sabato 10 febbraio 2024



I GRANDI CIMITERI SOTTO LA LUNA
Georges Bernanos

[...]è vero che l’ira degli imbecilli riempie il mondo. Potete ridere, se volete: nulla e nessuno sarà risparmiato da quest’ira, che non è capace d’indulgenza. I teorici di destra o sinistra - è il loro mestiere - continueranno a classificare gli imbecilli, enumerandone la specie e i generi e delimitando ogni gruppo secondo gli interessi e le passioni degli individui che lo compongono, secondo la loro particolare ideologia. Per gente siffatta, questo non è che un gioco. Ma tali classificazioni rispondono così poco alla realtà che l’uso ne riduce implacabilmente il numero. è chiaro che la moltiplicazione dei partiti a tutta prima lusinga la vanità degli imbecilli. Dona loro l’illusione di scegliere.[...]

Nel 1936, con la sedizione della destra capeggiata dal generale Franco contro il legittimo governo del Fronte Popolare, scoppia la guerra civile spagnola. è una lotta spietata, piena di fanatismo. Per la Germania hitleriana è anche una prova generale della Seconda guerra mondiale con i suoi massacri di popolazioni inermi. I morti saranno infatti oltre seicentomila. I grandi cimiteri sotto la luna, sono un’aspra requisitoria contro il franchismo che è anche uno degli atti d’accusa più forti del nostro secolo contro l’imbecillità che rende l’uomo moderno disponibile, in certe situazioni, per ogni sorta di violenza .È una lezione che conserva ancora la sua validità per l'Europa testimone degli  spaventosi  massacri che continuano ad avvenire in molte parti del mondo.

I GRANDI CIMITERI SOTTO LA LUNA
Prefazione.
Se provassi piacere verso l’opera che oggi intraprendo, probabilmente mi mancherebbe il coraggio di continuarla, perché non avrei nessuna fede in essa. Io credo solo a ciò che mi dà pena. Quel poco che ho fatto in questo mondo m’è sempre apparso in principio inutile, inutile sino al ridicolo, inutile sino al disgusto. Il demone del mio cuore si chiama: -a che pro? . Un tempo ho creduto al disprezzo. è un sentimento assai scolastico che si converte presto in eloquenza, come il sangue d’un idropico si converte in acqua. La precoce lettura di Barrès m’aveva dato a questo proposito qualche illusione.
Sfortunatamente il disprezzo di Barrès - o per lo meno il suo organo secretorio - pareva soffrire di continua ritenzione. Per giungere all’amarezza, adoperando il disprezzo, occorre scendere molto in giù con la sonda. Così il lettore, senza saperlo, partecipa più al dolore della minzione che al sentimento stesso del disprezzo. Sia pace al Barrès di Leurs figures! Quel Barrès che noi amiamo se n’è andato a morire con lo sguardo di un fanciullo fiero e il melenso, rigido sorriso di una povera e nobile ragazza che non troverà mai marito.
Perché il nome di Barrès, sulle soglie di questo libro? Perché quello del gentile Toulet nella prima pagina di Sotto il sole di Satana? è che in questo momento, come in quell’altra sera di settembre -piena di una luce immobile , esito a fare il primo passo verso di voi, volti velati! Fatto il primo passo, so che non mi fermerò più, che andrò, sia quel che sia, in fondo al mio compito, per giorni e giorni, simili tanto tra loro da non contarli più, come fossero tagliati dalla mia vita. E lo sono, infatti.
No, io non sono uno scrittore. La sola vista di un foglio di carta bianca mi disanima. Lo speciale raccoglimento fisico imposto da un tal lavoro m’è così odioso che l’evito sinché posso. Scrivo nei caffè, col rischio di passare per un ubriacone, e difatti lo sarei forse diventato se le potenti repubbliche non colpissero col dazio, crudelmente, gli alcool consolatori. In mancanza d’essi, trangugio da tempo immemorabile i cafés-crème dolciastri, con una mosca sempre appiccicata dentro. Scrivo sopra i tavoli di caffè, perché non saprei per molto fare a meno del viso e della voce umana, che sono entrati nei miei discorsi, penso, sempre nobilmente. Liberi i curiosi di affermare, a loro modo, che -io osservo . Io non osservo proprio niente. L’osservazione non conduce a niente di speciale.
Scrivo nelle sale dei caffè, come un tempo scrivevo nelle vetture ferroviarie per non cader vittima di immaginarie creazioni, e per riacquistare con uno sguardo gettato sullo sconosciuto che passa, la giusta misura della gioia o del dolore. No, io non sono uno scrittore. Se lo fossi, non avrei atteso la quarantina per pubblicare il mio primo libro; perché mi concederete forse che a vent’anni avrei potuto scrivere anch’io, come chiunque, i romanzi di Pierre Frondaie. D’altra parte, non respingo questo titolo di scrittore per una specie di snobismo a rovescio.
Onoro un mestiere, al quale, dopo che a Dio, mia moglie e i miei figli devono di non morir di fame. Con questo, sopporto anche il ridicolo di aver finora solo imbrattato d’inchiostro il volto dell’ingiustizia: l’incessante ingiuria della quale è il sale della mia vita. Ogni vocazione è un richiamo - vocatus - e ogni richiamo vuol essere trasmesso. Quelli che io chiamo a raccolta non sono certo numerosi.
Non cambieranno nulla alle faccende del mondo. Ma è per loro, è per loro che sono nato.
Compagni sconosciuti, vecchi fratelli, arriveremo insieme, un giorno, alle porte del regno di Dio.
Turba ingannata, turba sfinita, imbiancata dalla polvere delle nostre strade, cari duri visi di cui non ho saputo asciugare il sudore, sguardi che hanno visto il bene e il male, che hanno eseguito il loro compito, accettando la vita o la morte, oh, sguardi che non si son mai arresi!
Così vi ritroverò, vecchi fratelli: come la mia infanzia vi ha sognati.
Ero infatti partito per incontrarvi, accorrevo verso di voi. Alla prima svolta, avrei visto rosseggiare i fuochi dei vostri eterni bivacchi. La mia infanzia non apparteneva che a voi. Forse, un certo giorno, un giorno che so io, sono stato degno di assumere il comando della vostra schiera inflessibile. Dio voglia che non riveda mai le strade ove ho smarrito le vostre tracce, nell’ora in cui l’adolescenza stende le sue ombre e il succo della morte, lungo le vene, si mescola al sangue del cuore! Strade dell’Artois, a fine autunno, fulve e odoranti come bestie, sentieri marci sotto la pioggia di settembre, grandi cavalcate di nubi, rumori del cielo, acque morte… Arrivavo, spingevo il cancello, e accostavo al fuoco le mie scarpe arrossate dalla tempesta.
L’alba sopraggiungeva ancora prima che fossero rientrati nel silenzio dell’anima, nei suoi profondi nascondigli, i favolosi personaggi appena appena formati, embrioni senza membra, Mouchette e Donissan, Cénabre, Chantal e voi, voi sola tra le mie creature di cui ho talvolta creduto distinguere il viso, ma a cui non ho osato dare un nome, caro curato d’un Ambricourt immaginario. Eravate voi allora i miei maestri? Ancora oggi, lo siete? Oh, so bene quel che c’è di vano in questo ritorno verso il passato. Certo, la mia vita è già piena di morti. Ma il più morto di tutti i morti è il ragazzo ch’io fui.
Nondimeno, venuta l’ora, sarà lui a riprendere il posto alla testa della mia vita, radunerà i miei poveri anni sino all’ultimo, e come un giovane capo coi suoi veterani, raccozzando la schiera in disordine, entrerà per primo nella Casa del Padre. Dopotutto, avrei il diritto di parlare in suo nome. Purtroppo però non si parla in nome dell’infanzia, bisognerebbe adottarne il linguaggio: linguaggio che è dimenticato, linguaggio che cerco di libro in libro, stupido!, come se un simile linguaggio potesse scriversi, se fosse mai scritto! Non conta. Talvolta m’accade di ritrovare qualche accento… ed è quel che vi fa stare in ascolto, compagni dispersi per il mondo, che a caso o per noia avete aperto un giorno i miei libri.
Singolare idea, questa, di scrivere per coloro che disprezzano la scrittura, amara ironia voler persuadere o convincere, quando sempre più mi persuado che la parte del mondo ancora suscettibile di riscatto è solo quella dei fanciulli, degli eroi, e dei martiri.
Palma di Maiorca, gennaio 1937
Parte prima
-Ho giurato di scuotervi, per amore o per forza, ecco! Così mi esprimevo ai tempi della Grande Peur, sette lunghi anni fa. Ora non mi preoccupo più di scuotervi, almeno per forza.
L’ira degli imbecilli mi ha sempre riempito di tristezza, ma oggi ne sarei soprattutto spaventato. Il mondo intero echeggia di quest’ira. Che volete? L’imbecille avrebbe preferito non capir nulla, eppure no, andava a unirsi ad altri imbecilli, per questo.
L’ultima cosa, infatti, di cui l’uomo sia capace è di continuare a conservare in sé la propria bestialità o cattiveria, condizione misteriosa riservata indubbiamente al dannato.
Non capendoci nulla, ognuno si univa all’altro, non in base alle proprie particolari affinità, troppo deboli, ma tenendo presente la modesta funzione derivata da nascita o da caso, di cui la propria piccola vita era presa. Giacché sono quasi soltanto le classi medie a fornire l’esemplare tipo dell’imbecille, la classe superiore arrogandosi il monopolio di un genere di stoltezza del tutto inutilizzabile, una stoltezza di lusso, e quella inferiore riuscendo a compiere solo grossolani e talvolta ammirevoli abbozzi di animalità.
Lo sradicamento degli imbecilli è una folle imprudenza! Questa verità la intravedeva Maurice Barrès.
Solidamente radicata al proprio terreno natale come un banco di mitili allo scoglio, la colonia degli imbecilli può essere ritenuta innocua e perfino capace di fornire allo Stato e all’industria un prezioso materiale.
L’imbecille è innanzitutto
abitudinario e vive di partito preso.
