Mia mamma diceva, quando il chiasso vociante era al massimo in casa: "ma basta insoma" in dialetto mantovano.
venerdì 21 marzo 2014
giovedì 20 marzo 2014
SENZA ETA'
E poi in questo periodo mi sento "senza eta' ho cercato un romanzo che avevo letto tempo fa....“La signora avrà avuto sessanta, sessantacinque anni. La guardavo, steso su una sdraio di fronte alla piscina di un circolo sportivo all'ultimo piano di un moderno edificio da dove, attraverso grandi finestre, si vede tutta Parigi. [...] Era sola nella piscina, immersa nell'acqua fino alla vita, lo sguardo rivolto in su verso il giovane maestro di nuoto in tuta che le stava insegnando a nuotare. Ora lei ascoltava le sue istruzioni: doveva aggrapparsi con le mani al bordo della piscina e inspirare ed espirare profondamente.[...] La guardavo affascinato. Ero attratto dalla sua comicità commovente (anche il maestro l'aveva notata, perché ad ogni istante gli si contraeva un angolo della bocca)[...] “Poco dopo, quando volevo tornare a guardarla, l'allenamento era finito. La donna si allontanava in costume da bagno facendo il giro della piscina. Superò il maestro di nuoto e quando si trovò a quattro o cinque passi di distanza, girò la testa verso di lui, sorrise e lo salutò con la mano. E in quel momento mi si strinse il cuore! Quel sorriso e quel gesto appartenevano a una donna di vent'anni! La sua mano si era sollevata con una leggerezza incantevole. Era come se avesse lanciato in aria una palla colorata per giocare con il suo amante. Quel sorriso e quel gesto avevano fascino ed eleganza, mentre il volto e il corpo di fascino non ne avevano più. Era il fascino di un gesto annegato nel non fascino del corpo. Ma la donna, anche se doveva sapere di non essere più bella, in quel momento l'aveva dimenticato. Con una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori dal tempo. Forse è solo in momenti eccezionali che ci rendiamo conto dei nostri anni, mentre per la maggior parte del tempo siamo dei senza-età. Milan Kundera. “L'Immortalità.”
venerdì 14 marzo 2014
Entgotterung: il mondo "sdivinizzato"
A proposito del "mi piace" universale verso Papa Francesco. Vogliono un Papa che non sia un Papa e che vada incontro ai loro "desideri" senza Dio e senza chiesa.Heidegger: [..] il fondamento del mondo è posto come infinito, incondizionato, assoluto; e dall’altra parte, il cristianesimo trasforma il suo ideale di vita in una visione del mondo (la visione cristiana del mondo), così accomodandosi ai tempi nuovi [..]
Oggi, scrive Heidegger, assistiamo a un fenomeno senza precedenti: la “sdivinizzazione” degli dèi (Entgotterung), che non è il semplice metter da parte gli dèi, il semplice ateismo nel suo aspetto più grossolano. «La sdivinizzazione degli dèi è un duplice processo, per il quale, da una parte, l’immagine del mondo si cristianizza, nella misura in cui il fondamento del mondo è posto come infinito, incondizionato, assoluto; e dall’altra parte, il cristianesimo trasforma il suo ideale di vita in una visione del mondo (la visione cristiana del mondo), così accomodandosi ai tempi nuovi » (1) . «La teologia tende verso un orientamento più originario, delineato in base al senso della fede stessa ed all’inter- no della sua costante interpretazione dell’essere dell’uomo in rap- porto a Dio. Essa, a poco a poco, incomincia nuovamente a com- prendere l’intuizione di Lutero che la sua sistematica dogmatica riposa su un “fondamento” che non deriva da una ricerca guidata originariamente dalla fede e la cui struttura concettuale non solo non è sufficiente alla problematica teologica, ma la copre e la mi- stifica» (2) . «Le cose che stanno ai bordi del sentiero, in ampiezza e pienezza, danno il mondo. Come dice il vecchio maestro Eckhart – da lui noi impariamo a leggere e a vivere –, è solo in ciò che il loro linguaggio non dice, che Dio è veramente Dio»(3).
1. Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege; tr. franc., Chemins qui ne mènent nulle part, Paris 1962, p. 70
2. Sein und Zeit; tr. it., Essere e Tempo, Milano 1953 p. 21.
3. Ueber den Humanismus – tr. franc. in Questions III, Paris 1966 , p. 12.
martedì 11 marzo 2014
LA STORIA PER LA CONOSCENZA DI NOI STESSI
La storia non è racconto di eventi o un diario di cio' che si e' modificato nel tempo, perché lo storico deve interessarsi degli eventi in quanto espressione di pensieri. La storia è una scienza che conosce gli eventi interpretando documenti per raggiungere una maggior conoscenza di sé: la storia ci insegna, attraverso quello che l’uomo ha fatto, quello che l’uomo è. Collingwood ci dice che il legame tra lo storico e gli uomini del passato non è memoria o dalla temporalità, ma comune partecipazione ad un unico «spirito» che è in quanto si autorealizza nella storia: "[..]Il processo storico è un processo in cui l’uomo crea per sé questo o quel genere di natura umana col ricreare nel proprio pensiero il passato del quale è erede [...]. Il processo storico è esso stesso un processo di pensiero [...]. Col pensare storico, lo spirito la cui autoconoscenza è storia, non solo scopre in sé quelle forze di cui il pensiero storico rivela il possesso, ma effettivamente sviluppa quelle forze da uno stato latente ad uno effettivo, le porta a reale esistenza [...]. R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History, Oxford: Clarendon Press, 1946,cap.V, 1,3.
