domenica 30 giugno 2024

Yoga Emmanuel Carrère

 


Yoga 

Emmanuel Carrère 

Recensione (La lettrice controcorrente)

 Yoga è  un romanzo dove l'immaginazione  si mescola alla vita di questo scrittore, Il soggetto del libro è sempre lui ma qui Emmanuel si è denudato mostrandosi solo e sopraffatto. Gli ho voluto bene come si vuole bene a una persona problematica che fa parte della famiglia.

Yoga doveva essere in origine un libro sullo yoga appunto, e la prima parte in un certo senso lo è. Ma la vita scombina sempre i piani di Carrère e i nostri. Così questo libricino che prova a definire la disciplina si trasforma in una lunga confessione, un grido, una richiesta di aiuto.

Quando Emmanuel (e concedetemi di chiamarlo per nome) è immerso nel seminario Vipassana viene richiamato nel mondo reale per via dell’attentato a Charlie Hebdo. Da lì il libro cambia radicalmente forma e registro.

Se adesso mi ostino a scrivere questo libro, ovvero la mia personale versione di quei libri di autoaiuto che si vendono così bene, è per ricordare ciò che i libri di autoaiuto raramente dicono: che i praticanti di arti marziali, i seguaci dello zen, dello yoga, della meditazione, di tutte queste discipline sublimi, fulgide e benefiche a cui da sempre faccio la corte, non sono necessariamente né saggi né tranquilli, né tantomeno sereni e in pace con se stessi; ma a volte, anzi spesso, sono come me drammaticamente nevrotici, e che però non importa, perché, come diceva Lenin, bisogna “lavorare con il materiale a disposizione”, e allora, anche se non ci conduce da nessuna parte, facciamo bene a ostinarci, nonostante tutto, a percorrere questo cammino.

Carrère lega le nozioni dello Yoga al dolore per la perdita dell’editore, le mescola a una relazione sessuale intensa e indimenticabile, fino ad arrivare alla depressione e alla malinconia. Dando vita a un libro variegato, in alcune parti un po’ alienanti e ricco di interrogativi. Difficile credere che questo Carrère sia lo stesso de L’avversario o de La settimana bianca.

Noi siamo puro caos, confusione, siamo una poltiglia di ricordi e paure e fantasie e vane aspettative ma dentro di noi c’è qualcuno di più tranquillo, che vigila e riferisce.

Yoga è in un certo senso puro caos. Per questo non lo consiglierei a chi non ha mai letto nulla di questo scrittore. Bisogna arrivarci pronti, bisogna aver già capito se amate o odiate Carrère. Perché no, non ci sono vie di mezzo.

Non lo so se c’è davvero un lieto fine in Yoga. Penso che Carrère non riuscirà mai a  liberarsi dei suo demoni, ma credo anche che non smetterà mai di cercare la luce, l’amore, la rinascita.

So che Yoga, ancora una volta, ha diviso il pubblico. Io personalmente l’ho amato nella sua ripetitività, l’ho immaginato come il frutto della depressione di Carrère, ho creduto fosse una lunga confessione e per questo forse l’ho compreso.

Le pagine in cui Carrère racconta la depressione sono intensissime. Quando il giornalista si reca a casa sua per l’intervista, mi si è stretto il cuore. La stessa cosa evidentemente è successa davvero anche al giornalista che racconta il giro in motorino con una tenerezza inaspettata:

«Sarebbe stato molto più facile se fossimo stati amici.non sarei stato costretto a irrigidirmi per mantenere la distanza tra noi, avrei potuto tenermi a lui, non è certo il comportamento che ci si aspetta da parte di un giornalista nei confronti della persona che è venuto a intervistare, ma mi dico che in fondo è proprio quello che avrei dovuto fare: abbracciare quell’uomo così infelice».

La depressione di Carrère che viene raccontata senza filtri e senza quasi personaggi di spalla è fondamentale in Yoga. Poco importa quali siano gli elementi di finzione e quali quelli reali. Di fatto abbiamo di fronte un uomo che affronta l’eletrroshock nella speranza di guarire, di tornare a sorridere. E che cerca un “padre”, una guida per affrontare un dolore che è lui stesso a procurarsi.

«Quello che sta vivendo è orribile: bene. Lo viva. Vi aderisca. Sia quell’orrore. Se deve morirne, ne morirà. Non cerchi né ragioni né mezzi per uscirne. Non faccia niente, lasci perdere: solo così può verificarsi un cambiamento». In altre parole: mediti, perché la meditazione è questo.

 è…

Confessione. Ma è anche dolore, meditazione, speranza. Yoga è un libro in cui viene contenuto di tutto: realtà, invenzione, pillole di yoga, attualità. Ma la verità è che non so come definirlo, posso solo dire che questo romanzo mi ha fatto tornare la voglia di leggere e di non pensare perché ho fatto come c’è scritto: mi sono abbandonata e ho lasciato che l’angoscia del momento mi attraversasse senza travolgermi.

Forse questo non è il miglior Carrère e capisco chi critica quest’insieme di impressioni a tratti allucinante ma io non posso far a meno di amare anche questo.

Trent’anni a perseguire la calma e la profondità strategica, trent’anni a raccontarmi la mia vita come un progressivo sottrarmi alla confusione e costruire con pazienza uni stato di meraviglia e serenità, trent’anni in cui ci ho creduto davvero, nonostante i cedimenti e i periodi di depressione, è proprio quando ero giunto al traguardo, all’approssimarsi della vecchiaia, quando avevo una casa, una famiglia, tutto per essere saggio e felice, mi ritrovo solo, accoccolato in posizione fetale in un letto a una piazza, nella casa vuota di una donna sola e perduta, partita anche lei senza lasciare un indirizzo per chissà quale posto dell’emisfero meridionale. Non è un granché come bilancio. Non è una buona pubblicità per lo yoga. Ma sbaglio a dire questo: lo yoga non c’entra niente, il problema sono io. Lo yoga tende all’unità, e io sono troppo diviso per raggiungerla.

Consigliato per chi non ha paura di abbandonarsi a una storia strana, imprevedibile, reale.


YOGA

L’arrivo

Poiché devo pur cominciare da qualche parte il racconto dei quattro anni durante i quali ho cercato di scrivere un libricino arguto e accattivante sullo yoga, ho affrontato cose molto poco argute e accattivanti come il terrorismo jihadista e la crisi dei rifugiati, sono sprofondato in una depressione melanconica tale da dover essere internato per quattro mesi all’ospedale Sainte-Anne e per finire ho perso il mio editore, che per la prima volta dopo trentacinque anni non leggerà un mio libro, poiché insomma devo pur cominciare da qualche parte, scelgo quella mattina di gennaio del 2015 in cui, chiudendo il borsone da viaggio, mi sono chiesto se fosse meglio portarmi dietro il telefono, di cui avrei comunque dovuto disfarmi nel posto in cui stavo andando, o lasciarlo a casa. Ho optato per la scelta più radicale e, una volta in strada, ho trovato eccitante il fatto di essere fuori della portata dei radar. Anche prendere il treno alla Gare de Bercy, stazione modesta e già provinciale, un satellite della Gare de Lyon specializzato nelle regioni della Francia centrale, è stato un piccolo scarto rispetto alla normalità. Vagoni vetusti, scompartimenti all’antica, con sei posti in prima, otto in seconda, tonalità marroni e grigio-azzurre che mi ricordavano i treni della mia lontana infanzia, negli anni Sessanta. Sdraiati sui sedili c’erano dei soldati che dormivano, come se nessuno li avesse avvisati che il servizio militare non esiste più. Girata verso il finestrino impolverato, la mia unica vicina guardava sfilare sotto una pioggia fine e grigia i palazzi coperti di graffiti all’uscita di Parigi, poi quelli della periferia est. Era una ragazza con il fisico e la tenuta da escursionista, equipaggiata con un enorme zaino. Mi sono chiesto se stesse andando a fare trekking nel Morvan, come era capitato anche a me tanto tempo prima, partendo da Vézelay e in condizioni atmosferiche non meno inclementi, o se invece, chissà, stesse andando dove andavo io. Di proposito non mi ero portato dietro da leggere e ho passato tutto il tragitto – un’ora e mezzo – a lasciar vagare lo sguardo e i pensieri, in una sorta di impazienza tranquilla. Da quei dieci giorni in cui sarei stato disconnesso da tutto, irraggiungibile, off limits, mi aspettavo molto, anche se non sapevo esattamente cosa. Soppesavo le mie aspettative, la mia impazienza tranquilla. Era interessante. Quando il treno si è fermato a Laroche-Migennes, la ragazza con il grosso zaino è scesa insieme a me e, come me, come una ventina di altre persone, si è diretta verso la banchina davanti alla stazione dove doveva venirci a prendere una navetta. Non conoscendoci, l’abbiamo aspettata in silenzio. Ognuno di noi guardava i compagni chiedendosi fino a che punto avessero un’aria normale. Io avrei detto di sì, abbastanza. Quando è arrivato il pullman, alcuni si sono seduti a due a due, io da solo, ma un attimo prima della partenza, per ultima, è salita una donna sulla cinquantina, con un bel viso serio e scavato, e ha preso posto accanto a me. Un rapido saluto, a mezza voce, dopodiché ha chiuso gli occhi, facendomi capire in modo garbato che non ci teneva ad attaccare bottone. Nessuno parlava. Di lì a poco il pullman è uscito dalla città e si è messo a percorrere certe stradine secondarie, attraversando paesini dove niente sembrava aperto, neppure le imposte. Dopo una mezz’ora ha imboccato una strada bianca fiancheggiata da querce e si è fermato su uno spiazzo di ghiaia, davanti a un casale. Siamo scesi, abbiamo scaricato i bagagli e siamo entrati nell’edificio da porte separate: una per gli uomini, una per le donne. Noi uomini ci siamo ritrovati in una grande sala allestita come una mensa scolastica, illuminata da luci al neon, con le pareti dipinte di un giallo tenue e decorate con le riproduzioni calligrafiche di una serie di massime di saggezza buddhista. C’erano facce nuove, gente che non era nel pullman e che doveva essere arrivata in macchina. Dietro a un tavolo di formica, un ragazzo con la faccia aperta e simpatica, che portava una maglietta a maniche corte a differenza di tutti noi che avevamo indosso almeno un maglione o un pile, riceveva a uno a uno i nuovi arrivati. Prima di presentarsi da lui, bisognava compilare un questionario.

Il questionario

Dopo essermi versato un po’ di tè in un bicchiere infrangibile dal rubinetto di un grande samovar di latta, mi sono seduto di fronte al questionario. Quattro pagine stampate fronte-retro. Le prime domande non richiedevano lunghe riflessioni: stato civile, persone da avvisare in caso di necessità, problemi sanitari, terapie in corso. Ho precisato che ero in buona salute ma che avevo più volte sofferto di depressione. Dopodiché, ci veniva chiesto di dire: 1) come eravamo venuti a conoscenza della Vipassana; 2) se avevamo esperienza di meditazione; 3) in che momento della vita ci trovavamo; 4) che cosa ci aspettavamo dal seminario. Poiché gli spazi riservati alle risposte non superavano un terzo della pagina, ho pensato che se avessi voluto affrontare seriamente anche solo la seconda domanda avrei dovuto scrivere un libro intero e che, se ero andato là, era appunto per scriverlo – ma di questo non avrei parlato. Per prudenza mi sono limitato a dire che praticavo la meditazione da una ventina d’anni, che per parecchio tempo l’avevo abbinata al tai chi chuan (fra parentesi ho specificato «piccola circolazione celeste», per far capire che non ero esattamente un principiante), e oggi allo yoga. Nondimeno, mi ci dedicavo in modo irregolare e speravo che diventasse un’abitudine, ragion per cui mi ero iscritto a un corso intensivo. Quanto al «momento della vita in cui mi trovavo», la verità è che era un buon momento, un ciclo estremamente favorevole che durava ormai quasi da un decennio. Era addirittura straordinario, dopo tanti anni in cui a quella domanda avrei immancabilmente risposto che stavo male, anzi malissimo, e che il momento della vita in cui mi trovavo era più che mai disastroso, poter rispondere senza mentire, e persino minimizzando in parte la mia buona sorte, che, sì, andava tutto bene, che da un bel po’ non avevo avuto alcun episodio depressivo e non avevo problemi né amorosi né familiari né professionali né materiali – fermo restando che il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi) era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere, e la meditazione è fatta appunto per questo.

Gli altri

Intorno a me ci sono una trentina di uomini, in compagnia dei quali me ne starò seduto in silenzio per dieci giorni. Li osservo senza darlo a vedere. Mi chiedo chi, tra loro, è in crisi. Chi, come me, ha una famiglia. Chi è solo, abbandonato, povero, infelice. Chi è fragile, chi è solido. Chi, nella vertigine del silenzio, rischia di perdere il controllo. Sono rappresentate tutte le fasce di età, fra i venti e, direi, i settant’anni. Anche dal punto di vista sociale c’è un grande assortimento. Alcuni sono facilmente identificabili: l’insegnante delle superiori vegetariano, appassionato di misticismo orientale, a cui piacciono il camping e il nudismo; il ragazzo con i dreadlock e la cuffia peruviana come se ne vedono tanti fra gli attivisti No Border di Calais, dove di recente ho realizzato un reportage; il fisioterapista o l’osteopata dedito alle arti marziali; altri invece potrebbero essere violinisti non meno che ferrovieri, impossibile dirlo. Insomma, la varia umanità che capita di incontrare tanto nei dojo quanto negli ostelli disseminati lungo il cammino di Santiago di Compostela. Non essendo ancora entrato in vigore il Nobile Silenzio, come dicono loro, si può parlare, e così ascolto le conversazioni dei gruppetti che si sono formati, mentre dietro ai piccoli vetri appannati delle finestre comincia a scendere, prestissimo e nerissima, la notte. Tutti i discorsi ruotano intorno a quello che ci aspetta a partire dall’indomani mattina. C’è una domanda ricorrente: «Per te è la prima volta?». A quanto pare metà sono neofiti, l’altra metà veterani. I primi appaiono curiosi, eccitati, preoccupati, i secondi come avvolti in un’aura di prestigio. Fra questi spicca un ometto che mi ricorda qualcuno ma non so chi e su cui concentro subito il mio sguardo perfido: pizzetto appuntito, maglione a motivi jacquard color vinaccia, recita con insopportabile fatuità la parte del saggio sorridente, benevolo, sempre pronto a elargire pareri sull’allineamento dei chakra e sui benefici del lasciar andare.

