si facevano anche grandi e splendide azioni belliche che si chiamavano akzien, e a volte facevano lì (a quanto pare in gloria dei cittadini del Regno) delle meravigliose parate militari, delle marce, come a Gerusalemme il Giorno dell'Indipendenza. Un-due, un-due, urla il babbo di Momik nel sonno, links-rechts urla in tedesco e Bella non vuole assolutamente tradurre quelle parole a Momik, e solo quando Momik si arrabbia con lei e strilla, allora gli dice che vuol dire sinistro-destro, che è il modo di dire in tedesco un-due. E questo è tutto? Momik è stupito, e allora perché lei si ostina tanto a non tradurre? E la mamma si sveglia dagli urli del babbo, e comincia a dargli spinte e a scuoterlo e a piangere, nu via, basta, Tuvie, sha, - stil, sta' zitto, il bambino sente, Lì è già finito tutto, nel cuor della notte lui mi strilla così, a klog soll im treffen, che il lutto lo pigli, ora mi svegli il bambino, Tuvie! E poi vengono i grandi krekzi del babbo che si sveglia tutto spaventato, è come una padella bollente quando la mettono sotto il rubinetto dell'acqua, e Momik nella sua stanza può già chiudere il quaderno sotto le coperte, e ancora sente il babbo che tira sospironi così nelle mani, e Momik cerca di dare una risposta in maniera precisa come fa Amos Hacham a una domanda molto interessante nel quiz sulla Torah, se forse le mani del babbo ora gli toccano gli occhi, e se gli occhi continuano a vedere come al solito, allora forse non c'è più morte fra le mani?
Perché a volte anche la mamma gli è capitato di toccare, quando stanno stretti stretti lì nel botteghino del lotto. E la Nonna Heni la prendeva sempre in braccio lui per portarla a tavola e per riportarla a letto. E il Nonno Anshel è lui che lo lava tutti i giovedì con l'asciugamano, nella tinozza, perché alla mamma fa schifo.
Sì, sì, è vero, tutta quella gente è venuta da Quel Paese Lì e forse a loro non gli può nuocere. E bisogna fare bene attenzione a una cosa molto importante, che quando il babbo vende i biglietti del lotto, o quelli delle lotterie, allora lui c'ha dei ditali piccini piccini di gomma su ogni dito!
Senza poi dire della riprova più scientifica, e cioè quello che è successo alle mignatte della Signora Miranda Bardugo che era venuta a curare il babbo quando tutt'a un tratto gli era venuto l'eczema sulle dita. E per tanto tempo Momik esamina tra sé tutte le possibilità come deve fare ogni investigatore che si rispetti: come un bricco che bolle, per esempio? Perché la verità è che uno che guardi così senza saper nulla, può pensare forse che quelle sono mani del tutto normali. O forse come carta vetrata? O aculei di porcospino? S'addormenta a fatica. Già da qualche tempo, da quando è venuto il Nonno Anshel, lui non riesce ad addormentarsi la notte. Come ghiaccio secco? Come una puntura?
La mattina, prima di far colazione (il babbo e la mamma escono sempre prima di lui), lui scrive svelto svelto un'altra soluzione all'enigma: "In un attacco frontale i coraggiosi eroi irruppero dal campo e sorpresero gli indiani selvaggi comandati da Calzarossa, che avevano attaccato il Postale. L'Imperatore galoppava in testa a tutti sul suo fedele destriero, ed era tutto riempito di gloria, e anche sparava dal suo fucile colpi in tutte le direzioni. Sonder (o Zonder?) del suo commando gli proteggeva le spalle. Il gigantesco Imperatore gridava seguitemi, e questo grido coraggioso echeggiava per le distese della terra ghiacciata". Momik si interrompe qui e rilegge quello che ha scritto. Proprio meglio del solito gli era riuscito. Ma ancora non bastava. Mancava un mucchio di roba. E a volte aveva la sensazione che mancava proprio il più importante. Ma cos'è poi il più importante. Lui deve scrivere così che ci sia lì più forza e gloria e bibbismo come la pagina che il Nonno Anshel aveva scritto. Ma come. Lui deve essere più ardito nelle sue fantasie. Perché le cose che erano successe in Quel Paese Lì erano a quanto pare qualcosa di speciale, se tutti stanno tanto attenti a sforzarsi di tacere e non dirne nulla. Momik aveva cominciato allora a usare come aiuto quello che aveva studiato a scuola sul Brigadiere Orde Wingate e sulle sue "Squadre della Notte" che aveva organizzato fra gli ebrei per combattere le bande arabe in sommossa, e anche gli aeroplani Supermystère che riceveremo addiopiacendo dai nostri amici ed eternissimi alleati francesi, e aveva perfino cominciato a servirsi per quelle fantasie della prima pila atomica israeliana che si costruisce proprio in questi giorni nelle sabbie di Nachal Rubin, e tra una settimana si pubblicherà sul giornale "Yedioth Achronoth" un articolo sensazioqualcosa, con le prime foto della "piscina" dove fanno proprio la cosa atomica! Momik sentiva che si stava avvicinando alla soluzione dell'enigma. Si rammentava sempre il discorso importante che Sherlock Holmes aveva fatto in quel suo racconto, che quello che un uomo può escogitare un altro uomo lo può scoprire, e perciò Momik sapeva che sarebbe riuscito. Lui combatteva per salvare i genitori, e anche gli altri. Loro non ne sapevano nulla. E come avrebbero potuto saperne. Perché lui combatteva come un partigiano segreto così. Completamente solo. Soltanto perché tutti loro possano finalmente dimenticare un po', o riposarsi un po', o smettere un momento di aver paura. Momik aveva trovato un sistema. È vero, un po' pericoloso, ma Momik non sa cos'è la paura. Cioè, lui ha paura, però non ha scelta. Bella gli aveva dato senza accorgersene l'indicazione più importante quando aveva parlato della belva nazista. Era stato tanto tempo fa, e lui non aveva capito bene, ma il giorno che era venuto qui il Nonno e Momik era sceso nel ripostiglio a cercare il giornale sacro col suo racconto, aveva capito benissimo. E si può dire che proprio in quel momento Momik aveva deciso di trovarsi in tutti i modi una belva così per addomesticarla e farla diventar buona, e influenzarla perché cambiasse e smettesse di tormentare così tutta quella gente, e che rivelasse alla fin fine quello che era successo in Quel Paese Lì e cosa aveva fatto a quella gente, ed è già quasi un mese, quasi dal giorno che Nonno Anshel è venuto, che Momik è indaffarato fin sopra la punta dei capelli, e così, in segretissimo, giù nel ripostiglio piccino e buio che c'è sotto casa, lui alleva la belva nazista.
Quell'inverno lo ricordarono ancora per molti anni. Non per via delle piogge, perché dapprincipio la pioggia non era affatto venuta, ma per via dei venti. L'inverno del cinquantanove dicevano i vecchi abitanti del quartiere di Bet Mazmil, e non c'era nemmeno bisogno che finissero la frase. Il babbo di Momik girava la sera per casa con dei pantaloni da cui spuntavano le gatkes, vale a dire i mutandoni gialli, e negli orecchi s'era ficcato un bel po' di cotone, e anche nei buchi delle serrature ficcava carta che aveva strappato dai giornali, per tappare i soffi di vento che spifferavano perfino di lì. Di notte la mamma di Momik lavorava, cuciva a macchina, con la macchina che Itka e Shimek le avevano comprato. Bella aveva sistemato le cose in questo modo, che certe signore venissero dalla mamma ad accomodare federe e metter toppe in vecchi lenzuoli, e così entravano in casa un altro po' di grushi, che sarebbero quattrini. Era una Singer di seconda mano, e quando la mamma la faceva andare e la ruota girava e strideva, Momik poteva sentire come la mamma facesse, o quasi, funzionare lei, da sola, il vento e la tempesta lì fuori. Il babbo s'innervosiva molto per il rumore che faceva la macchina, ma non poteva dir nulla, perché anche lui aveva bisogno di quel po' di grushi, e poi non aveva nessuna voglia di mettersi a tu per tu con la mamma e di sentirsi punzecchiare da lei con quella sua linguaccia, e perciò andava solo su e giù per la casa e faceva krekzi e apriva e chiudeva la radio, e tutto questo tempo diceva che il vento e tutta la situazione in generale tutto era per via del governo che lo pigliasse il colera nero. Lui votava sempre per i religiosi, non perché fosse religioso, nient'affatto, ma perché ce l'aveva su con Ben Gurion perché Ben Gurion era al governo, e coi Sionisti Generali, cioè i borghesi e non socialisti come Ben Gurion, lui ce l'aveva su con loro perché erano contro il governo, e con Yaari della sinistra operaia e kibbutzistica perché era un comunista psiakrew. Diceva sempre che da quando i religiosi avevano lasciato il governo di coalizione, era venuto quest'invernaccio tremendo col vento e la siccità, e tutto questo è segno solo che a Iddio non gli piace quel che succede qui, così diceva il babbo, e guardava la mamma con occhi audaci e cauti, e la mamma non smetteva nemmeno di cucire, e solo diceva a se stessa ad alta voce, oich mir a politiker, anche lui un politicante, quel Dag Hammarskjöld.
Ma Momik era abbastanza impensierito, perché sentiva che quei venti che fischiavano facevano girare un po' la testa a certe persone che lui solo ultimamente aveva cominciato a farci amicizia, e sentiva dentro dentro, ma non che lui ci credesse che cose così potessero succedere davvero, però sentiva che tutto era diventato strano e un po' pauroso. La Signora Hannah Citrin, per esempio. Aveva ricevuto un'altra parte delle riparazioni di guerra che le spettavano dalla Germania per la sartoria che la famiglia del sarto aveva nella città di Danzica, e invece di comprarsi da mangiare o di mettere un po' da parte in una vecchia scarpa nel boidem, in soffitta, aveva speso e spanto tutti i quattrini in vestiti, azoi jar oif mir, magari a me un anno così, ma che guardaroba s'era comprata questa donna, diceva la mamma a Bella, e gli occhi le bruciavano dalla rabbia, e come se la passeggia lì quella pocodibuono per tutta la strada e di qua e di là come il piroscafo Gerusalemme, ma cos'ha perso che lo cerca qui per la strada, cosa? E Bella che ha un cuore d'oro, che perfino a Hannah dà sempre il tè gratis, Bella rideva e diceva, e cosa te n'importa a te, Gisele, dimmi un po', l'hai partorita te all'età di settant'anni come fece Sara con Isacco che te ne importa tanto? Non lo sai che una donna si compra una pelliccia per scaldarsi lei e far bruciare d'invidia le vicine? E Momik sta a sentire e sa che Bella e la mamma non capiscono nulla di nulla di quel che succede qui, perché la verità è che Hannah in fondo vuol farsi bella non per far arrabbiare la mamma e nemmeno per quelli che ci vanno a letto con lei, ma perché lei c'ha in testa un'idea nuova, e solo lui lo sa, perché sta sempre attento a quello che Hannah dice tra sé quando sta seduta sulla panchina coi vecchi e si gratta. Ma non solo Hannah Citrin aveva cominciato a essere un po' esagerata. Anche il Signor Munin era diventato perfino più strambo di prima. E la verità era che per lui era cominciato così ancora prima della venuta del Nonno, ma negli ultimi tempi era stato tutto preso da quell'affare. Ed era successo così, che il Signor Munin aveva sentito dire al principio dell'anno che i russi avevano mandato sulla luna il Lunik 1, e lui subito aveva cominciato a interessarsi di cose spazialistiche e da allora aveva cominciato ad essere quasi senza pazienza, e aveva proprio costretto Momik a venire a raccontargli subito ogni novità che lui, Momik, sentisse sugli sputniki, e aveva perfino promesso di pagargli due grushi ogni volta che Momik avesse sentito alla radio il programma "Novità in campo scientifico" che lo trasmettono il sabato mattina, e gli avesse detto quello che nel programma si diceva sul nostro amico, così lui chiamava il Lunik 1, come se si fossero conosciuti in qualche posto. E davvero, ogni sabato dopo il programma Momik scendeva in cortile, e passava per il pertugio che c'è nella rete di cinta del cortile della Sinagoga abbandonata che lì ci stava il Signor Munin come guardiano. Gli raccontava subito quello che aveva sentito alla radio, e Munin gli dava un biglietto che aveva preparato già dal venerdì, con scritto sopra: "Contro questo biglietto pagherò con L.A.D.D. (che sarebbe a dire L'Aiuto Di Dio) al Portatore la somma di 2 (due) grushi all'uscita del Santo Sabato". Così loro due lavorano insieme già da qualche settimana senza nessun problema. Quando Momik porta notizie particolarmente buone sullo spazio e sulle nuove ricerche, Munin è davvero felice. Si china e disegna per Momik in terra con un bastone la luna fatta come una palla tonda, e accanto i nove pianeti di cui sa tutti i nomi a memoria, e accanto ci disegna con l'orgoglio di un baalbus, di un padrone, quel suo amico, il Lunik 1, che ha mancato la luna per un pelo ed è diventato nebech il settimo pianeta. Munin è molto sapiente e istruito, e spiega a Momik dei missili e della forza di volo, e gli dice anche di un inventore chiamato Zaliakov, che Munin gli aveva scritto una volta una lettera con su scritto di un'idea che avrebbe potuto fargli meritare il Premio Nobel, ma era scoppiata la guerra e tutto era andato kaputt, e non è ancora arrivato il momento di parlare di queste cose, e quando verrà allora tutti vedranno chi è e cos'è lui, Munin, invidiare lo potranno, solo invidiarlo, perché mai e poi mai sapranno cosa vuol dire vivere una vita bella, una vita vera, felice, sì, lui non ha vergogna a dirlo, questa è l'espressione giusta, Momik. Felicità, ma deve pur esserci felicità da qualche parte, no? Ah, nu, ma cosa vado a frastornarti la testa così. Disegnava in terra e parlava, e Momik gli stava dritto di fronte, e non capiva nulla, e vedeva la piccola calvizie, coperta da uno zuccottino nero e sporco, e le stanghette delle due paia d'occhiali che Munin legava insieme con un elastico giallo, e i peli bianchi e lunghi sulle sue guance. Quasi sempre teneva una sigaretta accesa appiccicata alle labbra, e sempre veniva da Munin un odore strano e acre che non assomigliava a nessun altro odore, un po' come un odore di carrube giovani e in fiore, e a Momik gli piaceva star vicino a Munin e sentire l'odore, e anche Munin non aveva molto in contrario. E una volta, quando gli americani avevano mandato nello spazio il Pioneer 4 e Momik era venuto ancora prima di andare a scuola a raccontare il fatto a Munin, l'aveva trovato seduto al sole come sempre, su un vecchio sedile d'auto, che si scaldava tutto compiaciuto come un gatto, e accanto a lui, su un vecchio giornale, erano sparsi pezzi di pane bagnato per i suoi uccellini, che lui gli dà sempre da mangiare, e gli uccelli proprio lo conoscono e gli volano dietro dappertutto, e il Signor Munin proprio allora stava leggendo in un Libro Sacro con sulla copertina il ritratto di una Profetessa nuda, e a Momik gli pareva di aver visto quel libro nella botteguccia di Lifschiz nel Centro Acquisti, ma certo sbagliava, perché al Signor Munin quella roba lì non interessa, e Momik sa bene che tipo di ragazze lui cerca negli annunci matrimoniali. Munin aveva nascosto subito il libro dicendo: "Nu, Momik, qual mai novelle mi apporti?" (lui parlava sempre nella lingua dei nostri Maestri Rabbinici che Dio ci benedica per loro merito), e Momik gli aveva detto del Pioneer 4, e Munin era saltato su dal sedile, e aveva preso Momik in braccio in alto in alto, e l'aveva abbracciato stretto stretto, con tutti i peli della faccia irti, e il cappotto ruvido e tutto quell'odore, e lì in cortile aveva danzato una specie di danza strana e paurosa di fronte al cielo e alle chiome degli alberi e al sole, e Momik aveva avuto paura che qualcuno passasse e lo vedesse così, e dietro la schiena di Munin sventolavano le code nere del suo cappotto, e solo quando aveva esaurito tutte le sue forze Munin aveva messo giù a terra Momik, e subito aveva tirato fuori dalla tasca del cappotto un pezzo di carta vecchia e spiegazzata, e si era guardato attorno per vedere se nessuno li guardava, e allora aveva fatto segno a Momik d'avvicinarsi, e Momik, che la testa gli girava ancora forte, s'era avvicinato, e aveva visto che quella era una specie di Carta Geografica e c'erano scritti su dei nomi in una lingua che lui non conosceva, e un monte di Maghendavidi, di Stelle di Davide piccine piccine erano disegnate lì in tanti posti, e Munin gli s'era avvicinato e gli aveva soffiato proprio in faccia "la salvazione di Dio verrà in un batter d'occhio e i Serafini s'innalzeranno in volo" che doveva essere a giudicare dalle parole qualcosa di bibbiesco o giù di lì, e con la sua mano lunga e vecchia aveva fatto un segno come d'un alzarsi in volo forte forte e aveva detto "fiuuuu!!" così forte e con tanta selvaggità che Momik, che la testa ancora gli girava un po', s'era tirato indietro tutto spaventato e aveva inciampato in una pietra ed era cascato, e in quel momento aveva visto coi suoi propri occhi come quel Munin nero e puzzolente e ridente si levava in volo diagonale col forte vento dritto nel cielo, come, diciamo, il Profeta Elia col suo carro, e in quel momento, che Momik sapeva che era un momento che lui mai-e-poi-mai-giurin-giuretta avrebbe scordato, aveva finalmente capito che Munin era davvero un mago nascosto come i Lamed-Vavim, i Trentasei-Giusti-Nascosti, proprio come Hannah Citrin non era una donna come tutte, ma era una maga, e il suo Nonno Anshel era una specie di profeta-all'indietro, che sempre raccontava quello che era già successo, e forse anche Max e Moritz esplicavano qualche compito segreto, e tutti si trovavano qui non per caso, no, erano qui per aiutare Momik, perché prima che lui avesse cominciato a combattere per salvare i suoi genitori e allevare la belva, lui quasi non s'accorgeva che tutta quella gente stava di casa lì. Bene, forse è un po' esagerato dire così, lui sì che se n'accorgeva, ma non parlava mai con loro meno che con Munin, e faceva sempre in modo di star lontano da loro il più possibile, ed ecco ora stava sempre con loro, e se non era con loro pensava a loro, a quello che loro raccontavano e a Quel Paese Lì, e quant'era stato stupido a non capirlo fino ad ora, e bisogna dir la verità, che lui li disprezzava perfino per come erano e puzzavano e in generale, e Momik sperava ora solo una cosa, che gli dessero le loro informazioni segrete, e che lui stesso riuscisse a decifrarle col suo cervello, prima che questo ventaccio matto facesse a tutti loro qualcosa.
E quando Momik e il Nonno tornano a casa a mezzogiorno, devono proprio chinarsi davanti al vento e appena appena riescono a vedere la strada, e si spaventano per un monte di voci strane in mille lingue diverse, che Momik è sicuro che stavano da sempre nascoste nelle cortecce degli alberi e nelle fessure del lastricato rotto dei marciapiedi, da un'infinità di tempo erano lì a quanto pare, finché questo ventaccio non le aveva fatte volar fuori, e Momik si ficcava forte forte le mani in tasca, e senz'interruzione pensava con dispiacere ma perché non aveva mangiato di più in estate perché così sarebbe stato ora più pesante, e il Nonno passava attraverso il vento con l'aiuto di quei suoi movimenti scomposti, solo che tutt'a un tratto lui era capace di dimenticare del tutto dov'è che andava, e allora si fermava e si guardava intorno, e metteva avanti una mano e la tendeva come un bambino piccino, e aspettava che qualcuno venisse a prenderlo per mano, ed era un momento abbastanza pericoloso, perché proprio allora il vento poteva cogliere l'occasione e portarlo via, ma Momik aveva sensi acuti proprio chodoroviani, cioè come di quel portiere del calcio, e arrivava sempre in tempo a prendere il Nonno prima che se lo portasse via il vento, e stringergli forte la mano, che era così morbida di dentro, e poi continuare a camminare insieme a lui, e era chiaro che il vento allora s'arrabbiava per davvero e piombava addosso a loro dalla parte del quartiere di Eyn-Karem e dalla Valle di Malha, e gli buttava addosso giornali bagnati, e vecchi manifesti elettorali che erano attaccati ai muri, e i venti ululavano come sciacalli, e i cipressi diventavano proprio matti per quegli ululati, e cominciavano a piegarsi e a contorcersi in tutti i versi, come se qualcuno gli facesse il solletico proprio nell'ombelico, e a Momik e al Nonno gli ci voleva un'infinità di tempo prima di poter essere a casa, e Momik apriva le due serrature e subito richiudeva anche quella di sotto, e solo allora il vento cessava di fischiargli negli orecchi, e si poteva cominciare a sentire qualcosa.
Allora Momik cominciava col buttare la cartella, e a levare al Nonno il vecchio cappottone del babbo, e ad annusarlo un po' svelto svelto, e a farlo sedere a tavola e a far scaldare il mangiare per tutt'e due. A Nonna Heni bisognava portare la colazione nella sua stanza, perché da sola non scendeva dal letto, ma il Nonno mangiava con Momik, e a Momik gli faceva piacere, come se fosse un Nonno vero che gli si potesse parlare e tutto il resto.
Alla Nonna Heni Momik voleva un gran bene. Ancora sentiva male dentro quando se ne ricordava. E solo pensare in quali tormenti è morta. Bene, in ogni modo Nonna Heni parlava una sua lingua speciale che aveva imparato quando aveva già settantanove anni, e dopo che aveva scordato il polacco e lo yiddish e quel po' d'ebraico che aveva imparato qui. Quando Momik tornava da scuola, correva subito a vedere come stava, e lei si commuoveva dalla gioia, e diventava tutta rossa e gli parlava in quella sua lingua. Lui le portava da mangiare e si sedeva a guardarla. Lei spilluzzicava dal piatto come un uccellino. Aveva un sorriso fisso sulla faccina, un sorriso così lontano, e con quel sorriso gli parlava. Cominciava sempre così che era in collera con lui quale Mendel che aveva abbandonato così la famiglia ed era andato a fare un lavoro da poveretti in un posto che si chiamava Boryslaw, e di lì era capitato in Russia ed era scomparso lì, e come si può fare una roba così e spezzare il cuore della mamma e dei fratellini, e poi lo pregava quale Sholem che anche quando fosse arrivato in America, che lì l'oro serve a pavimentare le strade, non dimenticasse d'essere un ebreo, e si mettesse i tefillin, i filattèri, e andasse a pregare in sinagoga tutti i giorni, e poi lo pregava quale Isser che le suonasse sul violino una "Sherele", e chiudeva gli occhi e si vedeva che lei sentiva proprio il violino suonare, sì, Momik la guardava e non aveva il coraggio di disturbarla. Era una cosa più bella e più eccitante di un film al cinema o di un libro, e a volte gli spuntavano proprio le lacrime, e il babbo e la mamma gli domandavano tutte le volte ma cosa c'aveva lui da starsene tanto tempo lì in camera di Nonna Heni a sentire quelle cose dette in una lingua che nessuno poteva più capire, e Momik diceva che lui capiva tutto. È un fatto. Perché Momik c'ha una facoltà così. È portato per tutte le lingue che nessuno capisce, e lui può capire anche chi sta zitto o chi dice solo tre parole in tutta la vita, come Ginzburg che dice solo chi son io chi son io, e Momik già lo sa che la memoria gli è andata persa, e ora lui la cerca dappertutto, perfino nei bidoni della spazzatura, e Momik aveva già fatto il pensiero di proporgli (ora passano insieme un bel po' di tempo sulla panchina) di scrivere al Dipartimento per la Ricerca dei Congiunti e Nuovi Immigranti, che forse qualcuno l'avrebbe riconosciuto e gli avrebbe detto chi era, e dove era andato perso, sì, Momik era capace di tradurre davvero tutto. Lui è il Regio Traduttore. Lui sa tradurre perfino dal nulla in qualcosa. Bene, questo è perché lui sa che non esiste affatto una cosa così - un nulla, c'è sempre qualcosa, nu, è così precisamente anche col Nonno Anshel, che anche lui mangia come un uccellino, spilluzzica e ingoia, ma con un po' più di paura di quanto avesse la Nonna, certo in Quel Paese Lì erano obbligati a mangiare presto presto come i Figli d'Israele in Egitto la prima sera di Pesach. E anche il racconto che racconta il Nonno Anshel Momik riesce alla fine a decifrarlo, e ora sa che il Nonno racconta sempre qualcosa a un uomo o a un ragazzo che si chiama Herrneigel, questa parola la ripete sempre in un'infinità di modi, a volte con rabbia, a volte con adulazione, e a volte con tristezza, ma tre giorni fa Momik era stato ben bene a sentire il Nonno che parlava da solo nella sua stanza e aveva sentito che il Nonno diceva "Fried", e questo nome Momik lo conosceva già dal Giornale Sacro, e le mani avevano preso a tremargli dall'eccitazione, ma subito s'era detto: ma cosa c'entra, quelle erano vecchie storie, e perché mai il Nonno avrebbe dovuto raccontarle così sempre - sempre, e poi con una tale eccitazione? Ma è chiaro che Momik aveva deciso di provare anche in questo senso, e ora, dopo aver portato il Nonno dalla panchina verde a casa, e dopo averlo fatto sedere a tavola, gli aveva detto tutt'a un tratto, e tutto insieme e senza alcun preavviso: "Fried! Paola! Otto! Herotion!" Bene, la verità è che la cosa era un po' pericolosa. Tutt'a un tratto aveva avuto la sensazione che il Nonno gli avrebbe fatto qualcosa di male. E il Nonno davvero l'aveva guardato con degli occhi terrorizzati, ma non gli aveva fatto nulla, e dopo essere stato zitto forse un minuto intero, aveva detto con una voce calma e chiarissima: "Herrneigel", e col pollice torto aveva accennato a qualcosa dietro di sé, come se davvero ci fosse lì un Herrneigel piccino o grande, e poi aveva detto con un sussurrio pauroso: "Nazikaputt", e tutt'a un tratto aveva fatto a Momik un sorriso vero, un sorriso d'un uomo che capisce le cose, e s'era chinato sul piatto fino a che la sua faccia era proprio vicina a quella di Momik, e gli aveva detto "Kasik" con una tale delicatezza, come se avesse fatto a Momik un regalo, e con le mani il Nonno aveva accennato la figura di un omino, un nano o un bambino piccino, e l'aveva cullato un po' sul petto, come davvero si fa coi bambini piccini, e sempre sorrideva a Momik quel suo buon sorriso, e Momik tutt'a un tratto aveva visto quanto Nonno Anshel assomigliava a Nonna Heni, e non c'era certo da meravigliarsene dato che erano fratello e sorella, ma allora era successa una cosa che era già successa una volta, la faccia del Nonno s'era chiusa di botto, e era come se qualcuno da dentro gli avesse detto di smetterla lì fuori e di tornare presto dentro perché il tempo stringeva, e il Nonno aveva ripreso tutto daccapo, tutto quel chiacchierio e tutte quelle musiche che davano ai nervi e quelle mosse e lo sputo bianco che gli colava sempre dagli angoli della bocca quando parlava, e Momik si era appoggiato indietro ed era tutto fiero di sé per essere riuscito a irrompere così con un'operazione di commando dritto dritto dentro il racconto del Nonno, come avrebbe fatto l'eroe dei paracadutisti Meir Har-Zion alter kap, e anche se per ora aveva saputo solo ben poco, era già sicuro che Nonno Anshel e Herr-neigel erano collegati strettamente con la guerra che Momik già da tempo combatteva con la belva nazista e poteva essere che il Nonno, anche se veniva anche lui da Quel Paese Lì, non fosse pronto a rinunciare a combattere, ed era a quanto pareva l'unico di Quel Paese Lì che fosse pronto a far questo, e perciò tra lui e Momik c'era un patto segreto.
E Momik se ne sta semplicemente lì e guarda il suo Nonno con occhi pieni di ammirazione, e il Nonno gli appare oggi proprio come una figura di Profeta Antico, Isaia o Mosè o giù di lì, e tutt'a un tratto gli è chiaro che tutti i progetti che lui aveva fatto finora riguardo a quello che avrebbe fatto da grande erano tutti sbagliati, e che solo una cosa valeva la pena di fare, e cioè diventare un grande scrittore come il suo Nonno, e quest'idea l'aveva gonfiato tutto d'aria e quasi quasi stava per svolazzare per la stanza come un pallone, e perciò era corso al gabinetto, ma lì aveva visto che proprio non gli scappava nessuna pipì, e che era a quanto pare qualcosa d'altro questa volta, e lui era corso tutto confuso fino alla sua stanza, e aveva tirato fuori dal nascondiglio il suo Quaderno Segreto, che era anche il suo Diario, e anche le sue investigazioni, e anche la raccolta la più scientificissima di tutte le cose che c'erano in Quel Paese Lì, gli Imperatori e i Re, e i Guerrieri, e gli Yiddishisti, e gli sportivi delle Olimpiadi Ebraiche, e i francobolli e le cartevalute, e i disegni precisi di tutte le bestie e le piante che c'erano in Quel Paese Lì, e ci aveva scritto a grandi lettere: "Decisione Importante!!!" e sotto aveva scritto la sua decisione che sarebbe stato uno scrittore come il Nonno, e poi aveva guardato le lettere, e aveva visto quanto erano belle, molto più belle di quelle che faceva di solito, e allora sentì che doveva trovare anche un finale ben fatto che si adattasse a quella grande decisione, e gli venne voglia di scrivere "Forte forte e ci rafforzeremo", come c'è scritto in fondo ai Libri della Santa Torah, ma la sua mano decise per lui e irruppe all'improvviso sulla pagina e scrisse d'un botto il grido di battaglia antico e ardito di Nechemia Ben-Avraham, lo speaker dello sport, "I nostri ragazzi faranno di tutto per ottenere la vittoria!" e subito dopo aver scritto queste parole Momik cominciò a sentirsi pieno di responsabilità e anche di maturità, e con passo lento e dignitoso tornò in cucina, e pulì delicatamente il grasso della coscia di pollo dal mento del Nonno, e lo prese per mano per portarlo nella sua stanza e l'aiutò a spogliarsi e glielo vide anche se aveva fatto di tutto per non, e poi tornò in cucina e si disse il tempo stringe il tempo stringe.
E prima di tutto accese la radio grande, quella che sul suo quadrante di vetro ci sono segnate tutte le capitali del mondo, e aspettò fino a che l'occhio verde si fosse scaldato, e sentì che aveva già perso l'inizio della trasmissione dei Saluti dai Nuovi Immigranti e della Ricerca dei Congiunti, e sperò proprio, che intanto non avessero comunicato i suoi nomi. Tirò giù da sopra la ghiacciaia il foglio su cui il babbo aveva scritto dei nomi a lettere grandi come quelle che scrivono i bambini di prima elementare, e lesse a voce bassa, così con le labbra, insieme alla speaker della radio che diceva Rochele figlia di Pola e di Avraham Seligson di Przemysl cerca la sorella minore Lejele che abitava a Varsavia negli anni... Eliahu Frumkin figlio di Yocheved e Hershel Frumkin di Stary cerca la moglie Elisheva Eichler e i due figli Yaakov e Meir... Momik non ha nessun bisogno di guardare il suo foglio per essere sicuro. Lui sa tutti i suoi nomi a memoria. Signora Ester Neuman nata Shapira, e il ragazzo Mordechai Neuman, e Zvi-Hirsch Neuman, e Sara-Bella Neuman, un mucchio di Neumani perduti vagano in Quel Paese Lì, e Momik non sta più tanto attento a quel che dice la radio, ma si dice fra sé con la voce della donna che parla alla radio, una voce triste e monotona e un po' sconfortata che lui sente sempre all'ora di colazione da quando ha imparato a leggere e gli hanno dato il foglio con i nomi, Yitzhak di Avraham Neuman, e Arié-Leib Neuman, e Gitel di Hershel Neuman, tutti Neuman, tutti della famiglia del babbo, parenti ma molto molto lontani, come gli hanno spiegato tante volte, e il suo dito disegna cerchietti sul foglio sudicio dall'unto di mille e una colazione, e in ogni cerchietto è incluso un nome diverso, ma all'improvviso Momik si ricorda, sì, questa è proprio la cadenza che c'è nel parlare dei vecchi, quando sulla panchina raccontano le loro storie su Quel Paese Lì.
È già l'una e mezza, e bisogna spicciarsi. Momik pulisce ben bene la tavola, e rigoverna piatti e posate con un suo sistema particolare (insaponare, sciacquare, e di nuovo insaponare e sciacquare) fino a che le forchette e i piatti sono lucidi e gli danno soddisfazione, perché lo sanno bene che lui non può sopportare un acquaio pieno di stoviglie sporche, e poi incarta in un sacchetto marrone il suo quarto di pollo che lui non ha toccato nemmeno, e guarda nella ghiacciaia cosa ancora può portar via di lì per la belva. Fruga tra le boccettine dei medicinali nuovi e vecchi, fra i barattoli del rafano rosso e nel piatto del galer, la zampa di vitello in gelatina che è avanzata da sabato, e tra le pentole piene del mangiare per la cena, che è il pasto importante e decisivo, e guarda per la millesima volta dietro la bottiglia del vino di rose che hanno avuto in regalo qualche anno fa da un tale che aveva comprato da loro un biglietto della lotteria che aveva vinto mille lire, era il premio più grosso che uno avesse vinto con biglietti comprati da loro, e Momik aveva scritto su un cartone grande e grosso: "In questo botteghino è stato acquistato il biglietto numero così e così che questa settimana ha vinto 1'000 lire!!!" e quel tale era davvero un brav'uomo e era venuto a dir grazie, e aveva portato la bottiglia, davvero bello da parte sua, ma chi da noi beve queste porcherie, e d'altra parte non è bello buttarlo via, e Momik prese ora un vasetto di yogurt (poi potrà dire alla mamma che l'ha bevuto lui), e un cetriolo e un uovo, e dopo aver teso un momento l'orecchio dietro la porta del Nonno e avendo sentito che dormiva e parlava da solo nel sonno, Momik uscì e chiuse la porta e anche la serratura di sotto, e scese di corsa le scale e passò tra i piloni di supporto, quei piloncini magri di cemento, dritto dritto nel vento, e con tutta la sua forza spinse la porta dura e cigolante del ripostiglio, e respirò forte per la vita e per la morte e entrò, e subito cominciò a venirgli un sudore freddo sulla schiena e sulla faccia, e se ne stette aderente aderente al muro, e si tenne il pugno contro i denti per non urlare, e scappa scappa, così si gridò dentro di sé, scappa perché lei ti mangia, ma lui no, lui deve, lui c'ha da far la guerra, e l'odore della belva è puzzolente e denso, un odore di muffe, un odore di belve e di cacca di belve, e tutte quelle voci spaventose che ci sono lì al buio, i fruscii e i sussurrii e i brontolii, e un'unghia grossa che tocca la parete della gabbia, e un'ala che si tende pian piano, e un certo becco che si apre e si chiude stridendo, scappa scappa, ma lui no, e solo un filo di luce penetra qui dentro per una finestrina, anche lei coperta di cartone, e con l'aiuto di quella luce gli occhi cominciano ad abituarsi pian piano al buio, e allora si può a malapena vedere che sul pavimento, lungo la parete di fronte, ci sono delle casse di legno chiuse, e la verità è che non sono tutte piene, e questo è perché la caccia non è ancora finita.
Finora non aveva avuto di che lamentarsi. La preda era stata davvero soddisfacente. Lui c'ha qui un porcospino grande grande che ha trovato nel cortile di casa, un porcospino dalla faccia nera e triste come quella di un omino, e c'è una tartaruga che Momik ha trovato nella Valle di Eyn-Karem e sta ancora come si dice invernando, e c'è un rospo che voleva attraversare la strada e Momik gli ha salvato la vita e l'ha portato qui, e c'è una lucertola, che nel momento che Momik l'aveva acchiappata si era smontata la coda, e Momik non aveva semplicemente potuto resistere alla tentazione e aveva preso la coda con l'aiuto di un pezzo di carta (era un po' schifosa) e l'aveva messa in una gabbia a parte, e sul biglietto che aveva messo sulla gabbia aveva scritto: "Bestia ancora sconosciuta. Forse velenosa". Ma poi aveva avuto un rimorso della coscienza scientifica per aver scritto così, e aveva aggiunto una correzione che gli pareva onesta: "Forse una coda velenosa". Perché davvero non si poteva mai sapere. E c'è lì un gattino che a quanto pare era un po' impazzito lì nel buio e in gabbia e c'è - e questo è come si dice il diamante della corona della collezione - c'è un giovane corvo che era caduto dal nido che c'è sul pino, dritto dritto dentro il terrazzino di Momik. I genitori del corvo sono già mesi che sospettano proprio di Momik, e gli piombano addosso quando lui passa da solo in cortile, e qualche settimana fa gli hanno perfino beccato la schiena e la mano e gli è uscito sangue e c'è stato un gran fracasso, ma non possono provare nulla, e il giovane corvo riceve tutti i giorni la coscia di pollo e la fa a pezzettini con le unghie e con quel suo becco torto, e Momik lo guarda e pensa ma quanto è crudele, e se è lui la belva, però non si può sapere da chi verrà fuori la belva, e questo lo si vedrà solo dopo che tutti avranno ricevuto il mangiare giusto e le cure giuste.
Qualche giorno prima aveva visto un capriolo. Mentre scendeva per il sentiero di Eyn-Karem, gli era passata davanti all'improvviso una macchia bruna fra le rocce. All'improvviso s'era fermato, aveva voltato la testa e era una cosa fatta di bellezza e di paura e di selvaggità. Un capriolo. Aveva messo avanti la testa per annusare Momik, e Momik aveva trattenuto il respiro. Voleva che venisse da lui un buon odore, un odore di amicizia. Il capriolo aveva piegato una zampa in aria e aveva esaminato l'odore. Tutt'a un tratto aveva fatto un balzo indietro, l'aveva guardato ad occhi spalancati, ed era subito scappato via. Momik aveva continuato per un bel po' a cercarlo, forse per un'ora intera, tra le rocce, ma non l'aveva più trovato. Era arrabbiato e non sapeva perché. Si domandava se anche dal capriolo sarebbe potuta uscire la belva nazista. Ma Bella aveva detto chiaro e tondo: da ogni bestia. Davvero da ogni bestia? Chiarirlo ancora una volta con Bella.
Le cassette con su scritto "Cooperativa Tenuva" e "Tempo Cola" Momik le aveva prese dal retro della drogheria di Bella. Le aveva poi foderate ben bene di stracci e di vecchi giornali, e ci aveva sistemato dei lucchettini di fil di ferro. Aveva spostato tutte le altre robe che c'erano lì, il chipat di Nonna Heni, e i letti grandi che l'Agenzia Ebraica aveva dato anche a loro come a tutti i nuovi immigranti, e i materassi a pagliericcio che puzzavano di pipì, e le valigie gonfie fino a scoppiare di shmates, di stracci, e legate con spaghi perché non s'aprissero, e i due sacconi che erano pieni di scarpe di ogni sorta, perché le scarpe vecchie non si buttano via, e uno che ha camminato una volta scalzo per venti chilometri nella neve lo sa bene, questo l'aveva detto il babbo, e questa era stata l'unica allusione che il babbo aveva fatto a Quel Paese Lì, e Momik l'aveva annotata subito. La neve ci stava proprio bene, con quella storia della Reginetta della Neve che aveva fatto ghiacciare lì tutti quanti. E dall'armadio di cucina aveva rubato dei piatti vecchi e delle tazze mezzo rotte per metterci il mangiare nelle gabbie, e la mamma se n'era subito accorta naturalmente, e lui aveva strillato che non era stato lui, e aveva visto che lei non ci credeva, e allora s'era buttato in terra e aveva scalciato colle mani e coi piedi, e aveva perfino detto una cosa tremenda, che lo lasciassero in pace e non gli rompessero l'anima, e bisogna dire la verità, che prima di cominciare a combattere la belva lui non aveva mai parlato così, né alla mamma né a nessun altro, e la mamma s'era spaventata sul serio, e s'era subito quietata, e si teneva sulla bocca una mano tremante, e gli occhi li teneva spalancati così, tanto che lui aveva avuto paura che si strappassero, bene, ma cosa ci poteva fare lui, le parole gli erano uscite di bocca così. Va bene poi che non lo aiutavano perché a loro era proibito, ma però intralciarlo ancora in quel modo?
E non aveva preso più nulla da casa. E davvero era pericoloso prendere qualcosa di lì, perché la mamma ha gli occhi nella schiena, e anche dorme ad occhi aperti, e può sempre vedere anche quello che lui pensa in testa, e questo era già successo delle volte. Tutto quel che succede in casa lei lo sa. Quando asciuga le forchette e i cucchiai e i coltelli dopo cena, lei li conta in silenzio, con un'arietta così, cantilenante. Lei sa quante frange c'ha il tappeto in salotto, e sempre sempre sa che ora è preciso preciso, anche se non ha orologio. La profezia è a quanto pare qualcosa di ereditario, perché così era cominciato col Nonno Anshel ed era passato alla mamma, e ora a Momik. Come passano da uno all'altro le malattie.
Ed è importante dire che Momik mai e poi mai sta in ozio in quest'affare delle profezie, e cerca sempre d'essere un genio come Shaie Weintraub che conta i minuti che ci sono da qui a Pesach, e ultimamente Momik fa anche tutto il tempo degli esperimenti con le cifre, non qualcosa d'importante, ma abbastanza interessante e la cosa va così, che lui conta sulle dita le lettere che ci sono in certe parole che le persone dicono, e la verità è che si può dire che Momik Neuman di Bet Mazmil a Gerusalemme ha inventato un sistema speciale di contare le dita, un sistema veloce come quello di un robot fatte le debite differenze, e chi non ne sa nulla non può scoprire nulla, perché dal di fuori sembra che Momik stia attento a quello che dice la persona che gli parla, la maestra per esempio, o la mamma per esempio, ma dentro di sé e nelle dita al tempo stesso gli succedono cose segrete. Non succede così con ogni parola, e come sarebbe possibile con ogni parola, perché lui mica è pazzo! ma ci sono parole che c'hanno un suono così, speciale, parole che tintinnano così, e se lui sente una parola di queste, subito le sue dita ci cominciano a correr sopra quanto quella parola è lunga, la suonano come se fosse un pianoforte, e contano con una velocità supermisterica come se avessero un razzo nella coda che le aiuta a spezzare la barriera del suono. Così è se dicono per esempio "terroristi" alla radio, che subito le dita cominciano a correre da sole, e fanno un pugno che sono cinque dita e un altro pugno che sono altre cinque e in tutto dieci come "terroristi". O "squadra nazionale", che sono un pugno più due dita e poi un pugno più quattro dita, e la parola magica "uranio" che è la roba più importante in tutta la pila atomica, trrrrr! un pugno e un dito, in tutto sei lettere. E Momik è già così allenato, che può contare così con le dita e col pensiero frasi intere, in particolare frasi che gli piacciono tanto, come le "nostre truppe sono rientrate senza perdite", che sono precisamente otto pugni più un dito teso, e questo è davvero un gioco simpatico e interessante e riposante, e anche naturalmente rafforza i muscoli delle mani e delle dita, e questo è molto importante per Momik che è un po' bassino, e perfino più magro che basso di statura, però - prima cosa di tutto, anche quelli bassi di statura possono essere forzuti, e la prova è Henry Taylor che è un calciatore inglese nano (come sarebbe a dire gnomo) che ha salvato il Manchester United, e quest'anno l'hanno fatto passare a salvare il Sunderland, e seconda cosa di tutto, con l'aiuto dell'allenamento delle dita e con una forza di volontà pari a quella del Gran Campione Di Lotta Refael Halperin che anche Momik ce l'ha così, anche lui fra poco sarà forte seddiovuole come quel lottatore ebreo famoso che c'era in Quel Paese Lì, Sishe Breincart, che perfino i goyim che Dio li maledica ne avevano paura, e questo è il significato dell'espressione "forza di persuasione", tre pugni e tre dita, e tra parentesi, la legge di questo gioco di Momik stabilisce che le parole che finiscono nel dito medio portano particolarmente fortuna, e perciò in ebraico, dove l'articolo determinativo sta appiccicato alla parola, davanti, conviene a volte aggiungerlo o levarlo per arrivare al terzo dito che è il medio. Cosa c'è di male? Influenzare è permesso. E poi, in guerra tutto è permesso.
E nel ripostiglio buio Momik aspetta ancora un po'. Forse è un po' troppo poco per la belva, ma per ora gli è difficile restare quanto davvero si dovrebbe per incitarla a uscir fuori. Anche così lui non può trattenersi e se la fa addosso come un poppante, e deve correre a casa a cambiarsi. Per quest'affare ancora non ha trovato un sistema. Basta che il corvo stiri e sbatta un po' le ali nere - e i pantaloni di Momik sono già bagnati. Anche la maglietta è bagnata e puzza di sudore come dopo due ore di ginnastica, e intanto qui quel gatto miagola miagolii cattivi e lunghi, e tiene gli occhi mezzo chiusi. La prima notte che il gatto era qui l'avevano sentito anche sopra in casa, e il babbo voleva scendere e cercarlo e buttarlo fuori che se ne andasse a tutti i diavoli, ma la mamma non l'aveva lasciato andare solo nel buio, e poi ci avevano fatto l'abitudine e avevano semplicemente smesso di sentirlo, e anche i miagolii si erano indeboliti, come se miagolasse dentro la pancia. Bisogna dire la verità, a Momik quel gatto gli faceva proprio pena, e aveva perfino pensato di lasciarlo libero, ma c'era un problema: Momik aveva paura ad aprirgli la gabbia perché certo il gatto gli si sarebbe avventato addosso, però Momik si sentiva un po' lui prigioniero del gatto e non il contrario.
Allora lui si costringe a star qui a occhi chiusi, e tutto il corpo gli si raggrinza in uno stato d'emergenza bellica, "emergenza", un pugno e quattro dita, "bellica", un pugno e due dita, nel caso che Dio ne guardi possa succedere qualcosa, e il corvo e il gatto lo guardano fisso, e tutt'a un tratto il corvo apre il becco e fa un rumore sordo stridulo e orribile, e Momik senz'accorgersene si trova già fuori, con la gamba tutta bagnata.
Corre e sale le scale e apre e chiude e dà il lucchetto anche di sotto e grida "Nonno sono qui" e si cambia i pantaloni e si lava ben bene la gamba dalla pipì schifosa, e si mette a fare i compiti, ma prima bisogna aspettare che le mani smettano di tremargli così. Bene. Ora si può disegnare un triangolo equilatero e rispondere ai quesiti di Torah chi disse a chi e cosa disse e quando, e tutta robetta così. Questo Momik lo fa svelto svelto, perché fare i compiti per lui non è mai un problema, e lui odia anche rimandare di fare i compiti e li fa subito il giorno stesso, e perché tenersi questa minaccia sulla testa? Poi si mette a misurare sul suo orologio (un orologio vero che era stato di Shimek) la lunghezza del suo respiro, e si esercita così un po' per il caso che una volta volesse partecipare a una gara di canto senza smettere di cantare per respirare contro il cantante negro Lee Nyens o qualcosa di simile dei Delta Rythms Boys, che fanno rappresentazioni in questi giorni qui in Israele con un nuovo tipo di musica che lo chiamano jazz, e proprio allora si rammenta che si è scordato di chiedere a Bella la ricetta come preparare i cubetti di zucchero per Blacky, il cavallo del suo fratello segreto Bill, e decide di fare ora anche i compiti che aveva dato la maestra di Storia Naturale per tre giorni dopo, e le domande stanno nel libro in fondo a ogni capitolo, e a lui gli piace avere sempre tre compiti avanti già pronti, magari potesse far così anche nelle altre materie, e dopo finito di scrivere si alza e gira un po' per casa di qua e di là, ma cosa aveva dimenticato ancora, ah sì, cosa mangiano i cuccioli di porcospino, perché il porcospino era ingrassato negli ultimi giorni, e forse era poi una porcospina e bisogna esser pronti a tutto, perché la belva può venir fuori da ogni parte.
Poi Momik passa le dita svelto svelto sui libroni dell'Enciclopedia Ebraica che il babbo ci ha fatto l'abbonamento con lo sconto e a rate speciali per i rivenditori di cartelle delle lotterie. Sono gli unici libri che hanno comprato perché libri da leggere ce n'è nelle biblioteche. Momik vuol comprarsi libri coi quattrini che risparmia, ma i libri costano caro, e la mamma non glielo permette, anche se i quattrini sono suoi, di lui, di Momik. Lei dice che i libri fanno polvere in casa. Ma Momik ha bisogno di libri, e quando c'ha nel nascondiglio abbastanza quattrini dai regali e da quanto riceve a volte dal Signor Munin, corre subito alla bottega di Lifschiz nel Centro Commerciale e si compra un libro e strada facendo per tornare a casa ci scrive sopra con una scrittura storta che lui falsifica apposta: "Al mio caro amico Momik, Uri". O ci scrive con scrittura adulta e a lettere grandi come scrive la Signora Grovin: "Il libro appartiene alla Biblioteca della Scuola Elementare Statale di Bet Mazmil - Kiriath Yovel". E così, se la mamma per caso s'accorgesse che lui c'ha un libro nuovo tra i libri di scuola, lui c'avrà una scusa. Ma l'Enciclopedia l'aveva deluso stavolta, perché la pubblicazione non era ancora arrivata alla lettera kof che così comincia in ebraico la parola kippod che sarebbe "porcospino", e sui "cuccioli" poi non diceva nulla di nulla. Su un'infinità di roba l'Enciclopedia s'ingegna di sorvolare. Come se quella roba non esistesse. E proprio roba di cose delle più interessanti, come per esempio quello che il Signor Munin dice sempre di più e che sarebbe "la felicità", che l'Enciclopedia non la ricorda nemmeno, e forse c'ha una buona ragione per farlo, perché di solito l'Enciclopedia è proprio un pozzo di scienza. A Momik gli piace tenere in mano quei grossi libroni, gli fa piacere in tutto il corpo passare il dito su quelle pagine grandi e lisce, che è come se c'avessero su qualcosa che sta fra le dita e la pagina, perché le dita non si avvicinino troppo alla pagina, perché chi sei tu mai e cosa sei in confronto a un'Enciclopedia, e tutte quelle letterine piccine e fitte fitte e le colonne dritte e lunghe e le iniziali misteriose, che sembrano parole d'ordine segrete d'un esercito grande e forte e silenzioso e sicuro che marcia avanti e conquista senza paura tutto il mondo e sa tutto e ha sempre ragione lui, e Momik aveva fatto qualche mese prima il voto di leggere ogni giorno secondo l'ordine alfabetico una voce nell'Enciclopedia, perché lui è un ragazzo sistematico e ordinato, e finora non ha perso nemmeno un giorno, meno che il giorno che era arrivato il Nonno, ma per questo il giorno dopo aveva letto due voci, e anche se non sempre lui capisce quel che c'è scritto, gli piace toccare e sentirsi dentro in pancia e in cuore la forza e la calma dell'Enciclopedia, e la serietà e tutta quella scientifichezza che fa esser tutto chiaro e semplice, e più di tutto gli piace il volume Vi, che è tutto dedicato a Israele, e chi lo guarda dal di fuori può pensare che sia un volume come tutti gli altri, perché anche quello sembra serio e scientifico e sapiente, ma la verità è che in questo volume, verso il fondo, irrompono a un tratto dal di dentro in un mucchio di colori splendidi due meravigliose colonne con le figure dei francobolli della Posta d'Israele emessi finora, e a Momik gli manca il respiro dalla commozione ogni volta che sfoglia pian piano quel volume e come di sorpresa gli saltano addosso tutt'a un tratto quegli splendidi colori come un mucchio di mazzi di fiori, o come la coda d'un pavone che ti si apre in faccia con tutti quei disegni e i colori e la sfrenatezza, e c'era solo una cosa che gli ricordava un po' questa sensazione, e questa era il vedere la fodera rossa come il fuoco che si nascondeva dentro la borsa nera da festa della mamma.
E anche un altro segreto si può svelare qui ora, ed è che quei francobolli avevano dato a Momik l'idea quando aveva cominciato a disegnare i francobolli di Quel Paese Lì. Ultimamente, per via di quello che imparava dai suoi vecchi su quel paese, lui si era già preparato un album quasi completo. Prima doveva naturalmente far bastare quello che sapeva, ed erano cose abbastanza poche e non tanto interessanti, ora si può confessarlo, aveva disegnato per esempio il babbo come è disegnato Haim Weizman il Nostro Primo Presidente sul francobollo blu da trenta centesimi, e la mamma l'aveva disegnata che teneva in mano una colomba della pace, colomba un pugno e due dita, della pace un pugno e quattro dita, o forse scrivere della e così verrebbe fuori un pugno e tre dita portafortuna? e vestita di una veste bianca come nel francobollo Auguri Per Le Feste del 5712, e Bella l'aveva fatta che sembrava il Barone Rothschild, perché anche lei era una Grande e Famosa Benefattrice, e con un grappolo d'uva da una parte, proprio come nel francobollo vero. Di più non c'aveva nulla da disegnare, allora, ma ora era tutto cambiato. Momik aveva fatto un monte di francobolli col Nonno Anshel Wasserman al posto del Dottor Herzl Profeta dello Stato Ebraico com'era al tempo del Congresso Sionistico XXIII (perché anche Nonno Anshel era un profeta pieno di visioni proprio così), e il piccolo Signor Markus l'aveva fatto come il Rambam che sarebbe Maimonide con il rosario in mano e quel buffo cappello come nel francobollo marrone, e Max e Moritz li aveva disegnati come quei due che portano insieme il bastone col grappolo d'uva in quell'altro francobollo marrone, e Ginzburg camminava davanti, e dietro veniva Seidman, piccino e rosa e tutto gentile, e teneva con una mano la sua borsa puzzolente, e anche gli uscivano di bocca le tre parole di Ginzburg, perché lui fa sempre quello che vede fare in quel momento. Ma la più bell'idea gli era venuta per Munin. Era andata così, che nei francobolli Auguri Per Le Feste del 5713 c'è la figura di una colomba bianca che vola nobilmente e c'è scritto "la mia colomba negli anfratti della roccia", e Momik era stato tre giorni lì a disegnare forse venti brutte copie finché gli era venuto quello che voleva, ed era la figura del Signor Munin che volava in aria con un mucchio d'uccellini che volano sempre da lui perché lui gli dà i minuzzoli di pane, e Momik aveva fatto Munin proprio come se fosse vero, col cappello nero e il nasone rosso come una kartofela, e solo che nella figura lui c'aveva anche delle ali bianche come quelle di una colomba, e in fondo al francobollo Momik ci aveva fatto una stellina bianca con scritto su in piccolo "felicità", perché era lì che Munin voleva sempre andare, no? E c'erano ancora un monte di francobolli belli e interessanti in quella collezione, come quello con Marilyn Monroe coi suoi capelli biondi, che sono belli come la parrucca di Hannah Citrin, e sul lembo inferiore aveva scritto (Bella l'aveva aiutato a tradurre) "Marilyn Monroe reds yiddish" perché quella aveva promesso d'imparare a parlare lo yiddish, no? ma la Marilyn l'aveva fatta così, per il piacere di farla, ma il più importante nella collezione erano i francobolli nuovi di Quel Paese Lì con tutti i posti e le cose storiche di Lì, come sarebbe a dire il vecchio kloiz (che lui l'aveva disegnato simile alla nuova Casa della Cultura), e la Fiera di Neistadt, che si diceva che il Profeta Elia nientepopodimeno ci veniva travestito da povero contadino, e la forca da impiccare nella città di Plonsk col terribile malandrino Bubo appeso sopra, e aveva disegnato l'Olimpiade Ebraica, e perfino l'avarone Elia Leib della città di Hannah Citrin, che di lui si diceva che non dava da mangiar nulla alla moglie a colazione (dalla tanta avarizia), e nel francobollo si vedeva preciso preciso come l'avarone faceva col coltello un segno di Maghendavid sul filone di pane, per essere sicuro che non ne tagliassero nemmeno una fettina mentre lui era fuori di casa, e poi Momik aveva fatto un'altra serie molto bella e ben riuscita con gli animali di Quel Paese Lì. In questo aveva avuto una fortuna folle, perché le statuine di tutti quegli animali le aveva trovate per caso nel buffet di vetro nel salotto di Bella. Mille e una volta era stato lì, e non aveva capito cos'erano, e solo dopo che era arrivato il Nonno e Momik aveva cominciato a combattere, aveva capito tutt'a un tratto che quelle statuine fatte di vetro colorato erano proprio proprio come gli animali che c'erano in Quel Paese Lì, perché di lì Bella le aveva portate! Nel suo buffet c'erano cerbiatti celesti e elefanti verdi, e aquile viola, e un mucchio di pesci con pinne lunghe e delicate e smaglianti, e canguri e leoni, e tutti erano fatti con delicatezza e fragili e piccini piccini e trasparenti e chiusi nel loro vetro, ed era proibito toccarli perché sennò si rompevano subito, ed erano come se si fossero congelati nel pieno di una corsa, come in fondo era successo a tutti quelli che venivano da Quel Paese Lì.
E così, in quello stesso giorno, nel pomeriggio, Momik era riuscito a disegnare anche Weintraub con una testa lunga come una pannocchia di granturco, che stava a fronte aggrottata dai tanti pensieri profondi, e da un lato in alto Momik ci aveva fatto una bottiglia di vino e un'azzima, e poi aveva disegnato il suo Mottel vestito da paracadutista come nel francobollo per il Decennale del Paracadutismo Ebraico, e aveva fatto ai francobolli nuovi anche la dentellatura, e li aveva appiccicati nel Quaderno dei Francobolli, e aveva guardato l'orologio e aveva visto che erano già le sei e allora aveva acceso la radio perché c'era l'Angolo del Bambino, e raccontavano di Re Mattia Primo, e Momik stava a sentire ma a ogni istante s'alzava, perché si ricordava che s'era scordato di fare una cosa, di far la punta a tutte le matite finché fossero fini come uno spillo e di lucidare sul giornale aperto tutte le scarpe sue e quelle del babbo e quelle della mamma, finché fossero lucide lucide e gli facessero bene al cuore a vederle, e di annotare in quel Quaderno di Geografia Segreto quello che aveva letto il giorno prima sul giornale, che le due prime cavalle dell'Esposizione Agricola Ebraica a Bet-Dagan erano già gravide e tutti aspettavano, e poi era terminato il programma radio e lui aveva preso il libro Emilio e i detectives che a lui gli piaceva leggerlo anche perché è interessante, e anche perché ci sono in questo libro cinque errori di stampa che a lui gli piace tutte le volte trovarli, e allora può andare a vedere se gli errori sono già annotati nel suo Libretto degli Sbagli di Stampa che lui trova nei libri e nei giornali (ce ne sono già quasi centosettanta), anche se sa che quegli errori di stampa di Emilio e i detectives sono già annotati lì da tanto tempo, e erano già le sei e trentatré, e Momik era andato ora a sdraiarsi sul sofà in salotto, sotto il quadro a colori che loro c'hanno lì in casa che il babbo e la mamma l'avevano avuto in regalo da Itka e Shimek, ed è quel quadro a olio grande grande col bosco e la neve e il ruscello e il ponte, così certo era Neistadt o così era Dynów dove i suoi vecchi amici stavano di casa una volta, e mettendosi disteso lì in un certo modo speciale, un po' storto, sul sofà, si può vedere che tra i rami dell'albero nell'angolo di sopra c'è la faccia o quasi la faccia di un ragazzo, che solo Momik lo sa che c'è, e forse è il suo gemello siamese ma non è sicuro, e Momik guarda come si deve, ma la verità è che oggi l'ha fatto senza metterci troppa intenzione, perché gli fa molto male la testa già da un po' di giorni, e gli occhi anche, ma a lui è proibito essere stanco, perché la guerra principale d'oggi ancora non è nemmeno cominciata. E Momik si ricorda tutt'a un tratto che sono già passate diverse ore da quando ha deciso di fare lo scrittore e ancora non ha scritto nulla, e questo era stato solo per via che non aveva trovato nulla di cui si potesse scrivere. Perché lui non sa nulla sui delinquenti pericolosi come ce n'è in Emilio e i detectives, né sui sommergibili come ne sapeva Jules Verne, e la sua vita, di lui, di Momik, è tanto normale e noiosa, un ragazzino di nove anni come ce n'è tanti e cosa c'è poi da raccontare, e lui guarda un'altra volta l'orologio, il suo grande orologio giallo, e si alza dal sofà e girella ancora un po' di qua e di là, e si dice ma per scherzo mi fai venire il mal di testa a vederti girellare così attorno ai tuoi krekzi, Tuvie, come qualcuno dice a qualcuno qui in casa. Ma questo proprio non riesce a farlo ridere, e almeno quando guarda l'orologio la volta dopo mancano già ventun minuti alle sette, e allora lui si trasmette senza parole in testa la descrizione degli ultimi minuti della partita decisiva che ci sarà tra poco nella città di Wroclaw in Polonia tra la nostra Squadra Nazionale e la Nazionale Polacca, e questa volta lui lascia vincere loro con quattro gol, e cinque minuti prima della fine quando la situazione pare proprio del tutto kaputt, il nostro allenatore Giola Mandi leva disperatamente gli occhi verso le tribune piene di pubblico polacco che grida e schiamazza, e tutt'a un tratto chi vede lì? un bambino che a lui gli basta di guardarlo una volta per vedere che è un calciatore nato e sputato, un campione nato e sputato, se in classe l'avessero lasciato giocare lui gliel'avrebbe fatta vedere a tutti, beh, e Giola Mandi chiede un break, e dice qualcosa all'orecchio dell'arbitro, e l'arbitro è d'accordo, e tutto il pubblico zittisce, e Momik scende piano piano gli scalini delle tribune, ed entra in campo e subito organizza i terzini e l'attacco della nostra Nazionale come si deve (perché lui c'ha esperienza in questo da quando ha allenato Alex Tuchner), e in quattro minuti Momik ha cambiato tutto dal nero al bianco, come si dice, e la nostra Nazionale ha vinto 5 a 4, magari fosse così amen, e così sono già quattordici minuti alle sette, nu, l'ora si avvicina, e Momik è andato in bagno a sciacquarsi la faccia con l'acqua calda e ha messo la faccia preciso preciso di qua e di là dall'incrinatura lunga che c'è in mezzo allo specchio, e ha sentito la pioggia che ha cominciato a cadere fuori e la macchina della polizia che subito ha cominciato a passare con l'altoparlante per avvertire gli automobilisti di andar piano, e tutt'a un tratto Momik si è ricordato che s'è scordato di dare alle quattro le pillole contro la stitichezza e contro tutte le pesti al Nonno, e gli rimordeva un po', al Nonno si può far di tutto e lui non se ne accorge, è proprio come un bambino piccino, e la gran fortuna del Nonno è che Momik c'ha un cuore d'oro, perché gli altri ragazzi avrebbero colto l'occasione d'avere un Nonno così rincitrullito e gli avrebbero fatto un monte di roba, e Momik ha tirato la testa fuori del bagno e ha sentito che il Nonno cominciava a svegliarsi alla fin fine dal sonno e continuava a parlare da solo come al solito, e son restati ancora nove minuti, e Momik s'è levato l'apparecchio di bocca, e s'è lavato i denti col dentifricio "Shinhav" che sarebbe "avorio" perché lo fanno da elefanti speciali che li allevano alla Kuppath Holim, alla Mutua, e intanto si è detto fra sé un monte di parole che c'hanno dentro qualche esse, perché quando si mette l'apparecchio per raddrizzare i denti l'esse si sciupa e bisogna stare attenti che non smetta di funzionare, e allora alla fin fine l'orologio in salotto batte sette colpi e da lontano, forse da davanti la casa di Bella, si sente il fischio del Notiziario Radio, e il cuore di Momik ha cominciato a battere più presto, e lui ha cominciato a contare per loro i passi che ci vogliono per venire dal botteghino a casa ma più piano perché quelli camminano a fatica, e un sudorino ha cominciato a pizzicarlo dietro i ginocchi e nelle mani, e proprio (o quasi) nel momento che lui l'aveva indovinato fra sé e sé, si è sentito fuori lo stridere della maniglia del cancello del cortile insieme alla tosse del babbo, e dopo un minuto s'è aperta la porta e il babbo e la mamma stavano lì e gli hanno detto piano shalom, e così com'erano, con i cappotti e i guanti e gli stivaloni colla plastica su ogni stivale, stavano lì e lo mangiavano cogli occhi, e Momik, anche se sentiva come se quelli proprio lo sbranassero, stava lì zitto e li lasciava fare, perché sapeva quello di cui loro avevano bisogno, e allora il Nonno era uscito dalla sua stanza tutto confuso, col cappottone e con le scarpe vecchie del babbo messe alla rovescia, e voleva uscir fuori in pigiama, ma il babbo l'aveva fermato delicatamente, e aveva detto ora si va a mangiare Babbo, lui è sempre delicato con la povera gente, anche con Max e Moritz si comporta bene e ne ha compassione, e il Nonno non capiva cos'era che lo teneva fermo e un po' combatteva e s'opponeva, ma alla fine aveva ceduto e si era lasciato mettere a sedere a tavola, e solo il cappotto non se l'era lasciato levare.