Anche se sono d'accordo con Momigliano quando lo critica per l'insistenza di Collingwood " [..] sul principio che si trova solo quel che si cerca, e perciò ogni scavo deve partire dalla chiara formulazione del problema che si vuole risolvere con lo scavo stesso. Questo principio "[...] portò spesso il Collingwood a trovare nei suoi scavi esattamente quello che desiderava di trovare, cioè a cadere in grossolani errori. Di fatto così si trascura l’ovvia verità che si scava nel passato, o con la penna del filologo o con la zappa dell’archeologo, non solo per risolvere problemi già formulati, ma per aprire le porte all’infinito della realtà,[...] A. MOMIGLIANO, La storia antica in Inghilterra, cit., pp. 764-5).
domenica 9 marzo 2014
NOI CONOSCIAMO LA VERITA' NON SOLTANTO CON LA RAGIONE
144. Noi conosciamo la Verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest'ultimo modo conosciamo i princípi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d'impugnare la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell'incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l'incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi princípi - come l'esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri -, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell'istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l'uno dei quali sia doppio dell'altro. I princípi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi princípi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle.
Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d'istruirci. Piacesse a Dio, che, all'opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento.
Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l'hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza.
146. Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l'Essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s'indurisce contro l'uno o contro l'altro per propria elezione. Voi avete respinto l'uno e conservato l'altro: amate forse voi stessi per ragione?
(B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 58-59)
giovedì 6 marzo 2014
The time disease
“Twenty-twenty, and the time disease is epidemic. In my credit group, anyway. And yours too, friend, unless I miss my guess. Nobody thinks about anything else anymore. Nobody even pretends to think about anything else anymore. Oh yeah, except the sky, of course. The poor sky. . . . It's a thing. It's a situation. We all think about time, catching time, coming down with time. I'm still okay, I think, for the time being.” Amis, Martin. “Einstein's Monsters.” Random House,
domenica 2 marzo 2014
Fëdor Dostoevskij, “Il sogno di un uomo ridicolo."
[…] Sono sempre stato ridicolo, e lo so, forse, fin da quando sono nato. Forse sapevo di essere ridicolo già fin da quando avevo sette anni. Poi ho studiato, prima a scuola, poi all'università, e quanto più studiavo, tanto più imparavo che ero ridicolo. Così che per me tutta la mia scienza universitaria, in fin dei conti, pareva esistere soltanto per dimostrarmi e spiegarmi, mano a mano che mi addentravo in essa, che ero ridicolo. Come nella scienza, così mi accadeva nella vita. Anno dopo anno cresceva e si rafforzava in me quella medesima consapevolezza del mio essere ridicolo sotto tutti gli aspetti. Di me ridevano tutti e sempre. Ma nessuno di loro sapeva né sospettava che se c'era al mondo una persona che meglio di tutti gli altri era consapevole di essere ridicola, quella ero io, e proprio questa era la cosa che mi faceva più rabbia, il fatto che essi non lo sapessero, benché di ciò fossi io il colpevole, infatti io sono sempre stato così orgoglioso che mai e per nulla al mondo ho voluto confessarlo a nessuno. Questo orgoglio è cresciuto in me con gli anni e se fosse avvenuto che davanti a chicchessia mi fossi “lasciato andare a riconoscere che ero ridicolo, quella sera stessa, sui due piedi, mi sarei fracassato il cranio con una rivoltella. Oh, come mi faceva soffrire durante la mia adolescenza il pensiero che a un tratto non mi sarei trattenuto e avrei confessato questa cosa ai compagni! Ma da quando sono entrato nella giovinezza, benché ogni anno di più mi convincessi della mia orribile qualità, tuttavia, chissà perché, mi sono fatto più tranquillo. Proprio «chissà perché», perché fino a oggi non sono ancora riuscito a scoprire il perché. […]
CRISI ECONOMICA: SUPERARE IL PIAGNISTEO (1)
E' ora di smetterla con la lagna sulla crisi che è partita nel 2007 e , per l'Italia, non accenna ad essere superata, dando la colpa al fallimento dei mercati, al eccesso di potere della finanza globalizzata, responsabili della stagnazione e della crescita delle disuguaglianze.
I mercati finanziari hanno sicuramente agito come fattore determinante della crisi, soprattutto per la interdipendenza delle economie di tutto il mondo. Tuttavia non si sottolinea abbastanza la responsabilita' dei paesi ( soprattutto i quattro Pigs mediterranei e l'Irlanda) nell'aver approfittato della finanza per drogare la crescita basata sul debito. Questo vale soprattutto per la crescita drogata del settore immobiliare, in Irlanda e Spagna, e per quella di Grecia, Portogallo e Italia che hanno approfittato dei tassi di interesse "tedeschi" per finanziare il debito pubblico attraverso i titoli di stato. Ma allora dovremmo criticare i mercati finanziari non tanto per aver bloccato la crescita , ma quanto di aver dato fiducia esagerata alla crescita basata sul debito, che non poteva portare che alla successiva crisi.