Teletrasporto a Tiruvannamalai

La prima volta che ho sentito parlare della meditazione Vipassana è stato in India, nella primavera del 2011. Avevo preso in affitto una casa a Pondichéry per finire un libro e sono rimasto lì per due mesi, senza rivolgere la parola quasi a nessuno. Le mie giornate, tutte uguali, cominciavano con la lettura del «Times of India» nell’unico bar in cui, per quanto ne sapevo, facevano il caffè espresso. Poi, lungo strade che si intersecano ad angolo retto e che, fiancheggiate da edifici coloniali fatiscenti, si chiamano avenue Aristide-Briand, rue Pierre-Loti o boulevard du Maréchal-Foch, tornavo con andatura meditabonda a lavorare al mio romanzo di avventure russo, Limonov. Andavo a letto prestissimo, all’ora in cui gli innumerevoli cani randagi di Pondichéry attaccano un concerto di latrati nel quale avevo imparato a riconoscere qualche voce, e mi alzavo altrettanto presto, svegliato dallo spuntar del sole e dai versi dei gechi. Questa routine casalinga, senza visite a musei o a monumenti, senza l’obbligo di fare turismo, è il mio ideale di soggiorno all’estero. Una volta, però, sono andato a Tiruvannamalai, una delle roccaforti della spiritualità indiana dato che lì ha vissuto e insegnato il grande mistico Ramana Maharshi e che tuttora vi si trova il suo ashram. La roccaforte mi ha fatto una pessima impressione: una sagra di guru e seminari spirituali, che attira torme di falsi sadhu occidentali, smunti, stralunati, luridi, che trasudano insieme presunzione e sofferenza – ed è sempre a questo che penso quando qualche praticante di yoga mi parla di ritiri in India in cui spera di raccogliere l’eredità del sapere ancestrale dei grandi maestri. Tiruvannamalai o Rishikesh, la presunta culla dello yoga, sono a mio parere i posti in cui si hanno meno probabilità di raccogliere l’eredità del sapere di un grande maestro, non più di quante se ne abbiano di imbattersi in un pittore originale in place du Tertre. Bertrand e Sandra, i soli amici che mi ero fatto a Pondichéry, mi avevano dato il nome di un francese che abitava a Tiruvannamalai. Portava una tunica lilla e si chiamava Didier, ma si faceva chiamare Bismillah. Quando gli ho chiesto del suo percorso spirituale, Bismillah mi ha confidato che per lui una tappa importante era stata uno stage di Vipassana: dieci giorni di meditazione intensiva che, a suo dire, avevano il potere di fare ordine in testa. Praticando nel mio piccolo la meditazione e non avendo a priori nulla contro l’idea di fare ordine in testa, volevo approfondire l’argomento, ma il mio interesse è un po’ scemato quando ho scoperto che se Bismillah, nella tappa successiva del suo percorso spirituale, si era ritrovato a Tiruvannamalai, era stato perché attratto dalla prospettiva di uno stage di teletrasporto. Era rimasto deluso, doveva ammetterlo. La cosa mi ha lasciato perplesso. Il teletrasporto consiste nello spostarsi istantaneamente da un luogo a un altro, con il solo potere della mente. Scompari a Madras e l’istante dopo ricompari a Bombay. Una variante è la bilocazione: sei contemporaneamente in entrambi i posti. Diverse tradizioni attribuiscono simili imprese a qualche raro santo di grande rinomanza, come Giuseppe da Copertino, ma le autorità religiose restano prudenti in proposito, per non parlare di quelle scientifiche. Mi sono chiesto se uno che sperava di fare un’esperienza del genere iscrivendosi online a uno stage aperto a tutti, un po’ come chi spera di vedere una manta iscrivendosi a una giornata di immersione sottomarina, dimostrasse un’invidiabile apertura mentale o se invece per bersi una simile cazzata – e dichiarare, poi, di essere rimasto deluso – non bisognasse essere un po’ coglioni.

La mia camera

La faccenda della sistemazione mi preoccupa. Ci sono camere singole e dormitori, e ovviamente preferirei una singola ma tutti, immagino, la preferirebbero, e non c’è nulla che mi induca a supporre di averne più bisogno di altri. In un contesto diverso i soldi risolverebbero tutto: i posti migliori andrebbero ai più ricchi, e io potrei stare tranquillo. Qui però ci ospitano a titolo gratuito. Il corso, l’alloggio, il vitto, è tutto gratis. Ci viene suggerito di fare un’offerta, alla fine, ciascuno in base alle proprie possibilità e senza che nessuno sappia a quanto ammonta. Eppure dev’esserci un criterio. Che dipenda dall’ordine di arrivo? O è casuale? Si tira a sorte? Quando riporto il questionario compilato al ragazzo simpatico che fa le veci dell’albergatore, gli pongo la domanda con un sorrisetto complice di curiosità divertita, nell’eventualità a mio parere remota in cui la cosa dovesse dipendere da una sua decisione arbitraria, al che mi risponde, anche lui sorridendo, che no, non si tira a sorte: l’assegnazione avviene in base all’età, le camere singole vanno ai più anziani. Quindi posso comunque stare tranquillo. Il ragazzo simpatico mi dà la chiave, io la prendo ed esco nel giardino inzuppato di pioggia che si estende alle spalle dell’edificio principale. A sinistra c’è il grande capannone in cui passeremo una decina di ore al giorno per dieci giorni, a destra tre file di bungalow prefabbricati. Il mio si trova nella prima. Dieci metri quadrati, pavimento di linoleum, un letto singolo, sotto al letto un contenitore di plastica con dentro lenzuola, piumone e cuscino, e poi una doccia, un lavandino e il gabinetto, oltre a un piccolo armadio: lo stretto necessario, tutto perfettamente pulito. E ben riscaldato, il che ha la sua importanza in inverno nel Morvan. Unica fonte di luce, oltre alla porta-finestra che si può oscurare con una tenda, un globo di vetro smerigliato sul soffitto. Non è allegrissimo, mi sarebbe piaciuto avere un abat-jour, ma dal momento che in teoria non dovremmo leggere... Mi faccio il letto, sistemo le mie cose nell’armadio: abiti caldi e comodi, maglioni pesanti, pantaloni da jogging, pantofole, qualsiasi civetteria sarebbe fuori luogo. Il tappetino da yoga. Una statuetta di terracotta che raffigura due gemelli. Dodici centimetri di altezza, forme piene e rotonde: è stata una donna amata a regalarmi questo sobrio amuleto, che porto sempre con me. Niente libri, né telefono, né tantomeno tablet, e di conseguenza nessun caricabatteria. Il ragazzo simpatico, dandomi il benvenuto, mi ha chiesto se dovevo lasciare uno di questi oggetti, per i quali hanno previsto un deposito. Gli ho risposto con un certo orgoglio che no, me ne ero sbarazzato prima di venire. Chissà se tutti osservano così scrupolosamente queste istruzioni di cui ho preso visione due mesi fa, quando mi sono iscritto. Abbiamo firmato, è vero, ci siamo impegnati a fare a meno per dieci giorni di queste fonti di distrazione, a non comunicare con l’esterno, ma se qualcuno bara chi se ne accorge? Dubito che piombino all’improvviso nelle camere e nei dormitori per confiscare libri o cellulari introdotti clandestinamente.

 

O invece sì?

La Corea del Nord?

Gli stage di Vipassana sono l’addestramento per truppe d’assalto della meditazione. Dieci giorni, dieci ore al giorno, in silenzio, tagliati fuori dal mondo: una roba tosta. Nei forum molti si dichiarano appagati, a volte trasformati, da questa impegnativa esperienza, altri invece la denunciano come una forma di reclutamento settario. Descrivono il posto come un campo di concentramento, il sermone quotidiano come un lavaggio del cervello che non lascia spazio ad alcun dibattito, figurarsi a un contraddittorio. È la Corea del Nord. L’obbligo del silenzio, l’isolamento e un’alimentazione insufficiente abbassano le difese dei partecipanti trasformandoli in altrettanti zombie. Anche se ci si sente malissimo è vietato andarsene. Non è vero, controbattono i sostenitori, chi ha voglia di andarsene se ne va, nessuno glielo impedisce, solo che è fortemente sconsigliato e soprattutto ci si impegna in prima persona a non farlo. Questi scambi di opinioni mi hanno incuriosito senza preoccuparmi più di tanto: mi considero immune dal rischio di reclutamento settario e mi interessa vedere. «Venite e vedete» dice Gesù alla gente che ha sentito le voci più disparate sul suo conto, e mi sembra che questa sia sempre la politica migliore: andare a vedere, con il minor numero di pregiudizi possibile o, quanto meno, con la consapevolezza dei propri pregiudizi

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Zafu in Bretagna

Mi sono sposato due volte ed entrambe le volte ho raccolto le foto di famiglia in un album. Quegli album che, quando ci si separa, non si sa a chi rimarranno. I figli li sfogliano con nostalgia, perché mostrano un tempo in cui erano piccoli, in cui i loro genitori si amavano come ci si dovrebbe amare, in cui le cose funzionavano ancora. Io e Anne, la mia prima moglie, passavamo le vacanze estive in Bretagna, a Pointe de l’Arcouest, dove prendevamo in affitto una casa decrepita, trascurata, perché, essendo un bene indiviso, nessuno dei comproprietari si sentiva in dovere di sostituire, lui anziché i suoi fratelli e sorelle, anche solo una lampadina – ma meravigliosa. Di fronte all’isola di Bréhat, dominava l’oceano al quale si arrivava percorrendo un sentiero nel bosco così erto e così poco frequentato che ogni estate bisognava liberarlo con una roncola dalla vegetazione. Anne era straordinariamente carina, portava magliette alla marinara e una cerata gialla, io avevo il ciuffo e un paio di occhialini tondi: avrei voluto sembrare un uomo maturo, sembravo un adolescente. La mattina andavamo al forno del paese a comprare le crêpe, la sera al vivaio a comprare i granchi. Fra le tante immagini dei nostri figli da piccoli, nel mio album ce n’è una in cui Gabriel, a tre o quattro anni, fa insieme a me, sulla spiaggia, la classica sequenza di posizioni yoga detta saluto al sole, e un’altra in cui Jean-Baptiste, seduto su uno zafu, ride di una bella risata gioiosa, la risata di un bambino felice. Queste foto mi permettono di datare le pratiche di cui parlo qui. Dimostrano che all’inizio degli anni Novanta avevo già uno zafu. Mi ci sedevo già sopra, la mattina presto, facendo in modo di svegliarmi prima di tutti gli altri per osservare il mio respiro e il flusso dei miei pensieri. Uno zafu, per chi non lo sapesse, è un cuscino giapponese, tondo e compatto, pensato appositamente come base per stare seduti con la schiena eretta durante la meditazione. I nostri figli si divertivano a chiamare quello zafu nero Zafu, come se fosse un animale domestico, un secondo cane di casa – il primo era un bastardino guercio e rognoso, da noi soprannominato «il povero vecchio», che abitava da qualche parte nei dintorni e veniva a trovarci ogni giorno. So che questi ricordi sono interessanti solo per me, Anne e i ragazzi, che noi siamo le sole quattro persone al mondo che possano ridere o piangere nel rievocarli, ma pazienza, pazienza, lettore, bisogna sopportare che gli autori raccontino cose di questo genere e non le taglino rileggendosi, come sarebbe ragionevole fare, perché per loro sono preziose e perché si scrive anche per metterle in salvo.

Tai chi sulla Montagna

Come ho scritto nel questionario, ho cominciato a meditare grazie al tai chi. Avete presente cos’è il tai chi? Quei movimenti lentissimi che eseguono, nei parchi, persone quasi sempre anziane, con indosso una casacca cinese? È una danza? Una ginnastica? Un’arte marziale? In origine è un’arte marziale, spesso però, purtroppo, la si insegna svuotandola di questa componente. Benedico la casuale vicinanza che mi ha fatto approdare al dojo della Montagna, in rue de la Montagne-Sainte-Geneviève, anziché in uno di quei gruppi new age che cominciavano a proliferare, dove ti esortavano ad aprire i chakrabruciando bastoncini di incenso. I bastoncini di incenso non erano il genere della Montagna, che è il più antico dojo di karate di Parigi, fondato negli anni Cinquanta da un pioniere di nome Henry Plée e diretto, quando ci sono sbarcato io, da suo figlio Pascal. Pascal aveva ricevuto la cintura bianca come regalo per i suoi tre anni e aveva poi formato un’intera generazione di karateka; con il tempo, tuttavia, essendosi reso conto che l’allenamento intensivo danneggia schiena, ginocchia e articolazioni, aveva cominciato a esplorare tecniche più dolci, meno spigolose, che lavorano meno sulla forza e più sull’elasticità. Era arrivato così a studiare il tai chi sotto la guida di un maestro cinese di nome Yang Jwing-Ming, il dottor Yang Jwing-Ming, che non solo praticava ma faceva anche ricerca a livelli altissimi nel campo pressoché sconfinato delle arti marziali cosiddette «interne». Ho ancora una mezza dozzina di suoi libri, che all’epoca studiavo con fervore. Sì, perché già dopo pochi mesi la Montagna era diventata una droga, e lo è stata per circa dieci anni. Ho passato quasi dieci anni, al ritmo di tre o quattro allenamenti a settimana, senza contare il seminario annuale del dottor Yang, in quella strana società che è un dojo. Più che le cene, più che le feste, mi è sempre piaciuto quel particolare tipo di sodalizio che si crea quando non ci si ritrova soltanto per chiacchierare e, come si suol dire, per vedersi, ma per fare qualcosa insieme. Poco importa cosa, alpinismo, calcio, motocicletta, personalmente il mio ideale sarebbe stato fare musica da camera con qualche amico. Suonare la viola in un quartetto d’archi amatoriale: andare a casa ora dell’uno ora dell’altro, scambiarsi due convenevoli, poi tirare subito fuori i leggii, aprire gli spartiti, riprendere dalla sedicesima battuta dell’andante con moto. Invidio il mio collega Pascal Quignard che assapora simili gioie, io purtroppo amo la musica senza saperla né suonare, né leggere. Ma la pratica del tai chi somiglia molto, credo, allo studio di uno strumento o della voce. Esige la stessa perseveranza, lo stesso misto di rigore e capacità di abbandono, e penso con affetto a tutte le persone, così diverse per carattere ed estrazione, con cui ho passato tante ore a ripetere e perfezionare movimenti infinitamente lenti, un po’ come un pianista ripete e perfeziona quello che sulla tastiera è l’equivalente di questa infinita lentezza: un larghissimo. Stavo per dire che andavamo lì tutti per la stessa cosa, che a riunirci era lo stesso desiderio, e invece no, non esattamente. Alla Montagna c’erano due gruppi ben distinti: da una parte, i decani, la guardia del corpo di Pascal, composta di robusti karateka che erano comunque venuti lì per imparare a picchiare il prossimo, dall’altra quelli che in opposizione ai picchiatori chiamerò gli spiritualisti: nulla a che vedere con i chiacchieroni new age, che la severa disciplina del dojo metteva presto in fuga, bensì persone che si interessavano allo zen, al Tao, alla meditazione. E la cosa bella è che, sotto il doppio patrocinio di Pascal e del dottor Yang, questi due gruppi non soltanto convivevano pacificamente ma si scambiavano i rispettivi interessi. Nel modo più naturale gli spiritualisti si ritrovavano come me a praticare il karate oltre al tai chi per rendere il tai chi più marziale, e i picchiatori a osservare la loro respirazione, seduti immobili, su un cuscino – un risultato di fronte al quale sia gli uni che gli altri sarebbero rimasti attoniti, se qualcuno glielo avesse prospettato.

