Thomas Berhard
Recensione
Propongo una lettura lenta se vogliamo comprendere chi parla, racconta, blatera, insulta, fantastica, divaga, delira nelle cinquecento pagine di Estinzione. Dobbiamo immaginare che Franz Josef Murau non è nato, ma è stato gettato nel mondo, come una figura gnostica, dopo aver commesso qualche peccato innominabile ... Come Dostoevskij, al tempo delle Memorie del sottosuolo, Thomas Bernhard pensa che l'artista debba travestirsi da ossesso: soltanto l'ossessione ci consente di distruggere le folte difese che nascondono la verità, e di penetrare là in fondo, nell'abisso, dove vive il segreto. Solo il fuoco, il gelo, la terribile "arte dell'esagerazione", ci permettono di scrivere libri degni di questo nome».
ESTINZIONE
Sento la morte che mi artiglia di continuo ora la gola ora le reni. Ma io non sono come gli altri: la morte mi pervade interamente. MONTAIGNE
IL TELEGRAMMA
Dopo il colloquio col mio allievo Gambetti, col quale mi sono incontrato il ventinove al Pincio, scrive Murau, Franz Josef, per concordare le date delle lezioni di maggio, e la cui superiore intelligenza anche ora, dopo il mio ritorno da Wolfsegg, mi ha sorpreso, anzi entusiasmato e rinfrancato a tal punto che, contro la mia abitudine di andare in piazza della Minerva direttamente da via Condotti, in uno stato d’animo sempre più allegro anche al pensiero di essere in effetti, ormai da tempo, di casa a Roma e non più in Austria, ho raggiunto la mia abitazione attraverso la Flaminia e piazza del Popolo percorrendo l’intero Corso, ricevetti verso le due del pomeriggio il telegramma con cui mi si comunicava la morte dei miei genitori e di mio fratello Johannes. Genitori e Johannes deceduti in incidente. Caecilia, Amalia. Col telegramma in mano, mi avvicinai tranquillo e lucido alla finestra del mio studio e guardai giù in piazza della Minerva, completamente deserta. Avevo dato a Gambetti cinque libri, convinto che gli sarebbero stati utili e necessari per le settimane seguenti, e gli avevo affidato il compito di studiare quei cinque libri con la massima attenzione e con la lentezza che, nel suo caso, è d’obbligo: Siebenkäs di Jean Paul, Il processo di Franz Kafka, Amras di Thomas Bernhard, La portoghese di Musil, Esch o l’anarchia di Broch, e ora, dopo aver aperto la finestra per respirare meglio, pensai che avevo preso la decisione giusta dando a Gambetti proprio quei cinque libri e non altri, perché nel corso delle nostre lezioni avrebbero assunto per lui importanza sempre maggiore, e facendo un accenno discreto al mio proposito di discutere con lui, la volta seguente, delle Affinità elettive e non del Mondo come volontà e rappresentazione. Parlare con Gambetti era stato di nuovo, anche quel giorno, un grande piacere per me, dopo i discorsi faticosi e grevi con la famiglia a Wolfsegg, limitati alle necessità quotidiane, elementari ed esclusivamente private. Le parole tedesche sono appese come piombi alla lingua tedesca, dissi a Gambetti, e ogni volta gravano sullo spirito abbassandolo a un livello che a quello spirito è dannoso. Il pensiero tedesco e il discorso tedesco si paralizzano presto sotto il peso disumano di una lingua che soffoca ogni cosa pensata ancor prima che la si pronunci; nella lingua tedesca il pensiero tedesco ha potuto evolversi solo a fatica e mai dispiegarsi del tutto, a differenza del pensiero romanzo nelle lingue romanze, come dimostra la storia dei secolari sforzi dei tedeschi. Sebbene io abbia maggior considerazione dello spagnolo, probabilmente perché mi è più familiare, Gambetti mi diede quella mattina un’altra preziosa lezione sull’agilità, leggerezza e infinità dell’italiano, che sta al tedesco come un bambino di famiglia agiata e felice, cresciuto in piena libertà, sta a un bambino di famiglia poverissima, oppresso, picchiato e reso astuto dalle botte. Quanto più, dissi a Gambetti, vanno apprezzati allora i risultati raggiunti dai nostri filosofi e scrittori. Ogni parola, dissi, trae immancabilmente il loro pensiero verso il basso, ogni frase schiaccia a terra qualsiasi cosa essi abbiano osato pensare, e quindi schiaccia a terra sempre tutto. Per questo anche la loro filosofia, e ogni loro poesia, è come di piombo. D’improvviso ho recitato a Gambetti, prima in tedesco e poi in italiano, una frase di Schopenhauer tratta dal Mondo come volontà e rappresentazione, e ho cercato di dimostrare a lui, Gambetti, quanto pesantemente scendesse il piatto tedesco della bilancia simulato dalla mia mano sinistra, mentre quello italiano, per così dire, balzava in alto con la mia mano destra. Per il divertimento mio e di Gambetti citai diverse frasi di Schopenhauer prima in tedesco, poi nella mia traduzione italiana e, perché fossero ben visibili al mondo intero, per così dire, ma soprattutto a Gambetti, le posi sulla bilancia delle mie mani, e ne trassi gradualmente, portandolo all’esasperazione, un gioco che si concluse con frasi di Hegel e con un aforisma di Kant. Purtroppo, dissi a Gambetti, le parole pesanti non sono sempre quelle di maggior consistenza, così come le frasi pesanti non sono sempre quelle di maggior consistenza. Il mio gioco mi aveva presto sfinito. Fermo dinanzi all’Hotel Hassler, feci a Gambetti un breve racconto del mio viaggio a Wolfsegg, che risultò alla fine, anche per me, troppo dettagliato, anzi effettivamente prolisso. Avevo cercato di suggerirgli un paragone fra le nostre due famiglie, di opporre l’elemento tedesco della mia a quello italiano della sua, ma in fin dei conti riuscii solo a sminuire la sua attraverso la mia, cosa che non poteva non distorcere il mio racconto e, anziché offrire a Gambetti chiarificazione e insegnamento, turbarlo sgradevolmente. Gambetti è un buon ascoltatore e ha un orecchio finissimo, educato alla mia scuola, per la veridicità e la coerenza di un’esposizione. Gambetti è mio allievo e, all’inverso, io sono allievo di Gambetti. Io imparo da Gambetti almeno quanto Gambetti impara da me. Il nostro è il rapporto ideale, perché una volta sono io l’insegnante di Gambetti e lui è il mio allievo, un’altra volta è Gambetti il mio insegnante e io sono il suo allievo, e spesso accade che nessuno di noi due sappia se al momento è Gambetti l’allievo e io l’insegnante, o viceversa. Significa allora che si è instaurata la nostra condizione ideale. Ufficialmente, però, io resto l’insegnante di Gambetti e da Gambetti, per l’esattezza dal facoltoso padre di Gambetti, vengo pagato per la mia attività di insegnante. Due giorni dopo il ritorno dalle nozze di mia sorella Caecilia col fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo, suo marito, il mio attuale cognato, debbo rifare la borsa da viaggio disfatta appena ieri, che non ho ancora riposto e ho lasciato sulla poltrona accanto alla scrivania, e tornare a Wolfsegg, che negli ultimi anni, in effetti, è diventata per me, nel complesso, più o meno repellente, pensai, sempre guardando dalla finestra spalancata giù in piazza della Minerva, deserta, e questa volta non si tratta di un’occasione ridicola e grottesca, ma dell’occasione terribile. Anziché conversare con Gambetti sul Siebenkäs o sulla Portoghese, dovrò consegnarmi alle mie sorelle che mi aspettano a Wolfsegg, mi dissi, anziché parlare con Gambetti delle Affinità elettive, dovrò parlare con le mie sorelle del funerale dei nostri genitori e di nostro fratello, e della loro eredità. Anziché andare su e giù per il Pincio con Gambetti, dovrò andare in municipio e al cimitero e in parrocchia, e litigare con le mie sorelle sulle formalità dei funerali. Mentre rimettevo nella borsa gli indumenti che avevo tirato fuori solo la sera avanti, cercai di farmi un’idea precisa delle conseguenze che la morte dei miei genitori e la morte di mio fratello avrebbero avuto, ma non giunsi a nessuna conclusione. Ero però consapevole, com’è naturale, di ciò che la morte di quelle tre persone, le più vicine a me almeno sulla carta, ora richiedeva: tutta la mia energia, tutta la mia forza di volontà. La calma con cui, a poco a poco, avevo stipato nella borsa l’occorrente per il viaggio, e con cui intanto avevo già messo in conto il mio immediato futuro, scosso da quella disgrazia senza dubbio terribile, cominciò ad apparirmi sinistra solo molto tempo dopo aver richiuso la borsa. La domanda se avessi amato i miei genitori e mio fratello, che avevo subito respinto con la parola naturalmente, rimase non solo nella sostanza, ma anche di fatto senza risposta. Già da tempo non avevo più né con i miei genitori né con mio fratello un cosiddetto buon rapporto, ma soltanto un rapporto fatto di tensioni e negli ultimi anni soltanto di indifferenza. Già da tempo non volevo più saperne di Wolfsegg e quindi di loro, e loro viceversa non volevano più saperne di me, ecco la verità. Questa consapevolezza aveva posto il nostro reciproco rapporto su un piano ormai appena necessario, più o meno, a conservarlo in vita. I tuoi genitori, pensai, ti hanno dimesso vent’anni fa non soltanto da Wolfsegg, a cui volevano incatenarti a vita, ma anche dai loro sentimenti. In questi vent’anni mio fratello mi ha invidiato senza sosta per essermene andato, per la mia megalomane indipendenza, come mi disse una volta, per la libertà che non conosce riguardi, e mi ha odiato. Nella loro diffidenza verso di me, le mie sorelle avevano sempre oltrepassato i confini del lecito tra fratelli, anch’esse mi hanno perseguitato con il loro odio dall’istante in cui ho voltato le spalle a Wolfsegg e dunque a loro. Ecco la verità. Sollevai la borsa, come sempre era troppo pesante, pensai che in fondo era perfettamente inutile, visto che a Wolfsegg ho già tutto. Perché mi trascino dietro la borsa? Decisi di andare a Wolfsegg senza borsa, tirai fuori le cose che avevo appena messo dentro e le sistemai una dopo l’altra nell’armadio. Amiamo i nostri genitori, com’è naturale, e i nostri fratelli, com’è altrettanto naturale, pensai, di nuovo alla finestra e guardando giù in piazza della Minerva, sempre deserta, e non ci accorgiamo che a partire da un certo momento li odiamo, contro la nostra volontà ma con la stessa naturalezza con cui prima li abbiamo amati, per tutti i motivi di cui abbiamo preso coscienza solo anni, spesso solo decenni più tardi. Non siamo più in grado di indicare il momento preciso in cui non amiamo più i genitori e i fratelli, e anzi li odiamo, né ci sforziamo più di individuare quel momento preciso, perché in fondo ne abbiamo paura. Chi abbandona i suoi contro il loro volere, e per giunta nella maniera più inesorabile, come ho fatto io, deve aspettarsi il loro odio, e quanto più grande è stato il loro amore per noi, tanto più grande sarà il loro odio quando avremo messo in atto ciò che abbiamo giurato di fare. Per decenni ho sofferto del loro odio, mi dissi ora, ma già da anni non ne soffro più, ho fatto l’abitudine al loro odio e non mi ferisce più. E inevitabilmente il loro odio verso di me ha destato il mio odio verso di loro. Anch’essi, negli ultimi anni, non hanno più sofferto del mio odio. Disprezzavano il loro romano, come io disprezzavo loro, quelli di Wolfsegg, e in fondo non pensavano più a me, come io per la maggior parte del tempo non pensavo più a loro. Mi avevano sempre definito un ciarlatano e un chiacchierone, un parassita che sfruttava loro e il mondo intero. Io per loro non trovavo altra parola che imbecilli. La loro morte, e può essere solo un incidente d’auto, mi dissi, non modifica in nulla questa realtà. Non avevo sentimentalismi da temere. Leggendo il telegramma non mi tremarono neppure le mani, non una scossa mi attraversò il corpo. Darò comunicazione a Gambetti che i miei genitori e mio fratello sono morti e che per qualche giorno dovrò sospendere le lezioni, pensai, solo per qualche giorno, perché più di qualche giorno non mi tratterrò a Wolfsegg; una settimana sarà sufficiente, anche nel caso di formalità che si complicassero in maniera imprevista. Per un istante ho pensato di portare Gambetti con me, perché avevo paura della superiorità di forze di quelli di Wolfsegg, e volevo avere a fianco almeno una persona con cui essere in grado di respingere l’assalto di Wolfsegg, una persona che mi fosse affine e un compagno in una situazione disperata, probabilmente senza via d’uscita, ma abbandonai subito quel pensiero, perché volevo evitare che Gambetti fosse messo di fronte a Wolfsegg. In quel caso vedrebbe che tutto ciò che negli ultimi anni gli ho detto di Wolfsegg è nulla a paragone della verità e della realtà che avrebbe sotto gli occhi, pensai. Porto Gambetti con me, pensavo un istante, non lo porto con me, pensavo l’istante successivo. Alla fine decisi di non portarlo. Con Gambetti provocherei a Wolfsegg fin troppo stupore, qualcosa di così sensazionale da risultarmi probabilmente, nel complesso, disgustoso, pensai. Uno come Gambetti, a Wolfsegg non lo capiscono affatto. Anche estranei del tutto inoffensivi a Wolfsegg li hanno sempre accolti solo con avversione e odio, hanno sempre rifiutato ogni cosa estranea, non hanno mai voluto avere a che fare, da un istante all’altro com’è mia abitudine, con cose estranee o persone estranee. Portare Gambetti a Wolfsegg significava offendere Gambetti di proposito, e in definitiva ferirlo profondamente. Io stesso sono a malapena in grado di tener testa a Wolfsegg, figuriamoci una persona e un carattere come Gambetti. Mettere Gambetti di fronte a Wolfsegg potrebbe effettivamente portare a una catastrofe, pensai, la cui vera vittima non sarebbe poi altri che Gambetti stesso. Già in passato avrei potuto portare Gambetti a Wolfsegg, pensai, ma a ragion veduta me ne ero sempre astenuto, sebbene molto spesso mi fossi detto che andare a Wolfsegg con Gambetti avrebbe potuto essere utile, oltre che per me, anche per Gambetti stesso. Con una verifica in prima persona da parte di Gambetti, i miei racconti su Wolfsegg acquisterebbero ai suoi occhi un’autenticità che nulla, altrimenti, potrebbe loro conferire. Conosco Gambetti ormai da quindici anni e non l’ho portato a Wolfsegg neppure una volta, pensai. Può darsi che Gambetti a questo proposito la pensi diversamente da me, mi dissi ora, perché, com’è naturale, è inconsueto non invitare e non portare una sola volta in quindici anni, nel luogo che è il mio luogo d’origine, una persona con cui da quindici anni intrattengo rapporti più o meno confidenziali. Per quale ragione, in effetti, in tutti questi lunghi quindici anni non ho scoperto davanti a Gambetti le carte di casa mia? pensai. Perché ne ho sempre avuto paura, e continuo ad averne paura. Perché, da un lato, voglio proteggermi dal fatto che lui conosca Wolfsegg, e quindi dal fatto che conosca le mie origini, e perché io stesso voglio proteggere lui da quella conoscenza che, com’è probabile, produrrebbe in lui solo effetti devastanti. Nei quindici anni del nostro rapporto non ho mai voluto esporre Gambetti a Wolfsegg. Anche se, ogni volta, sarebbe stata per me la cosa più gradevole andare a Wolfsegg in compagnia di Gambetti anziché da solo, e trascorrere con Gambetti le mie giornate di Wolfsegg, mi sono sempre rifiutato di portare Gambetti con me. Naturalmente Gambetti mi avrebbe accompagnato a Wolfsegg in qualsiasi momento. Anzi, si è sempre aspettato un mio invito. Ma io non l’ho invitato. Oltre che triste, un funerale è un’occasione affatto disgustosa, mi dissi ora, non pregherò Gambetti di venire con me a Wolfsegg proprio in questa occasione. Gli comunicherò che i miei genitori sono morti, senza averne la conferma dirò che hanno perso la vita in un incidente d’auto con mio fratello, ma non farò il minimo accenno al fatto che debba accompagnarmi. Non più tardi di due settimane fa, prima di andare a Wolfsegg per le nozze di mia sorella, ho parlato a Gambetti dei miei genitori nei termini più crudi, e ho definito mio fratello un carattere più o meno cattivo e un incorreggibile imbecille. Ho descritto Wolfsegg come una roccaforte dell’ottusità. Ho esteso la tremenda durezza del clima che ha sempre regnato nella regione di Wolfsegg, e ha sempre dominato tutto, alla gente che è costretta a vivere, o meglio a sopravvivere a Wolfsegg, e che, come quel clima, è di una spietatezza che addirittura annienta. Ma ho menzionato anche, in quell’occasione, gli assoluti pregi di Wolfsegg, le belle giornate d’autunno, il gelo invernale e il silenzio invernale, da me amati come null’altro, nei boschi e nelle vallate circostanti. Ho detto che lassù la natura è spietata, ma perfettamente limpida e grandiosa. Che di quella natura perfettamente limpida e grandiosa la gente che la abita non si accorge più, perché nella sua ottusità non ne è più capace. Se non ci fossero i miei ma soltanto le mura fra cui vivono, avevo detto allora a Gambetti, non potrei far altro che considerare Wolfsegg un dono della fortuna, perché corrisponde al mio spirito come nessun altro luogo. Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va, avevo detto. Con chiarezza mi sento pronunciare questa frase, e il tremendo significato che ora essa assumeva per la morte effettiva dei miei genitori e di mio fratello mi spinse a ripetere questa frase a voce alta, sempre stando alla finestra e guardando giù in piazza della Minerva. Ripetendo ora, a voce piuttosto alta e addirittura con effetto teatrale, come fossi un attore che deve provarla per declamarla in pubblico dinanzi a un vasto uditorio, la frase Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va, pronunciata allora davanti a Gambetti con avversione estrema nei confronti degli interessati, la sdrammatizzai all’istante. D’un tratto, aveva perduto ogni potere distruttivo. Tuttavia quella frase Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va era subito tornata in primo piano e mi dominava. Mi sforzai di metterla a tacere, ma non si lasciò soffocare. Non mi limitai a dirla, la borbottai più volte fra me e me per renderla ridicola, ma dopo i miei tentativi di soffocarla e di renderla ridicola era ancora più minacciosa. D’improvviso aveva il peso che nessuna mia frase ha mai avuto. Con questa frase non puoi combattere, mi dissi, con questa frase dovrai vivere. Questa constatazione portò il mio stato d’animo a placarsi di colpo. Pronunciai ancora una volta la frase Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va così come l’avevo pronunciata davanti a Gambetti. Ora aveva lo stesso significato di quel giorno davanti a Gambetti. In piazza della Minerva, tranne i piccioni, non c’era anima viva. D’improvviso sentii freddo e chiusi la finestra. Sedetti alla scrivania. Sulla scrivania era rimasta la posta, fra l’altro una lettera di Eisenberg, una lettera di Spadolini, l’arcivescovo e amante di mia madre, e un biglietto di Maria. Gli inviti dei diversi istituti romani di cultura e tutti gli altri inviti privati li ho gettati subito nel cestino, insieme ad alcune lettere che già a un esame superficiale si erano rivelate lettere minatorie o di postulanti, gente che mi chiedeva denaro o voleva sapere cosa io realmente mi prefigga con le mie idee e il mio stile di vita, riferendosi ad alcuni articoli di giornale che ho pubblicato di recente e che non vanno a genio a quella gente perché, com’è naturale, sono pensati e scritti contro tutta quella gente; lettere dall’Austria, naturalmente, scritte da gente che col suo odio mi perseguita fino a Roma. Da anni ricevo queste lettere, che non sono affatto scritte da pazzi, come avevo creduto in un primo tempo, ma da persone effettivamente in grado di intendere e di volere, ineccepibili sotto il profilo giuridico, per così dire, che mi minacciano fra l’altro di persecuzione e morte a causa dei miei scritti nei più diversi giornali e riviste non solo di Francoforte e Amburgo, ma anche di Milano e Roma. Di continuo trascino l’Austria nel fango, dice quella gente, diffamo la patria senza alcun pudore, non perdo occasione per attribuire agli austriaci meschini e abietti sentimenti cattolico-nazionalsocialisti, mentre in verità in Austria non c’è traccia di quei meschini e abietti sentimenti cattolico-nazionalsocialisti, scrive quella gente. L’Austria non è meschina e non è abietta, l’Austria è sempre stata solo bella, scrive quella gente, e gli austriaci sono un popolo rispettabile. Queste lettere le ho sempre buttate via subito, anche stamattina. Ho conservato soltanto la lettera di Eisenberg, l’invito del mio compagno di studi, oggi rabbino di Vienna, a incontrarci a Venezia, dove ha degli impegni a fine maggio, scrive, e dove conta di andare con me al Teatro La Fenice, non come l’anno scorso, scrive, per L’histoire du soldat di Stravinskij o qualcosa del genere, ma per il Tancredi di Monteverdi. Accetto l’invito di Eisenberg, naturalmente, gli risponderò subito, pensai, ma subito significa dopo il mio ritorno da Wolfsegg. Camminare per Venezia con Eisenberg, già la semplice compagnia di Eisenberg, pensai, mi ha sempre procurato un grande piacere. Ogni volta che viene in Italia, anche solo per qualche giorno a Venezia, me lo fa sapere, pensai, mi invita e mi propone sempre un piacere altamente artistico, come dice lui, e il Tancredi alla Fenice è senza dubbio un piacere del genere, pensai. Mi avevano mandato una copia del «Corriere della Sera» in cui è pubblicato il mio breve articolo su Leoš Janáček. Aprii il giornale pieno di aspettative, ma al mio articolo, in primo luogo, non avevano dato sufficiente evidenza, il che mi mise subito di malumore; in secondo luogo, già alla prima rapida lettura scoprii una serie di imperdonabili refusi, la cosa più spaventosa che mi possa capitare. Gettai via il «Corriere» e rilessi ciò che Maria ha scritto nel biglietto che mi ha messo nella cassetta delle lettere. La mia grande poetessa scrive che sabato sera vuole andare a cena fuori con me, con te solo, a proposito, ha scritto nuove poesie, per te, scrive. La mia grande poetessa è davvero produttiva negli ultimi tempi, pensai, e aprii il cassetto della scrivania in cui conservavo alcune fotografie della mia famiglia. Osservai con insistenza la fotografia in cui, alla stazione Victoria di Londra, i miei genitori stanno salendo sul treno per Dover. Avevo scattato io quella fotografia, a loro insaputa. Erano venuti a trovarmi, nel Sessanta quando studiavo a Londra, e dopo un soggiorno di due settimane in Inghilterra che li aveva portati fino a Glasgow e Bristol, erano partiti per Parigi, dove li attendevano le mie sorelle, che a loro volta, in arrivo da Cannes dove erano andate a trovare nostro zio Georg, avevano raggiunto Parigi per incontrare i miei genitori.