Negli ultimi decenni, con la internazionalizzazione dei mercati, non sono cambiate solo le economie, ma anche la cultura, la mentalità, i costumi. Nei paesi dell'occidente sviluppato il benessere di base delle famiglie, dato non solo dai redditi ma anche dai patrimoni accumulati attraverso le passate generazioni, crea un atteggiamento diverso verso lo studio, il lavoro e il guadagno. La riduzione del tempo di lavoro e' una tendenza incontrovertibile. Parliamo non solo di orario di lavoro, ma soprattutto di tempo nell'arco della vita. Occorre considerare che una quota sempre piu' alta di giovani iniziano a lavorare dopo i 30 anni, e che i sistemi pensionistici consentivano, fino a pochi anni fa, un ritiro dal lavoro intorno ai 60 anni, a fronte di una speranza di vita cresciuta enormemente nell'ultimo secolo. Occorre allora vedere cosa significa come impatto sulla crescita, e sullo stato sociale, questa modifica strutturale del tempo di lavoro, come aumento degli anni di "non lavoro", dovuto allo studio al pensionamento combinato con tempo di vita piu' lungo.
Un altro fattore da considerare nella crisi riguarda la nuova divisione internazionale del lavoro, e la conseguente perdita di posti di lavoro nei paesi avanzati. Si produce sempre meno all'interno dei paesi ad alto benessere e si consuma sempre di piu'. Le societa' mature tendono ad avere una continua crescita dei consumi a fronte di un calo progressivo della produzione. La produzione di merci assieme alla occupazione corrispondente si sposta verso i paesi emergenti. I beni acquistati nelle economie avanzate sono principalmente importati, traendo vantaggio del costo piu' basso derivante dallo spostamento della produzione. Inoltre molti dei servizi, sopratutto del tempo libero, che fino a ieri si pagavano, e quindi avevano dietro di sé posti di lavoro retribuiti e produttori in carne e ossa, oggi circolano gratuitamente sulla rete e quindi hanno perso ogni capacità di sostenere l'occupazione e i redditi. Il consumo anche in questo caso non crea posti di lavoro.
Sulla disoccupazione giovanile non esiste solo il problema della scarsita' di lavoro, problema sicuramente importante. Parliamo innanzitutto che, molto piu' rispetto al passato esiste la possibilita'/liberta' di studiare, che spesso diventa una combinazione di poco impegno con tanto tempo libero dedicato a divertimento e relazioni. Si afferma anche una tendenza a prolungare il periodo degli studi, con un ritardo, anche oltre i trent'anni, di ingresso nel mercato del lavoro. Non cosi' in Cina, India, Singapore, ecc. Dove lo studio e' duro, per affermarsi nel lavoro e nella vita, e di vuol arrivare il prima possibile a iniziare a lavorare. Inoltre il tempo di attesa si prolunga se si vuole un lavoro che sia all'altezza delle aspirazioni, o delle competenze che ritengono di avere ottenuto con lo studio, quando si possa sfruttare il patrimonio delle famiglie e la disponibilità dei genitori ad accompagnarne l'ingresso nel mercato del lavoro. Dovremmo allora considerare quanta parte della disoccupazione giovanile si possa definire "volontaria", perché risulta dalla decisione di non cercare o non accettare offerte di lavoro, non all'altezza delle aspirazioni. I lavori manuali sono spesso rifiutati e possono trovare spesso solo gli immigrati ad accettarli, spesso pagati in nero. Si sviluppa cosi' un proletariato di non garantiti, a salari piu' bassi, per attivita' comunque essenziali per il funzionamento della nostra societa': nell' edilizia, nel commercio, nel manifatturiero, nel turismo, nell'agricultura. Lavori di manovali, camerieri, operai, lavapiatti, elettricisti, imbianchini, ecc. vanno agli immigrati, che non hanno la cittadinanza, e oltre ad essere sottopagati, non hanno alcuna protezione dallo stato sociale. Questi lavori alla maggior parte dei giovani non interessano. Questo e' possibile finche' questi "disoccupati volontari" possono essere stare a carico delle famiglie.
PER CRESCERE SERVE LA PRODUTTIVITA' TOTALE DEI FATTORI
Rilanciare la crescita non vuol dire solo migliorare la produttività del lavoro o aumentare la quantità di capitale investito. E' necessario agire su quello che in Economia si chiama "Produttività Totale dei Fattori" (TPF), cioè alla somma dei rendimenti di: burocrazia, sistema scolastico, funzionamento dei tribunali, tutela dei diritti di proprietà, tasso di concorrenza, innovazione tecnologica, stabilità di norme e politiche. La sfida e' far lievitare la produttività non riducendo i salari (anzi, facendoli aumentare), ma accrescendo efficienza ed efficacia totale del sistema istituzionale ed economico.
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