Cena.
La cosa va così: prima di tutto la mamma e Momik apparecchiano svelti svelti la tavola, e la mamma mette a scaldare i pentoloni che ha preso dalla ghiacciaia e poi porta il mangiare. È da questo momento, in fondo, che comincia la minaccia. Il babbo e la mamma mangiano con tutte le loro forze. Cominciano a sudare, e poi gli occhi gli cominciano a uscir fuori dalle orbite. Momik fa finta di mangiare, e tutto questo tempo li sogguarda con cautela, e pensa com'era successo che da Nonna Heni era uscita una donna così grassa come la mamma, e com'era successo che da tutt'e due era uscito un ragazzo così spauracchioso e piccino come lui. Assaggia appena qualcosa, ma il mangiare gli resta nella strozza dalla tensione, e così succede che i suoi genitori devono per forza mangiare tutte le sere un monte di roba per essere forti. Una volta erano già riusciti a scampare alla morte, ma una seconda volta la morte certo non li avrebbe lasciati andare. Momik sbriciola il pane e ne fa pallottoline e le sistema in forma di quadrato. Poi si fa una palla più grande di pasta, e la taglia giusto giusto in due, e poi un'altra volta in due. E poi ancora. Bisogna avere una mano da chirurgo per fare una cosa così. E un'altra volta in due. Lui sa che a cena non si arrabbieranno con lui per cose di questo genere, perché a lui nessuno ci fa caso. Il Nonno col cappottone di lana addosso racconta a se stesso e a Herrneigel e succia una fetta di pane. La mamma è già tutta rossa dallo sforzo. Già non le si può più vedere il collo da quanto le lavora la bocca. Sulla fronte del babbo cola il sudore. Puliscono i pentoloni con fette di pane e le ingoiano. Momik inghiotte saliva e gli occhiali gli si annebbiano. Il babbo e la mamma scompaiono e poi fanno ancora capolino da dietro mucchi di pentole e di padelle. Le loro ombre ballano dietro a loro sul muro. Tutt'a un tratto pare che galleggino un po' in aria sui vapori caldi che sono il fumo della minestra e Momik sta quasi per urlare dalla paura, che Dio li salvi, si dice dentro in ebraico, e poi subito traduce in yiddish, perché Dio possa capire, mir soll sein far deine beindelach, mi venisse a me al posto dei loro ossicini, come la mamma dice sempre su di lui.
E alla fin fine arriva il momento che il babbo mette da parte la forchetta e fa un lungo krekz, e si guarda intorno, come se solo ora sentisse di essere a casa sua, e di averci un bambino, e di averci lì un Nonno. La battaglia era finita. Loro avevano guadagnato ancora un giorno. Momik si era slanciato allora al rubinetto e aveva bevuto e bevuto. Ora viene il momento dei discorsi e delle domande che fanno venire i nervi, ma come si fa a essere arrabbiati con della gente che solo un momento fa s'è salvata così per miracolo? Allora Momik racconta che ha fatto tutti i compiti, e che domani comincerà a prepararsi per l'esame di Bibbia, e che il maestro aveva domandato ancora perché non gli permettevano di partecipare alla gita sul Monte Tabor (è un maestro nuovo e non lo sa), e intanto il babbo s'era alzato da tavola e s'era messo a sedere accanto al tavolino in salotto, e s'era slacciato la cintura, e tutt'a un tratto il suo corpo ne era straripato fuori come un'inondazione, e riempiva tutta la stanza, e proprio spingeva Momik verso la cucina, e il babbo aveva steso una mano e aveva cominciato a cercare qualcosa alla radio. Fa sempre così. Aspetta che la radio si scaldi, poi comincia a girare la manopola delle stazioni. Varsavia Berlino Praga Londra Mosca, quasi non sta nemmeno a sentire, ascolta solo una parola o due, subito passa oltre, oltre, Parigi Bucarest Budapest, non ha pazienza lui non ha, passa così da paese a paese, da città a città, non la smette di passare, e solo Momik indovina che il babbo aspetta ad ogni istante un messaggio da Quel Paese Lì, e che lo chiamino alla fin fine a tornare a rimpatriare dall'esilio e a essere lì un Imperatore come che lui davvero sa farlo, non come quello che lui fa qui, ma ancora non lo chiamano.
E alla fine il babbo rinuncia e torna pian piano alla stazione di Kol Israel, la Voce d'Israele, e sente il programma "Alla Knesseth e nelle sue Commissioni Parlamentari", e chiude gli occhi, e si può forse credere che dorma, ma lui sente e ascolta eccome, fidatevi di lui, e per ogni cosa che sente ha in serbo un'osservazione molto feroce, eppoi, la politica è una roba che lo fa diventare molto selvaggio e pericoloso, e Momik sta sulla soglia della cucina, sente la mamma che conta con la solita cantilena le forchette e i coltelli mentre li asciuga, e lui fa così in segreto osservazioni strategiche sulle mani del babbo che ricadono di qua e di là dalla poltrona. Dita un po' gonfie con peli grigi su ogni dito, e non si può sapere che sensazione fanno quando ti toccano, perché loro no.
Di notte a letto Momik sta steso lì sveglio e pensa. Quel Paese Lì come lo vede lui era un paese piccolino e bellissimo, con boschi intorno a binarini di treno piccini e tirati a lucido, e vagoni colorati e belli, e parate militari e un Imperatore pieno di coraggio e un Guardacaccia Regale, e un kloiz, e una Fiera del Bestiame, e animali trasparenti che scintillano sulle montagne come zibibbi in una torta. Ma il male è che su Quel Paese Lì grava una maledizione. Da qui in avanti tutto diventa poco chiaro. Una maledizione fatta così s'è abbattuta d'un colpo sui bambini e sui grandi e sulle bestie e li ha impietriti tutti. È stata la belva nazista a far questo. È passata su e giù per Quel Paese, e il suo soffio li ha fatti gelare tutti. Così ha fatto la Regina delle Nevi in una storia che Momik ha letto. Momik giace ora nel suo letto e s'inventa fantasie, e la mamma lavora nell'ingresso con la macchina da cucire. Il suo piede sale e scende. Shimek le ha sistemato un pedale più alto sotto la macchina, perché sennò lei non ci sarebbe arrivata coi piedi. In Quel Paese Lì tutti sono ricoperti da allora di vetro fine fine che non li lascia muovere, e non si può toccarli, e loro sembrano vivi ma invece no, e solo qualcuno unico al mondo li può salvare, e quello è Momik. Momik è già quasi come il Dott. Herzl ma in un'altra maniera. Lui ha già preparato perfino una bandiera bianco-azzurra per Quel Paese Lì, e tra le due strisce azzurre ci ha disegnato una coscia di pollo bella grande che da una parte c'è attaccato un razzo didietro del Supermystère, e sotto c'è scritto "se lo vorrete non sarà leggenda", ma nonostante tutto lui ancora non sa precisamente cosa deve fare, e questo gli dà un po' sui nervi.
E a volte di notte loro vengono e stanno accanto al suo letto. Vengono a prendere commiato, a salutarlo prima che comincino a fare sognacci da incubo. Allora Momik si rannicchia tutto dallo sforzo di far finta di dormire, e che gli si veda addosso che lui è un bambino felice e sano che sta tremendamente bene, e che sorride sempre, perfino mentre dorme, ohi luli luli, che bei sogni tutti da ridere si sognano qui, e a volte lui c'ha delle idee proprio da Einstein ma proprio proprio, e dice così, come dormendo, butta il pallone a me Yossi, oggi vinciamo noi, Dani, e altre cose così per farli contenti, e una volta, dopo una giornata particolarmente difficile, che il Nonno voleva uscir di casa dopo cena, e c'era stato addirittura bisogno di chiuderlo a chiave nella sua stanza, e lui aveva cominciato a urlare di lì, e la mamma aveva pianto, in quel giorno difficile Momik s'era canticchiato come dormendo il cohol od ballevav pehenimaah, il "finché dentro nel cuore ancora" che sarebbero le prime parole dell'Attikvà, l'Inno Nazionale, e dalla tanta commozione per se stesso aveva fatto la pipì a letto, e tutto questo lui lo faceva perché vedessero che di lui non dovevano darsi pensiero, e che non c'era bisogno di sciupare per lui tutte le loro pene e roba simile, perché era meglio che si tenessero tutte le forze per cose importanti per davvero, per le cene e per quei loro sogni e per tutti quei silenzi, e quando alla fin fine s'era addormentato ancora sentiva da lontano lontano, ma forse quella era già in sogno, Hannah Citrin che strillava a Dio che venisse alla fine, e anche il miagolio lungo e fievole del gatto che era impazzito giù nel ripostiglio, e Momik s'era ripromesso in futuro di sforzarsi di più.
Aveva due fratelli.
No. Cominciamo da questo, che una volta aveva avuto un amico. Quest'amico si chiamava Alex Tuchner. Era venuto l'anno prima dalla Romania e sapeva l'ebraico solo un po'. La maestra Netta l'aveva messo a sedere accanto a Momik, perché Momik gli poteva dare un buon esempio, e anche perché lui sapeva l'ebraico meglio di tutta la classe, e forse perché sapeva che Momik non avrebbe preso in giro Alex. Quando Alex era venuto a mettersi a sedere accanto a Momik, tutti si erano messi a ridere, perché erano tutt'e due occhialuti.
Alex Tuchner era un ragazzo piccino di statura ma molto forzuto. Quando scriveva gli saltavano i muscoli. Aveva capelli gialli e ritti e duri, e anche se portava gli occhiali, si vedeva che non era per via che leggeva. Si muoveva sempre sul banco come stesse sulle spine, e non gli piaceva parlare. Però, quando parlava allora si sentiva che c'aveva una specie di erre buffa, come quella dei vecchi. I ragazzi li chiamavano tutt'e due "i polacchi", e Momik e Alex quasi non si dicevano una parola. Ma alla fine Momik aveva deciso una cosa, e durante la lezione di Storia Naturale aveva passato a Alex un biglietto e aveva chiesto a Alex se domani voleva venire a casa da lui. Alex s'era stretto nelle spalle e aveva detto e va beh. Momik non aveva potuto più star fermo e in pace tutto il giorno. Dopo cena aveva chiesto al babbo e alla mamma se poteva portare a casa un amico, e il babbo e la mamma s'erano guardati in faccia tutt'insieme, e avevano cominciato a fargli un mucchio di domande, chi era quest'amico, e cosa voleva quest'amico da Momik, e se era uno dei nostri o uno dei loro lì, e se non era uno che potesse rubare o metter le mani dappertutto in casa, e cosa facevano i suoi genitori Momik aveva raccontato tutto, e alla fine quando già avevano detto di sì, e va bene, e se Momik proprio doveva portare a casa quest'amico allora che venisse, ma solo che Momik lo sorvegliasse ben bene. Quella notte Momik non aveva dormito quasi nulla dall'eccitazione. Pensava come sarebbero stati lui e Alex, e come avrebbero messo su una Squadra Nazionale di due calciatori, e come e come e come, e quella mattina alle sette e mezzo era già a scuola.
Dopo le lezioni Alex era venuto da lui, e s'erano comprati insieme il falafel, che sarebbero le frittelle di farina di ceci, nel Centro Commerciale, a Alex gli piaceva il falafel, a Momik no, ma s'era tutto eccitato nel comprarlo e nel pagarlo e nel mangiare una volta fuori di casa, e alla fine aveva dato la sua mezza porzione a Alex, che aveva messo tanto ma tanto di quel peperoncino che il venditore gli aveva detto che subito subito gli avrebbe fatto pagare doppio. Erano venuti a casa, e avevano fatto insieme i compiti e dopo avevano giocato a dama. Davvero era meglio giocare in due. Momik aveva deciso ancora la notte prima di chiudersi in un virile taciturnismo, come faceva Alex, ma poi non era riuscito a trattenersi, perché a cosa serve avere un amico, in fondo? per starsene zitti lì come due ciocchi? E non aveva fatto in tempo a chiedere nulla su Alex e sugli studi che aveva fatto Alex e sul posto da cui veniva Alex, e Alex aveva risposto rispostine brevi, e Momik aveva sentito tutt'a un tratto che Alex s'annoiava e aveva avuto paura che se n'andasse e era corso in cucina e era salito su una seggiola, e aveva tirato fuori dal nascondiglio della mamma una tavoletta di cioccolata di marca "Ze. De." che non era per gli ospiti, ma ora era emergenza come si dice, e quando l'aveva portata a Alex gli aveva detto che Nonna Heni era morta da poco, e Alex aveva preso un quadratino e un altro quadratino e aveva detto che anche il suo papà era morto, e Momik era saltato su perché in quelle cose lui proprio ci capisce un po' e più d'un po', e aveva chiesto se il papà di Alex era morto da Quelli Lì, e Alex non aveva capito chi erano Quelli Lì, e aveva detto che suo padre era morto in un incidente, era un boxeur e s'era preso un pugno in un match, e ora Alex era lui l'uomo in famiglia. Momik stava zitto e pensava che razza di vita interessante era la vita di quest'Alex qui, e Alex aveva detto: "Lì ero il campione della classe nel correre".
Momik, che sapeva a memoria tutti i tempi di tutti i corridori delle Olimpiadi e di tutti i campioni di classe, aveva detto che per essere campione di classe qui bisognava fare sessanta metri in otto virgola cinque secondi, e Alex aveva detto che lui certo un po' non era tanto in forma ora, ma si sarebbe allenato e sarebbe entrato in finale. Parlava con impeto, e nemmeno una volta aveva sorriso a Momik, e mangiava un quadratino dopo l'altro di cioccolata che altrimenti dura qui in casa almeno un mese intero, "quelli mi hanno chiamato ashkentuzi bech bech", disse poi Alex e aveva la faccia tutta chiusa, "è perchio entro in finali loro". E Momik disse: "Ma anche loro sono ashkentuzi. Non tutti, ma anche quelli che t'hanno detto così". "Non Alex."
Era così sicuro di sé, e Momik gli credeva del tutto, e sapeva che sarebbe riuscito, e ciononostante sentiva una specie di tristezza così che non capiva perché. Alex aveva gironzolato un po' per casa, aveva toccato qua e là proprio da spudorato, aveva fatto andare selvaggiamente il pedale della macchina da cucire, aveva fatto domande che gli ospiti non devono fare, e poi aveva detto che s'era stufato di stare in casa, e Momik era saltato su e aveva chiesto se forse voleva un buon tè, perché così si domanda quando gli ospiti (diciamo Bella o Itka e Shimek) dicono che se ne vogliono andare, ma Alex l'aveva guardato con occhi un po' nervosi, e aveva chiesto se c'era da fare qualcosa fuori in questo quartiere, e Momik c'aveva pensato su, e aveva detto che si poteva andare al Caffè di Bella perché lei sapeva sempre raccontare cose interessanti, e Alex l'aveva guardato un'altra volta, e aveva storto la bocca e aveva chiesto se Momik era sempre così, e Momik non aveva capito e aveva chiesto come così, e Alex aveva chiesto se non c'erano ragazzi in quella strada, e Momik aveva detto di no, che era una strada piccina. Si meravigliava perché pensava che Alex, dato che era un nuovo immigrante, non avrebbe voluto giocare con bambini, e per questo Momik aveva sperato sempre che lui e Alex avrebbero potuto essere buoni amici, perché Momik lui è beneducato e gentile e non piglia in giro e non dice parolacce e via di seguito, ma Momik ricordava che Alex era nonostante tutto nuovo qui, e non sapeva precisamente chi e cosa, e gli ci sarebbe voluto un po' di tempo per capire che Momik aveva più cervello nel dito mignolo di quanto ne avessero tutti quei selvaggi che prendono in giro e corrono i sessanta in otto virgola cinque. Bene, erano scesi giù nel vicolo, e allora era autunno, e il vecchio pero nel cortile di Bella era pieno di frutta che era già mezzo marcia, e Alex aveva guardato e aveva detto: "Cosa?! E tu permetti e lasci fare così?!" e subito era sgattaiolato nel cortile di Bella e aveva sgraffignato di lì qualche pera e una ne aveva data anche a Momik, e Momik che il cuore gli batteva come un matto, l'aveva messa in bocca e aveva masticato ma non inghiottito, perché quello era rubare, e poi rubare a chi. Andarono verso il Monte Herzl, e Alex disse una volta di più che sarebbe arrivato alle finali, e d'un colpo a Momik gli venne un'idea geniale, e disse a Alex che lui avrebbe potuto fargli da allenatore, e Alex disse "Tu?! Ma cosa ci capi- -" ma Momik non lo lasciò finire la frase, e svelto svelto gli disse che lui poteva essere un allenatore fantastico, che aveva letto tutti gli articoli del mondo, e a casa c'aveva foto sportive che lui le ritagliava e ne faceva la raccolta da tutti i giornali (e disse: "anche da giornali di tutto il mondo", e questa non era una bugia, per via dello "Przeglad"), e che lui poteva preparare un programma d'allenamenti olimpici, e che c'aveva un orologio che contava i secondi, che è la cosa più importante per un allenatore di corsa. Alex volle vedere l'orologio, e Momik glielo fece vedere, e Alex disse facciamo una prova, io corro fino a quel palo e tu guarda il tempo, e Momik disse pronti... via! e Alex corse, e Momik guardò l'orologio, e disse dieci virgola nove, sarebbe meglio che tu non sventolassi tanto le mani perché perdi forza così, e Alex disse che forse sarebbe stato pronto a che Momik l'allenasse, ma di venire da lui a casa non ce n'aveva più voglia. Così incominciò la grande amicizia tra loro due, ma a Momik non gli piace ricordarsene.
E poi aveva due fratelli.
Il maggiore lo chiamavano Bill. Una volta al mese arrivava alla bottega di Lifshiz nel Centro Commerciale un nuovo fascicolo con le sue avventure. Momik si metteva lì da una parte e leggeva in piedi, e Lifshiz non diceva nulla, perché lui era paesano della mamma, e quelle erano storie interessanti e educative. Suo fratello Bill è davvero un duro. È così forte che gli è proibito intromettersi se qualcuno in classe picchia Momik, e questo è per via che una botta di Bill può ammazzare qualcuno, e perciò Momik l'ha obbligato a promettere che non s'intrometteva in suo favore in nessun caso, nemmeno quando successe quell'affare con quel delinquente ricattatore di Leizer, e almeno due volte la settimana Momik si tira su da terra nel cortile di scuola tutto sudicio e sanguinante, ma sorride un suo sorriso pieno di mistero, perché una volta di più è riuscito a trattenersi e a frenare gli istinti come si dice, e non ha mandato contro di loro Bill.
Bill chiama Momik Johnny, e loro due si parlano con parole brevi con un monte di punti esclamativi come dagli un bel cazzotto, Bill!! Un bel lavoro hai fatto, Johnny!! e così via. Bill ha una stella d'argento sul petto, e questo vuol dire che è uno sceriffo. Momik ancora non c'ha nessuna stella. Tutt'e due c'hanno un cavallo che si chiama Blacky. Blacky capisce tutto, e gli piace galoppare selvaggio nei campi, ma alla fine torna sempre e si gratta il muso sul petto di Momik, ed è davvero un bel piacere, e proprio allora la maestra Netta domanda ma cos'è questo sorriso adesso, Shlomo Neuman, e Momik nasconde svelto svelto il cavallo Blacky. Ruba lo zucchero in cucina e fa un mucchio di esperimenti per farlo diventare in cubetti come gli piacciono a Blacky, ma non gli viene tanto bene, l'Enciclopedia Ebraica non è ancora arrivata alla voce zucchero, e Momik è sicuro che anche se mai ci arriverà lo rimanderà a "vedi alla voce: cubetti", e intanto bisogna trovare il modo di dar da mangiare a quel cavallo, vero? Nello uadi di Eyn-Karem loro galoppano almeno tre volte la settimana, ritrovano bambini scomparsi o che i genitori li hanno persi, e fanno un'imboscata come quella di Orde Wingate per acchiappare i predoni del treno. A volte, quando Momik sta disteso sulla pancia in imboscata, vede sul Monte Herzl la ciminiera alta alta dell'edificio che hanno fatto lì, e l'hanno chiamato con quel buffo nome "Yad Vashem", che sarebbe a dire "Mano e Nome", no? e si dice che quello è il fumaiolo di un piroscafo che naviga qui, ed è pieno di immigranti illegali che vengono da Quel Paese Lì, che nessuno li vuole prendere, come nei giorni del Mandato britannico psiakrew, e anche loro lui li salverà in qualche modo, con Blacky o con Bill o con le sue idee o con le sue bestie o con la pila atomica o con la storia del Nonno Anshel e i Ragazzi di Cuore o con qualcos'altro, e quando chiese ai suoi vecchi cos'era quella ciminiera, loro si guardarono in faccia e alla fine Munin disse che lì c'è una specie di museo, e il Signor Markus, che già da anni non era uscito di casa, chiese se era un museo d'arte, e Hannah Citrin rise storto e disse arte, certo, arte umana, ecco che roba è quell'arte che c'è lì.
E mentre fanno l'imboscata Momik deve star sempre attento che la stella di Bill non luccichi, perché i malandrini non se n'accorgano, e però era successo che Bill era stato ammazzato almeno venti volte al giorno da pallottole e coltelli di furfantisti, ma alla fine lui risuscita sempre, e tutto per merito di Momik, che davvero prende paura quando Bill muore, e forse questa paura, e si può dire anche questa disperazione, riportano in vita Bill, e lui si alza in piedi, sorride e dice: "Grazie, Johnny, m'hai salvato la vita". Blacky intanto divorava cubetti di zucchero fatti stare insieme con il fango e lo sputo, e cubetti di zucchero appiccicati insieme con l'adesivo, e cubetti di zucchero che Momik aveva fatto congelare in ghiaccioli che c'erano nelle cassette di latte di Eiizer il lattaio, e Bill era morto e vivo e morto e vivo ancora e ancora, e questa era la cosa più bella del gioco. Solo che non era affatto un gioco, macché gioco, Momik non ci si divertiva mica, ma nemmeno si sognava d'interromperlo e di smetterla, perché lui doveva allenarcisi, e c'era tanta gente che aspettava che lui fosse già campione del mondo in quest'affare qui, come tutti aspettavano il Professor Yona Salk che inventasse una buona volta il suo vaccino contro la paralisi infantile, e Momik sapeva benissimo che qualcuno doveva pur offrirsi volontario per primo e entrare lui stesso in quel paese congelato e impietrito e combattere lì la belva e portare salvezza e riportare di lì tutti quanti, e bisognava solo pensare a qualche stratagemma qualcosa di quello che Meir Har Zion avrebbe fatto se avesse combattuto lì, qualche trucco geniale e audace, che forse l'allenatore Giola Mandi che s'è fatto venire apposta dall'Ungheria lo saprebbe fare così da raccomodare i genitori di Momik ora e anche all'indietro, ma la belva per ora non aveva voluto venir fuori da tutti i suoi mascheramenti, e poi con le bestie Momik non ci vedeva nessun progresso, e gli faceva male tutte le volte che pensava che forse lui teneva lì per nulla tutte quelle povere bestie, ma allora lui si diceva che in guerra soffrono a volte anche quelli che non c'hanno colpa (gli era venuta fatta una specie di frase così) come per esempio la cagna Laika che aveva dato la vita offrendosi sull'altare della scienza nello Sputnik 2, e tutto quello che lui poteva fare era allenarsi e sforzarsi ancora di più e dormire ancora meno, e sempre sempre prendere esempio dal Nonno Anshel che già da tanti anni non si dava per vinto e raccontava la sua storia, perché forse una volta sarebbe riuscito a vincere quell'Herrneigel e farla finita, e a volte Momik ha la sensazione che il Nonno s'è tanto impigliato nel suo racconto che anche Herrneigel ha perso la pazienza di stare a sentire.
E una volta a colazione era successo addirittura uno scandalo. Il Nonno aveva cominciato a strillare, e poi si era messa una mano all'orecchio e era stato a sentire, e la faccia gli stava diventando tutta rossa e le labbra gli tremavano, e Momik era saltato su dalla paura e s'era messo ritto accanto alla porta perché tutt'a un tratto aveva capito quello che non aveva mai capito da tanto scemo che era, e cioè che Herrneigel era lui stesso il nazikaputt, e kaputt vuol dire che ha perso, come che Momik lo sapeva benissimo in ebraico, e nazi era la belva, e ora era chiaro che Herrneigel ce l'aveva col Nonno per via del racconto, perché a quanto pareva quell'Herrneigel non era affatto d'accordo a essere kaputt e costringeva il Nonno a cambiare il racconto come gli piaceva a lui che fosse, ma Momik aveva visto subito che anche il Nonno non era così deboluccio, nient'affatto, quando qualcuno cercava di toccare il suo racconto diventava tutto un altro uomo! Sì, il Nonno aveva preso la coscia di pollo in mano e l'aveva levata su in alto e l'aveva sventolata con rabbia contro l'aria, e aveva urlato in quel suo ebraico antico che lui non avrebbe permesso a Herrneigel d'intromettersi nella storia che raccontava, perché quella storia era tutta la sua vita e cosa gli restava oltre la storia, e Momik, che il cuore gli era cascato giù nelle mutande e più giù, aveva visto dalla faccia del Nonno che il nazikaputt s'era un po' spaventato e aveva deciso di lasciar stare il Nonno, perché il Nonno davvero pareva convincente e dalla parte giusta, e allora all'improvviso il Nonno aveva voltato la faccia dal muro vuoto e aveva guardato Momik con quei suoi occhi verdi, e allora Momik aveva saputo proprio bene che se il Nonno avesse voluto, ora avrebbe potuto tirare anche Momik dentro la sua storia come aveva fatto con Herrneigel, e Momik voleva scappare e non era riuscito a muoversi nemmeno d'un passo e voleva gridare e non gli veniva fuori la voce, e allora il Nonno gli aveva fatto con la mano un segno così che gli si avvicinasse un po', e era come se gli facesse un incantesimo, perché Momik aveva cominciato a muoversi verso il Nonno e sapeva che sarebbe stata la sua fine, che sarebbe entrato nella storia del Nonno e non l'avrebbero ritrovato più, e una gran fortuna era stata che il Nonno non ci pensava affatto a fargli una cosa così, e perché poi avrebbe dovuto, e Momik era un bambino così buono, e anche se torturava un po' le bestie giù nel ripostiglio, era perché c'era la guerra, e quando era già vicino vicino al Nonno, il Nonno aveva detto tutt'a un tratto con una voce calma e chiara, come se fosse stato un uomo del tutto normale: Nu, ma l'hai visto un po' questo goy? oich mir a chuchem, che sarebbe "un bell'intelligentone anche lui", e il Nonno aveva sorriso a Momik un sorriso normale di uomo saggio e antico e gli aveva messo una mano sulla spalla come un nonno vero e aveva detto a voce bassa bassa che lui avrebbe sistemato quel goy fino a farlo tornare a Chelem, a Cretinopoli, e Momik avrebbe voluto cogliere l'occasione e chiedere al Nonno una volta per tutte cos'era quella storia, e se era vero quello che lui aveva indovinato e cioè che i Ragazzi di Cuore ora combattevano contro Herrneigel, e per cosa poi avevano bisogno del neonato (perché Momik, vero?, qualcosa lui ci capiva nei romanzi d'avventura, e sapeva benissimo che in certe situazioni i neonati danno noia e basta), ma allora era successo quello che succedeva sempre, e il Nonno si era voltato indietro e aveva guardato Momik come se fosse la prima volta che lo vedeva, e aveva cominciato a parlare svelto svelto e a dir quelle cose con quelle sue cantilene, e Momik era rimasto un'altra volta solo solo.
Allora, mentre incartava la sua colazione che lui non l'aveva nemmeno toccata per portarla alle sue bestie, aveva cominciato a pensare che forse sarebbe stato bene andare a consigliarsi con uno di quegli specialisti di cui a volte leggeva sul giornale, e che fosse anche lui della stessa professione di Momik. Wiesenthal lo chiamavano, e stava di casa nella città di Vienna e di lì li cacciava. Momik sperava che scrivendogli una lettera forse il cacciatore avrebbe accettato di dirgli su quelle belve delle cose importanti come dove si nascondono e quali sono le loro abitudini nel mangiare e negli sbranamenti, e se vivono in grandi branchi o mandrie, e come poteva succedere che da una belva venisse fuori a volte un'intera schiera di uomini, e se c'era poi (Momik pensava di no) una parola incantata come "Haimowa" o "Uranio", che se si dice a quelle belve subito diventano ubbidienti e ti vengono dietro dappertutto, e forse quel cacciatore aveva a casa sua qualche fotografia delle belve, vive o morte, così che Momik potesse sapere cosa aspettarsi. E per qualche giorno Momik era stato abbastanza occupato in quelle progettazioni di cosa scrivergli. Aveva provato a immaginarsi la casa del cacciatore, con grandi tappeti fatti delle pelli della belva, e un armadio fatto apposta per tenerci i fucili e gli archi e le frecce e le pipe, e teste di belve naziste che lui aveva cacciato in passato nelle giungle appese al muro con gli occhi di vetro, e Momik s'era messo a scrivere la lettera, ma non gli era venuta bene e aveva provato forse venti volte e non gli riusciva, e ecco che proprio quella settimana aveva letto sul giornale di Bella che il cacciatore era partito per un'altra caccia nel Sudamerica, e avevano pubblicato anche una sua foto, un uomo con dei begli occhi tristi e calvo in fronte, tutt'al contrario di come Momik se l'era figurato, e così era successo un'altra volta che Momik era restato solo solo senza che nessuno l'aiutasse, e questa volta era davvero un po' teso.
Tutto questo tempo Momik si diceva che tanto poi il cacciatore non avrebbe potuto aiutarlo, perché la cosa più strana nella guerra contro quella belva era che ognuno era obbligato a combatterla da solo, che perfino quelli che volevano a tutto spiano che lui li aiutasse non potevano chiederglielo direttamente, per un giuramento segreto che a quanto pare avevano fatto, e Momik si diceva sempre che lui non si sforzava abbastanza, e che non pensava abbastanza, e proprio in quei giorni gli erano capitati diversi incidenti di caccia, era cominciato così che un cucciolo sperso di sciacallo l'aveva morso sotto il ginocchio, e lui aveva dovuto sorbirsi dodici punture dolorosissime contro la rabbia. E poi era cascato per caso su un piccolo istrice che stava nascosto in un cespuglio giù nella Valle, e gli era venuto un ginocchio come un colabrodo. A Momik gli era sempre piaciuto leggere roba sulle bestie, ma fino a che non aveva cominciato a combattere contro la belva non aveva avuto bisogno di toccare bestie, e la verità è che ne aveva avuto sempre un po' schifo, ma anche un po' no. Sentiva di averci attitudine a trattare le bestie, e pensava che dopo che tutta questa storia fosse finita, forse si sarebbe allevato un cane. Un cane normale. Non per la guerra ma per goderselo. Ma intanto un colombo selvatico ferito che aveva trovato in cortile gli aveva quasi levato un occhio col becco, e un altro gatto che aveva cercato d'acchiappare nei bidoni per dare il cambio a quel suo gatto pazzo, gli aveva graffiato tutto il braccio. Momik era davvero coraggioso in quella guerra. Non l'aveva mai saputo d'essere così coraggioso, ma sapeva anche benissimo che era il coraggio della paura. Perché aveva paura. E non bisogna dimenticare i corvi, i genitori del corvo suo prigioniero, che ora erano ormai sicuri che era stato Momik a prendergli il bambino, e appena lui usciva di casa gli piombavano addosso in picchiata come Mig egiziani, e tra parentesi, la prima volta che era successo uno dei corvi l'aveva proprio beccato sulla mano e sul collo, e Momik era diventato isterico come si usa dire, e era corso al botteghino del lotto a raccontare alla mamma e al babbo cos'era successo, ma non era riuscito a spiegarsi tanto bene, e poi non sapeva come si dice corvo in yiddish, e la mamma aveva capito un po' storto e aveva visto il sangue e la camicia strappata, e subito era corsa con lui all'ambulatorio della Mutua, e lì aveva spiegato al Dottor Erdreich con urla e svenimenti che era successa una cosa terribile e che un'aquila aveva cercato di rapire il bambino, e bisogna confessarlo e dire qui che anche tanti anni dopo c'erano ancora nel quartiere di Bet Mazmil persone che si ricordavano di Momik - ah quel bambino che l'aquila voleva portarselo nel nido.
Ma tutti gli sforzi erano falliti. Il ripostiglio s'era fatto sempre più nero e sempre più soffocante e senz'aria, un giorno dopo l'altro, e Momik non osava muoverci un dito. Le bestie erano diventate selvagge e affamate, e si buttavano con tutto il corpo contro le pareti delle casse e si ferivano e ululavano e strillavano. Il colombo ferito era morto, e a lui gli aveva fatto schifo metter fuori il cadavere e quello aveva cominciato a puzzare e subito erano venute le formiche che il colera se le porti. Momik aveva la sensazione che il ripostiglio fosse sempre pieno di tele di ragno grandi grandi, e che le tele appiccicose e fredde cercassero di acchiapparlo appena lui si muoveva un po' lì. In tutta la sua vita non s'era mai sentito così sporco e puzzolente come ora. Sentiva che quelle bestioline erano molto più forti di lui, perché l'odiavano e sapevano cosa vuol dire essere selvaggio e buttarsi sulla gabbia e strillare, e lui non era già più sicuro chi era prigioniero di chi, e allora pensava che questo era segno che la guerra era cominciata e che la belva non se ne stava con le mani in mano, e che già operava contro di lui con furbizia e lo paralizzava con una specie così di paralisi infantile che il Dottor Salk a quella non ci aveva nemmeno pensato, e era già davvero qualcosa di non simpatico, non c'è bisogno di dire subito spaventoso, era eccome ma eccome eccome non simpatico, perché Momik non sapeva da dove la belva sarebbe sbucata fuori contro di lui, e non sapeva cosa avrebbe fatto lui quando la belva avesse deciso di scoprirsi, e forse sarebbe sbucata fuori da due bestie insieme, e se lui avesse almeno potuto dire qualcosa come "Haimowa" prima che la belva gli saltasse addosso e lo facesse a pezzi.
Aveva cominciato a spalmarsi il petrolio della stufa sulle palme dei piedi perché almeno l'odore la schifasse, e s'era messo anche una pallottola di naftalina in ogni tasca dei pantaloni e della camicia ma sentiva che tutto questo non bastava ancora, e allora aveva cominciato a comporre un discorso che avrebbe pronunciato accogliendo la belva al suo arrivo. Aveva scritto il discorso durante almeno una settimana, e sapeva che doveva assolutamente essere il miglior discorso del mondo per poter influenzare subito un'intera belva prima che gli saltasse addosso. Dapprincipio le aveva scritto quanto bisogna sempre essere buoni e far del bene al prossimo e bisogna saper perdonare come nel Giorno del Kippur, ma poi quando aveva riletto a voce alta quello che aveva scritto, si era accorto che la belva mica c'avrebbe creduto a parole così. Quella aveva bisogno di qualcosa di più forte. Lui aveva provato a pensare a quella belva, cioè a come quella sentiva le cose e cosa avrebbe potuto influenzarla. Aveva provato a disegnarla, e gli era venuto qualcosa come un orso polare solitario e pieno di rabbia e di odio per tutto il mondo, e subito aveva capito che il suo discorso avrebbe dovuto essere fatto in modo da annullare subito in lei tutto l'odio e tutta la solitudinezza, perché ci sono cose che perfino un orso polare gelato gelido le desidera dentro, e Momik allora aveva scritto un discorso lungo lungo sulla forte amicizia fra due amici che si vogliono bene, e su parole semplici e carine che si dicono tra il babbo e la mamma e tra padre e figlio. Nel discorso diceva alla belva quanto i fratellini potevano essere affettuosi e dolci, e quant'era bello prenderli in braccio o metterli in carrozzina e andare a vantarsi di loro in centro, e aveva scritto anche di cose un po' cretine, ma aveva la sensazione che proprio quelle cose lì sarebbero forse riuscite a sedurre la belva, come per esempio la partita di calcio a scuola dove lui ci segnava un bel gol, e tutti insieme lo acclamavano gridando Momik Momik Momik, solo il suo nome senza altri nomi, o come una passeggiata la mattina di shabbàt col babbo e la mamma e tutt'e due gli davano la mano e gli facevano insieme "volo volo volo!" e lo buttavano così in aria, come la gita scolastica sul Monte Tabor, quando tutta la classe marcia e canta e di notte si fa il diavolo a quattro nell'ostello, ma dopo aver scritto tutto questo e aver cancellato e corretto e riletto a voce alta; aveva sentito tutt'a un tratto che era un discorso stupido e perfino un discorso schifoso, un discorso cacca e puzzolente, e l'aveva strappato a pezzettini e lo aveva bruciato nell'acquaio di cucina, e allora aveva deciso di abbandonare del tutto ogni idea di discorsi, e di starsene semplicemente ad aspettare con tutta calma e vedere cosa quella avrebbe fatto quando fosse venuta, e gli era già del tutto chiaro che quella aspettava apposta così perché lui s'innervosisse e diventasse ancora più debole, e proprio per questo lui si era giurato che qualunque cosa accadesse lui non si sarebbe indebolito mai-e-poi-mai-e-poi-mai-giurin-giuretta.
Ed ecco che per due settimane all'incirca aveva cominciato a delinearsi come si usa dire un'improvvisa speranza di vittoria, perché ai suoi due fratelli s'era unito un altro fratello: Mottel figlio di Pessie il Cantore. Quello era stato un periodo che Momik non avrebbe mai potuto dimenticare, per quanto a lungo avesse vissuto. Avevano letto in classe quel racconto di Shalom Aleichem, e Momik aveva sentito qualcosa di molto forte, e aveva deciso di dirne qualcosa così come per caso dopo cena a casa. Nu, e tutt'a un tratto il babbo aveva aperto la bocca e aveva cominciato a parlare! Frasi intere aveva detto, e Momik stava a sentire e gli venivano quasi le lacrime agli occhi dalla gioia. Gli occhi del babbo, che sono di colore azzurro, ma tutto il disotto è rosso di sangue, s'erano fatti un po' più chiari, come se la belva li avesse lasciati in pace un momento. Momik era furbo come una volpe! Come la volpe in quella storia col formaggio e il corvo! Aveva raccontato al babbo (come per caso) di suo fratello Elia, e della mucca Menni, e del fiume dove vuotavano le botti di quella roba, e proprio si poteva vedere cogli occhi come la belva apriva un po' la bocca e il babbo cascava giù proprio su Momik.
Pian piano il babbo aveva cominciato a raccontare a Momik di una certa borgata piccina piccina e di vicoli pieni di fango, e di alberi con le castagne che qui non ci sono, e di un vecchio pescivendolo, e di un acquaiolo, e di fiori di lillà, e del buon sapore che aveva il pane in Quel Paese Lì, e del cheder dove lui aveva studiato, e del Rabbi, che per guadagnare un altro po' accomodava le stoviglie di coccio rotte con del fil di ferro che avvoltolava intorno intorno, e di come a tre anni già tornava solo a casa dal cheder nelle notti di neve, e si faceva luce per strada con un lume tutto speciale fatto di una rapa con infilzata dentro una candela, e la mamma tutt'a un tratto aveva detto: davvero lì c'era un pane che qui non c'è, ora che l'hai detto me ne ricordo: da noi lo cuocevano in casa, certo, perché no, e ci bastava tutta una settimana, magari potessi riassaggiarlo un'altra volta in vita mia. E il babbo aveva detto: da noi, tra la nostra borgata e Chodoròw c'era un bosco. Un bosco di quelli veri, non come quei pettini sdentati che fa qui il Fondo Nazionale, e lì nel bosco ci crescevano i pudjomkes che qui non ci sono, come ciliege grandi così, e Momik s'era tutto sbalordito al sentire che anche lì c'era un Chodoròw come il portiere della squadra di calcio dell'Appoel Tel Aviv, ma non voleva interrompere il babbo e era stato zitto e la mamma aveva fatto un krekzino pieno di ricordi e aveva detto: sì, ma da noi li chiamavano jagdes, e il babbo aveva detto: no, gli jagdes sono un'altra cosa, più piccini. Ach, lì sì che c'era frutta, a mechie da far risuscitare i morti, e i prati, te li ricordi i prati di lì? E la mamma aveva detto: se me li ricordo? e come me li potrei scordare, ohi, soll ich azoi haben koiach zu leben così potessi aver forza di vivere come mi ricordo tutte quelle cose lì, era così verde, e fresco, non come i prati che c'è qui, che sembrano sempre mezzo morti, questa è terra da lebbra questa, e quando coglievano lì le spighe e facevano i mucchi nei campi, te lo ricordi, Tuvie? Ach! diceva il babbo e respirava forte forte, l'odore che avevano quei campi! Da noi la gente aveva paura d'addormentarsi sui covoni freschi, per paura che Dio liberi non si potessero risvegliare poi la mattina...
Parlavano fra loro e parlavano con Momik. Era stata questa in fondo la ragione per cui lui aveva cominciato a leggere anche gli altri racconti di Shalom Aleichem (ma che razza di nome per uno scrittore, "salute a voi"!), che in classe non gli avevano detto di leggerli. Dalla biblioteca di scuola aveva preso le storie di Menachem Mendel e di Tewje il Lattaio e aveva cominciato a leggerle capitolo per capitolo, come sa fare lui. Presto e in modo approfondito. La borgata ebraica gli stava divenendo familiare. Prima di tutto aveva visto che molte cose le sapeva già dai suoi compagni di banco, e quello che non lo sapeva il babbo glielo spiegava proprio volentieri. Parole come "Elemosiniere di Sinagoga", "Chierico", "Melammed" che sarebbe il maestro del cheder, o altre così, e quando il babbo cominciava a spiegare, si ricordava anche di qualche altra cosa, e raccontava ancora un po', e Momik ricordava tutto e poi correva in camera sua e annotava nel Quaderno di Geografia (era già il terzo!) e nelle ultime pagine del quaderno aveva cominciato perfino a sistemarsi un piccolo vocabolario che traduceva e spiegava le cose della lingua di Quel Paese Lì nella nostra lingua, cioè in ebraico, e c'aveva lì già ottantacinque parole. Durante le lezioni di geografia in classe, mentre teneva aperto davanti a sé l'atlante (quello che il giornale che Bella leggeva, "Yedioth", aveva dato in regalo a Capodanno), Momik faceva un monte di esperimentini, segnava Bobrka al posto di Tel Aviv, e cambiava il nome a Haifa e ci metteva Catrielivka, e il Carmelo ora era il Monte degli Ebrei che ci succedevano cose straordinarie, e Gerusalemme diventava Yuhpitz, e Momik segnava sulla carta tante lineette a matita come un comandante fa sulla sua mappa di battaglia: Menachem Mendel viaggia da qua a là, va da Odessa a Yuhpitz e a Zmerinka, e nei boschi dei Monti di Menashe passa Tewje col suo vecchio ronzino, e il Giordano è il fiume San, che credevano che ogni anno dovesse inghiottirsi una vittima, fino a che era affogato il figlio del Rabbi, e il Rabbi aveva maledetto il fiume e quello era diventato stretto stretto come un ruscelletto, e sul Monte Tabor Momik ci aveva scritto a matita Golden Bergel, e piccino piccino ci aveva disegnato su le botti d'oro che c'aveva lasciato lì il Re di Svezia scappando davanti ai russi, e sul Monte Arbel Momik c'aveva fatto una cavernetta, come c'era sulla montagna vicino alla borgata di Bolichòw dove ci stava la mamma, e lì raccontavano che il terribile brigante Dubbush s'era scavata una cavernina nelle rocce per nascondersi lì a fare progettazioni di malandrinaggi. Lui c'aveva un mucchio d'idee, Momik.
E nella Valle di Eyn-Karem cavalcavano i tre fratelli sul cavallo Blacky con selvaggezza forte forte, abbracciandosi l'un l'altro le reni. Bill, il più forte di tutti, stava davanti, e Momik che era il responsabile stava in mezzo, e didietro stava Mottel, con le due buccole dei cernecchi arrotolate dietro gli orecchi e con occhi luccicanti, e anche i muscoli gli si rinforzavano ogni giorno di più, e tra non molto tutt'e tre sarebbero stati pronti a eseguire azioni veramente belliche.
Bene, era chiaro che c'era bisogno di spiegargli molte cose che non conosceva per nulla. Cos'è la barriera del suono che l'infrangono gli aeroplani che ci vengono mandati dalla nostra eterna amica la Francia, e chi è Nethanel Blessberg il corridore ortodosso della squadra sportiva Elizur, che con l'aiuto di Dio aveva battuto il record dei sei chilometri, e cos'è la Brigata del Fuoco di Suleiman lo Yemenita, e cosa fanno con precisione nella piscina da nuoto del nuovo impianto atomico di Nachal Rubin, e che si deve tenere sempre un pezzo di cartone ripiegato nel taschino della camicia per arrestare le pallottole che mirano al cuore, e cos'è un'azione di rappresaglia, azione un pugno e un dito, di due dita, rappresaglia due pugni e tre dita, benissimo così ci siamo fermati al terzo dito portafortuna, che Mottel quasi l'aveva fatta fallire perché non aveva avuto semplicemente la pazienza di starsene lì tranquillo in agguato ad aspettare, e cos'è la mitraglietta Uzi e cosa sono il Mystère e lo A.M.X. perché nei villaggi di Quel Paese Lì gli avevano dato a quanto pare altri nomi ai loro fucili e ai loro aeroplani.
E una volta Momik era restato apposta un po' di tempo nella biblioteca di scuola e aveva aspettato fino a che fuori si fosse fatto buio, e fino a che la Signora Govrin gli avesse detto di andarsene, e lui aveva aspettato ancora un po' nel cortile di ginnastica, e quando aveva visto che ora era davvero solo, aveva tirato fuori dalla cartella quella cosa tanto segreta, la rapa che aveva tagliato in due e le aveva levato tutta la polpa col coltello, e nella rapa aveva infilato una candela e poi l'aveva accesa, e era andato via così camminando per tutta la strada sotto una pioggerellina fine fine, che non gli aveva spento la candela, tra grandi mucchi di neve, tra boschi di castagni e cespugli di lillà e di pudjomkes grandi grandi che forse erano jagdes ma cosa importa, e i buoni odorini del pane che lo facevano nel forno di casa, e un gran fiume con rane e piccole mignatte, e il mercato del bestiame che lì avevano venduto la loro buona cavalla tanto amata perché erano restati senza quattrini per mangiare, così se ne camminava un bambino di tre anni che tornava dal cheder di Rabbi Izzle verso casa dove c'erano un mucchio di bambini e di bambine, di fratelli e di sorelle, e lui si sarebbe messo a sedere e avrebbe anche mangiato sotto la tavola come in casa dei signori che li chiamavano Paritz (Momik sapeva già che si deve però pronunciare al modo yiddish "Poritz"), e invece gli erano venuti incontro il babbo e la mamma usciti di casa perché stavano tanto in pensiero, e l'avevano visto che camminava in via Borochow, camminava lì piano e attento e con la mano faceva schermo alla candela che non gli si spegnesse, e camminava lì serio serio e commosso come il corridore che porta la fiaccola delle gare Maccabià da un paese lontano, e il babbo e la mamma stavano lì appiccicati uno accanto all'altro e non sapevano più cosa fare, e lui li aveva guardati e voleva dire qualcosa di bello, ma tutt'a un tratto la faccia del babbo era cambiata e s'era tutta raggrinzita come se avesse avuto schifo di qualcosa o giù di lì, e aveva alzato la manona, e con tutta la sua forza aveva dato un colpo alla candela (le sue dita non avevano toccato la mano di Momik) e la candela era cascata in una pozzanghera e s'era spenta subito, e il babbo aveva detto con una voce strana e soffocata basta ora con quelle tue stupidaggini, è arrivato il momento che tu ti metta sulla buona via e ti sforzi di essere un po' normale, e da allora in poi non aveva più raccontato a Momik nulla sulla borgata dov'era nato e su com'era quando lui era bambino lì, e anche Mottel non era più tornato, forse non voleva più, e forse Momik non si sentiva più tanto a suo agio con lui per via di quello che era successo, e il risultato era stato che Momik era restato di nuovo solo solo di fronte a tutta la bestia e quella ancora non voleva uscire fuori.
E la notte la mamma s'era chinata sul letto di Momik e gli aveva annusato le gambe che puzzavano di petrolio, e tutt'a un tratto aveva detto in yiddish qualcosa da riderci, Dio mio, aveva detto, non avresti per caso voglia d'andare un po' a giocare con un'altra famiglia?
E bisogna tener presente che con tutte quelle ricerche e la caccia e gli sforzi c'erano anche cose del tutto normali e solite, e nessuno doveva sospettare che c'era qualcosa che non funzionava, perché sennò avrebbero cominciato a far domande e a impicciarsi di tutto, e bisognava prepararsi agli esami e star tutto il giorno in classe dalle otto alle tredici che sarebbero un'ora dopo mezzogiorno, e quella era una cosa che la si poteva sopportare solo se si pensava continuamente che tutti quelli che erano lì con lui a studiare erano in fondo in fondo degli scolari di una scuola segreta tutti cospiratori nascosti, una scuola fatta da noi clandestina, e che ogni volta che si sentivano di fuori dei passi bisognava preparare le pistole e prepararsi alla morte, e oltre tutto questo bisognava aver cura del Nonno che ultimamente era diventato più nervoso e arrabbiato, e a quanto pare il suo nazi lo tormentava a morte, e oltre a tutto questo Momik doveva assolutamente pensare a trovare espedienti e parole magiche apposta per ogni volta che Nasser psiakrew dichiarava che avrebbe fermato una nostra nave nel Canale di Suez, e c'erano anche quelle tremende cartoline che qualcuno c'aveva ficcato lì il nome di Momik e per questo lui doveva spedire tutte le settimane cartoline e cartoline col nome di gente che lui non conosceva per nulla, cancellare il nome che era primo nella lista e aggiungerci sotto il nome d'un altro ragazzo, perché sennò allora sarebbe successo Dio liberi un disastro com'era successo a un banchiere in Venezuela che non l'aveva presa sul serio e subito era diventato povero e anche la moglie gli era morta Dio ne guardi, e non mi chiedete quanti quattrini ci vogliono per comprare tutte quelle cartoline, fortuna era che la mamma proprio per quest'affare non era stata avara e gli aveva dato quanto ci voleva per spedire tutte quelle cartoline, e oltre a tutte quelle cose normali e solite c'era anche quell'affare con Leizer della 7a, che erano già tre mesi che ricattava Momik e gli soffiava un panino tutti i giorni. E dapprincipio questa roba lo spaventava per davvero perché non riusciva a capire come un ragazzo che aveva solo tre anni più di lui potesse essere così selvaggio e nero e forse disperato, tanto da non aver paura a fare un delitto così tremendo come il ricatto, che per una roba così gli danno proprio la prigione. Ma Momik aveva saputo già fin dapprincipio che se questo era successo e gli era capitato proprio a lui, la cosa migliore da farsi era di non pensarci troppo, perché lui doveva tenersi tutte le forze per cose più importanti, e poi tanto Leizer era più forzuto di lui, e a cosa avrebbe giovato a Momik se c'avesse pensato continuamente e si fosse offeso e avesse avuto voglia di morire e di piangere cosa? E dato che Momik era un ragazzo scientifico e sistematico che sapeva benissimo prendere le sue decisioni, era andato subito da Leizer e gli aveva spiegato con la logica che se i ragazzi avessero visto che lui gli dava un panino tutti i giorni, avrebbero subito fatto la spia alla maestra, e perciò gli aveva proposto un sistema più spionieristico di farlo. Il ricattatore delinquente che stava di casa nelle baracche degli immigranti lì sotto e c'aveva una cicatrice su tutta la fronte aveva cominciato a dire qualcosa tutto arrabbiato, ma poi aveva pensato a quello che gli aveva detto Momik e era stato zitto. Momik aveva tirato fuori dalla tasca destra un foglio dove c'era pronta la lista di sei posti sicuri lì a scuola che lui poteva nasconderci lì un panino, e qualcun altro poteva andar lì a prenderlo senza pericolo. Mentre leggeva a voce alta la lista, Momik aveva visto che Leizer già cominciava un po' a pentirsi, e lui invece si riempiva tutto di fiducia. Dalla tasca sinistra aveva tirato fuori l'altra lista preparata per Leizer. Era la lista di tutti i giorni che ci sono nel nostro primo mese di prova (così aveva detto a Leizer), e lì c'era anche l'indicazione dove ogni giorno sarebbe stato il panino. Ora era già chiaro che Leizer si pentiva di tutto quell'affare. Aveva cominciato a dire basta con queste tue scemenze, Helen Keller, l'avevo detto solo per scherzo e chi lo vuole il tuo panino puzzolente, ma Momik non era stato a sentirlo, perché all'improvviso s'era accorto quanto fosse più forte lui di quel delinquente, e anche se avrebbe già potuto dire va bene, allora basta con questi ricatti, non aveva potuto farla finita così, e quasi a forza aveva ficcato in mano a Leizer i due fogli e gli aveva detto allora domani si comincia, e il giorno dopo aveva messo il panino nel posto fissato e s'era messo in agguato secondo tutte le legittime regole, e aveva visto come Leizer s'avvicinava e guardava il foglio e guardava attorno e come zac, zac! prendeva il tesoro, ma Momik aveva visto che Leizer non era affatto contento, al contrario, aveva guardato dentro il sacchettino che Momik aveva avvoltolato ben bene, come se ci fosse stata dentro una roba schifosa che lui fosse obbligato a pigliare e portarsi via, ma era chiaro che non aveva scelta, e anche se non avesse voluto sarebbe stato costretto a fare quello che Momik gli aveva detto, per non rovinare tutto quel programma complicato e geniale che era più forte di lui e forse anche di Momik. E oltre a tutto questo, Momik non aveva smesso di combattere la belva, perché sapeva che se ancora non era uscita dalla sua maschera di camuffamento, era solo perché era più furba di lui e più esperta di lui nell'arte bellicistica, ma una cosa era sicura, e cioè che quando poi si fosse svelata, questo sarebbe stato solo agli occhi di Momik e di nessun altro al mondo, perché solo lui aveva avuto il coraggio di sfidarla, di fare come quei soldati che vanno per primi all'attacco e si buttano distesi sul filo spinato perché gli altri gli passino sul corpo. E questo succedeva quando era già vicina la fine dell'inverno, quando i venti stavano facendo gli ultimi tentativi di buttar giù Bet Mazmil, e allora Momik aveva cambiato di colpo tattica e aveva deciso di fare proprio quello che lo spaventava di più, e che aveva sempre evitato di fare, e cioè di cercar di sapere qualcosa di più sulla belva e sui suoi misfatti, perché per dir la verità non sapeva per nulla in che direzione sferrare gli attacchi. Questa è la verità. E così aveva cominciato a occuparsi dell'Olocausto e così via. Nell'Enciclopedia erano ancora lontani dalla lettera shin che sarebbe l'iniziale di shoà, Olocausto, e perciò Momik s'era iscritto in gran segreto alla Biblioteca Popolare (i genitori non gli avevano dato il permesso d'iscriversi a due biblioteche), e due volte la settimana andava lì nel pomeriggio coll'autobus 18 e leggeva tutto quello che ci trovava. In biblioteca c'era un armadione con su scritto: "Letteratura dell'Olocausto e dell'Eroismo", e Momik aveva cominciato a farci un lavoro tutto sistematico come sapeva far lui libro dopo libro. Leggeva a velocità fantastica perché sentiva che il tempo stringeva, e bisogna dire la verità che lui non ci capiva quasi nulla di nulla, ma come sempre sapeva che il cervello sarebbe venuto col tempo. Così aveva letto Il diario di Anna Frank, e Pfeipfel e La casa delle bambole e I venditori di sigarette di via delle Tre Croci, e un'infinità di libri di quel tipo. Aveva incontrato lì ragazzi che erano un po' come lui, come in fondo lui aveva già da tanto tempo sentito che era così. Parlavano yiddish coi genitori e non erano obbligati a nasconderlo, e lottavano come lui contro la belva, e questo era quello che importava di più.
Nei giorni che non andava in biblioteca Momik stava ore e ore nel ripostiglio - fino a che faceva buio, e anche un po' dopo si costringeva a restare lì ancora qualche minuto sul pavimento freddo di fronte agli occhi luccicanti delle bestie, e Momik piantava i piedi a terra che non gli scappassero, e intanto gli uscivano di bocca voci come respiri fischianti o come il mugolio di un cucciolino, e gli pareva d'assomigliare al Nonno con tutti quei rumorini, e restava lì fino a che non finiva la luce nello spiraglio della finestrina e si faceva buio come quello che c'è nelle piaghe d'Egitto, e questo Momik lo faceva perché nascosto con furbizia in un libro aveva trovato un suggerimento proprio tattico: "dal buio era sbucata la belva nazista".
Giorno dopo giorno. Nella Sala di Lettura per Adulti della Biblioteca Popolare Momik stava seduto su un seggiolone alto alto e le gambe gli ciondolavano in aria. Al bibliotecario, che si chiamava Hillel, aveva detto che lui doveva preparare per la scuola un lavoro speciale sull'Olocausto, e nessuno gli aveva più chiesto nulla. Leggeva libroni di storia sulle cose che avevano fatto i nazisti, e si rompeva la testa per capire un monte di parole e di espressioni che c'erano state solo in quel tempo lì. Guardava ore e ore strane fotografie che non riusciva a capirci cosa ci fosse e cosa ci succedesse e cosa appartenesse a chi, ma dentro cominciava a sentire che quelle foto gli rivelavano a quanto pareva il principio del segreto che tutti gli tenevano nascosto. Aveva visto fotografie di genitori che dovevano decidere tra due dei loro bambini chi sarebbe restato con loro e chi se ne sarebbe andato per sempre, e aveva visto come un soldato costringeva un vecchio a andare a cavallo su un altro vecchio come se fosse stato un ciuco, e aveva visto fotografie di esecuzioni capitali in massa e in un mucchio di modi che lui non s'era mai nemmeno immaginato che esistessero, e aveva visto fotografie di tombe dove erano seppelliti insieme mucchi di morti che giacevano lì in pose strane, l'uno sull'altro e l'uno colle gambe sulla faccia dell'altro, con la testa voltata in un modo tutto storto, che Momik ci s'era provato ma non era riuscito a voltarla in quel modo, e così piano piano Momik aveva cominciato a capire nuove cose, come per esempio quanto il corpo dell'essere dell'uomo è una cosa debole e si può rompere facilmente in un monte di modi e di direzioni se solo uno proprio lo vuole rompere, e quanto è debole e fragile la famiglia se la vogliono scompigliare, zac, zac - può succedere, e tutto finisce per sempre. Momik usciva dalla biblioteca alle sei di sera stanco morto e zitto zitto. In autobus verso casa non vedeva nulla e non sentiva nulla.
E quasi tutte le mattine scappava di scuola durante il Grande Intervallo, e girava al largo dalla strada del botteghino e correva alla drogheria di Bella e ci arrivava proprio senza respiro e la tirava per una manica da parte (se per caso c'era qualche cliente), e subito prendeva a chiederle con una voce bassa che era già un mezzo grido, cos'è il Treno-Della-Morte? E perché avevano ammazzato i bambini? E cosa prova la gente quando si scava la fossa? E Hitler ce l'aveva la mamma? Davvero col sapone fatto di gente si lavavano? Dove ammazzano ora la gente? Cosa vuol dire "Jude"? Cosa sono gli esperimenti su cavie umane? E cos'è e cos'è e cos'è e come e come e perché, e Bella, che s'era già accorta da sé quanto la cosa era decisiva e importante, gli dava risposte su tutto e non gli nascondeva nulla, e solo la sua faccia era triste e tutta disperata. Anche Momik stesso era un po' impensierito. Non proprio innervosito ma solo impensierito, e molto. La situazione pareva precipitasse di giorno in giorno, la belva vinceva, era chiaro, e anche se lui ne sapeva su di lei già tanto, e anche se non era più uno stupidino che credeva che lei potesse venir fuori da un porcospino o da un povero gatto o perfino da un corvo, però gli era successo questo broch, questo pasticcio, che era arrivato a un luogo in cui la belva c'era eccome se c'era, e non gli era affatto chiaro com'era successo, come una cosa del genere potesse venir fuori semplicemente così dai pensieri e dalle fantasie, e ora era sicuro sicuro che la belva esistesse, se la sentiva proprio nelle ossa come Bella sentiva quando stava per piovere, e gli era anche chiaro che era stato lui ad essere così stupido da svegliarla e da attirarla a uscire dal suo buco, e lui era costretto ora a continuare a combattere solo solo fino alla fine, e sapeva benissimo che se fosse scappato lei gli sarebbe corsa dietro fino in capo al mondo (dappertutto lei c'ha spie e amici), e lì gli avrebbe fatto anche a lui quello che aveva fatto agli altri, e questa volta in una maniera molto più maligna e diabolica, e chissà quanti mai anni l'avrebbe torturato così, e sarebbe stata la fine.
Ma era stato poi Momik senza l'aiuto di nessuno a riuscire a trovare il modo di far scaturire la belva fuori dalle bestie che c'erano nel ripostiglio, e era una cosa così semplice che proprio non si capiva come l'idea non gli fosse passata prima per la capocchia, perché perfino la sua tartaruga addormentata si rammentava d'essere tartaruga quando sentiva l'odore delle bucce di cetriolo fresco, e il corvo - tutte le penne gli s'arruffavano quando Momik gli portava la coscia di pollo, e quant'era facile capire che Momik non doveva ora far altro che far vedere alla belva il mangiare che a lei gli piaceva di più, e quello era l'ebreo.
Allora aveva cominciato a far dei preparativi molto accurati. Prima di tutto aveva cominciato a copiare sul suo quaderno fotografie da libri che c'erano in biblioteca, e s'era annotato un monte d'indicazioni per ricordarsi com'era fatto l'ebreo, come l'ebreo guarda i soldati, come l'ebreo ha paura, com'è l'ebreo in un treno, e come si scava la fossa. Scriveva anche le esperienze che lui stesso aveva fatto prima con degli ebrei, come l'ebreo fa krekz e come urla nel sonno, e come mangia cosce di pollo, e così via. Per esempio, quel ragazzo, in questa foto qui col berretto, che teneva le mani in alto. Momik cercava d'indovinare cose interessanti su quel ragazzo, se sapeva fare il fischio con due dita in bocca e se aveva già saputo che Chodoròw era diventato un gran portiere del calcio, e dov'erano i suoi e perché poi doveva tenere le mani in alto, e dov'erano il suo babbo e la sua mamma che non gli avevano fatto una buona guardia, e se andava in sinagoga e se raccoglieva francobolli veri di Quel Paese Lì e se s'era mai figurato che nello Stato d'Israele nel Quartiere di Bet Mazmil a Gerusalemme c'era un ragazzo chiamato Momik Neuman. Tante cose c'era bisogno d'imparare per essere proprio un ebreo, per farsi una faccia proprio come quella d'un ebreo e che dal corpo gli venisse fuori proprio un odore come quello suo, come quello del Nonno per esempio e di Munin e di Max e Moritz, e quello era un odore che lui sapeva che la belva non si sarebbe più potuta tenere quando l'avesse sentito, e un giorno dopo l'altro Momik stava nel ripostiglio senza far nulla e solo faceva attenzione a non addormentarsi perché negli ultimi giorni, chissà perché, era sempre stanco, e chissà mai perché proprio lui doveva sobbarcarsi tutto questo e perché nessuno veniva a dargli una mano e nessuno si rendeva conto di quello che gli succedeva né il babbo né la mamma né Bella né i compagni di scuola né la maestra Netta che sapeva solo sgridarlo perché a scuola faceva sempre peggio, e nemmeno Dag Hammarskjöld delle Nazioni Unite che era venuto ora in Israele e era andato fino a Sde Boker per cenare con Ben Gurion, e quello era proprio quel Dag Hammarskjöld che aveva inventato l'Unicef per i bambini e salvava i bambini in Africa e in India dalle malarie e da un mucchio di pesti, ma per la guerra contro la belva, solo per quella lui non c'ha tempo. Bisogna dir la verità: c'erano dei giorni che Momik invidiava la belva. Perché la belva era così forte che non sentiva pietà e poteva fare un bel sonno anche dopo aver fatto tutte quelle brutte cose, e a quanto pare ci godeva a far robe crudeli come lo Zio Shimek ci godeva a farsi grattare la schiena, e forse ha ragione lei e forse non è poi tanto un malanno essere crudeli ma molto molto crudeli, e la verità è che negli ultimi giorni anche Momik sentiva una specie di piacere così a far qualcosa di male, e soprattutto quando si faceva buio e lui aveva paura ancora più del solito, e allora sentiva come se stesse per scoppiare dalla forza crudele che c'aveva dentro, e che lui poteva schiacciare tutte le teste di quella belva senza provare nessuna pietà e senza pensarci su, anche se poi lei l'avesse graffiato e morso, solo per mescolarsi con lei una volta perché lei sentisse almeno una volta quello che sentiva lui, ma forse era meglio di no, forse era meglio ammazzarla senza nessun mescolamento, solo schiacciarla e pestarla e torturarla e bombardarla, e ora perfino la bomba atomica si poteva buttare perché nel giornale avevano scritto alla fin fine un articolo sulla nostra pila atomica che gigantesca e sbalorditiva sorge sulle dune dorate delle sabbie di Nachal Rubin vicino a Rishon Lezion, e guarda con fierezza la riva del mare dove mormorano le azzurre onde lambenti, ed entro la sua cupola immensa echeggiano i colpi dei martelli costruttori con canti d'allegrezza, e proprio così c'era scritto nel giornale "Yedioth", e anche se nello "Yedioth" si scriveva che era solo un Istituto di ricerca per scopi pacifici, Momik sapeva benissimo leggere le quinte come si usa dire, e capiva benissimo i sorrisetti di Bella che lei c'ha un figlio Maggiore di grado molto alto nell'Esercito, scopi pacifici, ma certo, che tutti gli arabi psiakrew scoppino, però bisogna confessare che la belva non s'era tanto smossa davanti a quelle minacce, e a volte gli pareva che proprio quando lui cominciava a sentirsi così, selvaggio e pieno d'odio vale a dire, proprio allora la belva cominciava a sorridere sotto i baffi, e allora lui s'impauriva ancora di più, e quanto tempo ancora sarebbe riuscito a restar calmo senza l'aiuto di nessuno, e allora si svegliava dal dormiveglia della stanchezza e sentiva il puzzo delle bestie che gli si era appiccicato addosso tanto che a volte gli sembrava che gli uscisse di bocca, e non si alzava lì da terra, e il babbo e la mamma certo uscivano di cervello dalla pena ma dov'era Momik ma dove, e solo che non gli prendesse l'idea di venire a cercarlo qui, ma no, no, e lui continuava a dormicchiare lì avvolto nel vecchio cappotto del babbo e a volte si svegliava e faceva vedere alle bestie il numero che lui s'era appiccicato sul braccio coi ritagli dei biglietti della lotteria, e se non bastava allora Momik si rinfrescava con un tossicchiamento e qualche krekz, e poi, prima di tirarsi su e andarsene a casa, sfidava la belva un'ultima volta in un modo davvero terribile, le voltava le spalle e stava lì ancora un po' e in un buio come quello delle piaghe d'Egitto copiava nel suo Quaderno di Geografia N. 4 qualche riga del Diario di Anna Frank che stava nascosta per via di lei, della belva, e sempre, dopo aver finito di copiare un pezzo commovente dal libro (che lui l'aveva rubato dalla Biblioteca Popolare), la penna cominciava a tremargli un po' in mano, e allora era costretto a scrivere delle altre righe su un ragazzo che si chiamava Momik Neuman, che anche lui si nascondeva così e lottava e aveva paura, e il più strano era che quelle cose lui le scriveva proprio come lei, cioè come Anna.