Nel Sessanta avevo ancora un rapporto almeno tollerabile con i miei genitori, pensai. Avevo espresso il desiderio di studiare in Inghilterra, e loro non si erano minimamente opposti, probabilmente perché supponevano che dopo l’università in Inghilterra sarei tornato a Vienna e infine a Wolfsegg, per realizzare il loro desiderio di vedermi dirigere e amministrare Wolfsegg insieme a mio fratello. Ma già allora non avevo intenzione di tornare a Wolfsegg, in effetti ero partito da Wolfsegg per l’Inghilterra e per Londra con il solo pensiero di non tornare mai più a Wolfsegg. Odiavo l’agricoltura, che era la passione di mio padre e di mio fratello. Odiavo tutto ciò che aveva a che fare con Wolfsegg, perché là aveva sempre contato solo il vantaggio economico della famiglia, null’altro. A Wolfsegg, da quando esiste ed è nelle mani della mia famiglia, nessuno si è mai interessato d’altro che della sua resa economica, e di come col tempo si possa ricavare un profitto sempre maggiore dalle sue aree produttive, dunque dalla tenuta agricola, che ancor oggi abbraccia pur sempre dodicimila ettari, e dalle miniere. Non avevano altro in testa se non lo sfruttamento della loro proprietà. Fingevano sempre, è vero, di occuparsi anche di qualcosa che non fosse solo la loro avidità di profitto, di avere interessi culturali, addirittura artistici, ma la realtà era sempre stata deprimente e umiliante. Avevano migliaia di libri, è vero, nelle biblioteche di Wolfsegg, che ospita cinque biblioteche, e con assurda regolarità spolveravano quei libri tre o quattro volte l’anno; ma i libri delle loro biblioteche non li avevano mai letti. Tenevano le biblioteche sempre perfettamente pulite, per poterle mostrare ai visitatori senza doversene vergognare, per vantarsi dinanzi a quei visitatori e per esibire i loro tesori a stampa, ma di quelle migliaia, anzi decine di migliaia di tesori non facevano mai personalmente l’uso che sarebbe stato naturale. Le cinque biblioteche di Wolfsegg, quattro nella casa padronale e una nelle dipendenze, erano state fondate dai miei antenati, i miei genitori non vi avevano aggiunto un solo volume. Si dice che le nostre biblioteche, nell’insieme, abbiano lo stesso valore della biblioteca dell’abbazia di Lambach, celebre in tutto il mondo. Mio padre non leggeva libri, mia madre si limitava a sfogliare ogni tanto vecchi libri di scienze naturali, per dilettarsi delle incisioni dai magnifici colori che ornano quei libri. Le mie sorelle non mettevano mai piede nelle biblioteche, se non per mostrarle a qualche visitatore che aveva espresso il desiderio di vedere le nostre biblioteche. La fotografia che avevo scattato ai miei genitori alla stazione Victoria ritrae i miei genitori in un’età in cui viaggiavano ancora e non avevano malattie che li tormentassero. Portavano impermeabili appena comprati da Burberry e avevano appesi al braccio ombrelli nuovi, anch’essi comprati da Burberry. Da tipici continentali, volevano sembrare più inglesi degli inglesi, e avevano quindi un’aria grottesca, più che raffinata e distinta; guardando quella fotografia mi ero sempre messo a ridere, ma ora la voglia di ridere mi era passata. Mia madre aveva un collo un po’ troppo lungo per poter essere ancora considerato bello, e nel momento in cui le avevo scattato la foto, mentre saliva sul treno, lo allungava di qualche centimetro in più del solito, rendendo doppiamente ridicola un’immagine già di per sé ridicola. Il portamento di mio padre era sempre quello di un uomo che non sa nascondere la cattiva coscienza nei confronti del mondo intero ed è infelice per questo. Quel giorno, quando scattai la foto, portava il cappello calcato sulla fronte un poco più del solito, sicché nella mia foto appare molto più goffo di quanto non fosse in realtà. Non saprei dire perché io abbia conservato proprio questa foto dei miei genitori. Un giorno lo scoprirò, pensai. Misi la foto sulla scrivania e cercai quell’altra, fatta appena due anni prima sulla riva del Wolfgangsee, in cui si vede mio fratello sulla sua barca a vela, che tiene tutto l’anno a Sankt Wolfgang in una rimessa dei Fürstenberg. L’uomo della foto è un individuo esacerbato, distrutto dal fatto di vivere solo con i genitori. L’abbigliamento sportivo stenta a coprire le malattie che si sono già completamente impossessate di lui. Il suo sorriso è tormentato, come si usa dire, e l’unico che può aver fatto la foto è suo fratello, ossia io. Quando gli diedi una copia della foto, lui la stracciò senza commenti. Misi la foto di mio fratello accanto alla foto in cui i miei genitori, a Londra, salgono sul treno per Dover, e le osservai entrambe a lungo. Hai amato queste persone finché loro ti hanno amato, e le hai odiate dal momento in cui loro ti hanno odiato. Com’è naturale, non ho mai pensato che sarei loro sopravvissuto; al contrario, ero sempre stato dell’avviso che un giorno sarei stato io il primo a morire. La situazione che si è ora instaurata è quella a cui non ho mai pensato, a tutte le altre situazioni possibili ho sempre continuato a pensare, a questa mai. Molto spesso avevo immaginato e molto spesso anche sognato di morire, di lasciarmeli alle spalle, di lasciarli soli senza di me, di averli liberati di me morendo, mai che sarebbero stati loro a lasciarmi. Il fatto che ora fossero morti loro e non io, era per me al momento non solo il più imprevisto che si potesse concepire, era per me la cosa sensazionale. Quell’elemento sensazionale, la natura sensazionale di quell’evento elementare era ciò che mi traumatizzava, non, in sé, il fatto che ora fossero morti, e morti in maniera irrevocabile. I miei genitori, coppia che per tutta la vita avevo considerato diabolica, seppur effettivamente sprovveduta, sempre e in tutto, si erano ridotti all’improvviso, da un istante all’altro, a quella foto grottesca e ridicola che avevo sulla scrivania e che osservavo con insistenza e sfacciataggine estreme. Altrettanto la foto di mio fratello. Per tutta la vita hai temuto queste persone come null’altro al mondo, pensai, e di quel timore hai fatto la più grande mostruosità della tua vita, mi dissi. Per tutta la vita non sei riuscito a sottrarti a queste persone, nonostante i tuoi continui tentativi; ogni tuo tentativo in questa direzione è in fin dei conti fallito, per sfuggire loro sei andato a Vienna, per sfuggire loro sei andato a Londra, a Parigi, ad Ankara, a Costantinopoli, infine a Roma, invano. Occorreva che morissero in un incidente e si riducessero a questo ridicolo pezzo di carta che si chiama fotografia, per non poterti più fare del male. La mania di persecuzione è finita, pensai. Sono morti. Sei libero. Per la prima volta, guardando la fotografia che lo ritrae a Sankt Wolfgang sulla sua barca a vela, provai compassione per mio fratello. Nella foto aveva ora un’aria ancora più bizzarra di quanto avessi notato in precedenza. La fredda lucidità con cui lo guardavo mi spaventò. Anche i miei genitori erano bizzarri, nella foto che li ritrae alla stazione Victoria. Tutti e tre, dinanzi a me sulla scrivania, alti meno di dieci centimetri, vestiti alla moda e con un portamento grottesco del corpo dal quale si può desumere un altrettanto grottesco portamento dello spirito, erano ora più bizzarri di quanto avessi notato in precedenza. La fotografia mostra solo l’istante grottesco e quello bizzarro, pensai, non mostra una persona com’è stata nel complesso per tutta la vita, la fotografia è una falsificazione infida e perversa, ogni fotografia, chiunque la scatti e chiunque essa ritragga, è un oltraggio assoluto alla dignità umana, una mostruosa falsificazione della natura, un atto meschino e disumano. D’altro lato mi parve che le due foto caratterizzassero in maniera addirittura straordinaria le persone ritratte, sia i miei genitori sia mio fratello. Questi sono loro come sono realmente, mi dissi, questi erano loro com’erano realmente. Avrei anche potuto portar via da Wolfsegg e conservare per me altre fotografie dei miei genitori e di mio fratello, ho portato via e conservato queste perché esse ritraggono i miei genitori e mio fratello, nell’istante in cui queste fotografie sono state scattate da me, così come i miei genitori realmente sono, come mio fratello realmente è. Nel fare questa constatazione non provai la minima vergogna. Non era un caso che avessi evitato di distruggere proprio quelle fotografie, che le avessi persino portate a Roma e custodite nella scrivania. Qui non ho dei genitori idealizzati, mi dissi, qui ho i miei genitori come sono, com’erano, mi corressi. Qui ho mio fratello com’è stato. Erano tutti e tre così timidi, così meschini, così bizzarri. Del resto, pensai, non avrei tollerato nella mia scrivania una falsificazione dei miei genitori e di mio fratello. Solo le immagini reali, le immagini vere. Solo ciò che è assolutamente autentico, per quanto possa essere grottesco, forse addirittura repellente. E proprio quelle foto dei miei genitori e di mio fratello, una volta, un anno fa, le ho mostrate a Gambetti, ricordo ancora dove, nel caffè di piazza del Popolo. Aveva guardato le foto senza far commenti. Ricordo soltanto che dopo aver guardato le foto chiese: sono molto ricchi i tuoi genitori? Io risposi: sì. Ricordo anche che dopo ho provato un senso di imbarazzo per avergli mostrato le foto. Non avresti mai dovuto mostrargli proprio quelle foto, mi dissi allora. Era stata una sciocchezza. C’erano e ci sono innumerevoli fotografie in cui i miei genitori hanno effettivamente l’aria di persone serie, come si usa dire, ma non corrispondono all’immagine che dei miei genitori mi sono fatto per tutta la vita. Anche di mio fratello esistono fotografie serie, e anch’esse sono falsificazioni. A Gambetti non avrei mai mostrato una di quelle falsificazioni. Del resto, non c’è quasi nulla al mondo che io detesti quanto mostrare fotografie. Non ne mostro e non me ne faccio mostrare. L’aver mostrato a Gambetti la foto dei miei genitori alla stazione Victoria è stata un’eccezione. A che scopo l’avevo fatto? Gambetti, da parte sua, non mi aveva mai mostrato fotografie. È naturale, io conosco i suoi genitori e i suoi fratelli e non avrebbe senso mostrarmi foto che li ritraggono, né a lui sarebbe mai venuto in mente di farlo. In fondo detesto le fotografie e non mi è mai venuto in mente di far fotografie, con quell’eccezione londinese, con l’eccezione di Sankt Wolfgang, di Cannes, e non ho mai posseduto una macchina fotografica in vita mia. Disprezzo quelli che fotografano di continuo e girano tutto il tempo con la macchina fotografica appesa al collo. Sono di continuo alla ricerca di un soggetto e fotografano tutto, anche le cose più insensate. Non hanno altro in testa, di continuo, se non di esibire se stessi e sempre nella maniera più ripugnante, senza però esserne consapevoli. Nelle loro foto catturano un mondo perversamente deformato, che col mondo vero non ha niente in comune se non la perversa deformazione di cui si sono resi colpevoli. Fotografare è una mania meschina da cui è contagiato a poco a poco l’intero genere umano, perché della deformazione e della perversità è non solo innamorato, ma addirittura pazzo e col tempo, a forza di fotografare, scambia in effetti il mondo deformato e perverso per l’unico vero. Quelli che fotografano commettono uno dei crimini più meschini che si possano commettere, perché nelle loro fotografie trasformano la natura in uno spettacolo perverso e grottesco. Nelle loro fotografie le persone sono marionette ridicole, stravolte, anzi storpiate fino a diventare irriconoscibili, che, ottuse e disgustose, fissano spaventate il loro ignobile obiettivo. Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana di tutte le arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti alla smorfia perversa dell’una e dell’altro. Non ho mai visto in una fotografia una persona naturale, ossia vera e reale, come non ho mai visto in una fotografia una natura vera e reale. La fotografia è la più grande sciagura del ventesimo secolo. Guardare fotografie mi ha sempre nauseato, più di ogni altra cosa. Ma, mi dissi ora, per quanto deformati i miei genitori e mio fratello appaiano in queste uniche fotografie scattate da me con la macchina fotografica di mio fratello, dietro la perversità e la deformazione esse mostrano tuttavia, quanto più le osservo, la verità e la realtà delle persone per così dire fotografate, perché a me non interessano le foto, e quelli che vi sono raffigurati non li vedo come li mostra la foto nella sua meschina deformazione e perversità, ma come li vedo io. I miei genitori alla stazione Victoria di Londra, avevo scritto sul retro della foto. Sulla seconda, che ritrae mio fratello a Sankt Wolfgang, Mio fratello in barca a vela a Sankt Wolfgang. Rovistai nel cassetto e tirai fuori la foto in cui le mie sorelle Amalia e Caecilia posano davanti a quella villa di Cannes che mio zio Georg, il fratello di mio padre, ha comprato con il denaro con cui suo fratello, dopo la morte dei miei nonni, lo ha liquidato una volta per tutte, come si usa dire, e mio zio è stato tanto abile nel collocare diversi pacchetti azionari in molte parti della Francia da poterne sempre trarre di che vivere non solo con agio, ma addirittura con un certo lusso a lui congeniale. Al contrario di suo fratello, mio padre, ha estratto la carta migliore, pensai ora osservando la fotografia in cui le mie sorelle mostrano le loro facce più o meno beffarde. Lo zio Georg è morto quattro anni fa altrettanto improvvisamente quanto suo fratello, mio padre, ma in seguito a un attacco cardiaco che lo ha sorpreso nel parco della villa proprio mentre si accingeva a ispezionare le sue rose, che verso la fine della sua vita erano diventate la sua unica passione. A trentacinque anni era già riuscito a staccarsi da Wolfsegg e a ritirarsi sulla Costa Azzurra con una quantità di denaro e un mucchio di libri. Amava la letteratura francese e il mare, e a quelle due inclinazioni si era interamente consacrato. Spesso penso di aver preso molto da mio zio Georg, in ogni caso più che da mio padre. Anch’io ho amato per tutta la vita la letteratura e i libri e il mare. Anch’io me ne sono andato da Wolfsegg, ed ero persino più giovane di lui. Le mie sorelle Amalia e Caecilia davanti alla villa dello zio Georg, avevo scritto sulla fotografia. L’ultima volta che ero stato a Cannes era il millenovecentosettantotto. Andavo a trovare lo zio Georg almeno una volta all’anno. Trascorrere qualche giorno con lui nella sua villa mi aveva sempre fatto bene. Con orrore della nostra famiglia ha nominato erede universale il suo maggiordomo, che lo ha sempre servito fedelmente e che lui ha sempre chiamato con affetto il mio buon Jean. Diverse volte mio zio Georg è stato a Roma, la città che, come me, amava e apprezzava più di ogni altra città al mondo. Gambetti e mio zio andavano d’accordo, hanno passato tante sere all’aperto in piazza del Popolo o, quando pioveva, al Caffè Greco a discorrere di argomenti di ogni specie, soprattutto d’arte, di pittura. Mio zio Georg era un appassionato collezionista d’arte, e gli interessi del suo patrimonio, a quanto so, li ha spesi in gran parte per l’acquisto di quadri e sculture di artisti contemporanei. Siccome aveva buon gusto, e un istinto assolutamente straordinario nel riconoscere il valore delle opere d’arte da lui predilette, con la sua passione di collezionista aveva ben presto accumulato, accanto a quello originario, un secondo cospicuo patrimonio, che si può tranquillamente definire un patrimonio di milioni. Dopo che li aveva più o meno scoperti, e siccome ne aveva acquistato le opere facendole al contempo conoscere, gli artisti sconosciuti che lui aiutava erano presto diventati famosi. Mio zio Georg non aveva alcuna simpatia per il primitivo spirito mercantile della mia famiglia, in fondo odiava la campagna, con la sua natura sfruttata anno dopo anno, e disprezzava tutte le secolari tradizioni di Wolfsegg, che si trattasse della produzione di carne e grasso, pelli e legname e carbone, o della caccia, da lui odiata nella maniera più profonda, e alla quale suo fratello, mio padre, e suo nipote, mio fratello, si dedicavano invece come alla prima di tutte le passioni. Fra tutte le passioni odiose, la caccia la odiava con la massima profondità. Mentre i suoi genitori, i miei nonni, erano maniaci della caccia, come anche mio padre, suo fratello, era maniaco della caccia, mio zio Georg si era sempre rifiutato di andare a caccia. E, come me, non mangiava selvaggina e, mentre il resto della famiglia era a caccia, si chiudeva in una delle biblioteche per distrarsi con una lettura intensa dagli eccessi venatori della famiglia, mentre loro abbattevano i cervi io me ne stavo in biblioteca dietro le imposte sprangate, per non dover sentire i loro spari, diceva, e leggevo Dostoevskij. Mio zio Georg amava, come me, la letteratura russa, soprattutto Dostoevskij e Lermontov, e in più di un’occasione ha fatto osservazioni di grande intelligenza su questi scrittori russi, e ha sempre continuato a occuparsi dei due rivoluzionari Kropotkin e Bakunin che, fra i cosiddetti memorialisti, giudicava i più grandi, ed è stato lui a iniziarmi alla letteratura russa, in qualità di esperto perfettamente a suo agio nella letteratura russa, al quale il russo era altrettanto familiare quanto il francese e al quale io stesso debbo il mio amore per la letteratura russa, più tardi anche per quella francese. Così come, del resto, debbo a mio zio Georg gran parte del mio patrimonio intellettuale. Lui, mio zio Georg, già molto presto mi aveva per così dire aperto gli occhi sul resto del mondo, aveva richiamato la mia attenzione sul fatto che oltre a Wolfsegg e al di fuori dell’Austria c’è dell’altro, qualcosa di assai più grandioso, qualcosa di assai più smisurato, e che il mondo non consiste, come generalmente e solitamente si presume, di una sola famiglia, ma di milioni di famiglie, non di un solo luogo ma di milioni di luoghi simili, e non di un solo popolo ma di molte centinaia e migliaia di popoli, e non di un solo paese ma di molte centinaia e migliaia di paesi, che tutti, singolarmente presi, sono i più belli e i più importanti. L’umanità nel suo insieme è infinita, con tutte le bellezze e le possibilità, diceva mio zio Georg. Solo gli ottusi credono che il mondo finisca là dove finiscono loro. Ma mio zio Georg non mi ha iniziato solo alla letteratura e dischiuso la letteratura come paradiso senza fine, mi ha iniziato anche al mondo della musica e mi ha aperto gli occhi su tutte le arti. Soltanto se abbiamo una giusta concezione dell’arte abbiamo anche una giusta concezione della natura, diceva. Soltanto se sappiamo fare un uso corretto della nostra concezione dell’arte, e quindi goderne, sappiamo fare un uso corretto anche della natura, e quindi goderne. La maggior parte della gente non arriva mai a una sua concezione dell’arte, neppure alla più semplice, e dunque non capisce mai neanche la natura. La visione ideale della natura presuppone un’ideale concezione dell’arte, diceva. Quelli che sostengono di vedere la natura, ma non hanno una concezione dell’arte, vedono la natura solo superficialmente e mai in maniera ideale, ossia in tutta la sua infinita grandiosità. L’uomo di pensiero ha l’opportunità di giungere dapprima, attraverso la natura, a un’ideale concezione dell’arte, per poi giungere, attraverso l’ideale concezione dell’arte, alla visione ideale della natura. Durante i nostri viaggi in Italia mio zio Georg non mi faceva correre, come mio padre, da una colonna all’altra, da un monumento all’altro, da una chiesa all’altra, da un Michelangelo all’altro, anzi non mi ha mai portato a vedere una qualche opera d’arte.
Ma proprio per questo io debbo a mio zio Georg la mia sensibilità artistica, perché lui non mi spingeva da un capolavoro all’altro come facevano i miei genitori, ma ha sempre evitato di assillarmi con tutte quelle opere d’arte, si è sempre limitato a ricordarmi che esistono e a dirmi dove sono, ma non mi costringeva tutti i momenti a sbattere la testa contro una colonna o contro un muro romano o greco, come hanno fatto i miei genitori. Siccome i miei, tranne mio zio Georg, fin dalla prima infanzia mi hanno fatto sbattere la testa, con la rozza spietatezza che li contraddistingue, contro le cosiddette antichità celebri del mondo, hanno reso la mia testa, molto presto, assolutamente insensibile a ogni forma d’arte, e anziché destare il mio interesse avevano provocato il mio disgusto. Mi erano occorsi molti anni per riportare ordine nella testa che, fino a renderla ottusa, loro avevano sbattuto contro quelle centinaia e migliaia di opere d’arte. Se fin da piccolo, anziché essere un bambino nel quale i miei genitori non avevano mai avuto ritegno di ficcare di tutto, senza alcun criterio e fino alla nausea estrema, fossi stato sotto l’influenza di mio zio Georg, pensai, ne avrei tratto gran beneficio. Ma, per farla breve, prima ho dovuto essere quasi completamente annientato dai miei genitori, per poi, quando avevo già più di vent’anni e sembravo perduto senza possibilità di salvezza, venir tuttavia guarito da mio zio Georg. Con accortezza e cautela. Quando compresi cosa mio zio Georg significasse per me e per il mio cammino e per tutta la mia evoluzione, era già quasi troppo tardi per una cura. Ma è alla mia forza di volontà nel tirarmi fuori dalla sciagura di Wolfsegg, ossia dalla sciagura provocata in me dai miei genitori, così come alla chiaroveggenza di mio zio Georg che debbo in fin dei conti la mia salvezza. Il fatto di non aver dovuto, da adulto, condurre un’esistenza come quella di tutti i miei, escluso mio zio Georg, bensì l’esistenza loro contraria, come mio zio Georg. Per tutta la vita hanno odiato mio zio Georg, negli ultimi decenni senza neanche più nasconderlo, col tempo hanno cominciato a trattarlo esattamente come me, a pensare di lui quel che pensavano di me, a ingannarlo come me. Ma lui non aveva bisogno dei loro riguardi. Un giorno, dopo aver messo in ordine le sue finanze, era salito su un treno e se n’era andato a Nizza. Laggiù, per prima cosa, aveva passato qualche settimana a dormire fino a tardi, e poi aveva cominciato a guardarsi attorno, fresco e riposato come ripeteva sempre, alla ricerca di un posto a lui favorevole. Quel posto doveva essere sul mare, in mezzo a un gran giardino, nell’aria migliore, ma d’altra parte nella posizione più favorevole agli spostamenti. Fu con reazioni esacerbate che a Wolfsegg accolsero le sue prime cartoline. Vedevano lo zio Georg stirarsi al sole, passeggiare in riva al mare in tutti i possibili abiti di lino, naturalmente confezionati su misura a Parigi, e nei loro sogni, che com’è naturale erano sempre stati solo incubi, lui, che per tutta la vita avevano chiamato soltanto farabutto buono a nulla, continuava a varcare i portoni delle banche nelle località eleganti della Costa Azzurra, per prelevare gli interessi del suo patrimonio che di giorno in giorno aumentava da solo. Erano troppo stupidi anche solo per credere a un’esistenza dello spirito. Mio zio Georg conduceva un’esistenza dello spirito, come dimostrano alcune centinaia di quaderni d’appunti fittamente scritti. La ristrettezza d’idee del mitteleuropeo che, come si usa dire, vive per lavorare anziché lavorare per vivere, laddove è affatto indifferente che cosa si intenda per lavoro, aveva dato ben presto sui nervi a mio zio Georg, che aveva tratto le conseguenze delle sue riflessioni. Segnare il passo non era cosa per lui. Bisogna lasciarsi entrare in testa aria fresca, ripeteva sempre, ossia bisogna lasciarsi entrare il mondo in testa, di continuo, vale a dire giorno dopo giorno. A Wolfsegg non si sono mai lasciati entrare in testa aria fresca e dunque neanche il mondo. Immobili e rigidi se ne stavano sopra la loro eredità così come ce li avevano messi, a nessun altro scopo se non di badare sempre e soltanto che quell’eredità, gigantesco grumo di beni, si consolidasse sempre più, e non si sgretolasse. Col tempo avevano assunto tutti, a poco a poco, la rigidità e la consistenza e l’assoluta durezza di quel grumo di beni, senza rendersene conto. Si erano sempre fusi con quel grumo di beni fino a formare una spaventosa e nauseabonda unità, e non se ne rendevano conto. Ma mio zio se ne rendeva conto. Non voleva aver nulla a che fare con quel grumo di beni. Aspettava solo il momento adatto, forse addirittura il momento ideale, per strapparsi da quel grumo di beni di Wolfsegg. A quel che so, gli avevano fatto la proposta di non ritirare da Wolfsegg la sua quota ereditaria, e di accontentarsi invece di una rendita pressoché sicura. La sua chiaroveggenza salvò mio zio da una simile sciocchezza. Gente come i miei dimostra la massima mancanza di scrupoli soprattutto nei confronti dei familiari, quando è necessario. Non c’è infamia, in definitiva, dinanzi alla quale si tirino indietro. Sotto il manto del loro spirito cristiano e munifico e sociale sono soltanto gente avida che, come si usa dire, passa sui cadaveri. Mio zio Georg non era mai rientrato nei loro piani, fin dall’inizio. In effetti lo temevano, perché ne aveva capito ben presto le vere intenzioni. Fin da bambino li aveva sorpresi a commettere le loro nefandezze e senza timore aveva sempre fatto loro rilevare quelle nefandezze, rinfacciato con coraggio quelle nefandezze, dicono che a Wolfsegg fosse il bambino più temuto. Chiaroveggente fin dall’inizio, dicono che dello svergognare i suoi avesse fatto una precoce passione. Fin da piccolo li attendeva al varco e li metteva di fronte alle loro azioni repellenti. Dicono che nessun bambino a Wolfsegg abbia mai posto tante domande, preteso tante risposte. A me i miei hanno sempre sbattuto in faccia che sarei diventato come mio zio Georg. Quasi si fosse trattato del più tremendo degli uomini, mi dicevano tutti i momenti: diventerai come tuo zio Georg. Ma non serviva a nulla, che mi mettessero in guardia da mio zio Georg, perché fin dall’inizio non avevo amato nessuno, a Wolfsegg, più dello zio Georg. Tuo zio Georg è un mostro! dicevano spesso. Tuo zio Georg è un parassita! Tuo zio Georg è una vergogna per noi! Tuo zio Georg è un delinquente! La lista degli epiteti orrendi che tenevano sempre pronta per mio zio Georg non aveva mai avuto su di me l’effetto da loro desiderato. Ogni due o tre anni lui veniva a trovarci da Cannes per qualche giorno, raramente per qualche settimana, e allora io ero l’essere più felice del mondo. Era il mio grande momento, quando lo zio Georg era a Wolfsegg. D’improvviso Wolfsegg aveva un aspetto diverso da quello di tutti i giorni. Era vita da grande città, quella che allora si faceva a Wolfsegg. D’un tratto si dava aria alle biblioteche, i libri viaggiavano avanti e indietro, la musica riempiva le stanze che di solito erano soltanto fredde caverne buie, immerse nel silenzio. D’improvviso le camere da cui tutti si sentivano respinti diventavano confortevoli, familiari. Le voci, che altrimenti a Wolfsegg avevano sempre e soltanto un tono brusco, brusco o soffocato, risuonavano d’un tratto assolutamente naturali. Si poteva ridere, parlare con un tono normale anche durante la conversazione, non solo quando si trattava di impartire ordini alla servitù. Ma perché parlate sempre francese quando c’è la servitù? apostrofava mio zio Georg i miei genitori, è ridicolo. Quelle sue osservazioni facevano di me l’essere più felice del mondo. Ma perché non aprite le finestre con questo tempo magnifico? diceva. Mentre di solito, e negli ultimi anni in maniera oltremodo deprimente, a tavola si parlava sempre e soltanto di maiali e di buoi, di carichi di legname e di prezzi di magazzino più favorevoli o meno favorevoli, d’un tratto si sentivano parole come Tolstoj o Parigi o New York o Napoleone o Alfonso XIII o Meneghini Callas, Voltaire, Rousseau, Pascal, Diderot. Non vedo neanche il piatto, aveva detto mio zio con la massima disinvoltura, al che mia madre s’era alzata di scatto da tavola e aveva aperto le persiane. Devi aprire ancora un po’ le persiane, le aveva detto mio zio Georg, se vuoi che veda la minestra. Ma come fate a vivere tutto il tempo in questa penombra? chiedeva. Voi vivete in un museo! diceva. Ogni cosa ha l’aria di non essere stata usata da anni. Che senso hanno quelle magnifiche stoviglie negli armadi, se nessuno ci mangia dentro? E la vostra preziosa argenteria? Io ammiravo lo zio Georg. Con lui non c’era pericolo di annoiarsi, in nessun modo. A tavola non sedeva immobile e rigido come gli altri, si rivolgeva tutti i momenti a uno di noi per chiedergli qualcosa o dirgli una qualche verità o fargli un qualche complimento. Devi indossare più spesso il blu, diceva a mia madre, il grigio non ti dona. Sembra che tu porti il lutto. Sono quindici anni che nostro padre è morto. Tu, diceva a mio padre, sembri l’impiegato di te stesso. A quella battuta mi ero messo a ridere forte. Quando portavano i piatti in tavola, cosa che da noi era sempre avvenuta in un silenzio pressoché assoluto, lui scherzava con le ragazze che servivano in tavola, cosa che mia madre sopportava a stento. Non passerà molto tempo, diceva lui, incurante della presenza delle ragazze che servivano in tavola, e non ci sarà più nessuno a servirvi. Allora rivivrete d’improvviso. C’è qualcosa di rivoluzionario nell’aria, diceva. Ho come la sensazione che verrà qualcosa che, un poco, ridesterà tutto alla vita. A quelle osservazioni mio padre scuoteva la testa, mia madre si limitava a guardare mio zio in faccia, fissamente, come se non avesse scrupoli di sorta a mostrargli la sua avversione. Nei paesi mediterranei, diceva mio zio Georg, è tutto diverso, così diceva. Non si diffondeva in spiegazioni. Quando io, che allora avevo forse diciassette o diciotto anni, volli sapere cosa ci fosse di diverso nei cosiddetti paesi mediterranei rispetto a noi in Europa centrale, lui disse che un giorno me lo avrebbe spiegato, quando io stesso avessi visitato quei paesi mediterranei. Nei paesi mediterranei la vita vale cento volte di più, diceva. Io ero avido, com’è naturale, di sapere perché. I mitteleuropei si comportano come marionette, non come persone, in ogni loro gesto sono bloccati, diceva mio zio Georg. Non si muovono mai con naturalezza, tutto è rigido in loro e in definitiva ridicolo. E insopportabile. Come la loro lingua, che è la più insopportabile. Nulla è più insopportabile del tedesco, diceva. Io ero entusiasta, quando diceva i paesi mediterranei. È un trauma tornare qui, diceva. Non lo turbava minimamente l’aver guastato con le proprie osservazioni l’appetito dei suoi ascoltatori. E che cucina atroce! esclamava. Quel che si mangia in Germania e in Austria e anche nella cosiddetta Svizzera tedesca non è cibo, è robaccia! La tanto celebrata cucina austriaca non è altro che un’assoluta mancanza di riguardo. Una violenza fatta allo stomaco e al corpo intero. Mi ci vogliono settimane, a Cannes, per riprendermi dalla cucina austriaca. E cos’è un paese senza mare! esclamava, senza proseguire nel suo pensiero. Quando beveva un sorso di vino, storceva il naso. Mi accorsi con chiarezza che aveva qualcosa da ridire anche sulle acque minerali austriache, che di solito tutti definiscono ottime, ma si astenne da ogni commento. Wolfsegg, pensavo già allora, doveva annoiarlo infinitamente, perché la cosa di cui ha sempre avuto il massimo desiderio, ossia condurre una conversazione stimolante, a Wolfsegg non l’aveva mai ottenuta. A volte, almeno nei primi giorni della sua permanenza, faceva un tentativo, per esempio buttava lì, più o meno a bruciapelo, la parola Goethe; ma loro non sapevano che farsene. Figurarsi poi di parole come Voltaire, Pascal, Sartre. Poiché non riuscivano a tenergli dietro, come incessantemente avvertivano, si accontentavano della loro avversione nei suoi confronti, che cresceva di giorno in giorno e che verso la fine della sua permanenza si tramutava sempre in odio aperto. In continuazione gli facevano capire che loro lavoravano duramente, mentre lui aveva trasformato l’assoluto far nulla e la speculazione su quel far nulla nel contenuto delle sue giornate e, a quanto pareva, nel suo ideale di vita. Sai, mi ha detto una volta, non è certo per la famiglia che vengo a Wolfsegg, vengo solo per le mura e per il paesaggio, che mi riportano alla mente la mia infanzia. E per te, disse dopo una pausa. Nel suo testamento aveva disposto di non venir sepolto a Wolfsegg, come avevano creduto i suoi e i miei, ma a Cannes. Voleva esser sepolto in riva al mare. Con una certa qual pompa, e dunque agghindati da perfetti provinciali, erano corsi al suo funerale a Cannes aspettandosi un immenso patrimonio e invece, come ho già accennato, dovettero prendere atto della più grande delusione della loro vita, come ripeteva sempre mia madre, e portarsela a casa. Il buon Jean, figlio di una coppia di poveri pescatori di Marsiglia, aveva ereditato non meno di ventiquattro milioni di scellini in azioni e un patrimonio almeno doppio in beni immobili. La sua collezione d’arte mio zio Georg l’aveva lasciata ai musei di Cannes e di Nizza. Sulla lapide che il buon Jean gli aveva fatto mettere sulla tomba aveva voluto solo il suo nome e le seguenti parole: si lasciò alle spalle i barbari al momento giusto. Jean si è rigorosamente attenuto alle istruzioni di mio zio Georg. Pare che i miei genitori, quando, un anno fa, si fermarono a visitare la sua tomba mentre erano in viaggio per la Spagna, si siano arrabbiati a tal punto che mia madre ha poi giurato di non voler mai più visitare la tomba dello zio Georg; il suo epitaffio le è sembrato un’immensa infamia e pare che al ritorno a Wolfsegg non abbia fatto altro che parlare del crimine di suo cognato, mio zio Georg. Con lo zio Georg ho fatto le più lunghe e interessanti passeggiate nei dintorni di Wolfsegg, con lui sono andato a piedi fino a Ried nell’Innkreis nell’una direzione, e fino a Gmunden nell’altra. Si era sempre riservato del tempo per me. Che al mondo esistano altre cose oltre alle vacche, ai domestici e alle feste comandate da osservare col massimo rigore, questa scoperta la debbo a lui. A lui debbo il fatto di aver imparato non soltanto a leggere e a scrivere, ma anche effettivamente a pensare e a lavorare di fantasia. È merito suo, se l’importanza che attribuisco al denaro, seppur grande, non è estrema, e se non considero l’umanità al di fuori di Wolfsegg soltanto un male necessario, come per tutta la vita hanno fatto i miei, ma un eterno pungolo a misurarmi con essa come con la più grandiosa e appassionante immensità. Mio zio Georg mi ha aperto la via della musica e della letteratura e mi ha fatto conoscere i compositori e i poeti come uomini vivi, non solo come statue di gesso da spolverare tre o quattro volte l’anno. A lui debbo il fatto di aver aperto i nostri libri, che sembravano destinati a restare rinchiusi per l’eternità nelle nostre biblioteche, e di aver cominciato a leggerli e di non aver smesso fino a oggi di leggerli; infine, di aver imparato a filosofare. A mio zio Georg debbo il fatto di non essere diventato infine soltanto un uomo che si inserisce meccanicamente nell’ingranaggio finanziario ed economico di Wolfsegg, ma un uomo che senz’altro si può definire libero. Di non aver fatto soltanto ottusi viaggi, cosiddetti di studio, come quelli che erano abituati a fare i miei genitori e che nei primi anni ho fatto anch’io con i miei genitori, in Italia e in Germania per esempio, in Olanda e in Spagna, ma di aver imparato invece, e goduto fino a oggi, la scienza del viaggiare come uno dei piaceri più grandi che il mondo abbia da offrire. Grazie a mio zio Georg non ho conosciuto città morte, ma vivissime, non ho visitato popoli morti, ma vivi, non ho letto scrittori e poeti morti, ma vivi, non ho ascoltato musica morta, ma viva, non ho visto dipinti morti, ma vivi. Lui e non altri, anziché incollarmi alle pareti interne del cervello i grandi nomi della storia come insulse decalcomanie di un’altrettanto insulsa storia, me li ha sempre presentati come uomini vivi su una scena viva. Mentre i miei genitori giorno dopo giorno mi hanno mostrato il mondo come assolutamente noioso, un mondo che a poco a poco mi paralizzava la testa e nel quale in fondo non valeva minimamente la pena di vivere, mio zio Georg al contrario mi aveva presentato quello stesso mondo come sempre e continuamente interessantissimo. Così, fin dalla prima infanzia avevo sempre potuto scegliere fra due mondi, quello dei miei genitori, che ho sempre trovato privo di interesse e null’altro che fastidioso, e quello di mio zio Georg, che sembrava consistere solo di avventure portentose, nel quale era impossibile annoiarsi e dove in effetti si aveva sempre voglia di vivere in eterno, dove era naturale sperare non finisse mai, dal che conseguiva automaticamente il mio desiderio di viverci in eterno, vale a dire all’infinito. In parole povere, i miei genitori avevano sempre accettato tutto, mio zio Georg non aveva mai accettato nulla. I miei genitori avevano vissuto fin dalla nascita sempre e soltanto secondo le leggi loro prescritte da chi li aveva preceduti e mai gli era venuto in mente di farsi un giorno leggi proprie e nuove, per vivere secondo queste nuove leggi fatte da loro, mio zio Georg aveva vissuto soltanto secondo leggi proprie, fatte da lui. E queste leggi fatte da lui le annullava a ogni istante. I miei genitori avevano sempre percorso la via loro prescritta e mai sarebbe venuto loro in mente di abbandonare quella via anche per un solo istante, mio zio Georg ha percorso soltanto la sua via. I miei genitori, per citare un altro esempio del contrasto che li opponeva a mio zio Georg, odiavano il cosiddetto far nulla, perché non riuscivano neanche a figurarsi che un uomo di pensiero non conosce affatto il far nulla e non può affatto permetterselo, che un uomo di pensiero vive nella massima tensione e con interesse sommo proprio quando, per così dire, rende omaggio al far nulla, perché loro non sapevano che farsene del loro effettivo far nulla, perché nel loro far nulla non accadeva effettivamente nulla, perché loro in verità e in realtà non erano affatto in grado di pensare, figurarsi di condurre un processo intellettuale. Per l’uomo di pensiero il cosiddetto far nulla non è neanche possibile. Il loro far nulla era invece un effettivo far nulla, perché nulla accadeva in loro quando non facevano nulla. Mentre, esattamente al contrario, l’uomo di pensiero è al culmine della sua attività quando, per così dire, non fa nulla. Ma è impossibile renderlo plausibile a coloro che effettivamente non fanno nulla, come i miei genitori e i miei in generale. D’altra parte, però, loro intuivano di che natura fosse il far nulla di mio zio Georg, perché, proprio siccome lo intuivano, lo odiavano, perché intuivano che il suo far nulla, siccome era un far nulla diverso, anzi esattamente opposto al loro, non solo poteva diventare pericoloso, ma era sempre pericoloso. Agli occhi di coloro che per far nulla intendono effettivamente far nulla, e che in quanto nullafacenti effettivamente non fanno nulla, perché durante il far nulla in loro non accade assolutamente nulla, colui che non fa nulla in quanto uomo di pensiero è effettivamente il massimo pericolo e quindi l’uomo più pericoloso. Lo odiano perché, com’è naturale, non possono disprezzarlo. Pare che già a quattro anni mio zio Georg sia andato da solo nella località di Haag, distante nove chilometri, per spiegare a gente perfettamente sconosciuta che lui era di Wolfsegg ma non aveva intenzione di tornare a Wolfsegg. Pare che quelli di Haag, comprensibilmente sconcertati di fronte a quello strano bambino, abbiano riportato il piccolo Georg ai suoi genitori a Wolfsegg come l’essere più ribelle che si possa immaginare.