È complicato

Osservare la propria respirazione, seduti immobili su un cuscino, è quel che si chiama meditare, pratica sempre più diffusa e che avrebbe dovuto essere l’unico argomento di questa storia se solo la vita non l’avesse trascinata, come vedrete, in mari più burrascosi. Il dottor Yang la insegnava con cautela. Era cinese, amava la tecnica – che Dio lo benedica –, non sopportava che le cose fossero fatte alla bell’e meglio e considerava la meditazione il coronamento supremo delle arti marziali ma anche una pratica rischiosa, per via delle potentissime forze che è in grado di risvegliare. Ci metteva in guardia contro questi rischi che non mi pare di aver mai corso, o se è successo non me ne sono reso conto, o ancora, più probabilmente, non ho mai raggiunto né mai raggiungerò il livello a partire dal quale cominciano a presentarsi. Temendo che ci smarrissimo lungo i sentieri perigliosi che scendono e si biforcano e si inabissano dentro di noi, un po’ come si dà ai novizi un assaggio dei rapimenti estatici che sperimenteranno poi, il dottor Yang ci insegnava i rudimenti della meditazione con una gran quantità di schemi, linee dei meridiani, respirazione normale (buddhista) e inversa (taoista), piccola e grande circolazione celeste – e, come ho appena scritto sulla pagina del questionario dedicata al livello di esperienza raggiunto, io conosco un po’ solo la piccola circolazione celeste. In seguito ho frequentato le lezioni di un altro maestro, Faeq Biria, la cui profonda conoscenza dello Iyengar yoga deriva direttamente dal suo fondatore, B.K.S. Iyengar. E Faeq Biria va ancora più lontano del dottor Yang. Dice che per iniziare a meditare ci vogliono almeno dieci anni di pratica assidua. Devi aver aperto il bacino, aperto il torace, aperto le spalle, allineato i bandha e i chakra, acquisito la padronanza di tutte le tecniche di pranayama, e soltanto allora quel grande mistero, fonte di cambiamento, che è la meditazione arriva, e arriva da sé. Tutto quello che hai fatto prima mirava unicamente a renderla possibile. Se uno si presenta in una scuola di Iyengar yoga chiedendo ingenuamente se oltre a studiare le posizioni si fa un po’ di meditazione, lo guardano con indulgenza ma pur sempre come fosse un deficiente. Gli spiegano gentilmente che quello che i guru di moda e i libri di autoaiuto chiamano meditare equivale al nulla: se non hai fatto il lungo lavoro preparatorio, puoi passare migliaia di ore seduto su uno zafu a concentrarti sulla respirazione o sullo spazio tra le sopracciglia, tanto varrebbe che schiacciassi un sonnellino.

È semplice

I due maestri che ho conosciuto di persona sono dei grandi, dei veri maestri, al tempo stesso eruditi e artisti nelle rispettive discipline: non metto in discussione la loro autorità. Eppure, dall’alto della mia infima esperienza, penso che si possa arrivare alla meditazione attraverso un sentiero meno impervio, un sentiero banalissimo, accessibile a tutti, e che la tecnica per imboccarlo si impari in cinque minuti. Consiste nel sedersi e nello stare per un certo tempo immobili e in silenzio. Tutto ciò che accade nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili e in silenzio, è meditazione. Ho cercato spesso di darne una buona definizione – la più esatta, la più semplice, la più esauriente possibile –, e ne ho trovate parecchie che tirerò fuori nel corso del racconto, ma per cominciare questa mi sembra la migliore, perché è la più concreta, quella che incute meno soggezione. Lo ripeto: la meditazione è tutto ciò che accade dentro di noi nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili, in silenzio. La noia è meditazione. Il male alle ginocchia, alla schiena, al collo è meditazione. I pensieri parassiti sono meditazione. I gorgoglii nello stomaco sono meditazione. L’impressione di perdere tempo a fare una boiata pseudo-spirituale è meditazione. La telefonata che prepari mentalmente e anche la voglia di alzarti a farla è meditazione. La resistenza che opponi a quella voglia è meditazione – cedere invece no. Tutto qui. Niente di più. Qualunque cosa in più è di troppo. Se lo si fa regolarmente, per dieci minuti, venti minuti, mezz’ora al giorno, ciò che accade nel lasso di tempo in cui si sta seduti, immobili e in silenzio, cambia. Cambia la postura. Cambia la respirazione. Cambiano i pensieri. Cambiano perché tutto, in ogni caso, cambia, ma cambiano anche perché li si osserva. Quando si medita, non si fa e soprattutto non si deve fare nient’altro che osservare. Osservare l’affacciarsi alla coscienza dei pensieri, delle emozioni, delle sensazioni. Osservarne il dissolversi. Osservarne le fondamenta, i punti d’appoggio, le linee di fuga. Osservarne il passaggio. Non fare corpo con loro, non scacciarli. Seguire la corrente senza lasciarsi travolgere. A forza di farlo, è la vita stessa a cambiare. Sulle prime non ce ne rendiamo conto. Abbiamo la vaga impressione di essere sulla soglia di qualcosa. Qualcosa che lentamente prende forma. Ci distacchiamo un poco, soltanto un poco, da ciò che chiamiamo Sé. Ma quel poco è già molto. È già moltissimo. Ne vale la pena. È un viaggio. All’inizio del viaggio, dice una storia zen, la montagna in lontananza sembra una montagna. Nel corso del viaggio, la montagna cambia continuamente aspetto. Non la riconosciamo più, al suo posto c’è un’immagine illusoria, non sappiamo più verso che cosa ci stiamo dirigendo. Alla fine del viaggio, ecco di nuovo la montagna, che però non ha niente a che vedere con quello che scorgevamo da lontano tanto tempo prima, quando ci siamo messi in cammino. Questa è davvero la montagna. Finalmente la vediamo. Siamo arrivati. Ci siamo.

 

Ci siamo.

Meditare da sbronzi

Al tempo delle estati a Pointe de l’Arcouest bevevamo molto e anche gli amici che venivano a trovarci bevevano parecchio. Meno comunque di Jean-François Revel, che incrociavamo al Codec di Paimpol con il carrello pieno esclusivamente di bottiglie di vino, il viso paonazzo, senza collo, l’espressione torva, e nonostante tutto capace di scrivere libri folgoranti per intelligenza caustica e lucidità. Non ne conosco di migliori su Proust, né conosco opinioni più esatte, più orwelliane sul totalitarismo e sull’oscenità degli intellettuali di sinistra, e apprezzo molto che lo stesso uomo abbia coltivato, come Simon Leys con il quale aveva in comune l’indipendenza di spirito, interessi tanto disparati. Mai e poi mai avrei sospettato che, trent’anni dopo, la sua splendida antologia della poesia francese mi avrebbe praticamente salvato la vita. Né sapevo che fosse il padre di Matthieu Ricard: nessuno all’epoca sapeva chi fosse Matthieu Ricard, né che fosse il braccio destro del Dalai Lama, né che sarebbe diventato il più noto divulgatore del buddhismo e della meditazione in Francia – in una forma che mi dà un po’ sui nervi dal momento che ho sempre qualche problema con le tuniche color zafferano e con i religiosi che ti dicono: «Le religioni sono settarie e specialistiche, quello che ti insegno io non è una religione, è la verità». Per farla breve, bevevamo molto, bevevamo troppo, cosicché spesso, pur essendole sempre fedele, praticavo la meditazione un po’ brillo, se non addirittura ubriaco fradicio. E, ubriaco fradicio, mi esercitavo a far circolare il respiro e l’energia, prima salendo lungo la colonna vertebrale fino alla sommità del cranio, poi scendendo di nuovo giù dalla parte anteriore del corpo (la piccola circolazione celeste è più o meno questo), il tutto con l’ausilio di una buona dose di autosuggestione e immerso in un vortice di pensieri parassiti che non soltanto non riuscivo a placare ma che per giunta, lì per lì, mi sembravano geniali. Dopo, ovviamente, tornavo con i piedi per terra. Quando sei bevuto o fatto, e io ero spesso entrambe le cose, pensi di aver messo le mani su un tesoro e ti ritrovi invece tra le dita un pugno di mosche. Oggi mi sono calmato un po’, è l’età. Ubriacarmi mi piace ancora, ma reggo sempre di meno l’alcol, mi ci vogliono tre o quattro giorni per riprendermi da una sbronza mentre ai tempi di Pointe de l’Arcouest ero pronto a farmi di nuovo onore già la sera dopo. Meditare da sbronzi è assurdo, sono d’accordo, ma all’epoca mi convincevo del fatto che stavo osservando il mio stato di ebbrezza. Sì, perché la cosa interessante della meditazione – e questa potrebbe essere la seconda definizione – è che fa nascere in noi una sorta di testimone che spia il turbine dei nostri pensieri senza lasciarsene travolgere. Noi siamo puro caos, confusione, siamo una poltiglia di ricordi e paure e fantasie e vane aspettative, ma dentro di noi c’è qualcuno di più tranquillo, che vigila e riferisce. Ovviamente la droga e l’alcol trasformano questo agente segreto in un agente inaffidabile, che fa il doppio gioco. Ma io insistevo, ho continuato a insistere più o meno costantemente e se adesso mi ostino a scrivere questo libro, ovvero la mia personale versione di quei libri di autoaiuto che si vendono così bene, è per ricordare ciò che i libri di autoaiuto raramente dicono: che i praticanti di arti marziali, i seguaci dello zen, dello yoga, della meditazione, di tutte queste discipline sublimi, fulgide e benefiche a cui da sempre faccio la corte, non sono necessariamente né saggi né tranquilli, né tantomeno sereni e in pace con se stessi; ma a volte, anzi spesso, sono come me drammaticamente nevrotici, e che però non importa, perché, come diceva Lenin, bisogna «lavorare con il materiale a disposizione», e allora, anche se non ci conduce da nessuna parte, facciamo bene a ostinarci, nonostante tutto, a percorrere questo cammino.

Al sicuro?

Ho scritto queste righe disincantate nella primavera del 2017, due anni dopo i fatti che riporto, in una camera dell’ospedale Sainte-Anne dove, tra un elettroshock e l’altro, cercavo di tenere al guinzaglio la mia mente erratica e scalcinata rabberciando questo racconto. Ma la sera del 7 gennaio 2015, mentre una fitta pioggia si abbatteva sulla terra nera e molle del giardino e io, sdraiato sulla cuccetta del mio bungalow, in un casale sperduto nel Morvan, aspettavo l’ora di cena, non vedevo le cose sotto questa luce crudele. Magari, in quel momento, non mi vedevo come un uomo tranquillo, sereno e in pace con se stesso, non completamente, non ancora, ma quanto meno ero convinto di non essere più drammaticamente nevrotico. La salute mentale, secondo Freud, consiste nell’essere capaci di amare e di lavorare, e con mia grande sorpresa da quasi dieci anni ormai ne ero divenuto capace. Se me lo avessero predetto quando ero più giovane, non ci avrei creduto. Non mi aspettavo tanto dalla vita. E invece avevo appena scritto l’uno dietro l’altro, senza lunghi e tormentosi periodi di infertilità, quattro grossi libri che in molti trovavano buoni, e ringraziavo il cielo, ogni santo giorno, per un matrimonio che mi rendeva felice. Dopo tanti anni di peregrinazioni sentimentali, credevo di essere giunto in porto. Credevo che il mio amore fosse al riparo dalle tempeste. Non sono pazzo: so bene che ogni amore è in pericolo – che ogni cosa, comunque, è in pericolo –, ma mi figuravo che ormai il pericolo sarebbe venuto dall’esterno, non da me. Freud dà un’altra definizione della salute mentale, non meno folgorante della prima: si è mentalmente sani quando non si è più soggetti alla sofferenza nevrotica, ma soltanto alla normale sofferenza umana. La sofferenza nevrotica è quella che ti procuri da solo, in una forma spaventosamente ripetitiva, la normale sofferenza umana è quella che ti riserva la vita sotto forme tanto diverse quanto imprevedibili. Hai un cancro o, peggio ancora, uno dei tuoi figli ha un cancro, perdi il lavoro e sprofondi nella miseria più nera? Normale sofferenza umana. Per quanto mi riguarda sono stato decisamente risparmiato dalla normale sofferenza umana: finora nessun lutto grave, nessun problema di salute né di soldi, i miei figli vanno avanti per la loro strada, e ho il raro privilegio di fare un lavoro che amo. Dal punto di vista della sofferenza nevrotica, invece, non temo confronti. Non per vantarmi, ma posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetterò a nessuno di minimizzare questo inferno: è reale, terribilmente reale. Ebbene, contro ogni aspettativa, mi sembra di averla scampata. Nel gennaio del 2015 mi sembra davvero di potermi considerare al sicuro. Sono prudente, certo, non esulto, so che potrebbe essere un’illusione – ma un’illusione che dura da dieci anni è ancora un’illusione? Che cosa fa sì che questo momento della mia vita sia così favorevole? Da che cosa dipende questo progresso? Dalla psicoanalisi? Francamente ne dubito. Per circa vent’anni sono passato dal lettino di un analista all’altro senza risultati apprezzabili. No, penso dipenda, molto semplicemente, dall’amore. E forse dalla meditazione. Dallo yoga, dalla meditazione: uso i due termini in modo quasi indifferente. Penso che lo yoga e la meditazione, come l’amore e la scrittura, mi accompagneranno, mi conforteranno, mi sosterranno fino alla morte. Pongo l’ultimo quarto della mia vita – ho quasi sessant’anni e statisticamente posso ritenere di esserci ormai entrato – sotto l’egida di questa frase di Glenn Gould, che nel corso del tempo ho ricopiato tante volte in diversi taccuini: «Lo scopo dell’arte non è procurare una momentanea scarica di adrenalina ma la costruzione paziente, che dura tutta la vita, di uno stato di meraviglia e serenità».

«... e la ricottina si spiaccicò a terra!»

«La costruzione paziente di uno stato di meraviglia e serenità»: mica male considerare in questi termini la propria vita. No, non è affatto male, sono pensieri di gratitudine, pensieri armoniosi, pensieri buoni. Io però mi conosco e so perfettamente in che direzione mi trascinano, quali immagini compiaciute evocano. Sulla soglia della sessantina, immagino una versione migliore di me, un Emmanuel upgraded: un uomo tranquillo, amorevole, che abbia trovato un centro di gravità dal quale promanano una voce e delle parole che hanno davvero peso – non quel «suono cavo», prodotto da viscere gonfie d’aria, di cui parla Nietzsche. Un uomo che abbia fatto pace con il suo piccolo io, spaurito e narcisistico, uno che scrive libri sempre più limpidi e universali, e gode di una fama anch’essa universale, che riceve gli amici sotto il suo pergolato, nella sua semplice e bella casa di Patmos, e che si approssima alla morte, senza battere ciglio, in quel famoso stato di meraviglia e serenità alla cui costruzione ha dedicato tutta la vita. Insomma. Ridete pure. Dal canto mio, cerco di non compiacermi troppo di fronte a queste immagini, ma neppure le scaccio come un anacoreta nel deserto respinge le tentazioni della carne. Un tempo, quando ero cristiano e trafitto dai sensi di colpa, lo avrei fatto. Oggi mi dico: certo, sono solo fantasie narcisistiche e trastulli per l’ego, ma che male c’è? È una fantasia piuttosto innocente, un ideale dell’io tutt’altro che meschino. E soprattutto, anche se è da sfigati compiacersene, ancor più da sfigati sarebbe censurarle, quelle immagini. Sì, perché è questa la rivoluzione, una delle rivoluzioni innescate dalla meditazione. Anziché considerare con astio pensieri di cui un po’ ci si vergogna, anziché cercare di sradicarli, ci si limita a osservarli senza farne un dramma. Perché esistono, perché ci sono. Né veri né falsi, né buoni né cattivi: microeventi psichici, bolle che risalgono alla superficie della coscienza. Se li consideriamo così, il loro potere e la loro capacità di nuocere calano senza che neppure ce ne rendiamo conto. Non si giudicano i propri pensieri, come non si giudica il prossimo. Bisogna prenderli per quello che sono, vederli come sono. Sì, questa è la terza, e forse la più esatta, definizione della meditazione: vedere i propri pensieri come sono. Vedere le cose come sono.