Staccato dal suo ambiente, conserva tra le valve strettamente chiuse l’acqua dello stagno che l’ha nutrito.
Ma la vita moderna non solo trasporta gli imbecilli da un luogo all’altro; li rimena con una specie di furore. La gigantesca macchina, girando a tutta forza, dopo averli inghiottiti in grandi quantità, li semina per il mondo secondo il proprio sterminato capriccio. Nessun’altra società, come la nostra, ha fatto un sì prodigioso consumo di questi sciagurati. Come Napoleone i -Maria-Luisa della campagna di Francia, li divora mentre la conchiglia è ancora tenera, senza dar loro il tempo di maturare. Capisce perfettamente che, con l’età e il grado di esperienza acquisito, l’imbecille si farebbe una saggezza imbecille che lo renderebbe coriaceo.
Mi dispiace dover ricorrere a immagini. Desidererei di tutto cuore mantenere queste riflessioni in un linguaggio adatto alla loro semplicità. è vero che non sarebbero comprese. Per cominciare a intravedere una verità, la cui evidenza si palesa ogni giorno di più, occorre uno sforzo di cui pochi oggi sono capaci.
Ammettete dunque che la semplicità vi spiace, che vi fa arrossire. Quel che voi chiamate semplicità è proprio il suo contrario. Voi siete facili, non semplici. Le mentalità facilone sono anche le più complicate. Perché non dovrebbe essere lo stesso
dell’intelligenza? Nel corso dei secoli, i maestri, i maestri della nostra razza, i nostri maestri, hanno dissodato i grandi viali dello spirito che vanno da una verità all’altra, strade davvero regali. Che importano a voi le strade regali, se la traccia del vostro pensiero è obliqua?
Talvolta vi potete capitare per caso, senza però riconoscerle. Così il nostro cuore si chiudeva d’angoscia allorché una notte, uscendo dal labirinto delle trincee, sentimmo d’un tratto, sotto i chiodi degli scarponi, il terreno solido d’una delle strade d’un tempo, appena visibile sotto la muffa delle erbe, strada silenziosa, strada morta che altre volte aveva echeggiato il passo degli uomini.
è vero che l’ira degli imbecilli riempie il mondo. Potete ridere, se volete: nulla e nessuno sarà risparmiato da quest’ira, che non è capace d’indulgenza. I teorici di destra o sinistra - è il loro mestiere
- continueranno a classificare gli imbecilli, enumerandone la specie e i generi e delimitando ogni gruppo secondo gli interessi e le passioni degli individui che lo compongono, secondo la loro particolare ideologia.
Per gente siffatta, questo non è che un gioco. Ma tali classificazioni rispondono così poco alla realtà che l’uso ne riduce implacabilmente il numero. è chiaro che la
moltiplicazione dei partiti a tutta prima lusinga la vanità degli imbecilli. Dona loro l’illusione di scegliere. Qualunque commesso di negozio vi dirà che il pubblico, adescato dalle vetrine di
un’esposizione stagionale, quando sia stanco di mercanteggiare e di dar fastidio al personale, sfila al solito banco. Così, abbiamo visto nascere e morire un gran numero di partiti, giacché ogni giornale di opinione non dispone d’altro mezzo per conservarsi la clientela. Nondimeno, la diffidenza innata negli imbecilli rende precario questo metodo di sbriciolamento, quindi il gregge inquieto si riforma senza posa. Bisogna giungere a particolari circostanze e soprattutto all’opportunità elettorale di formare alleanze: allora gli sciagurati dimenticano immediatamente quelle differenze che d’altronde avevano sempre mantenuto a fatica. Dividendosi in due gruppi, si riduce al minimo la difficile operazione mentale loro proposta, poiché in questo caso si tratta soltanto di pensare contro l’avversario, il che permette di utilizzare a rovescio il suo programma. E per questo li abbiamo visti accettare piuttosto a malincuore designazioni tanto complesse come, per esempio, quelle di monarchici o di repubblicani. L’essere clericale o anticlericale piace di più, le due parole non significano nient’altro che
-a favore o -contro i preti.
Conviene aggiungere che il prefisso
-anti non appartiene a nessuno esclusivamente, perché, se l’uomo di sinistra è anticlericale, l’uomo di destra è antimassone, antidreyfusiano.
Gli impresari della stampa che hanno adoperato questi slogan sino al loro totale logorio vorranno senza dubbio farmi dire che io non so distinguere tra le varie ideologie, che esse mi ispirano un medesimo disgusto. Ohimè!
Io so meglio di ogni altro ciò che un ragazzo di vent’anni può dare di sé, della sostanza della propria anima, a quelle grossolane creazioni dello spirito partigiano che rassomigliano a una vera opinione come certe vesciche acquatiche a un animale, una ventosa per succhiare, un’altra per evacuare: la bocca e l’ano, che in taluni polipi sono addirittura una cosa sola. Ma a chi la giovinezza non prodiga la propria anima! Essa la getta talvolta a piene mani, nei bordelli. Come quelle mosche di color cangiante, ricoperte d’azzurro e d’oro, dipinte con più cura delle miniature di messale, così i primi amori s’avventano sopra i carnai. Che volete? Io non credo neanche al relativo vantaggio delle coalizioni dell’ignoranza e del partito preso. La necessaria condizione per entrare realmente nell’azione è di conoscere se stessi, di aver preso la giusta misura di sé. E tutti costoro invece si radunano solo per metter in comune le vaghe ragioni che possiedono di giudicarsi migliori degli altri.
Quindi, che importa la causa che pretendono servire? Dio sa, per esempio, quel che costa al resto del mondo l’arido contratto bigotto attuato con gran dispendio da una speciale letteratura divulgata in milioni d’esemplari su tutta la superficie del globo e di cui vorrà almeno riconoscere che è fatta apposta per scoraggiare gli increduli di buona volontà. Io non nutro alcun odio verso i bigotti, vorrei semplicemente che non mi venissero rotti i timpani sulla loro pretesa ingenuità. Qualsiasi prete, se vuol essere sincero, vi dirà che nessuna categoria è più lontana della propria dallo spirito dell’infanzia, dalla sua
chiaroveggenza soprannaturale, dalla sua generosità. Sono fattucchieri della devozione, e i grassi canonici letterati che versano su queste larve il miele saccheggiato ai tanti mazzi di fiori spirituali, neanche loro sono ingenui.
L’ira degli imbecilli riempie il mondo. Parimenti, è facile capire che la Provvidenza che li fece
naturalmente sedentari aveva le sue buone ragioni. Ora, i vostri treni rapidi, le vostre automobili, i vostri aerei li trasportano con la velocità del lampo. Ogni piccola città di Francia possedeva i suoi due o tre circoli d’imbecilli, di cui sono un perfetto esempio i celebri -Riz e -Pruneaux di Tartarino sulle Alpi.
Errate profondamente a credere che la bestialità sia inoffensiva, che per lo meno esistano forme inoffensive di bestialità. La bestialità non ha per sé forza viva superiore a un vecchio cannone di ghisa da 36, ma, una volta in movimento, sfonda tutto. Eppure ciascuno di voi sa di che cosa sia capace l’odio paziente e vigile dei mediocri, e ne sparge la semenza ai quattro venti! Infatti, proprio questi disgraziati forniscono alle democrazie le loro pretese pubbliche opinioni, dato che in virtù dei mezzi meccanici vi è consentito di spostare i vostri imbecilli non solo da città a città, da provincia a provincia, ma da nazione a nazione, da continente, perfino, a continente. In questo modo, mercé le cure di una stampa immensa che lavora giorno e notte su alcuni temi sommari, la rivalità dei
-Pruneaux e dei -Riz assume una specie di carattere universale, che Daudet non aveva certamente sospettato.
Ma chi legge oggi Tartarino sulle Alpi? Così, è meglio ricordarlo: quel gentile poeta provenzale, il quale tante volte innalzò al disopra di sé l’esperienza raffinata del dolore e il genio della simpatia, raduna in fondo a un albergo di montagna una dozzina d’imbecilli. Il ghiacciaio è là vicino, sospeso nell’azzurro immenso.
Nessuno ci pensa. Dopo alcuni giorni di falsa cordialità, di diffidenza e di noia, i poveri diavoli trovano il mezzo di soddisfare insieme il loro istinto pecorile e il sordo rancore che li travaglia. Il partito degli stitici chiede, alla fine del pranzo, le prugne secche; quello dei diarroici sta naturalmente per il riso. Quindi tutte le beghe particolari si placano, e si raggiunge l’accordo tra i membri di ciascuno dei gruppi rivali.
Nell’ombra, si può benissimo immaginare il dilettante ingegnoso e perverso, certamente un mercante di riso o di prugne, che suggerisce a questi miserabili una mistica adatta allo stato dei loro intestini. Ma il personaggio è inutile. La stupidità non inventa niente, fa solo in modo che serva ai propri fini, ai propri fini di stupidità, tutto quello che il caso le mette dinanzi. E per un fenomeno, ahimè, ancora molto più misterioso, la vedrete mettersi da sé all’altezza degli uomini, delle circostanze o delle teorie da cui è provocata la sua mostruosa facoltà di incretinimento. Napoleone si vantava a Sant’Elena di aver tratto partito dagli imbecilli. Sono gli imbecilli che alla fine hanno tratto partito da Napoleone. No, non solo, come potreste credere, perché sono diventati bonapartisti. Infatti la religione del grand’uomo, accordata a poco a poco al gusto delle democrazie, ha creato questa sorta di patriottismo allocco, che agisce ancora potentemente sulle ghiandole, patriottismo che i nostri avi non hanno mai conosciuto, e la cui cordiale insolenza, su un fondo di odio, di sospetto e d’invidia, si esprime, benché con ineguale successo, nelle canzoni di Déroulède e nei poemi di guerra di Paul Claudel.
Vi infastidite a sentirmi parlare così a lungo degli imbecilli? Ebbene, è penoso, per me, parlarne. Ma bisogna innanzitutto che vi persuada di una cosa: cioè che voi non avrete ragione degli imbecilli col ferro o col fuoco.