Per quasi tutto il tempo i suoi genitori e le altre persone che lo sorvegliavano avevano dovuto più o meno incatenarlo a Wolfsegg come un cucciolo, per impedire che sparisse. Già nella primissima infanzia, diceva lui, aveva preso la decisione di restare a Wolfsegg solo il tempo strettamente necessario. Ma, com’è ovvio, mi disse una volta a Cannes, ho atteso il momento in cui in effetti ho potuto liberarmi di Wolfsegg senza storie, vale a dire provvisto di tutti i mezzi necessari alla libertà assoluta. Wolfsegg in sé, disse, è qualcosa di meraviglioso, ma i nostri me l’hanno sempre resa un orrore. È che mio fratello, tuo padre, disse una volta, è un carattere debole. Un brav’uomo, in effetti, ma insopportabile. E tua madre, mia cognata, è una donna avida che ha sposato tuo padre soltanto per calcolo. Perché lei, in effetti, viene dal nulla. Che un tempo sia stata graziosa, come dicono, oggi non lo si vede più. Tuo padre in fondo non è avido di denaro. È stata lei, tua madre, a risvegliare in lui quella primitiva avidità di denaro. Ma con tuo padre non andavo d’accordo neanche prima che lui conoscesse tua madre, eravamo all’opposto in tutto. Certo, è un uomo di buon cuore, ancora oggi, ma è un imbecille, non volermene. Tua madre lo tiene in pugno, totalmente. Eppure a scuola andava meglio di me. Tutto quel che faceva era di prim’ordine. Consegnava i compiti migliori. Lui era amato da tutti, io no. Aveva sempre voti migliori dei miei. Ma sebbene indossassimo vestiti uguali, io ero sempre più elegante di lui. Non so come mai. Ma lo dico soltanto perché in fondo ho sempre amato mio fratello, tuo padre, disse lo zio Georg. E in effetti, l’ultima volta che era stato a Roma, non aveva smesso di ripetere che aveva amato suo fratello come nessun’altra persona al mondo, che anzi lo amava ancora, se solo non fosse arrivata quella donna, tua madre, aveva detto. Le donne arrivano e distolgono dalle sue buone qualità, anzi da tutto il suo buon carattere, l’uomo che alla fine sposano contro il volere stesso di quell’uomo, e lo distruggono o almeno ne fanno il loro burattino. Tua madre ha fatto di tuo padre il suo burattino. Mio Dio, aveva esclamato lo zio Georg, come avrebbe potuto evolversi tuo padre, se avesse incontrato un’altra donna! Non conosco nessuno che abbia meno sensibilità artistica di tua madre, aveva detto. Va all’opera ma di musica non capisce la benché minima cosa. Guarda un quadro ma di pittura non capisce nulla. Mente e sostiene di leggere libri, ma non ne legge neanche uno. Eppure a tavola blatera senza sosta, disse, e annichilisce tutto quello che ha attorno con le sue assolute scemenze. Invece dovrebbe saperlo, come si fa a far crescere il denaro da sé, non nella maniera insulsa e morbosa che ha lei e che tuo padre ha fatto propria. Lo zio Georg alludeva alla propria arte di far denaro e di aumentarlo costantemente. Si stenta a credere che siamo della stessa covata, tuo padre e io, diceva spesso. Io ho sempre avuto molte idee, diceva, tuo padre non ha mai avuto un’idea. Io ho viaggiato perché ne avevo la voglia e la passione, tuo padre non ha mai sentito il benché minimo bisogno di viaggiare, ha sempre viaggiato perché si usava farlo, seguendo programmi ottusi che gli facevano gli altri, tutte persone repellenti che si definivano sempre esperti d’arte. Devi andare a Roma a vedere la Cappella Sistina, gli dicevano, e lui prendeva il treno e andava a Roma a vedere la Cappella Sistina. Devi vedere il Giorgione che è esposto all’Accademia e che si chiama La tempesta, gli dicevano, e lui prendeva il treno e andava a Venezia a guardarsi il quadro di Giorgione che si chiama La tempesta. Gli dicevano, devi andare a Verona a vedere la tomba di Giulietta e Romeo, e lui ci andava e se la guardava. L’Acropoli, gli dicevano, devi assolutamente vederla, e lui andava ad Atene a vedere l’Acropoli. Devi vedere Rembrandt, gli dicevano, devi vedere Vermeer, devi vedere il duomo di Strasburgo e la cattedrale di Metz. Lui andava dappertutto e guardava ciò che gli consigliavano loro, i suoi cosiddetti esperti d’arte. E che gente spaventosa era sempre, quella che gli consigliava tutto ciò, disse lo zio Georg, terribili teste piccolo borghesi col titolo di professore, che lo avvicinavano soltanto per trascorrere qualche giorno gratis nella nostra bella Wolfsegg. Quegli orrendi personaggi di Vienna che lui invitava sempre, professori universitari, storici dell’arte eccetera, perché credeva che fossero persone di cultura. Quelle atrocità di Salisburgo e di Linz che durante i fine settimana impestavano Wolfsegg con il loro disgustoso odore, cosiddetti filosofi, eruditi, avvocati, i quali non facevano altro che sfruttarlo. Venivano su da noi con tutta la famiglia e s’ingozzavano l’intero fine settimana e a tavola tiravano fuori le loro scemenze pseudoscientifiche. E poi quei medici repellenti che faceva venire da Vöcklabruck o da Wels. Che sono stati solo la sua rovina, intellettualmente. Tuo padre era sempre stato della falsa opinione che titoli accademici altisonanti fossero garanzia di certe ragguardevoli facoltà intellettuali. In questo si è sempre sbagliato. Da che sono al mondo ho sempre odiato tutti quei titoli e coloro che portano quei titoli. Non c’è cosa che mi ripugni altrettanto. Già quando sento: professore universitario! mi viene la nausea. Quel titolo, di solito, è addirittura la prova di un imbecille di straordinaria levatura. Quanto più imponente suona il titolo, tanto più grande è l’imbecille che lo porta. E per giunta sua moglie, tua madre! Lei che è nata proprio là dove lo spirito è stato sempre calpestato. E nei decenni di matrimonio con tuo padre ha portato questa sua arte a un ben più alto grado di perfezione. Ma tuo padre non è mai stato uno che pensasse con la sua testa, non ne aveva affatto le possibilità. Ha sempre ammirato gli altri, quelli che secondo lui pensavano, e ha lasciato che questi altri pensassero al posto suo. Si è sempre reso la vita facile, naturalmente. Ma quella facilità non gli è passata addosso senza lasciare traccia. Non si è evoluto. Mi dispiace, disse mio zio Georg, ma tuo padre è un uomo particolarmente stupido. Ed è proprio di un uomo particolarmente stupido come lui che tua madre, che è sempre stata furba, aveva bisogno. Da questo punto di vista i tuoi genitori sono sempre stati una coppia ideale, disse. Sento ancora chiaramente queste parole, eravamo seduti all’aperto in piazza del Popolo, nel tardo pomeriggio lo zio Georg era diventato loquace come mai prima, perché, contro ogni sua abitudine, già nel pomeriggio aveva bevuto diversi bicchieri di vino bianco. Proprio perché ho sempre amato tuo padre, mio fratello, e lo amo ancor oggi, mi permetto di parlare di lui in questo modo, disse lo zio Georg, lo sai. A tuo padre avevo sempre augurato una donna diversa da tua madre, ma in fin dei conti, disse d’improvviso guardandomi costernato, è pur sempre tua madre. Forse è stato un errore, disse, che tu abbia trovato me. Forse saresti più felice senza di me, chi lo sa. Io avevo replicato soltanto con un no. Abitava all’Hotel de la Ville, il suo albergo preferito a Trinità dei Monti, dal quale gli bastavano pochi passi per scendere al Caffè Greco. Veniva a Roma almeno una volta l’anno, quando Cannes mi dà sui nervi, diceva ogni volta. Una volta l’anno Cannes gli dava sui nervi. Parigi non mi piace, diceva spesso, Roma mi piace sempre. Anche perché so che a Roma ci sei tu. In una città che si ama si ha sempre qualcuno che si ama, diceva. Peccato che Roma sia diventata così rumorosa. Ma tutte le città sono diventate rumorose. Sebbene lo zio Georg non comparisse affatto nella foto che ritrae le mie sorelle Amalia e Caecilia davanti alla sua villa, osservando la fotografia avevo ininterrottamente pensato più o meno solo a lui. Avevo occupato la mia mente pensando a lui. Avevo cercato di distrarmi grazie a lui dal telegramma di Wolfsegg, di cui non avevo ancora potuto misurare tutto l’orrore. I genitori morti, irrevocabilmente morti, mio fratello Johannes morto. Di affrontare questo dato di fatto e le sue ripercussioni non ero ancora in grado. Rinviavo quel momento. In quelle ore mio zio Georg sarebbe stato per me il miglior sostegno. Io non ne avevo uno. Mi proibivo di pensare a ciò che ora mi attendeva. Posai ora le tre fotografie sulla scrivania una sopra l’altra in modo tale che mio zio Georg, sebbene non compaia affatto perché la foto ritrae solo le mie sorelle a Cannes, veniva a trovarsi in alto, e quindi per così dire al primo posto sopra i miei genitori, sotto i miei genitori mio fratello Johannes. Di colpo ora erano tutti morti. Che cosa, mi chiesi, li legava l’uno all’altro e a me? All’Hotel de la Ville, dove naturalmente occupava la migliore e la più bella di tutte le stanze, mio zio Georg mi ha detto una volta che non poteva fare a meno di amare la sua famiglia, sebbene lo costringessero a odiarla. Con queste precise parole aveva caratterizzato il suo legame con i suoi, i miei. Suo fratello, mio padre, lui lo amava e al contempo lo disprezzava. Sua cognata, mia madre, la odiava in quanto cognata, è vero, ma la rispettava in quanto madre mia e di mio fratello Johannes. Diventeranno vecchissimi, ha detto una volta, quelli come loro diventano vecchissimi, la loro ottusità gli si deposita addosso col passare dei decenni come una corazza protettiva, non crollano di colpo come noialtri. Sbagliava. Hanno malattie che durano tutta una vita, che gli allungano la vita anziché abbreviarla, per quanto fastidiose siano non sono malattie mortali che insorgono e ti uccidono. I loro interessi non li logorano, le loro passioni non li fanno impazzire, perché non ne hanno. La loro imperturbabilità, e in fin dei conti la loro indifferenza regolano giorno per giorno la loro digestione, sicché possono aspettarsi di raggiungere un’età molto avanzata. In fondo, nulla al mondo li attrae e nulla al mondo li disgusta. Non portano mai nulla a un punto tale da doversi minimamente indebolire. Nel momento in cui si sono accorti che in mezzo a loro io sono un elemento di disturbo, disse mio zio Georg, mi hanno escluso dalla loro comunità, prima in segreto, poi apertamente. In fondo, alla fine avrebbero pagato qualunque prezzo, anche il più alto, per liberarsi di me. Senza volerlo, a Wolfsegg avevo assunto una funzione che non potevano accettare, ero quello che costantemente faceva notare i loro errori, al quale nulla sfuggiva della loro debolezza di carattere, quello che in ogni occasione li smascherava come deboli di carattere. Com’erano sorpresi, disse mio zio Georg, quando un giorno feci loro notare che da sei mesi non aprivano le nostre biblioteche, e che io chiedevo di entrare nelle biblioteche. Quando dicevo le nostre biblioteche la gente era sempre sorpresa, visto che tutti gli altri nel migliore dei casi potevano dire la nostra biblioteca, perché avevano una sola biblioteca, noi ne avevamo cinque, ma con quelle cinque biblioteche eravamo finiti su un binario morto, dal punto di vista intellettuale, in maniera di gran lunga più vergognosa, disse mio zio Georg, della gente che aveva una sola biblioteca. Uno dei nostri antenati aveva fondato quelle cinque biblioteche di cui anch’io, per tutta la vita, sono andato così fiero, certamente non un pazzo, come sempre si diceva a Wolfsegg, ma un appassionato del pensiero che poté e volle permetterselo, e anziché costruire dappertutto nelle nostre ville salotti che servivano solo a diffondere la noia e l’ottusità, vi allestì delle biblioteche, e con la massima cognizione della letteratura. Un giorno, disse mio zio Georg, ero entrato per così dire con la forza in quelle biblioteche addormentate, cosa che per tutta la vita non mi hanno perdonato. Ma dopo la mia partenza da Wolfsegg hanno di nuovo chiuso a chiave le biblioteche senza metterci più piede per anni, finché non si sparse la voce della loro esistenza, costringendoli, se non volevano perdere la faccia, a mostrarle ai curiosi. A Wolfsegg non si adoperava niente, disse mio zio Georg, finché io d’improvviso non ho cominciato ad adoperare tutto. Mi sedevo sulle poltrone su cui nessuno si era seduto per decenni, aprivo le porte degli armadi che nessuno aveva aperto per decenni, bevevo in bicchieri nei quali nessuno aveva bevuto per decenni. Anzi percorrevo corridoi che nessuno aveva percorso per decenni. Fin dal principio sono stato il curioso dal quale dovevano guardarsi, disse lo zio Georg. E avevo iniziato a sfogliare i nostri documenti vecchi di secoli, depositati in grandi casse nelle soffitte, dei quali loro hanno sempre saputo, senza tuttavia mai esaminarli meglio. Temevano scoperte sgradevoli. A me, disse lo zio Georg, era sempre interessato tutto e, com’è naturale, mi interessavano soprattutto le nostre vicende. Mi interessava la storia, ma non nel modo che avevano loro di interessarsi della nostra storia, per così dire soltanto delle pagine gloriose accatastate a centinaia e a migliaia, bensì nel suo insieme. Ciò che loro non avevano mai osato, ossia guardare dentro e in fondo ai tremendi abissi della propria storia, io l’avevo osato. Questo provocò la loro collera nei miei confronti. Quel Georg era diventato alla fine, a Wolfsegg, una parola terrificante per tutti loro, disse mio zio. Avevano paura che quel bambino che ero potesse dominarli, e non viceversa. I miei genitori, i tuoi nonni, disse, mi incatenarono a Wolfsegg e mi imbavagliarono. Proprio quello che non avrebbero mai dovuto fare. E dal fallimento dei miei genitori, i tuoi nonni, i tuoi genitori non hanno imparato nulla, al contrario, con te hanno usato metodi ancora più infelici. Ma d’altra parte, disse, che ne sarebbe stato di te, se non si fossero comportati nei tuoi confronti come si sono comportati? Questa domanda non richiedeva risposta, era già di per sé una risposta. Quando ti guardo, disse mio zio Georg, in fondo è sempre me che vedo. Hai percorso esattamente lo stesso cammino. Ti sei separato da loro, li hai evitati, hai voltato loro le spalle, ti sei loro sottratto al momento giusto. Come non hanno perdonato me, così non perdonano te. Mio Dio, disse, quel che per me è Cannes, per te è Roma. È così che possiamo tener testa a Wolfsegg, da lontano. Quando penso a quelle paralizzanti serate con i miei, in cui le battute più felici si sgonfiano nell’istante stesso in cui vengono pronunciate! Qualsiasi cosa si dica, non la capiscono. Qualsiasi cosa si proponga, non ne prendono minimamente atto. Se legge un giornale, tuo padre, è la «Oberösterreichische Landwirtschaftszeitung», se legge un libro, è il libro dei bilanci. E poi, siccome devono sfruttare l’abbonamento, vanno a teatro a Linz, a vedere una commedia orrenda, e non si vergognano, e vanno a sentire quei ridicoli concerti nel cosiddetto Brucknerhaus, il regno dei suoni sbagliati a tutto volume. Queste persone, intendo i tuoi genitori, non hanno fatto l’abbonamento solo al teatro e ai concerti, vivono la loro vita in abbonamento, e tutti i giorni entrano nella loro vita come a teatro, a vedere una commedia orrenda, e non si vergognano di entrare nella loro vita come si va a un disgustoso concerto in cui i suoni dominanti sono solo quelli sbagliati, e vivono perché così si fa di solito, non perché lo vogliano, non perché sia la loro passione, la loro vita, no, la vivono perché i loro genitori gliel’hanno presa in abbonamento. E così come a teatro applaudono al momento sbagliato, anche nella loro vita applaudono al momento sbagliato e, come ai concerti, nella loro vita esultano di continuo là dove non c’è proprio nulla da esultare e storcono il volto arrogante nella smorfia più disgustosa là dove dovrebbero ridere di cuore. E così come gli spettacoli che vanno a vedere in abbonamento sono una catastrofe e di infimo livello, anche la loro vita è una catastrofe e di infimo livello. D’altra parte, disse, ormai dovrebbe risultarci indifferente cosa facciano, cosa abbiano fatto della loro esistenza, la questione non ci riguarda. E chi lo dice, che la nostra strada sia stata quella giusta? Neanche noi siamo i più felici del mondo. E non abbiamo mai fatto altro che cercare l’ideale, senza trovarlo. Sta di fatto che noi tutti abbiamo sempre cercato una via per avvicinarci, e invece ci siamo sempre più allontanati gli uni dagli altri, quanto più grandi sono stati i nostri tentativi di riavvicinarci tanto più ci siamo allontanati gli uni dagli altri. I nostri tentativi in questa direzione, disse, finivano sempre e soltanto per esacerbarci. Abbiamo sempre abbandonato i nostri tentativi soltanto perché altrimenti saremmo rimasti soffocati dai nostri stessi rimproveri, disse. Il nostro errore è di non esserci mai rassegnati all’idea che Wolfsegg non ci riguardi più, è la loro Wolfsegg, disse, non la nostra Wolfsegg. Anziché lasciarli in pace, abbiamo sempre voluto imporgli per forza e a tutti i costi una Wolfsegg che è la nostra Wolfsegg, ma non la loro. Ci siamo sempre immischiati nella loro Wolfsegg, mentre avremmo fatto meglio a lasciarli stare. Ci hanno liquidati, avremmo dovuto dichiararci soddisfatti una volta per tutte. Non abbiamo più alcun diritto su Wolfsegg, disse. Osservai con attenzione la fotografia in cui le mie sorelle hanno ventidue o ventitré anni. Gli sono costate care quelle facce beffarde, pensai. Sono rimaste sole, non hanno avuto la forza di evadere da Wolfsegg. Quelle facce beffarde erano l’unica arma che avessero, contro il loro mondo, contro i genitori ai quali non riuscivano a sfuggire, un’arma, però, dinanzi alla quale hanno fatto marcia indietro, spaventati, anche gli uomini che loro volevano avere. Le mie sorelle non erano belle, non lo sono mai state, in nessun momento, pensai. Ma non erano neanche interessanti. Non si sono evolute, sono rimaste le contadinotte sciocche che erano allora. Solo più vecchie di vent’anni, le facce beffarde non sono più fresche, ma contratte nelle molte rughe dell’esacerbazione. Più o meno, sono brutte. Forse Caecilia è d’animo più mite di Amalia. All’avidità di origine materna si è poi aggiunta l’esacerbazione. Da principio avevano entrambe talento per la musica e mio zio Georg aveva tentato di farne delle musiciste, un tentativo pietoso condannato al fallimento. Mancava loro la perseveranza, e inoltre non tenevano la musica in alcun conto, così le loro doti musicali andarono naturalmente perdute, ormai bastavano solo per le voci di rincalzo nel coro della chiesa. Già all’età di quattro o cinque anni la loro madre le ha costrette in certi vestiti alla tirolese di taglio sempre uguale e a disegni sempre uguali, dentro i quali col tempo non potevano non intristire. Entrambe sono cagionevoli, ma è quella cagionevolezza ereditata dalla madre che preannuncia una lunga vita. Tossiscono di continuo, non le ricordo altrimenti, tossiscono per Wolfsegg ora dall’alto in basso, ora dal basso in alto, ma quella tosse non va presa sul serio, non è mortale, quella tosse sembra essere la loro unica passione, il divertimento più comodo della loro vita. In quella tosse pare essersi rifugiato il loro talento musicale. Tossiscono di continuo anche quando c’è gente. Non hanno nulla da dire ma tossiscono senza tregua. Ciascuna di loro porta al collo una catena d’argento ereditata da nostra nonna, e se qualcuno gli chiede cosa sono, la prima cosa che dicono è la parola cattoliche. Le hanno mandate tutt’e due a frequentare dei corsi di cucina a Bad Ischl, perché si era pensato che là avrebbero imparato la cucina imperiale, ma nessuna di loro ha imparato a cucinare a Bad Ischl, cucinano anche peggio di nostra madre che, quando la cuoca è in vacanza ad Aschau sul Danubio, fa sempre delle figuracce. La minestra di patate è la sola cosa che nostra madre sappia cucinare bene. Ma a nessuno di noi piace la minestra di patate. Solo mio padre la mangia con entusiasmo, così almeno afferma. Le mie sorelle sono sempre state beneducate, come si usa dire, ma ciò non toglie che siano sempre state anche le persone più scaltre che si possa immaginare.
Se capitava che una prendesse in mano un libro, l’altra glielo faceva cadere di mano. Non le si vedeva mai sole, sempre in due. C’è un anno di differenza, ma sembrano gemelle. Quando dico che le ho sempre amate non significa che io, nella stessa misura, non le abbia sempre odiate. Una volta adulti, le ho più odiate che amate, com’è naturale; forse, penso adesso, è ormai rimasto soltanto l’odio. Di me erano sempre state deluse. Del loro fratello, a quanto so, avevano sempre parlato solo male, soprattutto in pubblico, là dove supponevano che ciò dovesse avere per me effetti devastanti. Cosa non hanno inventato sul mio conto, pur di screditarmi! Gli stupidi producono sempre effetti molto più devastanti degli altri, penso. Che le abbia sempre amate non significa che non le abbia anche sempre maledette. La loro madre le ha incatenate a sé fin dall’inizio, e non le ha più mollate. Non potevano fare viaggi, non potevano andare ai balli, anche quando avevano già quasi vent’anni dovevano ancora chiedere il permesso se volevano andare a Lambach al cosiddetto mercato del giovedì. Gli spiccioli che davano loro erano sempre contati perché non potessero allontanarsi troppo, di solito bastavano appena per una bibita e un panino. Per principio le loro scarpe erano state fatte su misura sempre e soltanto dal calzolaio di Schwanenstadt che aveva confezionato già le scarpe dei nostri nonni, e così erano sempre fuori moda, e col tempo avevano fatto prendere alle mie sorelle quell’andatura balorda che avevano conservato anche più tardi, quando ebbero modo di comprarsi le scarpe a Vienna. Non saprei dire chi, delle due, sia la più intelligente. Non posso dire che Caecilia abbia più gusto di Amalia. Non posso dire che Amalia sia più istruita di Caecilia. Le loro voci sono tanto simili che è difficile riconoscere chi delle due abbia chiamato, quando una delle due chiama. Siccome, quasi senza eccezioni, si sono sempre presentate insieme, e nessuna delle due sembra mai aver sentito il bisogno di staccarsi dall’altra, per tutto questo tempo non hanno trovato l’uomo giusto. Anzi, credo persino che non abbiano mai pensato di sposarsi, finché l’anno scorso Caecilia non ha fatto il viaggio nella Selva Nera. A Titisee, dove vive la nostra vecchia zia. È lì che ha conosciuto il fabbricante di tappi per bottiglie da vino. Caecilia si è sposata e si è tirata addosso l’odio di sua sorella Amalia. Amalia ha lasciato la casa padronale e si è trasferita nella casa dei giardinieri. Dopo la cerimonia in chiesa ha fatto solo una breve apparizione al cosiddetto pranzo di nozze, se ne è subito andata e nessuno l’ha più vista. Per come la conosco, penso ora, non è più uscita dalla casa del giardiniere. Fino alla notizia della morte dei miei. Siccome la sua indole teatrale è molto più marcata di quella di sua sorella, si è certo precipitata urlando fuori dalla casa del giardiniere ed è corsa nella casa padronale, penso. Ma naturalmente non posso sapere come le cose siano andate in realtà. È probabile che al momento della disgrazia il marito di Caecilia fosse ancora a Wolfsegg, perché non contava di tornare nella Selva Nera e a Friburgo prima di due settimane, pensai. Pare che la nostra zia di Titisee abbia, come si usa dire, combinato il matrimonio di Caecilia. Tipico, che Caecilia credesse di poter restare a Wolfsegg anche dopo le nozze. Quale sforzo dev’essere costato a mia madre esortarla a seguire suo marito a Friburgo, visto che nostra madre aveva giurato in segreto che mai avrebbe lasciato andare via da Wolfsegg le mie sorelle, perché per tutta la vita ha avuto paura di rimanere sola. Voleva che entrambe le figlie restassero con lei a Wolfsegg, per poterne un giorno o l’altro perdere una, come certo pensava, senza doversi poi ritrovare sola. Nostra madre era sempre stata previdente e soprattutto aveva sempre preso in considerazione tutto, in prima linea ciò che riguardava il suo futuro. Di perdere il marito, mio padre, l’aveva sempre messo in conto, allora avrò pur sempre le mie figlie, se un giorno entrambi i figli non dovessero più essere a Wolfsegg. Questo il suo pensiero, che aveva ulteriormente sviluppato: se una delle figlie dovesse andarsene, mi resterà l’altra. Era in collera con Caecilia e glielo fece sentire nei giorni delle nozze, ma, furba com’è, anzi com’era, si guardò bene dal manifestare apertamente la sua collera e il suo improvviso odio per la rinnegata, al contrario, non perse occasione di simulare la sua gioia per quella felice unione, come ripeteva ogni momento. Solo ora, diceva, era la madre felice che aveva sempre voluto essere; davvero ripugnante per chi sapeva come stavano le cose. Per giunta si fece fotografare dal genero in tutti gli angoli di Wolfsegg, lei che per così dire non si era mai lasciata fotografare da un estraneo, in tutte le possibili pose, ridicole, anzi sfrontate, penso, e tutti i momenti abbracciava il genero e invitava l’uno o l’altro degli astanti a fare una foto di quell’abbraccio. Senza dubbio, durante quelle nozze la sua arte drammatica raggiunse le vette supreme. E proprio della Selva Nera! esclamava. Ho sempre amato Friburgo! E Titisee! La sua mancanza di gusto non conosceva limiti. In segreto non desiderava nulla più ardentemente di una rapida rottura dell’unione di Caecilia con quel suo marito più o meno balordo, che probabilmente non sa neppure lui come sia arrivato a tanto, poco importa in che modo. Nei suoi pensieri non era mai andata troppo per il sottile. Può darsi benissimo, penso, che, facendo sposare sua nipote Caecilia con il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, la nostra zia di Titisee si sia vendicata di mia madre, perché nulla è più evidente del fatto che è la nostra zia di Titisee la responsabile di quel matrimonio grottesco. Non aveva mai potuto soffrire mia madre, e ora viveva il suo trionfo. Mentre a quelle nozze si metteva di continuo in posa nel modo più disgustoso, mia madre certamente aveva già in testa come distruggere nella maniera più rapida quel matrimonio sgradito, penso. Quel meccanismo di distruzione lavorava già nella sua testa, mentre agli ospiti presenti alle nozze mostrava l’immagine della madre felicissima di quel matrimonio. Che lo zio Georg non possa più assistere a questo evento! esclamava. Durante tutti quei giorni mio padre aveva mantenuto un contegno piuttosto indifferente, si era occupato delle sue faccende, la maggior parte del tempo nella fattoria e nel bosco, feste del genere lo avevano sempre nauseato, le aveva sempre subite solo per amore di sua moglie e perché lei lo ha sempre costretto. Per tutto il tempo era stato, come si usa dire, la calma in persona. Io ho pensato in continuazione che d’un tratto era diventato vecchio, senza forze, del tutto privo di interessi. Ma non posso dire di aver provato compassione per lui. Con le mie sorelle, penso, ho avuto un rapporto normale, seppure non particolarmente buono, quando eravamo bambini, da adulti invece un rapporto sempre cattivo, e ora, dopo la morte dei miei genitori e di Johannes, temevo lo scontro con loro. Mi creeranno difficoltà enormi, pensai. Le loro facce, beffarde nella foto, esacerbate in seguito, non riuscirò a sopportarle, il loro modo di parlare, il loro modo di camminare, il loro modo di vestirsi e di prorompere a ogni occasione in accuse contro di me, là dove non c’è nulla da accusare. Di aver buttato via Wolfsegg, di aver offeso i nostri genitori, di averli feriti più o meno a morte, me lo avevano rimproverato sempre, ora, dopo la morte dei nostri genitori, certamente con sfrontatezza tanto maggiore. Non arretreranno davanti a nessuna accusa, pensai, sia pure la più assurda, la più meschina. Non servirà ch’io mi tenga in disparte, che le eviti il più possibile, loro saranno là senza sosta e mi getteranno addosso la colpa di tutta l’infelicità. A me e allo zio Georg, anche se è passato tanto tempo dalla sua morte. A ogni occasione diranno che ho fatto impazzire i nostri genitori, che li ho resi folli, che li ho feriti a morte. Anche se io non c’entro assolutamente nulla. Già quando erano in vita ero stato continuamente la causa della loro infelicità, e non soltanto dell’infelicità dei nostri genitori, anche della loro. Andandomene da Wolfsegg e voltando le spalle a Wolfsegg mi sono reso colpevole fra l’altro, secondo la loro teoria, anche del fatto che loro siano rimaste incatenate a Wolfsegg, che siano intristite a Wolfsegg, che non abbiano potuto minimamente evolversi, non abbiano potuto sposarsi eccetera. Del fatto che negli ultimi due decenni, appunto dal momento esatto in cui me ne sono andato da Wolfsegg e infine mi sono stabilito a Roma, tutta l’atmosfera di Wolfsegg si sia incupita in maniera spaventosa. Che papà e anche Johannes si siano ammalati, e che la mamma, oltre l’emicrania di cui ha sofferto per tutta la vita, abbia avuto la malattia allo stomaco e la malattia ai reni. Che lo stato di salute di tutti loro sia tanto peggiorato. Che a Wolfsegg più nulla sia stato rimesso a nuovo. Persino il fatto che in questi due decenni non siano più state fatte riparazioni al tetto, sarebbe colpa mia, tutte le volte che pioveva dentro davano la colpa a me, quando dovevano correre in soffitta con stracci e secchi per asciugare il bagnato. Prima, quando ancora ero a Wolfsegg, c’era tanta allegria, dal momento in cui sono scomparso per andarmene a Roma, non più. Di colpo a Wolfsegg nessuno aveva più ascoltato musica, per esempio. Wolfsegg è ammutolita, mi disse una volta Amalia, a causa tua, per la testardaggine che ti ha portato a Roma, perché io, come lei ebbe il coraggio di dire, non ho alcun senso di responsabilità, mi manca l’amore per i genitori, ho sempre odiato i nostri genitori, li ho sempre odiati i genitori, mentre loro li hanno sempre amati. Tutto il denaro dei miei, che sarebbe spettato anche a loro, disse, i nostri genitori lo avevano per così dire investito in me e sottratto a loro. Col mio dispendioso stile di vita, così Caecilia, avevo corroso i loro mezzi di sostentamento, e infine era