Le cose come sono

Vipassana vuol dire proprio questo: vedere le cose come sono. E Le cose come sono è il titolo del libro sul buddhismo che ha scritto il mio amico Hervé Clerc. Nel Regno ho già fatto un ritratto di Hervé ma, siccome devo contrastare la presuntuosa tendenza a credere che il lettore abbia letto i miei libri precedenti e se li ricordi, ne voglio fare un altro, leggermente diverso, prendendo le mosse da una citazione di Pitagora, che alla domanda: «Perché l’uomo è al mondo?» rispondeva: «Per osservare il cielo». Per osservare il cielo? Se è vero, la maggior parte degli uomini non lo sa. La maggior parte degli uomini pensa di essere al mondo per trovare l’amore, per arricchirsi, per esercitare un potere, per fare crescere il PIL o per lasciare la propria impronta sulla sabbia del tempo. Sono pochi quelli che sanno di essere al mondo per osservare il cielo. E se non siamo tra questi, è una fortuna conoscere qualcuno che lo sia. Allarga l’orizzonte. Io ho questa fortuna: conosco Hervé, un uomo pacato, laconico, riflessivo, che vive come se dovesse morire da un momento all’altro e rifugge da ogni zavorra. Come Diogene, pensa che sia meglio bere nel cavo della mano che in una tazza. Per alleggerirsi, quando viaggia strappa e butta via le pagine dei libri a mano a mano che le legge. Come giornalista dell’agenzia France-Presse, ha vissuto in Spagna, nei Paesi Bassi, in Pakistan, guardandosi bene dal fare carriera per restare, come dice lui, fuori della portata dei radar. Oggi si divide tra Nizza e Le Levron, un paesino del Valais dove ha un appartamento in uno chalet da cui si gode la vista di due valli. È un panorama di rara bellezza, davanti al quale ha meditato molto, e scritto tre libri in cui passa in rassegna tutto quello che i mistici hanno detto sulla Realtà ultima, a lungo designata con un nome in codice che non fa più per noi: Dio. Da ormai trent’anni io e Hervé ci ritroviamo a Le Levron per fare lunghe camminate in montagna, parlare un po’, stare molto in silenzio. Una barzelletta locale che mi piace un sacco parla di tre contadini seduti su una panca che vedono passare una mucca. «È la mucca di Pierrot» dice il primo. Dopo un quarto d’ora il secondo fa: «No, è la mucca di Fernand». Dopo un altro quarto d’ora il terzo si alza e se ne va via dicendo: «Ne ho abbastanza dei vostri litigi». Le nostre conversazioni sono così, tranne che noi non litighiamo. Non litighiamo mai, la nostra amicizia, che è una delle benedizioni della mia vita e, credo, anche della sua, non ha conosciuto né tempeste né eclissi, si nutre delle nostre profonde differenze e perfino di una divergenza. Hervé pensa che siamo al mondo non soltanto per osservare il cielo ma per trovare l’uscita da questo casino che è la vita in terra. Pensa che alcuni esploratori l’abbiano trovata e ci indichino la strada. Questi esploratori si chiamano Platone, Buddha, Meister Eckhart, Teresa d’Ávila, Patañjali, di cui parlerò più avanti, e niente è più urgente ed essenziale che leggere i loro resoconti, e studiare le mappe che hanno tracciato per imboccarla anche noi, quella strada. Per usare due termini indiani, dal momento che nessun’altra civiltà ha meditato in modo tanto profondo e preciso su questo tema quanto quella dell’India: l’unico compito cui è chiamato un uomo dotato di buonsenso è cercare di uscire dal samsara, dal ciclo di trasformazioni e sofferenze che chiamiamo condizione umana, per accedere al nirvana, che è la vita finalmente reale, sottratta all’illusione, la vita in cui vediamo le cose come sono. Lo yoga è questo, dice Hervé. O meglio: lo yoga è questo se lo si prende sul serio, e non soltanto come una ginnastica.

Alpinisti della domenica

Io non lo contraddico, raramente contraddico qualcuno, però non sono così sicuro che ci sia un’uscita, né che l’unico scopo della vita sia quello di cercarla, né che sia questa l’unica ragione per fare yoga. Oscillo, è il mio carattere. Un giorno lo penso, il giorno dopo no. Non so cosa sia vero né se ci sia una verità. E anche se avanzo in direzione della montagna, non credo che arriverò in cima. Non sarò mai uno di quegli alpinisti dello spirito che vengono definiti mistici, e non è grave, dal momento che tra le nevi perenni e il fondovalle, dove non ho nessuna voglia di marcire, c’è una via di mezzo: la meta di quelli che vengono definiti, a volte con disprezzo, alpinisti della domenica. Sono un meditante della domenica. E la domenica mi piace praticare la camminata sportiva come una forma di meditazione, cercando di armonizzare il passo con il respiro, le sensazioni, le percezioni e i pensieri, per la stessa ragione per cui ogni mattina, o quasi, mi siedo a gambe incrociate sullo zafu. Mi piace, tutto qui. Mi sento al mio posto. In quella mezz’ora mi sento bene e so per esperienza che quel benessere finirà per permeare l’intera giornata. Mi renderà un po’ più presente, un po’ più attento alle persone che mi circondano. C’è gente che, meditando, ha fatto esperienze eccezionali, roba davvero forte: qualcuno è stato trasportato fuori di sé o in una parte di sé di cui non sospettava l’esistenza. Forse c’è addirittura chi è riuscito a teletrasportarsi come sperava di fare il mio amico di Tiruvannamalai. Io no. Mi è capitato di sentirmi pervadere da una sensazione di pace, di relazionarmi in modo più sereno con me stesso e con gli altri, ma mai niente di straordinario, nessuna dislocazione, niente di simile alla cessazione dei pensieri, all’esperienza del vuoto, all’illuminazione o a un suo segno premonitore, alla luce in fondo al tunnel. O meglio sì, una volta, all’Hôtel Cornavin di Ginevra: ho intenzione di parlarne quando sarà il momento ma, visto il procedere incerto del racconto, non so proprio quando questo momento arriverà. Nell’attesa resto sui sentieri adatti agli alpinisti della domenica e mi sta bene così.

Quel che mi aspetto

Ma allora, se davvero mi sta bene così, se una pratica routinaria e tranquilla mi basta, perché mi sono iscritto a questo seminario di meditazione da truppe d’assalto? Tornando insomma a una delle loro quattro domande – semplici e pertinenti: che cosa mi aspetto? Ho risposto: uno stimolo, una piccola spinta che mi induca a riprendere la pratica della meditazione che da qualche mese ho abbandonato. Se avessero chiesto di dire di più, avrei potuto aggiungere: da poco ho pubblicato un libro, Il Regno, che ha avuto un certo successo, e ne è seguito un periodo di mondanità, di vanagloria, di impegni continui durante il quale meditare ogni mattina sarebbe stato assolutamente proficuo, ma non ci sono mai riuscito e così alla fine mi sono rassegnato. La meditazione, quarta definizione, consiste nell’osservarti per quello che sei realmente, nell’osservare quel magma che chiamiamo identità, e quello che ero io realmente in quel momento non era in grado di meditare, ecco tutto. Quindi, adesso che quel fermento si è placato, l’idea è quella di riprendere le buone abitudini. Di rimettermi sulla buona strada, grazie a questo addestramento intensivo. Eccola, la mia ragione confessabile. Ma la sto prendendo alla larga e alla fine dovrò ammettere che ce n’è anche un’altra di ragione, forse un po’ meno confessabile: se sono qui, è per scrivere un libro.

La quarta di copertina

Siccome a volte, nei miei libri, ho parlato di sfuggita di yoga e meditazione, un giornalista è venuto a intervistarmi su questi argomenti tanto alla moda. Due cose mi hanno stupito: innanzitutto, il piacere che mi ha dato parlarne, in secondo luogo, l’ignoranza di quel tizio, che pure era curioso e colto. Scoprire che lo yoga non è soltanto una specie di aerobica né la meditazione una curiosità esoterica lo ha lasciato a bocca aperta. E quando, nella foga, sono arrivato al tai chi e alle versioni cinesi di quelle pratiche indiane, si è messo ad annotare sul taccuino i termini yin e yang con un entusiasmo attonito, come se stessi decifrando davanti a lui una serie di caratteri cuneiformi. Più ancora mi ha stupito constatare la stessa ignoranza in molti di coloro che praticano lo yoga, e mi sono detto che sarebbe stato un compito al tempo stesso utile e piacevole scrivere, in tono colloquiale, un libricino senza pretese, un libricino arguto e accattivante per fare chiarezza su tutte queste faccende a partire dalla mia esperienza personale – l’esperienza di un principiante, si intende, e non la parola di un maestro. A un certo punto ho scritto anche la cosiddetta quarta di copertina, ovvero il testo di presentazione che troviamo sul retro di ogni libro. Ma questo libro è così lontano da quello che immaginavo che è stranissimo, per me, riportarla qui. Eccola:

«Quello che chiamo yoga non è soltanto la ginnastica benefica che pratichiamo in tanti, ma un insieme di discipline che mirano ad ampliare e unificare la coscienza. Lo yoga afferma che siamo qualcosa di diverso dal nostro piccolo io confuso, frammentato, spaurito, e che a questo qualcosa possiamo avere accesso. C’è una strada da percorrere, altri l’hanno imboccata prima di noi e ce la indicano. Se quanto dicono è vero, vale la pena di andare a vedere».

Un compito piacevole, certo, un compito utile. E in più, mi dicevo nel mio avido foro interiore, oggi un sacco di gente fa yoga, un sacco di gente sarebbe contenta di capire meglio quello che fa facendo yoga: questo libro potrebbe sbancare.


Il discorso di benvenuto


Prima che inizino i dieci giorni di silenzio, ci viene fatto un discorso di benvenuto, incentrato sullo spirito con cui ci impegniamo ad affrontare il corso. A pronunciarlo è il ragazzo simpatico. Lo fa senza la minima solennità, senza ambire all’autorevolezza di un maestro. Lui e i due uomini che gli stanno accanto sono semplici praticanti che, dopo aver seguito uno, due o tre seminari come stiamo facendo noi, hanno scelto di tornare nelle vesti di inservienti. Meditano anche, ovviamente, siamo tutti qui per questo, ma tra una seduta e l’altra, anziché riposarsi, si occupano a titolo gratuito della cucina, delle pulizie e di tutte le altre incombenze legate all’organizzazione, insomma mandano avanti la baracca. È quello che si chiama karma yoga, lo yoga dell’azione o del servizio disinteressato: un modo umile ed efficace di contraccambiare i benefici ricevuti. «Forse la cosa vi stupirà,» dice il ragazzo simpatico «ma stando alle statistiche – e considerato che la Vipassana è stata introdotta in Francia da ormai vent’anni possiamo contare su una buona prospettiva temporale – un quarto di voi tornerà qui come inserviente. Il discorsetto che vi sto facendo tra qualche tempo lo farà ai novizi qualcuno di voi». Segue l’enumerazione dei diversi impegni che ci stiamo assumendo: non uscire dal perimetro del centro e, nel perimetro del centro, che comprende una parte di bosco, rimanere lungo i sentieri recintati; rispettare la separazione tra la parte riservata agli uomini e quella riservata alle donne; rispettare il silenzio; non comunicare né con l’esterno né tra di noi, neppure in maniera non verbale; evitare, il più possibile, di scambiarci sguardi; in caso di problemi, parlarne con l’insegnante e con nessun altro; ultimo punto, ed è quello essenziale, restare fino alla fine.


 


«Siete ancora in tempo per andarvene» dice il ragazzo simpatico, e la sua faccia sorridente si fa seria. «Se avete qualche dubbio, se non siete sicuri di poter rispettare gli impegni presi, vi chiediamo di andarvene adesso. Nessuno ce l’avrà con voi. Non farete un torto né agli altri né a voi stessi. Potrete tornare quando vi sentirete pronti. Andarvene via così non è da vigliacchi, tutt’altro. È corretto. È la prova che state valutando la situazione nel modo giusto, con l’atteggiamento giusto. Per contro, se per un qualsiasi motivo decideste di andarvene a percorso iniziato, disturbereste gli altri e soprattutto mettereste in pericolo voi stessi. Durante un seminario di Vipassana succede qualcosa di molto serio. Si lavora con energie psichiche potentissime, e questo può provocare sconvolgimenti enormi. Nei prossimi dieci giorni c’è caso che stiate male. Vi sentirete disorientati, persi, vi verrà da piangere o avrete paura, vi direte che è stato un errore venire, è possibile, le reazioni possibili sono tante e imprevedibili. Se si mette male, gli insegnanti sono qui per aiutarvi. Ma dovete mantenere fede al giuramento che fate stasera: qualunque cosa accada, resterò fino alla fine. Quindi, per favore, riflettete. E dopo aver riflettuto, andatevene se ve ne dovete andare, ma se invece decidete di restare, restate».


Segue un silenzio un po’ più lungo di quello che si osserva quando, durante un matrimonio, il celebrante chiede, secondo la formula di rito, se qualcuno abbia qualcosa in contrario. Nessuno pone la domanda: Ma se poi voglio comunque andare via, posso? O me lo impedirete? Forse la risposta sarebbe: Il problema non è se ve lo impediremo o meno: il punto è che non dovete farlo. È un po’ come in quel paese dei Balcani in cui la classe politica era bersaglio di continui attentati e in cui era stata votata una legge che diceva: «Chi spara sul ministro delle Finanze avrà quindici anni di prigione. Chi spara sul ministro dell’Interno, venti. Chi spara sul gran ciambellano, dieci. È vietato sparare sul primo ministro».

Nessuno si alza. Nessuno se ne va. Non sospetto minimamente che, quattro giorni dopo, sarò io il primo a farlo.


Stare al gioco


È cominciato il Nobile Silenzio. Gli inservienti ci distribuiscono su carrelli portavivande di latta grandi porzioni di riso e verdure bollite, che possiamo condire con salsa di soia, lievito di birra o gomasio. Ciascuno di noi prende da una pila una ciotola o un piatto e, dopo averlo usato, non lo lava, ma si limita a riporlo in una bacinella che poi gli inservienti porteranno via. Dal momento che gli obblighi materiali sono ridotti al minimo, non abbiamo niente, ma proprio niente da fare se non stare in silenzio e rivolgere lo sguardo verso l’interno. Evitiamo di incrociare quello dei compagni. Fissiamo il piatto, mangiamo molto lentamente, masticando a lungo – una pratica dalla quale si riconoscono subito i control freaks alimentari e alla quale cerco di convertirmi da anni senza grande successo. Finita la cena, andiamo a letto presto. Ognuno raggiunge, a occhi bassi, il suo bungalow o il suo dormitorio. Alle otto di sera mi ritrovo nella mia stanza, senza un libro da leggere, senza niente da fare e senza avere, ovviamente, nessuna voglia di dormire. Guardo il blocco compatto della notte incorniciato dalla porta-finestra davanti a me. Guardo la statuetta raffigurante i due gemelli che ho sistemato sulla mensola vuota come su un piccolo altare. Quello che avrei voglia di fare, in realtà, è trascrivere quanto più fedelmente possibile il discorso del ragazzo simpatico e le mie impressioni sulla serata. Ho fatto bene a stare al gioco? A non infilare in borsa un taccuino? Sì: avrei trasformato questa esperienza in un reportage. Al tempo stesso, sarebbe ridicolo mentire: sto davvero facendo un reportage. O, meglio: anche un reportage. Sono un infiltrato. Sono venuto a cercare materiale per il mio libro e, che prenda o meno appunti, cambia ben poco dato che quello che merita di essere ricordato, secondo me, me lo ricorderò comunque. Non è questo il punto. Il punto è – e non è la prima volta che me lo chiedo – se c’è contraddizione o addirittura incompatibilità fra la pratica della meditazione e il mio mestiere, che è quello di scrivere. Nei prossimi dieci giorni guarderò sfilare i miei pensieri lasciandoli andare, oppure cercherò di fissarli – che è proprio quello che non bisognerebbe fare, ossia l’esatto contrario della meditazione? Prenderò di continuo appunti mentali? In questi dieci giorni sarà il meditante a osservare lo scrittore o lo scrittore a osservare il meditante? Un grande, grandissimo dilemma, che mi tormenta, e sul quale finisco per addormentarmi.


martedì 25 giugno 2024

OGGETTO D'AMORE Edna O'Brien

 

OGGETTO D'AMORE 

Edna O'Brien


[...]“He simply said my name. He said ‘Martha’, and once again I could feel it happening. My legs trembled under the big white cloth and my head became fuzzy, though I was not drunk. It’s how I fall in love. He sat opposite. The love object.[...]