Vi ripeto, essi non hanno inventato né il ferro, né il fuoco, né il gas, ma utilizzano in modo perfetto tutto ciò che li dispensa dal solo sforzo di cui sono realmente incapaci, lo sforzo di pensare da soli. Ameranno più uccidere che pensare, ecco il guaio! E voi, proprio, li rifornite di mezzi meccanici! La meccanica è fatta apposta per loro. In attesa della macchina per pensare che stanno aspettando, che vogliono a tutti i costi, che è lì per arrivare, si contenteranno molto bene della macchina per uccidere; questa si adatta loro come un guanto. Abbiamo industrializzato la guerra per metterla alla loro portata. è già, infatti, alla loro portata.
Altrimenti io vi sfido a spiegarmi come mai, per qual miracolo è diventato così facile fare di un qualsiasi bottegaio, di uno scribacchino d’agenzia di cambio, di un avvocato o di un parroco, un soldato. Qui come in Germania, in Inghilterra come in Giappone. è semplicissimo: voi aprite il grembiale e un eroe vi casca dentro. Non voglio bestemmiare i morti. Però il mondo ha conosciuto un’epoca in cui la vocazione delle armi era la più onorata dopo quella del prete, che la precedeva di poco in dignità. è parimenti strano che la vostra civiltà capitalistica, che non è ritenuta adatta a incoraggiare lo spirito di sacrificio, dispone, al suo apogeo economico, di tanti uomini di guerra quanti le sue officine possono rifornire di uniformi.
Uomini di guerra quali, di sicuro, non se n’è mai visti. Li prendete all’ufficio, alla fabbrica, tranquillissimi. Date loro un biglietto per l’inferno col timbro del distretto e gli scarponi nuovi, generalmente permeabili. L’ultimo incoraggiamento, il supremo saluto della patria, viene loro sotto forma di occhiata stizzosa da parte del furiere richiamato addetto al servizio vestiario, che li tratta da coglioni.
Dopo di ciò, si affrettano verso la stazione un po’ ebbri, ma ansiosi all’idea di perdere il treno per l’inferno, esattamente come se andassero a pranzare in famiglia, una domenica, a Bois-Colombes o a Viroflay. Scenderanno questa volta alla stazione Inferno, ecco tutto. Un anno, due anni, quattro anni, il tempo che occorrerà sino allo scadere del biglietto circolare rilasciato dal governo, percorreranno questo paese sotto una pioggia da fondita d’acciaio, attenti a non mangiare senza permesso il cioccolato dei viveri di riserva, o preoccupati di soffiare a un compagno il pacchetto di bende che manca. Il giorno
dell’attacco, con una palla nel ventre li vedi saltellare come perniciotti sino al posto di soccorso; si stendono tutti sudati sulla barella e si svegliano all’ospedale, donde escono qualche tempo dopo con la medesima docilità con la quale sono entrati, accompagnati da una sfuriata paterna del signor maggiore, quel buon vecchio… Poi ritorneranno verso l’inferno, in una vettura priva di vetri, ruminando di stazione in stazione il vino aspro o il formaggio grasso, oppure compitando al bagliore della lampada a olio il foglio di via coperto di segni misteriosi, e nient’affatto certi di essere in regola. Il giorno della vittoria…
be’, il giorno della vittoria, sperano di tornarsene a casa.
La verità è che non vi tornano affatto per la nota ragione che
-l’armistizio non significa la pace , e che bisogna lasciar alla gente il tempo di rendersene conto. è sembrato giusto il ritardo di un anno; invece otto giorni sarebbero bastati. Otto giorni sarebbero bastati per dimostrare ai soldati della grande guerra che una vittoria è un affare da guardare a distanza come la figlia del colonnello o la tomba dell’imperatore, agli Invalidi; che un vincitore, se vuol vivere cent’anni, deve solo consegnare i suoi galloni di vincitore. Dunque, son tornati all’officina, all’ufficio, sempre tranquillissimi. Alcuni hanno anche avuto la fortuna di trovarsi nei pantaloni di prima della guerra una dozzina di tagliandi della propria osteria, dell’osteria di un tempo, a venti soldi il pasto. Ma il nuovo oste non li ha voluti accettare.
Mi direte che quegli individui erano dei santi. No, vi assicuro, non erano dei santi. Erano dei rassegnati.
Esiste in ogni uomo un’enorme capacità di rassegnazione, l’uomo è per sua natura un rassegnato. Per questo egli continua a vivere. Riflettete che altrimenti l’animale logico non avrebbe potuto sopportare di divenire lo zimbello delle cose. In queste condizioni, già da qualche millennio l’ultimo di loro si sarebbe schiacciato la testa contro i muri della caverna, bestemmiando l’anima. I santi non si rassegnano, almeno nel senso che tutti intendono. Se soffrono in silenzio le ingiustizie che fanno adirare i mediocri, è per meglio rivolgere contro l’Ingiustizia, contro la sua faccia di bronzo, tutte le forze della loro grande anima. Le ire, figlie della disperazione, strisciano e si torcono come vermi. La preghiera è, insomma, la sola rivolta che riesce a stare in piedi.
L’uomo è per sua natura un
rassegnato. L’uomo moderno più degli altri, a causa dell’estrema solitudine in cui lo lascia una società che non conosce quasi più tra gli individui che rapporti di danaro. Ma avremmo torto a credere che questa
rassegnazione ne faccia un animale inoffensivo. Essa concentra dentro di lui veleni che lo rendono disponibile, al momento buono, per ogni specie di violenza. Il popolo delle democrazie non è che una folla, una folla perpetuamente illusa dall’oratore invisibile, dalle opinioni venute da tutti gli angoli della terra, quelle opinioni che la prendono alle viscere, tanto più potenti sui suoi nervi quanto più si sforzano di parlare il linguaggio stesso dei suoi desideri, dei suoi odi, dei suoi terrori. è vero che le democrazie parlamentari, più dell’altre nervose, mancano di temperamento. Le totalitarie hanno il fuoco nella pancia. Quelle imperiali sono democrazie in fregola.
L’ira degli imbecilli riempie il mondo. In questa loro ira, l’idea di redenzione li travaglia, perché essa costituisce il fondo di ogni speranza umana. è lo stesso istinto che ha gettato l’Europa sull’Asia al tempo delle crociate. Ma in quell’epoca l’Europa era cristiana, gli imbecilli appartenevano alla cristianità. Ora un cristiano può essere questo o quello: un bruto, un idiota o un pazzo; non può essere interamente un imbecille.
Parlo dei cristiani nati cristiani, dei cristiani di condizione, dei cristiani di cristianità. In poche parole, dei cristiani nati in piena terra cristiana e che crescono liberi, consumano l’una dopo l’altra, sotto il sole o la pioggia, tutte le stagioni della loro vita. Dio mi guardi dal paragonarli a quei cetriolini senza sugo che i parroci fanno mettere nei vasetti al sicuro dalle correnti d’aria!
Per un cristiano di cristianità, il Vangelo non è solamente un’antologia di cui si legge un pezzo ogni domenica nel proprio libro da messa, e alla quale è concesso di preferire il Giardino delle anime pie del padre Prudent o i Piccoli fiori di devozione del canonico Boudin. Il Vangelo informa di sé le leggi, i costumi, le pene e financo i piaceri, e infatti sia l’umile speranza dell’uomo, sia il frutto delle sue viscere, vi son benedetti. Be’, potete scherzarci sopra come volete. Penso di non conoscere gran che di buono, ma so quel che vuol dire la speranza del Regno di Dio, e questo non è poco, parola mia! Se non ci credete, tanto peggio per voi. Potrà questa speranza ritornare a visitare il suo popolo?
Potremo respirarla tutti noi, un giorno, insieme, un mattino dei giorni, col miele dell’alba? E se anche non ve ne curate, che conta?
Quelli che rifiuteranno allora di accoglierla nel proprio cuore la riconosceranno almeno a questo segno: gli uomini che oggi distolgono lo sguardo al vostro passaggio o sghignazzano alle vostre spalle, vi verranno diritti incontro, con uno sguardo d’uomo. A questo segno, ripeto, saprete che la vostra epoca è finita.
Gli imbecilli sono travagliati dall’idea di redenzione. è certo che se interrogate il primo che capita di loro, vi risponderà che una tale fantasia non ha mai sfiorato la sua mente, oppure che non capisce esattamente il senso delle vostre parole. Giacché un imbecille non dispone di nessuno strumento mentale che gli permetta di rientrare in se stesso, non gli rimane che esplorare la superficie del proprio essere. Ma certo, la terra non perde la sua ricchezza né la capacità d’un altro raccolto solo perché un negro con la sua povera marra sta lì a graffiare il terreno, appena appena perché ci cresca un po’ di miglio. D’altro canto, che cosa saprete mai di un mediocre, sino a quando non l’avrete osservato a lungo tra gli altri mediocri della sua razza, nella comunione della gioia, dell’odio, del piacere, dell’orrore? è vero che ciascuna mediocrità appare solidamente difesa contro ogni mediocrità d’altra specie; ma gli immensi sforzi delle democrazie hanno finito per infrangere l’ostacolo. Avete mandato a segno questo colpo meraviglioso, questo colpo unico: avete, cioè, distrutto la sicurezza dei mediocri. Essa sembrava inseparabile dalla mediocrità, la sua medesima sostanza. Per essere mediocri non è indispensabile, badate, essere stupidi. Voi avete cominciato col rendere stupidi gli imbecilli.
Vagamente consci di quel che loro manca, e dell’irresistibile corrente che li trascina verso destini insondabili, essi si rinchiudevano nelle loro abitudini, ereditarie o acquistate, come quel famoso americano che varcava le cascate del Niagara in una botte. Avete infranto la botte, e i disgraziati vedono scorrere le due rive con la rapidità del lampo.
Senza dubbio un notaio di
Landerneau, due secoli fa, non credeva che la sua città natale sarebbe durata più di Cartagine o Menfi, ma al punto in cui vanno le cose egli ci si sentirà domani quasi altrettanto sicuro che se fosse in un letto all’aria aperta sulla pubblica piazza.