mia la colpa della sempre più fatale svalutazione della loro eredità eccetera. Arrivarono persino ad affermare che avevo studiato, e mi ero scelto le università più costose d’Europa per nessun’altra ragione se non quella di tenerle il più possibile a corto di denaro. Perché deve essere Londra, Oxford, continuavano a chiedere, quando anche Innsbruck andrebbe bene lo stesso. Continuamente, da che ho memoria, mi hanno chiamato il loro fratello megalomane, che dissipava il loro denaro, sebbene si trattasse del mio denaro, del denaro dei nostri genitori, si può dire tutt’al più. Vado in giro sempre e solo con gli abiti più costosi, dicevano, mentre loro erano costrette a portare vestiti modestissimi a causa della mia mania di grandezza. Dei nostri stracci hai tu la colpa, aveva detto una volta mia sorella Amalia. Prima avevano gettato la colpa di tutto addosso a mio zio Georg, poi a me. Persino mio fratello non si era vergognato di rinfacciarmi il mio stile di vita, Wolfsegg non è in grado di finanziarmi in maniera tanto dispendiosa, furono le sue parole. Io non credevo alle mie orecchie, ma avevo sentito bene. I miei fratelli, per lo più, non facevano che ripetere le osservazioni dei nostri genitori, che dovevano stare a sentire per tutto l’anno, e quando ero a Wolfsegg davano libero corso alla loro maligna loquacità contro di me, non si trattenevano. I miei fratelli in ogni momento avevano definito inutile la mia vita e, senza mezzi termini, assolutamente superflua la mia esistenza, e avevano cercato di impedire ai nostri genitori di versarmi l’assegno mensile, pretendendo che i nostri genitori lo sottoponessero quanto meno a una drastica riduzione. Per tutto il tempo li avevano infastiditi insistendo perché andassero per le spicce con me, come io stesso avevo sentito una volta, senza farsi menare per il naso da me, come aveva detto mia sorella Caecilia durante un tè del pomeriggio preso con mia madre nel cosiddetto bersò, una volta che per puro caso ero arrivato prima del previsto. Senza sosta mi toccava esser testimone delle loro sfrontatezze nei miei confronti, da che ho memoria li tormentava, segretamente o meno, il pensiero che io ricevessi più di loro e più di quanto mi spettasse, e che conducessi una vita a loro avviso migliore e più gradevole, cosa che, a loro avviso, non mi spettava in nessun caso. Ma chi crede di essere? chiedevano tutti i momenti, cosa si è messo in testa? Se a tavola stavo zitto, non gli andava bene, se a tavola parlavo, non gli andava bene lo stesso. Stai sempre zitto, mi rimproveravano, oppure, parli sempre tu. Se restavo a casa, dicevano tutto il tempo, perché non te ne vai? Se me ne andavo, dicevano tutto il tempo, perché non resti a casa? Se mettevo un vestito chiaro, volevano che ne indossassi uno scuro, se ne indossavo uno scuro, ne volevano uno chiaro. Se chiacchieravo col medico in paese, dicevano in tono di rimprovero, chiacchiera di continuo col medico e parla male di noi col medico. Se non parlavo col medico, dicevano, non parla neanche col medico. Se dicevo che preferivo Roma a Parigi, loro ribattevano subito che elogiavo Roma solo perché loro la odiavano. Se dicevo che non volevo dolci, loro riferivano a se stesse quella frase sui dolci, sebbene io non pensassi affatto a loro nel pronunciarmi sui dolci, qualsiasi cosa dicessi, alle loro orecchie suonava sempre rivolta contro di loro. Già per questa ragione non ero più riuscito, col tempo, a resistere a Wolfsegg. Se avevo voglia di andare al lago, mi accusavano di andare continuamente al lago, cosa assurda, perché avevo voglia di andare al lago al massimo una volta l’anno, al contrario di mio fratello, che in effetti andava continuamente al lago, ossia ogni due o tre giorni, in estate anche più spesso, ma di accusare mio fratello non veniva loro neanche in mente. Se io andavo nel bosco, ai loro occhi ero un pazzo, se mio fratello andava nel bosco, trovavano la cosa del tutto normale. Se una volta nella locanda del paese ordinavo un Martini, dicevano subito, ordina sempre un Martini con quel che costa. Se mandavo loro una cartolina da un posto qualsiasi, dicevano subito, questa cartolina ce la manda solo per offenderci. Lui può permetterselo, di andare a Cannes, a Lisbona, a Madrid, a Dubrovnik, noi no. Così mi son tolto molto presto l’abitudine di mandare loro cartoline. Ma quando non hanno più ricevuto le mie cartoline, hanno cominciato a dire, non ci manda cartoline, è troppo avaro. Rimanevano in collera con me anche cinque o sei giorni perché, nel cuore dell’inverno, davo aria alle mie stanze per non soffocare, mi rimproveravano di sperperare, aprendo le finestre per far entrare aria fresca, il loro denaro in un’epoca in cui il denaro era così scarso e la legna così cara. Non mi perdonano mai il fatto che io dia aria alle mie stanze in inverno, perché in stanze non arieggiate non riesco a vivere e tanto meno a dedicarmi al mio lavoro intellettuale. Preferirebbero morire soffocate, piuttosto che mostrare comprensione per il fatto che io dia aria alle mie stanze, quando sono a Wolfsegg, dove, di legna da ardere, ne hanno per mille anni. La prima volta che sono tornato a Wolfsegg da Roma, credendo che mi aspettassero con gioia, avevo accennato fin dai primi istanti a quanto sia magnifica Roma in febbraio, quando si può star seduti all’aperto ai tavolini dei caffè, in abiti leggerissimi, a bere un caffè. Subito erano andate in collera per il fatto che io a Roma, in febbraio, beva il caffè all’aperto, e per tutto il tempo mi avevano rinfacciato di star sempre seduto all’aperto a bere caffè, mentre loro dovevano lavorare duramente, non solo in febbraio, ma tutto l’anno. Cosa credi, non sai quanto dobbiamo lavorare a Wolfsegg! dicevano tutti i momenti. Non possiamo permetterci niente, ma proprio niente di niente. Tu vivi nel lusso mentre noi qui sgobbiamo per mantenere Wolfsegg! Nei due decenni che ho trascorso lontano da Wolfsegg le mie sorelle hanno preso l’abitudine di rivolgersi a me con un disgustoso tono da tutrici che io, molto semplicemente, non posso accettare. Devi proprio andare in aereo, quando il treno costa solo un terzo? mi ha fatto notare l’ultima volta mia madre, e le mie sorelle, in tutta meschinità, hanno subito sottoscritto quel ridicolo rimprovero. Come già da bambine, insieme alla loro madre, mi avversavano con le loro voci acute e stridule, così ora mi avversano con le loro ripugnanti voci di vecchie, che mi perforano la testa ogni volta che debbo ascoltarle. Nostra madre diceva una qualche meschinità e le mie sorelle riprendevano quella meschinità senza pensarci un attimo e la moltiplicavano per tre. Mai avrei osato mostrare a Gambetti questa spaventosa Wolfsegg, penso, e per tutti questi anni mi sono ben guardato dall’invitarlo una sola volta a Wolfsegg. Ciò che gli ho detto finora di Wolfsegg, penso, è una cosa perversamente innocua in confronto alla situazione reale ed effettiva di quel luogo. Mai avrei potuto consentire a Gambetti di gettare uno sguardo in quell’inferno folle. Neanche in paese le mie sorelle erano amate, quando chiedevo in giro sentivo su di loro solo le cose più repellenti. Anche mia madre non era ben vista in paese. Mio padre, invece, tutti lo stimavano, e in segreto erano dispiaciuti che dovesse vivere con quella moglie e con quelle figlie. Con mio fratello Johannes dovevano lavorare nella nostra tenuta agricola e nei nostri boschi e nelle miniere di carbone, se lo facessero volentieri, non lo so. Ma non era una persona del tutto inaccessibile. E in fondo non era neanche così superbo come si è sempre detto di lui. È vero che non aveva modi gradevoli. Più per timidezza che per superbia si mostrava quasi sempre arrogante, ma non lo era. A differenza di mia madre e delle mie sorelle, come mio padre e anche come me del resto, aveva sempre avuto un buon rapporto con la gente del posto e soprattutto aveva saputo farla lavorare a suo vantaggio. Le mie sorelle invece, posso ben dirlo, erano invise a tutti. Né avevano mai fatto il tentativo di farsi benvolere. Non era soltanto strano che anche in età matura si presentassero sempre in due, era ripugnante, non solo grottesco ma effettivamente disgustoso. E che anche in età matura portassero vestiti uguali. Ancora oggi sono in tutto e per tutto le marionette della loro madre, dotate di voci atrocemente stridule. Quando per una volta si degnavano di rammendarmi le calze, le rammendavano con punti così grossolani che era impossibile continuare a portare quelle calze, e per giunta con un colore che non si intonava affatto al colore delle calze; dei calzini verdi, per esempio, me li rammendavano senz’altro con lana rossa, ed erano profondamente offese quando, anziché ringraziarle, gettavo loro in faccia, pieno di ribrezzo, il loro orrendo lavoro. E non ho mai potuto far altro che trovare oltremodo stupido veder le mie sorelle andare continuamente in giro con quel costume dell’Alta Austria di straordinario cattivo gusto, anche i cosiddetti vestiti alla tirolese, che dovevano farsi fare due volte l’anno dalla sarta di nostra madre, mi hanno sempre ripugnato. Quando arrivavo a Wolfsegg da Roma e loro mi correvano incontro in quei vestiti alla tirolese, dovevo dominarmi ogni volta per non essere offensivo fin dal primo istante. Da bambine avevano le trecce, più tardi hanno raccolto i capelli in una crocchia sulla nuca. La crocchia bionda, nel frattempo, è diventata grigia. Ricordo che già da bambine non tolleravano di vedermi seduto in giardino con un libro. Non mi davano pace, mi chiamavano, cosa che mi ha sempre dato un disgusto estremo, genio fallito, espressione che avevano preso dal vocabolario di nostra madre, e mi gridavano nelle orecchie quella definizione sfacciata finché io non gettavo via il libro, balzavo in piedi e mi rintanavo nella mia stanza. Cerco delle cose piacevoli sul conto delle mie sorelle, ma non ne trovo. Col tempo, certamente, potrei raccontare qualcosa che le mostri in una luce migliore, ma è tanto poco rispetto all’orrore che mi lega a esse, che non vale assolutamente la pena menzionarlo.
Debbo dire che la mia verità su di loro, che per tutta la vita mi hanno solo torturato e mi hanno invidiato persino l’aria che respiro, non mi spaventa neppure. Mi renderei colpevole di una grossolana falsificazione, se ora tacessi tutte le meschinità e le torture che mi hanno inflitto. Non lo meriterebbero, e non lo meriterei neanch’io. Per avere un po’ di refrigerio, e per mio personale divertimento, mi sono sempre comprato un paio di volte l’anno uno di quei cappelli di paglia romani che a Trastevere si trovano sempre per poche lire e che, essendo più leggeri di tutti gli altri, offrono la migliore protezione contro la calura romana, che in certi giorni può essere davvero insopportabile. Una volta che con uno di quei cappelli di paglia da quattro soldi arrivai a Wolfsegg e quindi, come allora ancora credevo, a casa, mia madre non mi chiese conto di nient’altro se non, precisamente, di quel cappello di paglia che avevo in testa. Era proprio necessario che io mi comprassi un cappello di paglia così costoso, ora che c’era una catastrofica crisi economica e si stentava a mantenere Wolfsegg? Questo solo a titolo d’esempio delle mostruosità dei miei, che, se ci penso, non hanno mai conosciuto le parole pudore, sensibilità, riguardo. E che non hanno mai avvertito il sia pur minimo bisogno di migliorarsi, che si sono fermati, tutti, già da decenni, e di questo si son mostrati paghi. Mentre io ho sempre fatto di tutto per migliorarmi, per accogliere e assimilare ogni cosa che ci fosse da accogliere e da assimilare, loro non avevano compiuto il minimo sforzo in questa direzione. Così come la maggioranza dei laureati crede, con la conclusione degli studi universitari, di aver fatto quanto basta per la sua esistenza, e di non doversi più adoperare per ampliare le sue conoscenze e il suo sapere e per sviluppare il suo carattere, perché crede di aver già raggiunto il culmine della sua esistenza, come per esempio gran parte dei medici che conosco, così i miei, dopo aver terminato il liceo, il cosiddetto classico, non si sono più adoperati per raggiungere nulla e sono rimasti fermi per tutta la vita su quelle posizioni in effetti del tutto insoddisfacenti. Ma è disgustoso questo atteggiamento di chi ritiene non più necessario l’arricchimento dello spirito, superfluo l’ampliamento delle proprie conoscenze, qualunque esse siano, tempo sprecato l’ulteriore e continua formazione del carattere. Già molto presto i miei hanno smesso di ampliare le loro conoscenze e di formare il loro carattere, al termine del liceo, dunque ancor prima dei vent’anni, hanno rinunciato a lavorare su se stessi e, sopravvalutandosi goffamente, si sono accontentati di quanto avevano raggiunto. Mentre mio zio Georg, per esempio, si è sforzato per tutta la vita di ampliare le sue conoscenze, rafforzare il suo carattere e sfruttare perfettamente, fino all’estremo, le sue possibilità, loro non avevano mostrato il benché minimo interesse in questo senso, in un’epoca in cui non avevano neanche raggiunto il primo gradino accettabile della loro evoluzione. Già intorno ai vent’anni, debbo dire, si erano arresi, non avevano più lasciato che nulla entrasse in loro, non si erano più sottoposti ad alcun genere di fatica, si erano sottratti a ogni sforzo utile per migliorarsi. Eppure è cosa ovvia ampliare le proprie conoscenze e formare e rafforzare il proprio carattere per tutto il tempo che si vive. Perché chi smette di ampliare il proprio sapere e di rafforzare il proprio carattere, ossia di lavorare su se stesso per trarre da sé tutto quanto sia possibile, ha smesso di vivere, e tutti loro avevano smesso di vivere già intorno ai vent’anni, da quel momento avevano solo vegetato, debbo dire, nauseati di se stessi, com’è naturale. Solo, ogni cent’anni hanno generato un uomo come mio zio, penso, un carattere così straordinario, ed è precisamente quell’uomo e quel carattere straordinario che hanno perseguitato con la loro avversione e il loro odio finché è vissuto. Osservando le fotografie che li ritraggono, penso che avrebbero potuto trarre moltissimo da sé, e probabilmente quanto c’è di più alto, e invece non hanno tratto nulla da sé, per pura indolenza. Si sono accontentati del tran tran quotidiano, che non richiedeva loro nulla più della tradizionale ottusità loro connaturata. Non hanno messo nulla in gioco, non hanno rischiato nulla, fin dalla prima giovinezza si sono sempre, come si usa dire, lasciati andare. Delle possibilità che indubbiamente, come chiunque altro, avevano sempre avuto, non avevano mai fatto uso. E se capitava che uno di loro facesse uso delle sue e delle loro possibilità, come mio zio Georg, per non tornare subito a parlare di me, lo torturavano con la loro incomprensione e con la loro invidia. Le mie sorelle si erano fermate nel momento in cui avevano lasciato il liceo. Erano uscite dal liceo a testa alta, stringendo in mano il diploma come un certificato di garanzia, valido tutta la vita, per qualcosa di straordinario, quando invece, nel migliore dei casi, non si trattava d’altro che del certificato di garanzia per una straordinaria ristrettezza d’idee, e si erano fermate. Oggi, a quasi quarant’anni, sono rimaste al livello dei loro diciannove anni e tutto in loro è più o meno ridicolo e, com’è naturale alla loro età, per nulla da compiangere, solo insulso. Ma anche nostro padre si è fermato molto presto, dopo aver concluso la cosiddetta scuola professionale per i lavoratori del legno, che ha frequentato a Wiener Neustadt, ha creduto di aver raggiunto il culmine della sua esistenza e da quel momento non ha fatto altro che declinare. A ventidue anni si era fermato e non aveva fatto altro che fossilizzarsi e intristire. E anche mio fratello Johannes si è fermato il giorno in cui si è diplomato alla scuola forestale di Gmunden, e ha smesso di evolversi. Come il novanta per cento dell’umanità, anche lui credeva che il diploma conseguito con buoni voti alla scuola frequentata per ultima fosse il culmine della sua vita. Lo pensa la maggior parte della gente, c’è da diventar pazzi. Escono dalla scuola, si fermano e non fanno più il minimo sforzo. E si afflosciano su se stessi, si può dire. E colui che non si sforza è indubbiamente quella persona disgustosa che, quando la osserviamo, non possiamo non osservare con il massimo ribrezzo. Ci deprime, col tempo non solo ci rattrista, ma ci rende furiosi. La avversiamo, ma non serve a nulla. L’umanità, a quanto pare, si sforza soltanto finché può aspettarsi degli ottusi diplomi di cui vantarsi in pubblico, quando ha in mano un numero sufficiente di quegli ottusi diplomi si lascia andare. Vive in gran parte solo per ottenere diplomi e titoli, per nessun’altra ragione, e quando a suo parere ha ottenuto un numero sufficiente di diplomi e titoli si lascia cadere nel morbido letto di quei diplomi e titoli. Non ha, pare, altro scopo nella vita. Non nutre, a quanto pare, alcun interesse per una vita propria e indipendente, per un’esistenza propria e indipendente, ma solo per quei diplomi e titoli, sotto i quali già da secoli l’umanità minaccia di soffocare. Gli uomini non aspirano all’indipendenza e all’autonomia in sé, non alla loro naturale evoluzione, bensì soltanto a quei diplomi e titoli e per quei diplomi e titoli sarebbero pronti a morire in ogni momento se li si consegnasse e conferisse loro senza condizioni, questa è la verità che smaschera e deprime. Tanto poco apprezzano la vita in sé, che vedono solo i diplomi e i titoli e null’altro. Si appendono i diplomi e i titoli alle pareti di casa, nelle case dei macellai e dei filosofi, degli sguatteri e degli avvocati e dei giudici sono appesi i diplomi e i titoli, e per tutta la vita costoro fissano quei diplomi e titoli con gli occhi avidi che gli sono venuti a furia di fissare avidamente e di continuo quei diplomi e titoli. Di sé non dicono, in fondo, io sono questa o quella persona, dicono io sono questo o quel titolo, sono questo o quel diploma. E non frequentano questa o quella persona, ma solo questo o quel diploma e questo o quel titolo. Così, possiamo senz’altro affermare che nell’umanità non sono gli uomini ad avere relazioni fra loro, ma solo i diplomi e i titoli, nell’umanità, per dirla in soldoni, gli uomini non contano, quel che importa sono solo i titoli e i diplomi. Da secoli non sono gli uomini a esser visti, ma solo i titoli e i diplomi. Al caffè non incontrano il signor Huber, ma la laurea di Huber, non vanno a pranzo con il signor Maier, ma con l’ingegnere omonimo. Hanno raggiunto il loro scopo, a quanto pare, solo quando non sono più l’uomo ma l’ingegnere, quando non sono più soltanto, come credono, la signora Müller ma la signora del consigliere del tribunale Müller. E nei loro uffici non ricevono la signorina tal dei tali, ma l’eccellente diploma. Questa mania dei diplomi e dei titoli è diffusa in tutta Europa, è vero, ma senza dubbio ha raggiunto in Germania e soprattutto in Austria un grado di mostruosità e di grottesco che addirittura annichilisce. Proprio di recente ho detto a Gambetti che gli austriaci e i tedeschi non stimano gli uomini ma solo i titoli e i diplomi, che anzi arrivano al punto di credere che l’uomo nasca solo nell’istante in cui ha conseguito un diploma o ottenuto un titolo, prima non è neanche un uomo. Gambetti ha trovato troppo violenta questa mia asserzione, esagerata, così l’ha definita, ma nel corso delle nostre lezioni avrò modo di dimostrargli che non esagero affatto, e che le cose non stanno così solo in Austria, torno ora a pensare, ma in tutta Europa e a poco a poco, con spaventosa rapidità, in tutto il mondo. Ma questa mania dei diplomi e dei titoli, naturalmente, non è un’invenzione di questo secolo, gli uomini l’hanno sempre avuta. Siccome avevano ben scarsa stima di sé, un giorno, molti secoli fa, si fecero passare per diplomi e titoli, per poter sussistere ai loro stessi occhi. Tutte le volte che vado in Austria, diceva molto spesso mio zio Georg, ho come l’impressione, quando sono in treno, che nello scompartimento siedano solo titoli di professore e di dottore, non persone, che per le strade camminino solo orde di diplomi, non giovani, solo consiglieri di corte, non vecchi. Come mio padre aveva fatto con il diploma di licenza della scuola professionale per i lavoratori del legno, anche mio fratello, suo figlio Johannes, aveva appeso alla parete sopra la sua scrivania il diploma di licenza della scuola forestale di Gmunden, in una spessa cornice, come se si trattasse di pale d’altare. La conclusione di quelle loro scuole, senza dubbio necessarie ma in tutto e per tutto ridicole, la sentivano come il culmine della loro vita. E le mie sorelle andavano in giro dicendo tutti i momenti, con stridula voce di testa, la parola liceo, senza che nessuno glielo avesse chiesto. Tutto il mondo soffre della malattia dei diplomi e dei titoli, che rende impossibile una vita naturale. Ma nei paesi latini non si sono ancora raggiunte in questo campo, assolutamente, le estreme, deprimenti condizioni austriache e tedesche, diceva mio zio Georg. Né penso che queste condizioni tedesco-austriache vi prenderanno piede. Quei popoli non sono mai stati e non sono di mentalità così angusta. Presso quei popoli la vita naturale è ancora ampiamente diffusa, mentre da noi è già quasi del tutto scomparsa. Da secoli un’effettiva vita naturale non è più possibile in Austria e in Germania, perché è stata divorata ed estinta dalla mania dei diplomi e dei titoli. Con mio fratello Johannes ho avuto un buon rapporto nella prima infanzia, solo un anno di differenza, lui è, no, era il maggiore, finché non siamo andati a scuola e non sono nate le nostre sorelle siamo stati buoni amici. Ma fin dai tempi della scuola le nostre strade si sono divise. Già a sei anni, penso, ciascuno di noi ha preso la direzione che avrebbe poi determinato tutta la sua vita, ciascuno di noi, in effetti, la direzione esattamente opposta all’altro. Mentre Johannes si addentrava sempre più a fondo in campi, boschi e foreste, con la stessa risolutezza io mi allontanavo proprio da campi, boschi e foreste, lui, dunque, penetrava sempre più a fondo dentro Wolfsegg, mentre io mi allontanavo sempre più da Wolfsegg, alla fine lui non è stato soltanto impregnato, ma presto dominato e, ritengo, risucchiato e divorato da Wolfsegg, io alla fine lo sono stato dal mondo al di fuori di Wolfsegg. Mentre le parole predilette di mio fratello, a poco a poco, si riducevano a cereali, maiali, abeti e pini eccetera, le mie erano Parigi, Londra, Caucaso, Tolstoj, Ibsen eccetera, e ben presto non era più servito a nulla che lui continuasse a sforzarsi di destare il mio entusiasmo per le sue parole predilette, come a me non è servito a nulla voler destare il suo interesse per le mie. Mentre io, sull’esempio di nostro zio Georg, trascorrevo la maggior parte del tempo nelle nostre biblioteche, lui lo si trovava per la maggior parte del tempo nelle stalle, nella stalla aspettava che una mucca finalmente partorisse, mentre in biblioteca io ero impegnato a decifrare una frase di Novalis, e proprio come lui nella stalla aspettava la nascita di un vitellino, con la medesima impazienza io aspettavo la nascita del pensiero novalisiano nella mia testa. Per la fine del liceo lui si era comprato una barca a vela, mentre la somma di denaro che avevo ricevuto in premio per l’esito positivo dei miei studi io la impiegai per fare un viaggio in Anatolia con mio zio Georg. Mentre io, quando lui era ancora a Wolfsegg, impiegavo ogni istante libero per stare con mio zio Georg, mio fratello non mostrava interesse nei confronti di mio zio, aveva sempre seguito mio padre, accompagnato nostro padre nei campi, nei boschi, nelle miniere, negli uffici delle cittadine circostanti. Fin dall’inizio io avevo visto in nostro zio Georg il mio maestro, lui, Johannes, il suo in nostro padre. Inoltre io non stavo, come mio fratello, continuamente appresso a mia madre, e ho addirittura provato odio nel vederlo, da piccolo, attaccato senza sosta alle sue gonne. Io non mi sono mai attaccato alle sottane di mia madre e ho sempre ritratto la testa dinanzi a lei, quando mostrava di volermi baciare. Lui chiedeva incessantemente di essere baciato da nostra madre. Di notte, quando lui dormiva, io lasciavo spesso la nostra stanza per andare da nostro zio Georg a farmi raccontare una favola, e lui, per amor mio, ne ha inventate e raccontate a centinaia. Mio fratello non osava eludere le norme vigenti a Wolfsegg, io le eludevo continuamente. Io me ne andavo di casa quando volevo, lui no, io scendevo in paese quando volevo, per osservare la gente che abitava là, per stare in mezzo a loro, lui no. Io parlavo con i paesani quando volevo, lui non parlava con loro se non ne aveva il permesso. Alla fine, già molto presto, io mi arredai una mia stanza secondo il mio gusto, a lui non sarebbe mai venuto in mente di fare altrettanto. I suoi libri di scuola erano sempre puliti, la sua grafia nei quaderni di scuola nitida e regolare, i miei libri di scuola erano sudici, la mia grafia era trasandata, quasi illeggibile. A tavola mio fratello compariva sempre puntuale, mentre io con la puntualità ho sempre avuto problemi. Io lo istigavo a certe avventure, lui non ha mai fatto altrettanto con me. Le avventure alle quali lo istigavo finivano di solito con lui che si faceva male e si metteva a urlare, perché era sempre stato il più maldestro dei due, spesso cadeva in un torrente, in uno stagno, inciampava in una radice, si scorticava il viso o le gambe nei cespugli, io mai. Se io dicevo, la vedi questa o quella cosa laggiù, lui non la vedeva, perché era miope, a differenza di me che ho sempre avuto una vista ottima. Io imparai ad andare in bicicletta senza sforzo e in un attimo, come si usa dire, lui impiegò molto tempo solo per riuscire a reggersi sulla bicicletta. Nelle corse non riusciva a starmi dietro. Se dovevamo attraversare un fiume a nuoto, di solito falliva e si arrendeva. Così, già molto presto si era radicato in lui, se non ancora odio, senz’altro un forte sentimento di inferiorità nei miei confronti, del quale ha sempre sofferto e che degenerò infine in un odio piuttosto sfrenato nei miei confronti, a tratti del tutto manifesto. Per esempio, in tre minuti io ero giù in paese, a lui ne occorrevano cinque. A scuola lui era il più attento di tutti, e quando l’insegnante lo chiamava scattava subito in piedi, mentre io, come si usa dire, sono sempre stato il più distratto, e, quando l’insegnante mi chiamava, di solito non sentivo, al che, com’è naturale, seguiva una punizione. Amici, nei primi anni di scuola, non ne avevamo né io né lui, perché non ci era permesso portare a casa compagni di scuola. Al termine delle lezioni, dal paese dovevamo tornare subito su a Wolfsegg. Ma qualche anno dopo, quando potemmo portare degli amici a Wolfsegg, ciascuno di noi ha avuto esattamente quelli che corrispondevano alla sua indole, amici opposti, come opposti eravamo anche noi. Mio fratello dormiva sempre profondamente e la mattina era sempre riposato, io soffrivo d’insonnia già da bambino. Io facevo i sogni più scatenati ed eccitanti, lui no. Sulla carta geografica lui doveva cercare a lungo, prima di trovare un determinato luogo, io no. Io amavo le carte geografiche sopra ogni cosa. Le dispiegavo dinanzi a me e facevo lunghi viaggi, visitavo le città più famose e correvo i mari con le mie navi immaginarie. A mio fratello interessavano tutt’altre cose: stava rannicchiato in un angolo della scuderia e osservava gli animali. Quando il circo Medrano piantò le tende giù in paese, noi avevamo cinque o sei anni, io non persi occasione di andare in paese a osservare gli artisti del circo, in particolare mi interessavano i trapezisti. Restavo seduto per ore in un angolo inaccessibile agli sguardi e li ammiravo negli esercizi di quella loro arte eccitante. Mio fratello non aveva mostrato per il circo il benché minimo interesse. D’inverno, finché non ero mezzo congelato, rimanevo in paese a osservare i giocatori di curling e molto presto chiesi una mia piastra da curling per poter partecipare alle partite, cosa che all’inizio mi era severamente vietata, ma io avevo eluso molto presto il divieto ed ero andato giù in paese di mia iniziativa, come si usa dire. Coglievo ogni occasione per andare in paese, non appena avevo imparato a camminare ne ero rimasto affascinato, affascinato dalla gente per me nuova, diversa. Mio fratello non aveva questo interesse, non c’era verso di convincerlo ad accompagnarmi nelle mie visite in paese. Avrebbe dovuto commettere un’infrazione, cosa per cui gli mancava il coraggio e che già molto presto aveva rifiutato per principio. Io entravo disinvolto in tutte le case del paese, mi presentavo e parlavo con la gente. Facevo amicizia con loro, osservavo come passavano le giornate, prendevo parte ai loro svaghi così come alle loro occupazioni, e quanta più gente conoscevo nelle mie scorribande per il paese, che è lungo oltre quattro chilometri, tanto meglio. Conobbi soprattutto la gente semplice, e il suo modo di vivere e di lavorare e di celebrare le feste. Fino al mio quarto o quinto anno di vita non lo sapevo che esistono altre persone oltre quelli di Wolfsegg, altri e ancora altri, centinaia, migliaia, centinaia di migliaia, milioni, come avevo presto scoperto. Andavo a trovare gli artigiani e li osservavo lavorare, il tornitore, il calzolaio, il macellaio, il sarto. Andavo dalla povera gente ed ero sorpreso di trovarla così gentile verso di me, perché avevo sempre creduto che fosse intollerante, come i miei me l’avevano sempre descritta, limitata, inaccessibile, cocciuta, subdola e perfida. Ma scoprii che quelle persone erano più amabili di noi lassù a Wolfsegg, che sono loro a essere amabili e accessibili, non noi, che sono loro a essere allegri e non noi, e fummo noi che d’un tratto, al contrario della gente del villaggio, trovai inaccessibili, cocciuti, subdoli e perfidi.