Oggetto d’amore

Disse semplicemente il mio nome. – Marta, – disse, e capii che stava succedendo di nuovo. Mi tremavano le gambe sotto la grande tovaglia bianca e avevo la testa confusa, anche se non ero ubriaca. È cosí che m’innamoro. Era seduto davanti a me. L’oggetto dell’amore. Attempato. Occhi azzurri. Capelli biondo sabbia. Stava ingrigendo ai lati e aveva distribuito le ciocche grigie esterne su tutta la testa quasi a nascondere il biondo, come certi nascondono la calvizie. Aveva quello che io chiamo un sorriso molto religioso. Un sorriso interiore che andava e veniva, governato, per cosí dire, da una gioia tutta sua per quello che sentiva o vedeva: un mio commento, il cameriere che toglieva i piatti freddi decorativi e portava quelli caldi di una foggia diversa, la tenda di nylon che si gonfiava al vento sfiorandomi il braccio nudo cotto dall’estate. Era la fine di una calda estate londinese.

– Non sono troppo simpatici nemmeno a me, – disse. Stavamo spettegolando. Parlavamo di una coppia famosa che conoscevamo tutti e due. Lui teneva sempre le mani giunte come per pregare. Non c’erano barriere fra noi. Eravamo estranei. Io faccio l’annunciatrice televisiva; ci eravamo conosciuti per motivi di lavoro, e lui aveva avuto la gentilezza di invitarmi a cena. Mi aveva raccontato di sua moglie, una trentenne come me, e disse che gli era bastato vederla per capire che l’avrebbe sposata. (Era la terza, di moglie). Non gli chiesi com’era fisicamente. Non lo so tuttora. L’unico ricordo che ho di lei sono le braccia inguainate in due grandi maniche color malva lavorate all’uncinetto; è un’immagine che mi è rimasta impressa e rivedo le mani rosa e oranti di lui svanire dentro quelle maniche, e loro due che ballano in una grande sala tetra sorridendo estatici per la fortuna di essere insieme. Ma questo succedeva molto dopo.

Fu una cena simpatica con i fichi per dessert. I primi fichi che avessi mai assaggiato. Lui li tastò delicatamente con le dita, poi me ne mise tre nel piatto. Rimasi a fissare la buccia nero-violacea perché il tremito mi faceva passare la voglia di pelarli. Lui mi distrasse dal nervosismo raccontandomi la storiella di una ragazza che in un’intervista radiofonica aveva ammesso di possedere trentasette paia di scarpe e di comprare un vestito nuovo ogni sabato, che poi cercava di rivendere a parenti e amici. In un certo senso sapevo che aveva scelto quella storia apposta per me e che non si sarebbe arrischiato a raccontarla a molti altri. Era a suo modo una persona seria, e famosa, anche se questo importa poco quando si racconta una storia d’amore. Oppure importa? Fatto sta che addentai un fico senza sbucciarlo.

Come si fa a descrivere un sapore? Erano un cibo nuovo e un uomo nuovo, e quella notte tra le mie lenzuola lui fu un estraneo e un amante, come dire il compagno di letto ideale.

La mattina mantenne un atteggiamento formale ma disinvolto; chiese perfino una spazzola per gli abiti perché sulla giacca aveva una macchia di cipria che gli avevo lasciato la sera prima quando ci eravamo abbracciati tornando a casa in taxi. Allora non ero sicura che saremmo andati a letto insieme, anche se tutto considerato mi sembrava improbabile. Non ho mai avuto una spazzola per gli abiti. Ho libri, dischi, svariate boccette di profumo e vestiti bellissimi, ma non compro mai strumenti per pulire o per far durare a lungo le cose. Sarà anche uno spreco, però preferisco buttarle. Lui comunque picchiettò col fazzoletto la macchia di cipria, che andò via senza difficoltà. Gli serviva anche un cerotto perché la scarpa nuova gli aveva tagliato il tallone. Guardai, ma la confezione era vuota. L’avevano ripulita i miei figli durante le lunghe vacanze estive. Anzi, per un attimo mi parve di vedere i miei due figli in quei giorni d’estate, stravaccati in poltrona, a leggere fumetti, a scorrazzare in bici, a fare la lotta, procurandosi tagli che subito coprivano con un cerotto e dopo, quando si staccava, esibivano gli sfregi bordati di marrone a riprova del loro valore. Quanto mi mancavano, avrei tanto voluto stringerli fra le braccia: un motivo in piú per apprezzare la sua compagnia. – Non è rimasto nemmeno un cerotto, – dissi, vergognandomi un po’. Pensai che mi avrebbe preso per una persona trascurata. Mi chiesi se era il caso di spiegargli come mai i miei figli erano entrati in collegio cosí piccoli. Avevano otto e dieci anni. Ma non glielo spiegai. Mi era passata la voglia di raccontare in giro che il mio matrimonio era naufragato e che mio marito, incapace di occuparsi di due bambini, aveva voluto a tutti i costi mandarli in collegio per farli crescere, a suo dire, in un clima equilibrato. Secondo me l’aveva fatto per privarmi del piacere che provavo a stare con loro. Non potevo spiegarglielo.

Facemmo colazione fuori. L’avvio di un’altra giornata calda. Dal cielo pendeva quella foschia incolore che precede la canicola e nel giardino accanto erano già partiti gli irrigatori. I miei vicini sono fanatici del giardinaggio. Lui mangiò tre fette di pane tostato con il bacon. Mangiai anch’io, tanto per metterlo a suo agio, anche se normalmente salto la colazione. – Farò incetta di cerotti, spazzole per gli abiti e smacchiatori, – dissi. Un modo per dire: «Tornerai?» Lui capí al volo. Si affrettò a ingoiare il pane, mise una di quelle sue mani oranti sulla mia e disse in tono solenne e gentile che non intendeva avere un’avventuretta squallida e volgare con me, ma che da lí a un mese ci saremmo rivisti e si augurava che diventassimo amici. L’amicizia non mi aveva nemmeno sfiorato la mente, anche se forse era un’eventualità interessante. Mi ricordai che cominciando a parlare, la sera precedente, aveva accennato alle prime due mogli e ai figli ormai adulti, e pensai che era una persona onesta e per niente nostalgica. Non ne potevo piú dei dispiaceri e di chi, non contento, ci ricamava pure sopra. Mi aveva anche intenerito vederlo ripiegare il copriletto di seta verde, una cosa che io non faccio mai.

Quando se ne andò mi sentii euforica e in un certo senso sollevata. Era stato bello e senza strascichi antipatici. Avevo il viso arrossato dai baci e i capelli arruffati dagli strapazzi. Sembravo una poco di buono. Stanca dopo la notte quasi insonne, chiusi le tende e tornai a letto. Ebbi un incubo. Il solito, l’uomo che mi uccide. Mi dicono che avere gli incubi è salutare e da quella volta ci credo. Erano mesi che non mi svegliavo cosí calma e trascorsi il resto della giornata di ottimo umore.

Due mattine dopo telefonò chiedendo se c’era speranza di vederci in serata. Risposi di sí, perché non avevo niente da fare e mi sembrava giusto suggellare il nostro segreto con una bella cena. Invece ripartimmo in quarta.

– Siamo stati benissimo, – disse. Mi accorsi di fare piccoli gesti raggelati che denotavano amore, timidezza; lo guardavo con tanto d’occhi, pendevo dalle sue labbra. Stavolta sbucciò i fichi per tutti e due. Mettevamo le gambe in modo che si toccassero e subito le ritiravamo, convinti che veicolassero il nostro desiderio. Mi accompagnò a casa. Fra le lenzuola mi accorsi che si era messo l’acqua di colonia sulle spalle e che aveva organizzato la cena con la speranza, se non con l’intenzione, di venire a letto con me. Il sapore della sua pelle mi piaceva piú di quella ributtante sostanza chimica e mi toccò dirglielo. Lui rise. Non mi ero mai sentita cosí a mio agio con un uomo. Per la cronaca, ero andata a letto con altri quattro ma sentendo sempre un divario sul piano verbale. Mi soffermai un attimo a riflettere sui loro vari odori mentre respiravo il suo, che mi ricordava qualche erba aromatica. Non era il prezzemolo, non era il timo e nemmeno la menta bensí un’erba aromatica inesistente che riassumeva tutti e tre i profumi. Quella seconda volta facemmo l’amore in modo piú rilassato.

– Come la mettiamo se farai di me una donna insaziabile? – chiesi.

– Ti cederò a un amico che sia all’altezza, – disse.

Ci accoccolammo e, con la testa sulla sua spalla, pensai ai piccioni sotto il ponte della ferrovia lí vicino che la notte si rannicchiano stretti stretti ripiegando la testa sul petto malvaceo. Mentre dormiva ci baciavamo scambiandoci paroline. Io non chiusi occhio. Non dormo mai quando sono troppo felice, troppo infelice o a letto con un estraneo.

Nessuno dei due disse: «Bene, eccoci qui alle prese con un’avventuretta squallida e volgare». Cominciammo semplicemente a frequentarci. Con regolarità. Smettemmo di andare al ristorante perché lui era famoso. Veniva a cena da me. Non dimenticherò mai il delirio di quei preparativi: mettere i fiori nei vasi, cambiare le lenzuola, sprimacciare i cuscini, sforzarmi di cucinare, truccarmi e tenere una spazzola a portata di mano casomai fosse arrivato in anticipo. Che strazio! Quando finalmente suonava il campanello andavo ad aprire con una certa difficoltà.

– Non puoi sapere che oasi è questa per me, – diceva. Poi nell’ingresso mi metteva le mani sulle spalle e me le stringeva attraverso l’abito leggero dicendo: – Fatti guardare, – e io chinavo la testa, perché ero imbarazzata e perché volevo esserlo. Ci baciavamo, spesso per cinque minuti buoni. Lui mi baciava l’interno delle narici. Poi ci trasferivamo in soggiorno per accomodarci sulla chaise-longue ancora ammutoliti. Lui mi toccava l’osso del ginocchio e diceva che avevo delle ginocchia bellissime. Vedeva e ammirava parti di me che gli altri avevano sempre trascurato. Subito dopo cena andavamo a letto.

Una volta si presentò inaspettatamente nel tardo pomeriggio, trovandomi pronta per uscire. Andavo a teatro con un altro.


– Quanto vorrei accompagnarti io, – disse.


– Andremo mai a teatro una sera? – Lui chinò la testa. Ci saremmo andati. Per la prima volta sembrò triste. Non facemmo l’amore perché fra il trucco e le ciglia finte sarebbe stato un po’ scomodo. Disse: – Nessuno ti ha mai detto che vedere una donna che desideri e non poterci fare niente dà un dolore fisico?


Quel dolore contagiò anche me, accompagnandomi per tutto lo spettacolo. Che rabbia non essere andata a letto con lui, e in seguito me ne pentii ancora di piú perché, a partire da quella sera, i nostri incontri si diradarono. La moglie, che era stata in Francia con i figli, rientrò. Lo scoprii una sera che lui venne a trovarmi in macchina e tra una parola e l’altra disse di sfuggita che quel giorno la figlioletta aveva fatto la pipí su un documento importante. A questo punto posso rivelarvi che era un avvocato.


Da allora vedersi di sera diventò quasi impossibile. Mi dava appuntamento di pomeriggio e con un preavviso minimo. Le rare notti in cui riusciva a fermarsi si presentava con una borsa da viaggio dove c’erano lo spazzolino, la spazzola per gli abiti e le poche cose necessarie a un uomo per una notte non d’amore in un albergo di provincia. Immagino che gliela preparasse lei. Pensavo: «È ridicolo». Lei non mi faceva nessuna pena. Anzi, solo a sentirla nominare – si chiamava Helen – mi veniva la rabbia. Lo disse con grande innocenza. Disse che nel cuore della notte avevano svaligiato casa loro e che lui era sceso in pigiama mentre la moglie telefonava alla polizia dall’apparecchio al piano di sopra.


– Capita, quando si è ricchi, – tagliai corto per cambiare discorso. Fu rassicurante scoprire che con lei, a differenza che con me, portava il pigiama. La mia gelosia era estrema, oltre che marchianamente ingiusta. Ma darei un’impressione sbagliata se dicessi che fu l’esistenza di lei che, a quel punto, deteriorò il nostro rapporto. Perché non è vero. Lui si premurava sempre di parlare come uno scapolo e dopo aver fatto l’amore si tratteneva come minimo un’ora prima di andarsene con tutta calma. Anzi, è proprio uno di quei momenti dopo l’amore che considero il non plus ultra del nostro rapporto. Eravamo seduti sul letto, nudi, a mangiare panini al salmone affumicato. Avevo acceso la stufa a gas perché era autunno inoltrato e i pomeriggi erano gelidi. La stufa emetteva un ronzio costante. Era l’unica luce nella stanza. Lui notò per la prima volta la forma del mio viso perché, disse, fino ad allora era stato l’incarnato ad attirare tutta la sua ammirazione. Anche il suo viso, la cassapanca di mogano e i quadri sembravano piú belli. Non rosei, perché la stufa a gas non aveva quel tipo di lucore, però risplendevano di una luce biancastra. Il tappeto in pelle di capra sotto la finestra era di una morbidezza voluttuosissima. Glielo feci notare. Lui disse di avere una leggera vena masochista e che spesso la notte, non riuscendo a dormire a letto, andava in un’altra stanza, si stendeva a terra con un cappotto addosso e si addormentava di schianto. Lo faceva anche da piccolo. L’immagine di quel bimbetto che dormiva in terra mi mosse a enorme compassione e, senza una parola da parte sua, lo portai vicino al tappeto e lo feci stendere. Fu l’unica volta in cui i ruoli si invertirono. Lui non era mio padre. Io diventai sua madre. Morbida e del tutto immune alle paure. Perfino i miei capezzoli, che sono molto suscettibili, non si sottrassero alle sue pretese furiose. Volevo fare tutto e di tutto per lui. Come spesso succede fra amanti, il mio ardore e la mia inventiva stimolarono i suoi. Non ci fermammo davanti a niente. Dopo, commentando l’impresa – com’era sua abitudine –, considerò che era stato il piú intimo dei nostri momenti intimi. Come dargli torto. Quando ci alzammo per vestirci si asciugò le ascelle con la camicetta bianca che portavo prima e mi chiese quale dei miei bei vestiti avrei indossato per la cena. Scelse lui, quello nero. Disse che gli faceva tantissimo piacere sapere che pur cenando con qualcun altro avrei rimuginato su quello che avevamo fatto noi. Una moglie, il lavoro, il mondo potevano anche separarci, ma nel pensiero eravamo legati.


– Ti penserò, – dissi.


– Anch’io.


Non fu nemmeno tanto triste separarci.