Certo, il mito del progresso ha reso buoni servigi alle democrazie. E sono bastati solo uno o due secoli perché l’imbecille, addestrato da tante generazioni all’immobilità, vedesse in questo mito alcunché di diverso da un’ipotesi eccitante, o da un gioco della mente. L’imbecille è sedentario, ma ha letto sempre volentieri i racconti d’avventure. Immaginate uno di questi viaggiatori da camera che d’improvviso s’accorga che il pavimento si muove. Si precipita alla finestra, l’apre, cerca la casa di fronte, e ricevendo in pieno viso l’aria sibilante scopre che è partito.
La parola -partenza non si adatta troppo, qui. Giacché se lo sguardo dell’uomo moderno non può più posarsi su niente di stabile - ragione insigne del suo mal di mare - tuttavia il povero diavolo non ha l’impressione di dirigersi verso qualche posto. Voglio dire che i suoi fastidi son sempre gli stessi, benché moltiplicati in apparenza, grazie a un effetto di prospettiva. Nessun’altra maniera veramente nuova di far l’amore, nessuna nuova maniera di crepare.
Tutto ciò è semplice, semplicissimo.
Domani sarà più semplice ancora.
Semplice al punto che non si potrà scrivere più nulla di comprensibile sull’infelicità degli uomini, le cui cause immediate scoraggeranno chi le analizzerà. I primi sintomi d’una malattia mortale forniscono al professore l’argomento di brillanti lezioni, ma tutte le malattie mortali presentano lo stesso fenomeno finale, l’arresto del cuore. Su questo, non c’è gran che da dire. La vostra società non morrà in modo diverso.
Discuterete ancora del perché e del come, e già le arterie non batteranno più. L’immagine mi sembra giusta, perché la riforma degli istinti giunge troppo tardi, allorquando la delusione dei popoli è diventata irreparabile e il loro cuore s’è infranto.
Capisco che un tale linguaggio può far sorridere gli impresari del realismo politico. Cos’è mai il cuore di un popolo? Dove collocarlo? I teorici del realismo politico hanno un debole per Machiavelli. In mancanza di meglio, i dottrinari del realismo politico hanno rimesso di moda Machiavelli. è certo l’ultima imprudenza che avrebbero dovuto permettersi i discepoli di
Machiavelli. Riuscite a vedere quel baro che prima di sedersi al tavolo da gioco fa omaggio ai suoi compagni d’un trattatello illustrante il suo metodo sull’arte di barare, con una lusinghiera dedica per ciascuno dei giocatori? Machiavelli scriveva rivolgendosi solo a un certo numero di iniziati. I dottrinari del realismo politico parlano al pubblico. Sulle loro orme, alcuni giovani francesi colmi d’innocenza e di gentilezza ripetono i loro assiomi d’un cinismo schiantante, che fanno scandalizzare e commuovere le loro buone madri. Così la guerra di Spagna, dopo quella di Abissinia, ha fornito or ora l’occasione a innumerevoli professioni di fede d’immoralità nazionale, capaci di far rivoltare nelle loro tombe Giulio Cesare, Luigi Xi, Bismarck e Cecil Rhodes. Ma Giulio Cesare, Luigi Xi, Bismarck e Cecil Rhodes non avrebbero in nessun modo desiderato ogni mattina l’approvazione compromettente del professorucolo realista seguito dalla sua classe. Un autentico discepolo di Machiavelli comincerebbe col far impiccare questi farneticanti.
Non toccate gli imbecilli! Ecco quel che l’angelo avrebbe potuto scrivere a lettere d’oro sul frontone del mondo moderno, se questo mondo avesse un angelo. Per scatenare l’ira degli imbecilli, basta metterli in contraddizione con se stessi; perciò le democrazie imperiali, all’apogeo della loro ricchezza e della loro potenza, non potevano esimersi dal correre questo rischio. L’hanno corso.
Il mito del progresso era senza dubbio il solo verso il quale milioni di uomini potessero sentirsi trasportati, il solo che soddisfacesse insieme la loro cupidigia, il loro sommario moralismo e il vecchio istinto di giustizia lasciato in retaggio dai padri. è certo che un padrone di vetreria, il quale all’epoca di Guizot e stando al giudizio di irrecusabili statistiche, sistematicamente decimava per le esigenze del suo commercio interi circondari, doveva avere come ciascuno di noi le sue crisi di depressione. Si ha un bello stringere al collo una cravatta di raso, portare all’occhiello una decorazione larga quanto un piattino, e pranzare alle Tuileries, non importa: vengono giorni in cui uno si accorge di possedere un’anima. Oh, beninteso, i pronipoti di quei tali sono oggi ragazzi per bene, del tipo di moda, lindi, sportivi, più o meno ben imparentati.
Molti di loro si proclamano monarchici e parlano di stemmi aviti, movendo il mento trionfalmente come un discendente di Goffredo di Buglione che rivendichi i suoi diritti sul regno di Gerusalemme. Benedetti buffoncelli! La lora scusa è questa: che mancano di senso sociale. Da chi l’avrebbero dovuto ereditare? I delitti dell’oro hanno un carattere astratto. O forse c’è una virtù nell’oro? Le vittime dell’oro ingombrano la storia, ma dalle loro spoglie non si sprigiona alcun odore.
Posso paragonare questo fatto a una proprietà ben nota dei sali del metallo magico, i quali prevengono gli effetti della putrefazione. Quando un vaccaro dalle meningi in ebollizione ammazza due pastorelle dopo averle deflorate, la cronaca riporta il suo nome, e ne fa un epiteto infame, un nome maledetto. Invece quei tali
-signori del commercio di Nantes , i grandi mercanti di schiavi, come li chiama con rispetto il senatore della Guadalupa, hanno potuto fare dei macelli, senza che da tutta quella carne nera esali, attraverso i secoli, altro che un leggero profumo di verbena e di tabacco spagnolo. -I capitani negrieri sembra che siano stati persone di nobile prestanza continua l’onorevole senatore.
-Portavano la parrucca come a corte, la spada al fianco, le scarpe con fibbie d’argento, vesti ricamate, camicie di gala, e polsini di pizzo.
-Un mestiere del genere conclude il giornalista -non disonorava per nulla coloro che lo praticavano o che lo sovvenzionavano. Chi, dunque, tra i finanzieri o gli agiati borghesi, non era negriero, per poco o molto? Gli armatori che finanziavano quelle lunghe e costose spedizioni dividevano il capitale investito in un certo numero di parti, e queste parti, il cui interesse era molto spesso enorme, costituivano per tutti i padri di famiglia un investimento assai ricercato.
Preoccupati di meritare la fiducia di quei padri di famiglia, i capitani negrieri assolvevano scrupolosamente i loro compiti, come è abbastanza dimostrato, tra molte altre testimonianze della stessa qualità, dal racconto seguente tratto da un’opera interessante, che Candide pubblicava il 25 luglio 1935: -Ieri, alle otto, legammo mani e piedi ai negri più turbolenti e, dopo averli coricati sul ventre sopra il ponte, li facemmo frustare. Inoltre praticammo loro delle scarificazioni sulle natiche, affinché sentissero meglio le colpe commesse. Dopo aver fatto sanguinare le natiche a colpi di frusta e mediante le scarificazioni, vi mettemmo sopra polvere da sparo, sugo di limone, salamoia, peperone, tutto insieme, mescolato con un’altra droga aggiunta dal chirurgo, con il che sfregammo le natiche per impedirne la cancrena e in più perché avessero a bruciare, sfruttando sempre il vento, con la scotta a babordo. Troviamo qui brevemente un buon esempio della cauta discrezione della società d’un tempo, quando si trovava nella necessità di proporre casi di coscienza agli imbecilli. La stampa italiana si dà oggi molto da fare per giustificare agli occhi di questi ultimi la distruzione in massa, per mezzo dei gas, del materiale abissino. Tutta questa mistica della forza scoraggia gli imbecilli, vorrebbe costringerli a mettersi dal punto di vista di Mussolini. L’atteggiamento di costui di fronte al pubblico del nostro paese, d’altronde, è curioso.
Mussolini è un solido operaio e ama la gloria. Prendendo alla lettera i manuali, egli pensa anche che il popolo francese possieda più d’un altro il senso della giustizia, il rispetto dei deboli e dei disgraziati.
Davanti a quei villaggi dove i difensori sono riusciti a distruggere ogni traccia di vita, perfino quella dei rosicanti o degli insetti, egli si rivolge ai discendenti dei -signori del commercio di Nantes , venuti con le loro mogli, con le loro signorine e i ragazzi che si preparano al liceo.
Prima è un po’ rosso, suppongo, poi si rianima, e parla della grandezza che da quando mondo è mondo grava con tutto il suo peso sulle spalle dei miserabili, della potenza e dell’impero. I bravi borghesi si guardano tra di loro, molto seccati.
Perché Mussolini ci ha condotti fin qui? Questi paesaggi sono ancora più tristi del cimitero di Montmartre, e mia moglie, che soffre di pressione, è molto sensibile. Non è in realtà il momento di adoperare parole grosse per un semplice affare di negri. I nostri antenati hanno fatto essi pure fortuna, come questo signore, coi negri, però non si sentivano obbligati a elaborare perciò una filosofia.
L’affare rende veramente, sì o no?
L’idea di grandezza non ha mai reso sicura la coscienza degli imbecilli.
La grandezza è un perpetuo eccesso e i mediocri non dispongono probabilmente di immagini che permettano loro di rappresentarsi il suo slancio irresistibile (perciò essi non la concepiscono che morta e pietrificata, nell’immobilità della storia). Ma l’idea del progresso reca loro quel particolare nutrimento di cui hanno bisogno. La grandezza impone grandi schiavitù. Invece, il progresso cammina da solo dove lo trascina la massa delle esperienze accumulate.
Basta dunque non opporgli altra resistenza che quella del proprio peso. è il genere di collaborazione tra il cane morto e il fiume che esso discende a pelo d’acqua. Allorché, dopo un ultimo inventario, l’antico maestro vetraio calcolava la cifra esatta dei profitti, doveva avere un pensiero per il modesto collaboratore che finiva di sputare nella cenere del focolare i suoi polmoni, tra il sonnecchiante gatto rognoso e la cuna dove urlava un aborto dalla testa di vecchio. L’autore di Standards ricorda la celebre frase del padrone americano al giornalista, che dopo aver visitato l’officina brindava col suo ospite prima di riprendere il treno.