I miei avevano detto che il villaggio era pericoloso per me, e io avevo scoperto che al villaggio non sussisteva per me il minimo pericolo. Entravo disinvolto da tutte le porte e guardavo dentro tutte le finestre e la mia curiosità non conosceva limiti. Mio fratello non aveva mai partecipato alle mie scorribande, al contrario, mi denunciava ai miei genitori, è stato di nuovo giù in paese, diceva, e non si vergognava di stare a guardare impassibile quando mi punivano per la mia trasgressione, mia madre me le suonava con un nerbo di bue che teneva sempre a portata di mano, mio padre mi schiaffeggiava. Mentre io sono stato picchiato molto spesso con il nerbo di bue, non ricordo che mio fratello sia mai stato picchiato con quello, né che mai si sia preso uno schiaffo da mio padre. A me aveva sempre interessato l’Altro, a mio fratello no, pensai guardando la foto che lo ritrae sulla sua barca a vela sul Wolfgangsee. A Gambetti ho detto una volta che mio fratello è sempre stato devoto con i miei, io mai. Avevo spiegato a Gambetti cosa io intenda per devoto, in questo caso. A tavola mio fratello ha sempre avuto un comportamento tranquillo e non ha mai osato fare una domanda, mentre io a tavola facevo domande tutti i momenti, come i miei genitori mi rinfacciavano sempre, le domande più impossibili. Volevo sapere tutto, nulla doveva restare senza risposta. Mio fratello mangiava con molta calma, io ho sempre mangiato in fretta, fino a oggi. La mia andatura era il passo veloce che doveva sempre portare alla meta con la massima rapidità possibile, quella di mio fratello lenta, per non dire cauta. Anche quando scrivevo, scrivevo sempre in fretta e quindi con grafia trasandata e, come si è detto, quasi illeggibile, lui scriveva sempre piano, con calma. Quando andavamo a confessarci, lui restava a lungo nel confessionale, mentre io, appena entrato, ero già fuori. I molti peccati che credevo di avere io li enumeravo in gran fretta, lui che ne aveva pochi ci metteva almeno il doppio del tempo. Io inoltre mi vestivo in gran fretta la mattina, mi ricordo, quando dividevamo ancora la stessa stanza, fin verso i sette anni, non mi ero ancora alzato che ero già lavato e vestito, lui ci metteva sempre almeno tre volte tanto. In effetti lui era in tutto più simile a nostro padre che a nostra madre, mentre io fin dall’inizio ho preso di più da nostra madre, almeno per quanto riguarda la sveltezza e l’inquietudine, la curiosità e la capacità di comprensione. Era ovvio che già alle elementari i miei temi fossero migliori dei suoi, ma questo non significava che prendessi anche voti migliori, al contrario, per i miei temi indubbiamente migliori ho sempre preso voti peggiori dei suoi, il che non aveva nulla di sorprendente visti gli insegnanti che abbiamo avuto, e che in generale, per quanto riguarda i temi, danno più valore alla forma esteriore che non al contenuto. Io sceglievo sempre, quando erano liberi, argomenti interessanti, esotici, come io stesso dicevo sempre, mio fratello gli argomenti più semplici, che svolgeva ed esponeva in maniera altrettanto semplice, ma non solo semplice, anche noiosa e circostanziata, mentre i miei in effetti erano sempre formulati in maniera complessa e interessante, come si può dimostrare in qualsiasi momento sfogliando i quaderni di scuola sparsi in giro, in casse e scatoloni, nelle nostre soffitte di Wolfsegg. A mio fratello non interessava granché accogliere nella sua testa un sapere sempre più grande, per diventare così sempre più intelligente, la sua principale aspirazione era di mettersi in buona luce presso i vari insegnanti, cosa che io non mi ero mai prefisso, al contrario, gli insegnanti non mi avevano mai visto di buon occhio, come si usa dire. Gli insegnanti non mi amavano anche perché avere a che fare con me riusciva loro troppo difficile, mentre hanno sempre amato mio fratello, la sua mancanza di complicazioni. E anche perché sempre, in qualsiasi circostanza, lui obbediva all’istante. Io ero molto spesso impaziente e insubordinato con gli insegnanti e avevo sempre la risposta pronta, lui si piegava a tutti gli ordini e non si ribellava mai, mentre io mi ribellavo quasi ogni giorno e in tal modo mi attiravo l’ostilità aperta degli insegnanti. Come facevo a casa con i miei, anche agli insegnanti ho sempre posto tutte le domande possibili, facendoli uscire di senno, oggi lo so, ma quasi sempre esigendo cose che andavano oltre le loro capacità. Mi trattavano, com’è naturale, con il medesimo sospetto che io mostravo nei loro confronti. A differenza di mio fratello, che ha sempre creduto alla loro autorità, io non avevo mai creduto alla loro autorità, già molto presto mio zio Georg mi aveva descritto gli insegnanti per quello che in verità effettivamente sono, dei vigliacchi repressi i quali sfogano sugli allievi gli umori perversi che non possono sfogare a casa sulle loro mogli. Fra tutte le cosiddette persone colte, gli insegnanti sono i più pericolosi e i più infami, questa l’idea che lo zio Georg mi ha instillato già molto presto, in quanto a meschinità stanno alla pari dei giudici, i quali sono tutti su un gradino molto basso della società umana. Gli insegnanti e i giudici sono i più meschini servi dello Stato, diceva mio zio Georg, ricordatelo. Aveva ragione, ne ho avuto spesso la riprova, non cento ma mille volte. Di un insegnante, come di un giudice, c’è poco da fidarsi, senza esitazioni e senza freno, per disgustoso capriccio e per pura brama di vendicare la loro vita disgraziata e rovinata, annientano ogni giorno molte delle esistenze abbandonate al loro arbitrio e, oltre tutto, sono pagati per questo. L’obiettività degli insegnanti, come l’obiettività dei giudici, è una menzogna meschina e ipocrita, diceva mio zio Georg, aveva ragione. Quando si parla con un insegnante si fa presto a capire che, per insoddisfazione di sé, è un carattere che distrugge la gente, anzi in definitiva che distrugge il mondo, proprio come quando si parla con un giudice. Mio fratello aveva sempre accordato subito a tutti la sua fiducia, e poi si era sempre sentito ferito quando la sua fiducia, in quasi tutti i casi, era stata delusa, io al contrario non ho quasi mai accordato subito a qualcuno la mia fiducia e di conseguenza raramente sono stato deluso nella mia fiducia. A furia di fiducia delusa, fin da giovane i suoi sentimenti si erano esacerbati e lui ha assunto inoltre, ben presto, i tratti del viso di suo padre, esacerbato e nel complesso deluso dalla vita, li ha rilevati, debbo dire, come quando una persona rileva una proprietà. Molto in fretta, in generale, è arrivato ad assomigliare in tutto e per tutto a suo padre. Quante volte ho pensato, ma tuo fratello cammina come tuo padre, sta seduto come tuo padre, si alza come tuo padre, mangia come tuo padre e nelle sue lunghe frasi circostanziate dispone le parole esattamente come suo padre. Fra trent’anni, ho pensato spesso, sarà come tuo padre. Aveva assunto proprio tutte le abitudini di suo e dunque anche di mio padre. Come suo e mio padre era diventato molto presto un uomo indolente, che faceva sempre solo finta di essere attivo, mentre in realtà era l’inerzia in persona, ostentava d’essere un uomo del quale non si poteva fare a meno di dire che era ininterrottamente attivo, che lavorava senza sosta, che non si concedeva mai un attimo di riposo e tutto questo, è ovvio, solo ed esclusivamente per la famiglia, che desiderava vederlo sempre così come lui si esibiva, ma la famiglia prendeva sul serio ciò che lui esibiva, e non riconosceva, o molto semplicemente non voleva riconoscere che stava solo guardando un attore e mai, neppure per un istante, colui che nella sua innata indolenza si trincerava dietro l’attore; in realtà mio fratello lavorava altrettanto poco quanto mio padre, si limitava sempre a esibire quel lavoro ininterrotto ammirato da tutti e quell’ininterrotto fervore nel lavoro che li soddisfaceva e che alla fine soddisfaceva anche lui, perché lui stesso, d’un tratto, non era più stato in grado di comprendere che il suo fervore nel lavoro lo recitava soltanto, per la famiglia, ma in realtà non lo sentiva affatto. Mio padre ha recitato per tutta la vita la commedia dell’agricoltore straordinariamente laborioso, se non addirittura fanatico del lavoro, che non riposa mai, neppure per un istante, perché quel riposo non se lo può affatto permettere, per puro senso della famiglia, e altrettanto ha fatto mio fratello, che ha ripreso questa commedia da mio padre, in assoluta conformità all’originale, entrambi avevano capito presto che basta far finta di lavorare senza lavorare davvero. In fondo non hanno fatto nulla se non perfezionare il più possibile, per tutta la vita, la commedia che facevano passare per lavoro, e hanno raggiunto un alto grado di maestria in questo campo, per non dire in quest’arte. La maggior parte dell’umanità, soprattutto in Europa centrale, finge di lavorare, recita ininterrottamente la commedia del lavoro e perfeziona fino alla vecchiaia questa commedia del lavoro, che con il lavoro reale ha altrettanto poco a che vedere quanto la commedia reale ed effettiva con la vita reale ed effettiva. Ma dal momento che gli uomini preferiscono sempre vedere la vita come commedia anziché la vita vera, che in definitiva sembra loro troppo faticosa e arida, una spudorata umiliazione, preferiscono recitare anziché vivere, preferiscono recitare anziché lavorare. Così, non ho mai tenuto in grande considerazione il lavoro di mio padre, che tutti hanno sempre tenuto in grande considerazione, perché di solito non era altro che commedia, come il lavoro di mio fratello, che con somma astuzia ha imparato da suo padre quella commedia, per presentarla con perfezione ancora maggiore al suo contorno di ammiratori. Ma non è solo nei cosiddetti ceti elevati che al giorno d’oggi, di solito, il lavoro viene ormai più recitato che realmente fatto, questa commedia è assai diffusa anche fra la cosiddetta gente semplice, la gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca danni enormi. Al giorno d’oggi quasi tutti gli operai e gli artigiani credono che sia sufficiente indossare la tuta blu senza poi fare, non diciamo un’attività utile, ma anche soltanto qualcosa, recitano la commedia del lavoro e il loro costume è la tuta blu che tutto il giorno portano con ostentazione, con quella corrono ininterrottamente avanti e indietro e in effetti spesso ci sudano anche dentro, ma quel sudore è falso e quindi perverso e dipende solo da un lavoro recitato, non reale. Anche il popolo ha capito da tempo che il lavoro recitato è più redditizio di quello realmente fatto, anche se molto meno sano, eccome, e ormai recita soltanto la commedia del lavoro anziché eseguirlo effettivamente, per cui gli Stati si ritrovano d’improvviso, come vediamo, sull’orlo della rovina. In verità e in realtà al mondo ci sono ormai solo attori che simulano il lavoro, non ci sono lavoratori. Tutto viene recitato, nulla viene più realmente fatto. Recita soltanto la commedia, non lavora mica, pensavo molto spesso quando osservavo mio padre lavorare, e lo stesso vale per mio fratello. Certo non li rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e prendono per il naso il prossimo, esattamente come fa il resto dell’umanità con il suo prossimo, ma, mi dicevo sempre, non dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di lavoro. E proprio per la famiglia, oltre tutto, e in occasioni particolari, oltre tutto, per la patria. Posso affermare tranquillamente che nostro padre ha sempre fatto senza grandi sforzi il suo lavoro a Wolfsegg, lo stesso vale per mio fratello. Non si sono mai ammazzati di fatica. Nelle loro mani, in verità, Wolfsegg è diventata sotto ogni aspetto la rovina di Wolfsegg. Mio zio Georg aveva ragione quando mi disse una volta: tuo padre e tuo fratello sono dei furbi di tre cotte; fingono dinanzi al mondo di essere i robot della famiglia, mentre in realtà hanno solo trasformato Wolfsegg nel loro confortevole palcoscenico di campagna, sul quale si fanno beffe di noi. Non siamo noi che li sfruttiamo, sono loro a sfruttare noi. E per giunta ci facciamo abbindolare dalla loro falsità. Spesso all’agricoltore basta aprire il portone del cortile e mettere su, come se lo dessero alla radio, per così dire, un po’ di grugnito di maiali, e farlo uscire da quel portone liberandosi la coscienza, per guadagnarsi subito la fama di onesto e laborioso. E l’umanità è in effetti tanto stupida da farsi abbindolare da questi metodi. A milioni, la mattina, si infilano nei loro panni di fustagno e vengono presi per persone intere, vale a dire persone che lavorano, mentre non sono altro che un’armata di scaltri fannulloni che fanno solo danni e mandano il mondo in rovina, e hanno in mente solo la loro pancia, null’altro. Ma gli intellettuali sono davvero troppo stupidi per accorgersene, disse mio zio Georg. È sufficiente che un operaio o un artigiano fannullone, purché indossi la tuta blu, faccia la sua comparsa da quattro soldi sul palcoscenico del lavoro, falso da cima a fondo, perché loro si sentano in colpa. Gli intellettuali sono caratteristi irrilevanti, assolutamente ininfluenti, su quel palcoscenico del lavoro privo di scrupoli, che infetta ogni cosa, e sul quale da oltre mezzo secolo, con scaltrezza somma, la commedia del lavoro e dell’attività viene recitata senza sosta e con arroganza in maniera tale che non si può fare a meno di rabbrividire. Ma non ho proprio nulla, disse mio zio Georg, contro il fatto che la gente non voglia lavorare, che l’umanità non voglia lavorare, basta che ammetta francamente la sua pigrizia e non reciti tutti i giorni la sua disgustosa commedia del lavoro. Su questo palcoscenico del lavoro tuo padre e tuo fratello sono protagonisti di assoluta eccezione. E tua madre, per quanto riguarda Wolfsegg, è la regista del tutto.
Le mie sorelle, penso, hanno preso fin da bambine l’abitudine di quell’isterico saltellare di cui alla fine, in età adulta, hanno fatto una delle loro caratteristiche più vistose, saltellano tutto il giorno, non camminano, saltellano dalla cucina al corridoio e ritorno e nel cosiddetto salotto e ritorno, in effetti non camminano, saltellano, vedo che saltellano e che sono rimaste le bambine che erano trent’anni fa, mentre in realtà naturalmente camminano, ma io le vedo sempre saltellare quando camminano, non riesco a vederle camminare senza vedere che in fondo continuano a saltellare nella stessa maniera isterica che avevano da bambine piccole, da ragazzine che saltellavano tutto il giorno per Wolfsegg con le loro lunghe trecce. Hanno quarant’anni, gli son venuti i capelli grigi e io continuo a vederle saltellare. Quando finalmente riuscivo a liberarmene, mi sorprendevano d’improvviso saltellando e non mi davano pace, mi perforavano gli orecchi con il loro ridacchiare e con quel ridacchiare mi facevano diventare mezzo matto. Non soltanto cantavano tutto il giorno proprio le canzoni che odiavo, tutto quello che facevano, non importa cosa fosse, era sempre diretto contro di me. Come se i miei genitori le avessero generate in tutta consapevolezza contro di me, mi ballavano sempre intorno, mi accerchiavano, mi si gettavano addosso persino nei sogni. Spesso mi svegliavo da un sogno nel quale volevano uccidermi. Mio fratello lo lasciavano in pace, non trovavano gusto nel torturarlo, mentre non conoscevano divertimento maggiore che portare me alla disperazione. Il loro atteggiamento nei miei confronti era sempre stato solo maligno e di quell’atteggiamento maligno verso di me avevano fatto un metodo. Per molto tempo ero stato in mano loro, senza salvezza. Mi spiavano anche di continuo, e si deliziavano dei castighi che a causa delle loro denunce presso i miei genitori dovevo poi subire, con gioia maligna stavano a guardare quando mia madre mi picchiava sulla testa col nerbo di bue, quando mio padre mi schiaffeggiava, durante quelle punizioni non riuscivano a reprimere il loro meschino ridacchiare. Non saprei dire quale delle mie sorelle sia stata la più diabolica, perché a volte era Amalia a essere aizzata contro di me da Caecilia, a volte Caecilia da Amalia. Il cosiddetto sesso debole mi si era rivelato già allora come quello in realtà assai più forte e spietato, perché mostrava il massimo piacere nel torturarmi più o meno senza ritegno. L’inventiva che le mie sorelle avevano mostrato nel torturarmi era inesauribile, in grado di produrre ogni giorno nuove possibilità di tortura con scaltrezza sempre maggiore, con infamia sempre maggiore. Già molto presto le mie sorelle furono una coalizione contro di me. Erano loro a essere credute, non io, era la loro parola che contava, non la mia. Così cominciai a meditare la mia vendetta. Le chiudevo nella dispensa buia e senz’aria, le buttavo nello stagno, davo loro uno spintone sicché cadevano lunghe distese nei loro vestiti bianchi della domenica e si rialzavano sporche e sanguinanti dalla testa ai piedi. La prospettiva di un castigo spaventoso non mi impediva di vendicarmi della loro perfidia con questa o quella crudeltà. Le portavo nel bosco e poi scappavo via, lasciandole sole in preda a una paura mortale, senza curarmi delle loro grida. Ma le crudeltà che loro mi avevano inflitto erano state le prime, e fin dal principio più mostruose delle mie. Nella foto vedo distintamente tutte queste crudeltà, nei loro volti c’è la loro storia, c’è tutto quel che sono. Le bambine crudeli erano diventate a poco a poco adulte altrettanto crudeli. Da bambine già non erano belle, da adulte sono ormai soltanto brutte. Non si può stabilire con esattezza quale assomigli di più a nostro padre, quale di più a nostra madre, entrambe, com’è naturale, hanno tutto dei genitori, solo involgarito. A tavola stanno sedute come marionette, in balìa delle loro ciance sempre uguali da decenni. Si siedono contemporaneamente e contemporaneamente saltano in piedi, e quando una va al gabinetto l’altra le corre subito dietro. Quelle due donne non sanno star sole, nemmeno al gabinetto. D’inverno passano quasi tutto il tempo sedute sul sofà in camera loro a lavorare ai ferri, per noi, quelle giacchette che non vanno bene a nessuno e sono sempre malriuscite e che inoltre sono sempre state le più brutte che io abbia mai visto. O avevano una manica più lunga dell’altra, o il dorso troppo largo, o la vita davvero troppo stretta, come la scollatura, e il tutto, per giunta, era lavorato a maglie troppo grandi e trasandate, perché, com’è naturale, non erano mai riuscite a concentrarsi. Il colore della lana che sceglievano per le loro maglie era sempre stato di pessimo gusto. Costringevano mio fratello e me a infilare, per provarli, quei pullover mezzo finiti, e tiravano e strattonavano in tutte le direzioni e affermavano che il loro lavoro era riuscito, mentre fin dal principio era stato palesemente rovinato da un indescrivibile dilettantismo. A Natale poi ciascuno trovava sotto l’albero la sua spaventosa maglia, e doveva indossarla fra i più incredibili contorcimenti del corpo recalcitrante, e per giunta elogiarla. La notte di Natale, a Wolfsegg, se ne stanno sempre tutti lì seduti come storpi, con addosso le maglie rovinate delle nostre sorelle. Come se le mie sorelle, innamorate delle loro maglie, con quelle loro maglie di cattivo gusto si fossero prefisse di renderci ridicoli. Come se, per settimane e mesi, avessero fornicato con la lana. Per mesi, d’inverno prima di Natale, Wolfsegg cadeva sotto il dominio assoluto della lana. La vigilia di Natale le nostre sorelle ci infilavano tutti quanti nella loro atroce lana, e noi dovevamo anche ringraziarle di cuore. Ho sempre odiato le maglie fatte in casa, come pure la cucina fatta in casa, come pure, in generale, tutte le cose fatte in casa. Anche i vasi per conserve sono un incubo per me, e a Wolfsegg ci sono sempre state centinaia di vasi per conserve, non solo nelle dispense, ma anche nelle stanze, sugli armadi. La prospettiva di dover mangiare nei prossimi decenni tutta la marmellata accumulata in quei vasi, con le etichette scritte da mia madre e dalle mie sorelle, già molto presto si era radicata in me come odio permanente verso tutte le conserve e in particolare verso ogni specie di marmellata. Nelle dispense, inoltre, avevamo sempre centinaia di vasi con cosce di pollo, di fagiano e di piccione, il cui giallo torbido mi dava la nausea ogni volta che mi capitava sotto gli occhi. Sebbene a Wolfsegg, col tempo, la marmellata si adoperasse sempre meno e le cosiddette conserve si mangiassero sempre meno, mia madre e le mie sorelle continuavano sempre più a metter sotto vetro e a far conserve; erano effettivamente possedute, da che ho memoria, dalla mania di metter sotto vetro e far conserve, e da quella mania di metter sotto vetro e far conserve non c’era più stato verso di guarirle. Col pane vecchio facevano ogni settimana il pangrattato, e conservavano intere gallerie di vasi di pangrattato, che non venivano mai usati perché a Wolfsegg ormai non si impanava quasi più, perché non mangiavamo più cotolette, molto semplicemente, la cucina viennese non veniva più richiesta e non si mangiava più alla viennese. Si mangiava invece quasi tutto alla parigina, secondo i gusti di nostra madre, che in ogni cosa, a Wolfsegg, ha sempre imposto i suoi gusti. Se si guardava bene Wolfsegg, si comprendeva subito che a dominare nettamente erano i gusti di mia madre. Non appena era entrata a Wolfsegg aveva eliminato tutto quanto appartenesse a nostro padre e imposto quanto apparteneva a lei, sicché la mia casa paterna, debbo dire, era diventata ben presto una casa materna, e non a suo vantaggio, come dimostrano le innumerevoli aberrazioni in tutti gli ambienti di Wolfsegg, e non solo gli ambienti, tutto a Wolfsegg, anche i giardini, è finito a poco a poco sotto l’influenza di mia madre e in definitiva è da tempo andato in rovina sotto l’azione dei suoi gusti. Per secoli i giardini di Wolfsegg sono stati un parco curato secondo piani rigorosamente rispettati, finché mia madre non ha modificato radicalmente anche quelli, la natura intorno a Wolfsegg, un tempo ampia e generosa, come ben so e come dimostrano antiche incisioni, si è trasformata in un parco piuttosto convenzionale, insulso e noioso, per non dire piccolo borghese. Tutto, per così dire, porta il segno di mia madre. La sua mania di grandezza, debbo dire, a poco a poco ha rimpicciolito tutto. Non necessariamente una donna per così dire venuta dal basso è sempre una catastrofe per una proprietà come Wolfsegg, ma mia madre lo è stata. Mio padre, essendo un debole, non aveva mai avuto la forza e mai il carattere necessari per porre un limite alla megalomania e all’insensatezza di sua moglie. Al contrario, aveva sempre approvato e considerato massima espressione del buonsenso tutto ciò che quella donna, nostra madre, desiderava, aveva salutato e festeggiato ciascuna aberrazione del suo gusto come cosa buona, eccellente, se non addirittura grandiosa, e così a poco a poco l’aveva legittimata a credersi quella salvatrice di Wolfsegg cui lei in seguito si è sempre atteggiata. Mentre nostra madre, in verità, è sempre stata per Wolfsegg il peggiore dei flagelli. E delle mie sorelle mia madre ha fatto già molto presto le sue aiutanti incondizionatamente sottomesse che, non appena ne avevano l’occasione, diffondevano e imponevano le mancanze di gusto della loro madre. Col tempo le mie sorelle erano diventate le due più pericolose portavoce di nostra madre. Quelle portavoce stavano incessantemente in agguato, a tutte le ore del giorno e della notte. Sorelle del genere sono in grado di oscurare completamente una scena di per sé felice, ho detto una volta a Gambetti. Una madre del genere e sorelle del genere, affatto prive di carattere, in una proprietà come Wolfsegg possono trasformare ogni giorno in notte, se lo desiderano. E insieme hanno oscurato a Wolfsegg tanti giorni, anzi anni. Privato noi tutti della luce, semplicemente perché lo volevano. Un uomo come mio padre, avevo detto a Gambetti, sposa una donna e si priva così della luce. E poi non vive più come prima, ma ormai brancola soltanto nell’oscurità, goffo e pesante, per il diletto di coloro che di quell’oscuramento sono gli autori. Uomini come mio padre prima differiscono un legame, e a maggior ragione un matrimonio, nel tempo, sempre più nel tempo, finché poi d’improvviso, credendo di essere altrimenti perduti e di essere diventati oggetto di scherno, finiscono nella trappola di una donna scaltra, che, non appena scattata, si rivela essere una trappola mortale, dissi a Gambetti. A differenza di mio zio Georg, mio padre, per sua natura, era fatto per il matrimonio, dissi, ma in nessun caso con una donna come mia madre. Ha sposato colei che lo avrebbe annientato e tradito. Naturalmente amiamo nostra madre, dissi a Gambetti, ma vediamo tuttavia la sua meschinità e la sua volontà di annientare. L’elemento infame entra in azione, dissi a Gambetti, ciò che è morale diventa ridicolo. Ma esiste naturalmente anche l’esempio inverso: una donna entra in scena e salva davvero tutto. Ma questa donna, nostra madre, non è stata altro se non colei che annienta. D’altro canto, dissi a Gambetti, è possibile che questa sia la mia idea, mentre le cose stanno in maniera affatto diversa, forse contraria, vale a dire che senza questa donna, mia madre, la sciagura abbattutasi su Wolfsegg sarebbe ancora più grande. Mio zio Georg definiva molto spesso la situazione che a causa di mia madre si era instaurata a Wolfsegg la sua più grande fortuna. Il mio conto è tornato in tutto e per tutto, diceva spesso. E anch’io debbo dirmi che il mio conto è egualmente tornato. In fondo è probabile che anch’io avrei avuto un’evoluzione completamente diversa, se Wolfsegg avesse avuto un’evoluzione diversa, dunque senza mia madre, con un’altra moglie di mio padre. Io non sarei quello che sono, se Wolfsegg fosse un’altra. Siccome nel complesso, soprattutto con la possibilità di vivere a Roma, posso definirmi un uomo del tutto felice, dissi a Gambetti, non ho ragione di parlare continuamente di Wolfsegg come di una catastrofe. È possibile, dissi quel giorno a Gambetti, che lo faccia tuttavia per un senso di colpa, soltanto per essere indipendente da Wolfsegg così com’è, con una spietatezza, debbo ammettere, piuttosto marcata. Come sappiamo, odiamo coloro che ci nutrono, dunque io odio Wolfsegg più o meno per questa ragione, dissi a Gambetti, perché è Wolfsegg che mi nutre, se io ne abbia diritto o meno, non conta. Noi odiamo infatti solo quando e perché siamo in torto. È diventata per me un’abitudine pensare (e dire!) in continuazione, mia madre è disgustosa, le mie sorelle lo sono altrettanto, e in più sono stupide, mio padre è debole, mio fratello è un povero idiota, tutti loro sono degli imbecilli. Quest’abitudine è un’arma, che in sostanza è infamia, con cui probabilmente si vuole soltanto placare una coscienza sporca. Allo stesso modo, dissi a Gambetti, loro potrebbero scagliarsi contro di me, mettermi in continuazione alla berlina, fare di me il malvagio, come io ho fatto con loro nel corso del tempo. Molto facilmente e molto in fretta ci abituiamo a odiare, a maledire, senza chiederci se il nostro odiare e maledire abbia ancora, col tempo, la benché minima giustificazione. Nel complesso sono povera gente, nei cui confronti, visto che conosciamo noi stessi, dovremmo provare soprattutto compassione, perché, come noi, vivono in maniera miserabile, e debbono condurre la loro miserabile esistenza, che lo vogliano o no. Debbono farle fronte, dissi a Gambetti. Perché, quando si tratta degli altri, ci si accanisce sempre, per così dire, innanzitutto e maggiormente sulle insufficienze e sugli errori, anziché sui pregi, avevo detto a Gambetti. Ma guardare le foto mi fece subito tornare alle mie idee di sempre, le mie sorelle mi apparvero semplicemente come le persone ridicole che sono. Sul loro ridicolo non avevo dubbi. Ma meritano che tu le definisca disgustose? mi dissi. In un momento come questo? Mi vergognai, ma subito dopo dovetti dirmi che nessuno può uscire dalla propria testa, e perseverai nel pensiero che le mie sorelle sono ridicole e disgustose. Una cosiddetta tragedia familiare, mi dissi, non giustifica il fatto che di quella famiglia si falsi radicalmente l’immagine. Che si ceda a un repentino sentimentalismo e, addirittura, ci si annulli più o meno in esso, di nuovo, in effetti, soltanto per egoismo. Una disgrazia, e sia pure la più terribile, non ci autorizza certo a falsare la testa, a falsare il mondo, a falsare tutto, in breve, a far causa comune con l’ipocrisia. Di certi defunti, che da vivi tutti trovavano disgustosi e ripugnanti, mi è capitato spesso di sentir parlare, d’improvviso, come se nella loro vita non fossero mai stati disgustosi o ripugnanti. Queste mancanze di gusto le ho sempre trovate imbarazzanti. La morte di un uomo non lo trasforma in un altro, non fa di lui un carattere migliore, non fa di lui un genio se è stato un imbecille, o un santo se da vivo era un mostro. A una tale sciagura dobbiamo resistere secondo natura, sopportarla con tutti i suoi orrori, anche con la certezza che essa non ha cambiato, nella loro immagine veritiera, le persone che in essa hanno perduto la vita. Di un morto non si deve parlar male, dice la gente, è un’opinione ipocrita e falsa. Come posso, di un uomo che da vivo è sempre stato orrendo, che è stato in tutto e per tutto un carattere abietto, affermare d’improvviso, dopo la sua morte, che non è stato un uomo orrendo, un carattere abietto, ma d’un tratto un brav’uomo? A questa mancanza di gusto assistiamo ogni giorno, quando uno muore. Così come, alla morte di qualcuno, non dovremmo esitare a dire, questo brav’uomo è morto, egualmente non dovremmo esitare a dire, quest’uomo meschino, abietto è morto. È morto con tutti i suoi errori, dovremmo dire, e con tutto ciò che aveva di bello, con tutto ciò che aveva di sorprendente, in ogni caso. La morte non deve in alcun modo correggere l’immagine che di un uomo ci siamo fatti. È in noi così com’era, dovremmo dirci, e lasciarlo in pace. A Gambetti ho detto, per un pezzo non andrò a Wolfsegg, e ora invece debbo tornare all’istante. Non posso più vedere Wolfsegg, ho detto, le mura non le sopporto più, le persone ancor meno delle mura, e il clima mi si è fatto definitivamente intollerabile. Non pensavo che mi sarebbe diventato intollerabile tanto presto, gli ho detto. I miei genitori non li sopporto più, ma neanche i miei fratelli, sono soprattutto le mie sorelle, ho detto, a darmi sui nervi. È troppo tempo che sono a Roma, e all’estero in generale, sono diventato uno straniero, mi è insopportabile stare a Wolfsegg anche un’ora sola senza ripulsione. Non riesco a immaginare, ho detto, di poter mai più restare a Wolfsegg per qualche tempo. Nulla più mi lega a Wolfsegg. Mi fa orrore tutto quanto abbia a che fare con Wolfsegg. La storia di Wolfsegg mi grava addosso con un peso che annienta, al quale non mi esporrò più. E ora debbo tornare a Wolfsegg all’istante. In quali circostanze! In quali terribili circostanze!, mi dissi. Non sono passate neanche quattro ore, da quando ho detto a Gambetti che a Wolfsegg preferirei non andarci mai più. Mi è diventata intollerabile. Tutto laggiù è menzogna, Gambetti, ho detto, laggiù regna un insopportabile artificio che Lei non può immaginare, Gambetti. Quella gente è sorda a tutto ciò che per me ha un così grande significato, alla natura, all’arte, a tutto ciò che è essenziale. Non leggono libri, non ascoltano musica, dalla mattina alla sera parlano solo delle cose più inutili, più banali. Con loro non è possibile la benché minima conversazione proficua, ma solo la più deprimente. Se dico qualcosa, non capiscono cosa dico. Spiego qualcosa e loro mi fissano con assoluta indifferenza. Non hanno un’ombra di buon gusto. Quando parlo di Roma, che pure è uno dei centri del mondo, dissi a Gambetti, loro si annoiano. Quando parlo di Parigi, quando parlo di letteratura, di pittura. Non posso menzionare un nome che per me conti qualcosa senza temere che loro non l’abbiano mai sentito. Là tutto è paralizzante, e a tal punto gelido, anche d’estate, che ho sempre freddo. Lei non sa che quella gente non ha altro in testa se non le cose più primitive. Denaro, caccia, Gambetti, verdure, cereali, patate, legno, carbone, null’altro. Mia madre parla di continuo delle sue azioni, che ha collocato nella maniera più infelice, come ripete senza sosta, mio padre ha in bocca ininterrottamente la parola magazzino, mio fratello crede che il centro del mondo sia la sua barca a vela, e la sua Jaguar. Lei deve immaginare che laggiù va avanti e indietro solo la gente più disgustosa, la gente insulsa, ridicola e priva di interesse di quelle orrende cittadine, con cui non si riesce a fare il benché minimo discorso, non c’è argomento che si possa affrontare, con quella gente, senza fallire fin dal principio. Se possibile, non tornerò a Wolfsegg prima di un anno, dissi a Gambetti, neanche a Natale, anche questa consuetudine mi si è fatta disgustosa, perché a Natale la falsità a Wolfsegg raggiunge il culmine. Per almeno un anno non andrò a Wolfsegg, al massimo per il compleanno di mio padre! avevo detto quando ci eravamo fermati davanti all’Hotel Hassler. Anche questa volta sono fuggito da Wolfsegg e ho offeso i miei, dissi, sebbene quella gente non la si possa offendere affatto perché non se ne accorge neppure, l’insensibilità che regna laggiù è indescrivibile, Gambetti. Ormai tutto ciò che è austriaco, come tutto ciò che è tedesco, mi è diventato insopportabile. A Roma mi sono guastato ogni possibile legame con Wolfsegg, dissi a Gambetti. Roma mi ha reso Wolfsegg impossibile. Già Londra mi ha reso impossibile il legame con Wolfsegg, poi Oxford, poi Parigi, poi Roma definitivamente. Non capisco come io abbia mai potuto avere dei rimorsi per non essere andato a Wolfsegg perché loro così volevano, loro infatti non meritavano certo che io andassi mai più a Wolfsegg.