Tempo dopo ebbi quello che si può definire soltanto un sogno nel sogno. Stavo uscendo dal torpore, cercando di svegliarmi, asciugandomi la saliva sulla federa, quando sentii qualcosa tirarmi, un peso enorme che mi inchiodava al letto, e pensai: sono diventata invalida. Ho perso l’uso degli arti, ecco perché da mesi mi sento fiacca e ho voglia di prendere il tè e guardare fuori dalla finestra e basta. Sono paralizzata. Dappertutto. Non riesco a muovere nemmeno la bocca. Soltanto il cervello funziona ancora. Il cervello mi dice che la signora che sta stirando al piano di sotto è l’unica in grado di trovarmi, ma potrebbe non salire quassú per giorni, potrebbe pensare che sono a letto con un uomo, a peccare. A volte mi capita di dormire con un uomo, anche se di solito dormo da sola. Lascerà i vestiti stirati sul tavolo della cucina e il ferro in verticale sul pavimento per evitare che bruci qualcosa. Le camicette saranno appese alle grucce, le ruche dei colletti bianche e soffici come schiuma. È tipo da stirare perfino le punte e i calcagni delle calze di nylon, lei. Se ne andrà in silenzio e tornerà, come previsto, giovedí prossimo. Sento qualcosa dietro la schiena, per essere precisi strattona il copriletto che mi sono tirata su per la schiena per coprirmi la testa. Per ripararmi. E adesso so che non è l’invalidità a inchiodarmi al letto bensí un uomo. Come ha fatto a entrare? È in camera, vicino al muro. So che cosa sta per farmi, e la signora al piano di sotto non mi verrà mai a salvare, si vergogna troppo o forse non pensa che voglio essere salvata. Non so qual è dei tanti, se è il marcantonio grande e grosso che mi ritrovo di fronte ogni volta che apro ingenuamente la porta convinta che sia il ragazzo della tintoria e invece c’è Lui, con un vecchio coltello da scalco nero, la lama che scintilla perché l’ha appena affilata su un gradino. Vorrei urlare ma la lingua non è piú mia. O potrebbe essere l’Altro. Un colosso anche lui, mi afferra per il braccialetto mentre mi infilo tra i sostegni del corrimano. Ho dimenticato che non sono piú una bambina e non mi riesce facile infilarmi tra i sostegni del corrimano. Se il braccialetto si fosse spezzato sarei riuscita a scappare, lasciandolo con mezzo braccialetto d’oro in mano, invece, siccome è di nove carati, mia madre che, accidenti a lei, è cosí previdente ci ha fatto mettere una catenella di sicurezza. Fatto sta che è nel letto. Andrà per le lunghe, la cosa che vuole. Non oso girarmi a guardarlo. Poi una certa gentilezza nell’abbassare il lenzuolo mi fa capire che potrebbe essere Quello Nuovo. L’uomo che ho conosciuto qualche settimana fa. Non è affatto il mio tipo, con le venuzze rotte sulle guance e i capelli rossi, ma proprio rossi. Eravamo su una pelle di capra. Sollevata da terra però, alta come un letto. Durante l’amore avevo fatto quasi tutto io; seno, mani, bocca, tutto smaniava di soddisfarlo. Mi sentivo sicura, non mi ero mai sentita cosí sicura della validità di quello che facevo. Poi ha cominciato a baciarmi là sotto e sono venuta sulla lingua che mi leccava e avevo la sua testa sotto le natiche e mi sembrava di partorirlo, solo che provavo piacere anziché dolore. Si fidava di me. Eravamo due persone, nel senso che non mi stava sopra, non mi soffocava, non faceva cose che non vedevo. Vedevo. Volendo avrei potuto cacargli su quei capelli rossi. Si fidava di me. Ha trattenuto lo sburro fino all’ultimo. E tutte le cose che avevo amato fino a quel momento, come il vetro o le bugie, gli specchi e le piume, e i bottoni di madreperla, la seta e i salici piangenti, sono passate in secondo piano rispetto a quello che aveva fatto lui. Era steso in modo che potessi vederlo: cosí delicato, cosí magro, con un mucchio di vene azzurre preoccupate lungo i fianchi. Parlargli è stato come parlare con un bambino. La luce nella stanza era un bagliore bianco. Mi aveva ammorbidita e fatta bagnare molto perciò me lo sono messo dentro. È stato rapido, duro, energico, e lui ha detto: «Non sto pensando a te, adesso, a te ci abbiamo già pensato», e io ho detto che aveva ragione e che quella brutalità mi piaceva. Ho detto cosí. Non ero piú un’ipocrita, non ero piú una bugiarda. In precedenza mi aveva rimproverato spesso, aveva detto: «Ci sono parole che fra noi non useremo, parole come: “Scusa”, oppure: “Hai fame?”» Parole che io avevo usato tantissimo. Perciò dal delicato scivolare del copriletto, piú simile a una richiesta, in effetti, penso che potrebbe essere lui, e se è vero voglio affondare giú giú nel pozzo caldo, scuro e sonnolento di questo letto e restarci per sempre, venendo insieme a lui. Ma non guardo per la paura che non sia Lui ma Uno degli Altri.


Quando finalmente mi svegliai ero in preda al panico e avevo un bisogno terribile di telefonargli, solo che, anche se non me l’aveva mai davvero vietato, sapevo che gli avrebbe dato molto fastidio.


Quando una cosa è stata perfetta, come il nostro incontro alla luce della stufa, si tende a cercare disperatamente di ripeterla. Purtroppo l’occasione successiva fu velata di mestizia. Si presentò nel pomeriggio con una valigia piena di tutto l’occorrente per una cena di gala a cui avrebbe partecipato quella sera. All’arrivo mi chiese se poteva appendere il frac, per evitare che si stropicciasse. Attaccò la gruccia al bordo esterno dell’armadio e ricordo che rimasi colpita dalla fila di medaglie al valore militare che correva lungo il taschino. La parentesi a letto fu piacevole ma veloce. Aveva fretta di vestirsi. Io rimasi seduta a guardarlo. Volevo chiedergli delle medaglie e di come se l’era guadagnate, se si ricordava della guerra, se all’epoca gli era mancata la moglie di allora, se aveva ucciso qualcuno e se gli capitava ancora di sognarlo. Ma non gli chiesi niente. Rimasi lí seduta come paralizzata.


– Niente bretelle, – disse reggendosi i larghi pantaloni neri per la vita. Agli altri doveva avere la cintura.


– Vado a prendertene un paio da Woolworth, – dissi. Ma non era il caso, già cosí rischiava di fare tardi. Presi una spilla da balia e glieli appuntai dietro la vita. Un’operazione non semplice perché la spilla non era abbastanza robusta.


– Me la riporti? – dissi. Non regalo mai le spille da balia, sono superstiziosa. Ci mise un po’ a rispondere perché stava imprecando a mezza bocca. Non ce l’aveva con me. Ce l’aveva con quel colletto inamidato di una rigidità disumana in cui i bottoncini dorati non volevano saperne di infilarsi. Ci provai io. Ci provò lui. Ogni volta che uno dei due non ci riusciva, l’altro si spazientiva. Disse che a furia di provarci l’avremmo imbrattato tutto con le mani. Il che sarebbe stato peggio. Pensai a quanto dovevano essere criticoni i suoi commensali, ma ovviamente mi guardai bene dal dirlo. Alla fine riuscimmo a infilare un bottoncino ciascuno e lui per festeggiare mandò giú un sorsetto di whiskey. Il farfallino fu un’altra impresa. Lui non riuscí ad annodarlo. Io non osai nemmeno provarci.


– Non l’hai mai annodato? – chiesi. Immagino che glielo avessero sempre annodato le mogli, in successione. Mi sentii una vera stupida. Poi, un grumo di odio. Pensai a quant’erano orribili quelle gambe rosa, a quant’era ributtante la forma del corpo, senza nemmeno l’accenno della vita, a quant’erano falsi quegli occhi che si congratularono con lui allo specchio quando riuscí ad abbozzare una specie di farfallino. Quando si mise la giacca, il tintinnio delle medaglie mi diede lo spunto per un commento su quella musica. C’era ben poco da dire. Per ultima mise una sciarpa di seta bianca che gli scendeva oltre la vita. Sembrava uno che non conoscevo. Uscí in fretta e furia. Io corsi in strada con lui per aiutarlo a trovare un taxi, e stargli dietro e chiacchierare non era semplice. Ricordo soltanto l’immagine spettrale della sciarpa bianchissima che dondolava mentre correvamo. Le scarpe, che erano di pelle lucida, facevano uno sgradevole cigolio.


– È una cena fra maschi? – chiesi.


– No. È mista, – rispose.


Ecco il perché di tanta fretta. Aveva appuntamento con la moglie da qualche parte. L’odio cominciò a crescere.


Mi riportò la spilla da balia, ma la superstizione rimase, perché sul davanzale avevo trovato quattro spilli con la capocchia nera rotonda caduti dalla sua camicia nuova. Non volle riprenderseli. Non era superstizioso, lui.


I brutti momenti, come quelli belli, tendono a coalizzarsi, e quando penso a quella vestizione penso anche a un’altra circostanza che non ci vide in totale accordo. Eravamo per strada; stavamo cercando un ristorante. Ci era toccato uscire perché un’amica era venuta a stare da me e ci avrebbe imposto la sua compagnia. Mentre camminavamo – era ottobre e tirava molto vento – capii che era arrabbiato perché per colpa mia dovevamo stare fuori al freddo e non potevamo abbracciarci. Avevo i tacchi altissimi e mi vergognavo del rumore vuoto che facevano. In un certo senso capii che eravamo nemici. Lui guardava le vetrate dei ristoranti per vedere se c’era qualcuno che conosceva. Ne scartò due per motivi noti soltanto a lui. Uno sembrava molto grazioso. Aveva le lampadine arancioni incastonate nei muri con piccole grate di ferro quadrate che filtravano la luce. Attraversammo la strada per guardare i locali sul marciapiede di fronte. Vidi un gruppo di teppistelli venirci incontro e, tanto per dire qualcosa – tra i miei tacchi aggressivi, il vento, il traffico e quell’orribile via che non aveva niente di romantico eravamo rimasti a corto di argomenti piacevoli –, chiesi se l’avesse mai innervosito incontrare gruppi rumorosi come quello di sera tardi. Lui disse che giusto qualche sera prima tornando a casa a piedi molto tardi aveva visto un gruppo simile andargli incontro e, prima ancora di sentire la paura, si era accorto di aver allargato il mazzo di chiavi infilandoci in mezzo le dita e di essere pronto a sfilare di tasca la mano, armata delle punte acuminate delle chiavi, se per caso l’avessero minacciato. Mi sa che mentre parlavamo stava facendo la stessa cosa. Strano, ma non mi sentivo protetta da lui. Sentivo solo che eravamo due persone, che al mondo c’erano problemi, violenze, malattie, catastrofi che lui affrontava in un modo e io affrontavo – o, per essere precisi, rifuggivo – in un altro. Mentre ero assorta in quel pensiero malinconico il gruppo ci sfilò accanto e le mie congetture sulla violenza si rivelarono inutili. Trovammo un bel ristorante e bevemmo tantissimo vino.


Dopo, l’amore fu, al solito, perfetto. Lui si trattenne la notte. Mi sentivo molto privilegiata quando si tratteneva la notte e gli unici piccoli spasmi d’ansia che minavano la mia gioia nascevano dal timore che avesse detto alla moglie che era in un certo albergo e che lei telefonando non lo trovasse. Spesso davo libero sfogo alla fantasia e immaginavo che lei ci scoprisse, immaginavo di restare in un signorile silenzio mentre lui le diceva con grande freddezza di aspettare fuori che si rivestisse. Lei non mi faceva nessuna pena. Certe volte mi chiedevo se ci saremmo mai incontrate o se non ci fossimo già incontrate su qualche scala mobile. Ma era improbabile, visto che abitiamo ai poli opposti di Londra.


Poi, con mia grande sorpresa, si presentò l’occasione. Mi invitarono a una festa per il Ringraziamento organizzata da una rivista americana. Lui vide l’invito sulla mensola del camino e disse: – Ci vai anche tu? – e io sorrisi dicendo forse. E lui? – Sí, – disse. Cercò di convincermi a decidere su due piedi, ma non mi lasciai incantare. Certo che ci sarei andata. Ero curiosa di vedere sua moglie. Avrei incontrato lui in pubblico. Mi sconvolgeva pensare che non ci eravamo mai incontrati in compagnia di altre persone. Era come essere una reclusa… un piccolo animale sotto chiave. Pensai distintamente a un furetto che quand’ero piccola un guardaboschi teneva dentro una cassa di legno con la sommità scorrevole, e a un altro furetto che una volta aveva portato per farli accoppiare. Quel pensiero mi diede i brividi. Nel senso che mi si confusero le idee: pensai ai furetti bianchi con le piccole narici rosa e allo stesso tempo pensai a lui che ogni tanto faceva scorrere una porta e si infilava dentro la mia cassa. Il rosa abbondava sulla sua pelle.


– Non ho ancora deciso, – dissi, ma il giorno prestabilito ci andai. Curai tantissimo l’aspetto, mi feci acconciare i capelli e indossai una tenuta verginale. Bianca e nera. La festa si teneva in una grande sala con le pareti rivestite di legno marrone; a tutti i pannelli erano affisse le copertine ingrandite della rivista. Il bar era sul fondo, sotto una balconata. A colpo d’occhio sembrava che i baristi vestiti di bianco fossero rattrappiti e persi sotto la rupe di quella balconata che pareva pronta a crollargli addosso. Mai visto una sala meno adatta a una festa. Alcune donne si aggiravano con i vassoi ma mi toccò andare al bar perché su quei vassoi c’era lo champagne e io preferisco il whiskey. Mi accompagnò uno che conoscevo e durante il tragitto un altro mi stampò un bacio sulla schiena. Mi augurai che lui se ne fosse accorto, anche se in quella sala enorme con centinaia di persone non riuscivo a immaginare dove fosse. Notai un vestito che mi piaceva molto, un vestito malva con le maniche ampissime lavorate all’uncinetto. Facendo salire lo sguardo lungo le maniche vidi gli occhi della proprietaria puntati su di me. Forse le piaceva la mia mise. Capita, quando si hanno gli stessi gusti. Non ho idea di come fosse il suo viso ma dopo, quando chiesi a un’amica quale fosse la moglie di lui, indicò la donna con le maniche lavorate all’uncinetto. La seconda volta la vidi di profilo. Non so tuttora come sia, né gli occhi che guardai evocano qualcosa di speciale nel ricordo se non, forse, una vaga cupidigia.


Alla fine andai a cercarlo. Mi feci accompagnare da un amico comune che finse di presentarci. Lui era scostante. Sembrava strano, il rossore che gli colorava le guance era acceso e innaturale. Parlò con l’amico comune e in pratica mi ignorò. Forse per rimediare mi chiese, dopo tanto, se mi divertivo.


– Questa sala è gelida, – dissi. Ovviamente mi riferivo al suo atteggiamento. Volendo definire la sala avrei usato l’aggettivo «tetro» o qualcosa di simile.


– Non so da dove le viene questa sensazione di gelo, io non ce l’ho, – disse in tono aggressivo. Poi una tizia molto ubriaca con un vestito a sacchetto venne a prenderlo per mano e cominciò a sbavargli addosso. Chiesi scusa e me ne andai. Lui disse senza mezzi termini che sperava di rivedermi.


Andando via dalla festa incrociai il suo sguardo e provai non solo dispiacere per lui ma anche rabbia. Sembrava attonito, come se gli avessero appena comunicato una notizia importante. Mi vide uscire con un gruppo di persone e io lo fissai senza l’accenno di un sorriso. Ebbene sí, mi dispiaceva per lui. Ero anche seccata. Ci vedemmo il giorno dopo, e quando sollevai l’argomento lui non si ricordava nemmeno che un amico comune ci avesse presentati.


– Clement Hastings! – disse, ripetendone il nome. Il che dimostra quanto fosse nervoso.


È impossibile sostenere che le brutte notizie, se comunicate in un certo modo e in un certo momento, hanno un effetto meno disastroso. Io però sono convinta che lui mi abbia dato il benservito nel momento sbagliato. Tanto per cominciare, era mattina. Suonò la sveglia e mi sollevai a sedere chiedendomi quando lui l’avesse messa. Era già in piedi e stava provvedendo a spegnerla.