D’improvviso il giornalista si batté la fronte: -A che diamine adibite i vecchi operai? domanda. -Nessuno di quelli che ho visto mi sembra aver superato la cinquantina. L’altro esita un momento, vuota il bicchiere:
-Prendete un sigaro dice -e mentre lo fumate andremo a fare un giro al cimitero.
Il maestro vetraio, lui pure, doveva fare qualche volta un giro per il cimitero. E al posto di proseguire -
poiché i borghesi di quell’epoca erano tutti liberi pensatori - è
possibilissimo che vi si fermasse per un tempo conveniente o anche che si raccogliesse in meditazione. Perché no? Lo scrivo senza ridere. Le persone che mi conoscono appena mi considerano assai spesso un energumeno, un libellista. Ripeto ancora una volta che un polemista è divertente sino a vent’anni, tollerabile sino ai trenta, noioso verso la cinquantina e osceno oltre questa età. Le smanie polemiche di un vecchio mi paiono una forma di erotismo. L’energumeno si eccita a freddo, come si dice volgarmente.
Lungi dall’eccitarmi, io passo il mio tempo tentando di capire, unico rimedio contro quella sorta di delirio isterico in cui finiscono per cadere i disgraziati che non possono fare un passo senza imbattersi in una ingiustizia accuratamente nascosta sotto l’erba, come un trabocchetto.
Tento di capire. Credo che mi sforzo d’amare. è vero che non sono quel che si dice un ottimista. L’ottimismo m’è sempre apparso come l’alibi sornione degli egoisti, preoccupati di dissimulare il loro cronico compiacimento di sé. Sono ottimisti per dispensarsi dall’aver compassione degli uomini.
Ognuno immagina molto bene la pagina che avrebbe ispirato a Proudhon, per esempio, la frase dell’americano. Non ritengo questa frase tanto implacabile quanto sembra. Ci sarebbe d’altronde tanto da dire sulla pietà! Gli spiriti delicati misurano volentieri la profondità di questo sentimento dalle agitazioni che esso provoca in alcuni spiriti pietosi. Ora queste agitazioni esprimono una rivolta contro il dolore piuttosto pericolosa per il paziente, confondendo facilmente nello stesso orrore la sofferenza e il sofferente.
Abbiamo tutti conosciuto quelle donne nervose che non possono vedere una bestiolina ferita senza immediatamente opprimerla con smorfie di disgusto, poco lusinghiere per l’animale, il quale probabilmente non avrebbe chiesto di meglio che andarsene tranquillo a guarire in fondo al suo buco. Certe contraddizioni della storia moderna si sono illuminate ai miei occhi appena ho voluto tener conto d’un fatto che peraltro è evidente: l’uomo di quest’epoca ha il cuore duro e la trippa sensibile. Come dopo il diluvio, forse la terra apparterrà domani ai mostri molli.
Si può dunque credere che alcune nature si difendono d’istinto contro la pietà per una giusta diffidenza verso di sé, verso la brutalità delle proprie reazioni. Gli imbecilli hanno docilmente accettato, da alcuni secoli, l’insegnamento tradizionale della Chiesa su questioni che, in verità, apparivano loro insolubili.
Che la Sofferenza abbia o no un valore espiatorio, che essa possa perfino essere amata, che cosa conta su ciò l’opinione d’un gruppetto di originali, quando il buon senso, insieme con la Chiesa, tollera che le persone ragionevoli la sfuggano con tutti i mezzi? Nessun imbecille, certo, si sarebbe sognato un tempo di negare il carattere universale del dolore, ma allora il dolore universale era discreto. Oggi dispone, per farsi ascoltare, degli stessi potenti mezzi che hanno la gioia e l’odio. I medesimi individui che riducevano a poco a poco, sistematicamente, le relazioni di famiglia al puro scambio indispensabile di partecipazione di nascita, di matrimonio o di morte, allo scopo di risparmiare le proprie smilze riserve di sensibilità affettiva, non possono più aprire un giornale, né girare il bottone della radio, senza apprendere notizie catastrofiche. è chiaro che per sfuggire a una tale ossessione non basta più a loro poveretti d’ascoltare distrattamente una volta la settimana durante la messa solenne l’omelia sul dolore d’un bravo canonico ben pasciuto, insieme col quale poco dopo divideranno il domenicale cosciotto di castrato. Gli imbecilli si son dunque risolutamente attaccati al problema del dolore come a quello della povertà. è compito della scienza vincere il dolore, pensa l’imbecille nella sua logica inflessibile, e l’economista si occuperà della miseria, ma in attesa solleviamo contro questi due flagelli l’opinione pubblica alla quale, come si sa, sulla terra o nel cielo, nulla può far fronte. Onorare il povero? E perché non i pidocchi della povertà? Queste fantasticherie orientali sussistevano innocentemente ai tempi di Gesù Cristo, che d’altronde non è mai stato un uomo d’azione. Se vivesse oggi Gesù Cristo dovrebbe entrare nello spirito del tempo come ognuno e, pure a dirigere una modesta officina, capirebbe bene che la società moderna, sia esaltando la dignità del danaro sia infamando la povertà, compie la propria funzione rispetto ai miserabili. L’uomo è nato innanzitutto orgoglioso, e l’amor proprio, come una bocca sempre spalancata, ha più appetito del ventre. Un militare non si sente pagato a sufficienza dei suoi rischi mortali con una medaglia di ottone? Ogni volta che intaccate il prestigio della ricchezza, voi ricambiate d’altrettanto il povero ai suoi stessi occhi. La povertà gli fa meno vergogna, la sopporta facilmente, e tale è la sua follia che forse finirebbe per amarla. Ora, la società ha bisogno per il suo meccanismo di poveri forniti di amor proprio. L’umiliazione sottrae alla società un maggior numero di costoro che non la fame, e di miglior razza, di quella che è insofferente delle stanghe, ma tira lo stesso sino all’ultimo respiro. Tirano come i loro simili muoiono in guerra, non tanto per il gusto di morire, quanto per non arrossire davanti ai compagni, o anche per far dispetto al sergente. Se non li tenete a bada, con il proprietario, il droghiere, il portinaio alle calcagna, sotto la perpetua minaccia del disonore inerente alla condizione del vagabondo e del pezzente, non smetteranno forse di lavorare, ma lavoreranno meno, oppure vorranno lavorare alla loro maniera, senza alcun rispetto per le macchine. Un nuotatore stanco che si sente sotto cinquecento metri di fondo, si sbraccia con maggior ardore che se stesse a graffiare coi pollici una spiaggia di sabbia fine. E notate che all’epoca in cui i metodi dell’economia liberale serbavano ancora il loro massimo valore educativo e la loro piena efficacia, prima della deplorevole invenzione dei sindacati, l’autentico operaio, l’operaio formato dalle vostre cure, era così profondamente convinto di riscattare ogni giorno col proprio lavoro il disonore della povertà, che - vecchio o malato - scansava con eguale orrore l’ospizio o l’ospedale, meno per attaccamento alla libertà che per vergogna: vergogna di -non poter bastare più a se stesso , come diceva nel suo meraviglioso linguaggio. L’ira degli imbecilli riempie il mondo. Essa è meno temibile, senza dubbio, della loro pietà. L’atteggiamento più inoffensivo dell’imbecille di fronte al dolore o alla miseria è quello dell’indifferenza stupida. Guai a voi se, con la cassetta degli strumenti in spalla, egli rivolge le sue mani impacciate, le sue mani crudeli verso queste cerniere del mondo! Ma, appena finito di tastare, tira fuori ora dalla cassetta un paio di forbici enormi. Da uomo pratico, accetta facilmente l’idea che il dolore, come la povertà, non sia che un vuoto, una deficienza, insomma un nulla. Si sbalordisce di trovare in loro resistenza. Il povero, per esempio, non è dunque soltanto il cittadino che si differenzia dagli altri perché privo di conto in banca. Certo, esistono poveri di questa specie. Molto meno numerosi però di quel che uno non immagina, perché la vita economica del mondo è per l’appunto adulterata dalla presenza di poveri divenuti ricchi, i quali sono falsi ricchi e conservano in seno alla ricchezza i vizi della povertà. Inoltre quei poveri non erano veri poveri, senza dubbio, come ora non sono veri ricchi: sono una razza bastarda. Ma quale credito volete che accordi a tali sottigliezze il medesimo imbecille, la cui più cara illusione è che gli individui si distinguano tra loro, da popolo a popolo, solo in ragione del tiro malvagio per cui hanno imparato differenti lingue, e che attendono la riconciliazione universale dallo sviluppo delle istituzioni democratiche e dall’insegnamento dell’esperanto? In che modo fareste capire che esiste un popolo dei poveri e che la tradizione di quel popolo è la più antica di tutte le tradizioni del mondo? Un popolo di poveri, non meno irriducibile, certo, del popolo ebreo? Si può trattare con esso, non fonderlo con il resto. Sia quel che sia, bisognerà lasciargli le sue leggi, le sue usanze e quell’esperienza così originale della vita, contro la quale non potete far niente, voi altri. Un’esperienza che rassomiglia a quella dell’infanzia, insieme semplice e complicata, una goffa saggezza, pura quanto l’arte dei vecchi miniatori. Insomma non si tratta di arricchire i poveri, perché l’oro di tutte le vostre miniere non basterebbe. Non riuscireste, d’altronde, che a moltiplicare i falsi ricchi. Nessuna forza al mondo arresterà l’oro nel suo perpetuo flusso, e raccoglierà in un sol lago i milioni di ruscelli da cui si sprigiona, più inafferrabile del mercurio, il vostro metallo fatato. Non si tratta di arricchire il povero, si tratta di onorarlo, o piuttosto di restituirgli l’onore. Né il forte né il debole possono evidentemente vivere privi di onore, ma il debole ha più bisogno d’ogni altro di onore. D’altra parte, questa massima non è per niente strana. è pericoloso lasciare i deboli nell’avvilimento, la corruzione dei deboli è un veleno per i forti. Sin dove sarebbero rotolate le donne - le vostre donne - se di comune accordo, lungo il corso dei secoli, disponendo dei mezzi per asservirle corpo e anima, non aveste prudentemente deciso di rispettarle? Voi rispettate la donna o il fanciullo e non verrebbe in mente a nessuno