Che prendessi l’aereo, dissi, l’aereo, per farmi mortificare da loro. Già il mio semplice comparire a Wolfsegg è sempre stato un farmi mortificare. Io arrivavo e loro mi mortificavano. Mettevo piede a Wolfsegg e venivo mortificato. Là tutto è abietto, dissi, e meschino, tolti i pochi momenti che posso definire sopportabili. Parlando con Gambetti, mi ero lasciato prendere da una tremenda eccitazione contro Wolfsegg, in effetti trovai quell’eccitazione, nata dalle invettive all’indirizzo di Wolfsegg, d’improvviso addirittura perversa, insopportabile, ma non ero più riuscito a sfuggirle e dovetti lasciarle libero sfogo, tanto ero stato felice per il ritorno a Roma, mai prima di allora felice in maniera così emozionante, non avevo saputo dominarmi e avevo fatto di Gambetti la vittima inerme delle mie invettive all’indirizzo di Wolfsegg, che in effetti erano diventate invettive contro tutto ciò che è austriaco, e infine, per giunta, contro tutto ciò che è tedesco, anzi in definitiva tutto ciò che è mitteleuropeo. Il Nord mi è diventato assolutamente insopportabile, Gambetti, dissi, quanto più vado a nord tanto più mi è insopportabile, e Wolfsegg è per me già nel Nord estremo, nell’insopportabilità più totale. Quelle serate interminabili, noiose, dissi, quel cibo senza sapore, quei pessimi vini e quelle conversazioni faticose, di cui non è affatto possibile descriverLe il tormento, non ne sono affatto capace, mio caro Gambetti. Essere di nuovo a Roma, Lei non sa cosa significhi per me, essere di nuovo al Pincio, i giardini di Villa Borghese, la vista che da quassù si ha sulla mia amata Roma. Sulla mia venerata Roma. Sulla mia meravigliosa Roma! Chi è a Roma da tanto tempo come me, molto semplicemente, si è sbarrato l’accesso a un luogo come Wolfsegg, non può più tornare indietro, gli è diventato impossibile. Per giorni interi mi aggiro negli edifici tentando di calmarmi, e non ci riesco, per giorni interi vado su e giù nelle mie stanze tentando di resistere e, com’è naturale, resisto sempre meno, per giorni interi cerco una possibilità di sopportare Wolfsegg senza avere a ogni istante la sensazione di diventare pazzo, e non la trovo. Cinque biblioteche, dissi a Gambetti, e una tale ostilità verso lo spirito. Nei paesi latini anche la gente più semplice ha gusto, cultura, dissi, a Wolfsegg nessuno ha il benché minimo gusto. Gli austriaci non hanno il benché minimo gusto, in ogni caso già da molto tempo, ovunque si volga lo sguardo domina la massima mancanza di gusto. E che generale mancanza di interesse. Come se il centro di tutto fosse solo lo stomaco, dissi, e la testa completamente fuori uso. Un popolo così stupido, dissi, e un così magnifico paese, la cui bellezza, d’altra parte, resta insuperata. Una natura senza eguali, e gente tanto disinteressata a quella natura. Una cultura così evoluta fin dai tempi antichi, dissi, e oggi una tale barbarica mancanza di cultura, una devastante incultura. Per tacere della deprimente situazione politica. Che farabutti spaventosi detengono oggi il potere, in questa Austria! Gli infimi ora sono ai vertici. I più disgustosi e i più meschini tengono in pugno tutto e si apprestano a distruggere tutto ciò che abbia valore. Distruttori appassionati sono all’opera, brutali sfruttatori che hanno indossato il mantello del socialismo. Il governo aziona una mostruosa macchina di annientamento, in cui ogni giorno viene annientato tutto ciò che mi è caro. Le nostre città sono irriconoscibili, dissi, il nostro paesaggio, per ampie distese, ha perso ogni attrattiva. Le regioni più belle sono diventate vittima dell’avidità di denaro e di potere dei nuovi barbari, là dove si erge un albero grande e bello, viene abbattuto, là dove si erge un magnifico palazzo antico, viene demolito, là dove un delizioso ruscello scorre a valle, viene rovinato. Come, in generale, ogni cosa bella viene calpestata. E tutto in nome del socialismo, con l’ipocrisia più disgustosa che si possa immaginare. Tutto ciò che abbia anche lontanamente a che fare con la cultura viene guardato con sospetto e messo in dubbio finché non è estinto. Chi vuole estinguere, uccidere, è oggi all’opera. Abbiamo a che fare con gente che estingue e uccide, dovunque costoro portano a termine la loro attività assassina. Gli agenti dell’estinzione e dell’uccisione uccidono le città e le estinguono, e uccidono il paesaggio e lo estinguono. Stanno seduti sui loro grossi culi nelle migliaia e centinaia di migliaia di uffici in tutti gli angoli dello Stato e non hanno in testa null’altro se non l’estinzione e l’uccisione, non pensano ad altro se non a come estinguere e uccidere coscienziosamente tutto quanto si trovi fra il lago di Neusiedl e il lago di Costanza. Vienna è già quasi uccisa, Salisburgo, tutte queste città magnifiche, dissi a Gambetti, che Lei non conosce ma che in effetti sono fra le più belle del mondo. Il paesaggio che oggi da Vienna percorriamo attraversando l’Austria, dissi, è anch’esso già quasi completamente ucciso ed estinto, un’atrocità lascia il posto all’altra, una bruttura dopo l’altra si impone alla nostra vista durante il viaggio, ed è già una menzogna perversa parlare dell’Austria, ancora oggi, come di un bel paese, in verità è da tempo ormai soltanto un paese distrutto, deliberatamente devastato e sfigurato, diventato vittima di perfidi affari, dove ormai, in effetti, la cosa più difficile è trovare un angolo intatto. È una menzogna dire che questo paese è un bel paese, perché in verità è un paese ucciso. Era necessario, chiesi a Gambetti, che in questo secolo l’umanità violasse il più bello di tutti i mondi, per ucciderlo ed estinguerlo? I villaggi, Gambetti, dissi, non sono più riconoscibili quando li visitiamo dopo anni, proprio come gli uomini che abitano quei villaggi. Che uomini erano, ancora pochi anni fa, e cosa sono oggi questi uomini! In ciascuno la mancanza di carattere ha attecchito come una malattia mortale, l’avidità, la spietatezza, l’infamia, la menzogna, l’ipocrisia, l’abiezione. Fanno di tutto oggi, questi uomini, per imporre la loro abiezione con la massima spietatezza. Lei entra in quei villaggi con la più grande gioia di rivederli e subito volta loro le spalle, disgustato da tanta meschinità. Lei visita tutte quelle città un tempo belle ed è prostrato quando, a capo chino per l’umiliazione, se ne va nella certezza che tutte quelle città sono perdute. Lo spirito avverso di oggi le ha sfigurate, le ha annientate, per trovarle Lei deve cercarle nei vecchi libri, nelle vecchie incisioni, la realtà le ha estinte da tempo. Tutte quelle magnifiche case in Alta Austria per esempio, a Salisburgo, in Bassa Austria, hanno perduto il loro volto, nella cieca furia della moda sono stati loro mutilati i magnifici volti secolari, si è loro strappato tutto ciò che avevano di bello, completamente storpiate esse si mostrano più o meno beffarde a colui che, spaventato, ancora ricordava il loro volto di un tempo. Solo facciate in rovina, dissi a Gambetti, come se tutte quelle città fossero state colpite da una spaventosa lebbra, una lebbra mortale che finora nessuno conosceva. D’altra parte, dissi a Gambetti, a interi quartieri hanno semplicemente estirpato le viscere, e in questa maniera li hanno mutilati, mandati in rovina per sempre. Gli architetti hanno sfregiato la superficie della nostra terra, dissi, gli architetti, istigati e aizzati a compiere quello sfregio dai politici spietati. Prima sembrava che fossero state le guerre ad aver mandato in rovina le nostre città e i nostri paesaggi, ma è con mancanza di coscienza ben più grande che essi sono stati mandati in rovina, negli ultimi decenni, da questa pace perversa, dall’affarismo senza scrupoli dei potenti, che hanno dato via libera agli architetti, gli assassini al loro soldo. E come hanno imperversato gli architetti in questi decenni! Al confronto, la distruzione prodotta dalle guerre è innocua, dissi a Gambetti. E in nessun paese la distruzione si è attuata in maniera così spaventosa come in Austria. Non in un solo paese d’Europa con infamia maggiore. Hanno fatto passare la gente per stupida e ne hanno mutilato e più o meno estinto il paese e le città, dissi a Gambetti. Per decenni hanno predicato e imposto la più assoluta mancanza di gusto. Negli ultimi decenni abbiamo avuto così tanti ministri meschini, affaristi senza scrupoli che sono rimasti sulle loro poltrone di ministro finché non sono riusciti a imporre e a realizzare la distruzione e l’annientamento del nostro paesaggio e delle nostre città, così tanti responsabili dell’estinzione del nostro Stato e dunque del nostro paese, dissi a Gambetti, che uno non osa neanche pensarci. Ma non c’è da stupirsi se in un paese in cui da decenni la meschinità e la mancanza di gusto dominano insinuandosi ovunque, ora abbiamo in tutti i campi un risultato così annichilente. Perché nello stesso tempo in cui quelle persone, i potenti, hanno distrutto e mandato in rovina e più o meno estinto il paesaggio e le città, hanno distrutto anche l’anima di questo popolo, il suo carattere, ho detto a Gambetti. L’anima dei miei connazionali è rovinata, dissi, il loro carattere è diventato basso e meschino, dappertutto ormai regna solo un’atmosfera maligna, ovunque Lei vada si trova di fronte a questo carattere maligno e meschino. Lei crede di parlare con un brav’uomo, come prima, e si accorge che si tratta del più meschino, del più basso, perché il brav’uomo di un tempo, in rispondenza al generale repentino cambiamento di carattere, è diventato nel frattempo meschino e basso, e rivela in ogni cosa la sua meschinità e la sua bassezza, non reprime neppure quella meschinità e bassezza, ma le mostra apertamente. Lei entra in un villaggio che ricorda accogliente e aperto, ma comprende molto presto che ormai si tratta di un villaggio maligno, che non mostra nessuna apertura, ma ormai solo meschina diffidenza. L’intera Austria è diventata un affare senza scrupoli, nel quale ormai non si fa che mercanteggiare per tutto e in cui ognuno viene defraudato di tutto. Lei crede di andare in un bel paese e in verità e in realtà va in un’impresa commerciale diretta da gente perversa. Crede di andare nel paese della cultura ed è offeso dalla primitività che incontra dappertutto. Fin dal principio, un’atmosfera torpida quasi Le impedisce di respirare, avevo detto a Gambetti. È come, avevo detto a Gambetti, se i monumenti che ancora nel secolo scorso sono stati eretti ovunque, guardassero dall’alto, offesi, l’indescrivibile caos che gli attuali detentori del potere hanno creato. Come è diventato orrendo tutto questo, Gambetti, avevo detto, e di cattivo gusto, non può immaginarlo. Una cosa tanto orrenda e tanto insulsa non sarebbe possibile in Italia, dissi, nemmeno in Spagna. In nessun altro paese hanno preso così atrocemente sul serio come in Austria gli ottusi luoghi comuni del progresso, dissi, e quindi mandato tutto in rovina. In Austria hanno sempre preso sul serio tutto ciò che è ottuso, dissi a Gambetti, mortalmente sul serio, e Lei sa cosa significhi. Finora ho sempre pensato che questo cosiddetto socialismo fosse un’innocua, transitoria malattia nervosa della politica, avevo detto a Gambetti, ma in verità e in effetti è mortale. Intendo il socialismo imperante al giorno d’oggi, che è solo finto, Gambetti, quello falso, insolentemente simulato. Oggi non abbiamo un socialismo vero, in nessun luogo del mondo, solo quello finto, falso, simulato, Lei dovrebbe saperlo. Così come i socialisti di oggi non sono veri, ma finti, falsi, simulati. Questo secolo è riuscito a trascinare nel fango la nobile parola socialismo in maniera tale da far addirittura vomitare, avevo detto a Gambetti. Coloro che hanno pensato al socialismo vero, e in esso hanno creduto e hanno creduto di averlo fondato per l’eternità, si rivolterebbero nella tomba se potessero vedere cosa ne hanno fatto i loro disgustosi eredi. Nella tomba, si rivolterebbero, se potessero riaprire gli occhi e vedere tutto ciò che, con la loro nobile parola socialismo, oggi viene spacciato e diffuso fra i popoli. Nella tomba, si rivolterebbero, se potessero vedere che razza di scempio viene fatto in Europa e in tutto il mondo di quella loro nobile parola. Nella tomba, si rivolterebbero, per questo abuso politico, il più colossale di tutti. Nella tomba, si rivolterebbero, nella tomba, si rivolterebbero, avevo ripetuto più volte a Gambetti. In quel paese non ci tornerò per un pezzo, almeno per un anno, avevo detto a Gambetti, e ora invece debbo tornare all’istante. Nella fotografia mio fratello ha un portamento oppresso, è umiliato, mi dissi, sebbene dia un’impressione di grande eleganza è un uomo di campagna, mentre io sono un uomo di città, sono sempre stato un uomo da grande città, lui lo si riconosce subito come uomo di campagna, per quanto si vesta da città. Come suo padre, che per quasi tutto il tempo, come mio fratello, era vestito da città e tuttavia lo si riconosceva sempre come uomo di campagna. Poi, siccome nostra madre lo desiderava, vanno, andavano a Vienna e andavano all’opera, a Pasqua a vedere il Parsifal, e prendevano il loro souper al Sacher, a Vienna non erano pasti, erano soupers, la sera era souper, a mezzogiorno desinare, facevano colazione e andavano a passeggio in tre o, quando erano in vena di generosità, in quattro con la mia zia viennese Elisabeth, sul Graben e lungo la Kärntnerstraße fino al Ring. Vestiti da grande città, ma subito riconoscibili come gente di campagna. Entravano nei negozi più famosi, dove mia madre sceglieva i vestiti migliori ma anche quelli di gusto peggiore, erano modelli di Milano e di Parigi, con i quali poi andava a Linz a teatro, o a Salisburgo ai concerti a cui era abbonata da decenni. Nella foto mio fratello ha un’aria più sana di quanto non fosse in realtà, aveva in sé già tutte le malattie paterne, ma non erano ancora così evidenti come in nostro padre, aspettavano ancora, non erano ancora esplose, ma in quella foto io le vedevo già sul suo viso, in tutto il portamento, complessivamente infelice, del suo corpo. Loro hanno tutti un infelice portamento del corpo, ho detto una volta a Gambetti, un infelice portamento dello spirito e un infelice portamento del corpo. Tutto su di loro e in loro è infelice, e io spiegai a Gambetti il concetto di «unglückselig», che in Italia non è conosciuto, la lingua italiana non lo conosce, né è possibile tradurlo. Andavano all’opera o a qualche spettacolo teatrale e in fondo si annoiavano tremendamente, anche se alla fine delle rappresentazioni applaudivano sempre con grande entusiasmo, senza curarsi dello stile, visto che pagavano sempre tanto per le rappresentazioni, i prezzi interi, cosa che a nessun viennese sarebbe mai passata per la testa, i viennesi non pagano i prezzi interi, nel migliore dei casi pagano la metà, i prezzi interi li lasciano agli stranieri e ai provinciali, e questi applaudono sempre più di tutti perché hanno dovuto pagare i prezzi interi, così alti. Davanti alle vetrine dei negozi più famosi, non sempre i migliori, con nostra madre dovevamo sempre fermarci. Lei entrava in quei negozi a testa alta, e io non l’ho mai vista uscire da uno di quei negozi famosi senza aver comprato qualcosa, già dopo due o tre negozi io e i miei eravamo costretti a camminarle a fianco trascinando grandi pacchi, e solo quando i pacchi diventavano effettivamente troppo pesanti per noi, lei cedeva, desisteva e si metteva a sedere, esausta, al Sacher o al Bristol dove di solito abitavamo. Avrebbe voluto fare incetta di tutto e portarsi ogni cosa a Wolfsegg. Ma che ne fai di tutta questa roba? diceva mio padre ogni volta, tanto non te la metti, a Wolfsegg non puoi portarla perché sarebbe ridicolo, a Salisburgo non si rendono neppure conto che si tratta di cose di valore, neanche a Linz e tanto meno a Wels, tutto resta appeso negli armadi e passa di moda e poi tu lo butti via e lo regali. Ma mia madre era incorreggibile. Da Vienna tornava sempre con almeno una dozzina di pacchi, e un’altra mezza dozzina, come minimo, le veniva poi spedita dai negozi, erano i vestiti che comprava a Vienna di nascosto, quando i miei non c’erano. Nostra madre ha sempre speso un patrimonio per i vestiti, che però non portava, e semmai metteva solo due o tre volte, per poi buttarli via o regalarli. Ma guai se alle mie sorelle veniva voglia di quei modelli, come li chiamavano, a Vienna non hanno mai potuto comprarsi un solo vestito, neanche a quarant’anni, neanche a quarant’anni sono riuscite a ottenere più di uno o due cosiddetti vestiti in saldo a Wels, perché il nostro sarto di Lambach continuava a essere il fornitore principale del loro guardaroba che, come si è detto, consisteva solo di quei rivoltanti vestiti alla tirolese che due volte l’anno la loro madre gli faceva fare su misura, e di cui non potevano neanche scegliere le stoffe perché la loro madre trovava che non avessero il gusto necessario neanche per quello, quando nostra madre stessa non ha mai avuto un’ombra di buon gusto. Il modello di quei vestiti alla tirolese risultava o troppo grande o troppo piccolo, oppure i colori facevano a pugni fra loro, i colletti erano troppo larghi o troppo stretti, le maniche troppo lunghe o troppo corte, le gonne in ogni caso sempre troppo lunghe di almeno venti centimetri, e i grembiuli non s’intonavano mai agli abiti. Mia madre ha sempre vestito le sue figlie come bambole, perché in definitiva le ha anche sempre trattate come bambole, nelle sue figlie non ha mai visto altro che bambole. Al pari di tante madri, fin dall’inizio ha considerato le sue figlie come bambole e probabilmente, non è un’esagerazione, aveva anche messo al mondo le sue figlie come bambole, non come persone, anche da adulta ha voluto continuare ad avere una o più bambole. Le sue figlie non erano mai state altro che bambole per la sua passione del gioco, per questo infatti non le aveva mai mollate e loro hanno sempre dovuto reagire e ubbidire come bambole e come bambole lei le aveva vestite e nutrite e portate a spasso ogni giorno e messe a letto la sera. A quarant’anni queste bambole, le mie sorelle, sono ancora sottomesse all’istinto ludico della loro madre, penso. Ma anche mio fratello non ha fatto altro, per tutta la vita, che condurre un’esistenza da marionetta, era per così dire l’arlecchino di mia madre, fin dall’inizio lei se l’era allevato come una sorta di burattino di ricambio per il giorno in cui suo marito, il primo burattino, sarebbe venuto a mancare. Le mie sorelle erano per mia madre, che aveva una pulsione verso le bambole, bambole effettivamente parlanti, che lei, quando e come voleva, poteva far ridere o piangere, che poteva scacciare quando voleva, poteva far tornare quando voleva, vestire e svestire quando e come voleva, e suo marito, mio padre, e mio fratello, suo figlio, erano i burattini di cui tirava i fili secondo il suo capriccio. Mia madre era posseduta da un istinto ludico assolutamente perverso. Aveva fatto di Wolfsegg un mondo di bambole perfettamente funzionante, in cui tutto ubbidiva ai suoi ordini con la massima precisione. Wolfsegg era la sua casa di bambole, i dintorni il suo mondo di bambole. Siccome io non volevo essere una bambola in quella casa di bambole e in quel mondo di bambole, già molto presto mi ero allontanato da quella casa di bambole e da quel mondo di bambole. E osservati da fuori e da molto lontano, quella casa di bambole e quel mondo di bambole fanno un effetto ancora più opprimente, ancora più terribile. Wolfsegg è una casa di bambole, ho detto a Gambetti, i suoi dintorni null’altro che un mondo di bambole governato da mia madre, in maniera spietata, disumana, anzi atroce. Gambetti era scoppiato a ridere forte e mi aveva chiamato uomo dalle smisurate esagerazioni, definito un pessimista tipicamente austriaco, un grottesco spirito negativo. Io avevo replicato che le mie esagerazioni erano in realtà e in verità smisurate minimizzazioni, che Wolfsegg, così come gliela descrivevo, era in realtà un idillio in confronto a ciò che Wolfsegg è realmente.
Gambetti, dissi, Lei non può figurarsi Wolfsegg, Lei non ha mai avuto occasione di metter piede in una simile atroce casa di bambole, un simile atroce paesaggio di bambole non esiste altrove al mondo. Mio padre, dissi, una marionetta che ha passato da tempo i settant’anni, le cui membra sono minate da malattie mortali e la cui testa, a forza di tirargliela per tutta la vita, è diventata ottusa e dura. Mio fratello, avevo detto a Gambetti, una marionetta di quarant’anni, che anch’essa non si difende da chi la tira, che anch’essa ha già rinunciato a difendersi da quell’infame madre di bambole. I tedeschi hanno il complesso materno, dissi, come gli austriaci, guai a chi tocca le madri, dissi a Gambetti, le madri sono sacre in quei paesi, ma in verità sono in gran parte perverse madri di bambole, che tirano i fili dei loro figli e delle loro famiglie come fossero marionette, li tirano tanto finché non fanno morire quei figli a forza di tirarli, morire a forza di tirarli esattamente come i loro mariti. In Germania e in Austria non ci sono madri come nei paesi latini, dove le madri sono naturali e non madri di bambole, dissi, nei nostri paesi ci sono solo madri di bambole, e queste madri di bambole non fanno altro, finché vivono, se non tirare con la massima spietatezza i loro mariti marionetta e i loro figli marionetta finché quei mariti marionetta e quei figli marionetta non muoiono a forza di esser tirati da loro. In Europa centrale non ci sono più madri naturali, ormai soltanto madri artificiali, per così dire madri sintetiche, dissi, madri marionetta che fin dal principio mettono al mondo figli artificiali, ossia figli più o meno sintetici, figli artificiali. Anche nelle più sperdute valli di montagna Lei non trova più una sola madre naturale, ormai solo la madre artificiale. E questa madre artificiale, com’è ovvio, mette al mondo sempre soltanto un figlio artificiale e quel figlio artificiale a sua volta, infine, soltanto un figlio artificiale, in questo modo già oggi ci sono ormai soltanto uomini artificiali, uomini sintetici, non naturali, è un errore definire naturale l’uomo, quello non esiste più, è quello sintetico, è l’uomo artificiale che oggi incontriamo e col quale abbiamo a che fare, per questo ci spaventiamo quando ci capita di incontrare ancora un uomo naturale, perché non ce lo aspettavamo più, perché da tanto tempo ormai siamo messi di fronte soltanto all’uomo artificiale, all’uomo sintetico, che da tanto tempo ormai domina il mondo, il quale a sua volta, da tempo, non è più naturale, ma ormai solo in tutto e per tutto sintetico, Gambetti, un mondo artificiale. Il mondo artificiale ha prodotto l’uomo artificiale, viceversa l’uomo artificiale il mondo artificiale, l’uomo sintetico il mondo sintetico e viceversa. Non c’è più nulla di naturale, avevo detto a Gambetti, nulla, assolutamente più nulla. Eppure continuiamo a partire dal presupposto, avevo detto a Gambetti, che tutto sia naturale, è un errore. Tutto è artificiale, tutto è artificio. Non esiste più natura. Continuiamo a partire dall’osservazione della natura, quando invece, da tempo, dovremmo partire ormai soltanto dall’osservazione dell’artificio. È per questo, avevo detto a Gambetti, che tutto è così caotico. Così falso. Così infelice. Così mortalmente confuso. Là dove non c’è più natura, non può neanche più esserci osservazione della natura, Gambetti, è logico, avevo detto a Gambetti. La foto che ritrae mio fratello esattamente nell’istante in cui sale sulla sua barca a vela sul Wolfgangsee, lo mostra nella posa dell’uomo felice, e invece in quella foto è l’uomo più infelice che si possa immaginare. Nella foto che le mostra a Cannes davanti alla villa di mio zio Georg, le mie sorelle sono irrigidite in una smorfia di felicità e per questo appaiono ancor più infelici di quanto non siano in realtà. Mio padre e mia madre, nella foto che li mostra alla stazione Victoria di Londra, appaiono infelici proprio come sono, sebbene si siano sforzati di apparire felici. Come mai a coloro che si fanno fotografare viene sempre in mente di voler apparire felici nelle fotografie che li mostrano, in ogni caso non così infelici come invece sono? penso. Ciascuno vuole essere ritratto come persona felice, mai infelice, sempre totalmente falsata, mai com’è in realtà, ossia sempre la più infelice di tutte. Tutti vogliono di continuo essere ritratti come belli e felici, mentre sono tutti brutti e infelici. Si rifugiano dentro la fotografia, si riducono deliberatamente alla fotografia che, con una falsificazione totale, li mostra felici e belli o se non altro meno brutti e meno infelici di quanto non siano. Esigono dalla fotografia la loro immagine sognata e ideale, e non rifuggono da alcun mezzo, sia pure la più atroce delle deformazioni, pur di creare in una foto quell’immagine sognata e quell’immagine ideale. Non si accorgono affatto di quanto sia spaventoso e terribile il modo in cui, in ogni caso, si compromettono. L’uomo che appare bello in fotografia è in ogni caso il più brutto, il più felice è in ogni caso il più infelice. Nelle loro case appendono le fotografie che si son fatti fare, un mondo bello e felice che in verità è il più brutto e il più infelice e il più bugiardo. Per tutta la vita fissano le loro immagini belle e felici appese alle pareti e provano soddisfazione, quando invece dovrebbero provare solo orrore. Ma non pensano, e questo li salva dalla terribile scoperta che sono brutti, infelici e bugiardi. Arrivano al punto di mostrare ai visitatori delle loro case, che li conoscono, loro, i padroni di casa, come persone brutte e infelici e ottuse e meschine, quelle foto in cui credono di essere ritratti come persone felici e belle, non si vergognano di mostrare quelle fotografie anche a coloro che in realtà li conoscono e quindi, com’è ovvio, li conoscono nella foto come persone che mentono e, in effetti, in tutto e per tutto bugiarde e perdute. Viviamo in due mondi, dissi a Gambetti, in quello reale, che è triste e meschino e in definitiva mortale, e in quello fotografato, che è in tutto e per tutto bugiardo ma, per la maggior parte dell’umanità, quello sognato e ideale. Se oggi si toglie all’uomo la fotografia, se gliela si strappa dalle pareti, avevo detto a Gambetti, e la si annienta una volta per tutte, oggi gli si toglie più o meno tutto. Così si può dire, con rispetto della logica, che l’umanità non tiene più a nulla, non si aggrappa più a nulla e infine non dipende neanche più da nulla se non dalla fotografia. La fotografia è la sua salvezza, Gambetti, avevo detto, al che Gambetti ha riso e mi ha chiamato sognatore del mattino, usando quindi un’espressione che non avevo mai sentito, cosa che provocò da parte mia una risata alla quale, com’è ovvio, Gambetti non poté fare a meno di unirsi e che entrambi assaporammo per un pezzo con il più grande piacere. Se non avessimo la nostra arte dell’esagerazione, avevo detto a Gambetti, saremmo condannati a una vita tremendamente noiosa, a un’esistenza ormai neanche più degna di essere vissuta. E la mia arte dell’esagerazione io l’ho sviluppata fino a vette incredibili, avevo detto a Gambetti. Per rendere comprensibile una cosa dobbiamo esagerare, gli avevo detto, solo l’esagerazione dà alle cose forma visibile, anche il pericolo di esser presi per pazzi non ci disturba più, a una certa età. Non c’è nulla di meglio, a una certa età, che essere dichiarati pazzi. La maggior felicità che io conosca, avevo detto a Gambetti, è quella del vecchio pazzo che può dedicarsi alla sua pazzia in perfetta indipendenza. Se ne abbiamo la possibilità, dovremmo proclamarci vecchi pazzi a quarant’anni al massimo e tentare di portare la nostra pazzia all’esasperazione. È la pazzia che ci rende felici, avevo detto a Gambetti. Misi al primo posto la fotografia che mostra mio fratello Johannes, e in fondo quella che ritrae i miei genitori alla stazione Victoria, cosa che sul momento produsse un effetto sorprendente: mio fratello in alto e i miei genitori in basso si trovavano ora, ai miei occhi, in un rapporto tutto diverso con le mie sorelle nel mezzo. Con mio fratello esse erano sempre state sulla difensiva, ma non apertamente come con me, verso mio fratello lo erano di nascosto. Di mio fratello avevano bisogno, di me non avevano bisogno. Mio fratello era sempre stato, direttamente, colui che le avrebbe nutrite in futuro, verso di lui, quindi, avevano sempre dovuto tenere tutt’altro contegno che verso di me, dal quale in fin dei conti non avevano nulla da temere. I genitori, responsabili diretti del loro nutrimento e sostentamento, avevano dovuto incessantemente rispettarli e tenerli in considerazione in quanto tali, e anche servirli per la stessa ragione, il fratello, responsabile indiretto di quel nutrimento e sostentamento, avevano dovuto rispettarlo e tenerlo in considerazione non incessantemente, ma solo quando occorreva, di me non avevano dovuto avere alcuna considerazione e rispetto, perché non ero mai entrato in questione come responsabile del loro nutrimento e sostentamento. Con me hanno avuto gioco facile, più che con tutti gli altri, perché anche agli occhi dei nostri genitori io ero sempre stato quello che non va rispettato, benché vada sempre tenuto in considerazione, ma per una ragione tutta diversa, per la ragione che occorreva direttamente stare in guardia da me, perché io sono sempre apparso loro imprevedibile e impenetrabile, ma non ero mai stato la persona essenziale dalla quale dipendevano e sarebbero dipese un giorno, pensavano. Da mio fratello sarebbero dipese un giorno, da me no, dai genitori dipendevano ora, del tutto spontaneamente ne conseguivano il loro rispetto e la loro considerazione, il loro servire eccetera. Di me non avevano rispetto, di me non avevano considerazione, da me si guardavano sempre. La foto di mio fratello in alto significava ora che lui era già il più importante della famiglia, i genitori in basso già molto meno importanti. E le mie sorelle avevano la vita difficile sia con i genitori che con mio fratello, con i responsabili attuali, che presto sarebbero usciti di scena, e con il fratello, il