– Scusami, cara, – disse.


– L’hai messa tu? – dissi, indignata. Sapeva di tradimento, come se avesse voluto svignarsela senza salutare.


– Pare proprio di sí, – disse. Mi abbracciò e ci stendemmo di nuovo. Fuori era buio e c’era una sensazione – ma forse esiste soltanto nel ricordo – di ghiaccio.


– Complimenti, oggi ritirerai il premio, – bisbigliò. Avrei ricevuto un premio come annunciatrice.


– Grazie, – dissi. Mi vergognavo di quel premio. Mi ricordava di quando a scuola primeggiavo sempre in tutto, provando un senso di colpa che però non bastava a farmi abbassare le ali.


– Che bello, ti sei fermato tutta la notte, – dissi. Lo accarezzavo ovunque. A letto non stavo mai ferma con le mani. Sveglia o addormentata, era un continuo accarezzarlo. Non per eccitarlo, semplicemente per rassicurarlo e consolarlo e forse per consolidare il mio diritto di proprietà. Trovo che ci sia un che di terapeutico nel tenersi strette le cose. Tengo per ore pietre lisce nel palmo della mano oppure impugno i lati di una poltrona e dopo mi sento meglio. Mi baciò. Disse di non aver mai conosciuto una persona piú dolce e premurosa. Io, incoraggiata, mi dedicai a una cosa molto intima. Sentivo i suoi sospiri di piacere, gli «oh, oh» goduti quando si abbandonava dicendosi allo stesso tempo che non doveva. Sulle prime non mi accorsi che stava parlando.


– Ehi, – disse in tono scherzoso, come se niente fosse. – Lo sai che cosí non può andare avanti –. Pensavo che si riferisse all’attività del momento, perché il tempo stringeva e lui doveva scappare. Poi sollevai la testa che tenevo affondata fra le sue gambe e lo guardai attraverso i capelli che mi erano ricaduti sul viso. Vidi che era serio.


– Mi sono appena reso conto che forse mi ami, – disse. Annuii e spinsi indietro i capelli per dargli modo di leggere l’attestazione che avevo scritta chiara in faccia. Mi fece stendere in modo da accostare la testa alla mia e cominciò:


– Ti adoro, ma non sono innamorato di te; con i miei impegni non credo che potrei innamorarmi di qualcuno, all’inizio l’ho presa alla leggera… – Quelle ultime parole mi offesero. Io non la vedevo né la ricordavo cosí: tutti i telegrammi che mi aveva mandato con scritto: «Muoio dalla voglia di vederti», oppure: «Che il sole risplenda su di te», i primissimi istanti a ogni incontro, quando eravamo sopraffatti dalla passione, dalla timidezza e dallo shock di essere cosí turbati dalla presenza dell’altro. Avevamo perfino cercato sul dizionario le parole per esprimere il modo unico in cui consideravamo l’altro. Lui aveva scelto «incensare», che significa adorare o coprire con il profumo dell’amore. Era la parola perfetta e la usavamo di continuo. Adesso rinnegava tutto. Parlava di inglobarmi nella sua vita, nella sua vita familiare… di farmi diventare un’amica. Anche se lo disse con poca convinzione. A me non veniva in mente una sola cosa da dire. Sapevo che se avessi aperto bocca avrei fatto una figura penosa, perciò rimasi in silenzio. Quando tacque fissai la fessura tra le due tende dritto davanti a me e, guardando il raggio di cruda luce che filtrava, dissi: – Mi sa che fuori c’è il ghiaccio, – e lui disse che era possibile, visto che era pieno inverno. Ci alzammo e lui come al solito tolse la lampadina dall’abat-jour sul comodino e infilò la spina del rasoio. Io andai a preparare la colazione. Fu l’unica mattina in cui dimenticai di fargli la spremuta d’arancia e spesso mi chiedo se lui l’abbia preso per un affronto. Se ne andò poco prima delle nove.


Il soggiorno serbava le tracce della sua presenza. O, per essere precisi, gli avanzi dei suoi sigari. In uno dei portacenere azzurri a forma di piattino c’erano grossi stronzi di cenere di sigaro grigio scuro. C’erano anche i mozziconi, ma erano i pezzi di cenere che continuavo a guardare, pensando che la loro grossezza mi ricordava quella delle sue brutte gambe. E ancora una volta lo odiai. Stavo per svuotare il portacenere nel camino quando qualcosa mi trattenne e invece presi una scatoletta di metallo e, aiutandomi con un foglio di carta, misi dentro i pezzi di cenere e portai la scatoletta di sopra. Gli stronzi spostandosi si disfecero e, anche se mi avevano ricordato le sue gambe, adesso erano una massa informe di cenere grigio scuro, simili probabilmente alle ceneri dei morti. Misi la scatoletta in un cassetto sotto alcuni indumenti.


Piú tardi mi diedero il premio: una grossa medaglia d’argento con su scritto il mio nome. Alla festa che seguí mi ubriacai. Gli amici mi dicono che non feci una figura proprio pessima, ma io ho il ricordo umiliante di aver cominciato a raccontare una storia che poi non riuscii a finire, non perché me ne sfuggisse il contenuto ma perché era troppo difficile pronunciare le parole. Un tizio mi accompagnò a casa e dopo avergli offerto una tazza di tè lo misi fin troppo pudicamente alla porta; dopodiché mi avviai barcollando verso il letto. Dormo male quando alzo il gomito. Mi svegliai che era ancora buio e mi tornò subito in mente l’intuizione del ghiaccio all’esterno la mattina prima e le sue parole fredde e ammonitrici. Mi vidi costretta a dargli ragione. Anche se i nostri incontri erano perfetti, avevo la sensazione che incombesse una minaccia, che fra noi si andasse spalancando un abisso, che qualcuno lo dicesse a sua moglie, che l’amore si guastasse, che andasse tutto in malora. E dire che ancora non ci eravamo spinti fin dove avremmo dovuto. C’erano vette di gioia e del suo contrario ancora da scalare, ma il tempo era scaduto. Lui, ovvio, aveva detto: «Fisicamente mi attiri ancora tantissimo», e questo, a suo modo, l’avevo trovato umiliante. Fare ancora l’amore dopo che mi aveva scaricato sarebbe stato disgustoso. Era finita. Continuavo a pensare a una viola nel bosco che a tempo debito appassisce e muore. Il ghiaccio doveva esercitare un influsso sui miei pensieri, o meglio, sulle mie riflessioni. Mi alzai e indossai una vestaglia. La sbronza mi aveva lasciato un gran mal di testa ma ero determinata e sapevo che dovevo approfittarne per scrivergli. Conosco le mie debolezze e sapevo che entro la fine della giornata mi sarebbe venuta voglia di rivederlo, di stare con lui, di riconquistarlo con la dolcezza e con la mia impotenza disarmante.


Scrissi una lettera tralasciando la parte sulla viola. Sono cose che messe per iscritto ti fanno sembrare stravagante. Dissi che se non riteneva prudente vedermi, evitasse pure di farlo. Dissi che era stata una piacevole parentesi e che dovevamo conservare un bel ricordo. Era una lettera controllatissima. Lui rispose subito. La mia decisione arrivava come una doccia fredda, disse. Però doveva ammettere che avevo ragione. A metà lettera diceva di dover sfondare una breccia nella mia compostezza e ammettere che malgrado tutto mi amava e mi avrebbe sempre amato. Ecco la parolina che andavo cercando da mesi. Serví a darmi il la. Gli scrissi una lunga lettera in risposta. Persi la testa. Straparlai. Professai di amarlo, di aver trascorso quei giorni sull’orlo della follia, di sperare in un miracolo.


Fortuna che non mi addentrai nel merito del miracolo, che probabilmente è, o era, abbastanza disumano. Riguardava la sua famiglia.


Lui tornava dal funerale della moglie e dei figli con il frac nero. Aveva anche la sciarpa di seta bianca che gli avevo già visto e all’occhiello portava un tetro tulipano nero. Vedendolo venire verso di me gli strappavo il tulipano nero e lo sostituivo con un narciso bianco e lui mi metteva la sciarpa intorno al collo e mi attirava a sé reggendola per le frange. Io continuavo a muovere il collo dentro l’abbraccio della sciarpa. Poi ballavamo divinamente su un pavimento di legno che era bianco e scivoloso. Ogni tanto pensavo che saremmo caduti, ma lui diceva: «Non preoccuparti, ci sono qua io». Il pavimento era anche una strada che ci stava portando in un posto bellissimo.


Aspettai per settimane una risposta alla mia lettera, che non arrivò. Portai piú volte la mano al telefono ma una specie di prudenza, sensazione che mi era del tutto nuova, nei recessi della mente mi esortava ad aspettare. A dargli tempo. A lasciare che il pentimento s’impossessasse del suo cuore. A lasciarlo tornare di sua spontanea volontà. Poi mi prese il panico. Pensai che la lettera fosse andata persa o fosse finita nelle mani sbagliate. Naturalmente l’avevo spedita all’ufficio di Lincoln’s Inn dove lui lavorava. Ne scrissi un’altra. Stavolta era un biglietto formale al quale acclusi una cartolina con le parole SÍ e NO. Gli chiesi, se aveva ricevuto la mia lettera precedente, di essere cosí gentile da farmelo sapere cancellando la parola errata e di rispedirmela. Tornò con il NO cancellato. Nient’altro. Dunque l’aveva ricevuta. Rimasi a guardare quella cartolina per ore. Non riuscivo a smettere di tremare e per calmarmi scolai vari bicchieri. C’era un che di tremendamente brutale in quella cartolina, ma del resto va detto che affrontando la situazione in quel modo me l’ero cercata. Tirai fuori la scatola con dentro le sue ceneri e ci piansi sopra, combattuta fra il desiderio di buttarla dalla finestra e di conservarla per sempre.


Assunsi un atteggiamento in linea di massima molto strano. Telefonai a una che lo conosceva e di punto in bianco le chiesi a suo parere che hobby poteva avere lui. Mi rispose che suonava l’armonium, e la notizia mi risultò intollerabile. Poi entrai in una zona grigia e il terzo giorno persi il controllo.


A furia di non dormire e prendere stimolanti e whiskey mi ridussi a uno straccio. Tremavo dalla testa ai piedi e avevo l’affanno, neanche avessi assistito a un incidente. Guardai dalla finestra della camera da letto, che è al secondo piano, il cemento sottostante. Le uniche piante ancora in fiore erano le ortensie, e sbiadendo avevano preso un delicato color ruggine molto piú grazioso del rosa stridulo che avevano avuto per tutta l’estate. Le fucsie del giardino accanto avevano un cappello di ghiaccio. Guardai prima le ortensie e poi le fucsie cercando di valutare come sarebbe andata se mi fossi buttata di sotto. Mi chiesi se il dislivello fosse sufficiente. Immaginai che con la mia malagrazia sarei riuscita tutt’al piú a procurarmi qualche danno irreversibile, il che sarebbe stato peggio perché mi avrebbe inchiodato al letto imprigionandomi in quegli stessi pensieri che mi stavano portando alla disperazione. Aprii la finestra e mi sporsi, ma mi ritrassi subito. Mi era venuta un’idea migliore. Al pianterreno c’era un idraulico che stava installando il riscaldamento centralizzato, impresa in cui mi ero imbarcata da quando il mio amante aveva cominciato a venire regolarmente a casa mia e avevamo scoperto che ci piaceva girare nudi mangiando panini e ascoltando i dischi. Decisi di uccidermi con il gas e di ricorrere all’aiuto dell’idraulico per farlo come si deve. Sapevo – doveva avermelo detto qualcuno – che a un certo punto, nel pieno dell’operazione, ci si pente e si cerca di tornare indietro ma non si può. Una nota tragica in piú che preferivo risparmiarmi. Perciò decisi di andare di sotto e di spiegare all’idraulico che volevo davvero morire, che non glielo dicevo perché me lo impedisse o mi consolasse, che non cercavo pietà – in certi momenti la pietà non serve a niente – e che volevo soltanto la sua assistenza. Poteva mostrarmi come si faceva, sistemarmi e – questo sí che è assurdo – provvedere per qualche ora a rispondere al telefono e ad aprire la porta. E anche a sbarazzarsi del cadavere in modo dignitoso. Questo volevo, al di sopra di tutto. Decisi perfino come mi sarei vestita: un abito lungo che, guarda caso, aveva lo stesso colore delle ortensie nella fase ruggine e che avevo indossato giusto per qualche servizio fotografico o in televisione. Prima di scendere al piano di sotto scrissi un biglietto che diceva semplicemente: «Mi suicido per mancanza di intelligenza e perché non so né ho imparato a vivere».


Mi giudicherete spietata a non aver considerato l’esistenza dei miei figli. In realtà non è vero. Molto prima che cominciasse quella storia ero arrivata alla conclusione che il collegio li aveva separati irrevocabilmente da me. Se preferite, avevo la sensazione di averli abbandonati anni prima. Pensavo, ed era un’ammissione fuori da isterismi, che nella loro vita cambiava poco se io ero viva o no. Va detto che non li vedevo da un mese ed è sconvolgente come l’assenza, pur non attenuando l’amore, plachi il bisogno fisico di chi amiamo. Dovevano tornare per le vacanze di metà anno proprio quel giorno ma, siccome toccava al padre tenerli, sapevo che li avrei visti un solo pomeriggio per qualche ora. E in quello stato di prostrazione mi sembrava peggio che non vederli affatto.


Inutile dire che quando scesi di sotto l’idraulico mi diede un’occhiata e disse: – Qui ci vuole una bella tazza di tè –. L’aveva preparato per davvero. Accettai e rimasi lí a scaldarmi le mani da bambina intorno al cilindro della tazza marrone. Ricordai in un lampo il mio amante che a letto misurava le nostre mani dicendo che le mie non erano piú grandi di quelle di sua figlia. E poi ecco un altro ricordo meno edificante sulle mani. Era la volta che, quando ci incontrammo, lui era visibilmente sconvolto perché aveva schiacciato le mani di quella stessa figlia nello sportello della macchina. Le dita non si erano rotte ma erano tutte ammaccate e lui era dispiaciutissimo e si augurava che la figlia lo perdonasse. Sentendo quella storia mi ero subito affrettata a dirgli che io una volta nello sportello di una Jaguar ci avevo quasi lasciato le dita. Osservazione inutile, anche se un ascoltatore ne avrebbe dedotto che ero una ragazzina vanitosa e senza cuore. Mi sarebbe dispiaciuto per qualunque bambina si fosse schiacciata le dita nella portiera di una macchina, ma in quel momento era un tentativo di richiamarlo a un mondo segreto tutto nostro. Forse è una delle cose che mi ha sminuito ai suoi occhi. Forse è stato allora che ha deciso di troncare i rapporti. Stavo per raccontarlo all’idraulico, per metterlo in guardia dal cosiddetto amore che spesso indurisce il cuore ma che, al pari delle viole, può fare una brutta fine sprofondando due persone in uno sconcerto mortale. Il tè era zuccherato e lo trovai stomachevole.


– Mi serve il suo aiuto, – dissi.


– Basta chiedere, – disse lui. Era prevedibile. Eravamo amici. Avrebbe fatto un impianto raffinatissimo. Quell’impianto sarebbero stato una piccola opera d’arte e il colore dei termosifoni si sarebbe armonizzato con quello delle pareti.


– Lei pensa che li dipingerò di bianco, invece sarà un avorio chiaro, – disse. Il bianco sulle pareti della cucina era un po’ ingiallito.


– Mi voglio ammazzare, – dissi.