di voi di considerare la loro debolezza come un’infermità un po’ vergognosa, appena confessabile. Se la violenza ha ceduto ai costumi, perché non si dovrebbe vedere vinto a sua volta l’ignobile prestigio del danaro? Sì, l’onore del danaro sarebbe poca cosa se non vi aggiungeste la vostra cauta complicità. -Ma non è sempre stato lo stesso nel corso dei secoli? Dite piuttosto che, se i capitalisti hanno spesso disposto dei vantaggi del potere, questo potere non è mai parso legittimo a nessuno, non c’è mai stata e non ci sarà mai una legittimità del danaro. Posto sotto inchiesta, esso si nasconde, si rintana, sparisce sotto terra. Anche oggi la sua situazione, rispetto alla società da esso controllata, non differisce molto da quella del famiglio che dorme con la padrona, vedova e matura. Egli ne riscuote i benefici, ma in pubblico chiama la sua amante -signora , e le parla col berretto in mano. Alle regine di bellezza e alle dive del cinema si tributano trionfi; non riuscirete invece a immaginarvi un Rockefeller accolto alla Gare du Nord dagli applausi delle stesse ardenti persone che si accalcano attorno a Tino Rossi. Per queste ultime non conta dimostrare tanto calorosamente l’ammirazione e l’invidia verso il piccolo corso dalla voce d’ambra. Ma arrossirebbero di mostrare tale premura al signor Ford, fosse anche bello come Robert Taylor. Il danaro è signore, va bene. Tuttavia non ha un titolare che lo rappresenti, come una semplice potenza di terz’ordine non figura nei cortei in grande uniforme. Qui ci trovate il giudice in uniforme rossa e pelliccia di coniglio, il militare fregiato in modo ridicolo come uno svizzero da cattedrale, lo svizzero stesso che apre la strada al prelato in viola, il gendarme, il prefetto, l’accademico che gli rassomiglia, i deputati in abito nero. Non ci vedete il ricco, benché egli faccia le spese della festa e abbia i mezzi per mettersi molte più piume sul cappello. Charles Maurras ha trovato un giorno un’espressione colma di grandezza e dignità umana: -Ciò che mi sorprende non è il disordine, è l’ordine. Dovremmo anche meravigliarci che in questo mondo, che pure gli appartiene, il danaro sembri sempre vergognarsi di sé. Roosevelt ricordava recentemente che un quarto della ricchezza americana si trova in mano a sessanta famiglie, le quali, del resto, per il gioco delle alleanze si riducono a una ventina. Alcuni di questi individui, senza alcun grado sulle maniche, dispongono di otto miliardi. Oh, lo so bene… I nostri giovani realisti francesi di destra sghignazzeranno: -Le duecento famiglie! ih, ih, ih! Ebbene sì, caruccio. Non so se esista un paese reale, come vogliono farci credere i dottori che spargono la vostra semenza, ma esiste, sicuramente, un patrimonio reale della Francia. Questo patrimonio dovrebbe assicurare il nostro credito. Ora, voi sapete bene che non è così. Cinquanta miliardi divisi in pezzi da cinque franchi messi a dormire in fondo alle calze di lana sono assolutamente impotenti a bilanciare l’influenza di un solo miliardo mobilitabile, col quale vengono manovrati i cambi secondo i principi della guerra napoleonica. -Che importa il numero dei reggimenti che può opporvi il nemico, se voi vi dimostrate sempre più forti laddove esso è più debole? E se gli scudi da cinque franchi sono di difficile mobilitazione, figuriamoci i campi e le foreste! Non è dunque assurdo sostenere che la ricchezza effettiva di una nazione, per enorme che appaia rispetto al capitale posseduto da un piccolo numero di individui, non è in nessun modo al sicuro dalle imprese di costoro. Credo su questo punto di condividere l’opinione di Maurras, il quale ha studiato molto prima di me il meccanismo della conquista ebraica. Diamine, perché i plutocrati francesi non avrebbero dovuto adottare i metodi di coloro ai quali hanno maritato le proprie figlie? Giovani realisti, so bene che tali considerazioni non turbano minimamente i vostri sonni innocenti. Che importanza hanno per voi i campi e le vigne? -Ecco, il franco precipita. Benone: cadrà il Ministero! Per sfortuna il problema non si pone in questi termini. Non per il franco ho paura, miei poveri ragazzi, ma per voi. Il franco finirà sempre per recuperare il suo valore: esso corrisponderà prima o poi al posto che la Francia occupa nel mondo, al bisogno che il mondo ha della Francia. Il nemico lo sa bene. Il nemico aspetta solamente l’ora in cui i suoi consiglieri finanziari strizzeranno l’occhio tacitamente ai consiglieri militari. Allora… allora il franco risalirà a poco a poco la china, ragazzi miei, ma questo non avverrà affatto con gli stessi mezzi che oggi servono a farlo discendere. Voi lo rivalorizzerete col vostro sangue, imbecilli. Confesso che la vita degli agenti di cambio diventerebbe un dramma eschileo se costoro ritenessero di scambiare tra loro, in contanti o a scadenza, non bigliettoni, ma uomini. Non occorre che la vita di un agente di cambio sia un dramma eschileo. Il popolo ha sempre pensato, sia pure vagamente, che il più piccolo filo d’oro ha la sua sorgente nei cimiteri, si caccia talvolta chissà dove, per rispuntar fuori un bel giorno in altri cimiteri, in cimiteri freschi. Che volete? Il popolo reagisce in modo diverso dal nostro al mistero del danaro, il suo istinto non è stato falsato dalla lettura degli economisti. è naturale che esso sia soprattutto sensibile alla crudeltà del dio color di luna, il quale fa sopportare ai poveri diavoli tutto il peso delle proprie delusioni sentimentali. Noi sappiamo, infatti, che il principe del mondo nasconde sotto la corazza sfavillante una ferita inconfessabile, sappiamo che nel suo cuore sfavillante si rode di passare per un imbecille accanto ai veri maestri e signori che arderebbe sedurre. Gli adulatori invitati alla sua mensa, benché lautamente compensati, fanno scivolare nelle tasche i coperti, mentre i servi sputano discretamente nei piatti. Ammettete che non si può attribuire a questo monarca una grande stima di se stesso. Certo, se il danaro non sollecita ancora il riconoscimento pubblico della sua sovranità, non è tanto per astuzia o prudenza, quanto proprio per insormontabile timidezza. Quelli che sfuggono al suo comando conoscono la sua forza al centesimo. Esso invece nulla sa della loro. I santi e gli eroi sono al corrente dei suoi pensieri, mentre il danaro non ha alcuna idea di ciò che possono pensare precisamente i santi e gli eroi. è noto che l’amore puro e semplice del danaro non ha mai prodotto che maniaci, ossessi che la società conosce appena, gementi e marcenti nelle loro tenebrose regioni, come funghi parigini. L’avarizia non è una passione, ma un vizio. Il mondo non è del vizioso, come se lo immaginano le virtù tormentate. Il mondo è del rischio. C’è di che far scoppiare dalle risa i saggi, che basano la morale sul risparmio. Ma essi, proprio essi non rischiano nulla; e vivono del rischio degli altri. Accade anche, grazie a Dio, che parimenti ci muoiano. Un certo ingegnere sconosciuto decide bruscamente, con stupore dei suoi vicini, che d’ora innanzi fabbricherà un uccello meccanico; un certo corridore ciclista, all’ora del vermut, scommette che riuscirà a pilotare una macchina così strana, e non passeranno neppure trent’anni che i Risparmiatori riceveranno sulla testa bombe di mille chili cadute dal cielo. Il mondo appartiene al rischio. Il mondo apparterrà domani a chi rischierà di più, a chi assumerà il suo rischio più fermamente. Se avessi tempo, vi metterei volentieri in guardia contro un’illusione cara ai devoti. I devoti credono facilmente che un’umanità senza Dio, come dicono loro, sarebbe sommersa dall’eccesso della dissolutezza, per esprimersi sempre nel loro linguaggio. Attendono un nuovo Basso Impero. Si può pensare che saranno delusi. La parte marcia dell’impero era costituita da un ammasso di alti funzionari predoni, ciniche bestie con un fondo di ottusità, dalle fauci aperte a tutte le schifoserie dell’Africa e dell’Asia, e dalle labbra attaccate al canale di scolo di ambedue i continenti. Qualcosa di simile alla raffinatezza di quei bruti si nota in quasi tutte le tradizioni dei collegi. Che cosa fanno i servi di collegio? Da secoli propongono all’ammirazione del giovane francese i leggendari Petronii e i Luculli, che escono dai bagni di vapore per farsi strigliare dagli efebi. A rifletterci bene, se quei tipi si lavavano tanto, era perché puzzavano. Il nardo e gli unguenti scorrevano invano sulle vergognose piaghe di cui parlano Giovenale e Luciano. Aggiungo che, anche sani, gli sciagurati crapuloni che si sdraiavano per riempirsi meglio - e una volta pieni si vuotavano come otri ficcando le grosse dita piene d’oro in fondo alla gola, senza neppure preoccuparsi di sedersi - dovevano avere alla fine del pranzo piuttosto bisogno di ripulirsi… è vero che abitavano in ville sontuose. Certo, io non ho mai amato l’uomo romano. Mi sono occorsi però molti anni perché cominciasse ad apparirmi non solo la sua grossolanità fin troppo evidente, ma una certa profonda balordaggine. Non parlo delle colossali stupide prodigalità, le murene ingrassate con gli schiavi, le lingue di usignolo, le perle disciolte nel Falerno e tante altre buffonate ugualmente ignobili, la cui volgarità ributterebbe perfino alla Canebière. (1) Penso ad altri pretesi diabolici divertimenti, che forse lo erano, su cui i vecchi istitutori di collegio si intrattengono solo a bassa voce, ma che hanno tutti l’aria di essere stati sognati da alcuni collegiali solitari. Tutti quegli imperatori panciuti manifestavano molta volontà nel male. Mancava loro, per essere realmente perversi, una certa qualità umana. Non si danna chi lo desidera. Non prende parte chi vuole al pane e al vino della perdizione. Come dire? Nessuno può offendere Dio crudelmente se non porta in sé di che amarlo e servirlo. (1) Grande strada di Marsiglia che sbocca al mare. (N’d’T’). Ora, che affari hanno con Dio questi sudicioni? Svetonio, insomma, non ha rappresentato che i soliti re negri. Che cosa c’importa del vecchio