E a volte succedeva dopo colazione, quando Momik voleva già liberarsi dal Nonno e metterlo a letto e scendere presto presto nel ripostiglio, che il Nonno lo guardava in un modo speciale e proprio lo supplicava con gli occhi di farlo uscire un po', e nonostante che a volte piovesse ancora e fosse un po' freddo, Momik sentiva come il Nonno soffrisse chiuso in casa e gli diceva di sì, e tutt'e due si mettevano il cappotto e uscivano e chiudevano anche la serratura di sotto, e Momik teneva il Nonno per mano e sentiva come le correnti calde del racconto del Nonno passavano in lui attraverso la mano e gli salivano fino alla testa, e senza che il Nonno se ne accorgesse gli prendeva un po' di forza e stringeva e attingeva forza per sé, finché il Nonno dava tutt'a un tratto uno strillo grosso così e ritirava la mano, e guardava Momik come se capisse qualcosa. Si mettevano a sedere sulla panchina verde e vedevano come la strada era grigia e come pareva tutta in tralice e obliqua per via della pioggia, e come la nebbia cambiava la forma di tutte le cose, e tutto sembrava differente, e tutto era così triste, e in mezzo al vento e alle foglie che volavano appariva all'improvviso un cappotto nero che era tagliato di dietro in due, o una parrucca bionda, o due scemi che camminavano tenendosi per mano e frugavano nei bidoni della spazzatura, e così gli amici del Nonno cominciavano a venire tutti alla panchina, anche se nessuno gli aveva detto che lui era qui, e poi s'apriva anche la porta di Bella, e il Signor Markus così piccino e carino scendeva le scale, anche se Bella lo implorava che non, e quando lei vedeva che Momik era lì, ohoho come gli strillava che si pigliasse il suo Nonno e se lo riportasse a casa, ma Momik la guardava soltanto senza risponderle, e alla fine lei rinunciava e chiudeva la porta tutta arrabbiata.
Il Signor Markus veniva lì e si metteva a sedere e faceva un krekz, e tutti gli facevano posto e facevano krekz, e anche Momik faceva un krekz come loro e sentiva che gli stava bene così. Momik non aveva più paura di tutte le smorfie che faceva il Signor Markus che gli facevano una faccia d'uno di cent'anni così Dio lo conservi fino a cent'anni. Una volta Momik aveva chiesto a Bella se le facce che faceva Markus erano per via di una malattia Dio liberi o giù di lì, e Bella aveva detto che il babbo di Hezkel che Dio lo riposi aveva diritto che lo lasciassero in pace, e soprattutto i bambini sfacciati che sono obbligati a saper sempre tutto e cosa gli resterà poi da imparare quando avranno dieci anni, ma Momik naturalmente aveva insistito, eppoi si sa chi è e cos'è Momik, e lui c'aveva pensato su ben bene, e dopo un po' di tempo era tornato da Bella e le si era piantato davanti e aveva detto che aveva trovato da sé la risposta. Bene, era una cosa un po' da ridere, perché Bella s'era già scordata del tutto cos'era stata la domanda, ma Momik gliel'aveva ricordato e aveva detto che il Signor Markus raggrinziva così la faccia per via che una volta era scappato da un certo posto (Momik non aveva voluto dire chiaro e tondo da Quel Paese Lì) e ora non voleva che gli riconoscessero la sua faccia vera e lo riacchiappassero, e Bella aveva storto la bocca come se fosse arrabbiata, ma le si vedeva scritto in faccia che invece si tratteneva dal ridere, e aveva detto che forse era proprio all'incontrario, a chuchem intelligentone che non sei altro, forse il Signor Markus vuole invece tenersi a memoria così le facce di un sacco di gente che era stata con lui in un certo posto, e lui non voleva affatto sfuggire a quella gente ma proprio star con loro, nu, cosa ne dici, Einstein? e una risposta così aveva davvero fatto andare Momik alle corde del ring come si dice, e da allora aveva cominciato a guardare il Signor Markus in una maniera del tutto ma del tutto diversa, e la verità era che nella faccia del Signor Markus c'aveva trovato le facce di un mucchio di gente che Momik non aveva mai visto né conosciuto, uomini e donne e vecchi e bambini e perfino neonati, e tutto questo senza dire poi che tutta quella gente faceva sempre un mucchio di facce che cambiavano sempre, e questo era il segno più chiaro che anche Markus come tutti partecipava alla Guerra Segreta.
La pioggia cadeva e i vecchi chiacchieravano. Non si riusciva mai a distinguere quand'era che le loro voci e i loro krekzi diventavano un parlare perdavvero. Raccontavano le loro solite storie che Momik già le sapeva a memoria ma gli piaceva starle a sentire ancora e poi ancora. Sonia la Nera e Sonia la Rossa, e Haim Itzche lo Zoppo che suonava il violino ai matrimoni e quel pazzone che si chiamava Giobbe, che più di tutto gli piaceva succhiare le pasticche "Landrin", e i bambini da noi se lo tiravano dietro come se fosse un cagnolino e gli facevano tutto quel che volevano promettendogli pasticche, e il grande e bel bagno pubblico che s'erano fatti fare lì, e come mettevano lo cholent di tutti il giovedì sera in forno e quello si cuoceva lì tutta la notte, e tutta la shtetl era piena di quell'odore, e così si poteva star lì e sentire e riposarsi un po' della guerra e della belva e del puzzo del ripostiglio, si poteva proprio scordare tutto e come non essere più, e proprio in quest'istante, offzeluches come si dice da noi, gli passava per la testa qualcosa di arrabbiante e noioso, il ricordo di una manona grassa che dava una botta alla candela e la candela cascava e il fuoco faceva tssss nella pozzanghera, e che faccia aveva fatto il babbo allora, e quella parola che aveva detto allora, e Momik si raddrizzava tutt'a un tratto e tirava su la testa dalla spalla di Hannah Citrin che lui le ci s'era appoggiato un po' senz'accorgersene, e diceva con una voce dura e forte che nella partita decisiva che ci sarà tra poco nella città di Wroclaw noi faremo poltiglia di quei polacchi fino a farli a fette di salsiccia, Stelmach da solo gliene infilzerà una cinquina, e i vecchi si quietavano d'un colpo e tutti lo guardavano senza capir nulla, e Hannah Citrin diceva con una voce pulita e triste alter kap, e Yedidiah Munin che stava seduto al capo opposto allungava verso di lui una mano magra che era piena di peli neri, e questa volta non voleva affatto pizzicargli la guancia, ma solo gli teneva delicatamente il mento e lo attirava a sé piano piano, chi avrebbe mai creduto che Momik avrebbe permesso che Munin gli facesse una cosa così e poi lì fuori, ma ora lui era un po' stanco, Momik cioè, e non gl'importava di mettere la faccia sul cappotto di Munin che era nero e c'aveva quello strano odore, e Momik pensava allora che era bene per lui non essere solo e che insieme a lui ci fossero tutti quei guerrieri segreti, e erano come un gruppo di partigiani che combattevano insieme già da un mucchio di tempo, e ora si era proprio alla vigilia della battaglia decisiva e tutti loro si riposavano un po' nel bosco, e chi li avesse guardati avrebbe forse pensato meschugghener che branco di matti, ma cos'importava, era solo piacevole starsene sdraiato sul cappotto di Munin vicino a tutti i compagni e sentire il fruscio della lana e il ticchettare basso basso dell'orologio da tasca e palpiti di cuore che venivano come da molto lontano, e stava bene così.
E quella notte era successa una cosa terribile, e era stato così che tutt'a un tratto s'eran sentite grida tremende dalla strada, e erano già le undici e quattordici secondo l'ora di Momik, e la gente aveva cominciato a aprire persiane e a accendere luci, e Momik aveva pensato dentro di sé che la belva era venuta fuori dal suo ripostiglio, e lui s'era nascosto ancora più sotto le coperte, ma gli urli non erano di una belva ma di una donna, e allora era saltato subito dal letto e era corso alla finestra e aveva aperto le persiane, e il babbo e la mamma gli avevano gridato dalla loro stanza di chiudere, ma lui già da un bel po' di tempo aveva smesso di starli a sentire, e aveva guardato fuori e aveva visto una vera donna nuda che correva di qua e di là nel vicolo e urlava terribilmente, e non si poteva capir nulla, e anche se c'era una luna quasi tonda, a Momik gli c'erano voluti diversi minuti prima di capire che era Hannah Citrin, perché la bella parrucca bionda le era cascata, e sotto c'aveva solo capelli calvi, e c'aveva delle mammelle immense che svolazzavano da tutte le parti, e fortuna era che sotto, lì, lei portava qualcosa di piccolo e triangolare, come una pelliccia nera, e Hannah Citrin, che solo poche ore prima, in quel pomeriggio stesso, era stata seduta insieme a lui sulla panchina come una buona amica, aveva levato le mani in alto e aveva urlato in yiddish: Dio Dio, quanto tempo dovrò ancora aspettarti, Dio, e la gente aveva cominciato a gridare silenzio, vattene a casa tua, pazza, è notte adesso, e qualcuno dal secondo piano della casa della giovane coppia degli antipatici le aveva senza tanti complimenti buttato un secchio intero d'acqua ghiacciata addosso e l'aveva bagnata tutta dalla testa ai piedi, ma lei non aveva smesso di correre e di strapparsi i capelli, e quando passava accanto al lampione tutti vedevano che tutto il trucco che c'aveva sempre spalmato in faccia le gocciolava giù, e tutt'a un tratto s'era fatta luce nelle scale di Bella, e Bella era scesa e chi sennò e aveva abbracciato Hannah Citrin con una grande coperta, e Hannah era stata lì ferma senza muoversi e aveva cominciato a tremare un po' dal freddo e aveva chinato la testa, e Bella l'aveva portata via piano piano, ma tutt'a un tratto s'era fermata e aveva gridato con una voce tremenda: "Cattivi!" e mentre passava davanti alla casa degli antipatici aveva gridato: "Siete peggio di quelli lì! Dio ve ne rimeriterà dieci volte tanto!" e poi lei e Hannah erano scomparse tra i cipressi neri che c'erano accanto alla casa di Hannah, e le luci in tutte le case s'erano spegnute una a una, e anche Momik aveva chiuso la persiana e era tornato a letto.
Ma aveva visto ancora una cosa, che nessuno all'infuori di lui aveva visto, e cioè che mentre Hannah correva nuda, il Signor Munin era uscito dalla sinagoga che c'era accanto alla casa di Momik, e s'era messo lì, un po' nell'ombra e un po' nella luce della luna. Era del tutto senza occhiali, e tutto il corpo gli si muoveva avanti e indietro, e gli occhi guardavano Hannah e luccicavano, e le mani le teneva in basso nel buio, e Momik vedeva come a Munin gli tremavano le spalle, e come gli si muovevano le labbra, e non capiva cosa dicesse, ma sentiva che era certo qualcosa di tremendamente importante, e che Munin forse ora gli rivelava il gran segreto della belva e di come la si combatte, e Momik voleva gridargli dalla finestra che non poteva sentire cosa dicesse, che anche se erano vicinissimi qui lui non poteva sentire, e tutt'a un tratto gli occhi di Munin s'erano spalancati forte forte, e la bocca gli s'era aperta insieme agli occhi, e il corpo gli si buttava avanti e indietro come se qualcuno lo scuotesse con tutta la forza, e allora Munin aveva steso le braccia di qua e di là come se fosse stato un grande uccello nero, e aveva cominciato a saltare in aria e a gridare, ma senza voce, e come se qualcuno lo tirasse per un filo dal disopra, ma d'un colpo quel filo s'era spezzato, e Munin s'era semplicemente piegato in due e era cascato in terra come uno straccio e era restato lì un sacco di tempo, e Momik l'aveva sentito fare dei krekzi di quelli là in silenzio a se stesso come il gatto pazzo ancora un sacco di tempo dopo che tutto quell'affare lì era già finito, e alla mattina Munin non era più lì per terra ma la belva aveva sentito che c'era un trucco e non era sbucata fuori. Tutte le strategie di Momik gli erano fallite. La belva a quanto pareva sapeva distinguere benissimo tra un ebreo per davvero e Momik che cercava di parere tutt'a un tratto come se fosse stato un ebreo, e se Momik avesse almeno saputo qual era la differenza avrebbe fatto quello che bisognava, ma lui no. Era già diventato come l'ombra di se stesso, e quando camminava strascicava le gambe, e anche gli era venuto un nuovo chendle come diceva Bella, un vezzo cioè, e era che aveva cominciato a fare krekzi proprio come un vecchio, anche in classe gli scappavano, e tutti intorno scoppiavano a ridere, e solo una cosa buona gli era successa in quei giorni, e era che era arrivato quinto di tutta la classe nella corsa dei sessanta, e questo non gli era mai successo, e proprio ora, quando lui non c'aveva più forza per nulla, d'un colpo era successo, e tutti avevano detto che lui correva come Zatopek, la Locomotiva Cecoslovacca, e solo avevano riso perché lui aveva corso tutto il tragitto quasi a occhi chiusi e aveva fatto delle facce, come se un mostro gli corresse dietro, ma almeno avevano visto che lui poteva se voleva e perfino Alex Tuchner, che una volta era stato suo amico per due settimane, e Momik l'aveva allenato alla corsa tutti i giorni nella Valle di Eyn-Karem fino a che Alex aveva battuto il record della classe e era entrato nella squadra della scuola, perfino lui era venuto a dirgli bravo Helen Keller, ma perfino un complimento così non aveva fatto nessun effetto a Momik.
Bill e Mottel erano scomparsi già da tempo, e lui non era riuscito a farli tornare. Era come se la belva gli avesse congelato il cervello, e ora tutti se ne potevano accorgere. Bella non voleva più rispondergli, quando lui faceva domande, e gli diceva che già lei si rodeva l'anima dall'avergli fatto tanto male con quello che gli aveva detto fin qui, e che di tutte quelle sue investigazioni lei ce n'aveva già fin sopra a qui, e che facesse il piacere d'andare a giocare con i ragazzi della sua età, ma non glielo diceva arrabbiata ma con compassione, e questo era ancora peggio. Anche il babbo e la mamma avevano cominciato a guardarlo storto, e si vedeva che aspettavano solo un'occasione di scoppiare per causa sua. E poi loro avevano cominciato a comportarsi in modo strano, prima di tutto avevano cominciato a far pulizie in casa come matti, lavavano e strofinavano tutto tutti i giorni tutti i giorni (anche le finestre e i pannelli), e non c'era in casa più nemmeno un granellino di polvere, e loro ancora pulivano e pulivano, e una notte quando Momik s'era alzato per pisciare, aveva visto che tutte le luci in casa erano accese e il babbo e la mamma in ginocchio pulivano con dei coltelli da cucina il sudicio tra le mattonelle, e quando avevano visto che lui li aveva visti, gli avevano sorriso come dei bambini che li avessero sorpresi a far qualcosa, e Momik non aveva fatto osservazioni, e la mattina aveva fatto finta d'aver dimenticato. Qualche giorno dopo, di sabato, Bella aveva detto qualcosa alla mamma, e la mamma era diventata bianca come un panno lavato, e subito, la mattina del giorno dopo, aveva portato Momik a farlo visitare dal Dottor Erdreich, che era una Dottoressa, e quella gli aveva fatto una visita accuratissima da capo a piedi e aveva detto alla mamma che in nessunissimo modo lui aveva preso La Malattia, così loro chiamavano la paralisi infantile che nonostante tutti i vaccini e le punture iniezionali ancora se la prendevano nel nostro paese diversi bambini tutti gli anni, e la Dottoressa gli aveva prescritto vitamine e olio di pesci da inghiottirlo due volte al giorno, ma non era servito a nulla, e come poteva, e anche se i genitori di Momik avevano cominciato a mangiare cene sempre più grosse tutte le sere, e ora l'obbligavano a inghiottire e inghiottire, sentivano ben bene che il ragazzo gli si stava rovinando sotto gli occhi, e che loro non ci potevano far nulla, e davvero avevano provato tutto, questo bisogna dirlo a loro onore, avevano fatto venire da Meah Shearim un Rabbi piccolino e pieno di barba, che aveva fatto rotolare sul corpo di Momik un uovo sodo e aveva detto un monte di parole magiche, e erano andati perfino dalla Signora Miranda Bardugo che era come o quasi la Regina di Bet Mazmil e metteva mignatte e guariva tutti i mali, ma quella non era voluta venire da loro per quello che era successo alle sue mignatte quando le aveva messe sulle mani del babbo, e la mamma e Bella stavano sedute tutte le sere in cucina e bevevano tè, e Bella diceva piangendo quel bambino fa pietà, bisogna fare qualcosa, guarda un po' che brutto aspetto ha, gli son rimasti solo gli occhi, e la mamma aveva cominciato come al solito a piangere con lei e a dire magari si sapesse cosa fare, se tu mi dicessi il nome d'un dottore, noi gli si porterebbe il bambino, ma io non ho bisogno d'un dottore per sapere cos'è, Bella, eppoi io potrei essere Dottoressa in Malanni, e quello che ha Shlomo nessun dottore lo può curare, dammi retta, siamo stati noi che ce lo siamo portato qui con noi il malanno, ci sta ficcato dentro qui e solo Iddio può farci qualcosa, e Bella faceva un krekz e si soffiava forte forte il naso e diceva ohi, così ci aiutasse Iddio finché non arrivi l'aiuto di Dio.
Quelle erano state delle giornate brutte davvero. Tutti quelli che erano intorno a Momik erano spaventati e non sapevano più cosa fare. Aspettavano solo che lui si mettesse a posto da sé, e fino a quel momento non osavano nemmeno muovere un dito e respirare. Dipendevano tutti da lui. Quando lui si muoveva, si muovevano tutti con lui, e quando lui urlava, urlavano tutti con lui. E c'era la sensazione che il vicolo fosse completamente cambiato, e che ci si sentissero voci di gente che era già morta e storie che solo qui se le ricordavano e nomi e parole che solo qui li capivano ancora e ne avevano nostalgia, e Hannah Citrin ora usciva tutte le sere per strada nuda e sfidava Dio, e tutti aspettavano pazientemente fino a che Bella fosse scesa a prenderla, e quando ti mettevi a guardare a volte in su, potevi vedere tra i rami degli alberi e le nuvole passare veloce un'ombra, e forse qualcosa che assomigliava a un cappotto nero tagliato volava lassù, e un luccichio d'occhiali e un momento dopo Munin atterrava presso Momik che appena si strascicava a camminare, e si guardava attorno con cautela (perché a Munin è proibito avvicinarsi ai bambini per via di qualche cosa) e metteva a Momik una mano sulla spalla e camminava con lui con quella sua strana andatura (che è per via del chile, dell'ernia cioè) e gli mormorava all'orecchio mormorii sulle stelle e su Dio e sulla forza dello spostamento d'aria e su dove ci aspetta la vita felice, non qui non qui, e la sigaretta spenta gli ballonzolava dal labbro di sopra, e continuamente mormorava a Momik versetti della Bibbia e della Sinagoga e rideva con uno strano riso come di uno che subito subito va a mettere a posto il mondo e Momik non aveva più pazienza di sopportarlo.
La fronte di Momik gli scottava tutto il giorno, ma sul termometro non si vedeva nulla. Lui sentiva come se il cervello gli facesse offze-luches e l'obbligasse a pensare cose cattive. Momik aveva cominciato a fare anche lui sognacci e a urlare nel sonno, e il babbo e la mamma venivano subito di corsa, e cogli occhi lo imploravano che la smettesse, che tornasse a essere quello che era stato una volta, solo qualche ora prima, ma basta, non aveva più la forza di far finta d'essere contento in sogno per far piacere a loro, ohi luli luli cosa gli succedeva cosa gli succedeva, tutto s'era scompigliato, la belva lo vinceva, anche prima d'essere sbucata fuori lo vinceva, e lui picchiava il guanciale che era tutto bagnato, e vedeva che le dita gli s'erano tutte storte dalla paura o da cosa, e ancora e ancora picchiava e urlava contro il babbo e la mamma che stavano lì appiccicati l'uno all'altro e piangevano, e poi s'addormentava subito si risvegliava per via di un nuovo sognaccio, perché tutt'a un tratto vedeva il suo Mottel che camminava in una strada di una città che Momik non conosceva, Mottel era piccino e magro e aveva un passo strano, e Momik era tutto contento e chiamava Mottel! ma Mottel non sentiva o faceva finta, e Momik vedeva in un angolo un botteghino di quelli del lotto, e dentro c'erano il babbo e la mamma appiccicati e tristi, proprio sulla punta del raggio d'oro della fortuna che c'è dipinta sulle insegne dei botteghini, e allora vedeva che non era affatto una strada ma un fiume, forse il San, e forse no, e che il botteghino ci navigava come una barchetta, e Mottel era andato verso quella barca, era andato nell'acqua ma non si era bagnato e non era riuscito a raggiungere la barca, più s'avvicinava e più quella s'allontanava, e tutt'a un tratto erano usciti fuori da qualche parte dei giovanotti e con loro c'era anche un adulto, e avevano cominciato a fare attorno a Mottel dei circoli, e senza nessuna ragione uno di loro era venuto vicino a Mottel e gli aveva dato un pugno in piena faccia, e d'un colpo gli erano saltati tutti addosso e picchiavano e scalciavano e si chiamavano l'un l'altro schiamazzando rompigli i denti Emil, dagli nella pancia Gustav, e Momik era quasi svenuto quando aveva capito che quelli erano Emil e i suoi detectives che intanto erano cresciuti nel Paese di Germania, e l'adulto che c'era lì con loro, che li guardava e rideva fra sé e sé, quello era certo il Poliziotto Yaschke, che a volte veniva a prendere il caffè in casa della mamma di Emil, e Mottel stava lì buttato in terra sanguinante e mezzo morto, e Momik guardava e vedeva che il babbo e la mamma nel botteghino remavano e dirigevano la loro barca da qualche altra parte, e la mamma guardava Momik e gli diceva così Dio mi aiuti ma cosa mai posso fare per lui, e Bella usciva tutt'a un tratto dalla sua finestra (ma come c'era arrivata?) e gridava al babbo e alla mamma cattivi! almeno qualcuno stia con lui a casa il pomeriggio, non avete idea con chi va in giro, e la mamma faceva spallucce e diceva noi non abbiamo più forza, Signora Bella, la nostra forza è finita da un bel pezzo, è così, tutti alla fine restano soli, e loro remavano e s'allontanavano e scomparivano, e quando Momik aveva guardato un'altra volta Mottel, aveva visto che quel fiume con l'acqua non era affatto un fiume ma un mare di gente che affluiva da tutte le vie secondarie, e guardando meglio vedeva che molta di quella gente lui la conosceva, c'erano lì tutti i ragazzi dei quintetti e dei sestetti e dei settetti segreti, e i ragazzi del Capitano Grant e del Capitano Nemo e Sherlock Holmes c'era anche lui lì col suo aiutante Watson, e tutti gridavano e ridevano allegri e rotolavano davanti a sé degli strani pacchetti, e avvicinandocisi si vedeva che quei pacchetti erano i loro migliori amici, Yotam il Mago e mio fratello Elia e Anna Frank e i Ragazzi di Cuore del racconto del Nonno, e perfino il neonato Kasik c'era lì, e Momik aveva cominciato a urlare e s'era svegliato, e così era successo ancora molte volte quella notte, e la mattina, mentre Momik stava disteso lì come un morto nel letto che puzzava di sudore, e faceva un sacco di sforzi ma tutti nel senso sbagliato, perché era chiaro che la belva sapeva che lui non era già più ebreo abbastanza, e ora quello di cui c'era bisogno era trovare un vero ebreo, uno che davvero era stato Lì, che in un secondo avrebbe svegliato la belva così che subito sarebbe sbucata fuori e allora si sarebbe visto cosa, e anche Momik aveva capito subito chi sarebbe stato il più adatto in questo caso.
Il Nonno Anshel non s'era affatto stupito quando Momik gli aveva svelato il suo segreto e l'aveva pregato di aiutarlo. Momik sapeva bene che il Nonno non capiva nulla, ma per essere del tutto a posto gli aveva spiegato francamente tutti i problemi e i pasticci e i pericoli, ma d'altra parte aveva detto anche del fatto che bisognava proprio salvare una volta per tutte il babbo e la mamma dalla paura che avevano, e quando gli aveva detto questo, aveva sentito che lui stesso già non credeva più a se stesso, perché non il babbo e la mamma bisognava salvare, e chi poi ne aveva bisogno di quella belva, che continuasse pure a dormire e ci lasciasse in pace, ma lui non aveva scelta lui doveva assolutamente parlare e convincere e continuare. In fondo a tutto quel discorso Momik aveva detto al Nonno che per una decisione così importante era giusto dare al Nonno tre giorni per pensarci su, ma naturalmente non erano che parole in aria.
Il Nonno stesso non ce n'aveva bisogno di quei tre giorni, perché aveva deciso subito. Aveva fatto col capo sì sì così forte che Momik aveva avuto paura che gli succedesse qualcosa all'osso del collo Dio ne guardi, e si poteva anche pensare che forse il Nonno però capiva qualcosa, e che tutto quel tempo aveva aspettato solo che Momik venisse a chiedergli qualcosa, e forse era solo per questo che il Nonno era venuto da loro, e Momik aveva cominciato a sentirsi un goccino meglio di prima.
Mentre preparava il ripostiglio per la prima visita del Nonno si sentiva quasi in festa. Prima di tutto aveva portato da sopra lo scopino di piume sgargianti che la mamma ci puliva la polvere, e con quello aveva spazzato tutto il pavimento puzzolente. Poi aveva tirato fuori da sotto il mucchio delle robe un seggiolino, che lo chiamavano benkele, e l'aveva messo lì in mezzo alla stanza, e aveva deciso che quello sarebbe stato il benkele il panchetto del Nonno. Oltre a questo aveva appeso il vecchio cappotto del babbo che c'aveva le toppe gialle a dei chiodi che c'erano sui muri e aveva aperto le maniche vuote che ciondolassero di qua e di là, e poi aveva strappato dal falso Quaderno di Geografia tutte le pagine dove c'aveva copiato figure dai libri della biblioteca e le aveva attaccate ai muri con della carta gommata adesiva come la chiamano, e allora s'era guardato intorno e aveva detto due volte seier schen, molto bello, e s'era stropicciato le mani e s'era fatto sulle palme ffffu come se c'avesse lì un bruciamentino, e era uscito e era salito di lì a casa, e era entrato e aveva chiuso anche la serratura di sotto, e aveva visto che il Nonno s'era addormentato dopo la colazione e teneva la testa sulla tavola accanto al piatto con la coscia di pollo che la chiamano pulke e un filo fine fine di bava gli colava di bocca. Momik l'aveva svegliato gentilmente e erano usciti di casa e Momik aveva chiuso anche la serratura di sotto, e avevano sceso piano piano le scale, e Momik aveva aperto la porta del ripostiglio e era entrato per primo per vedere se tutto era a posto, e aveva detto svelto svelto e a voce bassa bassa ecco te l'ho portato, e poi si era fatto da parte (il cuore gli batteva gli batteva) e aveva fatto entrare il Nonno, e solo allora aveva avuto il coraggio d'aprire gli occhi perché aveva sentito che non succedeva nulla, e davvero non era successo nulla, e aveva preso per mano il Nonno fino in mezzo alla stanza e l'aveva fatto girare un po' a destra e a sinistra perché il suo odore si spargesse in tutte le direzioni, e tutto questo tempo guardava le bestie e vedeva che erano sì un po' più sveglie ma nulla di più, e il Nonno poi nemmeno se ne accorgeva delle bestie e non faceva altro che girellare come un bok un pezzo di legno e parlare da solo.
Bene, Momik s'era subito detto che lui non c'aveva affatto creduto che qualcosa succedesse così presto. Forse la belva aveva un po' dimenticato con l'andare del tempo qual era l'odore dell'ebreo vero e bisognava aspettare con pazienza che se ne ricordasse. Così aveva preso il Nonno e l'aveva fatto mettere a sedere sul benkele in mezzo alla stanza. Bisogna dir la verità il Nonno s'era opposto un po', ma Momik proprio non aveva più tempo da perdere con quelle storie, e così gli aveva messo subito le mani sul collo e aveva stretto fino a che il Nonno aveva ceduto e s'era messo a sedere. Momik s'era messo a sedere di fronte a lui sul pavimento e gli aveva detto ora incomincia a parlare, e il Nonno l'aveva guardato con occhi strani come se avesse paura di lui o giù di lì, e perché poi avrebbe dovuto aver paura, se faceva tutto quello che Momik gli diceva di fare senza far stupidaggini, allora non c'aveva nessuna ragione d'aver paura, e Momik aveva strillato all'improvviso con tutta la forza che c'aveva in gola: ma parla, parla, capisci? parla ma subito, perché sennò, ma Momik non sapeva perché aveva strillato e cos'avrebbe fatto sennò, e il Nonno aveva davvero cominciato a parlare svelto svelto, e subito gli era venuta quella bava schifa agli angoli della bocca, ma questo era proprio quello che Momik voleva, e Momik aveva detto: anche mosse devi fare! e il Nonno aveva fatto le sue mosse come le sapeva fare lui, e Momik l'aveva guardato tutt'occhi per vedere se davvero il Nonno s'ingegnava di fare proprio come si doveva fare, e a ogni istante si voltava a guardare anche le gabbie e le valigie chiuse e i materassi strappati e dentro gridava jude jude, ecco t'ho portato uno di quegli jude come ti piacciono a te, uno jude vero che c'ha l'aspetto di uno jude e l'odore di uno jude e parla come uno jude, un nonno e un nipote jude, nu muoviti...
I giorni dopo Momik aveva fatto cose assolutamente disperate. Se ne stavano seduti lì tutt'e due sul pavimento e mangiavano fette di pan secco, e Momik cantava canzoni di partigiani ebrei in ebraico e anche in yiddish, e diceva preghiere dal Libro delle Orazioni di Capodanno del babbo, e aveva perfino ricoperto l'ultimo muro del ripostiglio di pagine strappate dal libro di Anna, ma la belva non era venuta. Molto semplicemente non era venuta. Le povere bestie di Momik continuavano a grattarsi e a piangere e a miagolare, e il gatto già agonizzava, ma Momik certo non aveva paura delle bestie ma della belva che c'era lì, e si poteva proprio sentire come quella belva si stiracchiava i muscoli immensi che lei c'aveva per prepararsi a balzare, solo non si poteva sapere da che parte sarebbe balzata, e Momik stava seduto di fronte al Nonno Anshel e non sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Era stufo di quel Nonno che non sapeva far nulla e solo canticchiava quel suo racconto di merda con quella voce piagnucolosa. A volte a Momik gli veniva voglia di alzarsi e andar da lui e tappargli la bocca con le mani fino a che quel racconto si fosse soffocato e via. Una volta, quando il Nonno aveva fatto segno che gli scappava la pipì, Momik non s'era più alzato per farlo uscire, ma era restato lì seduto a guardarlo negli occhi e aveva visto che il Nonno era tutto confuso e miagolava come un gatto impazzito e si pigliava lì e si contorceva e gridava disperato, e poi aveva visto come gli si bagnavano i pantaloni e ne veniva fuori quell'odore schifoso, e Momik non ne aveva avuto già più affatto pietà, al contrario, e quando il Nonno l'aveva guardato con una faccia disgraziata e senza capire, Momik s'era alzato d'un colpo e era uscito e aveva lasciato solo il Nonno lì al buio e era andato a casa e s'era chiuso dentro e s'era messo a sentire la radio e aveva sentito come la nostra Nazionale perdeva la partita contro i polacchi a Wroclaw per sette a due sotto gli occhi di un pubblico polacco che se la rideva dei nostri ragazzi, e mentre Nehemia Ben Avraham descriveva come Janosz Achorak e Liberada e Szarszynski facevano polpette dei nostri Stellmach e Goldstein, Momik sapeva che lui perdeva su tutti i fronti come si usa dire, ma d'altra parte Momik era come tutti sanno un ragazzo fatto così, che tutte le volte che perdeva non gli importava nulla di perdere e che ridessero di lui e lo ricattassero, e solo in una cosa non poteva permettersi di perdere, molto semplicemente non aveva altra scelta, e per questo aveva incominciato già da quel momento a progettare un nuovo piano più audace di tutti quelli che aveva fatto fin qui, e la cosa era cominciata dal fatto che a quanto pareva il Nonno Anshel era semplicemente troppo piccino e miserino per poter risvegliare la belva e fosse quella dove poi fosse, e come in tutte le altre cose della vita Momik doveva anche in questa cosa qui fare calcoli da buon commerciante (Bella gli aveva insegnato questo anche se lei stessa era proprio shlimazel sfortunata in affari), e fare in modo che ci fossero lì più ebrei e in quantità tale che alla belva gli convenisse sbucar fuori e occuparsene, e questo poi lo faceva un po' ridere, e lui rideva un risolino strano e si spaventava di se stesso, e subito stava zitto, e continuava a stare attento come per sentire qualcosa, e continuava sempre a non pensare al Nonno che forse in questo momento lo sbranavano lì sotto, e il cervello di Momik, che lui non poteva più dirigerlo, cominciava già a far progetti come chiedere ai ragazzi a scuola di prestargli per un po' i loro nonni e le loro nonne e portarli tutti insieme dalla belva, e un'altra volta gli era scappato di bocca un risolino come una specie di fischio acuto di quelli che si sentono alla radio, e s'era zittito e s'era guardato intorno per vedere se qualcuno l'aveva sentito.
E lui non aveva nemmeno aspettato fino a che la partita fosse finita, perché non ci credeva più che potesse succedere un miracolo e che un bambino campione magico potesse scendere così tutt'a un tratto dalle tribune e si unisse ai nostri undici ragazzi e facesse prodezze e sconfiggesse il nemico ridacchione otto a sette (l'ultimo gol era stato proprio subito prima del fischio della fine della partita), e era uscito di casa e aveva chiuso anche la serratura di sotto, e aveva sceso le scale, e un attimo prima d'entrare era stato un po' a sentire dal di fuori se dentro c'erano degli urli di sbranato, ma aveva sentito solo la musichetta del Nonno e era entrato e si era messo a sedere in faccia al Nonno e era stanco ma stanco, e a quanto pare era davvero così stanco, perché dopo un certo tempo aveva guardato e aveva visto che era steso in terra ai piedi del Nonno, e s'era detto che forse sarebbe stato meglio per lui se non avesse portato qui altri nonni ebrei, perché negli ultimi tempi gli era un po' difficile sopportare gente, proprio non ne poteva più, con tutti quei loro segreti e i loro pensieri e le loro mattane che gli saltano fuori dagli occhi, e com'era possibile capire che ci fossero persone d'un altro tipo e ragazzi che andavano a scuola con lui e per loro a quanto pareva era tutto così semplice, e solo Momik sapeva quanto tutto non era così semplice, perché bastava che una sola volta, una volta sola tu avessi sentito quanto tutto non era così semplice e era spaventoso, e poi non avresti più potuto credere a nulla, ach, tutte quelle commedie, ma anche se ora era già del tutto addormentato non avrebbe potuto smettere di combattere, e sentiva che qualcuno lo chiamava alzati alzati, se ti addormenti ora è la tua fine e forse per via di quella voce non s'era addormentato, no, aveva fatto un'altra cosa, era un po' difficile ricordarsene, forse s'era alzato, sì, e era uscito dal ripostiglio, e senza sapere quel che faceva aveva camminato così, strascicando i piedi, fino a che era arrivato alla panchina verde e aveva aspettato lì un po', era stato lì così e aveva aspettato senza pensare a nulla, aveva solo guardato una grande foglia secca che era caduta da tempo da qualche albero, e aveva visto che nella foglia c'erano vene sporgenti come nelle gambe della mamma, e in mezzo c'era una riga lunga che divideva le vene in due, e aveva pensato cosa sarebbe successo ora se lui avesse strappato la foglia in due e avesse buttato ogni metà in posti differenti, ma i pezzi avrebbero poi avuto nostalgia l'uno dell'altro o cosa, e così mentre stava seduto lì i vecchi avevano cominciato a venire, e quelli non avevano avuto nemmeno bisogno di far domande, sapevano già tutto da soli, l'avevano solo guardato in faccia e avevano capito che era arrivato il momento di fare quello che loro s'erano sempre preparati a fare, e Momik aveva aspettato solo ancora un momento fino a che tutti avessero lo stesso odore, e allora aveva detto ah mah nu, e loro avevano cominciato a venirgli dietro, Hannah e Munin e Markus e Ginzburg e Seidman, come pecorine gli venivano dietro, dove avesse voluto lui avrebbe potuto portarli, e avevano camminato così per un bel po' nel vicolo per sentierini tra i mucchi di neve e i boschi neri e le chiese e i covoni di spighe con quell'odore fresco, e uno che li aveva visti passare aveva domandato a Momik dove andavano, ma Momik non l'aveva guardato e non aveva risposto, e aveva continuato a portarsi dietro i suoi ebrei fino a che furono arrivati al ripostiglio e lì dentro si sentiva il Nonno che parlava da solo, e Momik aveva aperto la porta e era entrato dietro agli altri e aveva richiuso.
Tutti stettero lì pazientemente fino a che gli occhi si abituarono un po' al buio, e pian piano cominciarono a vedere il Nonno che stava seduto sul suo benkele e le pagine bianche sui muri, e il Signor Munin fu il primo ad avere il coraggio di avvicinarsi al muro e guardare da vicino una figura, e gli ci volle un po' di tempo per capire cos'era quello che vedeva, ma quando l'ebbe capito si fece tutt'a un tratto teso e si allontanò un po' e pareva spaventato, perché davvero si poteva sentire come la sua paura si comunicava agli altri e passava in tutti come se fosse una corrente, e tutti si erano raggruppati stretti stretti ma poi invece avevano cominciato a disperdersi pian piano, si erano aperti lì nel ripostiglio e camminavano lungo i muri e passavano davanti alle figure come in un'esposizione, e più guardavano le figure e più mandavano quell'odore acre e vecchio che quasi soffocava Momik; ma lui sapeva bene che proprio quell'odore era forse l'ultima speranza, e dentro di sé gridava a quella gente ma fateglielo vedere, fateglielo vedere, siate ebrei siate, e lui si era piegato in due e si era messo le mani sulle ginocchia come se volesse incoraggiare i suoi calciatori in una partita e li incitava senza parole e forse a fior di labbra ora, ora è il momento di essere incantatori e maghi e profeti e streghe e fatela voi l'ultima battaglia decisiva, e siate così tanto ebrei che la belva non possa più tenersi, e anche se qui non c'è nessuna belva, poi ci sarà, e solo le sue povere bestie si erano fatte ancora più nervose, il corvo starnazzava e sbatteva le ali e faceva quei suoi sussurrii, e il gatto mandava miagolii ululanti terribili, e Momik era cascato giù a quattro zampe, e s'era stretto la testa tra le spalle pensando ma che cretino era stato a credere che quelli fossero davvero maghi e streghe e così via, a nachtiger tag come dice Bella, che sarebbe a dire un giorno fatto di notte e cioè proprio un incontrario impossibile, e quelle robe lì non esistono nemmeno, e chi sono poi quei vecchiacci lì, solo solo solo dei miseri ebrei pazzi che gli si sono appiccicati addosso e gli hanno rovinato tutto, tutta la vita gli hanno rovinato, e come aveva potuto pensare che l'avrebbero potuto aiutare, se lui gli può far lezione a tutti, a tut-t-t-t-i, su cosa si deve fare in caso di emergenza un pugno e quattro dita, e come si fa polpette del nemico e di tutto il mondo, ma a quelli proprio non gliene importava un fico secco, era come se godessero di quella storia e godessero di essere torturati e scherniti e presi in giro e che gli facessero male, e mai avevano fatto nulla per opporsi, erano stati solo lì a piangere e a pregare e a discutere fra di loro delle loro scemenze, e con tutte quelle loro storie che non interessano nessuno al mondo di cosa il Rabbi aveva detto alla vedova e di come un pezzo di carne era cascato dentro la zuppa di latte, e intanto li ammazzavano li ammazzavano, e in tutte quelle loro discussioni loro dovevano essere sempre dalla parte giusta e dir sempre l'ultima parola come se quello che aveva l'ultima parola fosse quello che resterebbe per ultimo, e tutte quelle loro fanfaronate esagerate che sono bugie e balle sul serio, e quel genio studioso che tutta Varsavia ne parlava, nientepopodimeno, e quel signorone ricco da scoppiare che Munin diceva di lui "mi abbracciò e mi baciò come se fossi stato un suo fratello carnale", e il Ministro che una volta aveva salutato il Signor Markus da capo a piedi, ma dav-v-ero! e perfino Bella che si crede più affascinante di Marilyn Monroe, davvero! e perfino quando parlano di tutti i malanni che gli hanno fatto i goyim, tutti i pogrom e le cacciate e le persecuzioni, loro fanno una specie di krekz che già scusa tutto perdona tutto, è un po' come qualcuno che ride di se stesso quant'è debolino e nebech, e chi ride di se stesso certo anche gli altri ridono di lui, si sa, e pian piano Momik aveva tirato su la testa dal pavimento e aveva sentito come gli crescevano dentro l'odio e la rabbia e la sete di vendetta, la testa proprio gli bruciava e tutta la stanza gli ballava davanti agli occhi, e quegli ebrei saltellavano e correvano lì così svelti lungo i muri e le figure, tanto che non si capiva più chi era vero e chi dipinto, e lui voleva fermarli e non sapeva come, una volta lui aveva a sua disposizione una formula magica ma poi l'aveva dimenticata, aveva alzato le mani come per arrendersi, come il bambino che aveva visto in una figura, e aveva pregato basta, che tutta questa storia finisca, ma gli era uscito fuori tutt'a un tratto un urlo tremendo, un urlo da belva, e era così spaventoso che tutto s'era fermato d'un colpo e la stanza aveva smesso di ballare e gli ebrei erano cascati lì dov'erano, stavano distesi in terra col fiato grosso, e Momik s'era alzato e li guardava dall'alto e le gambe gli tremavano e tutto gli si confondeva davanti agli occhi, e allora aveva sentito da dentro il silenzio ronzare tutt'a un tratto la voce del Nonno come ronzano i pali del telefono, ma ora però era tutto cambiato così che quello che il Nonno raccontava gli era del tutto chiaro e comprensibile, e il Nonno lo raccontava bene e con enfasi e con bibbismo, e Momik non si muoveva e tratteneva il respiro e stava a sentire il racconto del Nonno dal principio alla fine, e giurava a se stesso di non dimenticare di quel racconto nemmeno una sola parola mai-e-poi-mai-e-poi-mai-giurin-giuretta, ma subito aveva dimenticato tutto, perché era un racconto fatto così che subito lo si dimenticava e bisogna far sempre tutta la strada dal principio per rammentarsene, una storia così era quel racconto, e quando il Nonno ebbe finito di raccontare, allora gli altri cominciarono a raccontare le loro storie, e tutti parlavano insieme e raccontavano cose proprio ma proprio incredibili, e Momik le avrebbe ricordate tutte per sempre in eterno e subito aveva dimenticato, e a volte quelli s'addormentavano in mezzo a una parola e la testa gli cascava sul collo, e quando si svegliavano riprendevano il racconto preciso preciso dal punto che l'avevano interrotto e Momik camminava piano piano lungo le figure che lui stesso aveva copiato una volta a matita da quei libri ora ricordava che in ogni figura che aveva copiato si era sentito costretto a metterci un piccolo cambiamento, per esempio Momik aveva disegnato una spazzola più grossa di quella che c'era nella foto, e il vecchio che l'avevano costretto a andare a cavallo su quell'altro vecchio l'aveva disegnato quasi in piedi, perché così non avrebbe pesato tanto sull'altro vecchio, sì, era stato costretto a fare cambiamenti, però ora non ricordava più perché in fondo l'aveva fatto, e era arrabbiato un po' con se stesso per non essere stato abbastanza preciso e scientifico, perché forse così sarebbero finiti tutti i suoi malanni di ora, e si era appoggiato con la schiena al muro, perché proprio non c'aveva più forza di stare in piedi da solo, e i suoi ebrei avevano continuato a parlare e si dondolavano come se pregassero, a volte gli sembrava che ci fosse qui un mare di persone e a volte invece pensava che erano tutte visioni di fantasia, e sempre gli occhi gli correvano da tutte le parti, per vedere ma di dove sarebbe sbucata la belva ma di dove, e il Nonno Anshel aveva cominciato tutt'a un tratto a raccontare la sua storia daccapo, e Momik s'era presa la testa fra le mani, perché sentiva che non poteva più sopportare e che doveva vomitare, vomitare tutto, quello che aveva mangiato a colazione e quello che aveva imparato negli ultimi tempi compreso questo Momik, e ora anche tutti quegli ebrei puzzolenti, che in certi libri aveva letto che li chiamavano ebreini, e aveva sempre pensato che era solo un'offesa fatta così per farli arrabbiare, ma ora sentiva che era proprio il nome adatto a quella gente, e anche lui sussurrava ebreini, e sentiva come in pancia gli si faceva un bel calduccino piacevole e come tutto il corpo gli si riempiva di muscoli, e diceva di nuovo e a voce alta ebreini, e questo gli dava proprio forza, e lui si era scosso e si era piantato sopra quel Nonno, Wasserman gli aveva detto con scherno, ora basta, e che si quietasse, siamo arcistufi di questa tua storia, e il nazikaputt non lo si ammazza con le storie ma solo con delle belle botte da orbi lo si ammazza, e bisogna che una squadra di commando sommozzatori d'assalto gli irrompa in camera e lo pigli in ostaggio fino a che venga Hitler a salvarlo, e allora avrebbero preso Hitler e l'avrebbero ammazzato fra molti duri e crudeli tormenti, unghia dopo unghia gli avrebbero strappato, così gridava Momik e aveva lasciato lì il Nonno e se n'era andato verso le gabbie, e anche gli occhi gli avrebbero cavato così senza anestesia, e poi avrebbero fatto saltare in aria la Germania e Quel Paese Lì tutto quanto, che non ce ne restasse nemmeno il ricordo, né in bene né in male, e ne portassero via in salvo tutti i sei milioni con un'operazione spionistica come non se n'erano mai viste, e avrebbero riportato il tempo all'indietro come nel film della Macchina del Tempo, e certo noi c'abbiamo all'Istituto Weizman qualcuno che sia capace d'inventare una roba così, e avrebbero messo tutto il mondo psiakrew in ginocchio e gli avrebbero sputato in faccia, e ci avrebbero volato sopra con i nostri jet, guerra bisogna fare, così gridava Momik e gli occhi gli s'erano rivoltati del tutto come quelli del gatto, e le mani gli passavano sulle gabbie e aprivano i fildiferro delle serrature, e un'altra volta lui s'era voltato indietro e aveva visto la piccola borgata ebraica che s'era creata lì, e poi era restato lì così senza muoversi e aveva visto come il corvo e la lucertola e tutti gli altri cominciavano a uscire piano piano dalle casse, non capivano cosa fosse successo e non ci credevano che ecco, tutto fosse già finito, ma gli ebrei sì che avevano capito benissimo e subito s'erano alzati dal pavimento e s'erano stretti insieme voltando le spalle alle bestie e parlavano tra loro a voce bassa e in tono preoccupato, e le bestie avevano cominciato a far versi una contro l'altra e non si lasciavano stare a vicenda, e se una si muoveva solo un po', subito strilli e ululati e penne irte, e tutto il ripostiglio era pieno zeppo di suoni di pericolo e paura, non si poteva nemmeno immaginare che a quattro passi di lì ci fossero una città e della gente e dei libri, e Momik che già si credeva morto o giù di lì aveva chiuso gli occhi e fosse quel che fosse era passato tra il corvo e il gatto e non s'era accorto che lo graffiavano lo mordevano lo beccavano, cosa gli faceva a lui ora dopo tutto quello che aveva già passato, e era andato dai suoi ebrei e quelli l'avevano guardato con delle facce impensierite e preoccupate e tristi, ma ciononostante s'erano mossi e s'erano aperti un po' per farlo passare, e lui aveva ancora riso di loro in cuor suo perché così presto erano stati pronti a scusarlo dopo tutto quello che lui gli aveva fatto a loro qui, ma gli aveva anche fatto piacere per un momento quando gli s'erano serrati intorno e lui si era trovato dentro le mura rotonde che quelli formavano, e aveva pensato che forse la belva lì non ci sarebbe potuta arrivare mai, e che non avrebbe mai tentato di penetrare lì, perché sapeva di non averci niente da guadagnare, ma quando aveva riaperto gli occhi e li aveva visti intorno a lui e sopra di lui che erano alti e antichi e lo guardavano con compassione, allora aveva già saputo benissimo con tutto il cervello di un alter kap di nove anni e mezzo, che lui nessuno l'avrebbe più potuto raccomodare.
E bisogna aggiungere qui qualche altra cosa in nome della precisione scientifica: Momik non era riuscito a separarsi così di punto in bianco dal suo ripostiglio, e nonostante che non ci avesse più portato il Nonno e gli altri, aveva continuato, nei giorni dopo quel fatto, a scender lì per un po' e restar lì solo soletto. Le bestie le aveva liberate, ma il loro odore era rimasto lì per molto tempo, e anche l'odore degli ebrei lo stesso. La maestra Netta era venuta a casa a parlare col babbo e la mamma, e insieme avevano stabilito un sacco di cose. A Momik non gliene importava nulla. Non aveva nemmeno fatto domande. Anche quando Yair Pantilas aveva battuto il record nella corsa degli 800 metri, Momik non l'aveva scritto nel suo quaderno. Alle due cavalle "Flora" e "Helinka" dell'Esposizione Agricola di Bet Dagan erano nati due puledri, e era stato deciso di chiamarli con nomi ebraici, "Dan" e "Dagan". Alla fine dell'anno scolastico nella pagella di Momik c'era scritto che sarebbe sì passato di classe ma in un'altra scuola, e la mamma gli aveva detto che l'anno prossimo avrebbe studiato in una scuola speciale vicino a Netanya, e che non avrebbe abitato a casa, ma che tutto questo era un gran bene per lui, perché lì ci sarebbe stata aria buona e si mangiava bene, e una volta la settimana avrebbe potuto far visita a Itka e Shimek che stavano lì vicino. Momik non aveva detto nulla. Quell'estate, quando Momik era andato la prima volta a vedere il posto nuovo dove sarebbe stato, il Nonno era uscito di casa e non era più tornato. Erano cinque mesi precisi da quando era arrivato qui coll'ambulanza. La Polizia l'aveva cercato per un po' senza trovarlo. Momik stava sveglio di notte nel suo letto nell'internato del collegio, e pensava a dove potesse essere ora il Nonno e a chi raccontasse la sua storia. In casa non avevano più parlato del Nonno, mai, nemmeno una volta, e solo una volta la mamma se n'era ricordata e aveva detto in un tono rabbioso a Itka: "Almeno, se c'è una tomba da visitare, ma scomparire così?".
BRUNO
A
Nel porto profondo di Danzica era sceso in acqua la prima volta. Era un'ora serale e piovigginava. Sul molo c'era solo poca gente, e chi c'era era così occupato da non poter far caso a lui. Alcuni operai avevano acceso un falò sotto una tettoia di lamiera, e lui sentiva l'odore del caffè che si scaldava e aveva l'acquolina in bocca: del vero caffè! Camminava svelto sotto la pioggia, senza cappello perché l'aveva dovuto lasciare nello spogliatoio della galleria. Anche il manoscritto del Messia era restato lì, nella cartella nera. Quattro anni di meditazione e di scrittura. Un errore che era andato gonfiandosi sempre più come un tumore maligno, fino a che non aveva compreso, in ritardo, che il Messia non sarebbe venuto per iscritto: che non si può evocarlo e farlo apparire per mezzo di un incantesimo fatto con le lettere di una lingua malata di elefantiasi. Che bisogna trovare un'altra grammatica e un'altra penna. Bruno guardò con timore verso l'edificio della Capitaneria del Porto. Due soldati stavano in piedi nel vasto ingresso e conversavano tra loro. Bruno si sentì nudo senza il bracciale. Senza pensarci su strinse i pugni in quel gesto di controllo che aveva insegnato a se stesso a fare, da quando era stato promulgato il decreto che proibiva agli ebrei di tenere le mani in tasca in presenza di un tedesco in divisa. Bruno camminò svelto, facendosi piccino: l'andatura di un uomo non bello. L'acqua gli gocciolava sulla pelle tesa, giallastra, del viso...
Conosco bene il suo viso: in ognuno di quei disegni strani e grotteschi che ha disegnato, ho trovato la sua faccia che fa capolino da un angolo. Di solito è calpestato, insieme a tutta una turba di altri omini minuscoli e miserabili, sotto la suola della scarpa di Adela, la bella serva, o sotto il tacco della scarpa di un'altra donna superba. (Ma guarda bene il mare, Bruno: il mare grigio accanto a te sbatte energicamente le sue coperte per prepararsi alla notte. E così facendo si aprono in esse boccioli di alghe rotonde che affiorano un attimo alla luce e poi sono ringhiottite dalla spuma).
...avevano ficcato quel quadro in un angolino nell'ultima sala della galleria, tanto era il timore che ne avevano. E gli avevano anche ammucchiato attorno altri quadri più coloriti, più sopportabili, anch'essi del pittore Edvard Munch e una catena di ferro gli avevano appeso attorno e ci avevano scritto su un'avvertenza in polacco e in tedesco: Proibito avvicinarsi! Non toccare il quadro!
Ma che cretini. Avrebbero dovuto fare proprio tutto il contrario: avvertire la gente che veniva alla mostra, che stesse attenta al pericolo di essere colpita dal quadro. Quella figura che c'era nel dipinto, e che camminava sulla passerella di legno, e spalancava la bocca per urlare, ora era infusa in tutte le sue membra, in tutto il suo corpo. Quando l'aveva baciata, lì nella galleria, ne aveva preso il contagio. O per essere più precisi: è meglio che dica che il bacio della figura del quadro aveva infuso vita nei suoi stessi microbi, nei microbi di lei che stavano annidati anche in lui da sempre. Bruno camminava ora a lato di navi pesanti, e i suoi occhi erano rivoltati verso il didentro di sé. Le labbra gli si facevano a tratti rotonde, a cerchio, con una strana smorfia, e l'urlo che veniva dal quadro si faceva strada dal profondo del suo animo fino alla sua bocca, come un feto a gestazione compiuta. Brividi lo fecero tremare, sussurrarono: Bruno è l'anello che non regge in tutta la catena. Sorvegliatelo. La grande scrittrice Sofia Nalkowska aveva scritto, una volta, in una lettera a amici: "Sorvegliate Bruno. Sorvegliatelo per lui stesso e per noi". Ma la sua vera intenzione era rimasta oscura.
Ora era caduto. Aveva inciampato in un rotolo di cordame coperto di muschio, e stava per cadere in acqua. Per un momento era restato disteso lì sul molo, piegato in due dal dolore. Così erano bene in vista gli strappi che aveva nella giacca, sotto le ascelle e sui gomiti. E subito s'era alzato. Perché mai star lì disteso. Mai essere un bersaglio immobile. Sempre lo cercano. E non solo le SS e la polizia polacca lo inseguono perché è scappato dal suo ghetto, a Drohobycz, e ha viaggiato in treno, cosa proibita agli ebrei, e ha osato entrare nella mostra dei dipinti di Munch a Danzica, e lì ha fatto quel che ha fatto ed è stato buttato fuori con tanta violenza. No: la polizia e le SS solo negli ultimi anni si sono aggregate ai persecutori di Bruno, e di loro non ha già più paura. Ma ha paura dei grandi fari che gli frugano nel corpo e cercano di incrociarsi là dentro in scintille concentrate e cocenti dell'essere-come-tutti. Di una vita prosaica grigia e meschina, che non sarà in suo potere redimere con un tocco di penna.
Dal momento in cui Bruno aveva visto il quadro Il grido nella galleria "Artus Hop", aveva capito cos'era successo là sulla tela: la mano del pittore era scivolata. Munch non avrebbe mai osato progettare di creare una tale completezza. Avrebbe potuto solo indovinarla. Averne paura o esserne attratto. Non crearla, però, intenzionalmente. Bruno, che dipingeva e scriveva lui stesso, lo sapeva bene, purtroppo: e infatti anelava da sempre di arrivare a un giorno in cui - l'espressione è sua - il mondo avrebbe cambiato pelle, sarebbe sgusciato fuori dalle sue squame come una meravigliosa lucertola. "La superba epoca geniale", così Bruno chiamava quel giorno avvenire. E fino ad allora, avvertiva, fino ad allora non dobbiamo mai dimenticare che le parole con cui scriviamo non sono che miseri brani di storie antichissime e eterne; che noi tutti costruiamo le nostre case - a somiglianza dei barbari - con pezzi di statue e di effigi di antichi dei, con briciole di immense mitologie. E, naturalmente, ci si chiede, si è mai verificato un avvento dell'epoca superba e geniale? E a questa domanda è difficile rispondere. Anche Bruno esita. Perché ci sono cose che non possono avvenire del tutto, fino in fondo. Sono troppo grandi per poter trovare un luogo dove avvenire. E solo provano ad avvenire, provano il terreno della realtà per vedere se le può sopportare. E subito arretrano, timorose di perdere la propria completezza in un realizzarsi incompleto. E poi restano nelle nostre biografie quelle macchie bianche, segni odorosi, quelle impronte d'argento perdute dei piedi scalzi degli angeli, sparse in passi giganteschi sui nostri giorni e sulle nostre notti... Così aveva scritto nel suo libro, nelle Botteghe color cannella, a pagina novantacinque dell'edizione ebraica, Schocken, Tel Aviv; a quale pagina nelle altre edizioni? Quella ebraica io la so a memoria.
Un sole piccolo come un'omelette viene assorbito da cieli metallici e la sua luce si spegne. Pian piano Iddio chiude la cassa dei suoi giocattoli. Bruno lo sa: una completezza come quella che ha trovato Munch si svela ai nostri occhi solo per caso o per sbaglio. Qualcuno era stato disattento, qua o là, qualcuno si era distratto un momento, e la verità era stata filtrata nel luogo non giusto. Bruno pensava con stupore a quanti quadri Munch aveva dovuto poi dipingere svelto svelto, in fretta addirittura, per nascondere almeno in parte la brutta impressione fatta dal suo avere invaso un terreno proibito. Perché una cosa è certa, pensava Bruno (e con un tallone calpestava una chiazza di olio lubrificante, e vi spezzava arabeschi colorati), ed è che Munch stesso era stato preso dal panico quando aveva guardato il proprio dipinto e aveva visto da cosa era stato acciuffato.
Atomi di verità indivisibile. Verità cristallina ed ultima. E Bruno la cercava dappertutto: nella gente che incontrava, nei frammenti di discorsi portati dal vento fino ai suoi orecchi, nelle combinazioni fortuite, in se stesso; in ogni libro che leggeva provava a cercare la frase unica, perlacea, che aveva mosso lo scrittore ad intraprendere quel suo viaggio di centinaia di pagine. Il morso di quella verità nella sua carne. Nella maggior parte dei libri quella frase non c'era affatto. Nei libri geniali se ne trovavano a volte due e anche tre. Bruno le copiava nel suo quaderno: gli era chiaro che in tal modo raccoglieva, con grandi sforzi e diligenza, i frammenti delle prove concrete, dai quali avrebbe potuto un giorno ricostruire il mosaico primo. La verità. E quando tornava a leggere, a volte, quelle frasi, non sempre avrebbe potuto dire chi le aveva scritte: a volte gli pareva che una certa frase l'avesse creata lui stesso, e poi si accorgeva di aver sbagliato. Tanto si assomigliavano tutte, né c'è da meravigliarsene, si diceva: dalla medesima fonte sono sgorgate e venute qui tutte.
Ora Bruno sapeva che anche Munch era l'anello che non regge. Già da tempo l'aveva indovinato, da quando aveva visto le riproduzioni de Il grido nei libri d'arte a Drohobycz. Ma aveva avuto bisogno di trovarsi di fronte all'originale stesso per sapere con certezza: anche Munch. Come Kafka e Mann e Dürer e Hogarth e Goya e gli altri, che arricchiscono il suo quaderno. Una rete rada di punti deboli è stesa sul mondo. Sorvegliate dunque anche Munch. Sorvegliatelo per lui, per noi. Amate il vostro artista, ma sorvegliatelo. Tracciategli attorno fitti cerchi d'amore, tenetevi per mano attorno a lui. Guardate i suoi dipinti, e tenetevi attorno a lui con le mani strette l'un l'altro a catena. Per applaudirlo, naturalmente. Amate quello che vi racconta, siatene sconvolti con misura, ringraziatelo per aver espresso in modo così splendido tutto quel chissà cosa, ma tenetevi stretti attorno a lui a catena. Fategli sentire il calore del vostro corpo, ma fategli sentire anche quanto il vostro corpo è indurito e forte come una porta di ferro. Allargate le vostre dita plaudenti, così che gli sembrino delle grate, e non cessate di amarlo perché questo è l'affare che avete concluso in segreto tra voi: il vostro amore in cambio del suo essere cauto. In cambio del suo rispetto per la vostra quiete.
E anche Munch aveva tradito, anche lui. Aveva lasciato se stesso disfarsi, e l'urlo aveva subito ficcato una minaccia nel più intimo di ognuno di voi. Ora è qui. Ora bisogna rattoppare, in fretta e furia, lo strappo. Perciò ora amavano Munch ancora di più! Gli si avvicinavano perché sentisse il loro fiato sulla faccia, vicino vicino: chi ha sbagliato una volta, ricadrà, forse, di nuovo in quello sbaglio. Si tenevano attorno a lui a catena, per mano. Gli avevano appeso attorno una catena di ferro e avevano proclamato in cartelloni rossi: Non avvicinarsi. Vietato toccare.
E ancora correva. Tagliando il vento con il suo viso affilato, facendo una boccuccia tonda dallo sforzo, tentando di alleviare così la sua pena, oh tutta questa ricchezza che trabocca in Bruno, e il terrore di questa ricchezza. Sorvegliate Bruno per lui stesso, soprattutto per lui stesso. Non lasciatelo cedere alla tentazione del suo pericoloso desiderio di scrivere senza la mediazione delle vostre parole sciupate dal troppo uso, le vostre parole che sono fedeli a voi stessi. Non permettetegli di scrivere solo seguendo il codice del suo proprio corpo, secondo un ritmo che non si misura sul metronomo o sullo scandito ticchettio dell'orologio. Non permettetegli, in nome del cielo, di conversare con se stesso con parole che nessuno conosce, con parole che sarà obbligato a inventare. Perché ben sappiamo quali astuti mercanti si affretteranno a prenderlo per mano e a condurlo con loro nelle bottegucce più sospette dove si vende il linguaggio umano, e lì gli apriranno davanti agli occhi le loro sporche bisacce, e gli offriranno, adulandolo, la loro mercanzia: e no, signore, qui tutto è gratis, proprio così, tutto un linguaggio, tutto un nuovo linguaggio, tutto suo, signore, tutto un linguaggio ancora incartato, avvolto nella sua confezione di cellofan, con allegato un Dizionario speciale, un Dizionario Privato-Privatissimo, le cui pagine sembrano vuote, ma in realtà sono scritte in un inchiostro invisibile, un'inchiostro da spie, e solo se spalmerà quelle pagine col suo fiele, con la sua essenza più aspra e individuale, solo allora potrà vedere tutto quello che c'è scritto, e, ma no, signore! no, no, nemmeno un soldo vogliamo da lei, signore! Finalmente, un'occasione così rara, che capita qui per sbaglio - pardon! che viene qui un cliente, non saremo certo tanto pazzi da farcelo scappare con stupide ciance di prezzo e di rate di pagamenti, diciamo dunque, caro signore, che consideriamo questo, da parte nostra, come un piccolo investimento, come un pegno, ah-ah, come un nostro primo metter piede in mercati che finora ci erano stati preclusi, e per favore metta gentilmente una firma qui e qui e qui.