responsabile futuro, che fra breve si sarebbe insediato, del loro nutrimento e sostentamento eccetera. Di me non avevano alcuna considerazione e rispetto, di me avevano sempre avuto timore, ma solo fino al momento in cui me ne ero andato da Wolfsegg, in pratica per sempre. Da Roma non incutevo loro alcun terrore, naturalmente no, già da Londra no, da Vienna no. Da tempo ormai, come si usa dire, ero per loro fuori questione. E ora, pensai osservando le loro due facce beffarde, la catastrofe gli si è abbattuta addosso, ora sono io colui dal quale dipendono, senza dubbio. Con la morte dei nostri genitori e di nostro fratello, Wolfsegg è entrata in mio possesso. Legalmente, lo so. Tre settimane fa avevo detto a Gambetti, quando torno dalle nozze di mia sorella Caecilia non andrò per un pezzo a Wolfsegg. Con Wolfsegg ho chiuso. Non ho più ragione di andare a Wolfsegg, non ho più bisogno di Wolfsegg, quelli di Wolfsegg non hanno più bisogno di me. Cosa fosse un fabbricante di tappi per bottiglie da vino, mi aveva chiesto Gambetti, io ho cercato di spiegarglielo, ho detto che Friburgo è una città spaventosa, piccolo borghese, cattolica, insopportabile. Il fabbricante di tappi per bottiglie da vino di mia sorella Caecilia, ho detto, è altrettanto piccolo borghese, cattolico, insopportabile. Ma può darsi, avevo detto a Gambetti, che sia adatto a mia sorella Caecilia. Forse per lei quell’uomo è addirittura la salvezza. Non pensavo che una delle mie sorelle si sarebbe mai sposata, non avevano mai avuto alcuna disposizione per una cosa simile, i loro genitori, soprattutto la loro madre, avevano fatto di tutto per escludere un possibile matrimonio delle loro figlie. La mia zia di Titisee, avevo detto a Gambetti, ha combinato questo matrimonio, questa unione in tutto e per tutto ridicola. Figurarsi, un fabbricante di tappi per bottiglie da vino che d’improvviso fa irruzione a Wolfsegg! Un piccolo borghese cattolico, cui mia madre ha dovuto ricordare che non ci si presenta a tavola in bretelle. Un tedesco originario della più tedesca delle regioni, avevo detto a Gambetti. Della Selva Nera, un buco a casa del diavolo, dove l’imbecillità tedesca celebra i suoi trionfi. Del fabbricante di tappi per bottiglie da vino ora non avevo paura, in fondo neanche delle mie stesse sorelle, non le temevo, ma che in quella terribile situazione mi avrebbero infastidito fino alla nausea e fino alla disperazione mi era chiaro. Amalia può darsi che un giorno si sposi, avevo pensato a volte, ma Caecilia mai, questo avevo dichiarato una volta a Gambetti. E ora sono lì che dipendono interamente da me. Le loro aspettative, e al contempo la loro diffidenza ora saranno tese all’estremo. Forse la tomba è già aperta, mi dissi. Dalle finestre di Wolfsegg pendono i drappi neri. L’ultima volta li hanno esposti alla morte dello zio Georg. E mezz’ora dopo aver appreso la notizia della sua morte andavano già in giro vestiti di nero. Lo zio Georg ora mi mancava molto. Mi avrebbe reso tutto più facile. La comicità delle facce beffarde delle mie sorelle, irrigidite nella foto, pensai, è doppia. L’espressione beffarda che hanno sulla faccia è la conseguenza di decenni di dominio da parte della loro madre, mi dissi. La loro unica arma sono le loro facce beffarde. Amalia si è ritirata nella casa dei giardinieri e ora odia Caecilia, che ha sposato il fabbricante di tappi per bottiglie da vino probabilmente per far dispetto a sua madre, che le aveva sempre proibito anche solo di avvicinarsi agli uomini, odia colei che per così dire è riuscita a fuggire. Amalia si è subito alleata con sua madre, per fare con lei causa totalmente comune, in primo luogo per distruggere il matrimonio di Caecilia. Per come la conosco, sta seduta su uno sgabello nella casa dei giardinieri a stillarsi il cervello su come sia possibile mandare all’aria, con ogni mezzo, l’inatteso e assolutamente indesiderato matrimonio di sua sorella. Madre e figlia avevano ordito un complotto contro il matrimonio di Caecilia con il fabbricante di tappi per bottiglie da vino. Non può funzionare, avevo detto a Gambetti prima di partire per Wolfsegg, mia sorella Caecilia e un fabbricante di tappi per bottiglie da vino della Selva Nera, è una cosa che presto o tardi finirà, perché tutti sono contrari e Caecilia non è all’altezza del fabbricante di tappi per bottiglie da vino, anche se è un imbecille. Il trionfo di mia sorella, il suo stratagemma, avevo detto a Gambetti, un giorno si risolverà in una catastrofe. Non resisterà nella Selva Nera, lo intuisce già adesso, per questa ragione infatti non ha voluto seguire suo marito a Friburgo subito dopo le nozze, credeva di poter restare a Wolfsegg senza di lui, il che è assurdo, dovrà andare con lui, che lo voglia o no, lui la costringerà, non si può contrarre un matrimonio solo per finta e perché si vuole colpire la propria madre, senza poi tradurlo in atto. Quell’uomo, avevo detto a Gambetti, deve sentirsi del tutto fuori posto a Wolfsegg, del tutto infelice, e se ha speculato sul denaro e sulle proprietà, è stata una speculazione sbagliata, a mio avviso. Non ha nulla da aspettarsi, in nessun caso, a questo provvederà mia madre. La sua avvedutezza nelle questioni giuridiche è conosciuta e temuta. Se non è uno che specula, cosa lo ha spinto a sposare Caecilia, mi domando, avevo detto a Gambetti. Mia sorella Caecilia è tutto fuorché attraente, fuorché una donna da sposare. Come Amalia del resto. Ma ce lo chiediamo molto spesso, cosa abbia attratto due persone che si sposano, cosa le abbia spinte al matrimonio, a quella domanda quasi sempre ci mettiamo le mani nei capelli, com’è possibile, proprio quei due? e non troviamo risposta. Conosciamo una persona e siamo convinti che in nessun caso sposerà questa o quell’altra persona che pure conosciamo, ci sembra assolutamente impossibile, e proprio quella viene sposata dall’altra e non è detto che il matrimonio sia infelice, al contrario, ma spesso è invece infelice, come abbiamo previsto, come abbiamo ammonito senza essere ascoltati. Può darsi che il fabbricante di tappi per bottiglie da vino sia intervenuto al momento giusto, come crede lui, avevo detto a Gambetti, mentre invece ha fatto un errore gravissimo, come suppongo io. Perché anche mia sorella Caecilia è scaltra, avevo detto a Gambetti. Ne sa una più del diavolo, come Amalia del resto. La sua stupidità non esclude la sua scaltrezza. E com’è noto, i più stupidi sono i più pericolosi, quando cioè, avevo detto a Gambetti con franchezza, la stupidità si sposa con la meschinità. Riguardo ai miei, pensai ora, avevo detto a Gambetti sempre soltanto le cose negative, raccontato le cose disgustose, ripugnanti, perché avevo sempre trovato del tutto naturale mostrargli i miei sentimenti così come questi si davano a me, e i sentimenti verso i miei negli ultimi anni erano sempre stati i più negativi, i più ripugnanti, i più repellenti. Non ho avuto occasione di dirgli altro se non quei miei sentimenti negativi. Il ripugnante. Il disgustoso. L’assurdo nel migliore dei casi. E nel dirli non ho mai provato vergogna. A Gambetti non devi mai rivelarti ipocrita, avevo sempre pensato, mai farti sorprendere da lui nell’atto di dire una menzogna, un’insincerità, perché tu sei il suo insegnante e da un insegnante ci si deve poter attendere verità e sincerità come cosa ovvia. Con Gambetti hai un rapporto di fiducia assoluta. Di fronte a Gambetti non devi mai trincerarti dietro un’insincerità o addirittura una menzogna, anche a rischio di essere classificato proprio da lui come un uomo spietato, forse meschino. E che molto spesso io sia spietato e meschino, su questo non c’è dubbio, nessun uomo di pensiero sfugge a questo pericolo e a questo male, deve metterlo in conto, deve rassegnarsi, deve conviverci. Deve lasciarselo dire senza controbattere. Wolfsegg mi è diventata assolutamente intollerabile, avevo detto a Gambetti. C’è un’atmosfera da soffocare. Da furia omicida! avevo esclamato. D’altra parte, Gambetti, gli avevo detto, se Lei potesse vedere quelle magnifiche sale, le volte, i corridoi, quell’ineguagliabile cosiddetto porticato in cui d’inverno, quand’ero bambino, tenevo i caprioli, mio fratello Johannes e io ogni inverno tenevamo due caprioli nel porticato, uno per ciascuno. Gli davamo da mangiare, parlavamo con loro, li rimettevamo in squadra! L’espressione rimettere in squadra, com’è naturale, lui non l’aveva capita e io tentai di spiegargliela, c’ero riuscito solo a fatica. In primavera rimettevamo i caprioli in libertà. Erano caprioli con qualche ferita leggera, avevo detto a Gambetti, che prendevamo con noi nel porticato. Passavano l’inverno nel nostro porticato e sopravvivevano. Gli davamo nomi di fantasia, mio fratello e io, li chiamavamo per esempio Sarabande o Locarnell. In primavera, quando li mettevamo in libertà (si erano abituati a noi, com’è naturale, e solo vincendo la loro resistenza era possibile allontanarli dal porticato per lasciarli liberi), noi, mio fratello e io, percorrevamo i boschi per trascinare in un unico posto i caprioli morti, che non erano sopravvissuti all’inverno, e seppellirli. I boscaioli ci davano una mano. Con i boscaioli sono sempre andato perfettamente d’accordo, erano i miei migliori amici, li amavo come non amavo nessun altro, li conoscevo tutti per nome, loro scherzavano con me, ma erano anche disposti a raccontarmi di sé, cosa di cui io li pregavo spesso. Sono sempre stato attratto dalle persone semplici, avevo detto a Gambetti. Con loro e solo con loro mi sentivo bene. Avevano tutta la mia simpatia. Nel discorrere erano sempre calmi, mai troppo loquaci. Avevano un linguaggio semplice, senza artificio. Non fingevano, a differenza degli altri che fingevano incessantemente. Senza dubbio, avevo spesso detto a Gambetti, una volta Wolfsegg era stata un paradiso per me, nei primi anni di vita, e ancora per qualche tempo quando avevo cominciato ad andare a scuola. E io mi ero reso conto che si trattava del paradiso.
Ben presto, tuttavia, quel paradiso si era oscurato, a poco a poco si è trasformato per me prima in un limbo, infine in un inferno. Da quell’inferno volevo uscire, da quell’inferno volevo andarmene il più presto possibile. Non vedevo l’ora, avevo detto a Gambetti, di andare in collegio, infine a Vienna. Senza sapere che ne sarebbe stato di me, cosa ero in grado di fare di me, da che punto dovessi cominciare per farmi strada nella maniera che più mi si confaceva. Non ne avevo idea. Amavo i libri che avevo già letto e quelli che ancora mi restavano da leggere, quel numero infinito di libri in cui in pratica è scritto tutto, come pensavo, fin da piccolo, posso ben dirlo, ho amato la vita dello spirito più dell’altra, ma non avevo idea di cosa dovessi fare, di cosa mi avrebbe consentito di partecipare a quella vita dello spirito che amavo tanto, di esserne parte e di condurre a mia volta una tale vita dello spirito. Non avevo nessuno che mi desse un’indicazione in tal senso, finché mio zio Georg non si era accorto della gravità del mio disagio e non mi aveva dato le prime indicazioni. Innanzitutto devi liberarti completamente dei tuoi, aveva detto mio zio Georg, renderti completamente autonomo, prima dentro, poi fuori. E io avevo seguito il suo consiglio, mi ero liberato prima dentro, poi fuori, mi ero reso indipendente prima dentro, poi anche fuori. E ovviamente devi andartene da Wolfsegg, aveva detto. Devi ignorare le idee e le opinioni dei tuoi a Wolfsegg e andartene da Wolfsegg contro la loro volontà, non seguire i loro consigli, che mirano soltanto a incatenarti a Wolfsegg per tutta la vita, a sacrificarti a Wolfsegg, devi fare esattamente il contrario di ciò che loro ti consigliano, non devi più o meno mai condividere le loro idee, perché le loro idee sono opposte alle tue e sono quindi contro la tua evoluzione. I loro consigli non valgono nulla, la loro opinione non vale nulla, mi aveva detto mio zio Georg. È vero, dicono sempre che vogliono il tuo bene, come sai, ma sono contro di te, fanno di tutto per incatenarti a loro e se tu non ti lasci incatenare a loro, tentano di tutto per annientarti. Occorre uno sforzo supremo, non solo immenso, per sottrarsi loro, per contrapporre alla loro inesorabilità la tua inesorabilità. Tu sei in grado di renderti autonomo da loro, di renderti indipendente, aveva detto mio zio Georg, ma ti faccio notare che il prezzo da pagare è il prezzo massimo. Quel prezzo massimo lo devi pagare. In effetti ho pagato il prezzo massimo per la mia indipendenza da Wolfsegg, mi dico. Mio zio Georg aveva ragione. Avevo opposto la mia inesorabilità alla loro, e la mia era stata più forte perché più libera da compromessi. Cosa mi era costato, fuggire a Vienna, in quella città inutile, come la chiamavano loro. Cosa mi è costato, andare in Inghilterra, infine a Parigi. Cosa mi è costato, conquistare la libertà interiore per giungere a quella esteriore. Debbo la mia indipendenza a mio zio Georg, avevo detto a Gambetti al Pincio, mettendogli in mano Il processo di Kafka, che, quando l’avevo letto per la seconda volta nella mia vita, mi aveva entusiasmato ancor più della prima volta. Ci sono scrittori, avevo detto a Gambetti, che entusiasmano il lettore, quando li legge per la seconda volta, in misura assai più grande della prima volta, con Kafka mi accade ogni volta. Conservo Kafka nella memoria come un grande scrittore, avevo detto a Gambetti, ma rileggendolo ho avuto assolutamente l’impressione di averne letto uno ancora più grande. Non sono molti gli scrittori che alla seconda lettura diventano più importanti, più grandiosi, la maggior parte di loro li leggiamo per la seconda volta vergognandoci di averli letti anche una sola volta, ci accade con centinaia di scrittori, non con Kafka e non con i grandi russi Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Lermontov, non con Proust, con Flaubert, con Sartre, che annovero fra i più grandi. Trovo non sia male il metodo di leggere una seconda volta gli scrittori che abbiamo letto una volta e che ci hanno segnato, perché a quel punto o sono quelli ancora più grandi, ancora più importanti, oppure non val più la pena parlarne. In questo modo evitiamo di portarci in testa per tutta la vita un’immensa zavorra di letteratura, che alla fine fa ammalare, ammalare a morte questa nostra testa, avevo detto a Gambetti al Pincio. Mio zio Georg mi ha insegnato quasi tutto ciò che in seguito ha avuto importanza nella mia vita. Lui è stato il mio maestro, nessun altro. Lui è stato il mio educatore, nessun altro. Con il loro carattere ottuso i miei genitori, fino al nono o decimo anno di vita, anziché formarmi mi avevano completamente deformato, e mio zio Georg dovette intervenire per fermare a poco a poco la quasi totale distruzione che i miei genitori avevano compiuto in me, aveva fatto ogni sforzo, avevo detto a Gambetti, per rendere di nuovo accettabile, ricettiva, la mia testa completamente invasa dal caos. Credendo di educarmi, i miei genitori in verità mi avevano distrutto, come hanno distrutto mio fratello Johannes e le mie sorelle. Quando dicevano educazione, avrebbero fatto meglio a dire distruzione, con la loro educazione che, come si è detto, non è stata altro che una distruzione, avevano mutilato tutto quanto io avessi in testa fino a renderlo irriconoscibile, come si usa dire in altri casi. Con spietatezza estrema nei miei confronti, hanno rimestato per anni nella mia giovane testa alla loro maniera cattolica e nazionalsocialista, gettando tutto nella confusione, sicché mio zio Georg, a sua volta, ha impiegato anni per riportare ordine in quella mia testa. In definitiva, anziché educarci, i miei genitori hanno addirittura sfigurato me e i miei fratelli, fatto solo danni nelle nostre teste. I nostri genitori, cattolici prima di tutto, com’è naturale, avevo detto a Gambetti, con quegli sciagurati metodi cattolici avevano mandato in rovina le nostre teste. La Chiesa cattolica fa tanti danni nelle giovani teste che è quasi impossibile immaginarlo, quando i genitori sono cattolici e osservano più o meno automaticamente i precetti della religione cattolica. Aver ricevuto un’educazione cattolica ha significato per noi essere stati distrutti alle radici, Gambetti. Il cattolicesimo è il grande distruttore dell’anima infantile, ciò che incute la grande paura, il grande annientatore del carattere del bambino. Questa è la verità. Milioni, e infine miliardi di persone debbono alla Chiesa cattolica il fatto di essere state distrutte alle radici e rese inservibili per il mondo, il fatto che la loro natura è stata trasformata in contronatura. La Chiesa cattolica ha sulla coscienza l’uomo distrutto, restituito al caos, in definitiva infelice fino al midollo, questa è la verità, non il contrario. Perché la Chiesa cattolica tollera solo l’uomo cattolico, nessun altro, questo è il suo intento e il suo fine perenne. La Chiesa cattolica trasforma gli uomini in cattolici, in individui ottusi che hanno dimenticato il pensiero autonomo e l’hanno tradito per la religione cattolica. Questa è la verità, avevo detto a Gambetti al Pincio. Anche se consideriamo il fatto che le usanze cattoliche ci hanno sempre incantato da bambini, che per noi in campagna non sono state altro, all’inizio, che una fiaba, Gambetti, la più bella senza dubbio, per gli adulti l’unico spettacolo, il più grande, per tutta la vita, quella fiaba e quello spettacolo hanno tuttavia mandato in rovina quanto c’era di naturale negli uomini, col tempo li hanno annientati. Con quella sua fiaba per bambini e con quel suo spettacolo per adulti la Chiesa cattolica non si è prefissa altro scopo che la corruzione totale delle sue prede, con quella fiaba e con quello spettacolo le ha rese docili, estinte a suo vantaggio in quanto esseri umani, per fare di loro dei cattolici senza volontà e senza pensiero, dei credenti, come ha l’infamia di esprimersi, avevo detto a Gambetti. Il credo cattolico, come ogni credo, è una falsificazione della natura, una malattia da cui milioni di persone si lasciano assalire in piena coscienza, perché è l’unica salvezza per loro, per l’uomo debole, del tutto privo di autonomia, che non ha una testa propria, che al suo posto deve lasciar pensare un’altra testa, per così dire superiore; i cattolici lasciano che la Chiesa cattolica pensi al loro posto e dunque agisca anche al loro posto, perché gli torna più comodo, perché, credono, non possono fare altrimenti. E la testa cattolica della Chiesa cattolica pensa in maniera terribile, avevo detto a Gambetti. Pensa solo a sé e contro la natura umana, pensa solo ai suoi fini, non ad altri, pensa alla sua gloria, Gambetti, non a un’altra. Nessun altro Stato in Europa, avevo detto a Gambetti, si denomina Stato cattolico e lascia che la testa cattolica pensi al suo posto, e lo si vede, dove questo ha portato. Abbiamo solo cattolici in Austria, non uomini dallo spirito libero e indipendente, cattolici là dove sarebbero necessari spiriti liberi. In Austria è la testa cattolica a pensare, nessun’altra. Anche i diversi rivolgimenti politici degli ultimi decenni non hanno cambiato nulla, persino i socialisti lasciano che in Austria sia la testa cattolica a pensare, perché in fondo non ne hanno neppure una socialista. Dovunque in Austria ci si imbatte nello spirito cattolico, che ci ha dato centinaia e migliaia di opere d’arte cattoliche, è vero, ma ha annientato lo spirito individuale, quello autonomo, indipendente che è il solo naturale. A che ci servono quelle opere d’arte, chiese e palazzi cattolici, se da secoli non abbiamo una nostra testa? avevo detto a Gambetti. Ma il nostro popolo ha sempre sofferto della sua assoluta imbecillità, avevo detto a Gambetti, che la Chiesa cattolica ha sfruttato come in nessun altro paese d’Europa, neanche in Germania dove un certo spirito libero e individuale si è conservato fino a oggi, da noi la Chiesa cattolica e il cattolicesimo hanno avuto fin dall’inizio gioco facile nell’esercitare la dovuta pressione sull’individuo austriaco, e infine nell’asservire interamente a sé il popolo e lo Stato, nel subordinarli totalmente. Solo in questi ultimi decenni si notano i segni di una liberazione dal dominio cattolico, dall’infame pressione cattolica, dal secolare spietato abbraccio del cattolicesimo, solo in questi ultimi decenni si nota qui e là, sebbene si dispieghi con timidezza, un pensare, un filosofare indipendente dal cattolicesimo, avevo detto a Gambetti, alcune delle nostre teste austriache osano tornare a pensare in maniera autonoma e con la loro testa austriaca, non solo con quella cattolica. È colpa del cattolicesimo se in Austria per tanti secoli non ci sono stati filosofi e quindi, in assoluto, un pensiero filosofico e di conseguenza una filosofia. La Chiesa cattolica ha brutalmente e completamente represso, lo si può ben dire, il pensiero di questo millennio. E questo popolo si è messo ben comodo sotto la guida della testa cattolica, che in vece di questo popolo ha sempre pensato tutto a suo modo, avevo detto a Gambetti. In questo millennio il cattolicesimo e gli Absburgo hanno avuto sulla testa del nostro popolo un effetto annichilente, mortale, come sappiamo e come ci dimostra qualsiasi cosa in Austria prendiamo in considerazione. In questo millennio, lo si può dire, esso ha liquidato il pensiero nel nostro popolo e ha portato a fioritura la musica, la più inoffensiva di tutte le arti. Siamo il paese della musica solo perché da noi, per secoli, lo spirito è sempre stato completamente represso, avevo detto a Gambetti. Siamo diventati un popolo in tutto e per tutto musicale, perché nei secoli cattolici siamo diventati un popolo in tutto e per tutto non spirituale, avevo detto a Gambetti, nella misura in cui il cattolicesimo ci ha tolto il vizio dello spirito abbiamo lasciato che la musica si affermasse, a questa circostanza, almeno, dobbiamo Mozart, Haydn, Schubert, dissi. Non mi piace comunque per nulla, avevo detto a Gambetti, che abbiamo Mozart ma non più una nostra testa, Haydn ma che abbiamo disimparato e quasi interamente rinunciato a pensare, Schubert ma che nel complesso siamo tuttavia diventati ottusi. Non è successo a nessun altro paese, avevo detto a Gambetti, che si sia lasciato sottrarre il pensiero, senza scrupoli, dalla Chiesa cattolica, che, per così dire, si sia lasciato decapitare dal cattolicesimo. Noi non abbiamo un Montaigne, un Descartes, un Voltaire, avevo detto a Gambetti, solo questi monaci verseggiatori e questi aristocratici verseggiatori con le loro idiozie cattoliche. Negli ultimi tempi si nota un cambiamento, dissi, ma ci vorranno secoli, non soltanto decenni, per rimediare ai danni, alle devastazioni e ai crimini compiuti dal cattolicesimo contro il nostro spirito. Ammesso che sia mai possibile, avevo detto a Gambetti. Come nessun altro popolo, il nostro si è lasciato sfruttare dalla Chiesa cattolica. Quasi per un intero millennio! Solo a fatica riuscirà a sciogliersi dall’abbraccio cattolico, dai suoi artigli. Rivoluzioni superficiali, più o meno dilettantesche, avevo detto a Gambetti, non servono a nulla, come vediamo in altri paesi d’Europa, solo una rivoluzione effettivamente radicale, elementare, avevo detto a Gambetti, può essere la salvezza, una che cominci col radere al suolo e distruggere tutto, effettivamente tutto. Ma per una simile radicale ed elementare rivoluzione oggi siamo ancora troppo deboli, non siamo ancora maturi, non osiamo ancora neppure considerare una simile radicale ed elementare rivoluzione. Ora siamo un’umanità austriaca indebolita, effettivamente priva di spirito, avevo detto a Gambetti, alla quale il radicale e l’elementare sono affatto preclusi. Per molto più di un intero secolo un’umanità austriaca totalmente indebolita, avevo detto a Gambetti. I miei genitori, com’è naturale, avevano considerato per me solo un’educazione cattolica, non arrivavano neppure a concepirne un’altra, avevo detto a Gambetti. Fin dove arriva la memoria, tutte le generazioni di Wolfsegg hanno avuto un’educazione cattolica. Finché non è intervenuto mio zio Georg, soprattutto contro il cattolicesimo, il che significava semplicemente contro tutto. Mio zio Georg mi ha spianato la strada, me l’ha resa possibile. Prima mi ha portato all’idea, poi alla via effettiva, la via contraria, avevo detto a Gambetti. Si pensi, avevo detto a Gambetti, che nelle nostre biblioteche avevano messo sotto chiave, per così dire, i libri profani a differenza di quelli cattolici, gli armadi con i libri profani erano rimasti chiusi a chiave per decenni, se non per secoli, avevo detto a Gambetti, solo quelli cattolici erano liberamente accessibili, quelli profani segregati, inaccessibili, non dovevano essere letti, dovevano restare rinchiusi, proprio come se in quelle librerie avessero rinchiuso lo spirito libero, Gambetti, avevano rinchiuso in quelle librerie i libri che non erano cattolici. Voltaire, Montaigne rinchiusi, avevo detto a Gambetti, la stupidità dei monaci e dei conti no, raccolta in centinaia e migliaia di volumi rilegati in pelle. I Voltaire e i Montaigne e i Descartes dovevano essere sigillati una volta per tutte in quegli armadi, si pensi, avevo detto a Gambetti. Quegli armadi non erano mai stati aperti, quando un giorno li si aprì, perché mio zio Georg aveva insistito, ai miei era parso che mio zio Georg avesse aperto un vaso sigillato da secoli, un vaso che al momento dell’apertura sprigionò un terribile veleno dal quale essi fuggirono all’istante, perché credevano in effetti che fosse mortale. I miei non hanno mai perdonato a mio zio Georg di aver aperto quel vaso, avevo detto a Gambetti, di aver fatto uscire all’improvviso il veleno dello spirito. In effetti erano sempre stati dell’avviso che nostro zio Georg avesse avvelenato Wolfsegg, aprendo il vaso dello spirito sigillato da secoli, spalancando semplicemente le librerie chiuse a chiave da secoli. Che a Wolfsegg d’improvviso si potesse respirare non soltanto l’ottusità cattolica, ma anche lo spirito libero, non l’hanno perdonato a mio zio Georg, che anche Descartes e Voltaire fossero nell’aria a Wolfsegg, non soltanto il cattolicesimo e il nazionalsocialismo. Prima erano dell’avviso di aver rinchiuso per così dire lo spirito maligno in quelle librerie chiuse a chiave e ora mio zio Georg l’aveva fatto uscire. Ma non c’era voluto molto tempo prima che tornassero a rinchiudere quello spirito maligno nelle librerie, quando cioè mio zio Georg se n’è andato da Wolfsegg e ha voltato loro le spalle e si è stabilito a Cannes, si pensi, sulla Costa Azzurra, quella riviera diabolica che per i miei equivaleva all’inferno. Fin dal primo momento, subito dopo che mio zio Georg se ne fu andato da Wolfsegg con due valigie, non avevano avuto in testa nulla di più urgente se non di tornare a rinchiudere nelle loro librerie lo spirito maligno che per qualche anno aveva avvelenato Wolfsegg senza ostacoli e, credevano, nella maniera più devastante, e nel farlo avevano girato la chiave non una sola volta, ma direttamente due o tre volte. Anche a me non avevano più permesso di aprire quelle librerie, me lo negarono con la massima ostinazione e, come oggi so, in preda a una paura mortale. Anche dopo che ebbi passato da un pezzo i vent’anni non avevo il permesso di aprire quelle librerie, e col tempo io avevo rinunciato a darmi da fare per ottenerne l’apertura, perché odiavo e temevo i quotidiani litigi in proposito. A Vienna, avevo detto a Gambetti, per prima cosa mi ero creato una biblioteca che doveva comprendere tutto ciò che mio zio mi aveva indicato come prioritario per un cosiddetto uomo di pensiero; in brevissimo tempo, spendendo quasi tutto il denaro a mia disposizione, avevo raccolto i libri più importanti, avevo messo insieme a mia volta una biblioteca per così dire dello spirito maligno, e ovviamente avevo cominciato da Montaigne e Descartes, da Voltaire e Kant. Alla fine avevo messo insieme le cose più importanti per la testa, come ripeteva sempre mio zio Georg, avevo detto a Gambetti, e il centro, com’è naturale, non era stato altri che Schopenhauer. Mi ero procurato una biblioteca facilmente trasportabile, come la chiamavo io, con le opere più importanti dello spirito maligno, che senza difficoltà potevo portarmi dietro in ogni momento e in ogni luogo, sicché non avevo mai dovuto stare senza quei libri. Per prima cosa mi ero procurato i filosofi che a Wolfsegg mi erano stati proibiti, dunque il veleno mortale, poi a poco a poco anche le opere dei nostri scrittori importanti. In quegli acquisti avevo proceduto secondo il piano preciso che mio zio Georg mi aveva tracciato, avevo detto a Gambetti. Il primo volume che mi ero comprato era stato Heinrich von Ofterdingen di Novalis, avevo detto a Gambetti, il secondo, me ne ricordo bene, le Storie da almanacco di Johann Peter Hebel. Da qui a Kropotkin e a Bakunin la strada era ancora lunga, avevo detto a Gambetti, a Dostoevskij, a Tolstoj, a Lermontov che amo sopra tutto. Sarà la prima cosa che farò, mi dissi ora, lasciar libero a Wolfsegg lo spirito maligno rinchiuso, condannato dai miei per così dire al carcere perpetuo, e le porte delle librerie non solo non le chiuderò più a chiave, ma le lascerò spalancate per sempre. Le chiavi di quelle librerie le getterò nel pozzo, perché nessuno, nessuna mano possa mai più chiuderle. E comunque, la prima volta che farò il giro di Wolfsegg sarà con il solo scopo di aprire una dopo l’altra tutte le finestre e far entrare aria fresca, si figuri, avevo detto una volta a Gambetti, molte finestre a Wolfsegg non sono state aperte da decenni, è spaventoso. Allora potrò tornare a Roma e dire a Gambetti: Gambetti, ho spalancato tutte le finestre a Wolfsegg e ho fatto entrare aria fresca. Aprirò tutte le finestre e le porte, mi dissi. Osservando la foto che mostra i miei genitori alla stazione Victoria di Londra, mi dissi ora che per tutta la vita avevano voluto imbavagliarmi, alla loro maniera cattolica, che posso definire soltanto una maniera ottusa. Come lo spirito maligno nelle librerie, avevano voluto rinchiudere a Wolfsegg anche me, che ai loro occhi ero uno spirito altrettanto maligno. Rinchiudere l’oppositore, il ribelle.