Tiberio che si trascina nella sua vasca da bagno e mette in bocca ai neonati il lembo di carne per cui un tempo fu un uomo? Migliaia di settantenni infrolliti, stimolati dalle furie dell’impotenza, fanno di questi sogni. - Ma Tiberio non li ha solamente sognati. - Ne convengo. Dubito anche che li abbia sognati. Quelle strane pratiche hanno dovuto essergli suggerite da qualche cortigiana, da qualche concubina, che per vendicarsi di abiette e spossanti schiavitù volle prendere in giro il padrone del mondo. Dopo tutto, questo padrone del mondo non rischiava nulla, neppure il tribunale correzionale. Quanto ammiro gli idioti raffinati, gonfi di cultura, mangiati dai libri come dai pidocchi, che affermano, col ditino in aria, che non succede niente di nuovo, che tutto s’è visto. Che sanno loro? L’avvento del Cristo è stato un fatto nuovo. La decristianizzazione del mondo potrebbe esserne un altro. è chiaro che uno che non abbia mai preso in considerazione questo secondo fenomeno non può farsi un’idea delle sue conseguenze. Guardo con molto stupore ancora i cattolici che alla lettura, anche distratta, del Vangelo non sembrano far caso al carattere sempre più emozionante d’una lotta, annunciata da una frase sorprendente (che non si era mai bene intesa, che tempo fa, d’altronde, sarebbe rimasta perfettamente incomprensibile): -Non potete servire Dio e il danaro. Oh, io li conosco. Se, per miracolo, uno di loro fosse afflitto dalla mia riflessione, correrà dal suo direttore spirituale, e questi gli risponderà pacificamente, in nome di innumerevoli casisti, che il consiglio di cui sopra è rivolto solo agli esseri perfetti, e che per conseguenza non dovrebbe sgomentare i proprietari. Ne convengo volentieri. Mi permetterò dunque di scrivere con la maiuscola la parola -Danaro . Voi non potete servire Dio e il danaro. La potenza del danaro si oppone alla potenza di Dio. è - mi direte - una di quelle concezioni metafisiche di cui i cultori del realismo non si danno affatto pensiero: chiedo scusa. Esprimetevi voi, dunque, altrimenti, nel vostro linguaggio, che m’importa! L’Antichità ha conosciuto i ricchi. Molti uomini hanno sofferto per un’ingiusta ripartizione dei beni, per l’egoismo, per la rapacità, per l’orgoglio dei ricchi, per quanto non si considerano forse abbastanza quelle migliaia di contadini, di pastori, di pecorai, di pescatori o di cacciatori i quali, per la penuria dei mezzi di comunicazione, vivevano una vita povera e libera nelle loro solitudini inaccessibili. Ognuno rifletta a questo fatto immenso: i corsari allora erano funzionari, essi dovevano umilmente fare i loro colpi al seguito del generale conquistatore, profittare del bottino lasciato dai militari; e Dio sa che cos’erano i militari di Roma, prima che i nobili popoli d’Occidente fornissero a questa tribù di caproni costruttori e giuristi veri condottieri e soldati. In poche parole, in quei lontani tempi i capitalisti sfruttavano il mondo col tentare spedizioni fruttuose, non l’organizzavano. Che cos’hanno di comune tra loro, vi chiedo, i pirati più o meno consolari, accaniti a riempire con ardore i loro scrigni - si rimettevano poi a godere questi beni mal conquistati, finendo per crepare di dissolutezza - e quel tal miliardario puritano, melanconico e dispeptico, capace di far oscillare in un batter d’occhio, con una firma messa da una stilografica da centoventi franchi, l’immenso carico della miseria universale? Che dire? Un esattore del diciottesimo secolo sarebbe stato piuttosto incapace di immaginare quest’esemplare d’umanità, gli sarebbe sembrato assurdo, e che lo sia è evidente: esso è il prodotto ibrido, ora però compiuto, di parecchie specie differentissime. Andate ripetendo come pappagalli che è il risultato della civiltà capitalistica. No, è lui che l’ha prodotta. Evidentemente, non si tratta di un piano concertato. è un fenomeno d’adattamento, di difesa. Il malvagio ricco d’altri tempi, il ricco gaudente e scandaloso, fanfarone, prodigo, nemico dello sforzo, aveva quasi personalmente ricevuto lo choc del cristianesimo, il suo slancio irresistibile. Certamente sarebbe riuscito a sussistere in questo mondo cristiano, ma non vi avrebbe prosperato. Non vi prosperava. Gli uomini del medio evo non erano abbastanza virtuosi per disdegnare il danaro, disprezzavano però gli uomini che lo possedevano. Risparmiavano per un po’ l’ebreo, perché l’ebreo prosciuga l’oro, come un ascesso di fissazione prosciuga il pus. Venuto il momento, vuotavano l’ebreo, esattamente come il chirurgo vuota l’ascesso. Io non approvo questo metodo, dico soltanto che esso non era in contrasto con la dottrina della Chiesa riguardo al prestito a interesse o all’usura. Invece di abolire il sistema, lo si segnava col marchio d’infamia. Altro è tollerare la prostituzione, altro deificare le prostitute come ha fatto parecchie volte nei tempi passati la canaglia mediterranea, in seno a cui la vendita del bestiame profumato è stata sempre l’industria nazionale. è chiaro che, al tempo in cui i ragazzi potevano impunemente respingere a colpi di torsoli al ghetto il più ricco capitalista portatore del distintivo giallo, il danaro mancava del prestigio morale necessario ai suoi fini. La cristianità non ha eliminato il ricco, né arricchito il povero, giacché essa non s’è mai posta per scopo l’abolizione del peccato originale. Essa avrebbe ritardato indefinitamente l’asservimento del mondo al danaro, se avesse sostenuto la gerarchia dei valori umani, se avesse mantenuto l’onore. Grazie alla stessa legge misteriosa che provvede d’una pelliccia protettiva le razze animali spostatesi dalle regioni temperate alle regioni polari, il ricco in un clima così favorevole alla sua specie ha finito per acquistare una resistenza prodigiosa, una prodigiosa vitalità. Gli è bastato trasformare pazientemente dal didentro, assieme alle condizioni economiche, le leggi, i costumi, la morale stessa. Sarebbe esagerato sostenere che ha provocato la rivoluzione intellettuale da cui è uscita la scienza sperimentale, ma dopo i primi successi di quest’ultima le ha fornito il suo appoggio e ne ha orientato le ricerche. Ha, per esempio, se non creato, per lo meno sfruttato la folgorante conquista fatta dalla meccanica dello spazio e del tempo, conquista che serve solo alle sue imprese, ha trasformato l’antico usuraio attaccato al suo banco nell’anonimo padrone del risparmio e del lavoro umano. Sotto questi colpi furiosi, la cristianità è perita, la Chiesa barcolla. Che cosa si può tentare contro una potenza che controlla il progresso moderno, di cui ha creato il mito, e tiene l’umanità sotto la minaccia delle guerre che essa sola è capace di finanziare, della guerra divenuta una delle normali forme dell’attività economica, sia che la si prepari che la si faccia? Tali punti di vista sono generalmente sgradevoli alla gente di destra. Perché? ci si domanda. Il commerciante più minuscolo guarderà come un nemico pericoloso della società l’innocente ubriacone il quale, non appena bevuta la sua paga settimanale, passando davanti alla guardia municipale si metterà a mormorare: -Morte alle vacche! , tanto per provare che è un uomo libero. Ma lo stesso esercente si reputerà solidale con Rotschild o con Rockefeller, in fondo, e da imbecille, ne sarà lusingato. Si possono dare a questo strano fenomeno molte e molte spiegazioni psicologiche. è certo che al giudizio di quasi tutti i nostri contemporanei la distinzione tra possidente e non possidente finisce per sostituirsi a tutte le altre. Il possidente si vede lui stesso come un montone spiato dal lupo. Ma agli occhi del povero diavolo, il montone diventa un pescecane affamato che s’appresta a inghiottire un pesciolino. La gola insanguinata che si spalanca all’orizzonte li metterà subito d’accordo, divorandoli tutti e due. Una simile morbosa ossessione, nata dalla paura, modifica profondamente i rapporti sociali. E, per esempio, la cortesia non esprime più uno stato d’animo, una concezione della vita. Tende a diventare un insieme di riti di cui sfugge il senso originale, un succedersi in un dato ordine di minacce, scrollate di capo, svariati coccodé di gallina e sorrisi standardizzati; il tutto riservato a una categoria di cittadini già dediti alla medesima ginnastica. I cani usano tra di loro simili cerimonie: tra loro solamente, perché li vedrete di rado annusare il sedere di un gatto o di un montone. Così i miei contemporanei gesticolano in un certo modo solo in presenza di persone della loro classe. All’epoca della mia giovinezza, abitavo in una vecchia cara casa tra gli alberi, in un minuscolo borgo del contado di Artois, pieno di mormorii di foglie e d’acque correnti. La vecchia casa non m’appartiene più, non importa. Purché i proprietari la mantengano a dovere! Purché non le facciano del male e sia la loro amica, non la loro cosa!… Non importa, non importa! Ogni lunedì, venivano i poveri per l’elemosina. Venivano talvolta da lontano, da altri villaggi, ma io li conoscevo quasi tutti per nome. Era una clientela sicurissima. Si rendevano servizi a vicenda, tra l’altro: -Son venuto anche per un tale, che soffre di reumatismi. Quando se ne presentavano più di cento, mio padre diceva: -Perdinci! gli affari riprendono!… Sì, sì, so bene, questi ricordi non hanno alcun interesse per voi, scusatemi. Volevo solamente farvi comprendere che mi hanno allevato nel rispetto dei vecchi, possidenti o non possidenti, delle vecchie signore soprattutto, pregiudizio da cui le laide pazzerelle settuagenarie di oggi non hanno potuto guarirmi. Ebbene, in quel tempo dovevo parlare ai vecchi mendicanti con il berretto in mano, e questi trovavano la cosa altrettanto naturale, non ne erano per niente commossi. Si trattava di gente della vecchia Francia, persone che sapevano vivere, e se odoravano un po’ troppo di pipa o di pizzico non emanavano puzzo di taverna, non avevan queste teste, che vedo oggi, di bottegai, di sacrestani, di uscieri, teste che hanno tutta l’aria di esser germogliate nelle cantine.