E Munch aveva firmato. E Kafka aveva firmato. E Marcel Proust aveva firmato. E a quanto pare anche Bruno aveva firmato. Non ricordava ormai più quando era stato, ma qualcosa, a quanto pareva, aveva firmato. Perché la sensazione della perdita era così profonda. E poi era scoppiata quest'ultima guerra, e Bruno aveva cominciato a pensare di aver sbagliato: perché, ecco, la gente aveva cominciato a incrudire i suoi inganni, e si era visto che dietro le botteghe degli astuti mercanti si stendevano a perdita d'occhio altri mercati profondi e bui, dove nessuno aveva mai messo piede. Strade corrotte, ai cui lati si ergono rovine e muri sbrecciati come le file dei denti di un coccodrillo...
E perciò Bruno era fuggito.
Da quella Drohobycz che tanto amava. Dalla sua casa all'angolo di via Samborska con via del Mercato, da quell'Olimpo della sua mitologia privata, dalla dimora di dei e di angeli dall'aspetto umano, e a volte - molto meno che umano... Ah, la casa di Bruno! Quale dolcezza gli scorre nelle vene al ripensare a quella casa così normale (in apparenza), così banale (in apparenza), quella casa che Bruno, con l'aiuto della meravigliosa architettura della fantasia, aveva mutato in un grandioso palazzo con sale e corridoi complicati e giardini pieni di vita e di colore. Giù in basso, al pian terreno, c'era il negozio di stoffe appartenente alla sua famiglia, il negozio con l'insegna HENRIETTA, chiamato così in onore della mamma di Bruno, il negozio che il babbo di Bruno, Jakub Schulz, dirigeva con tanto insuccesso. Il babbo di Bruno, quel poeta nascosto, quell'uomo testardo che combatteva da solo contro le Potenze della Noia, il babbo, quell'ardito scienziato dedito alla ricerca dell'essenza dell'esistenza sempre cangiante, che con la forza della sua volontà e della sua visione era riuscito a mutarsi in uccello, in scarafaggio, in granchio, il babbo di Bruno, quel morto-vivente immortale...
E sopra il negozio - il piano di abitazione. E mamma Henrietta. Grassottella, morbida e dolce, che curava amorosamente il malato di cancro, il visionario, i cui affari andavano sempre più a rotoli sotto il suo sguardo svagato, il suo sguardo cieco; e soprattutto era attenta, la mamma di Bruno, alla cura di quel tenero germoglio che era spuntato in casa loro quando erano già vecchi. Il bambino troppo sensibile, sempre in lotta con nemici che lei non poteva nemmeno immaginare chi fossero...
(Una volta, in un'oscurantesi, triste, ora serale, era entrata nella stanza del bimbo e l'aveva trovato che stava dando da mangiare zucchero alle ultime mosche rimaste vive dopo il freddo autunno.
- "Bruno?"
- "Perché si tengano in forza per l'inverno.")
E non ha amici, compagni. Non è che sia un cattivo scolaro, il nostro Bruno. Al contrario: tutti i maestri ne tessono le lodi. E in particolare il maestro di disegno, Adolf Arendt. Già da quando aveva sei anni Bruno disegna con una tale maturità. Chi potrà mai capir questo? Ecco, così, tutt'a un tratto aveva avuto un "periodo" di disegni di carrozze. In polacco si chiamano dorożki. Carrozze veloci, decappottabili. Le aveva disegnate a dozzine: attaccate a un cavallo nero, uscenti da un bosco notturno, e sulle palpebre dei viaggiatori (che vi sedevano dentro nudi, va notato) ancora restava lo spolverio d'argento delle visioni del bosco. Senza posa le disegnava e le disegnava che uscivano dal bosco. Poi aveva cominciato a disegnare automobili. Come fanno tutti i bambini, ma non come le disegnano i bambini. Poi aveva disegnato cavalli. Aveva disegnato corse. Sempre cose in movimento. Ma i disegni erano impregnati di vecchiaia e di morte e di amarezza.
E non ha amici. Niedolega, così lo chiamano i compagni. Buonannulla.
E in casa c'era anche la serva Adela.
E le sue gambe. E il suo corpo. E l'odore di femmina. E i suoi pettini. E i batuffoli dei suoi capelli sparsi per tutta la casa. Adela che uccide le visioni di babbo Jakub con le sue minacce di fargli quello schifoso solletico, Adela che sgambetta calzata di scarpe di vernice a buon mercato, di scarpe che luccicano, tutta una provocazione sgambettante su alti tacchi spocchiosi, guardale bene le scarpe, Bruno!
Con quelle sue scandite mosse delle labbra, con quel suo corpo affinato e frettoloso, Bruno pare ora un pesce. Camminando sul molo chiude gli occhi e rivede dentro di sé quello che aveva fatto nella galleria: aveva saltato svelto svelto la catena di ferro e il cartello con l'avvertenza e aveva baciato il quadro. Sul ponte di una delle navi c'era una vecchia che guardava il mare. I suoi capelli lunghi e duri le ballavano attorno al viso nel forte vento. L'insonnolito guardiano della galleria si era scosso terrorizzato e aveva soffiato con tutta la sua forza nel fischietto. Di corsa era venuto lì un altro guardiano, e i due insieme l'avevano tirato fuori, dalla zona di competenza del quadro alla zona di loro competenza. E così avevano cominciato a picchiarlo in silenzio e con precisione e come senza rabbia. Sul quadro si era formata una piccola chiazza di saliva. Bruno non era riuscito a centrare la bocca della figura urlante; aveva baciato solo uno dei parapetti di legno del ponte. Ma anche questo gli bastava. Era stata una semplice azione di riportare in vita, di resurrezione: l'anima. E Bruno si era salvato.
Aprì gli occhi e vide che i suoi piedi lo portavano verso l'arco tronco del molo che s'incurvava nel mare. Con la sua lingua acquosa, muscolosa, il mare assaggiava pezzi di legno incagliati tra i suoi denti rocciosi. Dalle orbite dei suoi scogli i molteplici occhi del mare seguivano le mosse di Bruno.
E Bruno pensava al suo manoscritto incompiuto, che era restato nello spogliatoio della galleria, nella sua cartella nera. Quando era stato buttato fuori di lì aveva camminato per la Langgasse, e automobili e tram l'avevano inzaccherato. Lui tendeva la mano a toccare di nascosto i grandi pali di legno dei lampioni stradali, e poi si assaggiava furtivamente le dita. Come se volesse serbare così in sé il sapore dei parapetti del ponte che c'è nel quadro. Ogni volta che lo faceva, gli si rattrappiva, dentro dentro, un muscolo martoriato. Pensava alla sua vita che non era mai stata sua. Sua davvero. Perché sempre gliel'aveva rubata la forza dell'abitudine. Tutti vivevano di questo rubarsi la vita l'un l'altro. Prima della guerra l'avevano fatto con delicatezza e con grande cautela, per non far soffrire più del necessario, e perfino con humour lo facevano, e da quando c'era la guerra non erano più stati attenti a far finta di. Solo ultimamente aveva capito che perfino i due libri che aveva scritto lui stesso, e questo terzo libro, Il Messia, dentro il quale affogava e si dibatteva già da quattro anni, perfino i suoi stessi libri non erano che un grande difetto, un difetto complicato e sofisticato, che lui stesso aveva costruito attorno a un essere sconosciuto. Ancora sconosciuto. E Bruno aveva capito allora che aveva passato quasi tutti i suoi anni come un acrobata ardito che stesse su un alto trapezio, e era sempre stato attento a non guardare dentro, in basso, perché se avesse guardato sarebbe stato preso da paura e tristezza e avrebbe saputo di non essere un acrobata, ma un carceriere. Uno che a suo modo, e per forza di abitudine e di stanchezza e di trascuratezza, si era fatto complice di quelli che si tenevano per mano a catena attorno a lui.
Perciò compiva ora la sua ultima fuga. Non per paura dei tedeschi e dei polacchi, e non per una qualche protesta contro la guerra. No. Fuggiva perché doveva incontrare finalmente qualcosa di diverso. Non le dozzine di aggettivi e di verbi e di coniugazioni ai quali fino a quel momento era servito di luogo di incontro e di smistamento.
Il mio Bruno sa già che morirà. Tra un'ora o tra un giorno. Tanta gente muore, oggi. Nelle strade del ghetto di Drohobycz regnava, negli ultimi mesi, un silenzio rassegnato. Anche Bruno vi era affondato dentro: e forse era davvero colpevole di qualcosa. Di essere così, di sembrare così. Di essere un ebreo così. Di scrivere così. La questione di chi ha ragione e chi torto, è già da un pezzo scaduta; ma c'è un'altra questione, pensa ora Bruno e affretta il passo, a cui devo rispondere, che devo risolvere, ed è una questione di vita o di morte: che tocca la mia vita che ho vissuto e la mia vita che non ho vissuto a causa della mia impotenza e della mia paura. E non ho forza e non ho tempo di aspettare che si compia il miracolo e la mia vita mi si scopra davanti. Bruno sorride a se stesso un sorriso triste e un po' commosso. La sua faccia piena di lividi neri si illumina un istante. Era Lenin che aveva detto che la morte di un uomo è una tragedia, ma la morte di milioni di uomini è un dato statistico? gli pare che davvero l'abbia detto Lenin, ma Bruno cerca ora di salvare dal dato statistico di milioni di vite la tragedia unica della propria vita, della vita sua, di Bruno, e comprendere così per un momento quale lettera egli stesso scrive nel grande Libro della Vita. Nel segreto del suo intimo s'annida una speranza più profonda, ed è che se c'è in lui solo un briciolo di quella verità cristallina ed ultima, allora forse riuscirà a scoprire anche il motivo per il quale il Gran Demiurgo lo ha inviato a fare questo viaggio nell'infinità delle pagine scritte.
Bruno si toglie di dosso la giacca strappata e la butta sul pavimento di cemento. I suoi occhi vuoti, del tutto vuoti. Cosa pensa ora? Non lo so. Per un momento ho perso il filo del suo pensiero. Provo: Bruno pensa (forse) al poeta Mirabeau, che per protesta contro il governo si fece brigante. O forse Bruno pensa al filosofo Thoreau, che lasciò la sua città e il suo impiego e il corso ordinato della sua vita e la sua cerchia di amici, e si ritirò a vivere in completa solitudine nel bosco di Walden?
Ma Bruno si fa forza e si riscuote, rabbrividendo. No. Tale amarezza, tali proteste non bastano: il brigante rapina altri uomini. Il solitario si isola dagli altri uomini. Misura la propria solitudine confrontandola con il loro unirsi insieme, col loro raggrupparsi. Ma è necessario qualcosa di più: è necessaria una rivolta che scopra da dentro di te te stesso. Trema, ipnotizzato dalle onde scure e multiformi che gli si srotolano davanti. Le onde che gli sentono dentro l'ansia di chi provoca la propria fine, di chi sa che i margini del suo corpo sono già divenuti un'essenza diversa, al confine che passa tra la carne e l'anelito a.
La vecchia sulla nave guarda e non si muove. Sa già cosa sta per accadere. Ma così va questo mondo, dove la morte è solo il contrario della vita. Dove tutti gli sforzi le sono asserviti. Due operai del porto l'hanno visto e hanno cominciato a gridare.
Bruno si leva la camicia e i calzoni. Con dita d'aria umide il mare esamina la magrezza e la stanchezza che hanno invaso quel corpo e l'hanno rovinato. Al mare non gliene importa: spruzzi di sputo di un mercante accaldato sprizzano dalle sue labbra sulla faccia del cliente silenzioso e arreso. Il mare compra tutto. Chissà mai quando farà uso di tutti i rottami depositati nei suoi sotterranei. Bruno apre un momento occhi martoriati. Qualcuno dentro di lui cerca ancora di salvare questo misero corpo: lo scrittore, che è stato annidato in lui tanti anni, si è spaventato, a quanto pare, al pensiero che anche lui andrà perduto con l'annegamento del corpo che lo ospita. D'un tratto gli si è fatto chiaro che il prigioniero chiuso tra le impalcature è riuscito con astuzia a fuggire. Il carceriere-acrobata è diventato un ostaggio. Ed è preso dal panico. E cerca qualche misera facezia o qualche tentazione: posa almeno le scarpe sul mucchio dei vestiti, affinché tu possa trovar qui qualcosa da metterti addosso quando ritornerai. Un momento, non affrettarti così, fermati e ragioniamo con un po' di logica. (Lo scrittore vede quello che Bruno non vede: dall'estremità opposta del porto degli uomini corrono verso il molo: due operai, e con loro un altro uomo. Un ufficiale.)
Il vecchio mare sente che bisogna spronare il cliente esitante. Si finge pentito: tira a sé con un chiocchiolio e con un gran daffare e con un'espressione contrita e offesa una grossa ondata, e arresta per un attimo l'avanzata dell'ondata seguente. Un vuoto terrorizzato è nel mare. Il silenzio succhia tutto. Dal profondo dell'anima di Bruno si sradica un'onda a riempire il vuoto.
Prende a calci il mucchio dei vestiti e quelli cascano in acqua, galleggiano un attimo, si gonfiano lì un poco e affondano. Il mare fa un sorrisetto. Fa scivolare verso Bruno un'onda, come un croupier esperto che dà una buona carta a un vecchio frequentatore del casinò. Lo scrittore stringe le labbra con terrore. Quanto lo capisco! Sputa con odio in faccia a questa pazza, imprevedibile, coltura di genere umano che gli era servita da albergo e da mano scrivente. Ed è lui, il terrorizzato, il vezzeggiato, il così tanto logico, è lui che mette due delle sue delicate ditina sul naso di Bruno, è lui che si sente sollevato di colpo, quando Bruno affonda nell'acqua fredda e subito risale a galla, e l'allegria lo fa gonfiare come una vela. Allora si sente un suono confuso e prolungato: forse è una nave che muggisce lontano, o è il mare che ha emesso un lamento, quando gli è stato buttato così in grembo il suo nuovo bastardo.
Bruno nuotava con lunghi movimenti. Le sue mani nuotanti gli schiudevano davanti una tenda dopo l'altra. Un primo spiraglio gli era apparso nel lontano orizzonte, laddove combaciavano le lastre d'ardesia pallida del mare e del cielo. Attraverso quello spiraglio voleva sfuggire, ma andava perdendo le forze troppo in fretta, e quando i suoi piedi vennero a toccare uno scoglio, si arrestò e vi si posò sopra per riposarsi un poco.
Si guardò indietro. Vide le banchine grige, le tettoie marcite e gli edifici del porto corrosi dai venti. Vide le navi dondolantisi e cigolanti tristemente, le navi rotonde, gravide di lontananze, e la figura della vecchia e gelida Gorgona su una delle imbarcazioni, e la gente che si affollava ora sul molo e lo chiamava. O forse lo applaudiva? In ogni modo, la gente non poteva più tenersi per mano a catena attorno a lui. Ridacchiò un poco e tremò nelle ondate di caldo e di freddo. D'un tratto si accorse che aveva ancora l'orologio al polso, ma le sue dita tremavano tanto che non riusciva a levarselo.
Qualcuno si affaccendava attorno al motore di una piccola barca vicino alla banchina, ma il motore rifiutava di reagire. Bruno volse la testa al cielo e respirò profondamente. Per la prima volta, da anni, non si sentiva più perseguitato. Anche se l'avessero acciuffato, ora, non avrebbero più riconosciuto in lui l'uomo che cercavano. Avrebbero catturato un involucro vuoto. Nessun investigatore, nessun poliziotto avrebbe più compreso ormai quello che diceva Bruno. Nessuno scrittore avrebbe potuto annotare le sue parole con esattezza. Tutt'al più avrebbe potuto tentare di ricostruirle secondo certe allusioni esterne, secondo delle vecchie scorze. Quanto è misero il destino di coloro che Bruno aveva abbandonato a se stessi sulla riva. Non poteva non esserci al mondo qualcuno che in quel momento non sentisse - anche senza essere presente lì in quel momento, e anche senza aver mai sentito parlare di Bruno - una strana morsa che gli attanagliava il cuore, nel momento in cui Bruno era sceso in acqua. Perfino gli indios dell'Orinoco avevano smesso un momento di tagliuzzare gli alberi del caucciù e avevano teso l'orecchio. Anche i pastori della Tribù del Fuoco in Australia si erano zittiti tutt'a un tratto e avevano proteso la testa per ascoltare una voce lontana. E anch'io così, io che allora non ero nemmeno nato.
E non lontano da Bruno si aprì all'improvviso l'acqua. Qualcosa di argenteo brillò lì nell'acqua, qualcosa guizzò. Un lampo verdastro o un occhio gelato, e solchi si tracciarono come volando e spumeggiarono, e subito dopo si sentì anche lo sbattere morbido di tante e tante pinne. Minuscole bocche lo circondarono, lo punsero nel ventre e nei fianchi, lo morsicchiarono nelle natiche e nel petto. Bruno se ne stava lì e leggeva col proprio corpo stupefatto il tatuaggio che gli veniva impresso in codice. Le credenziali del gruppo-di-un-solo-uomo partito per la sua missione. I pesci si stupivano della carne macilenta e indurita, frugavano esaminandola la mappa delle vene che sporgevano nelle bianche piante dei piedi. Poi presero a seguire con gli occhi in silenzio quell'oggetto luccicante che planava giù negli abissi, come una foglia in autunno, e cadeva fin laggiù per contare gli anni del tempo il cui tempo era passato. Le file gli si aprirono davanti, e i pesci lasciarono che Lefrik passasse e arrivasse fin presso Bruno, e lo guardasse con quei suoi occhi penetranti. Lefrik era un salmone più grande e più sviluppato degli altri, grande come Bruno. Solo un momento gli nuotò attorno con mosse posate, con un tremolio leggero della coda, e forse erano già le onde che inviava verso di lui la barca a motore che si avvicinava con dentro i due operai e l'ufficiale della polizia portuale, e tutti e tre gridavano qualcosa tutti arrabbiati, ma Lefrik tornò indietro velocemente al suo posto, e l'immenso branco di pesci si chiuse pian piano come una fisarmonica gigantesca e morbida, e Bruno navigò via, partì con loro.
B
Sì, è come una lettera d'amore.
Tre anni sono passati da quando ci siamo lasciati, e io mi cicatrizzo. Come avevi profetizzato. A volte, quando la pressione si fa insopportabile, prendo l'autobus e vado a Tel Aviv. Vengo da te. Cammino sulla battigia, calpesto le conchiglie, le alghe e i pesci morti, e se c'è poca gente ho perfino il coraggio di parlarti a voce alta. Di raccontarti che la scrittura del libro s'allunga, che sono già ben tre anni che questo Torag continua, che continua la lotta ostinata tra me e Bruno-pesce. È un non breve lasso di tempo, e ho fatto, en passant, diverse cosette. Mi piace passarle in rivista, ripetermene la nota. Amo le note: sono riuscito - alla fin fine! - a terminare di scrivere la storia del Nonno Anshel, la storia che il Nonno aveva raccontato a quel tedesco, a Neigel; e ho fatto a tempo a terminare di scrivere anche la storia di Kasik-neonato, quell'idiozia, quel malanno, che Ayalah aveva chiamato "il tuo delitto contro l'umanità", il tuo genocidio, che le faccia buon pro!
Ma la cosa principale è la storia di Bruno. Ed è perciò che torno sempre a te quasi ogni settimana: a leggerti, direttamente nelle conchiglie dei tuoi grandi orecchi, un brano che ho aggiunto ed anche, naturalmente: a provare ad aspirare da te un altro frammento umido delle nozioni che hai tenuto nascoste finora nei tuoi abissi più neri, a sedurti e portarti a raccontarmi, a sussurrarmi, e a annusarti, annusare te e il ricordo dell'odore di Bruno che è in te, perché per me questi odori sono già mescolati e infusi l'uno nell'altro senza possibilità di dividerli e distinguerli, e perciò eccoti qui che ti trovi nella mia storia su di lui, e io la racconto a te anche se so bene quanto ti fa ribollire di rabbia. Naturalmente non vorrai mai confessare che ti accorgi di quando arrivo presso di te, ma io già ti conosco bene e so: sento il tuo raglio di scherno, non appena metto piede sul frangionde. Ti vedo tendere tutto il corpo per acchiapparmi e portarmi in te.
Ma io sono cauto. Tu stessa l'hai detto.
La gente sente che mi interesso di Bruno e mi invia materiale su di lui. Ti meraviglierai di sentire quanto e poi quanto ne hanno scritto. Soprattutto in polacco, ma anche in altre lingue. E sono state fatte anche non poche congetture sul contenuto del Messia, sparito senza che nessuno l'abbia mai visto. C'è chi sostiene che nel racconto perduto Bruno cercasse di portare il Messia al ghetto di Drohobycz, che cercasse di essere una specie di Josef De La Reina, di far comparire il Messia in virtù dell'incantesimo della sua prosa. Altri sono sicuri che nel manoscritto perduto avesse trattato dell'Olocausto e degli ultimi anni che aveva passato sotto il regime del conquistatore tedesco. Ma noi due sappiamo che le cose non stanno così. Che la vita era ciò che lo interessava. La semplice vita normale. La vita di tutti i giorni; e l'Olocausto era per lui solo un laboratorio impazzito che aveva accelerato di cento volte la velocità e la potenza di tutti i processi umani...
In ogni modo: non c'è nessuno che non lo lodi. Scrivono che è stato uno dei maggiori scrittori del nostro secolo; che a volte vale Kafka e Proust e Rilke. Non mostrano - ma con delicatezza - alcun entusiasmo quando comunico la mia idea di scrivere io su di lui. Mi dicono, con molto tatto, che per fare una cosa simile bisogna essere uno scrittore della sua stessa altezza, almeno. Ma non me ne importa. Non sul loro Bruno io scrivo. E tutto quello che mi mandano a dire nelle loro lettere io lo leggo con molto rispetto, e poi straccio tutti quei fogli e li faccio a pezzettini minuscoli, e tutto il resto lo sai bene - quando vengo da te a Tel Aviv, salgo su questo frangionde, cammino così senza meta precisa sulle grandi rocce, e tutt'a un tratto mi rovescio le tasche, le scuoto in fretta, come se ne cadesse sporcizia, plum-plum-plum cascano in acqua un mucchio di bricioline di carta, qualcuno si è accorto di qualcosa? E per te hanno molta più importanza. E anche se tu hai in odio tutti quei discorsi e conferenze lunghissimi e noiosi, sono sicuro che tu riappiccichi tutti i pezzetti di carta ad uno ad uno e li conservi in qualche cassetto sperduto e dimenticato nel tuo archivio d'acqua. Non ti permetterai mai di rinunciare a simili documenti.
E poi ti racconterò anche che sono tornato a me stesso. Cioè: al mio stile di scrittura. Alle poesie che scrivevo una volta. E Bruno lascia pian piano la mia penna. Si scosta da me come se fosse una buccia, un guscio. Di lui mi sono rimasti solo pochi quaderni, dei quali nessuno può dire con certezza chi li ha scritti, se lui o io. E tu ed io lo sappiamo, no? che gli sono servito solo da strumento. Solo da mano scrivente. Solo da anello che non regge attraverso il quale è irrotta la sua forza soffocata.
E resta la nostra storia. Una storia con un inizio una parte di mezzo e una fine. L'avventura amorosa che mi avete permesso di guardarci dentro per due settimane nel paesetto chiamato Narwia, presso Danzica detta anche Gdansk, nel mese di luglio del mille novecento e ottantuno. Ed è restata la mia Ruth. Ruthy, che è uscita vincente da questo tunnel. Anche da questo. Che ha consumato tutti coloro che avevano tentato di portarmi via da lei, e tutti i miei nervosismi e i miei terrori, e quel terribile periodo che non voglio ricordare, di quando fui preso in trappola dal paradosso di Zenone: e la mia feroce crudeltà contro di lei. E Ayalah.
E a te ritorno sempre, dopo qualche giorno, senza possibilità di staccarmi da te. Io, che sono il grande esperto di ricostruzioni, e che solo a me stesso non posso dare aiuto, ritorno sempre a raccontarti di nuovo e di nuovo e di nuovo la storia così come s'era svolta davvero, così come non riesco a metterla sulla carta, così come bisogna raccontarla a te: non con ragionevolezza. Ma con spirito di sacrificio. Raccontarla dal principio alla fine. Obbligarti una buona volta a stare a sentire anche cose che non ti toccano, a stare a sentire pazientemente e in silenzio (non ti chiederò di stare a sentire con interesse, Dio me ne guardi bene) tutto quello che mi è successo dopo che sono tornato da Narwia, al diavolo, devi starmi a sentire, cioè: il Bruno che è in te, deve.
Il venticinque di maggio 1980 (ricordo con precisione la data) ho ricevuto da Ayalah come dono d'addio il libro di Bruno Schulz Le botteghe color cannella; Il sanatorio all'insegna della clessidra. Non conoscevo il libro, prima di allora, e provai perfino repulsione sentendo il suono tedesco del nome dell'autore. Ma cominciai a leggerlo subito, soprattutto a causa della triste occasione in cui mi era stato dato, e per via di chi me l'aveva dato.
Ed ecco, dopo venti pagine avevo già dimenticato l'occasione e Ayalah, e ora leggevo il libro per se stesso. Lo leggevo come si legge una lettera giunta a noi fortunosamente; come una frammentaria comunicazione pervenutaci da un fratello che avevamo pianto per morto per lunghi anni. Era il primo libro in vita mia che, quando ebbi finito di leggerlo, cominciai subito a rileggere, dalle prime pagine. E da allora - tante e tante volte! Per lunghi mesi non provai il bisogno di leggere nessun altro libro. Per me quello era Il Libro, nel senso che Bruno stesso intendeva, e cioè quel grande, frusciante Codice, Bibbia in tempesta, attraverso le cui pagine correva il vento saccheggiandola come un'immensa rosa spampanata... e io lo leggevo come è dovere, mi sembra, leggere una tale lettera trovatella: con la comprensione che ciò che appare sulla carta è meno importante della continuazione scritta nei fogli che sono stati strappati e sono andati perduti; di quello che era proibito scrivere chiaramente, per timore che le pagine cadessero in mani improprie...
E ho fatto quello che non avevo più fatto da anni, da quand'ero bambino: ho cominciato a copiarmi intere righe e interi brani in un mio quaderno, per ricordare meglio. Per mormorarmi le parole goccianti dalla mia penna e stagnanti in un lago formato sulla mia pagina. E nella prima pagina ho scritto, naturalmente, la testimonianza indiretta che Bruno lasciò di sé come uno di coloro che Dio segnò con un cenno della sua mano sul loro volto mentre essi dormivano, così che essi sanno quello che non sanno, si riempiono di supposizioni e di profezie, e sulle loro palpebre chiuse passano riflessi di mondi lontani...
E una notte, qualche settimana dopo di ciò, mi sono svegliato d'un tratto, e ora sapevo che Bruno non era stato assassinato. Non era stato assassinato, non l'avevano assassinato nell'anno mille novecento e quarantadue nel ghetto di Drohobycz, ma ne era fuggito. E io dico "fuggito" non nel solito stretto significato della parola, ma, supponiamo, come Bruno avrebbe detto "fuggito". Come se avesse detto "pensionato", e intendesse con ciò designare colui che ha passato tutti i confini conosciuti e permessi, colui che si è recato nella zona magnetica di un'altra dimensione dell'essere, come se intendesse designare un viaggiatore con un bagaglio specialmente lieve... E copiavo nel mio quaderno brani del suo libro, e dopo aver finito di copiare la mia penna guizzava ancora un poco, si contorceva sulla carta e partoriva ancora una riga o due, che sarebbero state mie, ma - come dirlo - dette dalla sua voce, e scritte dalla mia attenzione tesa a lui, e in fondo: indovinando il suo bisogno disperato di esprimersi, ora, da quando gli era stata tolta la mano scrivente. E io so bene indovinare quest'oppressione, il senso di soffocamento che prova uno scrittore esule come lui, "esule" in un certo senso molto preciso, molto ampio, e io, tu lo sai bene, io gli ho porto la mia mano e la mia penna.
È così strano. E un po' spaventoso.
Perché: un poeta ebraico come me, che ha già scritto quattro (troppi) libri in un certo e molto speciale stile di scrittura, in uno stile che uno dei giovani critici, di quelli che scrivono col mignolo alzato, ha definito: "scrittura a labbra strette", mentre Ayalah ha detto molto semplicemente che il mio stile è "avaro e spaurito", e qui, nel quaderno, ecco tutt'a un tratto uno sprazzo e un miscuglio affannato e sudato di colori, come una pavonesca danza nuziale, o una variegata nuvola di colibrì, come una volta ha scritto Bruno.
(O l'ho scritto io?)
Bruno Schulz. Un Ebreo. Forse il maggior scrittore polacco tra le due Grandi Guerre Mondiali. Figlio di un bizzarro mercante di stoffe. Professore di disegno artistico e tecnico al Ginnasio di Drohobycz. Un solitario.
E il padre di Bruno, sognatore dal viso di profeta, che era diventato un immenso cancro dalla tanta nostalgia che provava di tastare i limiti dell'esistenza umana. Suo padre, che al suo contatto era come se tutte le cose si ritraessero fino alle radici stesse del proprio esistere, come se ritornassero ad essere la propria idea primordiale, per poi estraniarsi da essa più tardi, e tendere verso le zone oscure e ambigue, quelle che Bruno chiama: le zone della grande eresia, del grande rifiuto di credere.
E Zio Edward, che per ottenere il tanto desiderato e dolce brivido metafisico aveva lasciato che il padre di Bruno smontasse gradualmente il proprio complicato essere finché si era come ridotto come astratto da stupirne, e identico a se stesso al massimo possibile. Mio padre, scrive Bruno, l'aveva collegato - o meglio: aveva collegato il battito del suo esistere - al campanello elettrico costruito in base alla scoperta di Neeff, e da allora lo Zio aveva funzionato in maniera perfetta e coscienziosa: perfino Teresa, sua moglie, non poteva frenarsi dal premere ogni momento l'interruttore per udire quella voce stridula e sonora, in cui riconosceva l'antico timbro della voce di lui quando era irritato...
O Tluya la pazza che raspava nelle immondizie: la radice dell'essere femminile, pagano, dell'immondezzaio; o lo Zio Hieronim, che si era congedato dalla complessità della vita, e se n'era andato a vivere in una stanzetta con la Zia Retycja, e di là combatteva una dura lotta, piena di odio, contro un leone gigantesco e incollerito, preso senza speranza di uscirne nel gobelin appeso nella camera da letto della coppia.
E nell'anno mille novecento e quarantuno i tedeschi erano entrati a Drohobycz e Bruno era stato costretto a lasciare la sua casa ed era andato a stare in una casa di via Stolarska. Per ordine delle Autorità disegnava e dipingeva gigantesche figure sui muri della Scuola d'Equitazione, e catalogava le raccolte di libri che i tedeschi confiscavano. Per guadagnarsi da vivere era costretto a fare "l'ebreo di casa" (piccoli lavori di falegnameria, pittura di insegne, ritratti della gente di casa ecc. ecc.) presso un ufficiale delle SS chiamato Felix Landau.
E questo Felix Landau aveva un nemico - un altro ufficiale delle SS chiamato Karl Günther. E il diciannove di novembre del mille novecento e quarantadue, all'angolo di via Czacky con via Mickiewicz, Karl Günther sparò a Bruno un colpo e poi - così dicono - andò da Landau e gli disse così: "Tu hai ammazzato il mio ebreo e io ora ho ammazzato il tuo".
Tu sei con me, lo so: la superficie dell'acqua si è impietrita un momento. Due gabbiani si sono scontrati con un suono di vetro. E tu sei qui.
Tu hai ammazzato il mio ebreo e io ora...
Così.
Ti ho fatto male. Lo so. Anche a me stesso faccio sempre male con queste parole.
Ma ora stammi a sentire. Cambiamo discorso. Per non far male e per non sentire troppo male. C'è qualcosa che devo assolutamente dirti. Ascolta:
Per tanti anni, da quando Nonno Anshel è scomparso, ho continuato a canticchiarmi dentro la musica della storia che il Nonno raccontava al tedesco. Due o tre volte, prima di andare in Polonia, mi ero messo a scrivere, e senza successo. E pian piano mi si era gonfiato dentro tutto un groviglio di frustrazione e di rabbia contro me stesso e di nostalgia per lui, per quel vecchio che già da anni si aggira dentro una storia chiusa e nascosta, una nave fantasma scacciata da ogni porto, e io, che sono l'unico essere che possa salvarlo, liberare la storia, io non lo so fare e non oso farlo.
Ho cominciato a cercare le opere del Nonno Anshel. Ho frugato in vecchi archivi, in biblioteche polverose di kibbutz sperduti nel deserto, ho letto vecchi giornali che mi si sfacevano in mano: ed erano per me come gli antichi affreschi, come i dipinti sui muri delle caverne, che si sono decomposti non appena gli studiosi vi hanno puntato contro le loro lanterne. Tra le cose lasciate da uno scrittore yiddish deceduto in un ospizio per vecchi a Haifa, sul Monte Carmelo, ho scoperto un tesoro nascosto: quattro numeri ingialliti del giornale "Oroth Ketannim", e cioè "Piccole Luci" (Redattore: Shim'on Zalmanson), pubblicati nel 1912 a Varsavia. Erano quattro interi capitoli di una nuova avventura dei "Ragazzi di Cuore". Questa volta i ragazzi aiutavano un gladiatore ("Il Gladiatore Antonio") a salvarsi dalle fauci dei leoni, nell'arena. Lessi con entusiasmo: ora potevo anche avvertire quali erano i limiti del talento di narratore di Anshel Wasserman, ma ciò non diminuiva il mio piacere nel leggere, né la grande nostalgia che d'un tratto mi aveva preso, la nostalgia di lui, del Nonno Anshel e della lingua arcaica in cui scriveva, la lingua delle meravigliose parole degli antichi profeti, e la nostalgia della guerra che il Nonno aveva combattuto, a quanto pareva, per tutta la sua vita, "quell'unica guerra possibile, l'unica che ci sia in questo mondo", come dice il capo dei Ragazzi, Otto Brieg, in quel racconto frammentario.
E così ho raccolto altre briciole delle sue piccole opere. Alcuni frammenti apparsi nel giornale per bambini "Neta'im", che vorrebbe dire "Piantine" (Cracovia 1920; sarebbe interessante sapere se il Nonno Anshel aveva ricevuto un onorario per la pubblicazione di suoi racconti in altri periodici), con la storia della lotta condotta dai Ragazzi di Cuore a fianco di Louis Pasteur contro i bacilli dell'idrofobia; e la traduzione in polacco di un racconto dove i Ragazzi recano aiuto a bambini colpiti dalle inondazioni e dalla fame in India, nel primo anno del ventesimo secolo; e altre briciole di racconti e di avventure successe in tutto il mondo. Avevo preso l'abitudine di girare tutto il Paese per frugare in soffitte ammuffite di case di gente defunta di cui si poteva supporre che avessero serbato lì qualcosa. Vi annettevo grande importanza. Consacravo a questo scopo tutte le mie ore libere.
Tra parentesi: in quei giorni mi venne tra le mani uno studio sui giornali per ragazzi pubblicati in yiddish in Polonia agli inizi del secolo, dove trovai il suo nome: "Anshel Wasserman, narratore yiddish". È vero che lì si diceva che "le opinioni sul valore dell'opera del W. e sulla sua importanza sono discordi", e si notava anche che "nelle sue opere si riscontrano forti influenze - talvolta davvero imbarazzanti - di altri scrittori del suo tempo", e inoltre si affermava, col tono di sussiego tipico degli studiosi, che "il valore letterario delle opere del W. è ben misero, e in fondo tutte le sue opere non intendevano che fornire al giovanissimo lettore prime conoscenze di fatti storici e di opere di uomini illustri", ma tuttavia anche l'autore dello studio si era sentito in obbligo di confessare, benché a malincuore, che "quei racconti semplicistici, conosciuti sotto il nome di "Avventure dei Ragazzi di Cuore", incontrarono un incredibile favore tra il pubblico dei più giovani lettori, e furono tradotti in polacco, in ceco e in tedesco, nonché pubblicati in molti giornalini illustrati nei maggiori paesi europei".
Lo studioso annotava poi - non senza una punta di critica - che il Nonno era stato uno dei pochi scrittori che "nonostante avessero scritto le loro opere nel periodo del risveglio nazionale del popolo ebraico e del ritorno all'uso dell'ebraico come lingua corrente (e cioè l'inizio di questo secolo), avevano trattato principalmente temi universali e generali, senza sottolineare affatto la questione nazionale ed ebraica, e a volte addirittura ignorandola. Forse per questa ragione tali scrittori avevano incontrato tanto favore presso i giovani lettori di tutti i Paesi e erano divenuti così più popolari di quanto fossero mai riusciti ad esserlo scrittori ebraici migliori di loro dal punto di vista artistico-letterario e impregnati di uno spirito di missione nazionale e sionistica".
Fremevo di rabbia contro quello "studioso" così gonfio di presunzione: Anshel Wasserman non doveva essere studiato e misurato secondo i soliti gretti parametri. Lui no. Come aveva potuto non accorgersene? Ma la storia, la storia unica e sola di Nonno Anshel e del suo Herr Neigel, non l'avevo scritta.
E dopo essere tornato da Narwia, mi ero messo di nuovo a scrivere. Per via di Bruno. Per via delle cose che mi aveva detto. E forse: nonostante quello che mi aveva detto. Giudicherai tu stessa, se poi vorrai sentire. Non sono riuscito a scrivere la storia. Ho cominciato a raccogliere documentazioni. Citazioni da libri, frammenti di deposizioni di vittime della persecuzione, analisi psicologiche di assassini. Liste di dossier di investigazioni. Ruth dice: ma è tutta roba di cui non hai nessun bisogno. È come se tu ti accanissi a renderti tutto più difficile. Ti soffochi sotto un mucchio di fatti inutili. E tuo Nonno e Neigel non erano in fondo che due esseri umani. Due uomini. E uno raccontava all'altro una storia. Niente di più. Ruth voleva aiutarmi, com'è sempre sua intenzione. Ma noi due si era arrivati a quel punto della vita coniugale in cui ogni frase suona semplicemente come uno scherno.
Sei qui, mi stai a sentire?
Ti vedo scuotere la testa come con compassione per questi miei goffi tentativi di raccontare una storia. Sono sicuro che ti stai dicendo: ma se scrive così... - e fin dal principio ero sicura che scrivesse così - allora che non scriva di me. Che se ne guardi bene. Che non si provi a disseccarmi sulle sue pagine, a far di me una cosa da nulla in quei suoi quaderni. Perché di me, caro mio, bisogna scrivere in modo selvaggio, con passione bisogna. Con un inchiostro fatto solo dal corpo di esseri unici al mondo, dalle più acri essenze della maschilità e della femminilità e della voglia di vivere, e non così, non così, come fai tu, carino...
Ma stammi a sentire, ciononostante stammi a sentire.
Ho scritto il racconto di Anshel Wasserman, e ho sempre fatto fiasco. Ho scritto - e la mia stessa vita si è arrestata. Il filosofo greco Zenone ha detto, in uno dei suoi famosi paradossi, che un oggetto che si muove nello spazio non potrà mai arrivare da un punto all'altro, perché lo spazio tra i punti si suddivide sempre e di nuovo, all'infinito, in due, e l'oggetto in movimento deve ogni volta attraversare un tratto di spazio sempre più piccolo per poter avanzare, e alla fine non potrà più muoversi affatto da dove si trova. Così, proprio così, era successo anche a me: scrivevo, e non riuscivo ad avanzare da una parola all'altra. Da un'idea all'altra. Un balbettio. Avevo già un mio posto fisso nella biblioteca del Memoriale dell'Olocausto, e le bibliotecarie mi conoscevano bene ormai. Ogni giorno, alle dieci del mattino, chiudevo i libri su cui lavoravo e andavo a far colazione al piccolo buffet. Un panino e un uovo sodo e un pomodoro. E poi: una tazza di caffè e una fetta di un buonissimo dolce che fanno lì. Ascoltavo i funzionari del Memoriale che chiacchieravano dei loro bambini e dell'ultimo stipendio ricevuto. E pensavo tra me, disperatamente: in qualche posto, in questo gigantesco edificio, ci deve essere una stanza bianca e vuota le cui pareti sono fatte di una crosta fine fine, ma io non la trovo.
Alle cinque del pomeriggio Ruth tornava dal suo lavoro, e come al solito veniva a prendermi con la nostra piccola Mini Minor tutta ammaccata. Mi buttava solo un'occhiata, mentre entravo in macchina, e capiva, e stringeva le labbra per non dirmi qualcosa che potesse servire di pretesto a una lite. Allora non avevamo ancora il bambino. Yariv - il cui nome ha in sé la radice riv che vuol dire anche "lite" - non era ancora venuto al mondo. Ruth aveva fatto un'infinità di cure schifose e costose, di cui non volevo sapere nulla di nulla. Pagarle - sì, certo. Quanto bisognava. Far l'amore con lei ogni mattina alle sei e mezzo in punto - anche a far questo ero pronto. Ma stare a sentire tutti i particolari rivoltanti sulle iniezioni e sui loro effetti - questo no, cara signora. E lei non poteva trovar nulla a ridire su di me: l'avevo avvertita in anticipo, prima che ci si sposasse, che io non so mai dare aiuto quando c'è davvero bisogno di me. Nessuno sa far tutto. Ma lei aveva fatto un affare chiaro e onesto, perché anch'io non mi aspettavo di ricevere aiuti da nessuno. Nemmeno da lei. Certo, quei miei discorsi la mettevano in collera. A volte, quando tornava dall'ambulatorio del suo Divino Ginecologo Di Turno, mi attaccava con rabbia, addirittura con un odio che nemmeno lei stessa era consapevole di nutrire. Non l'avevo mai vista perdere in tal modo il controllo di sé, mettere da parte tutti i ritegni e le riserve della cautela e della sua moderatezza gentile. La sua faccia, quella sua faccia larga e un po' grossolana, che sta sempre sul filo dell'equilibrio instabile tra la graziosità e la salute contadina e non raffinata, si imbruttiva di colpo e si faceva bestiale dall'odio. Io, come sempre, restavo equilibrato, a sangue freddo, e mi curavo solo di stare attento a che lei non si facesse del male in questi suoi impeti d'isterismo. A volte, quando proprio non c'era più altra scelta, ero obbligato a schiaffeggiarla, a darle uno schiaffo svelto e preciso, e allora lei si calmava, si ripiegava su se stessa, e si addormentava singhiozzando. La disprezzavo per tutta quella sporcizia che irrompeva fuori di lei quando mi inveiva contro. Ma capivo anche che un attacco così breve e aspro la ripuliva velocemente. Poi avrebbe perfino potuto tornare facilmente ad amarmi. Ci sono nelle donne cose che io non capirò mai e poi mai. Diceva: tu stesso non credi a quello che dici quando mi dici quelle cose. Ti vendichi su di me di un conflitto che hai con te stesso, e questa non è una cosa onesta, Momik.
Forse aveva ragione. Non so. A volte vorrei tanto espiare, chiederle perdono. Sono capace di piangere dalla commozione quando penso a un momento in cui lei starà tanto male e io le salverò la vita donandole uno dei miei reni. Non posso immaginarmi un più alto e nobile atto di intimità. A volte me lo auguro proprio, che una cosa di questo genere avvenga. E allora lei potrà scoprire qual è la verità: e la vita con me assumerà per lei d'un tratto un aspetto ben diverso. E lei capirà e avrà pietà. Amore mio, mi dirà, non sapevo in quale inferno tu vivessi tutti questi anni.
Tentai un'altra direzione. Nell'inverno del 1946 si tenne a Varsavia, in una scuola qualsiasi della città, il processo contro Rudolf Hess, il comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Per qualche settimana giocherellai con l'idea di scrivere una ricostruzione di quel processo: Anshel Wasserman contro Rudolf Hess. Avevo già preparato non pochi brani del loro contraddittorio. Wasserman riuscirà a ricondurre Hess al paese di Chelem? Sul banco dei testimoni il Nonno stava in piedi e inveiva terribilmente contro Hess. In virtù della maledizione gettatagli addosso dal Nonno, la faccia di Hess si era fatta stranamente somigliante alle caricature antisemite del "Der Stürmer". "Ed ora", era il verdetto del Nonno Anshel per il nazista, "ora lei è libero, Herr Hess. Giri per il mondo, e che Dio abbia pietà della sua povera anima peccatrice." Lavorai a questo racconto per qualche mese. Decisi di fare secondo quanto mi consigliavano con affetto Ruth e con scherno Ayalah, e di evitare ogni rapporto tra il mio racconto e i fatti come stavano. Scrissi con foga, febbrilmente. L'eco dentro di me si faceva sempre più forte. Ora potevo essere certo che quella era l'eco della voce monotona con la quale il Nonno mi aveva raccontato la storia venticinque anni prima, ma era ancora solo una musica senza parole. A volte pensavo con stupore: forse anche la gente che è vicino a me la sente?
Ma anche questa storia si arrestava. Non riuscivo a far sì che Anshel Wasserman guardasse Rudolf Hess in faccia. Ci sono, a volte, delle cose che non puoi pretendere neppure dagli eroi delle storie che scrivi. Quando scrivevo poesie non ci avevo mai pensato. Forse perché nelle mie poesie non avevo mai posto due persone faccia a faccia. Forse, diceva Ruth, forse è così, ma il Nonno e Hess sono nonostante tutto due esseri umani, e lascia che succeda tra loro quel che deve succedere tra due esseri umani. Se solo sapessi cosa succede tra due esseri umani, le dicevo. E poi: non posso fare a meno di tornare a basarmi solo e soltanto sui fatti. Degli esseri umani, a quanto pare, non ho comprensione. Non si può saper fare tutto, no?
Cercai nei numeri del "Times" del novembre 1946. Il nostro inviato speciale a Varsavia sul "processo del decennio": "Il pubblico sedeva sui banchi scolastici, in una classe. Gli spettatori sedevano due a due su ogni banco. Il criminale, Hess, dagli occhi così tristi e intelligenti, vestiva un'uniforme verdechiara". Continuai a leggere, e mi annotai una parola nuova che avevo imparato leggendo la descrizione: "ludobójca". Una parola polacca inventata apposta per Hess. Ludobójca: genocida. L'appellativo "assassino" non bastava più per lui, naturalmente. Se una volta riuscirò ad esaudire un vecchio sogno e compilerò la prima Enciclopedia dell'Olocausto - in cui vittime e assassini saranno sistemati le une accanto agli altri - vi metterò anche la voce "ludobòjca". La neve fioccava sulle finestre della Scuola Praga, a Varsavia. Tra parentesi: nei lager la neve aveva un odore tutto speciale per via della cenere che svolazzava dalle ciminiere dei crematori. Cosa mi accadrà un giorno, quando tutti questi fatti esploderanno dentro di me. Voglio scrivere e non riesco a liberarmi dagli ostacoli e dagli impedimenti che sono in me. Mi ero impigliato nel paradosso di Zenone, e ogni passo era impossibile a causa della metà del passo che bisognava fare prima di esso. Il Pubblico Accusatore, in quel processo, aveva detto a Hess: "Imputato, l'atto d'accusa è troppo lungo per poterlo leggere qui. Copre ventun volumi, ognuno dei quali contiene trecento fogli a stampa colla descrizione dei tuoi delitti. Perciò apriremo il processo con una semplice domanda: sei accusato dell'assassinio di quattro milioni di esseri umani; confessi?". L'imputato rifletté un momento, aggrottò la fronte, poi guardò i giudici e disse: "Sì, Onorevole Corte. Confesso. Però, secondo i miei calcoli, ne ho uccisi solo due milioni e mezzo".
"Al diavolo la precisione" aveva detto Ayalah, e la sua faccia scintillava come sempre quand'era commossa davvero, "pensa solo quante volte quell'uomo ha ucciso se stesso prima di poter arrivare a dire una frase così."
"Un morto." Così aveva detto Ruth, sconvolta e abbattuta: "un milione e mezzo di volte - la somma è - o la differenza - un morto".
"Non ne posso più di tutta questa roba" avevo piagnucolato io, separatamente a ognuna delle due donne, "non posso più andare avanti così. Tutte quelle storie. Tutti quegli orrori. Come si può continuare a vivere in questo mondo e credere negli uomini dopo aver saputo tutte quelle cose?"
"Chiedilo al Nonno" aveva detto Ayalah, con impazienza, "e così forse capirai alla fin fine che è proprio questo che devi fare."
"Ma non so nulla di lui, o della sua storia."
"Era un vecchio che raccontava una storia a un nazista. Lui è rimasto in vita. Il nazikaputt. Se ti ostini ad aver bisogno di fatti, eccoti i fatti che cerchi. Da qui in avanti devi cominciare a scrivere con spirito di sacrificio. Non con ragionevolezza."
Alludeva a quella stanza bianca, della quale mi aveva detto durante il nostro primo incontro. Le dissi: "Su quello che è successo laggiù bisogna scrivere solo i nudi fatti e basta. Sennò - che diritto ho io di toccare quella ferita?".
E Ayalah: "Bisogna scrivere con un linguaggio umano, Shlomik. Tutto qui. Ed è già tanto. Quasi un linguaggio poetico ci vuole".
Ricordo che tentai ancora di mercanteggiare: "Il Professor Adorno dice che dopo Auschwitz la poesia non è più possibile".
"Ma a Auschwitz c'erano uomini" aveva detto Ruth, lentamente, con il suo parlare pesante, "e ciò significa che la poesia è una cosa possibile, e cioè -" "- cioè -" sibilava Ayalah e faville rosse le passavano sulle guance rotonde, "non proprio poesia, non con rime o con una metrica precisa e fissa, ma un discorso tra due esseri umani, solo questo, e un balbettio conosciuto e un po' di contatto e di vergogna, e sofferenza e cautela. Di così poco c'è bisogno."
Ma per questo c'era bisogno soprattutto di coraggio, e io, naturalmente –
Ora ci sei riuscita.
È già da qualche tempo che cerchi di individuare il punto preciso in cui io sto qui, sul frangionde. Ho sentito come ti tendevi lì, nel buio, ma per un momento ho sperato, sbagliandomi, che fosse per via del mio racconto, che ti avesse finalmente commosso. E ho visto come buttavi addosso ai pescatori, alla mia destra e alla mia sinistra, secchi pieni d'acqua salata, di quella che tu tieni in serbo nelle più fresche cantine del mare, e li ho sentiti bestemmiare, presi così di sorpresa, e gridarsi l'un l'altro - ma che razza di mare schifoso c'è stanotte! E non capivo davvero cosa ti stava succedendo - fino a che, poi, ho capito.
Ma tutte le tue armi sono così miserabili, quando le usi contro chi sta sulla terraferma! E poi, tanto, sono già tutto bagnato, non ho più nulla da perdere, ormai, e in segno di generosità da parte mia, per dimostrarti quanto è grande la mia magnanimità in confronto alla tua grettezza, ti racconterò ora di Bruno, e soprattutto - ti racconterò di te, come ti piace. Come se tu fossi una bambina piccina che aspetta di sentire il suo nome nella storia che le raccontano per addormentarla.
Per farti piacere salto tutte le parti della storia che non ti riguardano - le richieste che ho mandato per posta a Varsavia, e tutte le lettere di raccomandazione, e le suppliche, e l'atteggiamento protettivo del mio editore, e la lista dei consigli della mamma, che aveva tanta paura di quello che sarebbe potuto succedermi nel mio viaggio in Quel Paese Lì, e mi aveva corredato di ventun buste vuote e coll'indirizzo già bell'e scritto, perché le dessi giorno per giorno un segno di vita; e dieci confezioni di calze di nylon per vendere sul mercato nero ("nel caso che tu finisca i soldi"), che era riuscita a infilarmi in valigia con la sua antica furbizia; e il triste commiato da Ruth ("Voglia il cielo che tu trovi finalmente quello che cerchi, e così si potrà cominciare a vivere."), e il volo, e la valigia "andata perduta" nelle dogane polacche e restituita dopo due giorni (senza le calze di nylon), - l'incontro, all'Università di Varsavia, col Magnifico Rettore, Zygmunt Rawicki, al quale avevo inviato le mie lettere con la richiesta di venire in Polonia. Ecco, di quest'incontro ti racconterò: certo ti interesserà molto. E poi, se non t'interesserà, a me cosa me ne importa?
Il professor Rawicki mi ha fatto, naturalmente, un'infinità di domande sul perché e percome di questo mio "straordinario" interesse per Bruno Schulz. Gli ho detto con tutta franchezza che Bruno rappresenta, per me, uno dei più veri combattenti, o meglio: uno dei possibili modi di combattere contro quello che è successo. "Lei naturalmente sa" ha detto Rawicki, "che Schulz non fece affatto a tempo a combattere? Che fu ucciso nel '42 senza aver mai tenuto un'arma in mano in vita sua?" "Lo so." Il professore si buttò un po' indietro, appoggiandosi allo schienale della sua poltrona, e inspirò profondamente e mi guardò ancora più profondamente. Poi mi chiese il permesso di chiamare il professor Tylok, preside del Dipartimento di Studi Ebraici all'Università, che "aveva espresso grande interesse per la sua non ordinaria richiesta, caro signore".
E così ho conversato per più di due ore con due dotti polacchi, che non la smettevano più di saggiare se davvero meritavo l'attenzione che loro due mi dedicavano. Vedevo il dubbio sui loro volti. Mi domandarono perché non volevo restare qui a Varsavia, a esplorare la ricca biblioteca dell'Università, dove avrei potuto comodamente leggere tutto quello che è stato scritto su Bruno e intorno a Bruno e di Bruno. Dissi che già conoscevo tutto quello che era stato scritto. Tylok, che parlava correntemente l'ebraico moderno, si soffregò le guance con chiaro disagio, guardò il collega e mi pregò - se gentilmente avessi voluto perdonare la sua terribile sfacciataggine - di rispondere ad alcune domande, così, per vedere un po' cosa sapevo della città di Drohobycz dove Bruno aveva passato tutta la vita, e che anche lui, cioè Tylok, conosceva bene. No, naturalmente non era che volesse farmi un esame, Dio ne guardi, ma, diciamo così, solo per essere più sicuro di qualcosa, per accertare uno strano presentimento, e cioè - "Avanti, Witold" disse il Rettore con impazienza "il signor Neuman capisce certamente benissimo che dobbiamo prendere ogni misura possibile per assicurarci che stiamo aiutando una persona che lo merita davvero".
Dissi che ero pronto a rispondere a qualsiasi domanda.
Con un sorriso un po' confuso il professor Tylok mi fece un mucchio di domande sui diversi quartieri di Drohobycz e sugli ebrei della città. Poi estese il discorso anche alle miniere di sale dei dintorni, e anche ai pozzi di petrolio. A tutto risposi con sicurezza e senza alcuna esitazione. Mi parve che il professore fosse un po' spaventato dalla foga del mio discorso e decisi - per far bella figura - di rallentare un poco. Lui mi sorrise come soprappensiero, e chiese di fargli i nomi dei maggiori esponenti della comunità ebraica di quella città vissuti negli ultimi cento anni. Devo confessarlo: quell'uomo sapeva il fatto suo. Sapeva perfino che la Signora Ydel Kiknisch, che era stata giustiziata per un'infondata accusa di assassinio rituale, e che si era ficcata spilli nelle gambe perché non le si scoprissero nude quando i cavalli l'avrebbero trascinata per le vie - era la medesima donna della quale aveva scritto Y.L. Perez nel suo racconto I tre regali. Poi si chinò un po' in avanti e mi domandò dei caffè che c'erano in città al tempo di Bruno. Era una domanda che mi sorprese e mi innervosì: e cosa c'entrava con la richiesta che io avevo fatto? In ogni modo riuscii a ricordarmi dello "Schönhalfcaféhaus", che era anche una borsa non-ufficiale delle azioni dei campi petroliferi, e del caffè di Schechterf, dove i giovani si riunivano a ballare al suono della musica trasmessa dalla radio. Quando ebbi finito, vidi che goccioline di sudore gl'imperlavano la fronte. Anch'io ero teso. Non per via di quello stupido esame, ma perché le cose sono tanto vive, qui dentro di me.
Il Tylok non si dette per vinto. Penso che avesse qualche intenzione che non voleva manifestare. Mi domandò se sapevo chi erano stati gli ufficiali tedeschi che avevano preso Drohobycz, e io dissi che questo l'avrebbe potuto trovare scritto in tutti i libri che parlavano di quella guerra, ma lo sapeva, lui, che gli assassini più feroci in tutta "la banda viennese" di Drohobycz erano stati Jarosz e Kowarczyk? Che il cane di Josef Fetter, quel cane che era solito aizzarci contro, contro gli ebrei cioè, si chiamava "Raup"? Che Felix Landau, il padrone di Bruno Schulz nel ghetto, aveva partecipato a suo tempo all'assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss? Che in via Kowelska abitavano le seguenti famiglie ebree: Freulichman, Tarasco –
"Basta! Basta!"
(Tutt'e due i professori, in coro. Con un'aria stranamente sconvolta. Mi guardavano con quello sguardo che ben conoscevo. È sempre così, quando comincio a parlare di quelle cose. Mi è molto difficile trattenermi. Non lo faccio per superbia, per vantarmi. Non per impressionare. Lo faccio col fanatismo di chi fa la lista degli unici e soli beni che possiede. Tutt'e due mi guardavano, un po' affannati. Con quello sguardo mi aveva guardato Ruth, quando le avevo raccontato dei numeri delle cartelle del lotto che mi ero appiccicato sul braccio durante l'assedio che avevo messo, in quel ripostiglio, alla Belva Nazista. Era impallidita, mi aveva guardato con terrore, come se fino ad allora non mi avesse conosciuto davvero, e mi aveva detto con un tono di voce che non lasciava dubbi, che mai, "ma mai e poi mai", non avrebbe voluto più sentir nulla di "quel certo episodio". Glielo promisi.)
E poi:
"Ci perdoni, signor Neuman, ma quest'incontro non - non è una cosa particolarmente facile. Noi, certo, l'aiuteremo per quanto ci sarà possibile. Dove ha intenzione di recarsi?"
Tirai fuori la carta geografica e feci vedere: "Il mio Bruno partì da Drohobycz col treno diretto a Danzica. La linea termina vicino al mare".
Il Rettore disse: "Agli ebrei, in quei giorni, era proibito viaggiare in treno".
"Lo so. L'ordine fu pubblicato il dieci di settembre mille novecento e quarantuno, e i manifesti che lo contenevano furono affissi sui muri in tutta la città. Ma Bruno viaggiò in treno."
"Temo per la precisione storica dei suoi scritti, signor Neuman."
"La ringrazio, professore, ma non è già più una questione storico-letteraria. Bruno deve assolutamente lasciare Drohobycz."
"Certo."
Le loro dita seguivano la linea della strada ferrata sulla carta.
"Trovatemi, per favore, un paese nei dintorni di Danzica, dove possa abitare qualche giorno. Non voglio stare in Danzica stessa."
"Gdansk. Oggi si chiama Gdansk."
"Scusatemi. Un paese sul mare, naturalmente."
Il professor Tylok alzò gli occhi verso di me: "Bruno Schulz è uno dei nostri scrittori più ammirati. Le saremo tutti molto grati se, scrivendone, lei ne parlerà col rispetto giustamente dovutogli".
"Andrò dove lui stesso mi condurrà."
"Lei è un mistico, signor Neuman?"
"No. Al contrario. Una certa donna sostiene: magari fossi un po' pi - No. Non sono un mistico. Spero di non esserlo."
"Ecco qui" disse il professor Rawicki, "lei potrebbe abitare a Narwia. Ma non glielo consiglio. Un posto così misero. Un paesucolo di pescatori. In agosto ci vengono villeggianti, ma ora è ancora troppo freddo per i bagni di mare."
"Benissimo. Narwia."
(Gustavo il nome in bocca, con stupore. Dunque lì sarebbe avvenuto l'incontro.)
"Come vuole. Ma non dica poi che non l'abbiamo avvertita: a me quel posto sembra terribile. In ogni modo le procurerò i documenti necessari. Potrà star lì una quindicina di giorni. I documenti li avrà già dopodomani. Intanto la nostra biblioteca è a sua completa disposizione."
"Grazie. E vi prego di scusarmi se mi sono comportato un po' sfacciatamente. Io, semplicemente -"
"Comprendiamo, signor Neuman. Buona riuscita nel suo lavoro! Avrà bisogno di questi auguri, forse più di quanto s'immagina."
E il professor Tylok aggiunse in ebraico: "Stai attento. Guardati bene. Non esporti". Io gli sorrisi come in omaggio alla sua perfetta pronuncia ebraica, ma fui preso da un certo nervosismo.
Eccomi, arrivo al punto. Ancora un po' di pazienza.
Quattro giorni aspettai i documenti. Gironzolai per Varsavia. Camminai solo per la grande città silenziosa: come se qualcuno avesse staccato, per me, la colonna sonora dalla pellicola. Vidi lunghe code davanti a un negozio che esponeva in vetrina un unico pomodoro. In un caffè assaggiai quei biscotti francuski di cui il babbo aveva parlato, una volta, con tanta nostalgia, e dunque li mangiai in sua memoria, anche se non mi piacevano. Sui muri delle case vidi le figure dei pagliacci con i loro berretti, e le farfalle variopinte, insegne di "Solidarność", ed ebbi un commovente incontro con Julian Strykowski, uno scrittore ebreo polacco, che parlava un perfetto ebraico e scriveva sulla shtetl e lav - - sì, sì, abbrevio! abbrevio! e poi, dopo che furono arrivati i documenti - il viaggio in treno a Gdansk, il panorama vasto, ampio, i paesini del mio Mottel, i boschi di tigli e di betulle dai tronchi sottili, le stalle e i fienili rotondi - e sempre, continuamente, quel senso, profondo, che lui stesso stava viaggiando verso di me dall'altro capo della linea, dalla città di Drohobycz, oggi sotto amministrazione russa. Proprio lo stesso senso che provavo quando copiavo i suoi frammenti nel mio quaderno: come se mi rispondesse, battendo colpi, dall'altro lato della pagina; come si fanno segni, a colpi battuti così, due minatori che scavano un tunnel provenienti dai due opposti lati di un monte...
E fino in capo al molo.
E di fronte alle onde seppi che avevo avuto ragione. Che Bruno non era stato ammazzato - Che si era salvato, fuggendo.
E poi il viaggio in uno sgangherato autobus fino al villaggio di pescatori chiamato Narwia. E presi in affitto una stanza nella casuccia della vedova Dabrowski, che aveva vesti vedovili nere e tre nèi pelosi su una guancia. Liberò per me la sua stanza e il suo letto, e tolse anche il quadro con la Madonna e il Bambino che era appeso sul letto, e il ritratto del defunto e baffuto signor Dabrowski in uniforme di postino, che era appeso sul muro di fronte. E già in quel medesimo pomeriggio in cui ero arrivato al villaggio mi misi il costume da bagno grigio e mi sedetti su una sedia a sdraio abbandonata e strappata sulla spiaggia sabbiosa e vuota, nel tagliente vento di un luglio particolarmente freddo, e mi sentii molto solo e molto teso - e aspettai.
E pian piano le cose mi maturarono dentro. Di giorno sedevo sulla spiaggia e aspettavo, e vedevo i pescatori uscire in mare, e ancora sedevo là quando tornavano a sera, e chiamavano i loro familiari che venissero al piccolo porto, per tirare in secco le barche con un argano primitivo, e fare la cernita del pescato su un lungo tavolo di legno; e solo allora tornavo, e mangiavo il "pesce Ciclope" (la sogliola), che mi aveva cucinato la vedova - precisamente così come ogni donna in paese preparava il pesce ogni sera - e poi mi mettevo a scrivere, e soprattutto - a cancellare. Avevo già condotto Bruno a Danzica; l'avevo fatto arrivare fin là di nascosto in barba ai poliziotti e agli studiosi di letteratura. Ora mi si chiedeva solo di attendere, con calma. Di liberare me stesso da me stesso, di essere la sua mano scrivente. E forse, anche di più: chissà mai che cosa mi avrebbe chiesto in cambio della ricostruzione della sua opera perduta, Il Messia? Mi feci piccino piccino e ascoltai. Nella vicina Gdansk c'erano tumulti e manifestazioni di Solidarność. Al villaggio molto spesso veniva a mancare la corrente elettrica. A volte ero obbligato a scrivere al lume d'una fumosa lampada a petrolio. Non tutte le mattine c'era il pane in tavola. Non scrissi nemmeno una parola a Ruth o a Ayalah, e non inviai nessuna lettera a mia madre. Per la prima volta, da quando avevo avuto quella breve storia con Ayalah, mi sentivo innamorato. Non sapevo con precisione di chi. Forse è per merito di ciò che le cose sono andate tanto avanti...