– Dio santo, – disse, e scoppiò a ridere. L’aveva sempre saputo che ero un tipo melodrammatico. Poi mi guardò in faccia e capí come stavano le cose. Tanto per cominciare non controllavo il respiro. Mi prese sottobraccio e mi portò in soggiorno, dove ci facemmo un goccetto. Sapevo che non era tipo da disdegnare un goccetto e pensai: «Non tutti i mali vengono per nuocere». La cosa esasperante era che continuavo ad avere i pensieri di una persona viva. Disse che i motivi per vivere non mi mancavano. – Una ragazza giovane come lei, con la gente che le chiede l’autografo, una bella macchina nuova, – disse.


– È tutto… – annaspai in cerca della parola. Volevo dire «inutile», invece venne fuori «crudele».


– E i suoi figli, – disse. – Che ne sarà dei suoi figli? – Li aveva visti in fotografia, e una volta gli avevo letto la lettera di uno di loro. La parola «crudele» mi infuriava nella testa. Urlava da ogni angolo della stanza. Per evitare lo sguardo dell’idraulico abbassai gli occhi sulla manica del mio maglioncino di angora e mi diedi a staccare metodicamente i pezzetti di peluria arrotolandoli in una pallina.


Ci fu un attimo di silenzio.


– Questa è una via sfortunata. Lei è la terza, – disse.


– La terza di che cosa? – dissi, ammonticchiando industriosamente la peluria nera nel palmo.


– Una donna giú in fondo alla strada; il marito dirigeva una banda musicale e rientrava sempre tardi. Una sera è andata alla sala da ballo e l’ha visto con un’altra; è tornata a casa e l’ha fatto senza starci tanto a pensare.


– Col gas? – chiesi, sinceramente curiosa.


– No, coi sedativi, – disse, e passò a raccontare la storia di una ragazza che si era uccisa col gas ed era stato lui a trovarla perché era in casa a curare la carie del legno. – Nuda, aveva giusto un maglioncino, – disse, chiedendosi come mai fosse conciata cosí. Cambiò decisamente atteggiamento mentre ricordava che entrando in casa aveva sentito puzza di gas e aveva cercato di capire da dove venisse.


Lo guardai in faccia. Era serissimo. Aveva le palpebre pesanti. Non l’avevo mai visto cosí da vicino. – Povero Michael, – dissi. Un po’ fiacche come scuse. Stavo pensando che, se si fosse reso complice del mio suicidio, il ricordo l’avrebbe perseguitato per sempre.


– Una bella ragazza, – disse in tono mesto.


– Poveretta, – dissi, facendo appello alla pietà.


Sembrava che non ci fosse altro da aggiungere. Era riuscito a farmi vergognare. Mi alzai sforzandomi di essere normale: presi un po’ di bicchieri dal tavolino e mi diressi in cucina. Se i bicchieri sporchi sono prova di quanto si è bevuto, allora dovevo aver bevuto parecchio negli ultimi giorni.


– Bene, – disse lui, e si alzò con un sospiro. Ammise di essere soddisfatto del suo operato.


Il caso volle che quel giorno ci fosse un’altra crisi. I miei figli sarebbero dovuti tornare dal padre, ma lui telefonò per dirmi che il piú grande aveva la febbre e siccome – ma questo non lo disse – non era capace di prendersi cura di un bambino malato, si vedeva costretto a portarli da me. Arrivarono nel pomeriggio. Li aspettavo sulla soglia, il viso truccatissimo per mascherare l’angoscia. Il bambino malato aveva una coperta avvolta sul cappotto di tweed e una sciarpa del padre intorno al viso. Appena lo abbracciai si mise a piangere. Il piú piccolo girò per casa assicurandosi che tutto fosse rimasto come l’aveva lasciato. Di solito quando venivano da me li accoglievo con dei regali mentre stavolta non ci avevo pensato e loro ci rimasero un po’ male.


– Domani, – dissi.


– Perché hai le lacrime agli occhi? – chiese quello malato mentre lo svestivo.


– Perché stai male, – dissi, raccontando una mezza verità.


– Oh, mammina, – disse lui. Erano anni che non mi chiamava cosí. Mi abbracciò e ci mettemmo tutti e due a piangere. Capii che piangeva per i tanti tormenti che una famiglia divisa gli aveva fatto cadere tra capo e collo. Era strano e insoddisfacente stringerlo fra le braccia dopo che per mesi mi ero abituata alle dimensioni del mio amante, alla circonferenza delle sue spalle, all’esatta altezza del suo corpo che mi obbligava a stare sulle punte per far coincidere le nostre membra alla perfezione. Abbracciare mio figlio mi dava soltanto la consapevolezza di quanto fosse piccolo e della tenacia con cui si aggrappava.


Io e il piú piccolo ci installammo in camera da letto a fare un gioco in cui bisognava leggere domande come: «È un fiume?», «È un calciatore famoso?», poi girare una ruota finché non si fermava su una lettera e usare quella lettera come iniziale del fiume, del calciatore famoso e via dicendo, oggetto della domanda. Io ero piuttosto lenta, e anche l’ammalato. Il fratello vinse senza difficoltà, anche se gli avevo chiesto di lasciar vincere l’invalido. I bambini sono spietati.


Quando si accese il riscaldamento sobbalzammo tutti perché la caldaia, che era nel seminterrato proprio sotto di noi, fece un ribollio del diavolo con lo stesso slancio che avrei voluto avere io quella mattina quando mi ero piantata davanti alla finestra della camera da letto per provare a buttarmi di sotto. Per farmi una sorpresa e tirarmi su il morale, l’idraulico aveva chiesto rinforzi a due colleghi e fra tutti e tre avevano finito il lavoro. Cosí stavamo al caldo ed eravamo contenti, come disse quando venne in camera a riferirmelo. C’era un clima di imbarazzo. Dopo la sceneggiata di quella mattina avevo evitato di incontrarlo. All’ora del tè gli avevo perfino lasciato un vassoio con la tazza sul pianerottolo. Avrebbe raccontato in giro che gli avevo chiesto di essere il mio assassino? L’avrebbe interpretato in questi termini? Offrii da bere a lui e agli amici, che rimasero lí impacciati nella stanza dei bambini a guardare la faccia paonazza dell’ammalato dicendo che sarebbe guarito presto. Che altro potevano dire!


Io e i bambini passammo il resto della serata a fare il gioco delle domande non si sa quante volte e prima di metterli a letto lessi un racconto d’avventure. La mattina dopo avevano tutti e due la febbre. Trascorsi un paio di settimane a curarli. Preparavo litri di consommé, ci spezzavo dentro il pane e li convincevo a ingoiare quella gustosa zuppetta. Volevano essere continuamente distratti. Quando attingevo alla realtà dei fatti mi venivano in mente soltanto stralci di folclore naturalistico spigolati da un collega alla mensa televisiva. Ma, per quanto li infiorettassi, bastavano un paio di minuti per raccontarli ai miei figli: una tempesta di farfalle in Venezuela, certi animali chiamati bradipi talmente pigri che restavano appesi agli alberi fino a ricoprirsi di muschio, e i passerotti inglesi che cinguettavano in modo diverso da quelli parigini.


– Ancora, – dicevano loro. – Ancora, ancora –. Dopodiché dovevamo rifare quello stupido gioco o imbarcarci in un altro racconto d’avventure.


In quei momenti non permettevo alla mente di vagare, ma la sera, quando veniva il padre, mi ritiravo in soggiorno a bere qualcosa. Allora era un disastro. L’ozio mi portava a rimuginare; e poi la luce fioca delle mie lampade crea una penombra che stimola i ricordi. Venivo trasportata nel passato. Mi raffiguravo vari tipi di ricongiungimento con il mio amante, ma il mio preferito era un incontro inatteso in uno di quei sottopassaggi pedonali disumani e piastrellati dove ci correvamo incontro ritrovandoci davanti a una scala con la scritta (a Londra esiste davvero): SOLTANTO PER L’ISOLA CENTRALE, e ridevamo scavalcando quella scala d’un balzo, sospinti da ali miracolose. Nelle fasi meno compiaciute rimpiangevo di non aver visto con lui piú tramonti o pubblicità di sigarette o che so io, perché nel ricordo i nostri tanti incontri si risolvevano in un lungo e ininterrotto amplesso non inframmezzato da una normalità che facesse brillare le punte massime. I giorni, le notti con lui, sembravano compressi in una lunga, bellissima ma unica notte, anziché essere distribuiti nei diciassette incontri della realtà. Quelle punte massime, ahimè, non c’erano piú. Una volta ero cosí convinta che fosse entrato nella stanza da staccare uno spicchio dall’arancia che avevo appena sbucciato per offrirglielo.


Ma dall’altra stanza arrivava la voce sommessa e sicura del padre dei bambini che enunciava informazioni con la presunzione di chi enuncia dogmi, e rabbrividivo all’idea di tutto il veleno che c’era fra noi, anche se un tempo professavamo di amarci. Amore malato. Poi alcuni dei sentimenti che provavo per mio marito si trasferirono al mio amante e mi dissi che la lettera in cui lui aveva professato di amarmi era una farsa, che l’aveva scritta solo quand’era ormai convinto di essersi liberato di me ma poi, ritrovandosi di nuovo invischiato, si era tirato indietro e mi aveva mandato la cartolina. Ero diventata un’estranea ai miei stessi occhi. Traboccavo di odio. Gli augurai le peggiori umiliazioni. Escogitai perfino di partecipare a una cena dov’ero sicura che fosse invitato anche lui e di snobbarlo dall’inizio alla fine. I miei pensieri oscillavano tra l’odio e la speranza di una risoluzione finale che mettesse bene in chiaro quello che provava per me. Perfino una pubblicità vista di sfuggita sull’autobus mi rimandò immediatamente a lui. Diceva: NIENTE PANICO, CI SIAMO QUA NOI: RIPARIAMO, ADATTIAMO, RIMODELLIAMO. Era la pubblicità di qualcuno che infilava perle. Gliel’avrei fatto vedere io come si riparava.


Non saprei dire quando è cominciata, perché sarebbe troppo categorico, e in ogni caso non lo so. Ma i bambini erano tornati a scuola, Natale era passato e io e lui non ci eravamo scambiati nemmeno un biglietto d’auguri. Però avevo iniziato a pensare a lui con meno astio. In realtà erano pensieri un po’ stupidi. Speravo che gli fossero riservati piccoli piaceri come una cena al ristorante, un paio di calze pulite, il vino rosso alla temperatura che piaceva a lui e perfino… ma sí, perfino l’estasi a letto con la moglie. Pensieri che dentro di me mi facevano sorridere, un tipo di sorriso che avevo scoperto da poco. Rabbrividivo pensando al pericolo che aveva corso frequentandomi. Certo, i pensieri feriti di prima combattevano con quelli nuovi. Era come attraversare un corridoio dove infuriano gli spifferi con una candela che rischia a ogni momento di spegnersi. Pensavo contemporaneamente a lui e ai miei figli, e le piccole fisime degli uni diventavano quelle dell’altro: i miei figli che mi raccontavano complicate bugie sulle loro imprese sportive, lui che salendo le scale si sforzava di nascondere il fiatone. La differenza d’età fra noi doveva essergli pesata. È stato allora, credo, che mi sono innamorata veramente di lui. Il suo corteggiamento, i telegrammi, la dipartita, perfino il sesso non erano niente in confronto a quella nuova sensazione. Montava come linfa dentro di me, spesso piangevo perché lui non poteva beneficiarne! La tentazione di telefonargli si era spenta.


La sua telefonata fu un fulmine a ciel sereno. Di solito lasciavo squillare il telefono senza rispondere, e fui tentata di farlo anche quella volta. Chiese se potevamo vederci, se, e lo disse con estrema dolcezza, avevo i nervi abbastanza saldi. Dissi che i miei nervi non erano mai stati meglio. Era una libertà che dovevo concedermi. Prendemmo un tè al bar. Brindammo. Come all’inizio. Mi chiese come stavo. Disse che avevo un bel colorito. Nessuno dei due accennò all’episodio della cartolina. Né gli chiesi quale impulso l’avesse spinto a telefonarmi. Forse non era stato un impulso. Parlò del suo lavoro e di quanto l’avesse impegnato, poi mi raccontò di aver accompagnato una vecchia zia a sbrigare una commissione in macchina guidando cosí piano che lei gli aveva chiesto il favore di sbrigarsi perché a piedi ci avrebbe messo di meno.


– Sei guarita, – disse, cosí, all’improvviso. Lo guardai dritto in faccia. Capii le sue intenzioni.


– È passata, – dissi, e affondai il dito nella zuccheriera per fargli leccare i cristalli bianchi dalla punta. Poverino. Non potevo dirgli di piú, non avrebbe capito. In un certo senso mi sembrava di stare con un altro. Non era quello che aveva ripiegato il copriletto, mi aveva succhiato fino all’osso e mi aveva lasciato le ceneri di sigaro da conservare. Era la sua controfigura.


– Vediamoci ogni tanto, – disse.


– Come no –. Dovevo avere un’aria poco convinta.


– Magari non ti va.


– Tutte le volte che vuoi –. L’idea non mi entusiasmava né mi spaventava. I miei sentimenti non sarebbero cambiati di una virgola. Mi resi conto per la prima volta che per tutta la vita avevo temuto di restare prigioniera: nella cella di un convento, in un letto d’ospedale, in luoghi dove ti confronti con te stesso senza distrazioni, senza gli altri a fare da stampella; ma mentre stavo lí seduta a imboccarlo con lo zucchero, pensai: «Adesso sí che sono entrata in una cella, e quest’uomo non può sapere che cosa significhi per me amarlo come lo amo, e io non posso scaricargli addosso questo peso, perché lui è in un’altra cella alle prese con altre difficoltà».


La cella mi fece pensare a un convento e, tanto per dire qualcosa, accennai a mia sorella, che era suora.


– Sono andata a trovare mia sorella.


– Come sta? – chiese. Mi domandava spesso di lei. Lo incuriosiva, mi chiedeva com’era fisicamente. Mi ero fatta perfino l’idea che fantasticasse di sedurla.


– Bene, – dissi. – Mentre percorrevamo un corridoio mi ha chiesto di dare un’occhiata in giro per assicurarmi che non ci fossero altre suore in circolazione, poi si è tirata su le gonne e ha sceso la rampa di scale scivolando col sedere sul corrimano.


– Che simpatica, – disse. Quella storia gli piacque. Traeva un enorme piacere dalle piccole cose.


Fu bello prendere quel tè. Fu uno dei pomeriggi meno infruttuosi che passavo da mesi, e all’uscita lui mi afferrò per il braccio e disse che sarebbe stato perfetto poter evadere qualche giorno. Forse lo pensava davvero.


In effetti abbiamo mantenuto la promessa. Ogni tanto ci vediamo. Diciamo che le cose sono tornate alla normalità. Per normalità intendo una condizione che mi permette di notare la luna, gli alberi, lo sputo fresco sul marciapiede; guardo gli estranei e riconosco nella loro espressione una traccia del mio disagio; faccio parte della quotidianità, ecco. In camera mia c’è una lampada che emette un crepitio secco ogni volta che passa un treno elettrico, e la notte conto i crepitii perché è allora che viene lui. Quello vero, dico, non l’uomo che ogni tanto mi siede davanti al tavolino di un bar, ma l’uomo che ha preso dimora dentro di me. Si leva davanti ai miei occhi: le mani oranti, la lingua a cui piaceva succhiare, gli occhi mascalzoni, il sorriso, le vene sulle guance, la voce pacata che mi parla con giudizio. Vi chiederete come mai mi tormento cosí con i particolari della sua presenza, ma ne ho bisogno, non posso lasciarlo andare adesso perché, se lo facessi, tutta la nostra felicità e il dolore che ha provocato in me – per lui non posso garantire – non sarebbero serviti a niente, e aggrapparsi al niente è spaventoso.