Rassomigliavano molto più a Vauban, a Turenne, ai Valois, ai Borboni, che a Philippe Henriot, per esempio, o a qualsiasi altro borghese benpensante. Non vi dico nulla di nuovo? Siete del mio stesso parere? Tanto meglio. I giovani in cui m’imbatto quotidianamente per strada sarebbero in grado di parlare spontaneamente a un vecchio operaio col cappello in mano? Va bene. Lo ammetto, concedo pure che il vecchio non crederà d’esser preso in giro. è dunque che le cose vanno meno male di quel che pensavo: il prestigio del danaro crolla. Che felicità! Infatti la vostra distinzione fra il popolo -fronte nazionale e il popolo -fronte popolare non aveva alcun valore. Non valeva nulla, per una ragione semplicissima alla portata del più fanatico lettore del -Jour o dell’-Humanité , alla portata perfino d’un ricco portinaio del quartiere Monceau, affiliato al Csar (Comités secrets d’action révolutionnaire) per devozione alla proprietà immobiliare. Non si classificano in base alle proprie opinioni politiche o sociali persone che dal gioco naturale di assurde condizioni economiche son messe nell’impossibilità di adottarne una. Come, le competenze vanno d’accordo solo per asserire gravemente che ci muoviamo in un circolo vizioso, e dovrebbero dar calmi calmi il loro verdetto - pesate le ragioni degli uni e degli altri e risolte le contraddizioni di cui non venite a capo - coloro che, invece di osservare di lontano la giostra, girano a loro volta a tutta velocità? -Ma quella gente non ha bisogno di opinioni politiche! - S’intende. Essi non ne sentiranno il bisogno in tempi felici. Ma le cose di questo mondo vanno male, lo sapete. E questo mondo è stato organizzato per loro, per loro, no? Vi sento deplorare che la Rivoluzione non è riuscita nei tempi passati. Per colpa di chi? Il popolo avrebbe seguito cattive guide. Dov’erano le buone? Doveva schierarsi con Cavaignac o con Thiers? Diceva il conte di Chambord: -Insieme e quando lo vorrete, riprenderemo il grande movimento dell”89. Ho ragione di credere che questa frase regale sia stata capita da un giovane principe francese. E se un giorno dovesse tradursi in realtà - piaccia a Dio! - la terra rimarrebbe ferma sotto i vostri piedi? Mi dite: -Noi vogliamo salvare la Francia! Bene, benissimo. Il guaio è che non siete ancora riusciti a salvare voi stessi. Pessimo augurio! -Ci sono tra noi parecchi uomini rispettabili. Certo, le persone del popolo potranno incontrarli al circolo, all’ufficio, talvolta in chiesa o alle vendite di beneficenza. è difficile organizzare questi incontri, e mi chiedo poi se essi sarebbero utili. Mettiamoci una mano sul cuore: non si trae generalmente molto profitto dalle vostre conversazioni. Alla prima cucchiaiata di minestra siete d’accordo che tutto va male, e alla frutta, con vostro rispetto, vi ingiuriate come carrettieri. è esattissimo che il popolo vi conosce male. Che importa! Una conoscenza del genere continuerebbe a lasciarlo perplesso, se si pensa che francesi tanto diversi come, per esempio, Drumont, Lyautey o Clemenceau hanno espresso l’identico giudizio, rimasto sinora senz’appello, sul vostro partito e sui vostri uomini. Posso parlare così tranquillamente, senza offendere nessuno. Non devo nulla ai partiti di destra, ed essi nulla devono a me. è vero che dal 1908 al 1914 sono stato iscritto ai -Camelots du Roi . In quel periodo del tutto chiuso, Maurras scriveva col suo stile quelle stesse cose che io ho appena finito di scrivere - ahimè! - col mio. La situazione di Maurras rispetto alle organizzazioni benpensanti dell’epoca - che non si chiamavano ancora nazionali - era precisamente quella in cui troviamo oggi il colonnello de la Rocque, che non possiamo ricordare senza malinconia. Noi non eravamo di destra. Il circolo di studi sociali che avevamo fondato portava il nome di Circolo Proudhon, ostentava questo scandaloso patronato. Votavamo per il nascente sindacalismo. Preferivamo correre l’alea d’una rivoluzione operaia, piuttosto che compromettere la monarchia con una classe rimasta da un secolo completamente estranea alla tradizione degli avi, al senso profondo della nostra storia, e il cui egoismo, la stoltezza e la cupidigia erano riusciti a stabilire una specie di servitù più inumana di quella un tempo abolita dai nostri re. Quando le due Camere approvarono all’unanimità la repressione brutale degli scioperi da parte di Clemenceau, non ci sarebbe venuta l’idea di allearci, in nome dell’ordine, con quei vecchi radicali reazionari schierandoci contro gli operai francesi. Comprendevamo benissimo che un giovane principe moderno sarebbe venuto più facilmente a trattative con i capi del proletariato, anche estremisti, che con società anonime o con banche. Mi direte che il proletariato non possiede capi ma solamente sfruttatori e demagoghi. Il problema era proprio di dare a esso i capi, quando fossimo stati sicuri al massimo che non sarebbe andato a chiederli rispettosamente a Waldeck-Rousseau o a Tardieu, che non li avrebbe scelti tra i rinnegati del tipo di Hervé o di Doriot. Alla Santé, dove noi ci recavamo a soggiornare, dividevamo fraternamente i viveri con i terrazzieri, cantando insieme volta a volta: Viva Enrico Iv o l’Internazionale. Drumont viveva ancora in quell’epoca e non c’è una riga di questo libro che egli non sottoscriverebbe con la sua nobile mano, se io meritassi quest’onore. Ho dunque il diritto di ridere in faccia agli stolidi che mi accusassero d’aver cambiato idea. Sono loro che l’hanno cambiata. Io non li riconosco più. Possono d’altronde cambiare senza rischio: i testimoni irrecusabili son quasi tutti sotto terra, e Dio sa se essi li fanno parlare, i morti! Che chiasso da colombaia! Esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c’è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c’è un popolo solo. Tutti gli sforzi che potreste fare per imporgli dal difuori una classificazione elaborata dai dottrinari politici non riuscirebbero a creare nella massa che correnti e controcorrenti, quelle di cui profittano gli avventurieri. L’idea che io mi faccio del popolo non è per nulla ispirata da un sentimento democratico. La democrazia è un’invenzione di intellettuali, all’identico modo, in fin dei conti, della monarchia di de Maistre. La monarchia non potrebbe vivere di tesi o di sintesi. Non per gusto, non per scelta, ma per vocazione profonda o, se preferite, per necessità, alla monarchia manca sempre il tempo di definire il popolo, deve prenderlo così com’è. Non può nulla senza di esso. Io credo, scriverei quasi io temo, che neanche il popolo possa nulla senza di essa. La monarchia viene a trattative con le altre classi, le quali per la complessità degli interessi che difendono, esorbitanti dal quadro della nazione, saranno sempre in qualche modo degli Stati nello Stato. è con il popolo che la monarchia governa. Mi direte che talvolta se ne dimentica. Allora perisce. Perduto il favore delle altre classi, l’ultima risorsa è di opporre le une alle altre, di manovrare. I bisogni del popolo sono troppo semplici, d’un carattere troppo concreto, d’una necessità troppo pressante. Il popolo esige il lavoro, il pane, e un onore che gli sia affine, spogliato al massimo di ogni raffinatezza psicologica, un onore che rassomigli al suo lavoro e al suo pane. I notai, gli uscieri, gli avvocati che hanno fatto la rivoluzione del 1793, credevano che si potesse differire all’infinito l’attuazione di un programma anche ridotto. Pensavano che un popolo, un vero popolo, un popolo formato da mille anni di storia potesse essere messo al fresco in cantina, in attesa del meglio. -Occupiamoci delle élites, più tardi si vedrà. Più tardi, era già troppo tardi. Nella nuova dimora costruita secondo i piani del legislatore romano non era stato previsto alcun posto per il popolo dell’antica Francia, occorreva dunque demolir tutto. Il fatto non ha nulla di sorprendente. L’architetto liberale non s’era preoccupato di allogare il suo proletariato, allo stesso modo come non s’era preoccupato d’allogare i suoi schiavi l’architetto romano. Però se gli schiavi formavano solo un’accozzaglia di iloti di ogni lingua, di ogni nazione, di ogni classe, parte d’umanità sacrificata e avvilita, quella loro miserabile tribù era un prodotto degli uomini. Invece la società moderna lascia distruggere lentamente, in fondo alla propria cantina, una meravigliosa creazione della natura e della storia. Potete naturalmente avere una diversa opinione dalla mia, però io non credo che la monarchia avrebbe lasciato deformarsi così profondamente l’onesto volto del mio paese. Abbiamo avuto monarchi egoisti, ambiziosi, frivoli, taluni cattivi, ma dubito che una famiglia di principi francesi abbia mancato di senso nazionale sino al punto da permettere che un pugno di borghesi o di piccoli borghesi, di uomini d’affari o di intellettuali, cicalando e gesticolando sul proscenio, pretendessero di impersonare la Francia, mentre il nostro vecchio popolo, così fiero, così saggio, così sensibile, diventava a poco a poco quella massa anonima che si chiama proletariato.[...]]