Ecco, ci siamo. Tu mi saltelli già attorno, impaziente. Sei già tutta in tumulto. Sta' a sentire: il quarto giorno dopo il mio arrivo a Narwia entrai la prima volta in acqua. Le onde erano lisce e mi sorreggevano gentilmente. Come se già allora tu avessi saputo. La storia che stavo scrivendo mi obbligava a scendere in mare e ad aspettare là. E da quando avevo letto la prima volta Bruno Schulz e avevo cominciato a ricopiare le sue parole nel mio quaderno, avevo cominciato anche a dare particolare importanza a ciò che la mia mano scriveva. Continuamente aspettavo che una qualche comunicazione importante mi fosse inviata di là.
Ma nella mia storia il mare era una specie di vecchio gigante un po' buono e un po' maligno e iroso, con una barba da Nettuno tutta gocciolante, e non capivo perché non riuscivo a sentirlo come avrei dovuto. E per un intero giorno galleggiai su di lui pazientemente, e la schiena mi divenne rossa e abbrustolita, e verso le cinque di sera mi accorsi che quello che avevo creduto un vecchio mare non era che una donna. Un'anima di donna in un corpo d'acqua. Una femmina di mollusco azzurra e gigantesca, quasi sempre addormentata per via dell'impossibilità di saziare le smisurate esigenze energetiche del suo corpo, e tutto intorno all'essenza bavosa e mucosa, come di medusa, della sua minuscola anima, galleggiano, aperte a ventaglio, mille sottane e sottovesti verdi e blu e bianche; e lei dorme, affondata in una delle mille concavità lunari dell'oceano, con la faccia volta al sole come un grande girasole, e il suo corpo fluido e molle continua a eseguire la sua azione incosciente con contrazioni ondose, con brividi spumeggianti, con le surreali visioni dei suoi sogni che creano nelle sue profondità le creature più grottesche; e bisogna star bene attenti e non lasciarsi ingannare dal suo aspetto dignitoso e tranquillo, perché in fondo in fondo, sotto i suoi molti strati, non è in verità che una monella dappoco, senza rispetto di sé e svergognata, per non dire quant'è primitiva nei suoi impulsi e nei suoi desideri capricciosi, risultati di un difetto caratteristico delle più antiche ere geologiche che da allora non hanno conosciuto quasi alcuno sviluppo, e lei non è nemmeno istruita, nemmeno un po', come si sarebbe potuto sperare data la sua età così avanzata e la sua annosa esperienza e i tanti viaggi compiuti dappertutto nel mondo, ma al pari di certe donne - una delle quali avevo incontrata qualche anno prima e conosciuta bene - ha imparato con tanta furbizia a cucirsi addosso pezzi di sapere e mille storie divertenti e aneddoti piccanti e volgari che attirano l'ascoltatore, e soprattutto è dotata di un'intuizione fine e acuta, e di sensibilità da animale selvatico, tutte cose che servono ad ingannare certa gente, gente di scarso carattere, sì, ma a me ormai non puoi più nascondere nulla. Io ormai ti conosco tutta, conosco anche il più lontano anfratto dei tuoi neri abissi, e mi sembra di esser riuscito là dove sono falliti prima di me tanti altri che non avevano osato abbastanza, vale a dire: che non erano stati costretti ad osare come me; perché ho afferrato in te (naturalmente, non lo confesserai mai) ciò che non si può afferrare, e ho racchiuso nelle mie pagine un attimo variopinto dall'infinito caleidoscopio delle possibilità di incastro-a-mosaico di forme e di colori e di campi di luce azzurra e di fosforescenza e di palpitìo di lontananze, il cui incanto risiede nel fatto che mai la loro esistenza si prolunga tanto da poterla ricordare, documentare - -
Queste ed altre cose sussurravo dentro di te anche là, sulla spiaggia di Narwia. Le mie labbra erano in acqua e il mio corpo era tanto caldo. Di lui raccontavo, ma anche di me. Della mia famiglia, e di quello che le aveva fatto la belva. E della paura parlavo. E di mio Nonno, che non riesco a riportare in vita nemmeno in una storia. E del fatto che non potrò comprendere la mia vita finché non conoscerò la mia-vita-che-non-ho-vissuto-là. E le dicevo che Bruno è per me un'allusione: un invito e un avvertimento. E citavo, a memoria, brani dei suoi racconti...
"Sta' a sentire, tu, lì -" hai detto all'improvviso con una strana voce nasale e irata, ma in fondo anche supplichevole. Io ho alzato la testa e non ho visto nessuno. La spiaggia era bianca e vuota, e soltanto la mia sedia a sdraio stava lì sola e abbandonata, e la sua tela strappata sventolava un po'. Ma una viscosità liscia, molto tiepida, si era fatta per un attimo attorno a me, si era avvolta ed era scomparsa. E dopo un momento era tornata: "Ascolta -" hai detto, esitante, senza affetto, "tu parli come qualcuno che ho conosciuto un tempo".
Io quasi scoppiavo, lì nell'acqua, dalla gioia, ma invece continuai a galleggiare come se nulla fosse stato.
"Ah - a chi alludi precisamente?"
Mi hai scrutato con sospetto. Per un attimo hai alzato un sipario azzurro tra me e la riva, mi hai leccato velocemente e senza pudore in tutto il corpo, schioccando le labbra con un rumore tremendo, hai assaggiato il sapore, hai calato il sipario e hai guardato al di là della mia spalla verso la spiaggia.
"Certo non lo sentirai dire da me qui."
"Allora, nella mia stanza?" chiesi io, gentilmente.
"Ah!"
Là conobbi per la prima volta quel tuo raglio di disprezzo. L'onda aspirata dalle narici della grande spiga che tu crei. Da allora quel raglio è divenuto il saluto di scherno col quale mi accogli. Suppongo che non vi rinuncerai mai. Anche se dormi profondamente, quando vengo ogni settimana a Tel Aviv sulla spiaggia, i nuotatori e i pescatori trasaliscono udendo quel suono orribile. Loro non sanno, naturalmente.
"Ti porterò là, lontano." E con le sopracciglia delle tue onde hai accennato all'orizzonte.
"E mi riporterai indietro?"
"Lo giuro, sulla mia testa."
"Perché ho già sentito di casi in cui la gente è entrata dentro di te e non è più tornata."
"Hai paura?"
"Che cosa interessante! Anche tu parli come una che ho conosciuto."
"Ma quietati, una buona volta. Quietati. Parli sempre tanto? Allora, vieni."
Di nuovo mi hai assaggiato velocemente, chiaramente controvoglia e hai ruggito a te stessa, con stupore e ira: "Non può essere. Così diverso? Tutto il contrario! Eppure, sanno cose che nessun altro... ah, è meglio chiarire subito". E d'un colpo si è aspirata indietro, dentro se stessa, ed è scomparsa con un sibilo e con un fermento, e mi ha lasciato stupito e deluso.
Ma solo per un momento.
Perché subito è venuta un'onda grande e tempestosa, e si è arrestata di fronte a me e mi si è inginocchiata ai piedi come un cammello, e io sono salito sul suo dorso muscoloso, ho afferrato i suoi orecchi - e siamo salpati.
C
No, Bruno, non sono una traditrice, non dimentico, né mai dimenticherò, il momento in cui sei venuto in me, dentro di me, e il bruciore che ho provato nel momento in cui sei saltato dal molo, e dal tuo corpo uscì allora tanto calore, e c'era anche qualche altra cosa che allora non sapevo cosa fosse, e dapprincipio pensavo che fosse l'odore del tuo estro, l'odore delle creaturuncole del tuo stampo, e solo più tardi ho capito che era semplicemente l'odore della disperazione, perché la gente c'ha una ghiandoletta così, ma allora non avevo avuto il tempo di pensarci su né ai né bai, e c'era solo quella bruciaturaccia brutta-brutta, un lungo strappo in tutta la mia lunghezza, proprio come durante il parto, e io allora mi sono rattrappita tutta, mi sono srotolata verso di te tutto d'un colpo da ogni parte e ho galoppato con una rabbia pazza sulle onde più forti che sono riuscita a acchiappare, dal Madagascar, perché era lì che me ne stavo a dormicchiare in quel momento (solo un sonnellino facevo, di solito non mi piace dormire), fino al Capo di Buona Speranza, prendendo la strada più corta e lì le onde malgasce mi sono venute a mancare e me ne sono prese di nuove, più fresche, e con quell'impeto pazzesco sono andata avanti fino al Golfo di Guinea, e mi sono infilata nello Stretto di Gibilterra, e questo si capisce è stato uno sbaglio, perché avrei dovuto voltare a destra solo nello stretto dopo, alla Manica, mi succede sempre così, e ora che mi ero accorta di quello che avevo combinato e avevo fatto dietrofront, son svenute anche quelle onde lì, le debolucce, e appena appena son riuscita a tirarle indietro fino a tornare all'Atlantico, e lì mi sono finite tutte ma per davvero, e piagnucolavano e supplicavano che non mi arrabbiassi con loro, e io ho continuato così da sola fino al Golfo di Biscaglia, e lì finalmente mi sono trovata un po' di quelle ondone come piacciono a me, cavalloni di diciassette metri l'uno con ruggiti e muggiti e spuma e senza nemmeno un filino così d'odore di terraferma, mi son fatta subito subito una bella collanona di murene lunghe lunghe e l'ho sventolata sulle onde, e avanti, presto, avanti presto, strillavo, avanti più presto e le murene mi si attortigliavano sulla mano tutte arrabbiate, si avventavano l'una contro l'altra con quelle loro splendide teste di serpi, e in tutti i posti dove passavano l'acqua si contorceva, vomitava fuori gli esseri più fantastici dei miei abissi più neri, inondavano e spazzavano via colonie intere di poveri cormorani, provocavano turanghi ter-ri-bi-li nei branchi di balene blu, e rubavano il colore a uno sciame immenso di pesci mullidi, di triglie rosse cioè, ma che viaggio, Bruno, ma che viaggio! Anche fra un milione d'anni me ne meraviglierò ancora, riderò ancora di me, ma com'era andato che non avevo capito subito cos'era quel dolore tremendo che eri tu, e come avevo superato diecine di migliaia di miglia mie (che voi le chiamate Miglia Marine, eh?) col solo slancio della rabbia perché mi avevi svegliata con tanta sfacciataggine, e mentre ero ancora in strada per venire da te, press'a poco all'altezza dell'Isola di Bornholm, avevo già mandato avanti le mie spie, le piccole staffettine del Baltico, le mie ondine veloci, e quelle mi galoppavano davanti, e ti toccavano, e subito dopo sono tornate da me tutte sudate (per così dire) e affannate e trafelate e mezzo soffocate dalle carogne di pesci che avevano fatto a pezzi per strada e dalle tavole delle navi che avevano affondato, e poi mi son saltate dentro il carro e si son lasciate leccare, e io ho assaggiato e - ptuuu!! ho sputato in un arco lungo così, perché le mie ondicelle piccine erano amare come il veleno che c'è in quei pesci lì, come si chiamano? beh, fa lo stesso - e ora io ero arrabbiata sul serio, e galoppavo avanti e sputavo spuma e pesci, e bestemmiavo bestemmie che avevo imparato dai marinai in tutte le lingue, e già sentivo come in pancia le budella mi si raggrinzavano per vomitar via uffff questo malannaccio, proprio come il cetriolo di mare sputa fuori le sue budella insieme alle carapidi che vi stanno attaccate pezzi di parassiti che non sono altro, ma in quel momento, Bruno, in mezzo a quel momento, qualcosa aveva cominciato a muoversi dentro di me negli abissi, nelle cassette più basse, una branchia di un essere mezzo fossilizzato che era già tutto appiccicato alla roccia, e solo un occhio ancora gli si muoveva un po' e il cuore gli batteva una volta ogni cent'anni, e-rrrrr! io ho frenato con tutta la mia forza i selvaggi cavalloni biscaglini che si sono rizzati sulle gambe di dietro e hanno nitrito dalla rabbia, e mi sono chinata a guardare che cos'era che s'era svegliato lì, perché io provo sempre tanto rispetto per tutte quelle antiche creaturuncole lì che si aggirano nelle mie cantine, che poi in fin dei conti s'è cominciato tutti insieme, no? o almeno quasi insieme, e il fatto che io sia andata tanto avanti e mi sia tanto sviluppata da allora - non significa che io abbia il diritto di disprezzarle, non ti pare? Bene, ma quel vecchietto lì, con tutto il rispetto, era davvero un po' lentino, e naturalmente risaliva tranquillo tranquillo tutti gli abissi e gli strati e tutti lì lo guardavano e poi scappavano via a ridersela in un angolo, bene, lo conoscete tutti, no? il tipo del servitore fedele, che è mezzo cieco e mezzo sordo e mezzo tutto, ma mai e poi mai si sognerà di venir meno al suo compito, e circa un'eternità e mezzo passò fino a che si fu arrampicato fino a me, e subito cominciò, si capisce, tutto lo sproloquio di saluti e convenevoli di vecchio stampo, e io lo interruppi gentilmente ma con la mia tipica fermezza, e pretesi che mi dicesse subito qual buon vento d'est l'aveva spinto fin lì, e lui si chinò su di me così, al mio orecchio, e cominciò a sussurrarmi nella conchiglia il gran segreto della sua lunga memoria, e, oh, bimba mia, come ti s'è spalancata la bocca dalla stupefattaggine! Come hai cominciato a soffiare tutta spaurita nuvole di vapore e di nebbia! E davvero potessi morire se quello non aveva ragione: tanti e tanti milioni d'anni fa - proprio la stessa precisa sensazione! Ma proprio precisa! Quel bruciore lì in tutto il corpo quanto è lungo, e il soffocamento, e anche allora ribollii di rabbia e galoppai per mezzo mondo e in nessun posto riuscii a scoprire cosa m'era successo, e solo alla fine alla fine, proprio sulla spiaggia, la incontrai. La sfacciatella che aveva osato svegliarmi con un tale dolore. E lei era - - va bene, questo tipo di gente io lo chiamo semplicemente "domande", perché è un po' difficile chiamarle diversamente, e poi in generale io cerco sempre di farci caso il meno possibile. Ma quella, così piccina, era già più adulta delle altre. Una così che si era formata in me durante milioni d'anni, e le era perfino venuto un corpo mezzo trasparente, qualcosa che per sbaglio si sarebbe potuta credere una medusa, ma no, perché le meduse navigano a branchi, e le domande invece sono sempre isolate, perché da noi nessuno può sopportare quei presuntuosoni.
E quella, la domanda cioè, non aveva fatto caso a me per nulla. Nessuno indovina mai chi sono e cosa sono io davvero, nessuno di tutti quelli che io porto dentro, né quante cose io so di tutti loro, né quanto sono brava e intelligente, e che memoria ho - quando voglio ricordare. No, pensano: lei è solo acqua. Nulla di più. Bene. Cosa me ne importa.
Cosa si diceva? Ah: e io la guardai e vidi come tremava, come ribolliva dal caldo e mi avvelenava tutta l'acqua intorno dalla tanta disperazione. Era davvero una cosa tremenda a vedersi: si contorceva dal dolore, volava proprio in aria e ricascava in me. E io ne avevo una gran compassione. Sono fatta così: ho sempre pietà di tutti. Solo di me non ho mai pietà. Intanto quella mi bruciacchiava tutto l'apparato dei miei nervi azzurri e trasparenti, e cercava con tutte le sue forze una risposta, e io non avevo in me una risposta, perché, non dimenticartelo - tutto questo succedeva tanto tanto tempo fa, milioni d'anni fa o forse il doppio, e io allora ero proprio una stupidina, questa è la verità, sciocchina come una delle sirenette ero, e senza pensare cosa stavo facendo precisamente mi rattrappii tutta, mi attorcigliai intorno a quella lì, e con uno sforzo che quasi mi fece a pezzi la rigettai fuori da me, la buttai da lei, dalla mia brava sorella, e lì, proprio, cosa ne dite? lì a quanto pare aveva trovato una risposta, che le faccia buon pro! Non l'aveva trovata subito, naturalmente, ma solo dopo un cinquantamila o un centomila anni, non li ho contati, e quella lì poi non mi interessava affatto, ma ogni tanto, nonostante tutto, mi svegliavo e me ne ricordavo e me ne venivo vicino alla spiaggia per vedere come quella lì se la cavava, là fuori, e allora vedevo che si era disposta pian piano in strane forme, che assomigliavano a quelle che avevo io dentro di me, ma erano anche diverse, e poi ebbi quel tremendo shock quando vidi che aveva sviluppato mani e gambe, e poi, dopo un'altra eternità e mezzo, vidi che era diventata già un essere umano, un essere umano vero e proprio, e io ora potevo solo essere arrabbiata con me stessa, che per un mio vezzo e per stupidaggine non mi ero sforzata, allora, di tenerla ancora un po' in me, di trovare una risposta a lei in me, ma chi avrebbe mai potuto immaginare tutto questo allora, ed ecco ora, quando il mio vecchio servitore si voltò piano verso l'acqua e si tuffò con calma per tornare al suo posto, io mi morsi le labbra e giurai a me stessa che mi sarei fatta forza, e mi dissi: sii forte, bimba mia, sii coraggiosa e pronta a tutto, perché a dar retta ai dolori e al sapore aspro delle ghiandole di questo qui sono quasi sicura che la tua cara sorellina ti restituisce ora quel debito, e se la conosco bene - e non da ieri - non è per buona volontà che lei rinuncia a qualcosa di suo in tuo favore, e tutto questo succede perché a quanto pare non ce la fa più a sopportarlo, a tenerselo sopra di sé.
E continuai ad andare avanti, ma naturalmente facendo più attenzione, perché bisogna essere sempre pronti a tutto, e specialmente quando si ha a che fare con un tipo così, che perfino la mia sorellina, che è, come tutti sanno, una dura, le è difficile sistemarlo, e non posso fare a meno di dire, e particolarmente ora, dopo che ho conosciuto lui, che non mi meraviglio affatto ma affatto affatto che lei l'abbia buttato fuori, la poveretta, perché certe cose a lei le è proprio difficile sopportarle, a lei che è così buonina e carina, certe cose che sono un goccino più complicate di un vulcano o di una valanga, perché lei - e questa, tra parentesi, è cosa risaputa, e io non vengo a dire qui cose che non le dico anche in faccia - a lei le piacciono le cosine semplici. Lei è molto - dico molto - per l'ordine e la logica e ogni-cosa-al-suo-posto. E io sono pronta a giurare qui sul posto che lei non sarebbe stata affatto disposta a permettere alla maggior parte delle mie creaturuncole di vivere su di lei, e questo sempre per via della logica, e dell'estetica (dovete sentirla quando lo dice, proprio così: e s t e t i c a), come se un cavalluccio di mare fosse meno bello di un cavallo di terraferma, ma la verità è che chi si è stufato della vita disordinata che si fa qui da me, si tira su e salta da lei, ed è anche un fatto che tutta la gente ordinata e civilizzata vive su di lei, e da me vengono invece tutti gli avventurieri e i marinai e i romantici pazzi, e senza che l'avessimo fatto mai apposta si è creata una specie di spartizione dei beni tra noi due, ed ecco ora tutt'a un tratto le succede un malanno così strambo, un essere umano, un puntino, una briciola, si tira su e comincia a tormentarla come se fosse una specie di ulcera vulcanica. E allora cosa farne, cosa? L'unica è farlo passare presto presto da me. Perché a lei non gliene importa, così dice a se stessa la mia amata sorellina (sempre che dentro di sé lei abbia davvero qualcosa, un cuore, un'anima), lei non se ne accorgerà nemmeno, e se sentirà poi qualcosa certo sarà solo gioia, perché quello lì è proprio il tipo che fa per lei, quel Bruno, proprio il tipo dei suoi sogni romantici, perché lei, anche se è nata circa quattro milioni di anni fa, dentro di sé, ma dentro dentro, lei è sempre una ragazzina, e questo proprio mi meraviglia - così dice mia sorella di me - che lei riesca a restare sempre così, piena di gioventù e di freschezza, e monella e-ah, avventurosa, s-ì... (Dovete sentirla quando dice "avventurosa" o addirittura "avventuriera". Fa tanto la graziosa che le vengono dei foruncoli di limoneti in India.)
E se devo dirvi tutta la verità - ha proprio ragione lei. Ha ragione ragione ragione, per tutti i diavoli d'Oriente. E io sono davvero fatta così. E quella sera, quando arrivai volando e trafelata dal Madagascar alla spiaggia di Danzica, e vidi per la prima volta quell'omino che picchiava forte l'acqua, come se fosse una manta che pesa una tonnellata e apre le ali e vola fuori dell'acqua e ricasca con una gran botta (e così partorisce), e vidi con quale disperazione lui scappava da lei e entrava in me e entrava entrava, allora qui dentro mi si mosse qualcosa, lo giuro su - beh, su quello che volete -, dentro di me tutto cominciò a ballare, mi succede sempre così in casi simili, e collane di isole mi tintinnarono nel Pacifico, e ghiacciai scricchiolarono in Antartide, e io dissi a me stessa a voce alta - ora non esagerare, non perdere la testa, e lo sai bene come sono finite tutte le storie con quegli altri, Ulisse e Marco Polo e Francis Drake, che alla fine tutti ti lasciano e tornano lì, e hanno bisogno di te solo quando proprio non ne possono più dalla disperazione, e poi, dopo che tu li hai rabberciati, escono fuori da te senza dirti nemmeno grazie, senza sentire quanto tu li desideri, senza sapere chi sei e che cosa sei dietro tutta quell'acqua...
E d'altra parte mi dissi al diavolo, mi dissi, che gusto c'è a vivere come vivo, pigiata e soffocata tra tutti i continenti e gli stretti e le spiagge, e tutto quello che posso sapere del mondo è solo quanto mi raccontano i fiumi nel loro linguaggio dolce e nauseante, e quanto si gridano l'un l'altro i gabbiani sopra di me, e quanto raccontano con entusiasmo le stupide gocce di pioggia, e che gusto c'è a vivere così se non si può strizzarne un po' d'amore, e anche un po' di sofferenza d'amore a volte, sì, un po' di sofferenza, per tutti i diavoli di terra e di mare, ma una sofferenza così dolce, come allora, nel Mar Rosso, quando mi trattenni per un'eternità e mezzo finché tutto il Popolo d'Israele passò dentro di me, e mi pareva d'impazzire lì (perché mi è proprio tanto difficile contenermi così, e in guisa di muro di qua e di là da loro, come lo traducono da quel libro, perché quelli passassero nell'asciutto, poi...), e lo guardai, guardai quell'uomo piccino e concentrato in sé e forte, guardai la sua testa fatta un po' a triangolo, e quel suo corpicino biancolino e sottile, e subito seppi che sarei stata sua fin in fondo, per tutto il tempo che lui avesse voluto sarei stata sua, e gli avrei dato tutta me stessa senza nessuna riserva o cautela, dall'alto della mia superficie fino al più basso degli abissi più neri, e senza pensare neppure un momento a come sarebbe andata a finire, che sarebbe di nuovo uscito da me per ritornare da lei dopo avermi avvelenata e sconvolta tutta, dopo aver concesso a se stesso di decomporsi in me e di disfarsi in tutte quelle ramificazioni che io - e solo io - posso proporgli, in tutti i frammenti e i colori e i cerchi delle onde e dello scatenarsi delle onde, e d'un colpo mi feci calda e fredda al tempo stesso, e arrossii anche tremendamente, perché sulla mia faccia, come sempre mi succede in questi casi, sulla mia faccia si può leggere tu-t-to, e per un momento si sarebbe potuto pensare che per sbaglio avevo portato qui il Mar Rosso e l'avessi messo al posto del Golfo di Danzica, e feci anche a tempo a pensare che c'era un mare di roba organizzativa che avrei dovuto continuare ad occuparmene in qualche maniera, ma chi aveva testa ora per quella roba - mantenere la temperatura adatta e la precisa direzione ad arco della Corrente del Golfo, e il ritmo fisso dei movimenti degli iceberg, e tutta quella burocrazia lì delle alte e basse maree, che non sono mai riuscita a capirci nulla, ma la verità nuda è che ormai non me ne importava più un fico secco di tutta quella roba lì, e sapevo solo che me ne sarei andata con quel mio uomo per tutto il suo viaggio, e poi que sera sera, come dicono i cari italiani (vado pazza per la loro Venezia, che è, a mio parere, il miglior lampo di genio che abbia mai avuto mia sorella), e poi, che mi crediate o no, poi è stato allora che per la prima volta mi sono accorta che il mio uomo non era solo, e difatti era circondato da un milione di salmoni, che erano già per strada per ritornare al loro fiume, e devo confessare qui che non ricordavo con precisione cosa succede davvero ai salmoni quelli veri, cioè - una volta l'avevo saputo, ma poi l'avevo dimenticato. Quelle cose lì mi entrano da una parte dal Panama e subito dopo mi escono dall'altra dal Bosforo, perché come si fa a ricordarsi di tutti i pesci e le alghe e le spugne e i granchi e i coralli e i mostri e le sirene, che tutti c'hanno la loro storia, tutti c'hanno i loro malanni, ma in questo caso preciso decisi subito che non dovevo cedere alla pigrizia e all'ignoranza, e subito mandai i miei svelti cuccioli, le ondine veloci e ammaestrate, le mie fedeli amiche, le mie schiave, e quelle circondarono subito il branco, e toccarono pesce per pesce e pinna per pinna, come per combinazione, e poi continuarono la loro strada verso la spiaggia, perché... come dirlo?... è una cosa così stupida, davvero... cioè: io ho un piccolo problema di salute, una cosa passeggera, naturalmente, ma intanto posso capire quello che le ondine mi dicono solo dopo che quelle hanno toccato la spiaggia oppure una costa o uno scoglio o una roba di terraferma come sarebbe per esempio una nave, oh, solo un piccolo errore di programmazione, e sono sicurissima che tutto andrà a posto al più presto, e allora potrò anche da sola, ma cosa importa ora, l'importante è che le simpatiche ondine, le mie veloci ondine, avevano letto in qualche posto, non importa quale, il messaggio cifrato nel contatto con la pelle dei pesci e con la rugosità delle pinne e con il ricamo di anelli che vi è disegnato sopra, s-ì, capire i pesci è più semplice che capire gli esseri umani, e subito le ondine sono tornate da me, quelle mie ondine veloci e segrete, e io lessi con una sola leccata tutta la dura e triste storia di quei salmoni, che erano nati nelle acque dolci di un fiume in Scozia o in Australia (quelli lì venivano con precisione dal fiume Spey, in Scozia), e di lì migrano dentro di me, nel salato, e dopo tre anni circa cominciano la loro migrazione all'indietro, per diecine di migliaia di miglia mie (miglia marine, cioè, l'ho già detto), in branchi immensi, ad una velocità di cinquanta miglia mie al giorno, quasi senza mai riposarsi, e li perseguitano i pescatori e i branchi di pesci predaci e le tempeste, e alla fine ritornano al fiume dove sono nati, e allora cominciano a nuotare contro corrente, e saltano in senso contrario le cascate più alte, con tutta la forza che gli è restata saltano su, e su e su, e mi hanno detto che ci sono dei posti dove gli esseri umani hanno messo per loro delle scale speciali, come dei comodi passaggi che girano intorno alle cascate e alle rapide, perché i salmoni non debbano affaticarsi troppo, ma loro no, loro devono saltare contro la corrente più forte, fino a che alla fine arrivano al posto dove sono nati, ma proprio al loro posto precisissimo, e lì non hanno ormai più forza, e fanno appena a tempo a deporre le uova e poi subito muoiono, di ogni branco solo due o tre ritorneranno da me per un altro giro insieme a quelli che sono nati qui ora, e tutti gli altri - -
Ma io non avevo tempo di sprofondarmi in meditazioni su quei poveretti, perché lui era ancora lì, e nuotava e sprizzava tutta la sua amarezza e mi faceva venire la pelle d'oca tutt'attorno a lui, e subito rimandai le mie ondine che imparassero di lui quant'era possibile, e io, che odio aspettare, mi sono tuffata nei miei abissi più neri, in posti dove i pesci hanno occhi grandi come scodelle, e i coralli danno una luce pallida, e il fondale è pieno di pesci che si sono fossilizzati e ancora vivono, e ci sono foreste di alberi fossilizzati e paludi immense e vuote di melma, e ininterrottamente vi cade una pioggia di carogne di pesci morti e di nuvole di plancton giù dagli strati di sopra, e sentii che soffocavo laggiù, e subito sono risalita su, verso lo strato che mi piace di più, lo strato della penombra vicino alla superficie, non troppo a fior d'acqua, ma nel posto dove mi sono spuntati degli scogli variopinti in modo paz-ze-sco di coralli, e pesci che bisogna vederli per credere che ci siano davvero, e dove la potreste trovare lì da lei una creatura bella come per esempio l'Holocarbhus Regalis, o come si chiama, che da adulto c'ha tutti quegli arabeschi viola-giallo-neri?
E in questi pensieri poco allegri ho passato forse un'eternità e mezzo, tamburellando sugli scogli e tormentando ogni pesce che passava di lì come se fossi stata una vecchia zia noiosa, fino a che le onde sono tornate da me per la seconda volta, e ancora non sapevano dirmi di lui nulla di nulla, e sgambettavano (si fa per dire) davanti a me e si rotolavano e tremolavano come cagnolini di mare che sarebbero le foche, ma tremavano eccome! e dicevano noi 'n ciscapiscniente 'n di quel che succede lì Signora mia n', e quello lì c'ha fottuto dentro un saporaccio da far rivoltare lo stomaco di merda e c'ha anche quelle parole lì che nessuno da noi non ne sa un tubo, e lui è anche caldo da far paura a toccarlo, quello lì, e brucia più delle ventose delle meduse, cioè le ventose si voleva dire, Signora, e io allora ho urlato, tornate subito da lui ho urlato, volate da quell'uomo e studiatelo ben bene di dentro e di fuori, senza cautela e senza pietà, scuotetelo, rotolatelo, pizzicatelo dappertutto, assaggiate la sua merda e il fiele che gli esce di corpo, e decifrate ogni goccia del suo sputo e leccate la sua piscia e copiate le rughe che stanno intorno ai suoi occhi e i forellini piccini dei capelli che gli sono cascati, via, subito, di corsa, volate via, vo-la-te!!!
S-ì, era uno spettacolo bellissimo con me arrabbiata, anche se io - beh, solo a fatica riesco ad arrabbiarmi davvero, son fatta così, io, ma ero terribilmente curiosa e nervosa, e avevo anche un po' di paura, e come sempre in quei frangenti mi ero gonfiata in cavalloni immensi, e buttavo me stessa in aria nel getto di una balena blu, e sprizzavo me stessa in forma di nuvola di inchiostro nero di seppia, e dopo un'eternità e mezzo circa tornarono da me le ondine stanche morte e si scontravano tra di loro e strillavano, tutto bene, Signora, mi strillavano mentre erano ancora lontane, e noi già se lo sa tutto quello che c'è da saperlo su quel tipo lì, e non c'è davvero da dircene male di noi se in un primo momento non la ci s'è fatta percheppoi quello lì nemmeno se lo sogna di parlare con la lingua degli omìnini macché tutto il tempo cerca e ricerca di inventarsi e di farsi parole per solo lui ebbasta che sono solo di lui solo di quell'uomo lì stesso Signora ma certo che noi subito subito si svela tutti i segreti proprio così ebbasta perché tutte le altre cose di lui noi si sanno digià pressappochetto come p. es. che lui è uno di quelli che li chiamano ebrei perché gli mancheggia un pezzettino sul tubetto o come il posto indove è nato che è Drohobycz e che lui è un omìno cioè che scrive molto molto e che lui ora scappar via da qualche cosa e c'è anche parole che lui si discese e quelle sono addirittura nella lingua che noi si capiscia come una musica così che tutto il tempo gli si cambia: ho ammazzato il tuo ebreo, bene, se è così io ammazzerò il tuo ebreo, vede Signora tutto noi si sa di sapere e anche certo che c'abbiamo voglia di tornare lì da lui e di studiarlo di più e di più ebbasta che Lei sia soddisfatta Signora - -
Soddisfatta? Ah! Ero semplicemente felice. S'era già fatta notte, e me ne stavo distesa sul ventre come mi piace stare, come una bambinellina che non ce n'è altre come lei in tutto il sistema delle galassie e in tutti quanti i sistemi solari, una che bisogna guardarla dall'angolatura giusta, una così, per capire alla finfine quant'è piccina e carina, una perlina perlacea così, e avevo la faccia rivolta agli abissi e il vento mi carezzava gentilmente il didietrano, e in cielo c'erano stelle lucenti e io stiravo le onde così che la luce vi si riflettesse su di me forte e chiara, ed ero bella.
Lui s'era fatto un linguaggio, il mio uomo. Che cosa splendida. Lui vuole semplicemente parlare con se stesso senza che nessun altro al mondo capisca. Senza che lui stesso possa poi raccontare qualcosa a qualcuno, perché non troverà parole. Così spirituale, davvero. Ma di dove gli vengono simili idee. Io stessa sto ficcata qui già da milioni d'anni con quel piccolo problema di salute a cui ho già accennato, ma mai, mai m'era venuto in mente di inventarmi una lingua mia personale, una lingua solo mia mia - - che cosa splendida.
Sì, fin dal principio ero incantata da tutti quei suoi pensierini, anche se in fondo non riuscivo a capire perché poi quello lì andava a cercarsi tutte quelle complicazioni e quei tormenti invece di gioire in me un po', sì, e in queste faccende io mi comporto, lo so, un goccino come la sua mamma, Henrietta - di cui so già tutto, e peccato che non ci siamo incontrate, sono sicura che saremmo andate d'accordissimo - che anche lei gli diceva sempre con tristezza: "Pensieri da vecchio, Bruno, da alter kap, non da bambino, così voglia Dio che tu ne esca sano e salvo, guarda cos'è successo al tuo povero padre, a Jakub".
Ma davvero, cosa gli era successo? Le mie onde mi raccontano strane storie. Storie così non le ho sentite mai, da quando per la prima volta ho visto una barca d'uomo e gli Argonauti che vi navigavano facevano gare di storie sulla barca. E secondo quanto mi dicono le ondine nei loro rapporti, anche il babbo di Bruno era una specie di sfuggente così, come Bruno, non nel senso comune della parola, ma... dov'è che l'ho annotato?
...Suo padre, che aveva quasi imparato a volare quando allevava nella soffitta gli uccelli tropicali, i pavoni e i fagiani e i galli cedroni immensi e i condor, suo padre, che Bruno chiama "quel maestro schermitore dell'immaginazione", che combatteva da solo contro i Giganti della Noia, quel grand'uomo che morì e tornò in vita tante volte in mille e una forma, fino a che tutti in casa sua si abituarono alla sua morte tanto spesso ricorrente - così scrive Bruno - alla sua morte che disfa, e solo la sua fisionomia già da tanto tempo perduta si espandeva, per così dire, nella stanza dove viveva, creando bizzarri accentramenti con la sua immagine meravigliosamente chiara, e gli arazzi e la tappezzeria imitavano qua e là il fremere nervoso della sua faccia, e gli arabeschi si vestivano della dolorosa anatomia del suo sorriso...
So a memoria ogni parola che ha scritto...
Quel suo padre si trasformò alla fine in un grande granchio. Entrava nella stanza per una fessura che c'era sotto la porta e metteva in imbarazzo tutti quanti, finché una volta fu preso. Proprio così: la mamma di Bruno, che a quanto pare non ne poteva proprio più, lo prese e lo cucinò per colazione, e lui venne in tavola in una bella zuppiera, bello grosso e gonfiato dalla cottura, ma naturalmente loro non lo mangiarono, Dio ne guardi, loro sono una famiglia così civile e colta, e solo lo misero in bella mostra su un tavolo in salotto, accanto a una scatola di sigari che sapeva anche suonare, e anche di lì lui fuggì, figuratevi, anche di lì, perché quelli lì non sono gente disposta a cedere, no, né Bruno, né il babbo di Bruno, e anche se sanno di non avere speranza, nemmeno allora si danno per vinti, e dopo che il babbo di Bruno se n'era stato in quella zuppiera qualche settimana, anche di lì era scappato, e solo una gamba gli era restata lì nella zuppiera, buttata sul sugo di pomodoro secco, e lui stesso, cotto, quasi vinto, si era trascinato con le sue ultime forze avanti, sempre avanti, e vagabondava come un senzatetto, proprio come quel suo bambino cocciuto e dolce, e tanto serio, che mi fa sentire come una scema, e la sua disperazione mi lascia addosso una striatura bruciacchiata e nera, quasi come quella che mi lascia addosso il passaggio di una nave da guerra di quelle che le chiamano destroyer che vuol dire distruttore, ma quella che mi lascia su la nave da guerra io la cancello subito, e invece quella che mi lascia lui, quella no. Solo uno strato fine fine d'acqua mi si richiude sopra e mi serba la striatura che lui m'ha fatto, come mi serba tutte le altre briciole di lui che ho, perché poi cosa mi resta ancora da fare...
D
e eri in acqua bruno di qua e di là nella grande lenta amaca marina che scandisce il tempo acqueo che diventa nebbia soffiante se stessa mollemente sull'acqua nell'ora di una chiara alba bruno naviga in onde che si frangono in uno scorrere infinito impara che l'acqua ha un odore non te lo saresti immaginato mai che l'acqua ha un odore di qua e di là ti sei dondolato con loro avanti e ancora più avanti nella grande amaca marina hai appreso che potrai navigare con loro all'infinito per sempre perché ti trascina il loro movimento muscoloso perché ti sugge il loro scorrere silenzioso tu galleggi fra loro unto d'acqua galleggi e vivi lunghe notti luna nebbiosa luna arancione luna splendente viaggi di nuvole sul velo notturno tu galleggi e passi solitario nella creazione solo l'unica forza del movimento dei pesci solo gli odori del pesce accecanti le nari il battere delle branchie fisso davanti ai tuoi occhi il freddo delle onde che si accovacciano ai tuoi lati rubano e portano a riva il negativo d'acqua ondosa della tua immagine per infrangerlo lì in mille briciole negli occhi a cruciverba del granchio delle rocce per archiviarlo nel geroglifico fossilizzato che è inciso sulle menti degli scogli coralliferi avanti e ancora avanti sei stato trascinato con loro solo il bruciore di dure pinne sulla tua pelle delicata in principio e centinaia di graffi subito fioriti e gocce del tuo sangue che sono colate in acqua hanno fatto accapponare la pelle dei pesci del branco tutto e presto tanto presto hai smesso di sentire dolore e sale e solo lo scintillio dei loro dorsi hai visto e il luccicare dei loro ventri verdi e il battere delle loro branchie e hai sentito il loro odore acre e il grido delle lontananze soffocato dalla troppa felicità e i tuoi orecchi si sono riempiti di fragore di battiti e di voci tumultuose del grande mercato marino e i gridi dei gabbiani venditori ambulanti e i grandi rotoli di stoffa azzurra arrotolati sotto di te e monete che il tuo pensiero batte nell'acqua come in una zecca e cambiavalute scivolosi le cambiano in vicoli silenziosi di città affondate e in mercati galleggianti e quieti prigionieri di bolle grandi e trasparenti e il mare è pieno di mormorii e di echi e di parole che spumeggiano delicatamente e l'arpeggiare di onde sulle corde della spiaggia fili d'acqua gocciolano nel pettine dello scoglio avanti sempre avanti più avanti sei trascinato con loro come un affogato sei portato dall'erosiva loro forza le tue mani sono strette al tuo corpo e le ossa delle tue spalle sono ali molto sporgenti ti è piaciuta la solenne serenità del loro tacere la serietà del loro tacere la tristezza del loro tacere e hai pensato se così è la morte se è possibile che tu sia così felice e perfetto e registrato nel ritmo del battito del grande cuore marino sul gigantesco cardiogramma che ti si svolge sotto continuamente pian piano e subito dopo che ti sei lasciato trascinare con loro presso il molo della città siete passati insieme spiegati come un ventaglio lungo il porto militare della città incrociatori c'erano là e fregate rumorose di soldati odori di nafta e di olio squilli di tromba e un soldatino giovane giovane saldava una mitragliatrice al ponte e faville rosse sprillavano s'inarcavano verso l'acqua cadevano sfrigolavano e gli occhi del soldato avevano visto all'improvviso l'immenso branco e guardarono ben bene ma non ti videro e per un momento ti sei spaventato un rimorso miserabile e traditore ti ha preso il cuore che si divide in due e hai fatto un guizzo in acqua hai gridato strillato e la tua paura si è sparsa attorno come un lampo fino al cuore del branco perché il mare è tutto messaggeri tutto suggeritori perché il mare è pescatore e guarda come ogni onda è un movimento dei suoi fianchi uno spingere avanti le sue spalle per gettarvi la rete dei suoi nervi fitti e trasparenti e subito si è fatto un torag pericoloso e sei stato spinto trascinato tuffato arrestato nulla hai capito nulla hai indovinato della parte che tu devi fare nel torag e mille pesci presi dal panico mischiati senza riserbo nella tua paura umana hanno fatto un voltafaccia improvviso si sono scontrati frontalmente con le file che venivano dietro a loro e si sono frantumati crani spalancate fauci e così si è rotto subito il dolgan questa è la legge della distanza naturale che si deve mantenere questa è la legge della solitudine nella moltitudine e l'acqua spumeggiava un attimo tagliata a pezzi tumultuavano i coltelli di pinne e da qualche parte sui margini impose allora lefrik la calma della sua grandezza sui pesci e pian piano si ricomposero le file una con l'altra sagoma a sagoma e coda a testa e coda a testa e testa a coda e testa a coda e tu hai conosciuto per la prima volta il ning la corda forte tesa tra la tua nuca e la radice della tua anima e hai ascoltato stupito il suono del fremito costante avanti e ancora avanti sei stato trascinato con lui solitario in una folla di solitari silenziosi e ti sei sentito invadere da una gioia improvvisa e strana sul dorso ti sei voltato allora bruno con piacere grande sei stato portato di qua e di là sulle labbra di suggeritori sul chiacchierio delle onde hai pisciato in su hai sorriso all'abisso nelle due pieghe dietro ai tuoi ginocchi e gabbiani hanno strillato stridendo di stupore vedendo il tuo ventre bianco e la tua ascella destra si è fatta per un attimo una giungla verde e intricata finché non te ne sei liberato e hai navigato avanti un gomitolo morbido e setaceo di spesse alghe l'acqua ha odore lo senti all'improvviso e non è un odore che può sentire colui che sta sulla spiaggia o sulla riva di un fiume l'acqua ha odore ed è un odore diverso da tutti gli odori come le voci del mare sono diverse in lui come i suoi colori come i pensieri dentro di lui sono diversi sono trafugati dagli svelti venditori ambulanti servitori del mare le staffette delle onde e poi ritornano come una specie di eco che serpeggia s'allarga in circoli con il rumore spumeggiante fermentante del mercato marino come una fiera affollata odorosa perché l'acqua ha un odore che non viene raccolto nelle narici o nel naso ma forse nella particella della nostalgia nel cervello del pesce oh l'odore dell'acqua oh l'odore del mare il miscuglio di odori dei pesci e delle rocce del fondale e di piante dell'oscurità spugnose e l'odore delle carogne delle grandi bestie del mare e il muco delle labbra delle conchiglie e il fiato che sale dalle labbra degli scogli coralliferi che tirano sospiri la notte sognano ere selvagge e un profumo profondo e nascosto di fondale lontano e un miscuglio di odori di mille fiumi e le spezie del loro fluire ed ecco quando ti sei svegliata dal sonno del tuo aver perso i sensi nell'amaca marina di qua e di là bruno navigava col sapiente rimescolare di ondate lente hai saputo anche tu che tutti coloro che navigano intorno a te conoscono senza esitazioni conoscono senza dubbi il filo dell'odore fine come visto in sogno che manda a loro l'affluente di un certo fiume in una certa terra tanto lontana dove sono venuti al mondo tanti e tanti anni fa e ora essi tornano là per morirvi e mai torneranno qui e di tutta la profusione di odori che inspira il mare alle loro narici in ogni momento essi sentono solo quel filo fine solo il lampeggiare del richiamo del destino la nostalgia vieni a me l'importante è la strada vieni a me e la tua morte ti viene dietro durante tutta la tua vita vieni a me lo sentono i pesci i salmoni dedicano a quello tutte le loro forze e bruno è con loro settimane mesi si prova a indovinare e ascolta con un groppo in gola acque odori stranieri sente gli odori senza posa con ardore così per ore così per lunghi giorni cerca il profumo del suo proprio affluente l'odore della sua propria strada e il lampeggiare della sua propria vita e intanto il sole abbronza la sua schiena intanto le sue spalle si fanno muscolose forti e lui impara il sapore del plancton e dei molluschi spugnosi e nemmeno per un attimo lascerà l'ascolto eppure non sapevi allora bruno cos'era che cercavi solo un presentimento confuso era come una nostalgia per la quale eri uscito a fare questo ultimo viaggio e d'un tratto sei trasalito bruno in alto mare siete passati davanti all'isola di bornholm e ai suoi campi che combaciano colla spiaggia e la sua chiesa bianca sei trasalito così tanto perché un ricciolo di odore antico ti è passato sul viso si è preso nell'ala del tuo naso le è girato attorno per un attimo un ricciolo fine e delicato e tu ti sei svegliato d'un tratto dalla sonnolenza e hai incrociato tutti i suoi sensi come spade e scintille di ricordi sfavillavano e sprizzavano dal tuo cuore all'acqua sfrigolavano in fermento oh l'odore conosciuto ed amato e avresti voluto tornare indietro e cercarlo ma il grande ning che era tesa in te fino a farti dolorare incatenato a te non ti ha lasciato volgerti e ritornare indietro perché i salmoni solo avanti e avanti e la morte li morsica nei talloni e tu hai quasi singhiozzato per una pena improvvisa cos'era quell'odore bruno cos'era forse il profumo a buon mercato e volgare di adela la serva o l'odore delle splendide pezze di stoffa nella bottega piena di meraviglie di tuo padre o l'odore delle ciliegie luccicanti stillanti un liquido buio da sotto la loro buccia trasparente che adela portava a casa nel pieno di un agosto luccicante ubriaco di luce e di caldo o l'odore dolce da stordire da far girare la testa del tuo desiderato libro che il vento ne sfoglia le pagine corrose marcescenti come se sfogliasse i petali di una gigantesca rosa che si disfa?
E anch'io, così. Sulla spiaggia sabbiosa di Narwia, nel calmo mare del luglio mille novecento e ottantuno, quello stesso odore che ritrovo sempre in luoghi tanto diversi, tanto imprevisti - quando passo davanti a una panchina, in una piazza, su cui si stringono dei vecchi decrepiti e si raccontano l'un l'altro le loro storie; in una grotta fresca e coperta di muffe che ho trovato nei pressi della mia base militare nel Sinai; tra le pagine di ogni copia delle Botteghe color cannella; nel segreto dell'ascella di Ayalah (che avendo deciso di non far più l'amore con me, aveva avuto tuttavia la bontà di permettermi di andare ad annusarla quando proprio ne avevo bisogno), e qui c'è da domandarsi, naturalmente: è possibile che io mi porti dietro con me quest'odore e quello irrompa fuori da me proprio quando mi trovo in certi luoghi? O forse è il mio corpo che lo produce per compensare ad un bisogno profondo? Cerco di analizzare il composto nei suoi vari elementi: il profumo di pulito che emanava dalle guance di Nonna Heni; gli odori densi dei corpi di bestie, pellicce, sudore; l'odore agro di Nonno Anshel; l'odore di sudore di un bambino - non il solito odore dello spogliatoio dei maschi accanto alla palestra, ma un sudore molto più acre, che evoca riflessioni spiacevoli, conturbanti, su ghiandole antiche più di questo bambino, ghiandole che hanno infuso in lui i loro fluidi - -
Ritorno sempre là. Quell'impappinarsi. Il balbettio. Ayalah mi disse una volta con un'espressione saputa, che il libro autobiografico che scriverò un giorno lo dovrò chiamare: "Il mmmmmmio lllllibro". Secondo lei non c'è affatto da meravigliarsi se i miei versi più sinceri sono quelli raccolti nei Versi degli oggetti, che lei chiamava molto semplicemente "l'inventario di una sterile ruminazione". Ayalah faceva sempre un mucchio di "osservazioni", (lei stessa le aveva definite così), che le piaceva comunicarmi con quella voce piena d'importanza in cui scorrevano per tutta la sua lunghezza leggere increspature di riso come bambini che giocassero sotto una coperta; e sempre, quando cedevo alla tentazione di risponderle seriamente e cominciare una discussione logica, lei cedeva alle onde del suo riso, tremava tutta dal piacere, e allora mi pareva che le sue grasse carni assorbissero in sé il riso secondo un insieme di meccanismi complicati e stupendi: dapprincipio il riso era celato in lei come una matassa stretta stretta, ma gradatamente il suo messaggio si espandeva in onde sempre più ampie verso il suo ventre rotondo e morbido, verso il suo petto immenso, verso i suoi piedi piccoli e femminili e le sue braccia lentigginose, che prendevano allora ad agitarsi davanti al suo corpo con fremiti veloci, e solo dopo tutto questo, alla fine, l'ilarità cominciava ad arrampicarsi verso la sua faccia arrotondata ed era strano che in quel momento non rimanesse in lei abbastanza riso da popolare i suoi occhi leggermente a mandorla, che restavano sempre molto calmi, svegli e tristi... e qui, a Narwia, speravo di dimenticarla.
Dormi?
Dorme. A Narwia e anche qui. Quando comincio a parlare di me, lei approfitta dell'occasione e si addormenta subito. Prende forza per quando verranno i momenti in cui parlerò di Bruno. All'inferno! Perché permetto a questa sua leggerezza, a questo suo egocentrismo infantile e superficiale di portarmi - di portare me! - alla collera, a innervosirmi senza pot - -
Ecco, ci risono di nuovo.
Stammi a sentire. E non m'importa nulla se dormi.
La sera in cui ci incontrammo la prima volta, Ayalah mi raccontò della stanza bianca che si trova lungo uno dei corridoi sotterranei dell'Istituto del Memoriale dell'Olocausto, lo "Yad Vashem". Io le dissi che passo lì non poco tempo e ciononostante non ho mai visto quella stanza, e nessuno dei funzionari di lì me ne ha mai fatto cenno. Ayalah, con un sorriso che già allora racchiudeva in sé una compassionevole comprensione dei miei limiti, mi spiegò che "gli architetti non l'avevano programmata, quella stanza, Shlomik, e gli operai non l'avevano costruita, e i funzionari di lì certo non ne sapevano nulla di nul-la - -" "Una specie di metafora, allora" cercai di indovinare e mi sentii molto stupido, e lei, pazientemente: "Proprio così", e da un momento all'altro vidi nei suoi occhi che lei era convinta che fosse successo un grave errore. Che la sua intuizione tanto acuta questa volta l'aveva tratta in inganno: che io non ero assolutamente la persona a cui si potesse svelare un segreto così o addirittura un qualsiasi segreto. Questo accadde già la prima sera in cui ci eravamo conosciuti, alla conferenza sul tema "Gli ultimi giorni del Ghetto di Lodz", una conferenza che io ero andato a sentire per forza d'abitudine e Ayalah - perché anche lei non perdeva mai conferenze o altre manifestazioni di quel tipo (i suoi genitori erano reduci da Bergen-Belsen). Fin dal primo momento aveva preso lei l'iniziativa, e quella notte in cui - per la prima volta da quando mi ero sposato - non ero tornato a casa a dormire, fu chiaro che, nonostante tutti i miei difetti, ero dotato del talento sorprendente e rallegrante di trasformare Ayalah in un'anfora, in una fragola e perfino - in momenti di completa elevazione - in uno di quei batuffoli rosa di zucchero filato che vendono nelle fiere. Fu anche chiaro che, nonostante tutti i miei penosi difetti, il tocco delle mie mani sulla sua pelle tesa, bruna e calda, riusciva a far partire subito migliaia di minuscole staffette di uno strano brivido, che le gorgogliava dentro-dentro e obbligava tutto il suo corpo morbido e grassottello a torcersi in un inarcamento teso e ci liberava entrambi, quando si liberava alla fine dall'aspettativa ghiacciata e cristallizzata di profondità inesplorate in lei un suono acuto, triste e alto, come se lì dentro fosse stato preso un gabbiano con una freccia appuntita, e allora potevamo tornare per qualche tempo a fare discorsi da gente civile. Così si ripeté più e più volte durante la nostra prima notte.
"E quella stanza bianca -" mi spiegò Ayalah durante una tregua, "si è formata dal soffocamento. E in fondo non è affatto una stanza. E', diciamo, un gesto, sì: -" e schiuse gli occhi alzando le palpebre gonfie, ma così delicate, e abbandonandosi a se stessa: "un gesto che fanno tutti i libri che si occupano dell'Olocausto e tutte le fotografie e i film e i fatti documentati e le cifre raccolte lì al Yad Vashem, un gesto che fanno verso qualcosa che resterà per sempre incompresa, per sempre insoluta. E questo è certo il cuore stesso del cratere, non è vero, Shlomik?"
Non compresi. La guardai incantato e triste, perché già mi era chiaro che nutrivamo in noi quel raro e sventurato tipo di amore che si può definire "amore alla rovescia", che in quel momento ci trovavamo negli ultimi istanti del diapason di quello strano tipo di amore, ma che mano a mano che Ayalah si fosse svegliata e avesse compreso quanto eravamo diversi, mi avrebbe allontanato dal suo castello incantato. Di me lei non sapeva nulla. Aveva solo letto il mio primo libro di versi, e lo considerava "non poi male per essere un primo libro". Questo mi faceva arrabbiare un po', perché alla gente di solito quel libro era piaciuto anche più dei tre che avevo scritto dopo, e alcuni critici avevano scritto che conteneva "una rattenuta tensione interna" ecc. ecc., ma Ayalah diceva che nei miei versi si sente quanto ho paura di me stesso e di quello che voglio dire sulla vita in generale e su quello che è successo Lì in particolare. Mi pregò di prometterle che in futuro avrei osato di più, e quando lo promisi mi disse della stanza bianca.
Ero affascinato da lei, dal suo corpo, così libero e svelto, così in pace con se stesso, che si arrotondava a palla dalla soddisfazione della propria carne viva e fremente; ero affascinato dal suo appartamentino, dalla sua piccola stanza da letto che era - se posso permettermi l'espressione - velata. Non so velata in che senso, ma certamente velata. Mai prima di allora ero andato a letto con una donna così presto: due ore e venticinque minuti dopo che ci eravamo incontrati (lo so con precisione, perché avevo guardato continuamente l'orologio pensando cosa avrei detto a Ruth tornando a casa). Due ore e venticinque minuti erano passati dal momento in cui eravamo usciti dalla conferenza, depressi e sconvolti da quello che aveva raccontato il conferenziere, fino al momento in cui ci eravamo buttati l'uno nelle braccia dell'altra (era successo proprio così: ci eravamo buttati) nella sua stanza, con una passione di cui non avevo mai conosciuto l'uguale. Solo dopo che ci fummo calmati un po' pensai che ancora non sapevo il suo nome! Mi sentivo proprio come Casanova: fare l'amore con una donna prima che mi dicesse come si chiamava! E in quel momento lei mi prese la mano, ne portò il palmo alle labbra, e vi sussurrò dentro senza suono il nome Ayalah, e io udii attraverso la mano. Lo so che la cosa pare sospetta: io stesso non crederei a una storia così se me la raccontassero, ma con Ayalah tutto è possibile
In uno degli angoli della stanza pendevano dal soffitto ragnatele così fitte e intricate, che pensai che fossero una lunga matassa di capelli, e quando lei mi spiegò cos'era (che lei non avrebbe mai rovinato il lavoro di qualcuno in omaggio a concetti bacchettoni di pulizia), pensai cosa ne avrebbe detto mia madre e mi misi a ridere. Con lei mi sentivo diverso e si risvegliavano in me cose diverse, e bisogna ricordare anche che fino all'incontro con lei non avevo mai saputo della mia facoltà di trasformare una donna in un'anfora ecc. ecc.. Quello che stupisce di più è che proprio per quanto riguardava i nostri rapporti, seppi io prima di lei cosa ci aspettava, perché mi conoscevo bene, e sapevo che in fondo non potevo affatto sperare di corrispondere ai sogni che aveva su di me. E infatti, qualche settimana dopo, vidi come Ayalah cominciava a liberarsi da me. Ancora le si incurvavano dal basso verso l'alto curve di anse d'anfora, incisioni delicatissime, labbra rotonde e sporgenti; ancora a volte prorompevano all'improvviso dal suo corpo - non so con precisione da che parte del suo corpo - piccoli richiami cinguettanti: "Bevimi, bevimi!" come la tazza magica di Alice nel Paese delle Meraviglie, ma era chiaro che il moto ondoso si arrestava. Si faceva goffo e balbettante. Il vento della polarità di Zenone soffiava in me già allora. Poi tutto si era perduto: solo di tanto in tanto riuscivo a farle spuntare foglioline verdi attorno al collo e a mutare tutta la sua pelle in una superficie fremente di granelli rossi dal sapore di fragola che si macinavano fra i miei denti. Lei guardava me e i miei tentativi, e nei suoi occhi c'erano pena e pietà. Pena per noi due che avevamo mancato così l'occasione. In quei giorni feci sforzi disperati di scrivere sistematicamente la storia che Nonno Anshel aveva raccontato a Herr Neigel, ma, naturalmente, più mi sforzavo e più fallivo. La questione della ragionevolezza e dello spirito di sacrificio. Ruth sapeva di Ayalah e soffriva tanto. Io la odiavo perché non pretendeva da me che scegliessi una buona volta tra loro due, e la odiavo per tutta la sua calma saggezza che le diceva di attendere, di non precipitare le cose. Di stare in pena ed aspettare: mai, durante tutti quei terribili mesi, mai mi aveva attaccato con odio e rabbia. E ciononostante non si era arresa e non mi lasciava sentire quanto era umiliata. Al contrario: io ero il maschio in calore, tutto sudato, che girava e girava tra due femmine senza sapere cosa voleva. E sulla faccia non bella di Ruth vedevo tutta la sua saggezza e la sua forza: vedevo che lei era così forte: che lei - come ogni essere umano, in fondo - portava in sé forze così grandi e pericolose, e perciò doveva agire con moderazione: che per non colpire troppo gli altri, doveva frenarsi e attendere: alludere e non gridare, proporre - e non fissare regole.
E io odiavo me stesso a causa di me stesso e per la sofferenza che le causavo, e avevo paura che se avessi lasciato Ayalah non avrei potuto scrivere mai più. A volte penso che Ayalah era restata con me, allora, solo perché si sentiva stranamente responsabile della storia del Nonno Anshel, e non perché voleva bene a me. Ai suoi occhi non ero che un semplice vigliacco, e perfino un traditore. Secondo lei avevo a mia disposizione tutto il materiale e tutte le occasioni di scrivere quella storia come doveva essere scritta, e solo il coraggio di farlo mi mancava. Ayalah non scrive, ma la sua vita scrive. Della stanza bianca disse nella nostra prima notte che era "la prova più vera attraverso cui deve passare chiunque voglia scrivere sull'Olocausto. Come la Sfinge che lancia indovinelli. E là, in quella stanza, tu vieni di tua spontanea volontà e ti metti di fronte alla Sfinge. Capisci?". Non capivo, naturalmente. Lei sospirò, alzò gli occhi al cielo, e spiegò che già da quarant'anni gli scrittori scrivono dell'Olocausto e continueranno sempre a scriverne, e in un certo qual modo sono tutti quanti condannati al fallimento, perché ogni altra ferita e ogni altro malanno si può tradurre nella lingua di una realtà conosciuta, e solo la storia dell'Olocausto non la si può tradurre, ma resterà sempre questo bisogno di tentare ancora e di nuovo, di provarcisi, di smussare le sue punte acute sulla carne viva dello scrivente, "e se vuoi essere sincero con te stesso" disse con aria grave "allora sei obbligato a osare e a cimentarti con la stanza bianca".
Diceva "la stanza bianca" con una voce tranquilla e un po' melodiosa, e io sbuffavo e poi mi adirai contro questo misticismo superfluo. D'un tratto vidi Ayalah così com'era davvero: una specie di hippy anacronistica, un'anima bella di professione, che viveva la sua vita nella zona di crepuscolo che si era creata da sola, perché la realtà, la realtà semplice e logica, era troppo ostica per lei, s-ì, li conosco bene quei tipi che si basano su considerazioni astrologiche, per esempio, più che su considerazioni razionali ("Sei così tipico del Cancro! Un vero e proprio Cancro!"), quei tipi che credono che dietro ognuno di noi si nascondano altri cento esseri umani, e dietro ogni parola che ci esce di bocca - cento demoni, quei tipi che, per una loro impossibilità di misurarsi con ciò che la vita pretende in modo crudele e inequivocabile, si creano un loro teatro di ombre confuse, e in tutto quello che si svolge davanti ai loro occhi vedono solo una chiara allusione ad altre cose, "profonde", collegate tra loro qua e là con fili invisibili fino a formare tutta una matassa vivente che loro, e solo loro, tengono in mano. D'un tratto mi prese una terribile collera contro di lei: con quale diritto si era permessa di dire a me - a una persona che conosceva solo da due ore e cinquanta minuti - che i versi che avevo scritto l'avevano toccata perché erano senza dubbio "grida chiamanti disperatamente aiuto", e che io avrei potuto "salvarmi creando", perché era chiaro che senza creare "tu sei semplicemente perduto. Hai fatto mai una cura psicologica seria (?), Shlomik?".
Non le diedi a vedere cosa pensavo davvero di lei. La desideravo tanto. Pensavo a quanto noi due siamo diversi. Capii - molto prima di lei - che aveva scelto me perché non aveva ancora mai incontrato, nei suoi "giri", una bestia così strana: uno che poteva essere al tempo stesso il poeta che aveva scritto i versi che lei conosceva e un uomo del tutto sano di mente. E che anche amava sua moglie e di solito le era fedele. No, lei non capisce molto della vita e di me, così pensavo allora, e preferisce vedere solo quello in cui crede, invece di credere semplicemente solo quello che vede. Una persona velata. Questa era la parola che cercavo. E ciononostante - -
"E in quella stanza sono concentrate tutte le essenze più forti e aspre di quei giorni" disse lei e i suoi occhi vagavano ancora lontano da me, "ma ciò che stupisce è che in quella stanza non ci sono risposte già pronte. Nulla vi è detto. Tutto è solo possibile. Solo alluso. Solo possibilitato ad avverarsi. O destinato. E tu sei obbligato a passare tutto ciò di nuovo. Tutto. E sentirlo sulla tua carne viva. Senza intermediari e senza controfigure che eseguano le parti pericolose a te affidate. E se non hai dato alla Sfinge la risposta giusta - sei sbranato. O ne esci senza capire. E a mio parere è lo stesso."
Oh, Ayalah. Se solo potessi scrivere i racconti e le idee che quella lì inventa in un giorno, avrei di che vivere per tutta la vita. Forse diventerei uno scrittore diverso. Nella sua stanza bianca non c'è nulla. È completamente vuota. Ma tutto quello che esiste all'infuori delle sue pareti fatte di scorza e di crosta, tutto quello che riempie le grandi sale del Memoriale dell'Olocausto, "Yad Vashem", è irradiato dentro, nella stanza, "supponiamo per mezzo di - - - chiamala: ispirazione. Sì. Non sono tanto brava in fisica, ma so che è così. Perché con ogni tuo atto o tuo pensiero o tuo tratto caratteristico tu crei là un nuovo composto. Una specie di miscuglio o di composizione che è solo e soltanto tua: un composto della materia grigia del cervello e della personalità e della genetica privata e della biografia privata e dell'inventario umano e bestiale, la paura e la crudeltà e la pietà e la disperazione e la grandezza e la saggezza umana e le grettezze e l'amore per la vita, tutta questa poesia zoppicante, Shlomik, e tu te ne stai là come in un gigantesco caleidoscopio, ma questa volta le briciole di vetro sei tu, sono le diverse parti di te, e la luce viene attraverso le pareti - -" i suoi occhi si fanno sognanti, si alza e cammina su e giù per la stanza, vestita solo della mia camicia, bruna di pelle, grassa, tutta pallottoline e pallottoline, i capelli raccolti in una piccola crocchia sul cocuzzolo, mi recita delle commediole, ma cosa ci faccio io qui, al diavolo? "- e supponiamo che tu pensi lì, in quella stanza, a qualcosa. Per esempio, al fatto che alcune delle vittime hanno collaborato con i tedeschi, ed ecco subito - ma subito subito! - tutti i quisling di quel tempo e di cui è scritto nei libri e nelle documentazioni e nelle testimonianze, e tutti gli Judenraten traditori, tutti i miserabili e gli svergognati e gli stracciati nell'anima che ora sono cristallizzati nei libri e nelle testimonianze e nelle inchieste al di là delle pareti, eccoli tagliati in un attimo da un sottilissimo raggio laser che trafigge dentro di te anche il collaboratore e traditore che sei tu, preciso e netto come una foglia di vetro, così - scviiiik! - come Eva è stata tagliata da Adamo" e lei apre gli occhi come stupita di ma - cosa - faccio - io - qui, e mi dice con una voce chiara e tranquilla che mi sconvolge per il grado di sincerità e di tristezza che contiene, che così, proprio in questa disposizione dell'anima, si deve scrivere una storia.
E io non ho osato. Perfino ora, dopo l'incontro con Bruno e con te, dopo tutto ciò che ho passato, non riesco a farlo come si deve. Ayalah aveva ragione in tutto. Le sue commedie infantili e stupide non erano che il mascheramento di una comprensione profonda e acuta, molto più profonda della mia, e di un senso preciso, e malato di lucidità, dell'amarezza della vita. Di nuovo fu chiaro che avevo avuto torto.
Lei si sveglia, ora, all'improvviso. Il nome Bruno che ho pronunciato le provoca un lungo tremore. Un solco bianco, lanoso come una criniera di cavallo, si scuote in lei per quanto è lunga fino all'estremità dell'orizzonte buio.
Lo so, ti annoio con la mia storia, ma questa è la mia condizione, la misera e gretta condizione che ti impongo - una volta per tutte devo raccontare!
Ma ora: Bruno. Ascolta. Ho detto di nuovo: "Bruno". Questa storia sì che ti piace. L'ho sentita da te la prima volta a Narwia:
...d'un tratto, dopo mesi di navigazione col cuore in subbuglio, con la coscienza mezzo confusa dalla troppa felicità, dal troppo stupore, gli si era raggrumata dentro una goccia triste e umana e il colore scuro della goccia si era sparso in tutta l'acqua del mare.
Dapprincipio l'aveva combattuta. Aveva stretto le mani fino a farle aderire ai lati del suo corpo e aveva pinnato con forza con le palme, al tempo stesso sforzandosi di fare echeggiare in sé la corda del grande ning del branco e di stare bene attento a non interrompere il dolgan tra sé e i pesci che nuotavano ai suoi lati. Aveva appreso che il branco, che a prima vista pareva avanzare facilmente, agiva invece con un ininterrotto sforzo di precisione e di tensione.
O forse era proprio la calma-sicura-di-sé di un unico corpo, sano e armonioso? Bruno l'aveva sentito quando erano stati attaccati da una turba di sgombri nel Golfo di Malm”: ancora prima che lui capisse cosa succedeva, il branco s'era diviso in due, era volato via in due direzioni opposte, creando così nel proprio centro uno spazio vuoto risucchiante e paralizzante, e mentre gli sgombri sorpresi lottavano contro il risucchio dell'acqua traditrice, il branco dei salmoni era tornato a chiudersi velocemente, come un uomo che batte le mani con forza. L'acqua compressa aveva respinto lontano gli sgombri che erano divenuti ora gli assaliti e si erano affrettati ad andarsene verso nord con veloci colpi di coda. Bruno invidiava i salmoni. Erano perfetti, a modo loro. E lui era in lotta con se stesso, a modo suo. Aveva perduto la sensazione del fluire musicale di cui aveva goduto le prime settimane. Gli era chiaro che anche là, in pieno oceano, aveva portato se stesso. Aveva immerso in acqua la fronte accaldata, lasciando che le onde lo portassero.
Ascoltava il mare. Sentiva il mormorio incessante delle carezze delle onde sulla sabbia del fondale: come un filtrare ininterrotto di granellini. Sentiva il rumore lontano e confuso dei moli nel porto nordico davanti al quale passava il branco; la voce del molo non assomiglia alla voce della spiaggia: i moli rinviano un'eco un po' metallica. Le spiagge - sono spugnose. Così si era accorto tra l'altro che in acqua non poteva sentire i suoni che venivano da davanti a lui, davanti alla sua testa, ma solo quelli che gli venivano da dietro o dai lati. Il fruscio delle pinne di Yurik e di Napoleone - così aveva messo nome, fra sé e sé, ai suoi vicini di branco - lo riconosceva bene, ma non sentiva affatto il remigare del pesce sconosciuto che gli stava davanti, quel pesce di cui conosceva solo la punta della coda. Bruno vedeva in tutto ciò, naturalmente, una dimostrazione simbolica e piena di scherno della sua propria impotenza: i suoi orecchi erano ancora rivolti indietro; era ancora attento ad ascoltare il passato. Ancora pensava alla sua vita con quelle loro parole, con quei loro tanto lodati concetti, e quello che era più deludente di tutto, era il fatto che ancora non aveva trovato in sé nemmeno un'unica frase che fosse di sua esclusiva proprietà, che nessuno gliela potesse prendere per farne un uso fasullo.
Ma non poteva smettere di pensare alla sua vita passata. Sempre di nuovo ripassava nel pensiero gli anni vissuti, come se fossero i grani di un rosario d'ambra. La meravigliosa bottega di suo padre; i piaceri dell'infanzia; lo splendido irrompere dell'era geniale; la malattia di suo padre; il vergognoso impoverirsi; la vendita della casa tanto amata in via Samborska; l'inizio della guerra; la morte dell'epoca geniale... Allora lo prendeva la tristezza, perché capiva che per loro stessa natura gli esseri umani non sono capaci di sentire che è stata data loro, una certa volta, la vita. Di sentirlo davvero, con un'acutezza e un'emozione primordiali. Quando era stata data loro la vita non erano stati capaci di comprendere il valore del dono, e dopo non si erano più affaticati a rifletterci su. E perciò sentono la vita solo nel suo lento rifluire dal loro corpo; sentono solo il proprio spegnersi, il proprio finire lento e sicuro. Dunque è un errore chiamarla "vita". È un'idiozia chiamarla così: perché è la loro morte che vivono gli umani, così, alternando cautela e paura, come se piantassero i talloni in terra per non scivolare troppo presto sulla tanto ripida china. Bruno gemé volto all'acqua, e il branco ebbe un attimo di tensione allarmata.per
Anche il suo appetito era divenuto carente. Nell'ora della gheyoah, quando i salmoni pascolavano, all'alba o a sera, nei ricchi campi del mare, quando il ning s'allentava un momento e il branco riposava sull'acqua, simile ad un ventaglio di donna-gigante satura, Bruno galleggiava tra i pesci silenziosi, che stavano fermi e branchieggiavano piano come se si rinfrescassero dopo la pesante fatica del mare, e lo prendeva un patema d'animo. Filtrava il plancton tra i denti, o si tuffava fino a strappare con le labbra un'alga nera e succosa, e masticava svogliato, e un solo pensiero lampeggiava su dall'abisso del suo fondale: qualcosa si è falsato, è stato dimenticato. Qualcosa si è sciupato, si è rovinato tanto da non crederci.
Un mattino aveva alzato la testa su dall'acqua, aveva guardato i pesci pensando con disperazione che erano più forti di lui. Fino all'orizzonte il mare era chiazzato di salmoni già nell'inizio della maturità. Quasi tutti ad eccezione del debole Yurik e di qualche altro come lui, erano già grandi quanto Bruno. Le loro pinne verdastre erano erette e piene di forza. Tutti avevano sguardi penetranti, duri e senza grazia, e Bruno si domandava per la millesima volta perché mai facevano questo viaggio, e quale grande programmazione mondiale veniva portata avanti in questo modo almeno un po'. Ora si era voltato sul fianco e nuotava come un essere umano verso la costa. Il branco di salmoni gli si apriva davanti per lasciarlo passare, con indifferenza. Durante la gheyoah nessuno si curava del dolgan. Bruno cercò con lo sguardo Lefrik, senza trovarlo. Per un attimo gli balenò l'idea che Lefrik forse non esisteva affatto. Che fosse solo la realizzazione pratica e inevitabile del desiderio nutrito dal mezzo milione di salmoni del branco, che davvero ci fosse un Lefrik così. Ma Bruno ricordava bene l'aspetto di Lefrik quando Lefrik stesso l'aveva accolto nel branco davanti a Danzica, e oltre a ciò - c'era in Lefrik e nel suo calmo ning qualcosa che non avrebbe potuto essere creato solo dalle aspirazioni di una massa: Bruno non avrebbe saputo dire con precisione che cosa. C'era, nel ning di Lefrik, un'autorità scomoda. Un isolarsi. Neppure per un momento, durante il viaggio, Bruno si era sentito offeso dal fatto che fosse un altro a fissare per lui il ritmo e la direzione della marcia. In lontananza, presso una larga tavola rocciosa, Bruno vedeva il muso grottesco del vecchio pescemartello, che seguiva sempre il branco e si nutriva delle sue carni. Si erano così abituati a lui, che ormai la sua presenza non suscitava più tra i salmoni l'impulso dell'orga, e cioè quello stratagemma con cui erano riusciti a sottrarsi rapidamente agli sgombri a Malm”. Bruno era depresso. In tali momenti - e qui mi permetto con gran pericolo di indovinare - Bruno poteva aver nostalgia della penna.
Navigonzolava così tra i salmoni che si pascevano, come se fosse stato un apportatore di cattive novelle tra esseri innocenti, ancora liberi dal peso del sapere. Sopra di lui il cielo si annuvolava, incupendosi. Le nuvole erano così pesanti, che pareva a volte che stessero ferme e il mondo, invece, scorresse di sotto. Tra poco sarebbero cominciate le tempeste di novembre. Di notte sentiva passare lungo la spina dorsale del branco improvvise contrazioni di paura senza ragione. All'improvviso il cuore gli si riempì di acre amarezza, perché era riuscito a dirsi in chiare parole: aveva compassione dei salmoni che non avevano chi li proteggesse dalla loro stessa esistenza.
E cosa avresti voluto che facessero? si riscosse ora Bruno e nuotò ai margini del branco mormorando a se stesso, cosa avresti voluto che facessero i salmoni per alleviare un po' la pietrosità della loro vita? Avresti voluto che scrivessero libri e stringessero legami commerciali e mettessero in scena rappresentazioni teatrali e fondassero partiti e s'immaginassero amori e beghe e guerre e congiure e amicizie e confessioni e gare di sport e di poesia? Ora si era rivoltato sulla schiena lasciando che le deboli correnti create dal branco lo cullassero di qua e di là. I salmoni sono solo un viaggio rivestito di carne. Una morte a cui sono state attaccate pinne e vi sono state incise due branchie e, oh che grande e variopinto ballo in maschera della morte! Oh gli allegri stregoni della sua coreografia! Bruno schizzò dalla bocca un breve getto d'acqua, come se facesse un brindisi: alla vostra salute, svelti artisti della morte, alla vostra, servitori dal buon cuore e mezzo ubriachi dell'unica vera evoluzione - quella che fa abituare la vita alla propria morte in modo così delicato e sistematico e sofisticato. Alla salute della vostra fantasia ricca e infinita! Alla salute della leggerezza della vostra mano che tiene le forbici e l'ago e cuce mille travestimenti e accessori divertenti per tutti quelli che partecipano al ballo: proboscidi e zanne e pelli e corna e ciuffi e code e ali e pinne e corazze e aculei e unghie e artigli e spine - ma che ricco guardaroba! Nessuno verrà nudo al ballo! Ma non è geniale? Ecco che arriva il più sofisticato degli invitati, quello che porta la maschera più ingannevole: una morticina con gli occhiali e una barbetta e un libro sotto il braccio! Come tutto è allegro e svariato e ricco da non crederci, da non - ah -
E solo tu, Bruno, solo tu navighi pian piano in fondo alla sala rumorosa, nei suoi stretti tubi di scarico, trascinato malinconicamente via con i salmoni che non sono stati nemmeno invitati a questa festa, perché i festeggianti hanno avuto il tatto di non includerli nella lista degli invitati, per non rattristare gli ospiti; i salmoni che anche se non sono stati invitati sono proiettati come un incubo perenne e freddo sui più bui schermi del cervello dei festeggianti; i salmoni che passano nelle vie della vita come una spina di pesce nuda e sbiancata che non è riuscita a farsi crescere intorno la carne della consolazione, dell'illusione e della passeggera dimenticanza, e vaga così, maledetta - -
Signore dell'universo, diceva Bruno (che non era mai stato religioso), ma perché porti questi milioni di salmoni per tutto il mondo in circoli infiniti? Perché non hai potuto accontentarti di un solo salmone? Di una coppia di salmoni? Ecco, perfino gli uomini, i più crudeli fra tutti gli animali, hanno appreso la scienza dei simboli: noi diciamo: "Dio", "uomo", "tormenti", "amore", "vita", e così comprimiamo nella scatolina di una parola tutta l'esistenza. Perché noi ne siamo capaci e tu no? Perché non puoi impedire che le cose si creino fino in fondo, se solo passano un attimo nel tuo cervello che trabocca? Perché tutti i tuoi simboli sono così particolareggiati e sciuponi e dolorosi? Forse è perché noi già sappiamo indovinare meglio di te la misura della sofferenza e del dolore che si celano in ogni scatolina così, e perciò preferiamo lasciarla chiusa?
Ed ecco che qualche settimana più tardi gli era stata data una specie di risposta. Così succede a volte in mare: domande che possiedono una particolare forza vitale creano cerchi di onde allargantisi fino ai confini del mondo, fino all'ultimo anfratto degli abissi più bui. Da qualche parte si risveglia una qualche essenza senza nome, che dormiva e le ondate l'hanno riportata alla vita cosciente, e quell'essenza si strappa dal groviglio d'alghe dei suoi sogni visionari, e si alza e galleggia pian piano a fior d'acqua. Talvolta passano centinaia o migliaia di anni prima che le risposte incontrino la domanda, quella stessa domanda che le aveva generate e aveva dato loro un nome, ma il più delle volte non la incontrano mai. Allora le risposte si disperano, la loro vitalità si offusca pian piano, ed esse affondano di nuovo e ricadono fra le braccia soporifere che tendono loro le alghe. Il mio Bruno passava, nel suo viaggio, sui rottami di tali sensazioni: gusci di idee, carogne di grande audacia, a metà ancora acerbe e a metà già marcite. Gli provocavano una leggera e confusa oppressione, quale prova un uomo che ha inspirato un momento un gas senza saperlo. Non gli facevano paura. Anche l'oceano chiuso dei suoi scritti era pieno di simile roba.
Ma lui, proprio lui, ebbe l'onore di ricevere una qualche reazione in risposta. Un gesto. Non una risposta diretta alle domande che aveva fatto, e ciononostante - non un completo ignorarle. E io sono assillato dal dubbio oscuro, che forse qualcuno aveva sveltito, in questo speciale caso, la procedura. Qualcuno aveva compiuto un arduo lavoro di ricerca e di riflessione e di studio e di organizzazione, in contrasto con la sua natura sonnacchiosa. Qualcuno aveva evidentemente superato se stesso.
Perché al crepuscolo, nello Stretto di Kattegat fra la Svezia e la Danimarca, il branco si era arrestato senza alcuna ragione apparente. Era ancora un po' presto per la gheyoah serale, e Bruno era trasalito, un po' confuso, dal suo sonnecchiare-nuotando pomeridiano. Si era guardato attorno. Aveva visto un mare calmo e senza onde. Un venticello molto leggero - come un soffio che passa tra le pieghe di un sipario, a teatro - faceva fremere appena l'orizzonte celeste. I pesci stavano fermi pinnando ritmicamente, indifferenti a quanto stava succedendo. Uno stormo di gru dal collo proteso passava in alto. Come sempre in momenti di tensione, Bruno aveva preso a pinnare con le mani e a muovere leggermente le labbra. Una strana infiammazione si era estesa negli ultimi giorni fino a formargli due ferite nel petto e la cosa lo preoccupava un po'. Ora cominciava a sentire le ferite bruciargli di più. Si stropicciò con le braccia le strane ferite e aspettò, tutto teso.
Allora, poco lontano dall'avanguardia del branco, si aprì il mare e un folto gruppo di delfini apparve dal profondo dell'acqua e passò veloce come un fulmine davanti ai salmoni. Bruno subito si allarmò, ma i pesci attorno a lui erano calmi. I delfini, grandi e verdastri, fecero ora un mezzo giro a una certa distanza per presentarsi infine di fronte al branco dei salmoni. Le pinne non si eressero, le sagome non spiccarono in modo particolare. I due branchi si scrutarono. I salmoni - immobili, duri, malinconici e calmi all'aspetto; e i delfini - più pasciuti, luccicanti e pieni di vitalità. Bruno si domandò se i delfini intuissero almeno in parte che cos'era la vita dei salmoni. D'un tratto fu preso da un senso di povertà, di pochezza, di non valer nulla a loro confronto: non la pochezza di un salmone duramente provato, ma quella di Bruno, l'uomo scheletrico, esule da tutto. Forse perché ricordava che i delfini erano della sua specie: mammiferi.
E fu in quel momento: come se i delfini fossero stati presi da tutta un'altra intenzione. D'un tratto si tese in tutti il loro grande ning e i delfini si riunirono come a consiglio. Poi si divisero, si sparpagliarono in un gran cerchio, e la rappresentazione ebbe inizio.
Perché non la si potrebbe chiamare altrimenti: come se avessero voluto render grazie ai salmoni di aver compiuto quel viaggio ingrato, o farli divertire per compensarli del loro incomprensibile sacrificio. Bruno fu commosso: i delfini, i playboy del mare, i nobili, i ragionevoli, gli esteti del mare, avevano avvertito in un lampo il timore di quell'aridità che essi sapevano con tanta ragionevolezza allontanare ed espellere dalla loro vita. E questo li obbligava a fare qualcosa - -
I delfini saltarono in aria e capriolarono sveltamente. A due a due, e poi a quartetti, tagliarono l'uno la traiettoria dell'altro come fuochi d'artificio verdi e lucenti, poi si ordinarono velocemente in una lunga fila, e all'improvviso si eressero tutti sull'acqua galoppando sulla loro duttile coda, traendosi dietro una scia spumeggiante di schegge d'onda, attenti a non cancellare quel loro ridacchiare sforzato, aggirando il branco di Bruno in un grande arco, tornando poi subito a saltare come monelli l'uno sull'altro in una acrobatica pista ad ostacoli.
I salmoni guardavano senza espressione, ma pinnavano più velocemente del solito. Bruno era attento, con tutto il suo corpo. Il cuore quasi gli scoppiava dallo sforzo immobile. Anche senza comprendere il significato del gesto, sapeva di assistere a un'espressione rarissima di arte pura. Tutto il mare in tutta la sua ampiezza, tutta la gioia di vivere, la pietà e la partecipazione e la sfida e la coscienza della pochezza e dell'impotenza - tutto ciò era lì, e l'acqua attorno a Bruno ardeva a toccarla. Voleva andarsene con i delfini, ma non sapeva con precisione perché. Forse perché lui era un uomo che non era un uomo e loro erano pesci che non erano pesci. Ma forse perché per un momento aveva sentito che gli era stata donata la vita. Gli era stata donata e gli apparteneva di diritto, e meritava il nome di vita. Le gru stridevano in alto e tendevano il collo fino a torcerselo. Il mare si stendeva in tutta la sua ampiezza, azzurro e bello. Una luce si irradiava dalle ricche onde. Bruno guardava i delfini con uno sguardo supplicante.
E quelli sparirono così come erano apparsi. Furono inghiottiti tra le onde. Bruno sentì come la malinconia tornava a infiltrarsi in lui. Il teso ning del branco si era subito allentato, e ai margini era già iniziata la gheyoah serale. I pesci incominciavano a dimenticare ciò che avevano visto. I pesci non hanno mai niente altro che il proprio presente. Solo pochi fra loro - e il piccolo Yurik era uno di quelli - erano rimasti un momento senza muoversi, cercando con lo sguardo qualcosa che avevano già dimenticato cosa fosse, che aveva lasciato in loro solo un fastidio passeggero e indefinito. Così miseri parevano, allora, e Bruno, che proiettava su di loro il proprio ribrezzo per se stesso, sentì disprezzo per l'idiozia meccanica che c'era in loro e la scarsa ispirazione con cui accettavano il proprio destino...
Yurik venne a sfregarsi contro una sua costola. Bruno si volse e vide che la bocca del pesce era atteggiata in un accentuato apri-e-chiudi. Gli fece di rimando una smorfia simile, ma senza entusiasmo. Per un momento aveva sperato che il pesce volesse fargli segno che anche lui aveva visto i delfini e aveva sentito quello che era avvenuto, ma Yurik voleva solo dimostrare la sua soddisfazione per il cibo prelibato di quella gheyoah serale. Napoleone, che nuotava alla sinistra di Bruno - un essere ottuso e senza sugo - era già assorto nell'inseguimento di una nuvola di uova di dentice che passava nell'acqua. Bruno si tuffò e inghiottì con ira odorosi mazzi di plancton. Coll'immaginazione si vedeva nel posto che gli spettava - laggiù nell'allegria spensierata dei delfini gioiosi, vivendo la calma vita di coloro che accettano di non poter cambiare mai nulla, e perciò si danno alla droga dell'illusione.
Ma quando la gheyoah finì e il branco si preparò al viaggio notturno, in Bruno passò all'improvviso un fremito di strano orgoglio. L'immenso esercito era fermo e pinnava con una lentezza ritmata. Su tutti era come cristallizzata quella serietà che un momento prima lo aveva così disgustato. Ma per la prima volta da quando aveva compiuto quell'atto ed era sceso in mare, Bruno cominciava a intuire perché aveva scelto i salmoni e il loro viaggio. Ma se lui stesso non era che un salmone tra gli uomini! E anche quando era stato un delfino, anche allora apparteneva ai salmoni. Bruno sospirò, ora, e i polmoni quasi gli si spaccavano per una segreta allegrezza: come è vero che ogni uomo deve amare una donna, una donna mortale, per poter arrivare, approssimativamente e difettosamente, all'amore puro e astratto, così Bruno doveva farsi salmone completo per poter sapere la vita. La vita denudata di tutto, di cui i salmoni disegnano i tratti geometrici e visibili sulla faccia della metà del mondo.
Bruno chiuse gli occhi e tese il corpo fino a disarticolarlo. Era molto commosso e si obbligava a ignorare le fitte di dolore che gli procurava l'infiammazione nel petto, sopra le costole. Il dolore non lo lasciava e Bruno prese a grattarsi con collera, irato contro il suo corpo che sabotava, come sempre, i rari momenti di elevazione di cui poteva godere.
Un momento ancora si attardarono tutti, si sussurrarono l'un l'altro senza parole, si palleggiarono domande schernenti e impazienti e risposte pungenti e svelte, e Lefrik stava attento ad ascoltare gli echi che tornavano a lui dai loro corpi, e tutti loro stavano attenti ad ascoltare la sua attenzione, e d'un colpo, senza che capissero com'era successo, la nozione del salpare passò in tutti loro, saltellò come una scintilla sul filo del ning, si iscrisse in un lampo nei profili che scintillarono un momento, e ancora prima che sapessero erano già salpati.
E
È già un'eternità e mezzo, lo giuro sulla mia testa, che lui se la naviga con i suoi poveri salmoni senza smettere e senza cedere, e quelli crescono e lui si rinsecchisce, e ce n'è tra loro che sono già più grandi di lui, del mio uomo che non conosce disperazione, che ha passato tutte le tempeste del Mare del Nord, e un attacco di barracuda che non so nemmeno cosa ci facessero lì sulla costa di fronte a Bergen, e un mese tre-men-do di pescatori islandesi che mi hanno strappato via quasi mezzo branco, e lui ancora se la naviga con gli occhi che gli bruciano e con quel suo sorriso amaro che non gli si sbuccia dal viso e non gli si scioglie nell'acqua, e il mento gli diventa di giorno in giorno sempre più appuntito, e il corpo gli si fa solo pelle e ossa, lo giuro, senza nemmeno un pelo sul corpo, e la pelle stessa gli è diventata gonfia e spugnosa per la troppa acqua, e a volte quando lo guardo al chiaro di luna, allora mi sembra che ci sia già riuscito ad essere un pesce.
Ma la disgrazia è che lui non la smette di pensare, e quei pensieri tormentano lui e tormentano me, perché io non posso aiutarlo in nulla, perché è chiaro che quello che lui cerca non si trova in me, e almeno posso essere soddisfatta sapendo che anche in lei non c'è. In nessun posto c'è una cosa così, e solo in se stesso Bruno la può forse trovare, magari io c'avessi abbastanza forza, e io naturalmente cerco di aiutarlo quanto è possibile, ma cosa posso fare io, poi, che sono così piccina e debole, e allora lo piglio e lo lecco così e gli sussurro all'orecchio che io non sono come lei, non sono cieca e sorda e ottusa come lei, io sono tutta lingua e occhi e orecchi, e io leggo in te tutto, Bruno, e capisco tutto e so indovinarti tanto, perché non c'è un solo ed unico pensiero che tu abbia pensato in vita tua, non c'è una sola persona che tu abbia incontrato, non c'è un solo nostalgimento, un solo ricordo, una sola cosa bella o penosa che non ti abbiano lasciato il segno in qualche parte del tuo corpicino dolce, e bisogna solo saper leggere, e leggere, Bruno, si può solo qui da me, solo dentro di me, e questo non l'ho inventato io, me ne guarderei bene, e poi lo sai quanto sono modesta, ma ecco, una volta, tanti anni fa, dormivo accanto all'Australia sotto una nave che si chiamava Beagle e tutt'a un tratto sentii che la luna era scomparsa, e mi svegliai subito e uscii e vidi che un'immensa faccia di vecchio si chinava dal parapetto della nave e mi nascondeva tutto il cielo, e quell'uomo mi guardava con tanto amore che il cuore qui mi si struggeva, e la costa della Nuova Zelanda fu tutta inondata (in Giappone quelle mie commozioncine lì le chiamano: tsunami), e l'uomo parlava con un altro che c'era lì accanto a lui, e la faccia di quello lì non la vedevo, e lui gli diceva, vedi, Peter, qui ci sono le radici delle cose. Qui ci sono le grandi incubatrici della storia e di tutta l'esistenza. Non vivremo mai abbastanza da poter arrivare a risolvere tutti gli enigmi del mare. E Peter rise e disse - hai il mal di luna, Charles, e il mio vecchio sorrise misteriosamente e disse - io non sono un poeta, Peter, sono solo uno studioso di scienze naturali e da scienziato ti parlo: in terraferma possiamo trovare segni di vita fino alla profondità di un piede o due e solo fino all'altezza di qualche diecina di piedi, al massimo, ma in mare, Peter? Abissi profondi più di quanto possiamo immaginare! Sì, ma lo sai, Peter, che quel monte che c'è tra il Nepal e l'India, quello che si chiama col nome di quel nostro conoscente, sir George Everest, ed è considerato il monte più alto del mondo, lo sai che se lo immergessimo in mare, nell'abisso che c'è presso Guam, per esempio, l'acqua lo ricoprirebbe tutto e sarebbe alta ancora più di due miglia sopra di lui? Scusami, Bruno, se mi sono permessa di vantarmi così, era solo per spiegarti fino a quale profondità io sono capace di arrivare, perfino nel corpo di un essere umano, e non c'è in tutto il mondo nessuno capace più di me di leggere tutti i segni che tutti i momenti della vita hanno lasciato nel tuo corpo, tutti i pensieri e i desideri, perché ogni cosa di questo genere deve lasciare il segno, una cicatrice piccina piccina o una ruga o una piegolina, guarda i visi dei vecchi degli umani, che già non c'hanno più posto dove nasconderli tutti quei segni, e tutto gli è disegnato lì sulla faccia, e guarda perfino i tuoi nuovi amici, i salmoni, che il tempo che passa e i malanni gli disegnano sulle pinne dei cerchi come nei tronchi degli alberi, un anellino per gli anni che hanno passato nel fiume, e un anellone per i mesi che hanno passato qui dentro di me, e Lefrik lui c'ha di già una seconda mandata di anelli per segnare il suo secondo viaggio, e scusami se ci metto bocca, e chi poi e cosa poi sono io per farlo, ma mi ha fatto tanto male qui quando ho visto che tu non hai mai riso davvero, un riso pazzo così, meno che quella volta che il tuo babbo Jakub ti aveva buttato giù sulle sue ginocchia e ti aveva picchiato colla cinghia, ma quello era un altro riso, naturalmente, e dopo di quello non erano venuti più risi, e questo è un po' un peccato a parer mio, perché a me invece mi piace tanto ma tanto ridere, e si sarebbe potuto ridere insieme, perché cosa ci resta da fare oltre questo, ma tu, perfino quando ti faccio il solletico lì, tu resti così duro e nero, e io, riderai, io me ne offendo un po', Bruno.
Vi chiedo scusa di avervi affaticati e annoiati così. Non ho potuto fare a meno di cedere alla tentazione di farvi incontrare l'abbondanza di chiacchiericcio stupido e superficiale a cui ero stato esposto lì a Narwia. Tutto quel parolio ruminato e ribiascicato! Quella furba e grossa stupida! Quella grande bestiaccia liquida e amorfa! E con quali volgari stratagemmi aveva cercato di nascondermi le cose che mi importavano, e lo sapevo bene che lei si teneva in corpo tutto, perfino il manoscritto perduto del Messia, mentre a me mi buttava solo briciole: secchi di zampe di gamberi; conchiglie vuote; citazioni mutile dai suoi libri, che li so tutti a memoria. Ah! Una tutrice ignorante che difendeva quello che le era stato affidato, senza essere capace di conoscerne tutto il valore. Che mancanza di senso di responsabilità, da parte di Bruno, averle affidato, proprio a lei, il suo tesoro!
Ribollivo dalla rabbia contro di lei, perché dovevo tornare a casa mia, in Israele, tra una settimana, e ancora non ero riuscito a scoprire nulla d'importante. Passavo dentro di lei intere giornate, le raccontavo di lui solo perché fosse pienamente soddisfatta, per il suo piacere quasi-bestiale; la mia pelle si sbucciava come un arazzo di fiori albini, ma lei ancora non voleva accennarmi su di lui nulla di nulla. Le serate le passavo in compagnia della vedova Dabrowski, che rattoppava e rattoppava lenzuoli e biancheria, e mi gettava sguardi ostili mentre scrivevo pagine e pagine sul dorso della vecchia macchina da cucire che mi serviva da tavolo, e poi le strappavo tutte, quelle pagine, subito dopo averle scritte. Mi stava diventando chiaro che non potevo scrivere senza che lei mi aiutasse. Dipendevo da lei, e questo era ciò che mi avviliva di più.
E perciò, l'indomani, non misi nemmeno un dito in mare tutto il giorno. Passeggiai sulla sabbia della spiaggia, guardai con interesse gli splendidi gigli che vi fiorivano, e giocherellai perfino con l'idea di cominciare qui, a Narwia, una modesta collezione di conchiglie e di dedicarmi a questo soggetto fino a divenirne esperto. Poi camminai sulla riva fino al faro, e mi arrampicai su per la scala a chiocciola, fino all'ultimo piano. Non voglio darmi delle arie, ma al villaggio mi hanno detto che sono molto pochi i turisti capaci di compiere questo sforzo e di solito la vertigine li prende nei punti in cui una parte del muro è caduta in mare, e lì la scala serpeggia quasi a strapiombo sull'acqua. Poi scoprii che per arrivare dal piano superiore al terrazzino dove è sistemato il proiettore del faro bisogna strisciare su per una scaletta a pioli tesa proprio sul mare. Per mia disgrazia si era già fatto troppo tardi per me, e fui dunque obbligato a rinunciare a quest'entusiasmante parte della mia piccola passeggiata.
Tornai dunque sulla spiaggia e per tutto quel pomeriggio che non finiva mai me ne stetti sulla mia sedia a sdraio, completamente solo sulla spiaggia, tutto gelato dal soffiare del vento dell'est e anche bollendo di rabbia contro di lei, e la guardavo fisso, e maledicevo la mia cattiva stella che mi aveva portato da lei.
E anche la vedova Dabrowski brontolava già apertamente. Pensava che fossi un pazzo, o una spia americana, o tutt'e due le cose insieme. Qui erano molto sensibili a cose così, ora, per via delle sommosse in città, lì vicino. E quella si arrabbiava anche perché tenevo la luce accesa fino a tardi, la notte (così facevo segnalazioni ai bombardieri americani), e poi le sembrava anche di avermi visto, ieri, che buttavo dei fiori in mare.
Lo confesso: era stata un'idea idiota. Avevo cercato di corromperla a buon prezzo. In tutto solo un mazzetto di violette che avevo comprato da un bambino del villaggio. E poi lì da lei, nelle profondità, non ci sono fiori, così mi pare, e certo non fiori che mandano odore. E una donna che avevo amato adorava le violette. E ieri sera, sulla spiaggia... la cosa mi aveva fatto uno strano piacere... forse perché tutt'a un tratto avevo avuto tanta nostalgia di una certa donna. E avevo buttato in mare un fiore dopo l'altro. Una certa donna stupida, no, saggia, così capricciosa, velata, amorosa, non amorosa... e poi anche per dimenticarla ero venuto qui, e la mia liberazione dal suo giogo l'avevo programmata come un'operazione militare vera e propria, avevo prestabilito quanto tempo concedere alle inevitabili depressioni, e un po' di tempo anche alla disperazione che sapevo sarebbe apparsa, e poi sarebbero venuti giorni in cui avrei sentito che mi riprendevo, mi rinforzavo - - tutto era così programmato, ma chissà perché nulla riusciva a dovere... una donna fatta così... lei mi aveva rovinato, aveva proprio rovinato tutta la mia vita e la vita di Ruth, di quell'angelo, e aveva destato in me questa terribile sete che non sapevo come calmarla, e questo mio ribrezzo di me stesso, della mia vita passata finora, della mia scrittura. Aveva detto che sono un traditore. Va', scrivi per i timorosi, mi aveva detto prima di mandarmi via, e come dono d'addio mi aveva regalato un libro, un colpo di grazia dolce e pretenzioso come lei stessa, e se n'era andata da me per vivere con un altro... e dopo di lui con un altro... di quelli che non sono timorosi, che si fanno a pezzi e sono fatti a pezzi per spirito di sacrificio, o sono abbandonati, alla fine, come sono stato abbandonato io, perché lei non gli lascia scelta - - ma non sono venuto qui per dimenticarla?
E credo di essermi addormentato. Per via della sabbia accecante e delle onde particolarmente noiose che lei aveva fatto con tanta astuzia scivolare fino a me. Mi sono addormentato e ho sognato di nuovo Ayalah. Ho sognato del nostro primo incontro dopo la separazione. Di quando avevo preteso che accettasse di incontrarmi perché potessi raccontarle cosa mi aveva fatto il libro di Bruno. Lei aveva ascoltato in silenzio, tutta perfetti circoli di pelle liscia e bruna, e i suoi capelli neri erano tirati con forza sulla sua fronte e raccolti sul cocuzzolo in una piccola crocchia così sexy. Era stata, quella, una delle poche volte in cui non aveva riso delle mie parole e non aveva fatto osservazioni in tono pungente o maligno. Subito avevo intuito che forse in questo modo ci sarei riuscito, e avevo cominciato a lasciarmi trascinare a parlare e parlare. Le raccontavo sempre più di quanto avessi in mente di raccontare. Mi sentivo sempre come se dovessi passare un esame. Ben presto l'espressione di dedizione che aveva sul viso scomparve. Sospirò, si alzò, andò a prendere una bottiglietta di acetone e una di lacca rossa e prese a curarsi le unghie del suo piede grassoccio. Mentre faceva ciò mi chiese di Ruthy e osservò sottovoce che Ruthy "è proprio una santa" visto che ha accettato di riprendermi dopo tutto quello che le avevo fatto (come se lei stessa non ci avesse avuto la sua parte!). Quando si chinò sulle dita dei piedi mi si svelarono i suoi seni, e io giurai a me stesso che non mi sarei avvilito in suppliche. Lei rifiutò, naturalmente, e mi disse di non avvilirmi in suppliche. Con furbizia ripresi a parlare di Bruno, e infatti riuscii a catturare di nuovo i suoi sguardi più dolci. Non solo: riuscii a far sì che le sue palpebre grandi, belle e spirituali, si abbassassero fino a metà dei suoi occhi, e mi piace tanto vederla così. Così lei sembra ancora più misteriosa e lontana. Mi chiese come andavano le cure di Ruth, e io le dissi che c'erano ancora dei problemi e che io rifiutavo di farmi visitare. Ma non parliamone, dissi, è di Bruno che ti voglio parlare. Lei schiuse le persiane degli occhi, mi sorrise con il suo sorriso più odioso, e seppi così subito che non avrebbe risposto affatto a tutte quelle belle cose che le avevo detto su Bruno, ma invece, come al solito, avrebbe detto la sua sul mio modo di vestire ("è di nuovo Ruth a comprarti le camicie"), e sulla mia pettinatura, o mi avrebbe sbottonato con un movimento leggero il colletto della camicia notando che si sentiva soffocare al vedermi così, in piena estate, e in poche parole: avrebbe fatto di tutto per farmi sentire un pidocchio. Invece mi disse di essere sicura che in fondo al cuore io disprezzo (!) Ruth perché non è capace di aver bambini. Naturalmente, questa non era altro che una stupida malignità. È vero che io credo che ognuno di noi è in qualche modo responsabile delle proprie debolezze, e che solo sua è la responsabilità di non saper trovare in sé la forza necessaria per combattere quelle debolezze, e io stesso mi considero come uno che è riuscito a liberarsi per forza di volontà da una biografia del tutto diversa da quella che gli avevano destinato la sua storia privata e la sua educazione, e perfino - decisamente - il suo stesso carattere, certo, e riguardo a quello che aveva detto Ayalah, ora ci sono non pochi studi scientifici che trattano del legame tra il carattere e la forza di volontà del malato e le speranze di guarigione, anche nei problemi di sterilità femminile, ma venire a dire che io disprezzo Ruth - questa era davvero una stupidaggine, una malignità. Ayalah stette ad ascoltarmi pazientemente, e poi disse con una voce dolce, con una melodia innocente: "Debolezza significa sofferenza; e sofferenza richiede partecipazione; e partecipazione significa scoprirsi. Tu sei un artista, Shlomik; un artista dell'arte di estraniarsi e sfuggire. A volte" disse "mi fai paura. Perché i paurosi come te sono capaci di tutto, quando sentono che la loro arte è in pericolo".
D'un tratto seppi cosa dovevo fare per riconquistarla. Riconquistarla con una sola mossa stupefacente e geniale. Senza pensarci su le comunicai che avevo intenzione di seguire le orme di Bruno. Lei sorrise di nuovo, un sorriso pieno di comprensione e mi augurò gentilmente: Buon successo! Non aveva fiducia in me, e perciò la mia decisione si rinforzò ancora di più. Lei si tingeva un'unghia rotondetta dicendomi che la stupiva vedere che avevo incoscientemente scelto di vivere in due livelli di età così diversi: "O sei, a volte, troppo vecchio, o sei troppo infantile. Secondo me tu sfuggi, semplicemente, così, con un'astuzia non cosciente, alla necessità di misurarti con i problemi che comporta la tua vera età". Offeso, dissi: "Una volta ti piaceva, questo mio essere così complesso". E lei: "Non hai idea di quanto mi piacesse. Ne avevo tanta fiducia. E anche in te avevo fiducia, e lo sai".
Le palpebre fremevano sui suoi occhi. C'era in lei un contrasto che non ero mai riuscito a sistemare: nonostante tutto il subbuglio in cui si avvolgeva, nonostante il suo egocentrismo e le nuvole di fumo variopinto che alzava attorno a sé, la sua percezione restava acuta e chiara e affetta da una disperazione profonda. Perfino il suo riso amaro e il suo scherno non erano che una maschera. Quella sera mi raccontò di Walter Benjamin. Benjamin era un filosofo e scrittore ebreo-tedesco. Durante tutta la sua vita aveva amato una sola opera d'arte: il quadro Angelus novus di Paul Klee. L'adorava. Ne aveva scritto. Ne aveva bisogno. Era uno strano sistema di legami stabilitosi tra un uomo e un'opera d'arte. Era riuscito ad acquistare il quadro, e da allora lo portava sempre con sé in tutti i suoi viaggi. Alla rivista da lui fondata aveva messo nome "Angelus novus". "E tra parentesi" disse Ayalah "qualche tempo fa ho visto il quadro in una galleria di Londra, e non sono riuscita a capire cosa lui ci trovasse. Ognuno di noi ha delle chiavi segrete che lo aprono. È bello, no?" Non capivo perché mi raccontasse tutto questo. Ayalah è una collezionista di aneddoti. Di un mucchio di frammenti di nozioni e di dicerie senza importanza. Tutta la sua istruzione è fatta di toppe su toppe di storie così. Non ha mai letto, naturalmente, la Critica della ragion pura, ma potrà dirti con un sorrisetto che Kant portava sempre le giarrettiere sotto i calzoni, e dal tono d'intimità della sua voce l'ascoltatore sarà portato a supporre che lei abbia conosciuto intimamente anche le giarrettiere della dottrina di Kant.
Mi svegliai in preda al panico. Erano già le sei di sera. Avevo dormito sulla spiaggia un'ora intera. Poi mi ricordai del sogno che avevo fatto, e che non era che una precisa ricostruzione di ciò che era successo in realtà. Ayalah mi prendeva sempre in giro e diceva che i miei sogni sono ordinati a puntino come la borsa di un funzionario. È vero, all'infuori dei casi in cui mi vengono incubi, e allora mi faccio proprio schifo - e di quegli incubi non dirò naturalmente mai nulla, né a lei né a nessun altro. Mi alzai tutto arrabbiato e confuso dalla sedia a sdraio e mi tirai indietro spaventato: il mazzo di violette di ieri era posato in un mucchietto di fiori ai miei piedi... e sulla spiaggia c'erano piccole ed umide orme di un'ondina molto svelta...
Buttai lontano l'asciugamano e gli occhiali da sole e il cappello e corsi a gettarmi dentro di lei, e ardevo di collera, ma intanto, e mi è difficile spiegarlo, intanto avevo una strana sensazione, come se anche lei corresse verso di me, e che questo fosse un momento imprevisto di rappacificazione, di perdono, forse anche di affetto, e proprio nel momento meno aspettato, meno logico, come succede sempre, in fondo... quei suoi giochi che faceva con me... mi vuole... mi disprezza... e saltai con forza nell'acqua, e vi battei col ventre, e la picchiai con tutt'e due le mani, e lei mi disse subito sottovoce: non fare il bambino, Neuman, di fiori ce n'ho abbastanza di mio, intere foreste di bellezza e di colori, era davvero stupido da parte tua pensare che così avresti potuto influenzarmi, no, ma un altro regalo me lo puoi fare, e quello sì che potrebbe addolcirmi, chissà, e non essere così avaro: pensa a lui dentro di me, ti prego, lo sai che a me da sola è un po' difficile... un piccolo problema di salute, una cosa passeggera... pensa a lui per me, fallo per me, inventa perfino qualcosa, scrivi perfino una storia che non è mai successa, quello che importa è che tu pensi a lui, che tu lo pensi e tu dica "Bruno", fallo per me, mio caro, fallo per noi due, tesoro mio...
Bene. Ti racconterò. E ti pentirai di avermi chiesto di raccontare.
Ora stai bene a sentire.
Hai parlato del riso che non avevi trovato in lui, e io ti racconterò della paura. Della solitudine a cui il suo carattere e il suo talento l'avevano condannato. La paura dei legami di affetto e di amicizia, e la paura degli abissi che si aprono tra un momento e un altro momento e delle cose che scopriva sulla carta che la sua penna aveva toccato. E come si staccavano dal profondo pezzi di magma da una verità antica, primordiale, che venivano aspirati su, attirati per tutti gli strati della cautela e della protezione, fino alla sua penna magnetica incantata, e allora lui si arrestava e leggeva e si spaventava, perché tutto quello che aveva scritto non era contenuto in lui prima, e così cominciava a intuire che anche lui sarebbe stato un anello che non regge, così, e che attraverso lui si sarebbero infiltrate nel mondo le nostalgie insopportabili, quelle che il cuore umano scoppia dalla pena e dal desiderio quando le sente, e allora il mio Bruno si alzava e camminava su e giù per la stanza, e si scherniva nervosamente, e si diceva che era già stato preso dalla megalomania e aveva perso la facoltà di distinguere tra la propria vita e le proprie storie, e che era più ragionevole supporre che attraverso uno come lui, un niedolega, un buonannulla come lui, si infiltrassero nel mondo, invece, proprio le essenze pure e astratte degli sbagli ridicoli e delle confusioni e del grottesco - -
Ma sapeva, ed era terrorizzato. E perciò era portato ogni volta a commettere frodi: si avvicinava a persone, scriveva lettere sentimentali (ai cui sentimenti quasi credeva lui stesso), parlava con certa gente con una disinvoltura artificiale e finta, dando loro del tu (dar loro del tu per iscritto non osava quasi mai: forse perché per iscritto non permetteva a se stesso di mentire). Accettava di parlare in pubblico, a volte lasciava perfino che lo trascinassero a partecipare alle loro feste, e sorrideva tanto confuso, e lasciava che provassero a ubriacarlo, solo per non deluderli, e perfino gli riusciva di ridacchiare com'era d'obbligo quando gli battevano cordialmente sulla magra spalla, e assumeva sul viso ironico un'espressione di attenzione quando gli spiegavano, per loro esperienza, che per conoscere cos'è la disperazione ("La disperazione!" gli urlavano negli orecchi, e si mettevano la mano sul cuore in una mossa che lui non aveva mai trovato necessaria, perché anche senza quella mossa ricordava dove stava il cuore), e per "scrivere per davvero, come un vero scrittore" doveva suicidarsi-un-po' e impazzire-a-poco-a-poco, e anche nella vita di tutti i giorni, Pan Schulz, bisogna uscire dal cerchio della solitudine e sentire le "ombre dell'umanità", il "dolore del mondo", e cioè il "Weltschmerz", e non fare l'eremita così. E lui, senti? lui aveva provato, con tutte le sue forze, di convincersi, davvero aveva cercato con tutta la migliore volontà di godere i rari momenti di quella disperazione di cui parlavano tanto, di quella disperazione spiegazzata dal troppo uso e così piena zeppa; aveva cercato di innalzarsi fino a lei dal buio nel quale era immerso, solo per sfuggire per qualche istante a quella paura fredda e viscida come un'anguilla che gli si attorcigliava attorno come una sciarpa umida quando guardava le cose che aveva scritto, o quando pensava a cosa gli preparava il futuro. Ma il mio Bruno non era capace, no, per via di un difetto congenito e per via della sua onestà non era capace di un suicidio-a-capitale-limitato e di una pazzia-a-poco-a-poco, e non sapeva diluire la sua solitudine in altri esseri umani, perché sapeva bene che gli altri non potevano offrirgli un rifugio dai pericoli a cui era lui stesso condannato, e sapeva che c'era una strada per cui doveva andare: restare a lungo con se stesso, sedere qui sulla sua sedia e abbandonare se stesso alla propria lucidità tagliente come una lama e ai due grandi proiettori che cercavano di incrociare i loro fasci di luce sulla sua fronte - i due fasci di luce: e cioè la nostalgia e la disperazione - e incidervi il segno-di-Caino-umano che condanna a vagabondare senza posa; e sapeva anche che solo quando era seduto in solitudine nella sua stanzetta così nuda, accanto alla sua tavola nuda, e scriveva in quaderni da scolaro solo allora poteva sentire come il suo corpo si tendeva tutto pian piano, come veniva incatenato alle ruote del supplizio di un'Inquisizione la cui crudeltà e il cui piacere erano inauditi, fino a che le sue ossa e la sua carne si facevano schiacciate e lunghe e affilate, fino a che ogni pezzetto della sua carne si diluiva interamente in una misura di lontananza e di sogno, e solo allora, quando era divenuto una membrana trasparente e palpitante, solo allora poteva sentire di nuovo il battere del grande tamburo teso negli abissi di fronte a lui, e lo scomporsi febbrile e disperato di lingue selvagge e di grammatiche marcite, perché già allora non c'era più nessuno al mondo che sapesse e potesse farne uso, e la penna di Bruno correva allora come impazzita a tratteggiare i disegni frettolosi che questo mondo segreto gettava sulla cartapecora del suo corpo, e ad appiccicarli a ciò che era concreto e visibile, e così si strappavano da dentro Bruno le sue storie, le sue nostalgie e le sue elegie sui paradisi terrestri dai quali siamo stati esiliati qui, in questo mondo congelato e finito, questo mondo di seconda mano, questo mondo di scienze esatte e di lingue ordinate e di tempo ammaestrato negli orologi, guardalo mentre è chino sul suo tavolo con le labbra morse tra i denti e il mento così affilato, e scrive con slancio e con violenza e con passione e con oblio, proprio come ha scritto in te con il suo audace e folle viaggio. Guardalo, mentre incrocia la penna in schermaglie contro visioni ramificate e selvagge la cui forma non si è ancora del tutto compiuta, e scongiura le ere geniali che ritornino e gli appaiano di nuovo sia pure per un breve attimo, e per tutto questo tempo deve stare molto attento a che la sua penna non perfori la membrana che è così fine e tutto non penetri dentro e turbini e faccia perdere - sì, faccia perdere, perché questo mondo non è pronto a ricevere ciò che lampeggia oltre Bruno: qui la vita si è coagulata nei corpi degli uomini, come una lava che è fuoriuscita e subito si è raffreddata. E solo alla fine di quella sua strada, quando era già dentro di te, e aveva forata e tagliata e scritta in te, con una danza capronesca e sfrenata, l'ultima storia, la sua storia scomparsa, Il Messia, e dato che siamo già giunti, per caso, solo per caso, a quella certa storia, forse sarà meglio che io faccia, ora, e lasci che sia tu a parlare di lui, solo un accenno o due, non di più...
- e invece no. Invece ti racconterò del turag di Guruk.
- Guruk? Chi è Guruk? Non voglio sentir nulla di Guruk! Voglio sentire dell'epoca geniale! Del Messia voglio sentire! Ora! Subito!
- Basta! Sta' zitto!
E dopo un po':
- Sei così ottuso, in tutto... così scemo. Ora mi hai raccontato cose così dure. Cose così vere. Non smetto di chiedermi com'è possibile che tu riesca a capirlo così. Ti odio perché sei capace di intuirlo così. Lo so come fai: guardi te stesso e dici il contrario. Tu - -
- Basta.
- Non basta! Ora parlerò io, perché anche tu parli in modo spietato. Devi sempre dire tutto, tu! Devi sempre sapere tutto! Mi fai male da morire. Sei così cattivo e giusto. E io ti dirò una cosa: quando lui venne in me e io lo leccavo, scoprii che era già tutto a pezzi. Un mucchio di esseri estranei, Neuman, di esseri estranei, cattivi e minuscoli, nuotavano in lui come nei compartimenti di una nave affondata...
Ma lui c'era riuscito? C'era riuscito, alla fine?
- Lo giuro! Ma perché di tutti quelli che amano Bruno dovevo incontrare proprio te?! Ora stattene lì disteso e non muoverti, non dire una parola! Dei successi vuoi sentire? Ti racconterò dei successi. Sta' lì disteso per benino. Non muoverti così di continuo! A giudicare dal tuo modo di nuotare, caro mio, sono pronta a giurare che neanche ballare sai, ho ragione o no?
- Godi ad avvilirmi così, vero?
- Ah, che gusto c'è. A chi serve. Solo che tutt'a un tratto mi sono così incollerita. Quelle cose che mi hai raccontato...
- Lui non era fatto per te.
- Per tutte le saette di Nettuno! E tu, pezzo di carogna che se - -
- Era adatto solo a se stesso. Non arrabbiarti. Fa male anche a me, esattamente come a te. Per altre ragioni, forse, ma fa lo stesso male. Ora raccontami di lui, ti prego. Raccontami tutto quello che vuoi. Ma racconta.
- Quietati, una buona volta. Quietati e lasciami pensare in pace. Il turag di Guruk, dicevi...
F
...vicino alle Isole Shetland, nel Mare del Nord, il branco si era spaventato terribilmente. Il mio Bruno se n'era accorto in ritardo, perché quando dormiva gli era sempre difficile accordarsi al ning (e il ning non gli era cosa facile subito fin dal principio, nonostante quello che hai scritto, Neuman, perché per tutta la vita che aveva passato fuori di me Bruno era stato occupato soprattutto a non sentire ninghi, allora - per tua norma, va bene?), ma in quel momento era stato sbattuto all'improvviso, all'improvviso era stato rivoltato e inghiottì acqua, tanta acqua, e si risvegliò così, sputando e urlando urla ter-ri-bi-li, scalciando con le mani e coi piedi - ah, scusa.
Ho chiesto scusa, no? Di nuovo: scusa, Neuman. Molto semplicemente mi sono commossa al punto di non ricordare più che sei qui da me. Non succederà più. Lo prometto. Sì, la puoi risputare dentro di me, mio caro, così... è molto salata?... e anche un po' freddina, non è vero?
Cosa si stava dicendo? Ah, del Mare del Nord. Ed era notte, e c'era una luna spezzata nell'acqua, e Bruno aveva cercato subito le sagome di Yurik e di Napoleone (un'altra delle tue idee cretine, carino mio: Bruno non si sarebbe mai sognato di dar dei nomi ai pesci! Nemmeno a Lefrik!) e Yurik (haha!) era proprio al suo posto fisso, dalla parte del mare, ma Napoleone (ehi!), che nuotava sempre dalla parte della costa, era scomparso, e Bruno si era spaurito, sì, sentivo la sua paura fluire fino ai miei golfi più stretti, e devi cercare di capirlo, Neuman, perché dopo un'eternità e mezzo che nuotava tra quei due, aveva avuto tutt'a un tratto l'impressione che la parte costiera del suo corpo gli fosse stata semplicemente strappata, e che la vita si svuotasse da lui rapidamente e scorresse verso la riva, verso i pesci estranei che nuotavano lì, che anche se lui aveva navigato con loro per mezzo mondo all'incirca, quasi non li conosceva!
E in quel momento, senti, in quel momento erano cominciate a passare in lui strane correnti, scosse ma di quelle! e bruciori e tremiti di caldo-e-freddo, e voleva un mucchio di cose a un tempo, restare qui e scappare, affondare e volare, e ogni mano e ogni piede gli cominciavano tutt'a un tratto a nuotare in direzioni diverse, e ne era quasi stracciato, e ti prego di non dimenticare l'infiammazione tremenda che lui c'aveva nelle costole già da qualche mese, che lo faceva sentire sempre un po' confuso e caldo, e questa era tutta colpa mia, anche se non è ancora venuto il momento di dirtelo, e Bruno guardò verso la parte del mare e vide che tutto il branco era confuso come lui, e che mille e mille pesci si strappavano e si riunivano insieme lì paurosamente e selvaggiamente, e gli occhi di tutti sporgevano e le sagome luccicavano, sei capace di immaginarti com'è una cosa così? E il mio Bruno si costrinse a calmarsi. Era quasi l'unico che avesse ancora la forza di dominarsi un momento e di ascoltare, e subito aveva scoperto che il grande ning era svanito, e allora Bruno s'era tutto contratto, mamma mia! come s'era contratto! e con tutta la sua forza aveva ascoltato, con accoramento supplicante e con disperazione aveva ascoltato, e solo allora riuscì a individuare a una grande distanza, all'altro capo del branco dalla parte del mare, il tambureggiare di Lefrik, che era già tremendamente fievole.
Ma non aveva nemmeno fatto a tempo a respirare con sollievo perché Lefrik era ancora vivo, il mio povero Bruno, perché il suo corpo aveva cominciato a gridargli tutta un'altra cosa, completamente diversa: un muscolo nuovo e forte aveva cominciato a tendersi lungo tutto il branco, e Bruno sentiva in sé un mucchio di voci e di echi che non capiva, un tambureggiare nuovo, e allora Bruno chiuse gli occhi e ascoltò con tutti i suoi pori, e quella voce veniva da dietro, dalla parte del mare, un sussurrio così e una contrazione e un dolore ter-ri-bi-le, come - come spiegartelo perché tu lo capisca bene - era come se ti facessero un'operazione Suez o un taglio di Panama e ti squarciassero quanto sei lungo senza anestesia e senza pietà, e quei poveri salmoni avevano cominciato a torcersi e a combattere, erano sicuri che i pescatori islandesi fossero tornati con le loro schifose reti, quelle reti che c'hanno tre ami ricurvi per ogni quadratino di foro, e ti giuro che ho visto come alcuni di quei pesci sono semplicemente scoppiati - pak! - dalla paura e dallo sforzo, questa volta ero come impazzita, e puoi indovinare da te per cosa e per chi ero preoccupata, e vidi che perfino gli scogli lontani delle Piccole Shetland luccicavano tremendamente, e c'era in aria una sensazione come se tutto il mondo respirasse affannosamente e sudasse, e Bruno fu trascinato velocemente dalla parte del mare, senza che potesse o volesse opporre resistenza, e Guruk Guruk si torcevano le spaventate anguille della penombra, e Guruk Guruk frusciavano i ricci di mare con i loro aculei aguzzi, e in quella tenebra quello lì si era acceso lungo tutti i cieli e anche lungo tutta me, quel filo rosso e ardente di un nuovo ning, e d'un colpo tutto si era fatto chiaro.
Perché un pesce molto grosso era volato via dalla punta davanti del branco, e si era messo dalla parte del mare, e lì mormorava l'acqua, lì palpitava, e il mio Bruno aveva subito sentito dalla parte del mare, sotto la sua spalluccia così carina, dov'era precisamente che ardeva quel Guruk nel branco, ed era stato allora che l'aveva visto per la prima volta, ed era un pesce grande quasi come Lefrik, ma più giovane di lui di un'intera migrazione, e le fauci le teneva spalancate come se stesse per dare battaglia, e le mie ondine si svegliarono finalmente dalla confusione che le aveva prese e corsero da me e mi stettero attorno e mi toccarono e tutt'a un tratto scapparono via da me gridando: scappa via più presto che puoi, Signora, che quello lì c'ha addosso un caldo così da proprio non crederci affatto e di uno così se ne potrebbe fare una stufa per un'altra Corrente del Golfo, Signora, e intorno, intorno a quel Guruk, tutto il branco si rivoltava e saltava come su una padella bollente, e sopra di noi volavano quegli uccelli acquatici che gli scienziati li chiamano Charadrius che aprivano forte forte i becchi arancioni che loro c'hanno ma nessun suono ne usciva, e conchiglie gigantesche si chiudevano con tale forza che alcune si fecero a pezzi semplicemente così, e il mio Bruno guardava Guruk e vedeva il disegno preciso di quel torrentello piccino nel fiume Spey che stava in rilievo come le vene sul corpo luccicante e muscoloso di Guruk, e ti giuro sulla mia testa che anch'io lo vedevo, certe cose così succedono a volte, specialmente se si vuole molto che succedano, e tutto il branco era attratto a seguire Guruk come se svenisse o qualcosa così, e lui si riempiva di forza e di audacia come una balena assassina (o come la chiamano? un'orca), e saltò dall'acqua e volò sopra tutti noi, e si tuffò e scomparve e riapparve da tutta un'altra direzione, e così si cuciva addosso il branco col suo filo forte e teso, e il suo corpo allora si era fatto scintillante come una nuova stella, e la testa già gli si staccava dal collo, e indicò in direzione delle isolette delle Shetland che erano più vicine, e il mio Bruno sentì all'improvviso quant'era obbligato ad arrivare fin là, e seppe con precisione che lì c'era il posto migliore del mondo, e ora odiò Lefrik che li aveva portati tanto tempo per una strada troppo lunga, come se avesse voluto affaticarli apposta o giù di lì, ma non era così chiaro, ora, che bisognava far presto, che bisognava prendere quante più scorciatoie possibile, perché la vita è così breve, e non si deve aspettare nemmeno un momento, perché Guruk chiama tutti - -
E cominciò il vero turag. Non come succede a volte durante la gheyoah, quando dei pesci litigano fra loro per il mangiare, e nemmeno come succede quando si incontrano due branchi nemici. No. Questo era un turag del tutto folle. I salmoni mordevano tutto quello che si trovava a passare davanti ai loro denti, e c'erano di quelli che mordevano anche se stessi senza pietà, perché credevano che fosse quello che Guruk voleva da loro e io mi riempii subito di pezzi di pesci stracciati, di branchie e di pinne e di occhi, e i pesci volavano in aria con tale entusiasmo, come se sognassero di stare già saltando contro corrente nelle grandi cascate del fiume Spey, s-ì, tutto era pieno del rumore di pinne e di fauci e di cadute in acqua, e Bruno urlava con una voce strana, alta e roca: "Insieme insieme" gridava, ah, era tutto una sola grande contrazione di muscoli, e i suoi occhi - avresti dovuto vederli! erano rossi e iniettati di sangue e sporgevano come gli occhi-a-telescopio di quei pesci che stanno nei miei abissi più neri, e il suo tubicino era eretto e duro come la corazza che c'hanno in testa gli scorpioni di mare, e perfino il proprio nome aveva dimenticato in quel momento, ed era sicuro che il nome giusto fosse Guruk, sì, se davvero deve chiedermi scusa di qualcosa, è solo di quei momenti, quand'era diventato un guscio pieno di sangue e di odio, e io m'ero spaventata davvero, e lo chiamavo a voce alta dentro di me Bruno Bruno, ma lui non sentiva, solo guardava e all'improvviso vide il pesce che lui chiamava Yurik, va bene, che sia, ed era quello Yurik che era un po' più piccolo e debole degli altri pesci, e non riesco a capire come fosse riuscito ad arrivare con loro fin lì, e tu la puoi capire una cosa così? d'un tratto, ma proprio d'un tratto, Bruno non poté più soffrire Yurik, gli urlava dietro dall'odio, a denti stretti, non poté più sopportare quell'offesa all'entusiasmo che aveva fatto gonfiare tutti lì e li aveva fatti forti e belli e assolutamente perfetti (almeno loro credevano così), e io non feci neppure a tempo a vedere chi e cosa, e lui già gli era saltato addosso con un ruggito, a bocca aperta e piena di denti, e che fortuna, davvero, che fortuna che in quel momento proprio per caso fosse venuta un'ondata gigantesca, un'onda fredda e salata in modo speciale, che era stata serbata nelle cantine più profonde, e l'avesse picchiato proprio in faccia, ma non troppo forte, certo, perché aveva avuto istruzioni precise, e l'avesse buttato indietro, lontano lontano da Yurik, e solo allora Bruno s'era scosso come se si fosse tutt'a un tratto ricordato di qualcosa che aveva dimenticato, e s'era messo le mani sugli occhi e se li era presi e rimessi dentro le orbite e dentro la faccia, e già era venuta da me un'ondina piccina e svelta, una di quelle che ti puoi fidare che sarà sempre la prima a portarti la notizia più importante, e poi - se c'è qualche impresa particolarmente delicata, come per esempio restituire a qualcuno un mazzetto di viole, allora quella è proprio l'onda adatta, ed era proprio quella lì che era venuta a comunicarmi per prima che Bruno s'era già calmato, che i muscoli già non gli tremavano più, e infatti qualche minuto dopo aveva cominciato a nuotare da umano in direzione di Yurik, e così vide che il pesciolino galleggiava sull'acqua come morto e fu sicuro che quello era già bell'e andato, che aveva trovato chi lo finisse, e chi poi, proprio Bruno! e Bruno aveva nuotato in faccia a Yurik e io, che ero ancora un po' preoccupata, avevo già cominciato a mandare da lontano un'onda fredda e particolarmente salata, per ogni evenienza, ma davvero non ce n'era bisogno, perché Bruno si teneva di fronte a Yurik e con la bocca faceva apri-e-chiudi per far vedere al pesciolino che non aveva da temere più nulla, e il cuore gli si gonfiava di nuovo di pietà (e io colgo l'occasione per chieder scusa qui agli isolani delle Shetland per quel maremoto improvviso con cui li ho inondati: in quel momento proprio non ho potuto più contenermi). E così se ne stavano uno in faccia all'altro, e sopra di loro il cielo era tutto pieno di pesci che volavano, che le teste gli s'erano già quasi staccate dal corpo e indicavano in direzione delle isole, e il mio Bruno ora immerse la faccia in me, e guardò ad occhi aperti, e vide una carovana di pesci-elettrici piccini che passavano piano sotto di lui e illuminavano l'acqua con una luce tranquilla e celeste e pallida, ma che fortuna, io penso ora, ma che fortuna è stata che per pura combinazione avevo programmato di farli passare di lì proprio in quel momento, e tenendo la testa così dentro l'acqua Bruno ricominciò a sentire forte e chiara la voce di Lefrik, e cominciò a calmarsi completamente e a respirare pian piano, e il segno migliore che era ritornato in sé era che di nuovo sentiva quel dolore dell'infiammazione dalle due parti del corpo, sopra le costole, e ora pinnava con le palme delle mani verso la parte della costa, e anche Yurik pinnava con lui, e così, in quell'inferno che si scatenava lì, quei due avevano cominciato fra loro a sistemare un dolgan giusto, e qualche minuto dopo anche altri pesci avevano cominciato a rimettersi in ordine, e Bruno vide che il pesce che lui chiamava Napoleone non era tornato, e al suo posto era venuto un altro pesce a nuotare accanto a lui dalla parte della costa, e fammi il santo piacere di non dare a questo pesce qui nessun nome, sei troppo influenzato da tutto un mucchio di storie di animali e bestie, e altri pesci cominciarono a ritornare dal buio, e molti di loro avevano un aspetto orribile: avevano il viso pieno di sangue e tutto storto, e così se ne stavano tutti lì in silenzio, e pinnavano calmandosi e aspettando che il grande ning si organizzasse fra loro, e sentivano che il ning aveva preso una posizione un po' diversa, un po' più da una parte, per così dire, perché quasi un quarto del branco s'era separato per galoppare con Guruk, ma forse proprio per questo Lefrik s'era rafforzato di più fra quelli che erano restati. Lo sentivano nell'acqua e nel proprio sangue e in ogni branchia e in ogni scaglia, e io ascoltavo con loro e respirai profondamente ed ero così attenta a loro che feci per sbaglio una bassa marea sulla costa spagnola, e non me ne avvidi per nulla, fino a che la luna spezzata lì sopra non si fece tutta rossa (la verità è che la luna fa sempre metà di questo lavoro; perché io non sono capace di fare due cose a un tempo), ma non avevo pazienza di stare a sentire i mormoramenti arrabbiati della vecchia albina, perché ero terribilmente tesa per il dono che avevo fatto a Bruno, e credimi, Neuman, che se avesse toccato Yurik solo col dito mignolo, quel regalo lui non l'avrebbe avuto da me mai e poi mai, e avresti dovuto vedere come il piccolo Yurik aveva dimenticato così all'improvviso il dolgan, e aveva aggirato Bruno e gli s'era messo davanti e cominciò un apri-e-chiudi con una tale velocità (era così ridicolo, tanto che di nuovo non potei più contenermi, e allora - mi scusi, eh? - mi sono fatto la pipì addosso), e Bruno faceva anche lui apri-e-chiudi con Yurik, ma non capiva cosa volesse da lui il pesce, perché l'apri-e-chiudi è per loro un segno di tante cose, una specie di lingua povera così c'hanno i salmoni, e vattelapesca cosa vogliono, chi ce la fa a capirli, ma Yurik non volle tornare al posto di prima, e restò piantato lì di fronte a Bruno e incominciò anche a saltare su e giù nell'acqua, e nuotò perfino all'indietro quando il branco cominciò a muoversi, e solo allora, quando il mio Bruno sentì all'improvviso che lui stesso si muoveva avanti in acqua più presto di prima, allora gli si fece tutto chiaro, e si voltò sulla schiena e guardò, e aprì la bocca dalla stupefazione, e tu puoi solo farti una pallida idea di quanto era felice...
- E anch'io sarò contento se me lo dirai. Io non so leggere il pensiero come sai fare tu, e io non ho ondine spioncine. Cosa aveva visto lì, Bruno?
- Non hai capito? Davvero non hai capito? Haha! Ma te lo dirò io. Che tu lo sappia. Che tu non pensi che ti nascondo qualcosa. Sta' a sentire: lì, dalle due parti delle costole, si muovevano due pinne laterali piccine e perfette che solo in quel momento gli erano spuntate fuori. Sulla mia testa, era davvero il lavoro più bello che avevo fatto da quando avevo imparato a fare vortici d'acqua: due pinne palpitavano attorno a lui nell'acqua come farfalle marine, e sventagliavano su Bruno una felicità della quale non aveva mai conosciuto l'eguale... era tanto... hic! scusa, ma... tanto... contento... scusa... mi eccito di nuovo... hups!
A tarda notte mi riportò a riva. Secondo il mio orologio (un orologio a prova d'acqua, che non mi tolgo mai) avevo passato tre ore custodito e protetto in un piccolo nido d'acqua in mezzo a una tempesta feroce e improvvisa che s'era scatenata in tutta la zona. Infatti, lei era molto eccitata quella sera; tornava a godere, ricordando come Bruno aveva imparato a servirsi delle pinne e a trovare con il loro aiuto la strada, come un neonato impara a servirsi delle mani e dei piedi. Di nuovo sentiva la vita palpitare in lui con foga. Una sensazione simile l'aveva provata solo quando aveva guardato l'opera d'arte dei delfini. Da allora Bruno non si separò più da Yurik nemmeno nell'ora della gheyoah. Aveva bisogno di sentirselo sempre vicino. E lei aveva parlato e parlato. Il ricordarsi la rendeva felice ed eccitata, ma anche tanto dolce. Gli orli della sua spuma splendevano, e io ero di nuovo solo lo straniero che riceve le bucce e le briciole. Lo scudiero di un grande amore, lo scriba che annota ciò che succede all'amante.
Sì, ti arrabbi di nuovo con me. Ti riempi di scherno per questo piagnisteo. Guarda i poveri pescatori di Tel Aviv che stanno in cima al frangionde: i loro secchi sono restati vuoti fin dall'inizio di questa sera. Tu rubi le esche infilate in cima alle loro lenze e leghi insieme i loro ami. Riconosco il tuo stile. Questo beffeggiare infantile. Loro non capiscono, naturalmente. Loro si stupiscono e vanno in collera. Li vedo che si guardano l'un l'altro stupiti, sento i frammenti delle loro imprecazioni che il vento porta fino a me. Molti di loro hanno già lasciato ogni speranza e se ne sono andati. Ma quelli che sono restati buttano in te i loro ami con un'ostinazione crescente, come se volessero sfidarti. Gettano sguardi di qua e di là, da ogni parte, come a cercare il colpevole: forse, la luna? forse il frastuono degli aeroplani che passano? Ora mi guardano. Non sanno che è per colpa mia che li affligge questa tempesta...
Ascolta. Ancora non sai quello che ho passato quella notte, la notte delle pinne - -
Sulla spiaggia di Narwia mi aspettavano la vedova Dabrowski e la guardia municipale - del villaggio, cioè. La guardia teneva in alto, sulle braccia muscolose, la bicicletta, e la vedova faceva girare in aria i pedali per fare un po' di luce nel fanale. Illuminavano così il mare in tempesta e mi chiamavano per nome, in tutte le direzioni. Quando apparii all'improvviso, bagnato ed eccitato, dalla tempesta, si spaventarono e si fecero il segno della croce, e subito presero a sgridarmi per aver dato loro tanta pena. Detti ad ognuno di loro cinque zloty e li pregai di lasciarmi in pace. Se ne andarono, e io me ne stetti per un po' seduto sulla sabbia (a granelli grossi, così è lì la spiaggia), nel vento freddo, con la testa fra le mani. Ero vuoto e vinto. Ora capivo quant'era grande la distanza che mi separava da un vero coraggio, da un vero talento. Che mi separava dalle decisioni più audaci. Mi rivestii stancamente e mi trascinai fino alla casetta. La vedova Dabrowski mi servì il pesce e le patate che nel frattempo si erano freddati, brontolando continuamente. Guardai il pesce, e per la prima volta da quando ero a Narwia respinsi il piatto. Poi, in salotto, alla luce di una puzzolente lampada a petrolio (di nuovo un'interruzione di corrente), annotai brevemente quello che mi avevi ancora detto. Prima che apparissero i chiarori dell'alba il branco aveva già saputo cos'era successo a quelli che erano andati con Guruk. Mentre ancora i restanti nuotavano con Lefrik, dormendo, si erano scossi tutti come se dentro di loro si fossero strappati muscoli e tendini. All'estremo orizzonte, a oriente, lo sciame che s'era separato sbatteva in quel momento contro gli scogli delle Isole Shetland. Il branco di Bruno si arrestò di colpo, stette lì in silenzio sentendo con i suoi mille sensi quello che succedeva laggiù lontano. D'un tratto si torsero tutti. Fili di sangue s'infiltrarono nelle acque lontane. Bruno guardò Yurik con la coda dell'occhio. In cuor suo lo ringraziava di nuovo di essere quello che era. Lo ringraziava del suo soffrire la propria diversità che gli era come una gobba che gli aveva impedito di passare per quel pertugio per cui tutti erano passati.
Al sorgere del sole le onde erano disseminate di migliaia di carogne di pesci che venivano trascinate dalla corrente verso sud e verso ovest. Il loro odore era più forte del solito, e il loro aspetto era molto diverso. Il branco vi passò in mezzo, nuotando. Da lontano si vedevano piccole imbarcazioni da pesca provenienti dalle isole. Bruno non sentiva alcun dolore pensando a quei morti. Tutto il suo dolore doveva essere dedicato a Yurik, o a uno o due altri pesci che conosceva lì nella massa. Pinnò con foga con le sue nuove pinne. Ne era orgoglioso come un ragazzo è orgoglioso dei suoi primi baffi. Confusamente sentiva che quelle pinne se le era meritate: che per un attimo era stato degno della vita che cercava, e così era riuscito a liberarsi della continua sensazione di essere un vinto.
G
E ancora non parli. Ancora mi ignori del tutto, anche se so bene che sei qui, di fronte al frangionde, e ascolti ogni parola che dico. Io parlo a te perché non ho a chi parlare. Ruth e Yariv sono a Gerusalemme, e io devo assolutamente allontanarmi un po' da loro ogni pochi giorni, allontanarmi da tutt'e due, fino a che non avrò finito di mettere a posto le cose tra me e me stesso. E forse non finirò mai. Ci sono dei tipi fatti così. Non avevo mai creduto di essere uno di loro. Qui da me tutto mi pare chiaro e previsto. Ho sempre creduto che si possa prevedere come si comporterà un uomo x trovandosi in uno stato y, se solo siano a nostra disposizione le necessarie cognizioni sull'uomo e su quel particolare stato. E quando ero piccolo sapevo queste cose con esattezza. Ma sono cresciuto e tutto si è sciupato. Tutto si è fatto imprevisto e così pericoloso. E non si può mai sapere da chi bisogna guardarsi: sei tradito, all'improvviso, perfino da dentro di te.
Anche con Ayalah non posso più parlare. Ora sta con un musicista, in una strada qui vicino, e io non posso farmi vivo con lei dopo quel delitto che ho commesso contro l'umanità, dopo quel mio genocidio - così lei definisce quella mia storia cretina con Kasik. C'è un solo modo, dice lei e la faccia le si contrae dal ribrezzo, c'è un solo modo di espiare una simile colpa: scrivere un'altra storia. Una storia espiatoria. E fino ad allora - ti prego, non far vedere qui la tua brutta faccia.
E tu non rispondi. Le luci sulla nuova Passeggiata a Mare già cominciano a spegnersi. Nei ristoranti sul lungomare rovesciano le seggiole. Tel Aviv, fine del 1984. Io sto sul frangionde. Solo tre pescatori sono ancora qui. Gli altri si sono scoraggiati e sono andati a casa. E tu sei tutta buia e ti muovi senza posa. Sei tesa ed eccitata. Ti sento. Di fronte a te la città si rattrappisce per un improvviso terrore. E d'un tratto diventa chiaro, in un modo che quasi offende, che la città è solo un'isola che non ha osato essere un'isola.
Mi è nato un bambino. Dieci mesi dopo che sono tornato da Narwia mi è nato un bambino. Proprio quando Ruth aveva smesso tutti gli sforzi e le cure, le era successo questo miracolo. L'abbiamo chiamato Yariv. Un nome che avevo sempre voluto. Un nome così israeliano. E ho cercato di essere un buon padre. Davvero ho cercato. Ma sapevo in anticipo che non ci sarei riuscito. Avevo sempre saputo che il rapporto tra genitori e figli è una cosa difficile, ma non sapevo quanto fosse difficile. I figli ti assomigliano sempre troppo o troppo poco. E il peso delle aspettative - che il figlio mi assomigli. No, certo che no: che assomigli a Ruth. Tutto il contrario di me. Che sia sano e semplice e viva schiettamente e sia forte. Ma lui mi ha sorpreso completamente: non assomiglia a nessuno di noi due. E se ha ereditato qualcosa da Ruth - solo le cose brutte ha preso da lei. È un bambino tanto lento da preoccuparsene. Troppo grasso, e con un'espressione imbambolata e spaurita. Quando si trova con altri bambini è così inerme. Come un grasso piccione tra svelti passerotti. Solo con me sa essere ostinato e far l'eroe. Dapprincipio il bambino era diverso. Qualcosa, strada facendo, s'è rotto in lui. Lo osservo ora mentre gioca da solo in un angolo dell'asilo-nido, e mi viene voglia di urlare. Già ora lo vedo come sarà di qui a trent'anni: un omone incerto, esitante, con quell'espressione un po' offesa che hanno sempre gli uomini molto grassi, se ne sta confuso e inerme tra i suoi compagni dell'asilo. Ruth ride quando le confido i miei timori. Sta passando un periodo difficile, dice lei, è un bambino splendido. Tra sei mesi non lo riconoscerai più. Si abituerà ad andare all'asilo, ai bambini, e anche se poi resterà così, un bimbo solitario e senza amici, io credo che gli vorrò bene, perché non devi dimenticarlo: sono proprio questi gli uomini che mi piacciono. Ha - ha. Ma è obbligata anche a confessare che il carattere del bimbo ha dei tratti spiacevoli. Che è iroso ed esigente e pieno di paure. Quando scrivevo in casa mi si arrampicava addosso e non mi lasciava scrivere una parola. "Lo sai cosa scrive il babbo?" gli chiedeva Ruth - tutto il santo giorno si affannava per dividerci - e lui, con quel suo egocentrismo infantile che metteva i nervi: "Babbo scrive Yariv". Una cosa simpatica a dirsi come barzelletta, ma io so che avrebbe voluto davvero che tutto il giorno non facessi altro che battere sui tasti il suo riverito nome. E Ruth sentiva e rideva e diceva: cerca di comportarti da adulto, Momik. E non buttarti addosso a lui con tutto il peso della tua forza. Nonostante tutto fra voi c'è una differenza d'età, un anno o due. E allora cominciava la solita discussione, e io le dicevo che non era affatto una questione d'età. Che bisognava educarlo fin da ora a fare la guerra. Una volta, prima che lui nascesse, le avevo detto che se ci fosse nato un bambino, la prima cosa che avrei fatto ogni mattina sarebbe stata di andare a dargli uno schiaffo. Così. Che sapesse che nel mondo non c'è giustizia. Che c'è solo guerra. Le dissi questo quando avevamo appena cominciato a vederci. Quando avevamo sedici anni. Poi erano venuti anni in cui avevo pensato che quella era un'idea infantile e idiota, ma quando Yariv era nato avevo sentito d'un tratto che l'idea non era poi così idiota. Ruth aveva detto: e allora verrà un giorno in cui ti restituirà lo schiaffo, e come ti sentirai in quel momento? Avevo risposto: mi sentirò benissimo. Sentirò che ho preparato mio figlio a vivere. E lei: ma forse lui non ti vorrà tanto bene. Voler bene? avevo detto io e avevo ridacchiato malignamente; preferisco un figlio vivo a un figlio che mi voglia bene. E lei: a volte ci sono alcune sfumature intermedie tra uno vivo e uno che vuol bene. Tu ti vendichi su di lui di tutto ciò che non hai avuto a casa tua, Momik. E questa frase maligna, che in nessunissimo modo lei avrebbe dovuto dirmela, mi faceva perdere il lume degli occhi, perché a casa mia avevo avuto in dono proprio la sapienza di come sopravvivere in tutte le situazioni e in tutti i frangenti, e questa è la sapienza che conta di più e non l'insegnano a scuola, e non la si può nemmeno enunciare con le belle e sdrucciolevoli parole con le quali avevano educato Ruthy i suoi genitori così colti e aperti e illuminati che mai avevano saputo nemmeno cosa fosse un pericolo, e quella è una sapienza che si trasmette soltanto in silenzi, in contrazioni dubitose di code dell'occhio e di angoli della bocca. C'è un materiale concentrato che scorre nell'ombelico e si decifra pian piano, durante diecine d'anni di vita: una pagina che è sempre nella riga centrale dello scritto. Non svelare più di quanto sei obbligato. Ricorda che le cose sono sempre diverse da quel che sembra. Guardati perfino dall'essere troppo felice. Non dire "io" con tanta libertà. E in generale: cerca di uscire sempre sano e salvo da ogni circostanza. Senza inutili cicatrici. Più di questo non puoi sperare.
Di sera. Yariv dorme già e io vengo a guardarlo. È disteso sulla schiena. Qualcosa di morbido si arrampica su per la mia schiena. "Anche tu senti un formicolio?" domanda Ruth, sottovoce, e la sua faccia si spande nella stanza, godendo. Voglio dirle una buona parola, che la rallegri, che le dimostri che nonostante tutto le voglio bene. Ma la gola mi si chiude subito. "È bene che lui possa dormire anche col rumore" dico alla fine: "forse un giorno dovrà dormire mentre i carri armati passano nelle strade. O camminando, in una lunga fila, nella neve. O in baracche piene zeppe, con altre diecine di esseri come lui pigiati sul medesimo giaciglio di legno. Forse in -" "Basta" dice Ruth e va via.
Lo scruto sempre. È più alto e robusto degli altri bambini della sua età, e questa è una cosa buona, ma ha paura dei compagni, ha paura di tutto. Devo sempre salire fino in cima allo scivolo, perché lui ha paura e non osa scivolare giù da solo. Io scendo. Lascio lassù un bambino che piange e che non osa muovere un dito per paura di cascare. Un'anima buona viene a dirmi che il bambino ha paura. Io sorrido a quell'anima buona con un angelico e freddo sorriso e le dico che nei boschi dove si annidavano i partigiani, i bambini di quell'età già facevano da sentinella e stavano appollaiati per ore sui rami più alti degli alberi osservando le mosse del nemico. L'anima buona si ritrae da me spaventata. Disgustata. Vedremo come si comporterà il bambino di quell'anima buona al momento della prova. Altre mamme, sulla panchina, smettono di chiacchierare e guardano me e il piccolo idiota sulla scala. Lui strilla e mette a rumore mezzo mondo. Io accendo una sigaretta e lo osservo con attenzione. Se una volta ci troveremo intrappolati in un bunker nascosto per sfuggire a quelli che ci cercano, non sarà possibile farlo star zitto. Non ci sarà altra scelta che - mi dico. Spero solo che riuscirò a educarlo in modo che faccia lo stesso con me, se una volta gli sarò di peso. Vieni, pauroso, gli dico a voce alta, con una finta calma, e schiaccio la sigaretta sotto il tallone per prepararmi e arrampicarmi e prenderlo. Con la sua bocca umida appiccicata al mio collo e tutta tremante in disperati singhiozzi, sento come una pesante palla di offesa infantile passa con un moto pendolare dal suo cuore al mio e quasi mi fa cascare dalla scala. Perdonami, bimbo mio, gli dico dentro di me, perdonami per tutto quello che ti faccio, sii più saggio e più paziente di me, perché io non ho forza, e non mi hanno insegnato ad amare. Sii forte per portarmi, amami. E smettila di piangere come una bambina, gli dico a voce alta fra i denti.
Eppure abbiamo conosciuto ore dolci. Ruth sa come giocare con lui. Io voglio soprattutto insegnargli. Prepararlo. Non sciupare gli anni preziosi in cui la memoria è aperta a imparare ciò che conta. Ruth gode a giocare con lui. Gli disegna automobili e gli fa delle figure di plastilina. Quando giocano, le loro dolci voci si intrecciano. Io gli insegno a leggere i numeri. Lei si strugge dalla dolcezza quando lui sbaglia e dice, per esempio: "Babbo e mamma si sentono buono". Io mi diverto, ma correggo. Non c'è abbastanza tempo da sprecarlo in idiozie. Lui sta ritto sul nostro letto e segue con lo sguardo una mosca sui vetri della finestra, e tutt'a un tratto tende una mano e la prende e la schiaccia forte. Poi guarda tutto sorpreso la sua mano e chiede perché la mosca non vola. Ruth, un po' tesa, dice che la mosca dorme, e mi guarda. Io gli dico la verità. E indugio anche in particolari. "L'hai ammazzata" ripete Yariv, come facendomi il verso, assaggiando la parola nuova nella sua bocca fresca e morbida. Nella mia testa si espande un senso di nulla, di inutile e superfluo nulla. Ma avrei dovuto invece essere felice e contento. Però di cosa c'è qui da rallegrarsi. A che cosa c'è da aspirare.
"Cerca di fare uno sforzo, con lui" lei mi dice poi, la notte, e le nostre facce sono rivolte al soffitto. "Stai sciupando qualcosa che non si rimetterà a posto per molto tempo. Peccato." Io grido dentro di me: non permettermi di continuare a sciupare. Mandami via di qui. Dammi un ultimatum a cui dovrò sottomettermi. E a voce alta dico che la storia che sto scrivendo ora, la storia che Nonno Anshel raccontava al tedesco Neigel, influisce molto su di me, a quanto pare. Quella storia e tutto ciò che leggo e imparo in relazione a quella storia, e tutto quello che viene su in me per questo. Ruthy mi conosce abbastanza per non propormi di smettere di scrivere quella storia. E in ogni modo mai mi avrebbe proposto una cosa così: vi avrebbe solo accennato. Avrebbe ventilato la proposta col tono più fievole possibile. La mia Ruth crede che in ogni uomo siano racchiuse grandi forze. Tanto grandi da esulare dalla sua possibilità di controllo, e per questo ogni uomo deve star bene attento quando viene a contatto con altri esseri umani, per non rovinare in loro qualcosa. Per non far loro male con un consiglio o con un tentativo di influenzarli, cioè con cose che possono essere errate o rovinose. Lei è così adulta, così matura. Ma perché ogni cosa che lei fa ha l'apparenza di un lavoro? Stiamo sdraiati nel letto e parliamo della differenza che passa tra la scrittura di una poesia e la scrittura di un romanzo. La poesia è un flirt, dice lei e sorride nel buio, e il romanzo è come il matrimonio: resti con i tuoi personaggi molto tempo dopo che il primo amore e il primo desiderio sono svaniti da un pezzo. Strano che lei dica una cosa così. Non è adatta a lei. Non deve. Sono io quello che in questa casa deve dire le cose cattive. In certo modo è riuscita a spaventarmi un momento. Il romanzo, dico io calmo calmo, è come il matrimonio: due che si amano si fanno male a vicenda, perché sennò a chi farebbero male?
Poi stiamo zitti. Io cerco di ricordare se lei ha chiuso anche la serratura di sotto della porta d'entrata. Ma se glielo domandassi, lei s'innervosirebbe. A quanto pare ha chiuso. È meglio credere che abbia chiuso e smettere di essere preoccupato per questo. A volte, le dico, mi viene voglia di far fagotto e andarmene a vivere altrove. Cominciare tutto da capo. Senza un passato. Solo noi due. "E Yariv" lei mi rammenta, e aggiunge che di qui non si scappa. Questo è l'ultimo posto. Oh, dico io, che frase scema. Non esiste un "ultimo posto". Non si deve mai essere legati a nessun posto in modo assoluto. A nessuna persona. E lei: "Dovunque tu vada, non potrai riposare, Momik. Tu non hai paura dei luoghi ma delle persone". La sua piacevole e calma voce, ma cos'è successo tutt'a un tratto alla sua voce? "Tu hai paura di ogni essere umano. Cosa vedi in noi, Momik? Cosa può essere più tremendo di ciò che noi tutti conosciamo?" E io: "Non so. Non ho più la forza per sopportare certe domande così". Ora avrei dovuto chiederle se ha chiuso anche la serratura di sotto. Ho mancato l'occasione. Lei di solito si ricorda di chiudere, andando a letto, dopo aver chiuso la chiavetta a muro del gas. Un momento: ma il gas l'ha chiuso, stasera? D'un tratto parlo di nuovo dell'Olocausto. Non so nemmeno perché sono tornato sull'argomento. Da ogni cosa sono capace di ritornare su questo argomento. Sono il piccione viaggiatore dell'Olocausto. E per la millesima volta, e con una voce ormai quasi priva di convinzione, domando a Ruth: ma come, com'è possibile, dimmi, continuare a vivere dopo aver visto di cosa è capace il tuo essere umano? "Ci sono degli uomini che amano" dice lei alla fine (e alla fine con un po' d'impazienza) "ci sono uomini che proprio dall'Olocausto hanno tratto la conclusione opposta. E non è forse vero che da quello che è successo lì si possono trarre tutt'e due le conclusioni? E l'Olocausto giustifica in certo qual modo i due opposti approcci alla vita, no? E ci sono anche uomini che amano e perdonano e fanno il bene anche senza nessun rapporto con l'Olocausto. Senza pensarci giorno e notte. E forse è proprio questo lo sbaglio. Perché non puoi pensarla così, Momik?" "Perché tu stessa non ci credi già più." "Certo. Vivo con te già da diversi anni, e c'è qualcosa di infettivo in questo tuo modo di vedere il mondo. È più facile cominciare ad essere fatta come te che restare fatta come me. Non mi piaccio quando mi sorprendo d'un tratto a pensare come te. Lotto contro di te." "Sai bene che ho ragione io. Anche se mi dirai che c'è gente che la pensa diversamente e vive in pace pur sapendo queste cose, non riuscirai a confortarmi. Io appartengo alla sfortunata categoria di quelli che vedono quasi soltanto quello che c'è dietro le quinte della vita. E gli scheletri che ci sono dietro la carne." "E cosa si vede lì? Cosa si vede lì, maledizione, che sia diverso da quello che sappiamo già? Cosa ci puoi raccontare di nuovo?" (Si sta arrabbiando. Sono così rare le volte in cui riesco a farla uscire dai gangheri.) "Non voglio dir nulla di nuovo. È al vecchio che non riesco ad adattarmi: perché la gente si ammazza senza posa. E solo perché il processo è proiettato con grande lentezza, con un mucchio di delicatezza ipocrita, e perciò non sconvolge così tanto. Tutti ammazzano tutti. La macchina dello sterminio ha subìto alcune metamorfosi, si è data alla macchia, ma io sento che il suo motore è sempre in azione. E io mi preparo, Ruthy. E lo sai." "Sì, me ne hanno detto qualcosa" e sorride. "Ridi, ridi, ma verrà un giorno e tutti noi saremo di nuovo incolonnati. Ma io, al contrario di tutti voi, io non soffrirò per l'impatto della sorpresa e dell'avvilimento. Né per il dolore della separazione, del distacco. Non ci sarà nulla, non ci sarà cosa alcuna che mi dispiacerà lasciarmi dietro." "Anche questo lo so. Per puro caso, sono la moglie di quel poeta che ha scritto i Versi degli oggetti di cui hanno tanto parlato tutti. Li hai letti?" "Ho sfogliato il libro." "E, anche questo per caso, mio marito non mi lascia mai comprargli nessun regalo di compleanno, e odia tutto ciò che ha una qualche attinenza a cerimonie o a cose che accennano a un ordine prefissato, di qualunque tipo sia - - sì, conosco il tipo." "Voglio essere libero da qualsiasi legame." "E dalla gente, Momik?" "Idem come sopra." "Anche da me e da Yariv?" Ora sta' zitto, cretino che non sei altro. Ingannala e dille che la gente, beh, quella forse sì, ma lei no. Ma se la tua vita è vuota senza di lei. Senza la sua innocenza e senza la sua fede criminale. "Anche da te e da lui. Guarda: non sono sicuro che riuscirò a non soffrire pensando a voi, ma voglio sperare che sarò abbastanza forte da sopportarlo. Sarò deluso di me stesso se al momento della separazione sentirò un dolore tale da non poterlo sopportare." Ruth tace. E poi, con una voce chiara: "Se credessi a una sola parola di quello che dici, me ne andrei, subito, all'istante. Ma sento queste cose già da quasi vent'anni, da quando ci siamo conosciuti, davvero. E ci sono stati anche periodi in cui ti sei fatto un po' adulto e l'hai pensata diversamente. Penso che tu parli così solo per la paura, amor mio" "Puoi fare a meno di quell'amor mio, va bene? Non stiamo girando un film turco." Un sorriso tutto candido di denti si espande nel buio. Quattro mandate ci sono nella serratura di sotto. Ora sono sicuro di aver sentito darne solo due. Posso percepire il sorriso di lei che aleggia nella stanza. La sua bocca è la cosa più bella che lei abbia in quella faccia, che è un po' a patata. Ha una pelle troppo rossastra e sempre irritata nella zona delle narici e sotto gli occhi. Quando abbiamo cominciato a uscire insieme, ai tempi in cui eravamo al liceo, ci ridevano tutti dietro. Ci appiccicavano nomignoli offensivi e maligni. Io non riuscivo a dominarmi, e mi sentivo obbligato a far entrare quello scherno, in un modo brutto, all'interno del nostro cerchio intimo. E Ruth, ragionevolmente e con tutta calma, ci pilotava entrambi verso un luogo dove solo noi due avevamo importanza, non quello che gli altri dicevano di noi. Ma a volte risento l'eco di quello scherno. E Ruth: "Ti conosco un po'. Noi due siamo insieme bene e male già da un mucchio di anni. Leggo le poesie che scrivi. Anche quelle che non hai pubblicato per timore che rovinassero l'immagine di poeta collerico e pieno di odio che ti sei fatta. Ti conosco fin da quando eri un ragazzino e hai cominciato a farti la barba, e avevi il ciuffo, e ora non ce l'hai più. Ti vedo dormire e ridere e arrabbiarti e star zitto e essere triste e venire dentro di me. Già da un milione di notti dormiamo insieme stretti stretti come due cucchiaini. A volte come coltelli. E quando hai sete di notte, ti porto dell'acqua con la mia bocca. So come ti piace baciare e quanto ti faccio rabbia quando mi viene voglia di camminare abbracciata con te per la strada, mentre la gente ci guarda. So tante cose di te. Non tutto, ma tante cose sì. Le cose che so di te sono molto importanti per me. Come sono importanti per te i libri e i personaggi di cui scrivi. La nostra vita, di noi due - e ora con Yariv - è la piccola e semplice opera che io mi scrivo giorno per giorno, ora per ora. Non è qualcosa di grande, di ardito. Non è molto originale. Milioni di uomini e di donne l'hanno già fatto prima di me, e certo anche meglio di me. Ma questa è opera mia, e io la vivo con tutte le mie forze e con tutto il mio volere. No, ora lascia che parli io. Ho visto come diventavi felice quando è cominciata la tua storia con Ayalah. Ho sofferto tremendamente. Mi ha fatto tanto male. Ma all'infuori del senso d'offesa e d'odio per te, pensavo, a volte (quando mi riusciva di pensare), che uno che ha un talento d'amore come ce l'hai tu, anche se farà di tutto per seppellirlo mille metri sottoterra, alla fine quel talento salterà fuori. E io ero pronta ad aspettare. Non per la sindrome di Solveig, come la chiamavi allora, ma per puro egoismo." "E se poi non sarai tu a cogliere i frutti - scusa l'espressione - ma un'altra donna?" "Può darsi. Forse un'altra donna li coglierà. Ma solo per un breve periodo. Lo so." "Cosa sai?" "Che abbiamo troppo bisogno l'uno dell'altro. Anche se non lo vuoi confessare, my chauvinist pig - e anche infantile, sei. Soprattutto infantile. Un adolescente. E ti dico molto seriamente: siamo due persone molto diverse. Ma vogliamo le stesse cose. Solo che i nostri modi di raggiungere quelle cose sono diversi. Siamo come due chiavi diverse della stessa cassaforte. E scusami se parlo in una lingua così forbita. Mio marito è un poeta, e ora è anche un po' scrittore." "A proposito, hai chiuso la serratura?" "Anche quella di sotto, sta' tranquillo." Io mi quieto (del gas ho dimenticato di chiedere!). L'amore non la vince, le dico in cuor mio. Solo nei racconti gli scrittori sono obbligati, proprio obbligati, a far vincere l'amore, alla fine. Ma nella vita non è così. L'amante si allontana furtivamente e in fretta dal letto della sua amata, malata di una malattia infettiva. Solo pochi al mondo si sono uccisi per morire insieme al compagno agonizzante. La corrente forte e tiranna della vita ci separa. Ci trascina avanti con ottusità e egoismo e bestialità. L'amore non la vince. Ruth si avvicina a me. Prende a carezzarmi delicatamente, ma io mi tengo un po' in disparte. Ho bisogno ancora di un po' di parole prima di questo, va bene? "Va bene" dice Ruth e sospira, con un sorriso "avrei dovuto sposare quel montanaro del Caucaso che mi faceva la corte e voleva comprarmi per sette cammelli: con lui non ci sarebbe stato sempre bisogno di tante chiacchiere prima di."
"Lo sai che per me la cosa più terribile riguardo all'Olocausto, è che era stata cancellata l'individualità umana. Non aveva più nessuna importanza né quanto era inerente alla personalità, né quanto era inerente al modo di pensare, o il carattere, la storia di uno, gli amori, le malattie, i segreti. Tutti erano stati posti sul gradino più basso dell'esistenza. Solo esseri mortali, mucchietti di carne e ossa. Questo mi fa diventar matto. È per questo che ho scritto la mia storia di Bruno." "E Bruno ti ha insegnato a combattere contro i cancellatori?" "Sì. In un certo modo ipotetico, sì. Ma Bruno non mi risolve nulla nella vita di tutti i giorni. Bruno va bene solo come sogno. Di più: le cose che lui mi ha rivelato mi hanno fatto paura. Mi hanno provocato una grande avversione. La sento ora, mentre non riesco ad andare avanti con la storia di Wasserman e il tedesco. Sento che devo difendermi da qualcosa che lui mi ha fatto vedere. Combatto un po' contro di lui, ora." "Contro di te, combatti."
Forse. Forse. Ma mi succede così, e non posso smettere. Ascolta. Non sorridere. Sento sorrisi nel buio. Voglio prepararmi per la prossima volta, quando toccherà a tutti quanti noi. E non solo in modo da potermi distaccare dalla gente senza troppo dolore, ma anche da potermi distaccare da me stesso. Vorrei esser capace di cancellare tutto ciò che è in me, ciò la cui distruzione o il cui avvilimento potranno darmi un dolore che non sarà possibile sopportare. Non è possibile, lo so, ma a volte pianifico tutto questo fra me e me in tutti i minimi particolari, fase per fase: come annullerò le mie qualità, le mie volontà e i miei desideri, i miei talenti - ma prova solo a pensare che impresa sovrumana potrebbe essere: il Premio Nobel per la Fisica Umana mi meriterei, cosa ne dici? "Spaventoso." No, sul serio: sarò semplicemente assorbito nel macello senza soffrire affatto. Senza dolore e senza esserne offeso. E senza essere deluso di nulla. Io - - "Sarai semplicemente morto fin da prima. Difenderai a tal punto te stesso da quello che gli uomini potranno farti, che non riuscirai mai a godere del rapporto con altri uomini. Non conoscerai nemmeno un attimo di tregua dall'odio e dal sospetto. Sarai sempre in guerra. E ti convincerai sempre più che anche gli altri sono tutti come te, perché non avrai a tua disposizione strumenti adatti a farti conoscere altre cose. E uomini che la penseranno come te si ammazzeranno l'un l'altro senza rimorsi, perché tanto la vita o la morte non avranno più alcun valore. Mi stai dipingendo un mondo di morti, Momik." Esageri, come al solito. Ma forse sarei pronto a vivere una volta, per prova, in un mondo così. L'alternativa non è facile, a volte, per me. "La vita qui? La vita solita e semplice?" Semplice, sì. Semplicissima. "E la scrittura non ti aiuta per nulla? Hai sempre detto che è quella che ti salva." No. Sono incagliato. Wasserman mi ha ingannato. Ha cacciato un neonato nella storia. "E allora forse bisogna tirar fuori il neonato." No. No. Se il neonato è venuto, è segno che doveva esserci. Lo sai come scrivo. Ho sempre la sensazione di riportare semplicemente quello che sono obbligato a scrivere. Ma questa volta non ho forza. E non capisco cosa vuole da me questo neonato. Riesco appena a farcela con quello che avevo già prima, con Yariv. Mi succedono delle brutte cose, ultimamente. Ho perfino paura di cominciare a parlarne. A volte non mi sento la forza di passare da un momento all'altro. La gente mi suscita odio. Non la mia solita avversione: proprio odio. Non ho il coraggio di guardare in faccia la vita della gente. Cammino per la strada e mi sento sommergere dall'immensa corrente della vita di tutti. Le lacrime, per esempio. "Scusa?" Guardo le facce e so che dietro un decimo di millimetro di pelle umana si trovano le lacrime, nel sacco lacrimale. "La gente non piange così facilmente." Ma le lacrime sono lì. A volte, quando l'autobus si ferma all'improvviso per strada, mi immagino il chioccolio delle lacrime. Tutto il pianto che è rimasto lì dentro. E non solo le lacrime. Anche il dolore. E la paurosa fragilità di ogni membro del corpo. E anche il piacere, naturalmente. I piaceri che vogliono essere applicati e messi in pratica. Ci sono così tanti carichi pericolosi, in questo piccolo corpo. Come difendersi da tutto questo? Capisci quello che voglio dire? Non rispondere, no. Non rispondere. Sento che non ho più la forza d'animo di capire cosa succede nella vita di un uomo. Se non fossi obbligato a scrivere la storia di Nonno Anshel, tornerei ai miei versi sulle cose, sugli oggetti. "Sappi solo questo: che ti amo tanto." Nonostante tutto questo? chiedo io miseramente, con un sospiro. "Forse proprio per questo." E anch'io ti amo. Anche se a volte mi fai diventar matto con quella tua naïveté gesuitica. "Sai benissimo che non è una naïveté. Come sarebbe possibile restare naïf vivendo con te? È il risultato di una decisione. E poi - mi potrai sempre punire: quando inizierà la grande fuga, e io avrò due bambini in braccio e uno in pancia, scapperai da solo. E non potrò lamentarmi che tu non mi abbia avvisato." Allora siamo d'accordo, dico io. Hai chiuso il gas a muro? "Mi pare di sì. Che importa. Ora vieni. Vieni. Confessa che stasera me lo sono guadagnato onestamente." E io mi volto dalla sua parte, e nel buio ci tocchiamo a vicenda il viso, solo il viso, piano, con tranquilla accettazione, come se rileggessimo delle vecchie lettere, e poi io scavo e mi trincero dentro di lei con tutta la mia forza, e per un momento ho pace, ho una casa, ho una persona che posso toccare senza averne paura e non ho più cautele, e tutt'e due ci muoviamo così stando attenti a non far del male alla tenerezza, saliamo e scendiamo come una lunga carovana stanca, ma quando Ruth mi morde le labbra e freme contro di me, io ritorno lì, in quel paese deserto di amore, vedo sugli schermi spiegazzati del cervello quelle immagini. L'uomo. E quando anch'io vengo in lei, mi ricordo di emettere i suoni richiesti, ma sono già settimane e settimane che non sento più alcun piacere: solo una cosa così. Come uno sputo.
La vita si stava arrestando. Ero diventato solo un guscio vuoto, una muta abbandonata di serpente. Anche nei pochi canali in cui prima scorreva qualche cosa tra me e gli altri, ora non scorreva più nulla. In quei giorni avevo smesso di scrivere la storia di Nonno Anshel e avevo cominciato, con uno sforzo non da poco, una nuova impresa: la raccolta di materiale per la compilazione di un'Enciclopedia per Ragazzi sull'Olocausto. La prima nel suo genere. Perché i bambini qui non crescano più essendo obbligati a tirare a indovinare, o a ricostruire sulla base di incubi. Avevo già pronta una lista di circa duecento voci importanti: gli assassini e le vittime più conosciuti; i principali campi di sterminio; i nomi delle opere scritte sull'argomento, in quel periodo e dopo quel periodo. M'ero accorto che già nel raccogliere e annotare quei dati in quel modo, trovavo un po' di sollievo.
L'idea cadde quando vidi che non riuscivo a trovare un finanziatore. Io non so convincere, non so vendermi. Comincio subito a innervosirmi, a gridare, e allora mi pregano di andarmene. Anche in casa mia ero diventato insopportabile, ma non potevo smetterla. Stavo male. Ruth era andata a incontrare Ayalah, e loro due avevano parlato per quattro ore. A quanto pare avevano deciso cosa fosse meglio per me. Questo mi incolleriva: sia l'una che l'altra si erano rifiutate di dirmi di cosa avevano parlato. Come se io fossi un bambino o giù di lì. Proprio in quel periodo (perché le disgrazie non vengono mai sole) l'arteriosclerosi di mia madre si aggravò. Io non ce la facevo ad accompagnarla a tutte quelle rivoltanti visite mediche. Non ce la facevo a obbligarmi ad entrare con lei in un ospedale. Ruth andava con lei. Mi dicevo con cinismo che anche lei, mia madre, non si era mai presa cura del Nonno Anshel, e anche mentre mio padre agonizzava non l'aveva potuto toccare, e ora era arrivato il suo turno di restare indietro sul ghiaccio. La malattia - come una bestia feroce dai sensi acuti - aveva isolato l'animale più debole del branco, circondandolo velocemente: gli altri animali avevano continuato a correre avanti, con gli occhi fissi all'orizzonte. Così va il mondo, mi dicevo, ma non era la verità: la verità è che avevo paura che le succedesse qualcosa di male. Avevo paura di quello che mi sarebbe successo quando lei non ci fosse stata più. Negli ultimi anni non avevo più pazienza per lei. Mi innervosivo già dopo cinque minuti di conversazione. Ogni cosa che lei dicesse, tutte quelle sue idee primitive e dubbie, mi facevano diventar matto. Ma ora sentivo che la perdevo e mi prendevano il terrore e il rimorso e la sensazione della perdita e del torto.
I medici mandarono la mamma a casa dall'ospedale e dissero che stava bene, e intendevano dire che non c'era più nulla da fare. Proposero che venisse a stare con noi. Fu proprio Ruth ad opporsi, stavolta. Disse che noi stessi eravamo in uno stato così... non tanto buono... e che lei ce la faceva appena appena ad aver cura di me e di Yariv. Lo confessi, dunque, le gridai in faccia tutto spaurito e con una gioia maligna che tormentava me stesso, lo confessi che tutto è proprio come dico sempre io: che perfino in seno alla famiglia contano solo i gretti calcoli della convenienza e dell'efficienza e dell'egoismo, il calcolo di chi ti importa di più difendere? Sì, disse Ruth con calma, ma vedi, Momik, qui si tratta di qualcosa che si può risolvere pagando: mio padre ci aiuterà, prenderemo un'infermiera che stia con lei. Non perdere il senso delle proporzioni, e fammi un piacere, Momik: qualche volta ci sono delle sfumature tra un dilemma normale e una selezione di quelle che i nazi nei lager chiamavano selekzia (di qua al lavoro e di qua al gas), e non è detto che se uno impreca contro di te quando il semaforo è rosso, sia segno che si sta preparando una nuova akzia e ti portino al lager!
Così dice mia moglie, quell'anima bella.
Tu diventi impaziente. Alla fin fine cominci a reagire: sbuffi e soffi e spruzzi gocce da tutte le parti. Certo pensi che allungo troppo il mio racconto superfluo; che mi attacco ai minimi particolari per evitare di arrivare al nocciolo vero della storia. Non devi giudicarmi con tanta severità. Ma a te non te ne importa. Sono sicuro che non te ne importa: e poi anche tu ti difendi dai dolori degli altri. Forse per questo sono stati costruiti, secondo te, i frangionde?
...e un certo giorno hanno bussato alla porta, e Ayalah è entrata. Estiva come sempre, spettinata, e mandava odore di mare e di abbronzatura. Ruth le andò incontro sorridendo lievemente, un po' tesa. Hai fatto bene a venire. Si sono toccate. Andai in camera e mi buttai sul letto. La testa mi scoppiava. Loro due stavano sedute in cucina e parlavano sottovoce. Così parlava la mamma, sottovoce, in yiddish, con Nonna Heni, e sparlavano del babbo. Poi sentii che Ayalah si avvicinava, e mi voltai sul ventre, chiusi gli occhi. Ayalah disse: "Alzati e smettila con questa tua autocommiserazione. E se vuoi veramente uscirne, allora fai qualche sforzo e aiutati. Non avvelenare tutto, così, intorno a te. Non te lo meriteresti, tutto il bene di cui godi". Parlava, come al solito, con calma, con un leggero tono di scherno che mi faceva piegare in due dall'avvilimento. "Abbiamo pensato che è meglio che tu ti prenda in affitto una stanza da qualche parte" disse Ruth, e si fece da parte nel vano della porta (Ayalah lo riempie ancora tutto quando sta su una soglia) "e lì te ne starai tranquillo a scrivere. E scriverai, non avrai più scuse per non farlo. Non è possibile che tu continui a martoriarti e a martoriare così tutti. Perfino quella guerra lì non è durata più di sei anni, ma questa tua - continua da trentasei anni ormai. Basta."
Le guardai, tutt'e due. I loro corpi si univano nel vano della porta come tessere di un bel mosaico. Speravo che si avvicinassero e venissero a far l'amore con me. Perché no? Ad altri uomini è già successo. E cos'altro può desiderare poi un essere umano da un altro essere umano? Solo di essere toccato. Solo un contatto. Tante cose un uomo può risolvere in una donna. Non importa quale donna. L'importante è che ci sia sotto di te una donna. Per questo sono state create, no? Le guardavo: facevo dei tentativi di mosaico: i seni tondi e pesanti di Ayalah sul corpo un po' allungato di Ruth. Peccato che questo sia possibile solo con la fantasia. Ayalah porta sempre mutandine minuscole, di pizzo. Ruth porta mutande come usavano una volta. Qualche anno fa avevo proprio pensato di chiederle di comprarsi delle mutandine sexy, di quel tipo lì, ma sapevo come mi avrebbe guardato se glielo avessi chiesto davvero. Una cosa così non si addiceva al concetto che Ruth aveva sempre avuto di sé, era una cosa avvilente per lei dover cercare di sedurmi con qualcosa che non fosse il suo corpo così com'era. Questo era sempre stato un lato debole dei nostri rapporti: chissà poi perché, ma eravamo sempre rimasti come due liceali di sedici anni. E temo che non ci sia più speranza ormai. Ora fissavo Ayalah con occhi sozzi, desiderosi. Non successe nulla: non anfora né fragole. Avevo perso ogni mio potere. Ero condannato all'ergastolo in virtù del Codice Penale di Zenone. Ayalah disse: "Devi decidere. Ora".
Avevano ragione, come al solito. Le donne hanno un senso più preciso della vita e di quello che si deve fare nella vita. Mi raggomitolai sul letto e riflettei. Godevo di un momento di rara lucidità. D'un tratto capivo che da sempre, quasi da quand'ero nato, avevo deciso ogni cosa solo per esclusione. Una tortuosità così. So sempre benissimo ciò che non voglio fare. Ciò che mi spaventa e mi suscita più avversione. E così, lentamente e senza che me ne accorgessi, da tutte le esclusioni e le negazioni e i rifiuti e le proteste e le lotte si era creato in me un altro essere, estraneo a me e non amato. D'un colpo avevo capito tutto: ero prigioniero di me stesso. Non riuscivo a capire come una cosa così fosse potuta accadere a uno come me, uno che dichiara continuamente di tenersi sotto controllo in ogni istante. Che è il critico più severo di se stesso. Ma come era nato quest'errore? Buttai via la coperta. Mi alzai e andai al telefono e feci il numero di casa, e sperai che fosse la mamma a rispondere, e non l'infermiera.
Fu la mamma che rispose. Disse "Hallo". Chi non l'ha mai sentita dire "Hallo" non potrà capire nulla. Tutta la paura che c'è nella sua voce. Tutta la sconfitta che è stata accettata già dal momento in cui il telefono ha suonato. Hallo, vieni, vieni, disgrazia mia, avvolgimi, subito. Sono anni che ti aspetto ma lo sapevo che alla fine saresti venuta. E non ho più la forza d'aspettare. Vieni, mondo, concretizzati, battimi, a volte il colpo è più leggero dell'aspettativa del colpo. Hallo.
Ascoltai ancora e ancora il suo "Hallo", che si faceva acuto e terrorizzato sempre più. Ricordavo come lei e il babbo discutevano con un sussurrio spaventato su chi dovesse andare ad aprire la porta quando qualcuno bussava (una volta all'anno). L'ascoltavo. Ma se avevano paura persino di stare con me. Facevano sempre di tutto per evitare di dover stare troppo in presenza di una concretizzazione troppo stupefacente, e certo illusoria, di tutte le loro speranze. Hallo, hallo, hallo mamma, sono io, il bambino che desideravate amare con tutte le vostre forze, con allegria e con leggerezza, e non osavate fare verso di lui neppure una mossa, per non risvegliare contro di voi con una sola mossa netta l'attenzione del destino. Hallo. Posai il ricevitore. Dissi a Ruth e ad Ayalah che avevano ragione. Che non mi lasciassero. Che avrei fatto di tutto per liberarmi di quella cosa, in qualche modo. Quella settimana stessa andai con Ruth a Tel Aviv e prendemmo in affitto una stanza. Una stanza senza telefono. Volevo essere lontano e isolato da tutto. E a Tel Aviv c'era sempre e nonostante tutto la speranza che Ayalah sarebbe venuta una notte. Non chiedevo di più. Lei non venne. Io scrissi per la sesta ed ultima volta la storia che Anshel Wasserman aveva raccontato a un tedesco chiamato Neigel.
Un momento. Vengono verso di me. I tre pescatori dall'estremità del frangionde. Pesanti, baffuti, agitano contro di me, da lontano, i pugni. Verso di me? Cosa? Che me ne vada? Cosa ho fatto, ah? Gli ho portato sfortuna? Io?! Sono diventati matti, lo giuro. Le loro facce sono convulse dalla collera. Non riesco a capire cosa dicono. Ma la loro collera, quella la capisco, eccome. Non ci si può ingannare. Ma io non mi muovo di qui. Questo è un paese libero, chiaro? Hei! Non osate toccarmi, pezzi di idioti! Lasciatemi! Ma cosa - - aiuto! Aiu - -
Si fregano le mani, tutti soddisfatti. Sputano verso di me nell'acqua. Tornano con passo da trionfatori al loro posto sul frangionde. Con mia grande sorpresa, l'acqua non è affatto fredda. Fuori dell'acqua avevo molto più freddo. Mi muovo di qua e di là nelle onde morbide. Sono un'alga sradicata. Aspetto, con un po' di paura. Da quando sono ritornato da Narwia non ho osato mettere un dito in mare. Ma cos'è questo? I pescatori gridano, tutti allegri. Alla luce della luna vedo le loro canne da pesca inarcarsi pesantemente. D'un tratto - attorno ai miei fianchi c'è una vischiosità scivolosa. Si avvolge e scompare. Il mare s'infrange tutto attorno e si calma, comincia ad accarezzare, invia onde allegre - -
- Ciao, Neuman.
- Ciao.
- Come è piccolo il mondo, eh?
H
Come la cosa era cominciata - Bruno non lo sapeva. Forse era stato mentre dormiva, o durante la grassa gheyoah nel Mare del Nord, presso le Isole Orcadi. A quanto pare era successo lì, perché quando erano salpati di lì verso sud, verso la costa scozzese, onde di aspettativa avevano già iniziato a portarlo con una delicatezza audace e come se fossero dei portantini silenziosi e svelti dal suo posto nel branco dalla parte della costa fin oltre il posto dove nuotava Yurik, superando centinaia di altri pesci della sua fila, finché all'improvviso l'avevano lasciato in un posto a lui sconosciuto, nel quale sentiva il grande ning pulsare in lui con estrema forza.
Per un po' nuotò in silenzio. Adattandosi al pulsare forte e lento e alla sensazione nuova e un po' paurosa che gli provocavano i pesci estranei e il suo nuovo posto nel branco. Doveva sforzarsi non poco per dominare il tremito che aveva afferrato le sue pinne e per mantenere il nuovo dolgan, che ancora non sapeva sentire bene. Solo dopo alcune ore di navigazione sforzata osò volgere lo sguardo attorno, dalla parte del mare, e per la prima volta da quando era sceso in acqua nel porto di Danzica vide Lefrik.
Era il salmone più grosso che Bruno avesse mai visto. Era lungo quasi centoventi centimetri e pesava non meno di Bruno. Era d'un colore rosa pallido, ma sempre più scuro degli altri pesci del branco, e aveva una macchia di un rosa splendente sopra l'occhio destro. Aveva movenze contenute ma al tempo stesso piene di vita e di forza. All'estremità della mascella inferiore spiccava un'incrostazione cornea, indurita e rossiccia, come un punto interrogativo deciso e sicuro. Bruno deglutì e nuotò oltre. I suoi muscoli cominciavano ad accavallarsi. Ascoltava il ning palpitargli negli orecchi e nel cuore, e si accorse così che il ning si affievoliva un poco, ed era come se gli si accompagnasse un'altra eco. Bruno salì velocemente a galla mentre il pensiero gli si svuotava in mare, e solo il senso del proprio esistere si acutizzava in lui come se fosse un osso che spuntava da una ferita aperta. I pesci intorno a lui presero d'un tratto a rallentare, e Bruno rallentò con loro. Strane correnti passavano nel corpo del branco. Ora si poteva avvertire che un altro pesce inviava palpiti di un nuovo ning. Bruno si ricordò di Guruk, che aveva portato alla rovina un quarto del branco presso le Isole Shetland. Preso dal panico, alzò la testa dall'acqua e cercò Yurik. Il piccolo pesce non si vedeva. Preoccupato, Bruno scrutò ai lati, cercando il pesce che tentava di opporsi al governo di Lefrik. Il martellio non proveniva dalla parte della costa, e dalla parte del mare c'era solo Lefrik ora. E allora?
Il branco si arrestò, si ordinò in circoli. I pesci branchieggiavano rapidamente e guardavano davanti a sé con occhi che chiedevano di non vedere nulla. Attorno a Bruno e a Lefrik si era formato ora un piccolo circolo, vuoto di pesci, e in quello spazio echeggiava potentemente il nuovo ning. Bruno vide migliaia di bocche aprirsi e chiudersi velocemente, e più in là - diecine di migliaia di pinne verdi e tese. E lui e Lefrik erano ancora paralleli, uno accanto all'altro, e colla coda dell'occhio Bruno vide che il profilo del pesce si era d'un tratto accentuato.
Un'acuta paura lo trafisse: il nuovo ning veniva da lui stesso. Era lui a sfidare Lefrik. Ma perché? Certo non pensava di essere capace di guidare il branco meglio di Lefrik, e nemmeno lo voleva! E perché mai avrebbe dovuto o voluto? Si volse stupito verso Lefrik, come se volesse spiegargli qualcosa, e il pesce si mosse anche lui verso Bruno. Il circolo dei pesci si allargò un po'. Bruno ascoltava pieno di stupore il proprio ning: era un battito veloce e sicuro. Non era quel battere malsano e folle che aveva emesso Guruk. Bruno immerse gli orecchi in acqua e ascoltò a lungo. Assomigliava molto al ning di Lefrik e ciononostante - era suo. Era la sua voce unica e giusta. Sentì gratitudine per Lefrik, perché senza di lui non sarebbe mai riuscito a sentire se stesso. Era certo il sentimento più illogico di tutti, in quell'attimo prima della battaglia per la vita o la morte, ma era stato Lefrik che l'aveva preso con sé, l'aveva reso artefice della propria vita. Solo non capiva perché avrebbero dovuto combattere tra di - -
Perché allora turbinarono le acque e si ruppero. Come in un'immagine riflessa nello specchio i due si buttarono l'uno sull'altro. I due crani cozzarono, si ritirarono, e di nuovo cozzarono con ira, per infrangersi. Il corpo liscio e svelto del pesce si avvolse attorno al petto e ai fianchi di Bruno e i suoi denti lunghi e aguzzi si conficcarono nella carne della sua spalla. Bruno si tuffò con un gemito di dolore, liberandosi da Lefrik e continuando ad affondare giù e giù, indebolito e semisvenuto, fino a che arrivò in un punto dove la luce stessa si arrestava; dove i raggi che portano il colore rosso vengono meno. Bruno guardò e vide con terrore che la ferita nella spalla perdeva un sangue che gli pareva verde. Il panico lo salvò. Risalì come un turbine alla superficie, prese Lefrik alla sprovvista e lo colpì con gran forza, con le braccia tese, dalle due parti del muso. Per un attimo Lefrik non si mosse, come se nulla fosse successo, poi scivolò sott'acqua e scomparve. Bruno girò attorno a se stesso, timorosamente, poi si avvitò velocemente in basso, ma non trovò il suo rivale.
Tutto affannato tornò a galla e fu accecato: Lefrik gli s'era buttato addosso, pesante come una balena, colpendogli il petto. A Bruno mancò il fiato. Il sangue gli pulsava nelle tempie e gli inondava gli occhi. Senza pensare più a nulla balzò in avanti, battendo le braccia ciecamente in aria e nell'acqua. Bruno non aveva mai picchiato nessuno in vita sua, e l'ondata di violenza che irrompeva ora da lui e inondava tutto il suo essere lo spaventava. Ma lo spavento riguardava il Bruno-uomo, mentre il Bruno-pesce inghiottiva il sangue diluito nell'acqua e ne suggeva desiderio e passione, e così corse incontro a Lefrik ancora e ancora, e i due si torcevano l'uno addosso al corpo dell'altro, lisci e audaci, un miscuglio di denti aguzzi e di pinne laterali graffianti e di rabbia silenziosa e senza suono, perché anche Bruno non rompeva il silenzio e combatteva senza voce, come un pesce. Aveva perduto la nozione dei minuti che passavano, e il tempo pulsava solo nel ritmo dei vicendevoli assalti e negli spasimi di dolore irradiati dalle loro ferite. Bruno era già tutto a brandelli: i morsi di Lefrik gli avevano aperto orribili fori nel petto e nel collo, ma vedeva che anche il grande pesce si andava sfacendo, come se si scucisse pian piano e che i suoi gemiti diventavano indistinti, e che andava distaccandosi dalla sua sorgente di vita - e in quel momento Bruno s'era ritratto. In quel momento gli occhi gli si erano aperti, e la sua mente irradiava luce come una conchiglia: combatteva contro Lefrik perché gli era impossibile vivere immerso in una massa, neppure in una massa priva di ogni malignità e di ogni odio, e neppure secondo il ritmo del ning di Lefrik. Però rifiutava di servire da scudiero alla morte, di porgerle le armi. E Lefrik stava ancora sospeso di fronte a lui, come cieco, lottando per conservare il proprio ning, e sputando un pezzo di carne strappato dal braccio di Bruno, ma Bruno s'era già tratto indietro. I pesci gli si aprivano davanti, lasciandogli lo spazio necessario perché il suo corpo passasse. No: lui non vuole essere il loro capo. Non vuole essere il capo di nessuno. Nessuno ha il diritto di essere a capo di altri. E quant'era stato vicino, lui stesso, a commettere un delitto. Ora nuotava velocemente indietro. Il suo ning era adatto a un branco composto di un essere solo. Era la sua lingua esclusiva, intracorporea, segreta. E solo così avrebbe potuto dire "io" senza che in questa parola echeggiasse il vuoto, come di una lamiera che sbatte, del "noi". Bruno uscì dai circoli formati dai pesci e stette, respirando affannosamente, fuori del branco. I pesci si volsero a guardarlo, con musi inespressivi. Così rimasero fermi tutti, a lungo. Nel frattempo Lefrik si era rimesso un poco. Gli echi del suo ning si rafforzavano e cominciavano ad arrivare fino a Bruno, ma ormai non lo penetravano più. Il branco cominciò a muoversi pian piano. Senza Bruno andò il branco per la sua strada, e per un ultimo, unico attimo Bruno fu ripreso dalla vecchia paura. Ma era soltanto la forza dell'abitudine.
Il branco gli passò davanti. Per ore gli passarono davanti migliaia di pesci che nuotavano piano, e lui aspettò, senza muoversi. Riconobbe tra loro solo Yurik, ma dopo qualche minuto smise di vedere in loro pesci e cominciò a vederli come cellule di un corpo grande e complesso, separato da lui stesso: come il suo corpo di prima. Tutto il suo patrimonio gli sfilava davanti, tutta la sua vita e i suoi ricordi e i frammenti di ciò che era stato. Aspettò così ancora per circa un'ora dopo che gli ultimi pesci del branco furono passati, riflettendo profondamente sulla tristezza della separazione dal proprio vecchio se stesso. D'ora in poi - ogni cosa che avrebbe fatto o pensato o creato, sarebbe stata sua di diritto. Sul lontano orizzonte si scorgevano le ultime pinne tese. Tra poco, tra pochissimo, arriveranno alle grandi cascate del fiume Spey. Salteranno in altezza tre o quattro metri contro la corrente impetuosa, cadranno in acqua e risalteranno e risalteranno. Quelli che riusciranno a superare le cascate arriveranno sfiniti al piccolo affluente dov'erano nati tanti anni prima. Per alcuni giorni riposeranno l'uno accanto all'altro, stanchi morti, smagriti, martoriati fino a non poterne quasi più. Sopra di loro già volteggeranno gli uccelli rapaci. I pesci faranno divenire l'acqua nera delle loro ombre. Nel giro di qualche giorno svilupperanno piccole gobbe dure e denti nuovi, e allora avranno inizio i sanguinosi combattimenti per il possesso delle femmine e dello spazio vitale. Chi sopravviverà feconderà le uova deposte, e morirà subito dopo. Bruno sapeva: il debole Yurik non sarebbe riuscito nemmeno a passare le cascate. Lefrik sarebbe passato, ma sarebbe stato troppo debole per sostenere la lotta con i maschi più giovani di lui. Nel giro di poche ore tutto lo Spey si sarebbe riempito di carogne di salmoni contorte e sbranate.
Tutta la ferocia del lungo viaggio sarebbe esplosa d'un tratto e si sarebbe incisa sui loro corpi. Gli uccelli rapaci ne avrebbero becchettato ogni brandello di carne.
Bruno era rimasto solo. Il vecchio pescemartello che nuotava sulle orme del branco si era arrestato a mezza strada. Guardava la massa dei pesci che si allontanavano e guardava quella strana creatura, che mandava un odore di sangue e gli pareva una preda particolarmente facile. Decise dunque di approfittare di entrambi. Si tuffò con slancio e scomparve sott'acqua. Un solco stretto e veloce disegnò una linea diritta in direzione di Bruno che non si era accorto di nulla.
Ma qui successe una cosa strana: qualcosa che è difficile spiegare, che mette in imbarazzo gli scienziati che scrivono la storia del mare e quelli che sono gli archivisti e i conservatori della storia liquida: perché all'improvviso, senz'alcuna ragione apparente, il pescemartello fu visto gettato con gran forza in aria, come se fosse stato un gigantesco pescevolante; e fu visto brancicare, inerme e ridicolo, con le pinne, e sbuffare con due voci diverse dal suo naso grottesco e simile a una testa di martello, e poi ricadere lontano lontano, al suo solito posto, in coda al grande branco.
Il mare fu in fermento ancora per un attimo. A Bruno parve di sentire una voce strana, come un batter di mani, come uno stropicciarsi di mani dopo che uno sfacciato importuno fosse stato buttato giù per le scale; le ondine che erano più prossime al luogo dove era stato gettato il grosso pescemartello sentirono con una certa sorpresa un soffio che pareva un'imprecazione particolarmente irosa e colorita, ma preferirono non credere che una cosa così fosse sfuggita dalla bocca della loro tanto gentile Signora. Le ondine si scontrarono l'un l'altra con un'allegria selvaggia e innocua, raccontarono le loro diverse versioni sull'impresa del rigetto del pescemartello, chiacchierarono tutte eccitate di vecchi bastimenti a vapore, di pilotare una nave seguendo il volo degli uccelli, di vari rimedi contro il mal di mare... In breve: cambiarono discorso.
- Hai raccontato benissimo, Neuman.
- Faccio del mio meglio.
- All'infuori di quell'imprecazione, verso la fine. Sai bene che io non le dico, quelle cose.
- Ma era stato il pescemartello, a bestemmiare!
- Quello lì? Ma se è capace appena appena di nuo - - È vero. Ora rammento. I pescimartello hanno fama di essere dei tremendi bestemmiatori.
E dopo un momento di silenzio:
- Ma lo sai che sei carino? Sei un po' cambiato, da allora.
- Sei pronta a sentire il resto della mia storia?
- Non sei cambiato.
- Ti prego!
- Racconta, racconta. Non disturbarti. Tanto non ti sto a sentire... Un momento! Hai dimenticato! Hai dimenticato la cosa più importante!
- Io? Cosa ho dim - -
- Bruno! Le ferite! Rammenti? Rammenti? Ti prego, ti prego, devi ramm - -
- Ma certo. Come ho potuto dimenticare. Hai ragione. Sta' a sentire:
...Bruno nuotava pian piano nel Mare del Nord. Era tutta sua fino all'estremo orizzonte, la distesa del mare, e lui non lo sapeva. E lei era assorta, a curare le sue ferite. Nei suoi laboratori bui, pesci dall'aspetto severo e serio si affaticavano a produrre da se stessi speciali materiali. Onde chiamate frettolosamente dal Mar Caspio e dal Mar Morto erano arrivate tutte affannate e spumeggianti, dopo essersi infiltrate attraverso le profondità dei loro mari chiusi, e avevano subìto processi accelerati nei catalizzatori delle correnti telegrafiche dei fiumi sotterranei, fino ad arrivare stanche, sfinite, a ferirsi, per ordine della Signora, e a produrre dalle loro ferite i sali rari necessari a produrre la guarigione immediata. Alghe, che si trovavano sulla strada di Bruno come per caso, si attortigliavano attorno a lui per un momento, lo irroravano dei loro disinfettanti sublimi e passavano oltre, contente di fare contenta anche lei, la Signora. Solo due ferite erano restate aperte in Bruno. Due ferite strette e lunghe ai due lati del collo, e in realtà - non proprio ferite, ma, diciamo così, aperture; e cioè: due piccole bocche spalancate. E sarà meglio definirle, semplicemente: branchie.
...Bruno nuota pian piano nel Mare del Nord, e il suo capo ora è completamente immerso nell'acqua. Non ha più bisogno di respirare l'aria che viene da fuori. Guarda gli abissi marini: le onde hanno già levigato i suoi occhi fino a renderli meravigliosamente atti a vedere nell'acqua, e ogni cosa già gli sembra ondulata, e i colori si rifrangono e serpeggiano e svelano dolcemente i filamenti delle mille sfumature sottili ricamate su di loro, si frangono in onde che si suonano come arpe fatte di fili d'acqua suonano un'amaca gigantesca che scandisce il ritmo del tempo marino ed è anche possibile che una mano lasci la sua impronta nell'onda nel posto dove essa già non è più la lasci lì dove mai era stata la lasci e forse è possibile che un'onda porti via un momento l'immagine del corpo dal corpo la porti via e al suo ritorno la riporti o non la riporti e i contorni degli oggetti consolati morbidi si concedono al tranquillizzamento delle onde all'addormentamento del mare che respira sonno scivola lentamente sulle labbra degli scogli sulle pagine dei sogni il mare tirerà le somme e farà i conti con chi vi si è intruso e chi ha straripato e si è inorgoglito come in alta marea e sempre s'innalzano di tra le onde più gabbiani di quanti si sono tuffati e nuovi e come più pesanti pregni del peso del mare e limpidi dei suoi colori belli ampi di qua e di là Bruno nuo - -
Lei non risponde più. Le onde sono del tutto lisce e solo a tratti l'acqua rabbrividisce con un russare dolce. Mi guardo indietro, vedo che il frangionde è già vuoto. Solo un pescatore è rimasto. Alto e solido come un faro, e la sua sigaretta occhieggia nel buio. Con precauzione, timidamente, le accarezzo la guancia. Tra poco verrà il mattino, e dobbiamo affrettarci se vogliamo fare a tempo a raccontare il finale del nostro incontro sulla riva di Narwia. E del dono che Bruno mi aveva fatto lì. Della condanna alla quale mi aveva condannato.
Questo senso di elevazione, in Bruno. Quell'allargarsi dell'anima e il battito del sangue nelle tempie - li intuisco. Posso supporre quello che hai provato quando il branco se n'è andato per la sua strada e ha lasciato qui solo te, il vincitore. Un uomo solo in tutta l'ampiezza dell'Oceano. Io ti piango e sono orgoglioso di te. Perché che altro resta da fare al debole se non decidere il proprio destino? (So pronunciare queste parole con una tale convinzione, che suonano come sincere.) È una decisione disperata, e così poche sono le possibilità di metterla in pratica, ma le possibilità di concretizzazione, Bruno, non ti interessano più ormai: appartengono a tutt'altro dominio. Al dominio in cui si parla al plurale e si pesa il valore degli esseri su una bilancia di latta: "Il mio ebreo in cambio del tuo ebreo"; "Secondo i miei calcoli ho ammazzato solo due milioni e mezzo di persone"; e altre misurazioni di questo genere. Perfino il duale è già un "troppale", e le cose davvero decisive si dicono, a quanto pare, solo al singolare. Sei diventato un salmone. Ti sei denudato da tutto quello che era attaccato a te, fino a mettere il dito sulla vena ferita per la quale corre via fino a esaurirsi la vita. Il nocciolo dell'esistenza astratta, l'impulso vitale segreto, li hai fatti diventare, con questo tuo lungo viaggio, la linea geometrica che si può seguire con l'occhio e con il dito sulla carta. E sai anche cosa provo io per te, perché sennò per cosa sarei venuto fin qui, a Narwia, a sforzarmi la mente fino al limite della follia - -
E per ciò, e per tutto quello che si è andato creando fra noi due negli ultimi giorni, pretendo da te una risposta pronta, istantanea: la negazione, ti chiedo, di una cosa che ho sentito or ora dalla bocca di lei. Una frase che è balzata fuori, è uscita contro il suo volere, mi pare, come un rutto bruciante su dal profondo di lei fino alla sua bocca, e di qui dritto dritto alla mia penna che scrive per te. Ho annotato le parole, poi le ho lette, pieno di stupefazione: "Bruno, il nemico tremendo, furbo e maligno, del linguaggio". E con un riso cattivo ha aggiunto: "Bruno il nichilista".
Trascrivo qui con una penna ferma ed equilibrata: Bruno Schulz. Architetto geniale di un'essenza linguistica esclusiva, il segreto del cui grande fascino sta nell'essere un'innovazione, nella sua sovrabbondanza quasi marcescente per i troppi succhi parolistici. Bruno che sa dire ogni cosa in dieci maniere diverse, e tutt'e dieci sono precise come l'ago della bussola. Il dongiovanni che fa l'amore con il linguaggio con una passione sfrenata, quasi immorale, il turista più ardito della geografia linguistica... Ma è possibile che tu, Bruno, sia arrivato una volta ai confini estremi di questo mondo, al luogo dove tu, perfino tu, hai girovagato come un matto sulla riva e lungo tutte le banchine non hai trovato navi di parole adatte a farti salpare di lì, negli orizzonti coperti di nebbia? Ed è forse possibile che quest'ultima sponda sia la riva della città di Danzica nell'anno quarantadue? Rispondimi sinceramente. Non sopporterò di essere preso in giro: quando stavi lì in capo al molo, tutto affannato e sfinito e con la schiuma alle labbra, e quando ti sei guardato indietro a scrutare la topografia fantastica che hai posto fra te e le altre creature del mondo - tutti quegli anfratti tortuosi e le immense rocce di lava che hai cavato con una semplice penna dalle pareti di un semplicissimo quaderno da scolaro - hai ridacchiato, allora, di te stesso con una sensazione di trionfo e di sollievo per essere riuscito a prenderci tutti in giro? Per averci fatto errare dietro a te nei labirinti più intricati, uccidendo così tra l'altro con una cattiveria inafferrabile la stessa lingua umana?
Tu non mi rispondi. E anche lei tace. Ma non è un silenzio normale: è come un trattenersi da.
Poso sulla spiaggia il quaderno e la penna, ci metto sopra una pietra, perché non volino via nel vento, e scendo in acqua. Lì immergo anche la testa, apro gli occhi nel sale che brucia, e cerco di vederti sotto un'altra angolatura. In una luce fuggevole e tremolante. La luce dell'acqua.
E ora dimmi: devo davvero accusarti qui di un tradimento di tipo tutto particolare? Mi è davvero permesso scrivere qui che dall'accoppiamento estroso e odoroso della tua disperazione e del tuo talento con la lingua umana è nato uno degli inganni più entusiasmanti della cultura e della letteratura, però tutti noi ci siamo sbagliati e non l'abbiamo compreso?
Annoto qui col mio dito nell'acqua: è stato forse in nome di quell'inganno che hai fecondato col tuo seme la lingua fino a che essa si è gonfiata oltre ogni immaginazione, fino a che l'hai fatta diventare tutta un grumo di grasso, e hai moltiplicato il numero dei suoi circuiti sanguigni, e le hai creato sette cuori che l'hanno inondata di correnti contrastanti di sangue, e hai moltiplicato senza fine i suoi sistemi nervosi finché lei non ha perduto la testa per la troppa, morbosa sensibilità?
Guardo con stupore l'acqua: le lettere sono stampate sulle onde e non si cancellano. Continuo ad annotare: e quando questo corpo immenso ed elefantesco della lingua ha cominciato a cedere sotto il proprio peso, non hai forse continuato, non hai ridotto il tuo talento fino a farlo divenire il batterio della fermentazione di questa immane carogna? Guardo le lettere nell'acqua e aspetto di vedere se lei cancelli quest'"atto di sospetto". Lei non cancella. Io continuo a scrivere: confessi, Bruno, che da pittore, da artista della lingua, sei diventato il crudele caricaturista di essa e anche di te stesso? E perché l'hai fatto? Perché ci hai fatto questo?
"Che domande! Ma se lui voleva scoprire un mondo ancora più ricco!" Così lei dice tutt'a un tratto, e mi spaventa, com'è suo solito, con una apparizione improvvisa, legge al volo ciò che è scritto nell'acqua e lo cancella subito, ma non lo cancella del tutto, no, lo raccoglie svelta svelta tra due fazzoletti fini di onde trasparenti, e me lo nasconde, e poi se ne va, con una certa insicurezza.
"Con te non si può mai parlare di Bruno" le dico severamente "non vuoi sentire contro di lui nemmeno una parola."
Lei mi ammicca dalle pieghe di un'onda svelta che luccica controsole: "Non sono disposta a rinunciare al diritto di amare ciecamente, in un modo che tu, Neuman, conosci certo molto bene... dai libri".
Ho inghiottito l'offesa senza reagire. Avevo cose più importanti da chiarire con lei, e mi restavano solo poche ore per farlo. Il sindaco di Narwia doveva recarsi quella stessa notte a Gdansk con il suo sidecar antiquato, e si era detto disposto a prendermi con sé. L'indomani dovevo essere a Varsavia, e di lì partire per Parigi e poi - in aereo, a casa. Il tempo stringeva ma non volevo che lei se ne accorgesse. Feci delle osservazioni sul panorama che si vedeva dall'acqua, sulla semplice architettura della chiesa di Narwia, sull'interessante conformazione delle casette del villaggio... Lei era inquieta. Qualcosa si dibatteva in lei, cercando di uscire. Aspettavo pazientemente. Mi voltai sul dorso e nuotai così, fischiettando un'arietta, con gli orecchi tesi ad ascoltare quello che lei avrebbe detto.
All'improvviso s'inarcò sotto di me una grande ondata, fui gettato lontano - ed ecco, lei era già accanto a me.
"Hai ragione. Mille ragioni. E il diavolo ti pigli per come riesci a farmi male così ogni volta. Perché lui voleva davvero ammazzare la lingua. Voleva portarla a uno stato in cui puzzasse, ah - - in cui fosse piena di disgusto per la troppa dolcezza, ah - - cioè - -" (voleva citare parole sue, naturalmente, senza che io me ne accorgessi. La bestiona! non che riconoscessi le citazioni e identificassi i brani da cui erano state tolte, ma mi era chiaro che lei non era capace di concepire da sé una frase così).
"...e il suo più grande desiderio, fin da bambino, non era solo di scoprire un altro mondo, ma anche di scoprire un'altra lingua con la quale lui, Bruno, potesse descrivere quel mondo, perché già molto tempo prima di venire da me lui intuiva... sapeva... sì..."
"Cosa intuiva? Cosa sapeva?"
Lei si rivolta sulla schiena, sputa un getto d'acqua al cielo e comincia a girare intorno a me con velocità sempre crescente. Fisso gli occhi nell'acqua sotto di me, per non essere preso dalla vertigine. "Nel ghetto di Drohobycz" cita lei e continua a girarmi attorno "Bruno aveva un padrone, un ufficiale delle SS chiamato Landau. E quell'ufficiale aveva un nemico, un altro ufficiale delle SS che si chiamava Günther. E un bel giorno Günther sparò a Bruno, e andò da Landau e gli disse tu hai ammazzato il..." E lei mi correva attorno e creava così nell'acqua un vortice di vuoto che mi risucchiava in sé, e tutti i miei pensieri si vuotavano in lei, e io cadevo inerme negli abissi e riuscivo ancora a pensare che questa era l'unica spiegazione possibile, e che Bruno, che era tanto sensibile, aveva intuito tutto già anni prima che le cose avvenissero. Forse per questo aveva cominciato a scrivere. Aveva cominciato a esercitarsi a usare una nuova lingua e una nuova grammatica. Conoscendo l'essere umano, sentiva i mormorii maligni anni prima che li sentissero gli altri. Era sempre stato l'anello che non regge. Sì: sapeva che una lingua nella quale si potevano pronunciare frasi come, ad esempio: "hai ammazzato il mio ebreo e ora ammazzerò" ecc. ecc., una lingua in cui simili costruzioni non si annullano subito da sé e non diventano veleno o smorfia di soffocamento o stretta nel cuore di chi le pronuncia - una lingua così non è una lingua di vita. Non è umana e non è morale, ma è, forse, una lingua che è stata introdotta qui molto tempo fa da malvagi traditori, e di una sola cosa è degna: di morte.
"E non solo la lingua" dice lei, e io sono scagliato in alto su un getto freddo e veloce, "ma tutto il mondo Bruno voleva mutare, tutto ciò che si basa su norme e usi e convenzioni, tutto ciò che per sua natura appartiene a sistemi ordinati cristallizzati e morti... ah, il mio Bruno, il nichilista..." e lei si allontana da me a testa alta, lasciando nell'acqua due solchi più salati del solito.
Le corsi dietro, l'afferrai per il collo e le sussurrai con collera: "Il Messia, il Messia qui e ora, in questo stesso momento! Sennò...".
Lei mi guardò spaventata e mi sorrise inquieta. Tutta la sua sfacciataggine era svanita davanti alla mia collera. "Va bene, va bene" mormorò "ma sappi che non lo faccio per via di questa tua stupida commediola, ma solo perché so che gli vuoi tanto bene" e subito, come se spezzasse un pane con le dita, aprì sotto di me un abisso lungo e stretto, e io vi precipitai dentro per un'eternità e mezzo, fino a che caddi con un tonfo su un giacimento acqueo denso e buio, e tra le nuvole di polvere primigenia che si alzarono lì brancolai e barcollai per immense giungle subacquee e galoppai per sentieri che si ramificavano e ai lati di essi crescevano fitti cespugli intristiti da cui penzolavano frutti grossi di pensieri mai usati, e felci gigantesche di scartafacci che si erano irrigiditi mentre ancora sgorgavano, e filari di viti che producevano leggende popolari di popoli leggendari, e mi aprii la strada tra un fogliame semitrasparente e intricato fino a soffocare, e gettai uno sguardo di qua e di là, e dopo un attimo gridai nell'acqua con una voce terribile che quelle tutte erano cose di nessuna importanza, non erano ancora Il Libro, non un'opera autentica, scritta a grandezza naturale, con la naturale profondità di tutte le separazioni e le divisioni e le esattezze della vita, non erano il lampo unico dell'epoca geniale nella quale il mio Bruno era stato trascinato da bambino, in una primavera selvaggia, molto prima che tutto quanto il mondo cominciasse a falsare la sua natura e a gelarsi da morire...
"Basta!" urlò lei e digrignò scogli verdi e aguzzi.
"La verità!" urlai "voglio le cose che lui ha lasciato in te! L'odore di bruciato! Quell'unica frase che è riuscito a dirsi nella sua propria lingua, la frase che nessuno gli potrà mai togliere, o almeno dammi i momenti che hanno preceduto quella frase geniale che non potrò mai capire, il grande segreto voglio che tu mi dica, e stavolta non mi contenterò di niente di meno!"
E lei geme e sputa, e finge di buttarmi fuori di sé, e cerca di incutermi terrore con le sagome dei branchi di pescecani che lei crea attorno a me con le rughe della sua pelle, e con tuoni spaventosi che produce con volgari peti lungo tutto lo Stretto di Gibilterra, ma io non ho nulla da perdere, e la picchio con le mani e coi piedi, "il libro" le grido attraverso i cavalloni ruggenti "la conclusione ultima, il succo del midollo della nostra esistenza!". E lei mugola, e sbatte la testa contro gli scogli e li frantuma come fossero gusci d'uovo, e si pettina il corpo fino a farsi male con le costole scheletriche di navi affondate, e si ficca in gola un dito acqueo e lungo e mi vomita addosso ondate di pesci morti e rottami di imbarcazioni mezzo corrose, e poi si raccoglie, e d'un colpo si stringe al corpo tutte le sue vesti d'acqua e le mille sottane e sottovesti, e denuda agli occhi del sole sbalordito il sesso dei continenti sommersi, le steppe aride del fango pietrificato, e per un momento siamo sospesi tutti nell'aria secca - pesci, granchi, reti, navi a vela, sottomarini, marinai affogati, conchiglie, antiche scimitarre di pirati e bottiglie con lettere inviate da naufraghi morti già da lungo tempo su isole solitarie, e dopo un attimo irrompono di nuovo le acque con un ruggito immane, ricoprono i continenti sommersi, rimescolando fino a farne fango la polvere dei ricordi più antichi e mi presentano agli occhi, lentamente, un cartiglio verde, immenso, sospeso, isolato negli strati profondi sotto di me, illuminato solo da pochi raggi di luce che splendono come se venissero dal disotto, e anche lui riluce per le migliaia di bollicine d'aria che si sono formate ai suoi margini, un cartiglio fatto di un foglio assorto, ascetico, che infonde un'incomprensibile tristezza nei branchi di pesci che trasalgono sopra di lui, e io non ne posso più dalla gioia, e vi passo e vi ripasso sopra, e rido e piango, e con grande sforzo leggo le lettere del titolo, formate da un fitto tessuto di alghe verdi: "Il Messia".
...proprio durante le feste di Pasqua, alla fine di marzo o all'inizio di aprile, Szloma, figlio di Tobiasz, usciva di prigione, dove lo si rinchiudeva durante l'inverno, dopo le bravate e le follie dell'estate e dell'autunno. Nell'anno in cui avvennero i fatti di cui si racconterà più avanti, il ragazzo chiamato Bruno si era affacciato alla finestra di casa sua nel momento in cui l'ex-prigioniero era uscito dalla bottega del barbiere e si teneva da un lato della Piazza della Santissima Trinità. Con un cenno della mano Bruno aveva invitato il vecchio amico a casa sua "In casa non c'è nessuno, Szloma!", per fargli vedere i disegni che aveva fatto, i frutti dell'epoca geniale, quel vuoto di tempo nel cuore della noia e dell'abitudinarietà. In quei pochi, splendidi giorni, il piccolo Bruno era riuscito, con l'aiuto del suo pennello, a spezzare i cerchi di ferro che lo soffocavano, e a creare una breccia attraverso la quale potesse irrompere un'ondata di luce, di prima folle fioritura...
Ben lavato, sbarbato e profumato, Szloma, l'ex-prigioniero, aveva guardato i disegni che gli mostrava il suo giovane amico tutto eccitato.
Si potrebbe affermare, ...che il mondo è passato attraverso le tue mani per rinnovarsi, per mutare pelle e squamarsi come una lucertola meravigliosa. Oh, credi che avrei rubato e commesso migliaia di follie se il mondo non fosse stato così consunto e in disfacimento... Che mai si può fare in un mondo come questo? Come non dubitare, come non perdersi d'animo, quando tutto è ermeticamente chiuso, murato nel suo significato, e tu da ogni parte vai a battere contro una parete, come in una prigione? Ah, Bruno, avresti dovuto nascere prima.
A te, Szloma ...posso rivelare il segreto di questi disegni. Fin dall'inizio mi è sorto il dubbio di esserne davvero l'autore. Talvolta mi sembrano un plagio involontario, qualcosa che mi è stato suggerito, indicato... Come se qualcosa di estraneo si fosse servito della mia ispirazione per scopi a me ignoti. Perché devo confessarti - aggiunse Bruno a bassa voce, guardandolo negli occhi, - che ho trovato l'Autentico...
Così, con queste parole, Bruno aveva parlato nel suo racconto L'epoca geniale, che fa parte della raccolta Il sanatorio all'insegna della clessidra. Ma cosa fosse quel certo "Autentico" non l'ho mai potuto sapere, perché Szloma figlio di Tobiasz, che era schiavo dei suoi istinti e forse anche codardo e traditore, sfruttò l'occasione che gli era stata porta e dato che si trovava solo in casa con Bruno, si affrettò a rubare la collana di corallo della serva Adela, e il suo vestito e le sue scarpe di vernice che lo affascinavano tanto. (Ma capisci il mostruoso cinismo di questo simbolo al piede di una donna, la provocazione della sua andatura libertina sopra questi tacchi raffinati? Come potrei lasciarti in balia di questo simbolo? Dio mi guardi dal farlo...)
E noi tutti abbiamo perduto l'occasione.
E io fui Szloma figlio di Tobiasz.
Di nuovo fui lui.
Per un attimo fui liberato dalla prigione. E stetti lavato e pulito e profumato da un lato della Piazza della Santissima Trinità a Drohobycz completamente solo sull'orlo della grande conchiglia vuota della piazza, percorsa dall'azzurro del cielo senza sole. Quella piazza, ampia e pulita, appariva in quel pomeriggio come un'ampolla, come un anno nuovo non ancora cominciato. Stavo ai suoi bordi tutto grigio e spento, coperto dal cielo azzurro, e non osavo infrangere con una decisione il globo perfetto del giorno non consumato.
In una delle finestre vidi un bambino piccolo e magro, con una testa quasi triangolare: una fronte ampia e alta, un mento aguzzo. E dapprincipio mi parve che fosse me stesso, riflettuto in me da uno dei vetri, ma poi riconobbi Bruno, quel ragazzino stupefacente, sempre acceso da idee non adatte alla sua età.
E lui mi chiamò e mi disse: "Siamo soli adesso in tutta la piazza, io e te". E sorrise con un sorriso malinconico e disse: "Quant'è vuoto il mondo. Si potrebbe dividerlo, e dargli un nuovo nome... Vieni, sali da me un momento, ti farò vedere i miei disegni. In casa non c'è nessuno, Momik".
I
Dal momento in cui ero uscito dal luccichio rotondo della Piazza della Santissima Trinità ed ero entrato nel buio corridoio della casa di Bruno, la piazza era andata empiendosi velocemente di gente, ed era come se colla mia venuta avessi dato il segnale d'inizio a una rappresentazione folta di personaggi. "Guarda" mi disse Bruno che stava accanto alla finestra, "sono tutti qui."
E infatti era proprio così: tutti gli abitanti della città, tutti i nostri conoscenti e tutti i parenti di Bruno, e i suoi compagni di classe, e i professori del Ginnasio-Liceo, tra i quali spiccavano gli insegnanti di disegno - il lungo Chaszontowski, e il piccolo Adolf Arendt che inviava in tutte le direzioni sorrisi esoterici e un profumo di segreto. Anche Tluya la pazza, vedevamo lì: Tluya che stava sempre nel Giardino delle Ortiche, dormiva lì su un letto a tre zampe tra i mucchi di spazzatura; ed ecco, era lì anche lo Zio Hieronim: alto e con un naso aquilino e occhi sfavillanti di terrore. Lo Zio Hieronim, che da quando la provvidenza gli aveva tolto dalle mani il timone della nave dell'essere non usciva mai dalla sua stanzetta; e stava lì cupo e iroso, e una pelliccia fantastica di peli e capelli gli cresceva e cresceva sempre più di giorno in giorno, e combatteva una lotta silenziosa e piena di odio contro un leone possente e cupo come un patriarca nascosto fra i palmizi di un gigantesco gobelin che copriva tutto il muro della stanza dello Zio e della striminzita Zia Retycja. Tutti, tutti erano lì: i vicini di casa e i loro bambini e i loro cani adorni di nastri a festa, e un gruppetto rumoroso di apprendisti del negozio di famiglia chiamato "Henrietta", i quali come al solito andavano dietro alla bella serva Adela che camminava sulle sue scarpe di vernice nuove e dormiva anche camminando, e aveva sempre le labbra socchiuse per un bacio sperso e dato a caso, e la vestaglia un po' aperta...
"Cosa succede?" chiesi a Bruno, "cosa festeggiano qui tutti quanti?"
"La venuta del Messia" mi rispose il bambino e tracciò con la mano, velocemente, un segno sul vetro della finestra.
Lo splendore nella piazza aumentava, e ormai non si poteva guardare senza esserne accecati. Era come se le creature fossero illuminate dal didentro, splendevano e si oscuravano a tratti, come alimentate da una medesima fonte di energia non ancora ben funzionante.
E quando guardai Bruno non ebbi più alcun dubbio che fosse lui quella fonte di energia: sulla sua fronte, ampia più di quanto comportasse la sua età, spiccavano le vene, come arterie di un forno troppo riscaldato. La sua faccia arse un momento in una luce rosso-fiamma, e un attimo dopo era di un rosa carico. Ma coll'alternarsi dei suoi sforzi avveniva in lui anche un altro mutamento, che in un primo istante non avevo capito cosa fosse: perché risplendendo di luce ed estinguendosi, Bruno galoppava anche avanti e indietro nel tempo: per un attimo era un adulto, teso in uno sforzo, febbricitante di forza potente, e l'attimo dopo era di nuovo assorbito dalla sua figura di bambino sveglio e vivace, che si sforzava di imprigionare la sovrabbondanza di se stesso nei miseri cerchi del suo corpo, e poi, - ma cosa sta succedendo? Si è ritirato indietro, è tornato alle rotondità dell'infante, alla peluriosità gentile di - -
"Bruno! Bruno!" gridai, "dominati!"
Mi guardò, splendente nelle sue mille luci, nella vertigine dei suoi tempi diversi, mi sorrise con mollezza e si strinse nelle spalle, come a dire che non poteva farci nulla.
E in quello stesso momento entrò in piazza Il Messia. Veniva dalla parte di via Samborska, a sinistra della nostra finestra, sul breve tratto di strada tra la chiesa e la casa di Bruno. Come è suo uso, veniva cavalcando il suo asinello grigio, sporco di peregrinazioni infinite. Sull'orlo della piazza si arrestarono, l'asino e il Messia, e lui scese. Gettò uno sguardo rapido verso Bruno, che gli fece, di rimando, un cenno col capo, in segno d'accettazione e di affermazione. Era uno scambio di sguardi così intimo, che perfino io, che stavo accanto a Bruno, non riuscii a vedere il Messia in faccia. Ma vidi bene il colpetto affettuoso che dava, con le dita della mano aperte a ventaglio, sul didietro dell'asino, per spingerlo ad avanzare più velocemente. E allora successe una cosa strana: il Messia stesso sprofondò all'indietro e scomparve!
Con una delusione indescrivibile guardai Bruno, ma lui sorrise e mi fece cenno con gli occhi di guardare bene la piazza: l'asino passava lì fra la gente e nessuno gli faceva caso. Di asini se ne vedevano sempre tanti in piazza e per le vie della città, ma dovunque muovesse quell'asino la corta coda di qua o di là, succedevano all'improvviso delle cose: era come se la gente si impietrisse per un momento e poi si riscuotesse o tornasse a camminare accanto a qualcuno e a chiacchierare con gli amici, ma fu subito chiaro che i fili che li tenevano uniti erano stati tagliati: espressioni di timore e di imbarazzo cominciavano a disegnarsi sui volti di quelli verso cui l'asino aveva agitato la coda. Si guardavano, ora, con occhi stupiti, come se si vedessero per la prima volta. Avevano la bocca impastata. Pareva che soffocassero, che non ricordassero neppure come si fa a respirare. Anche i loro passi erano molto più lenti: dappertutto si vedevano persone inciampare e ginocchia flettersi. I movimenti si erano fatti molto esitanti, in certo modo angolosi. Guardavano in tutte le direzioni chiedendo aiuto, ma non riuscivano ad emettere alcun suono distinto: solo voci confuse, bestiali, uscivano dalle loro bocche. L'asinello continuava il suo giro lento e tranquillo. Metà della piazza circolare era già sotto l'influenza dell'incantesimo gettato dal pendolio della coda, e l'altra metà non si era ancora accorta di nulla. Da una parte c'erano solo silenzio e lente smorfie e un risvegliarsi confuso, e dall'altra la vita continuava con un'allegria rumorosa. La piazza pareva una persona di cui una metà della faccia fosse paralizzata e l'altra metà eseguisse da sola tutta l'obbligatoria, estenuante mimica.
"Dimenticano" disse il mio Bruno, splendendo "dimenticano!"
"Dimenticano cosa?" chiesi io, con ansia, ma già cominciavo a intuire.
"Tutto" rispose il bambino, e le sue guance erano morse in dentro con un'eccitazione immensa, "tutto: la lingua che parlavano, gli esseri amati, l'attimo appena passato, guarda!"
Ora la piazza era completamente immersa in una danza lenta e assorta. L'asino, terminato il suo compito, uscì dal recipiente di vetro luccicante, si soffermò un attimo sulla sua soglia e poi, prima di scomparire nella via tra le due fitte file di case, mandò un raglio lungo e pieno di una strana allegria asinina.
Come se il raglio fosse stato il segnale: gli esseri tornarono a vivere, e io respirai sollevato. La piazza circolare pareva allora un neonato, e il raglio era il suo primo vagito. Ma subito smisi di gioire. Guardai davanti a me, e seppi che non comprendevo ciò che stavo vedendo: che davanti ai miei occhi si svolgeva uno spettacolo illusionistico nel più profondo senso della parola. Ma chi lo rappresentava? E a quale scopo?
"Il babbo e la mamma" mi sussurrò Bruno, "guardali, mio padre e mia madre."
Suo padre, che era morto, e sua madre. Suo padre dalla testa di profeta cupo e austero, suo padre sempre assorto nelle sue visioni, si era scosso d'un tratto e guardava la sua compagna, la grassottella Henrietta, che tutti chiamavano con l'affettuoso nomignolo di "Poncik". Voleva dirle qualcosa, ma anche lui, come tutti gli altri nella piazza, non trovava parole.
"No. Non così" sussurrò-fiammeggiò Bruno da lontano, "non con le parole, perché - -"
Anche loro lo sentivano. E non solo loro. Giù nella piazza le parole erano divenute superflue, come attrezzi primitivi. I sentimenti muti dei genitori di Bruno cominciavano a premere pericolosamente dentro di loro, ma non trovavano alcuno sbocco. Sui loro visi si disegnavano aspre espressioni di ansia, di supplica, di desiderio reciproco, e alla fine - di terrore e di smarrimento. Si tenevano per mano e per un momento furono estratti dal tumulto che subbugliava in piazza, come se cercassero di farsi strada insieme. Il petto della mamma si sollevava palpitando di desiderio, e i suoi seni tracciavano, muovendosi, il verso incompiuto di un poema dimenticato; dalla mente del padre erano irradiate - in modo incomprensibile - visioni allucinate, riflessi del suo animo in tempesta, e spruzzi di richieste d'aiuto e di comprensione. Ma era chiaro che Henrietta non sarebbe riuscita a salvarlo, stavolta. Lei sorrise con un sorriso impotente e imbarazzato e si ritrasse lentamente, facendo con la mano cenno che la scusassero, e sparì nella folla. In quello stesso momento - e questo lo sentii bene anche dal mio posto, da lontano - si ruppe con un gemito un filo invisibile, che a quanto pare era teso, una volta, fra loro.
"Non si sono mai capiti davvero" disse Bruno, tristemente, e chinò la testa. Ma dall'altra parte della piazza, presso la statua di Adam Mickiewicz, accadevano cose più rallegranti: Edzio, il giovane con le gambe paralizzate, che slanciava in avanti con arte la metà sana del suo corpo appoggiandosi sulle stampelle, si era incontrato, finalmente, faccia a faccia con Adela, la serva adorata. Edzio il forte, che stava imprigionato quasi tutto il giorno in casa custodito dai feroci genitori, che la notte gli nascondevano le stampelle; Edzio, che ogni notte si trascinava come un cane fino alla finestra chiusa di Adela, e appiccicava ai vetri la sua faccia contorta, e vedeva la bellissima serva dormire con forza e con una meravigliosa concentrazione, tutta aperta, allargata, nuda, spalancata all'invasione delle colonne di cimici, vagante per i deserti del sonno... la vedeva e lei, senza aprire gli occhi, lo vedeva. E si accendeva fra loro una breve scintilla, e passava in loro un tremito veloce e sconvolgente, che respingeva un po' indietro quelli che stavano attorno. E i due stavano lì e si guardavano, e per un solo ed unico istante gli occhi di Adela si aprirono: la crosta bianchiccia e sottile - come quella che c'è negli occhi dei pappagalli - che sempre li ricopriva, si aprì per un attimo: scintillò una luce, come se fosse scattato il lampo al magnesio di una macchina fotografica. Lei gli vide nell'anima e capì tutta la profondità della tragica potenza del suo essere mutilo. Lesse in un batter d'occhio la storia del suo starsene tutte le notti di fronte al sogno della donna, e sentì come le colonne delle cimici divenivano le dita del suo desiderio frugante fra le sue cosce. Si rattrappì tutta dal dolore e dal piacere, e lasciò che lui la baciasse, nel pensiero, per la prima volta. Un rossore profondo, purpureo, le colorì tutto il corpo quando si accorse che lui non si era mosso affatto e che le sue labbra erano rimaste socchiuse e sognanti, e ciononostante era stata baciata, con furore e con calore carnale era stata baciata, e mai più avrebbe conosciuto un bacio così...
"Cosa sta succedendo?" pretesi di sapere, "cosa stai facendo a quella gente, Bruno?"
Lui mi guardò, un po' deluso. "Non vedi? Non capisci? Il Messia è venuto. Il mio Messia. E loro dimenticano. E non possono più trovare appoggio in nulla di ciò che avevano usato per il triste inganno della loro vita di prima. Hanno solo quello che hanno ora - ed è bastante e ne avanza" disse, e accennò muovendo le sopracciglia a Edzio e a Adela, che pur stando in mezzo alla folla, erano già separati e come appartati, e avvolti da sottili filamenti di luce. "Ecco che tornano ad essere degli artisti, Shlomoh, dei grandi creatori!"
"Artisti? Io vedo solo dei disgraziati che hanno perduto tutto!"
"Ah, è solo perché non comprendono ancora cosa si richiede da loro e di cosa sono capaci" mi disse Bruno, per tranquillizzarmi, e nuotò per la stanza come un pesciolino, battendo allegramente la coda, voltandosi sulla schiena e tornando alla fine a mettersi accanto a me ritto sulle due gambe: "Di creazione, in tutto il vero senso della parola. In tutta la sua acutezza. Oh, Shlomoh, eccola l'epoca geniale che abbiamo sempre sognato, io nella mia scrittura e tu nella tua prigione. Ben presto capirai anche tu che tutte le migliaia di anni precedenti erano solo misere brutte copie, bozze, poveri tentativi esitanti dell'evoluzione..."
Sulla piazza i gruppi si suddividevano nei loro diversi componenti: membri di una famiglia si separavano con stupore e con una lieve stretta del cuore, senza capire perché non c'era più nulla che li tenesse uniti, o forse non c'era mai stato. I due onorevoli insegnanti di disegno, che erano intenti a una vivace conversazione col meraviglioso poeta Jachimowicz, lasciarono una frase a mezzo: le loro mani tracciavano ancora per aria complicati schizzi dei loro argomenti, e già si era spento in loro il fuoco che fondeva il loro entusiasmo e ne faceva parole. Stettero uno di fronte all'altro, guardando stupiti le mani che ancora gesticolavano, poi andarono ognuno per la sua strada, cercando, con un residuo della forza del loro vecchio modo di pensare, di rammentarsi come avessero potuto commuoversi tanto per un mazzetto di parole e di versi ghiacciati.
"Non hanno più letteratura" e Bruno raggiava, "né scienza, né religione, né tradizione, perfino Edzio e Adela si sono dimenticati a vicenda..."
E aveva ragione: i due si erano allontanati l'uno dall'altra, erano andati in parti opposte della piazza, e non mostravano alcuna nostalgia. "Nessuna nostalgia del passato" continuava Bruno, imperterrito, "solo nostalgia del futuro c'è ancora; non ci sono più opere immortali; né valori eterni, all'infuori del valore della creazione dell'opera in sé, che non è affatto un valore biologico, ed è forte più di ogni altro impulso; guardali, Shlomoh - non rammentano nulla oltre questo stesso istante, però l'istante nel mondo della piazza non è un battito dell'orologio della chiesa; no, è, diciamo, un cristallo di tempo che racchiude in sé solo e soltanto una precisa esperienza, la quale può continuare per tutto un anno o per tutto un secondo, sì, caro Shlomoh -" e Bruno continuava a parlare, e ora sembrava in tutto e per tutto un pesce che nuotasse dolcemente sul foglio verde impregnato d'acqua sospeso sotto di noi nell'abisso, "quelli sono esseri umani senza ricordi, anime di prima mano, nuove nuove, che per continuare a vivere devono ricrearsi a ogni momento la loro lingua e i loro amati e il momento prossimo futuro e ricucire con uno sforzo infinito i legami che si spezzano subito -"
"Ma è una crudeltà, Bruno, una crudeltà terribile!" urlai e fui preso dal terrore: "Non puoi far questo alla gente! Non tutti sono fatti di questa materia... ah - primigenia! Ci sono alcuni fra noi che, a quanto dicono, hanno assolutamente bisogno di schemi ordinati, di leggi, di cose fiss - - Oh, Dio mio! Guarda un po' là!"
In fondo alla piazza, accanto alla cassetta delle lettere, là dove le formiche raggranellanti la dimenticanza disfacevano velocemente e con efficacia gli ultimi filamenti del passato dal tessuto dell'attimo or ora scaduto, là stava il vecchio Zio di Bruno: Hieronim. Pareva che stesse passando una prova insopportabile; che i capricci della nuova epoca mettessero a prova perfino la vaga intuizione che aveva del proprio esistere: fremeva e tremava. Sudava tutto affannato. Zia Retycja lo guardava disperata, senza osare toccarlo. Attraverso il panno del suo elegante abito si potevano scorgere le strane sporgenze che gli erano spuntate qua e là. Era chiaro che nessuno sarebbe stato capace di comprendere ciò che gli succedeva; forse neppure lo Zio stesso.
Si appoggiava pesantemente alla cassetta delle lettere (che rumoreggiava anch'essa di fragori e cinguettii, da quando si erano scomposti nei loro componenti tutte le lettere e le parole e i sentimenti che erano stati catturati nello scritto in tutte le lettere inviate prima della Nuova Rivoluzione), e ascoltava a occhi chiusi e con un viso martoriato la tempestosa discussione che si svolgeva dentro di lui.
E fu allora che successe quella cosa che la nostra povera lingua non può documentare con precisione, ma solo darne un resoconto protocollare secco e pallido: perché d'un tratto si sentì venire dal corpo dolente dello Zio un lieve scoppio seguito da un sospiro di sollievo, e improvvisamente fu chiaro, senza alcun dubbio, che ora lui era diventato due. Che la lunga lotta tra lui e il vecchio leone dipinto sul gobelin era finita qui all'improvviso con un'intesa reciproca inaspettata ma utile ad ambedue, e che erano finalmente riusciti a rompere con le loro forze riunite il groppo del rancore che li aveva soffocati per anni, e, a prezzo di una lieve rinuncia da parte dello Zio, che aveva accettato di rimpicciolirsi un po' nella buccia del suo corpo e di fare un po' di posto anche al leone, i due avrebbero potuto d'ora in poi godere di una vita-in-coppia sopportabile, e forse anche piacevole.
Sì. Fu subito chiaro che erano molto adatti l'uno all'altro. Che tutta quella lunga e violenta battaglia che avevano combattuto fra loro - quando il leone prigioniero del gobelin si alzava sulle zampe di dietro e dalla gola gli usciva un ruggito roco, e lo Zio si buttava su di lui con un urlo abbaiato - aveva coperto, in fondo, una grande simpatia reciproca e uno sforzo disperato di avvicinarsi, da parte di due cuori solitari e prigionieri e troppo superbi per confessarlo. E Zia Retycja, che negli ultimi tempi era stata sempre attenta a interporsi tra lo Zio e la camera da letto dominata dal gobelin, la Zia Retycja a cui avevo sempre voluto tanto bene, e in cui tutti vedevano una diga, un argine fatto di solida logica che separava due laghi tempestosi di follia, si rivelava ora in tutta la sua meschinità e gelosia, e fu chiaro che il suo esistere non aveva giustificazione alcuna se non in quanto rappresentante della vecchia concezione del tutto, del "buon ordine", dell'essere savio nel più disgraziato senso di questa parola, e infatti ora, da quando il suo scopo di vivere era stato distrutto - oh, non potevo continuare a stare a guardare quello che succedeva lì, accanto alla rossa cassetta delle lettere, e ora, ohi, sul selciato della piazza...
"Puoi tornare a guardare" disse Bruno con una certa soddisfazione, "lei non c'è già più."
E dato che rifiutavo di alzare gli occhi, Bruno mi sussurrò come a confortarmi: "Vedi, Shlomoh, la gente come Zia Retycja, quelle sono le anime di seconda mano a cui ho accennato; quelle che possono esistere solo come attrezzi secondari dell'essere, e si nutrono della tensione creativa della gran parte degli uomini, i quali sono senza alcun dubbio gli artisti principali e originali; e giustificano la propria esistenza solo in quanto non cessano di avvisarci dei terribili pericoli cui andremmo incontro se loro scomparissero... ah, Shlomoh, dalla tua espressione è chiaro che tutto questo ti terrorizza... ti è completamente estraneo... ma questa è la speranza che resta a noi tutti di rivivere, nel senso che tu e io intendiamo, perché sennò tutti noi non siamo che statue di pietra, chiusi in trappola dal momento della nascita al momento della morte, e non abbiamo speranza alcuna di salvarci dalla roccia nella quale un bravo scultore ha appena tracciato le linee del nostro essere, ma quello scultore era bravo ma non geniale, geniale ma non pietoso. E il Messia, Shlomoh, è lui che ci libera, ci fa uscire dalla trappola di pietra, ci soffia in aria come coriandoli senza peso che vagano nello spazio della piazza, e qui ci creeremo una vita nuova a ogni istante, scriveremo interi poemi epici nel fugace incontro di due di noi, perché già sai come me che tutte le altre strade portano all'insuccesso, alla sconfitta e alla prigione, alla vecchia cultura malata di elefantiasi..."
Io tacevo. Ero pieno d'ira per la sua eccessiva sicurezza in se stesso, perché pensava superbamente che tutti dovessimo essere del suo parere. È vero, non è che non sia almeno un po' d'accordo con lui, sotto certi punti di vista e in determinate condizioni, ma rivoluzioni così drastiche devono essere ponderate attentamente, e bisogna prepararsi, ed è necessario creare le basi e il meccanismo. Gettai uno sguardo fugace sulla povera Zia Retycja e rabbrividii di nuovo. Era meglio non guardare! Perché anche altri avrebbero potuto incorrere poi in una simile fine. Tra parentesi: di proposito ho detto "fine" e non "morte", perché quello che era successo a Zia Retycja era difficile definirlo "morte": presso la rossa cassetta delle lettere, sul selciato della piazza, c'era uno strano miscuglio, simile a segatura grigiastra: erano senza dubbio i sedimenti tangibili di tutti gli aggettivi, i verbi e le coniugazioni, cui Zia Retycja era servita da crocicchio. Un mucchietto freddo e indifferente. "Proprio com'era stata in vita" dice sorridendo Bruno, che ascolta tutti i miei pensieri: "e in realtà lei non è morta, Shlomoh, perché non era mai stata viva davvero, viva, cioè, nel senso che tu e io... ecc. ecc.. E sono sicuro che non ha mai sospettato, nemmeno per un attimo, che io fossi capace di eliminare un essere umano solo per far felici altri esseri umani."
Mi voltai dall'altra parte, incollerito. La piazza era in preda ora a una nuova serie di brividi. Pareva si fosse liberata di una parte dell'orrore e del terrore che avevano caratterizzato l'inizio della nuova epoca. Come succede nei boschi bruciati e ridotti in cenere, anche qui ricominciavano a prender forma forze vitali, e già spuntavano le prime foglioline verdi: è vero che le famiglie si erano del tutto decomposte, e i loro trasparenti legami erano sparsi a matasse per tutta la piazza, ma già si formavano nuove famiglie, istantanee, famiglie a volte di un componente solo che, in un modo sorprendente, godeva una felicità della quale non aveva mai conosciuto l'uguale stando con sua moglie e i suoi figli. Nuove amicizie si formavano fra persone di cui mai si sarebbe potuto pensare che avessero qualcosa in comune: il simpatico Adolf Arendt, il piccolo maestro di disegno, era assorto nella creazione di tutto un sistema di legami (molto imbarazzanti, a mio parere) con Tluya la pazza, e sopra le loro teste si intrecciavano, come corna ramificate, le splendide possibilità delle loro fantasie e delle loro follie; e il padre di Bruno, che era morto, godeva nel vedere finalmente esaudito quello che era stato da sempre il suo desiderio più ardente, e svolazzava come un grande uccello sopra la piazza, sopra tutta la città. Cioè: non che i suoi piedi si staccassero da terra, ma a chiunque volesse crederlo era chiaro che quell'uomo era pieno di volo.
La più stupefacente di tutte le cose che succedevano davanti ai nostri occhi era che tutto accadeva in perfetto silenzio e nulla era profanato da parole. E ciononostante la piazza rumoreggiava di sussurrii e di condensazioni sonore dei vapori delle sensazioni, né posso descriverlo qui per la tremenda, impotente pochezza della nostra maledetta lingua. Posso dire solo questo: come il cieco ha un senso dell'udito più sviluppato, come compensazione all'altra sua mancanza, così le essenze mute e prive di nomi e di parole accentuavano ora le loro espressioni più nascoste, e la gente reagiva subito, per un istinto fin qui sconosciuto, alle nuove sollecitazioni. Anche nei meccanismi di ricezione si erano prodotti, a quanto pare, veloci mutamenti. Tutti erano intenti a un nuovo e affascinante sforzo. "Ora comprendi?" chiese Bruno, sottovoce: "sono tutti artisti."
E per la verità devo notare che all'infuori di Zia Retycja e di altri pochi casi, la rivoluzione si era svolta senza mietere vittime. La gente pareva più felice e più viva di prima. Il sangue scorreva in tutte le vene fermentando come un vino, e lo potevo sentir cantare. La pelle della gente luccicava, come illuminata da una luce interna. Dappertutto uomini e donne ascoltavano, con un'espressione stupita, il proprio ning, e annuivano con cenni del capo, con un'intesa felice. Il fatto di esistere era divenuto, d'un tratto, e per tutti, tangibile, come una volta erano tangibili per loro il proprio spegnersi, la propria debolezza. La vita stessa era ora un piacere forte ed eccitante. Accanto alla cassetta delle lettere stava Zio Hieronim e si accarezzava con la zampa i baffi, con piacere. In diversi posti si vedevano uomini e donne fare l'amore con una passione meravigliosa, che non causava alcun imbarazzo a quelli che erano loro vicini (io preferii guardare da un'altra parte).
"Ma, Bruno" dissi tutto confuso, "tu ci proponi un mondo la cui anima viva sia la passione di creare. E in un mondo così non ci saranno mai pensieri assassini?"
Il bambino - così piccolo! - mi guarda con quei suoi occhi neri e lampeggianti. Nuota sul cartiglio tra alghe e borraccine, come un ragazzo che cammina nel suo giardino. Piccoli grandi eremiti, di quelli che fanno il nido nelle conchiglie, gli corrono ora davanti affrettandosi verso il folto delle parole per far lì il loro nido, e rose marine gli rivolgono preghiere, tendendo verso di lui le loro braccia di madonne.
"E sup-po-nia-mo" dice Bruno cantilenando, "supponiamo che per una qualche distorsione si crei un pensiero così: è chiaro al di là di qualsiasi dubbio che quel pensiero non potrà neppure concretizzarsi nella mente di un singolo. Nemmeno uno potrà concepirlo e comprenderlo con gli strumenti di comprensione di cui è dotato, caro Shlomoh! Quel pensiero sarà anche per quel singolo solo come un senso d'oppressione passeggero e confuso, dal momento che esso è così opposto all'ordine primigenio della sua vita: e non solo per quanto riguarda un pensiero assassino, mio caro Shlomoh, no: ma anche per ogni pensiero che racchiuda in sé un pizzico delle spezie amare del consumarsi e spegnersi e del congelamento e annientamento, e della paura. Nessuno potrà capire pensieri così, proprio come nel vecchio mondo nessuno poteva capire davvero, nel profondo delle viscere, la storia di un uomo risuscitato dopo la propria morte, o la storia di un tempo che all'improvviso aveva cominciato a scorrere all'indietro. Perché, caro Shlomoh, io ti parlo di una vita completamente diversa, della prossima fase dell'evoluzione umana... E siamo ancora d'accordo di spartirci il mondo fra noi due e chiamarlo con un nome nuovo, o forse ti stai pentendo, ora, Shlomoh, e stai scegliendo di andare di nuovo per la strada più facile e guardi le scarpine di vernice luccicanti di Adela, e vuoi tornare ancora una volta in prigione?"
E mi guarda con occhi supplicanti.
Mi richiamo alla mente argomenti decisivi contro quelle sue idee che non stanno né in cielo né in terra: per esempio, come potrà sussistere un sistema di leggi e una giustizia in un mondo fatto così, e come sussisterà una scienza sviluppata e sistematica, e cosa ne sarà della politica e dei patti tra i diversi Paesi, e cosa ne sarà degli eserciti e delle polizie, e cosa di - -
Ma i miei pensieri si spengono subito, e mi infondono malinconia. Ma se tutte quelle cose hanno già dichiarato fallimento! Hanno deluso in un modo così assassino, né esiste al mondo forza alcuna che impedisca loro di servire da strumento per le azioni più tremende. E davvero - mi domandavo con grande rabbia - davvero Roosevelt e Churchill erano stati "i buoni"? Contro il male abbiamo schierato i nostri carri armati e i nostri aerei e i nostri sottomarini. Abbiamo schierato forze di un altro male. L'oppressione mi invadeva tutto. Volevo uscire dal mare e andarmene a casa, e dimenticare di essere stato qui e di essermi posto quelle domande. Ma non avevo la forza di muovere un dito. Sarei stato deluso di nuovo. Immersi la fronte nell'acqua. Non è possibile che questo sia il nostro verdetto, in eterno - mi dicevo. Bruno deve aver sbagliato. "Dimmi, ti prego" gli chiedo e tento invano di dare alla mia voce un tono leggero e mordente, "in base a che cosa credi che quei coriandoli isolati sospesi in aria vorranno poi stringere legami fra loro, conversare e creare, e cosa impedirà loro di cadere giù, così, sulle pietre del selciato della piazza, o di continuare a volteggiare sospesi in aria senza coscienza alcuna? Dimmelo, Bruno!"
"Non hai capito nulla" dice il bambino, dice il pesce, con tristezza, e mi spiega, piano e chiaramente deluso, ciò che avrei dovuto afferrare già da tempo: "sono tutti esseri umani e perciò - creatori. Sono condannati a esserlo. Sono obbligati a esserlo, per loro stessa natura - obbligati a creare la propria vita, il proprio amore e il proprio odio e la propria libertà e il proprio canto; siamo tutti artisti, Bruno, e solo alcuni di noi l'hanno dimenticato, e altri preferiscono ignorarlo per una strana paura di cui non riesco a comprendere il motivo, e c'è qualcuno che se ne rende conto solo al momento della morte, e c'è qualcuno - come una certa Zia di cui non faccio il nome per il rispetto dovuto a ciò che si decompone - che non lo comprende nemmeno allora..."
"E noi? I poeti? I pittori? I musicisti e gli scrittori?"
"Ah, caro Shlomoh, in confronto all'arte vera e naturale, la letteratura e la musica non sono che mestieri, non sono che un lavoro provvisorio di copisti, un artigianato di interpretazione superficiale, per non dire poi chiaramente: un misero plagio, un plagio privo di fantasia e di talento creativo..."
"Se è così" dissi con grande cautela per non procurargli troppo dolore, "allora cosa diresti, e come potremmo continuare a vivere nel nostro vecchio mondo, dopo un certo fatto di cui abbiamo sentito dire, un fatto che si racconta sia successo a uno che ancora non conosci, o forse l'hai già dimenticato, uno che ha sparato a un ebreo solo per schernire un rivale, e quell'altro gli ha risposto..." "Ma te l'ho già detto -" Bruno mi interruppe branchieggiando tutto eccitato come se non volesse affatto sentire quello che stavo ancora per dire, "te l'ho già detto tre volte che cose simili possono - anzi devono - succedere in quella carogna marcita della cultura." Si girò su se stesso più e più volte, si tuffò in profondità, poi tornò a galla vicino a me, dirigendosi con la coda, come uno spermatozoo pieno di vitalità: "E ora tutti capiranno" disse, "che chi uccide un uomo produce in tal modo la fine di un'arte tutta peculiare, individuale, idiosincratica, che mai più sarà possibile restaurare... un'intera mitologia, un'epoca geniale infinita..."
S'interruppe all'improvviso e mi guardò con sospetto. Forse si chiedeva se quello che gli avevo detto lo toccava in qualche modo. La sua piccola figura saltellava tra il guscio del bambino e il guscio del pesce. I miei occhi si scontrarono un momento con un raggio perturbante, una squama luccicante di scarpa o di pesce che passava, la scarpa di Adela, o il piegarsi di un pesce guizzante scintillando, inviati fino a me per stornare la mia attenzione, e quando tornai a guardare vidi che Bruno era in preda a un attacco di tremiti e sconvolgimenti insopportabili e intanto si rimpiccioliva sempre più, ma non tanto nelle sue dimensioni, ma - forse - nel suo essere che si faceva più aereo, più astratto, un po' "pensionato", ma non nel solito senso di questa parola bensì nel senso che Bruno e io eravamo...
Per un momento tornò ad essere concreto ai miei occhi: metà della sua faccia, la fessura della sua bocca, un occhio e una branchia pulsante. Con un tremendo sorriso mi disse: "In questo nostro mondo nuovo, Shlomoh, anche la morte apparterrà esclusivamente all'uomo. E quando un uomo vorrà morire, dovrà solo sussurrare a se stesso la sua parola d'ordine intracorporea, la parola d'ordine che ha il potere di scomporre in un istante il codice genetico della sua unica esistenza, il segreto dell'autentica essenza dell'individuo, e non ci sarà più una morte in massa, Shlomoh, come non ci sarà più una vita in massa".
"Aspetta!" gridai io, spaventato. "Non devi lasciarmi, ora! Non dopo che mi hai infettato con quei tuoi desideri ardenti e insopportabili! Non puoi lasciarmi più solo!"
"Potrai sempre fare come me" disse lui, "venire con me, o sceglierti una tua strada."
"Bruno" dissi io, con un gemito, "ti ho ingannato. Sono un debole... sono un prigioniero, per mia natura... amo le mie catene... sì, Bruno, tutto pieno di vergogna me ne sto qui davanti a te e confesso: sono un traditore, un infido, un codardo... nutro misere concezioni retiziane... ora sai tutto... non sono nato per l'epoca geniale... se ci fosse qui la scarpa luccicante di Adela, mi precipiterei a cogliere l'occasione di rubarla e fuggire lontano da te, come quella volta... come sempre... aiutami, resta con me... ho paura, Bruno."
All'improvviso cominciò a palpitare, a dibattersi, e tese il suo corpo magro dentro la realtà, ma subito si ritirò con gran forza, con un sibilo aspirato. "Bruno!" gridai, "aspetta ancora un momento!" Lui si pietrificò sul posto: il mondo trattenne il respiro. Un mare di metallo cilestrino. "Bruno" dissi con soggezione, "perdonami se ti trattengo qui in un tale momento, ma per me è molto importante sapere: se per caso, solo per caso, sai qual era la storia che Anshel Wasserman raccontava a un tedesco chiamato Neigel."
Bruno scosse la branchia e chiuse gli occhi, concentrandosi: "Ma era una storia bellissima, certo" disse, e la sua strana faccia si illuminò per un attimo, "però... ah! Che diavoleria! L'ho completamente dimenticata!" E sorridendo, come se all'improvviso ricordasse, aggiunse: "Ma certo! È una storia fatta proprio così, caro Shlomoh, che la si dimentica e bisogna ritrovarla ogni volta di nuovo, sempre di nuovo!"
"Ed è possibile che tu non l'abbia mai saputa, che tu non l'abbia mai sentita, se la ricordi?"
"Certo, proprio come uno si ricorda del proprio nome. Della propria vocazione. Del proprio cuore. No, caro il mio Shlomoh, non c'è nessuno che non conosca questa storia."
La sua voce si affievoliva. Tutto il suo corpo si torceva. Io mi nascosi la faccia fra le mani. Sentivo un suono strano, come se da qualche parte un grosso corpo venisse inghiottito in una bocca nascosta. Un sospiro straziante si alzò dal mare non lontano da me, e dopo un attimo seppi che Bruno non c'era più.
Mi rivolgo a lei, ora, tutto oppresso, e lei non risponde. Mi sono spaventato. Mi terrorizzava il pensiero che lei mi lasciasse, ora, proprio quando ne avevo tanto bisogno; quando stavo perdendo le forze e non avevo più voglia di tornare a casa né più forza di scrivere questa storia in una lingua malata di elefantiasi. Vieni, mugolo debolmente supplicandola, vieni, voglio raggomitolarmi tutto dentro di te, dimenticare me stesso; così dura e ostinata era la solitudine del Brunismo, che noi tutti siamo diventati i solitari, gli erranti... immersi in una pietra in cui ci ha appena sbozzati uno scultore bravo ma non geniale, geniale ma certo non pietoso, e siamo affamati senza saziarci mai, e peggio ancora: abbiamo perduto il desiderio stesso di sazietà. Oh, le sussurro, sussurro nelle ondine, nelle pieghe della sua carne, se la nostra vita è solo il suo proprio esaurirsi, allora tutto ciò che dà aiuto a quest'esaurimento è un complice maligno e nascosto della morte, e noi stessi non siamo che collaboratori degli assassini. È vero: sono assassini pieni di responsabilità, che vogliono il nostro bene, gentili e pieni di attenzioni, ma assassini. Tutti coloro che con la pretesa di darci protezione e di assicurarci la pace dell'animo compiono in noi il più orribile delitto, il delitto contro l'umanità, tutti coloro che noi stessi con le nostre stesse mani abbiamo posto a custodia di noi, ma che alla fine soffocano pian piano la nostra felicità; e intendo dire il Governo, il Governo di ogni e qualsiasi tipo, che impone la legge dei pochi sui tanti, o dei tanti sui pochi; nonché tutto il Sistema Giudiziario che quasi sempre induce a un compromesso tra le varie categorie possibili di giustizia; e la Religione, che si basa sull'imposizione, a tutti i credenti di non fare domande; e la nostra tranquilla e sonnacchiosa Morale; e il gregge obbediente del Tempo, le cui lancette d'orologio spingono avanti i minuti come fossero pecore; e la Paura e l'Odio che sono in noi, quelle due braccia della tenaglia con cui ci leviamo di dosso ogni briciola di intimità e di amore; e la nostra Saggezza tiranna; cos'è tutto questo se non il canale ammuffito in cui scorriamo dolcemente verso la nostra morte, godendo ogni tanto di un misero premio di consolazione fatto di pietà gretta, di cauto amore e di allegria-con-riserbo e di desiderio sospettoso; tutto non è che un mucchio di esche stagionate, e perfino io riesco già a capire che l'uomo - l'Uomo nel senso che Bruno e io intendiamo dicendo "Uomo" - sarebbe capace di consolazioni e gioie maggiori di quelle, di una scala di colori incredibilmente più ricca...
"Ora stai dicendo qualcosa" dice lei, con calma, con gli occhi un po' rossi levati di contro al sole che tramonta su di noi. "Ora, finalmente, cominci a capire." E stiracchia un po' le sue onde, le invia pacatamente in movimenti ampi e tranquilli, piena, d'un tratto, di matura ricchezza. Nuotiamo in silenzio di fronte a un piccolo villaggio polacco. L'acqua mi si addolcisce in bocca, all'improvviso. Assaggio di nuovo, e mi rendo conto che non sbaglio.
"Lui arrivò al fiume?"
"L'hai sentito."
"E le cascate? Come ha passato le grandi cascate? Come ha nuotato controcorrente?"
"Nell'unico modo che conosceva."
Un silenzio. Poi lei chiede: "E tu? Come le passerai, tu, le cascate?"
"Non farmi questa domanda, ora."
"Stai ritornando in te, Neuman? Stai già cominciando a dimenticare?"
"Come puoi pensarlo! Ora? Dopo Bruno?! Dopo tutto ciò che mi hai detto?! Vergognati!"
Ma due piccoli vortici d'acqua, formatisi a una certa distanza l'uno dall'altro, mi dettero l'impressione che lei facesse un sorrisetto, e sulle guance le si disegnassero due fossette.
"Strano" dice lei e si lecca le labbra, "le mie piccole spie mi dicono che già in questo momento ti stai pentendo di quasi tutte le cose che hai det - - ah, che differenza fa, ormai. È la tua vita, non la mia. Se poi la si può chiamare vita. Peccato. Peccato. Per un momento ti avevo creduto. Per un momento avevo perfino... perfino creduto in te." Davvero c'era una nota di dolcezza inattesa nella sua voce? Davvero si poteva sentire nelle sue parole un tono di affetto? Lei non risponde. Si allontana un po' da me, nuota sul dorso. Il sole l'accarezza con i suoi ultimi raggi. Lei sembra, ora, come la tavolozza rotonda di Van Gogh, quando dipingeva gli ampi campi d'oro dei Paesi Bassi. Così bella, misteriosa e matura tra i veli delle nuvole che si legano insieme sopra di lei all'orizzonte. Ma è riuscito, Bruno, a vedere la sua bellezza, o era assorto solo in se stesso, nel suo ininterrotto sforzo? Ha saputo farle piccoli doni di affetto e di attenzione, lui che era il suo uomo?
Lei tace. Fini vene azzurrine risaltano d'un tratto sulla sua fronte. Un uomo come lui non si è certo accorto di lei e della sua bellezza, ma si è subito creato in sé il grande Mare Chiuso, l'immenso Lago suo proprio e in quelle acque ha nuotato. E lei è ben degna di amore. Assolutamente degna. Forse perfino dell'amore di qualcuno le cui pretese siano molto inferiori a quelle di Bruno. Di qualcuno che sia più modesto, più pratico ma non privo di una certa sensibilità poetica, e che sappia distinguere le sottili sfumature di lei; qualcuno che sia, naturalmente, un nonnulla a paragone del nostro sublime Bruno, del nostro Bruno trascendente e senza compromessi, ma forse proprio per questo, proprio per questo suo essere tanto assorto nella sua piccola esistenza giornaliera, e proprio per il suo essere un tipico prodotto della società marcescente, e per il suo essere così umano, ecco che questo qualcuno, mi dico, avrebbe certo potu - - "Ma quietati una buona volta, quietati" dice lei e mi sbatte, come per caso, contro uno scoglio aguzzo, che non c'è dubbio che un minuto prima non c'era. "Quietati, ora, Neuman" dice di nuovo, con più gentilezza, e mi carezza, come a consolarmi, la spalla dolente: "Avrai lì una feritina, come l'aveva Bruno. Ma la tua ferita si cicatrizzerà. Tu appartieni alla razza di quelli che si cicatrizzano. Ma cosa c'è? Qualcuno ti sta chiamando!"
"Pan Neuman! Mister Neuman!" Sulla spiaggia c'è la mia padrona di casa, nerovestita. Mi fa grandi segni con la mano. A quanto pare, il sindaco sta per partire per Gdansk. Devo uscire dall'acqua e partire con lui. E dopodomani sarò di nuovo a casa. "A casa." Come mi sembra strana e insulsa, ora, questa espressione.
"Saresti anche carino" dice lei proseguendo la nostra conversazione interrotta, e continua a leccarmi, consolante, le costole, "ma non sei fatto per me. No. Il tuo spazio congenito, caro mio - -" e tace un po', e gli scogli sul lontano orizzonte scintillano all'improvviso con un risolino: "il tuo spazio vitale è vicino alla costa, s-ì, ogni tanto ti piace sguazzare un po' in me, ma preferisci farlo sempre vicino a lei, nel caso che sorga un improvviso pericolo, nel caso che ti prenda un'improvvisa voglia di scappare dentro ma proprio dentro di me, sì, Neuman, sei molto prudente. Direi: sei un tipo peninsulare. Proprio così."
E io trattengo a stento un gemito.
"E ora" e infonde allegria alla sua voce, fa danzare di fronte a me le onde, "ora fammi un ultimo piacere e non prendertela con me per questa mia preghiera, ma pensa a lui per me, mio caro, per un'ultima volta pensa a lui che è in me, dentro di me, pensa al nostro Bruno, ti prego, ti prego, tra un momento ci separeremo, no? E non avrò più nessuno che mi racconti così di lui, del mio Bruno, che sta soletto in capo al molo di Danzica, pensa a lui, solo perché io possa pensare con te, lo sai: un piccolo, passeggero problema di salute... ti prego, ti prego..."
Batte le lunghe ciglia d'alghe, spalanca le narici con un lieve fremito. No. Non mi influenzerà con i suoi incantesimi da quattro soldi, con quei suoi acquerelli della femminilità. E io non penserò affatto a lui. Lei non riuscirà a farmi andare come un bambino sonnambulo, come un innamorato, al porto, all'estremità di quel molo, al confine del vecchio mondo, no! Sono più forte di lei. E no a quella pioggia fine che cade su di lui come se fossero lacrime, e lui è tanto magro, denudato da ogni abito, solo l'orologio gli è restato per un momento, l'orologio che ancora segna il vecchio tempo, e lui salta con disperazione e coraggio e perché non ha scelta dalla punta del naso della gigantesca carogna distesa lì, ed è solo com'era solo il primo pagano che s'innalzò dal totem verso il Dio invisibile, ma che splendido volo, Bruno, che ampiezza, che slancio - -
E lei, accanto a me, scoppia in un riso soffocato.
A tutti i diavoli di terra e di mare.
Wasserman
A