Il rinnegato. Non ricordo che i miei genitori mi abbiano lasciato solo e in pace, anche un’unica volta, con una cosa che mi piacesse, che mi abbiano elogiato, anche un’unica volta, per una cosa che mi piacesse. Un loro elogio non mi sarebbe sfuggito, non me l’avevano mai concesso. Fin da molto piccolo mi avevano considerato solo con diffidenza estrema, penso, persino in quei primissimi anni in cui per guardare me dovevano ancora abbassare gli occhi quasi fino a terra, dentro la culla, ai miei primi passi, già allora tutto in me destava il loro sospetto e, più esattamente, la sensazione sinistra che forse generando me avevano generato una persona che un giorno avrebbe potuto sopraffarli e accusarli e poi addirittura distruggerli e annientarli. Già nei primi anni mi guardavano con la diffidenza con cui poi mi hanno perseguitato per tutta la vita, anzi forse già allora con l’odio sotterraneo che in seguito mi hanno apertamente mostrato, di cui all’inizio non sapevo perché dovesse colpire proprio me, per quale ragione, a quale fine, per via di quali bassezze e malvagità in me. Verso mio fratello Johannes erano stati ben disposti fin dall’inizio, verso di me mai bene, sempre solo male, questa verità bisogna tirarla fuori una buona volta, mi dissi osservando la foto. Mio padre mi ha generato, mia madre mi ha messo al mondo, ma fin dall’inizio non mi ha voluto, alla mia nascita avrebbe preferito ricacciarmi subito nel suo ventre, con ogni mezzo, se fosse stato possibile, mi dissi. Da principio diamo sempre a intendere a noi stessi di essere amati, com’è naturale, dai nostri genitori, ma d’improvviso ci rendiamo conto che, com’è altrettanto naturale, siamo soltanto odiati, quale che sia la ragione, quando appariamo loro come io sono apparso ai miei genitori, un bambino che non corrispondeva alle loro idee,che è riuscito male, come si usa dire. Non si erano aspettati i miei occhi, che fin da subito, la prima volta che li avevo aperti, probabilmente avevano visto tutto ciò che a loro non sarebbe mai garbato vedere. Dapprima li avevo guardati incredulo, come si usa dire, poi fissati, un giorno infine ne avevo capito gli intenti, questo non me l’hanno perdonato, non potevano perdonarmelo. Ne avevo capito gli intenti, come si usa dire, e li avevo sottoposti a un giudizio incorruttibile che non poteva piacergli. Detto in tutta crudezza, generando me avevano generato colui che li avrebbe smembrati e disgregati. Fin dal primissimo momento, debbo dire, ero stato contro di loro, con tutta la mia risolutezza. Una volta, un giorno d’autunno bello e mite, avevo cercato di fare a Gambetti una descrizione di Wolfsegg, da Rocca di Papa eravamo per così dire tornati a casa in piazza del Popolo e ci eravamo seduti nella terrazza davanti al caffè, era sera, le nove passate da un pezzo, il sole aveva ancora la forza di scaldare la piazza nel modo più gradevole, cercherò di farLe una descrizione precisa di Wolfsegg, avevo detto a Gambetti, al quale a Rocca di Papa avevo detto cose assolutamente infelici, mi pare oggi, sullo Zarathustra di Nietzsche, con Nietzsche avevo sempre avuto difficoltà enormi, anche quel giorno non ero riuscito a formulare nulla di pertinente su Nietzsche, vede, Gambetti, avevo detto, sono decenni che studio Nietzsche, ma non ho mai fatto un passo avanti, Nietzsche mi ha sempre affascinato, ma di lui, al contempo, ho sempre capito meno di niente. Se debbo esser sincero, mi accade la stessa cosa con tutti gli altri filosofi, avevo detto a Gambetti, con Schopenhauer, con Pascal, per menzionare solo questi due oltre a Nietzsche, tutti sempre difficili per me, per tutta la vita, e decifrarli non mi è mai riuscito neppure per accenni, mi è sempre parso che parlassero arabo, mentre mi hanno sempre attirato ed entusiasmato in misura estrema. Quanto più mi occupo degli scritti di questa gente, avevo detto a Gambetti, tanto più cresce la mia impotenza, solo in un accesso di megalomania posso dire di averli compresi, come solo in un accesso di megalomania posso dire di me di aver compreso me stesso, mentre in effetti non mi sono mai compreso fino a oggi, quanto più mi occupo di me stesso tanto più mi allontano da quel che in me è effettivo, tanto più si oscura tutto ciò che mi riguarda, avevo detto a Gambetti, come con questi filosofi, credo di averli capiti, avevo detto a Gambetti, e invece non ho capito nulla, probabilmente è così con ogni cosa di cui mi sia occupato finora. Eppure ogni tanto mi prendo la libertà, avevo detto a Gambetti, di sostenere che, nella mia megalomania, ho compreso qualcosa di questi filosofi e di ciò che hanno prodotto. Tutti quei nomi e le loro opere non è possibile comprenderli, avevo detto a Gambetti, né Pascal, né Descartes, né Kant, né Schopenhauer, né Schleiermacher, per enumerare solo quelli che al momento mi occupano la mente. Con i quali al momento sono alle prese. Con la più grande spietatezza nei loro confronti, come nei miei stessi confronti, avevo detto a Gambetti. Con la più grande audacia e al contempo sfrontatezza. Perché quando ci occupiamo di uno di quei filosofi, Gambetti, gli avevo detto, siamo sfrontati, quando osiamo afferrarli e per così dire estirpargli dal corpo vivo le viscere filosofiche. Siamo sempre sfrontati, quando abbordiamo un’opera filosofica, ma senza quella sfrontatezza non l’avviciniamo, non facciamo progressi filosofici. In effetti dobbiamo affrontare nella maniera più rozza e cruda quegli scritti filosofici e i loro autori, che dobbiamo figurarci sempre come nostri nemici, come i nostri più tremendi avversari, Gambetti. Devo levarmi contro Schopenhauer, se voglio comprendere, contro Kant, contro Montaigne, contro Descartes, contro Schleiermacher, Lei capisce. Devo essere contro Voltaire, se voglio misurarmi con lui nella maniera più schietta, con qualche speranza di successo. Ma ben scarso è il successo con cui finora mi sono misurato con i filosofi e i loro prodotti. Presto la vita sarà passata, la mia esistenza estinta, avevo detto a Gambetti, e io non sono arrivato a nulla, tutto mi è rimasto quasi ermeticamente chiuso. Così come ben scarso è il successo con cui fino a oggi mi sono misurato con me stesso. Sono il mio nemico e il mio avversario filosofico, avevo detto a Gambetti, affronto me stesso con ogni dubbio possibile e fallisco. Non ottengo il benché minimo risultato. Lo spirito devo considerarlo un nemico, e avversarlo con metodi filosofici, avevo detto a Gambetti, per poterne effettivamente godere. Ma per questo il mio tempo è probabilmente troppo breve, tutti, appunto, hanno avuto un tempo troppo breve, la maggior sventura dell’uomo, il fatto che il suo tempo è sempre e in ogni caso troppo breve, ha sempre reso impossibile la conoscenza. Così non si è mai dato altro che approssimazione, un pressappoco, tutto il resto è un’idiozia. Se pensiamo e non smettiamo di pensare, cosa che chiamiamo filosofare, alla fine scopriamo che abbiamo pensato male. Tutti finora hanno pensato male, poco importa che nomi abbiano avuto, poco importa che scritti abbiano scritto, ma non hanno rinunciato da soli, avevo detto a Gambetti, non per volontà loro, solo per volontà della natura, per malattia, follia, morte alla fine. Non avevano voluto smettere, per stentata, spaventosa che fosse la loro esistenza, e atrocemente contraria a ogni regola e a ogni monito. Ma tutti avevano sempre solo difeso conclusioni sbagliate, avevo detto a Gambetti, alla fine il nulla, non conta cosa sia questo nulla, avevo detto a Gambetti, del quale sappiamo che è nulla, certo, ma che al contempo non può tuttavia esistere, per il quale tutto fallisce, per il quale tutto smette, alla fine finisce. Anche quella sera, anziché fare subito l’annunciata descrizione di Wolfsegg, promessa a Gambetti per piazza del Popolo quando eravamo ancora sulla Flaminia, mi ero addentrato in una delle mie digressioni, che sono sempre io il primo a temere, che mi sono abituato a chiamare le mie digressioni filosofeggianti, perché negli ultimi anni ricorrono più frequenti, perché fluiscono come la filosofia stessa, come tutto ciò che è filosofico, senza che con la filosofia, in effetti, abbiano in comune null’altro che il movente. Anziché fare subito l’annunciata descrizione di Wolfsegg, avevo detto a Gambetti qualcosa su Nietzsche che avrei fatto meglio a non dire, qualcosa su Kant che era risultato addirittura privo di senso, qualcosa su Schopenhauer che io stesso avevo giudicato dapprima indice di particolare competenza, ma che poi, già dopo qualche istante, avevo dovuto riconoscere come abbastanza folle, qualcosa su Montaigne che io stesso non ho capito già nel momento in cui lo dicevo a Gambetti; infatti, non appena avevo fatto a Gambetti quella mia asserzione riguardo a Montaigne, lui mi aveva pregato di spiegargli l’asserzione appena fatta, cosa di cui però non ero stato capace, perché già in quello stesso secondo non sapevo più neanch’io cosa avessi detto su Montaigne. Diciamo qualcosa e vediamo tutto chiaro e l’istante dopo non sappiamo neanche più cosa abbiamo appena detto, avevo detto a Gambetti, ho appena detto qualcosa su Montaigne ma ora, due o tre secondi più tardi, non so neanche più cosa io abbia appena detto in realtà e in effetti su Montaigne. Dovremmo avere la capacità di dire, dunque di asserire qualcosa, e al contempo di mettere a verbale nella nostra testa quanto abbiamo appena asserito, ma questo non è possibile, avevo detto a Gambetti. Non so più neanche perché io abbia detto qualcosa su Montaigne in questo istante, avevo detto a Gambetti, e ancor meno, com’è naturale, cosa io abbia detto su Montaigne. Crediamo che noi si sia arrivati al punto d’essere una macchina pensante, ma non possiamo fidarci del pensiero di questa nostra macchina pensante. In fondo, essa lavora incessantemente contro la nostra testa, avevo detto a Gambetti, produce di continuo pensieri dei quali non sappiamo da dove siano venuti e a che fine siano pensati e in quale connessione si trovino, avevo detto a Gambetti. Questa macchina pensante, che lavora incessantemente, in effetti esige troppo da noi, esige troppo dalla nostra testa, ma questa non può più uscirne, per tutta la vita è ineluttabilmente collegata a questa nostra macchina pensante. Finché non siamo morti. Montaigne, dice Lei, Gambetti, e io al momento non so neanche cosa sia, avevo detto a Gambetti. Descartes? non lo so. Schopenhauer? non lo so. Egualmente Lei potrebbe dire ranuncolo e io non saprei cos’è, avevo detto a Gambetti. Se vado a Sils-Maria, credevo, capirò meglio Nietzsche, avevo detto a Gambetti, se prendo in affitto una stanza vicino al passo Maloia, salendo da Sondrio, dunque dal basso, avrei capito meglio Nietzsche o semplicemente avrei cominciato a capirlo. Ma sbagliavo, dopo che sono stato a Sils-Maria, salendo da Sondrio, dunque dal basso, capisco Nietzsche ancor meno di prima, sostengo di non capirlo proprio più, ora, più nulla di Nietzsche. Andando a Sils-Maria mi sono rovinato completamente Nietzsche. Così, tempo fa, mi sono rovinato anche Goethe, avevo detto a Gambetti, solo per la sciagurata stupidaggine di visitare Weimar, Kant per essere stato a Königsberg. Tutti questi filosofi e poeti e scrittori, poco importa quali, un tempo mi avevano spinto a correre attraverso l’Europa per visitare i loro luoghi e da allora li capisco assai meno di prima. Si guardi bene, Gambetti, dal visitare i luoghi degli scrittori e poeti e filosofi, poi non li capirà assolutamente, li avrà resi in effetti impossibili nella Sua testa per il fatto di aver visitato i loro luoghi, i luoghi dove sono nati, i luoghi dove sono vissuti, i luoghi dove sono morti. Eviti più di ogni altra cosa i luoghi dove sono nati, vissuti e morti i nostri grandi spiriti, avevo detto a Gambetti, si proibisca di visitare i luoghi di Dante, Virgilio e Petrarca, annienterà tutto ciò che di quei grandi spiriti è nella Sua testa. Nietzsche, avevo detto a Gambetti, mi picchio alla testa ed è vuota, completamente vuota. Schopenhauer, mi dico, e mi picchio alla testa ed è vuota. Mi picchio alla testa e dico Kant e ho la testa completamente vuota. È una cosa che deprime terribilmente, avevo detto a Gambetti. Lei pensa a un concetto affatto banale e la Sua testa è vuota. Nulla. Nella Sua testa non c’è proprio nulla, quando Lei vuole capire quel concetto affatto banale. Per giorni e giorni va in giro con quella testa vuota e picchia e constata sempre e soltanto che è completamente vuota. È una cosa che rende pazzi, folli, infelici, pazzi e folli nella maniera più infelice e saturi della vita nella maniera più terribile, mio caro Gambetti. È vero che sono il Suo insegnante, ma per quasi tutto il tempo ho la testa completamente vuota, dentro in effetti non c’è nulla. Perché, com’è probabile, ho sovraffaticato la mia testa, avevo detto a Gambetti. Perché col tempo mi sono aspettato troppo da lei. Perché, molto semplicemente, l’ho sopravvalutata. Sopravvalutiamo la nostra testa e le affidiamo compiti eccessivi e ci meravigliamo quando, picchiando, la troviamo d’un tratto completamente vuota, avevo detto a Gambetti. Nella nostra testa non c’è allora nemmeno lo stretto necessario, avevo detto a Gambetti. Siccome, probabilmente, abbiamo abusato dei filosofi che per noi significano qualcosa, e in certi casi molto o anche tutto, avevo detto a Gambetti, loro ogni tanto si ritraggono dalla nostra testa con tutto quel che sono, e la lasciano sola. Tagliano semplicemente la corda e la lasciano completamente vuota, e così noi, anziché avere in testa dei pensieri e di quei pensieri fare qualcosa, ragionevole o meno, filosofico o meno, avevo detto a Gambetti, proviamo solo un dolore insopportabile, un dolore così terribile che non dovremmo far altro se non gridare senza sosta. Ma naturalmente ci guardiamo bene dal rivelare con quelle terribili grida che abbiamo la testa del tutto vuota, perché in un mondo in cui non si aspetta altro che, mettendoci a gridare, noi riveliamo che la nostra testa è del tutto vuota, questo comporterebbe inevitabilmente la nostra fine. Col tempo ci siamo abituati a nascondere tutto in noi, almeno ciò che pensiamo, che osiamo pensare, per non venire uccisi, perché come sappiamo a venir ucciso è colui che non sa nascondere il suo pensiero, il suo pensiero effettivo, del quale nessuno tranne lui può avere idea, avevo detto a Gambetti. Decisivo è il pensiero nascosto, avevo detto a Gambetti, non quello dichiarato, non quello reso pubblico, che con quello nascosto ha poco, di solito proprio nulla in comune ed è sempre molto più basso di quello nascosto, che invece è sempre tutto, mentre quello reso pubblico è solo lo stretto necessario, come sappiamo. Ma se avessimo la possibilità di rendere pubblico il pensiero nascosto, di dichiararlo anche solo per un istante, avevo detto a Gambetti, saremmo finiti. D’improvviso, sarebbe la fine di tutto. Nella più grande, nella più immensa esplosione tutto andrebbe in pezzi. Ci avviciniamo al filosofico con cautela, avevo detto a Gambetti, con tutta la delicatezza possibile, e falliamo. Poi con determinazione, avevo detto a Gambetti, e falliamo. Anche quando ci avviciniamo senza alcun timore e in radicale denudamento di noi stessi, falliamo. Come se non avessimo alcun diritto a qualcosa di filosofico, avevo detto a Gambetti. Il filosofico è sempre come l’aria che inspiriamo, che però, senza poterla trattenere a lungo, siamo poi costretti a espirare. Lo inspiriamo ed espiriamo di continuo e per tutta la vita, e non possiamo trattenerlo, non quel decisivo istante in più, non quell’istante in più che farebbe la differenza. Ah Gambetti, gli avevo detto, vogliamo prendere e comprendere tutto e attirarlo a noi, e non ne abbiamo la minima possibilità. Trascorriamo la vita a comprendere noi stessi e non ci riusciamo, come possiamo credere di arrivare a comprendere qualcosa che non siamo neanche noi? Anziché descrivere Wolfsegg a Gambetti, come annunciato, per tutto il cammino lungo la Flaminia e poi di nuovo un tratto indietro sulla Flaminia e poi di nuovo in senso contrario e poi di nuovo contrario, fino a piazza del Popolo, lo avevo snervato con quelle mie frasi, declamate di continuo, inoltre, con un tono assai più alto di quanto si confacesse a una persona come lui, e non lo avevo lasciato parlare neanche una volta, pur sapendo benissimo, tutto il tempo, che ogni tanto lui avrebbe avuto qualcosa da dire su quelle mie dichiarazioni, che solo per inciso, d’un tratto, aveva definito uno dei miei caratteristici discorsi filosofeggianti, e che sarebbe stato meglio lasciare che mi interrompesse e lasciargli fare un commento, anziché ascoltare di continuo, senza ritegno, il mio stesso discorso ed entusiasmarmene, almeno sul momento, mentre ero ben consapevole, intanto, che nel giro di pochi minuti quelle mie dichiarazioni avrebbero irritato terribilmente anche me e che mi sarei messo le mani nei capelli per aver dato loro corso più o meno libero, senza freni, per giunta in presenza di Gambetti, che invece, a ragione, deve potersi aspettare dal suo insegnante una disciplina maggiore di quanto non mi fosse possibile al momento. In generale, dovrei fare più attenzione a non lasciarmi andare in presenza di Gambetti, soprattutto nelle mie avventure filosofeggianti, avevo pensato mentre camminavamo insieme in piazza del Popolo, dove quel giorno, alle nove di sera, c’era ancora la stessa animazione che in altre grandi città si vede al massimo poco prima di mezzogiorno. Ma non dovremmo neanche mai vergognarci, avevo detto a Gambetti, quando ci capita di perdere più o meno la bussola, perché la nostra testa così vuole, quella nostra testa in effetti sempre inquieta, una volta che l’abbiamo eccitata a pensare. Gambetti era scoppiato a ridere per quella frase di scuse che, senza dubbio, non poteva mancare. Con molto garbo, con molta eleganza, aveva ordinato per noi, come sempre, solo una mezza bottiglia di vino bianco e io avevo potuto iniziare la mia descrizione di Wolfsegg. La mia osservazione, come sempre, era partita dal basso, dal paese. Levai lo sguardo. Lassù, avevo detto a Gambetti, c’è Wolfsegg, a oltre ottocento metri d’altezza, per secoli inespugnabile, una fortezza costituita da un cosiddetto edificio principale e da diverse dipendenze, ossia la casa dei giardinieri, la casa dei cacciatori, la fattoria, la cosiddetta orangerie, la villa dei bambini, a sua volta un edificio padronale, che probabilmente, trecento anni fa, è stato costruito per i bambini di Wolfsegg, avevo detto a Gambetti, situato un poco in disparte, sul versante orientale, dal quale però si ha la vista più ampia sulle Alpi. Da Wolfsegg, avevo detto a Gambetti, la vista sulle Alpi è la più ampia in assoluto, con un solo sguardo è possibile abbracciare l’intera regione fra le montagne tirolesi e quelle orientali della Bassa Austria. Non esiste in Austria un altro luogo dove ciò sia possibile, avevo detto a Gambetti. In Gambetti ho sempre avuto un ascoltatore attento, che con pazienza mi lasciava sviluppare ciò che tentavo di dire, senza mai disturbarmi, nelle nostre storie e racconti veniamo di solito disturbati già all’inizio, trattenuti, ostacolati almeno, non con Gambetti, che è stato educato all’ascolto dai suoi genitori, dalla sua famiglia sempre piena di tatto in ogni circostanza. Wolfsegg è situata a un centinaio di metri sopra il paese e, a portare lassù dal paese, è un’unica strada, che può essere sbarrata in qualsiasi momento da un ponte levatoio, là dove una fenditura nella roccia separa il paese da Wolfsegg. Wolfsegg stessa non è visibile dal paese, un fitto bosco d’alto fusto la protegge da secoli dagli sguardi di coloro che non devono vederla. La strada è una strada di pietrisco, avevo detto a Gambetti, arrampicandosi scoscesa porta a un muro alto tre metri, dietro il quale l’edificio principale e le dipendenze continuano e restar nascosti.
Il visitatore che varchi il portale aperto vede innanzitutto, a sinistra, l’orangerie con le sue alte vetrate, in questa orangerie vengono coltivati ancor oggi gli aranci, avevo detto a Gambetti, crescono meravigliosamente grazie alla posizione favorevole dell’orangerie, che ha sole tutto il giorno, anche limoni e, proprio come nel Palmenhaus, la celebre serra imperiale di Vienna, vi prosperano piante tropicali e subtropicali di ogni altra specie, già da bambino amavo sopra tutto le camelie, avevo detto a Gambetti, i fiori favoriti della mia nonna paterna. Da bambini l’orangerie era per noi il luogo dove più amavamo stare, spesso, soprattutto con mio zio Georg, trascorrevo là mezze giornate, per farmi spiegare da lui la provenienza delle piante, cosa che è sempre stata un grande piacere per me, nell’orangerie ho sentito le prime parole latine, avevo detto a Gambetti, le denominazioni latine dei molti fiori, coltivati e fatti crescere in tutti i possibili vasi grandi e piccoli, curati dai tre giardinieri che abbiamo sempre avuto a Wolfsegg. E che loro continuano ad avere anche oggi, il che, come può immaginare, Gambetti, avevo detto, di questi tempi è un gran lusso in Europa centrale. Il mio primo contatto con la cosiddetta altra gente era stato il contatto con i giardinieri, erano loro che osservavo non appena e tutte le volte e per tutto il tempo che mi era possibile. Ma fin dall’inizio non mi sono accontentato dei colori magnifici delle piante, avevo detto a Gambetti, ho anche sempre voluto sapere subito da dove quei colori magnifici provenissero, come nascessero e quale ne fosse la denominazione precisa. I giardinieri di Wolfsegg erano sempre stati persone di grande pazienza, emanavano una pace immensa e vivevano con una regolarità e semplicità che ho sempre ammirato come null’altro. I giardinieri mi avevano sempre attratto più di tutti, i loro movimenti erano quelli rigorosamente necessari, pacificanti, sempre utili, la loro lingua era la più semplice, la più chiara. Non appena ero stato in grado di camminare da solo, il mio luogo preferito era stata l’orangerie, mentre mio fratello Johannes si tratteneva quasi tutto il tempo nelle stalle della fattoria, con i cavalli, le mucche, i maiali e le galline, io ero sempre stato per così dire l’amico delle piante, mio fratello Johannes l’amico degli animali, tutta la mia gioia erano le piante dell’orangerie, la sua gli animali della fattoria. In inverno soprattutto, quando la natura fuori era coperta di neve e fredda e spoglia, avevo detto a Gambetti, l’orangerie viveva la sua grande epoca. Fin dall’inizio ebbi il permesso di stare con i giardinieri e guardarli, e infine di lavorare con loro. Era una grande felicità per me, avevo detto a Gambetti, quando nell’orangerie, da un panchetto presso le azalee, che sono i miei fiori preferiti, potevo osservare i giardinieri. Già la parola orangerie mi ha sempre affascinato, avevo detto a Gambetti, era la parola preferita fra tutte le mie parole preferite. L’orangerie era costruita sulla roccia che scende ripida sul paese, in modo tale che il tiepido sole là sopra è sempre stato il più adatto a tutte le piante, i committenti di un tempo, avevo detto a Gambetti, erano avveduti, più avveduti di quelli di oggi. E la cosa stupefacente è che non lavoravano così a lungo come oggi, anni e anni, a costruire un unico edificio, bensì solo poco tempo, un castello per i secoli a venire, avevo detto a Gambetti, lo costruivano con tutte le comodità, anzi raffinatezze, nel giro di pochi mesi, fatto e finito. Per un orrore brutto, goffo e perversamente inutilizzabile oggi si sprecano molti anni e ci si chiede come mai, avevo detto a Gambetti. Ciascuno aveva buon gusto, allora, e ciascuno lavorava per il proprio piacere. Lo si vede nelle costruzioni antiche, riuscite con una perfezione che non ha eguali ai nostri giorni. Nelle costruzioni antiche ogni dettaglio è modellato con amore, avevo detto a Gambetti, con la massima delicatezza, con senso artistico e il massimo buon gusto anche nei cosiddetti particolari secondari. L’orangerie è costruita non soltanto nel luogo ideale, ma anche con il massimo buon gusto, avevo detto a Gambetti, un’opera d’arte che può senz’altro competere con le più stupende creazioni del genere nell’Italia del Nord e in Toscana. Ciascuno di quei maestri costruttori era un piccolo Palladio, avevo detto a Gambetti. La nostra architettura di oggi è degradata, oltre che priva di gusto è in gran parte inutilizzabile, in grande e grandissima misura ostile all’uomo, mentre quella di un tempo era fatta con arte e amica dell’uomo. A ridosso dell’orangerie, sul suo lato sinistro, s’innalza un grande arco di conglomerato, tanto alto che tutte le vetture possono passare, e, dietro, la vasta corte della fattoria, che consiste principalmente di tre bovili e di una scuderia dalle dimensioni generose. Sopra ci sono le abitazioni dei fattori, che hanno sempre guadagnato bene; la fattoria è costruita a ferro di cavallo. Nelle abitazioni sopra le stalle avrebbe potuto alloggiare comodamente un centinaio di persone, avevo detto a Gambetti, hanno tutte grandi stanze, non più piccole delle stanze nell’edificio principale, che, proprio di fronte alla fattoria, è costruito con grande senso artistico su un’altura distante dalla fattoria circa duecento metri; se ne ha una bellissima vista dalla fattoria attraverso il già menzionato arco in muratura. Ha due piani ed è alto esattamente trentaquattro metri, avevo detto a Gambetti. Amo quella vista. La facciata è severa come non ne conosco altra in Austria, più aristocratica di tutte le altre. Nel mezzo c’è un portone d’ingresso alto otto metri, dipinto d’un verde tanto scuro da sembrare sempre dipinto di nero, del tutto disadorno, se tralascio il pomo d’ottone che, mai lucido, vi è avvitato, e il cordone di ferro del campanello sulla sinistra. Le finestre al pianterreno sono all’altezza esatta perché nessuno possa guardar dentro. L’ingresso nell’atrio è per me, quando arrivo da Roma, avevo detto a Gambetti, ogni volta una cosa immensa, il freddo, al contempo la grandiosità, l’altezza e la profondità dello spazio mi costringono ogni volta a trattenere il respiro. L’atrio è lungo circa trentaquattro metri fino al muro della corte, la luce del giorno scende solo dall’alto sulle assi di larice, vecchie di centocinquant’anni, che rivestono il pavimento, assi di larice larghe quasi mezzo metro, avevo detto a Gambetti, che sono già diventate tutte grigie per le generazioni di avi che le hanno calpestate. Non conosco atrio più bello, avevo detto a Gambetti, è signorile per la sua grandezza e assoluta severità, alle pareti non c’è il minimo ornamento, non un quadro, nulla. I muri sono imbiancati a calce e l’osservatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di implacabile. Così è stato per secoli. Negli ultimi tempi, avevo detto a Gambetti, mia madre usava mettere nell’atrio, ogni tanto, dei cesti di fiori, che non gli fanno bene ma non possono distruggerlo, turbarlo un poco sì, avevo detto a Gambetti, ma distruggerlo no, è troppo grandioso. Quando uno entra, avevo detto a Gambetti, può darsi che l’atrio, che anch’io ho sempre trovato grande e freddo e immenso, gli appaia sinistro e già alcuni avevano avuto paura di gelare in quell’atrio appena entrati, infatti quasi tutti hanno i brividi quando entrano, avevo detto a Gambetti, perché non sono assolutamente abituati a entrare in un atrio così grande e grandioso e straordinariamente signorile, tutti gli atri che conosco non sono così grandi, non così grandiosi, non così straordinariamente signorili e quindi, com’è naturale, nemmeno così inospitali come il nostro, che tutti hanno sempre trovato inospitale, tranne me che, fino a oggi, sono sempre stato attratto precisamente da quella grandiosità e da quel freddo; quando Lei entra, avevo detto a Gambetti, per un istante crede di morire nel nostro atrio e cerca sostegno da qualche parte, inoltre i Suoi occhi sono ciechi, quando dalla luce del giorno Lei entra nell’atrio che tende invece a essere immerso nell’oscurità. Per un istante si sente completamente indifeso. Subito a sinistra, quando si entra, c’è la porta della sala della servitù. La porta successiva è la porta del ripostiglio degli utensili di casa. A fianco c’è la porta che dà accesso alla cappella. La cappella è in effetti grande come una chiesa di paese di medie dimensioni, avevo detto a Gambetti, ha tre altari, uno gotico nel mezzo, due ai lati. Ancora oggi, ogni domenica alle sei di mattina vi si celebra una messa, a questo scopo sale dal paese il parroco in persona, oppure sale il curato, a piedi, il che rappresenta una grande fatica, in ogni caso per il vecchio parroco. Nella sacrestia abbiamo ancora oggi grandi armadi con tre secoli di abiti sacerdotali, avevo detto a Gambetti. È che noi a Wolfsegg siamo stati risparmiati da quasi tutte le guerre europee, e gli incendi scoppiati nel secolo scorso sono sempre stati spenti subito, nel nostro paese c’è un corpo dei vigili del fuoco fra i più celebri e abili dell’Austria, avevo detto a Gambetti. Non passa sera senza che mia madre, fra le sette e le otto, vada a inginocchiarsi nella cappella. Fin dall’inizio siamo stati educati ad andare tutte le sere nella cappella. Naturalmente erano stati momenti solenni, quando si riceveva qui l’arcivescovo di Salisburgo in abiti da cerimonia per eventi straordinari come battesimi, cresime, matrimoni eccetera, avevo detto a Gambetti. Lo spettacolo religioso era stato un tempo anche per me, come per tutti i miei, il più alto e il solo. Le cose sono cambiate con grande rapidità. Ma quanto vi era di immenso in quelle cerimonie mi è rimasto nel ricordo, Gambetti, la grande vetrata rilucente sopra le celebrazioni, immense e magnifiche di colori. Di fronte alla cappella si trova la cucina, grande come un maneggio, ancora oggi non riscaldata neppure in inverno, con grandi fornelli in parte fuori uso, adoperati ormai soltanto come ripiani, centinaia e, posso ben dirlo, migliaia di ciotole, tazze, scodelle negli armadi e alle pareti. Qui otto donne e ragazze avevano il loro daffare ancora quando io avevo trent’anni, ricordo infatti il mio trentesimo compleanno e, di quel giorno, soprattutto l’operosità in cucina. La cucina aveva sempre goduto del mio favore quasi quanto l’orangerie, qui, anziché con quello maschile dell’orangerie, avevo a che fare con l’elemento femminile, che mi interessava non meno. Se nell’orangerie amavo i profumi dei fiori, qui in cucina erano gli odori dei dolci più straordinari ad attirarmi ogni giorno. E l’allegria delle cuoche, che mi volevano tutte bene, come avvertii fin dall’inizio, e garantivano la mia stessa allegria. Quando ero in cucina non mi annoiavo mai, la cucina e l’orangerie, avevo detto a Gambetti, sono stati per me i principali punti di riferimento nella prima metà della mia infanzia. Tra i fiori dell’orangerie da un lato e i dolci in cucina dall’altro, avevo avuto nel complesso un’infanzia felice. Nella cucina nessuno mi faceva domande fastidiose, in cucina potevo mostrarmi disinvolto come mi pareva, altrettanto nell’orangerie, e in generale ovunque non fossero i miei genitori. Tutti i momenti cercavo di scendere in cucina o di andare di là nell’orangerie, nei miei sogni mi vedo molto spesso, ancora oggi, scendere in cucina o andare di là nell’orangerie, avevo detto a Gambetti, non importa in che stagione, il bambino corre giù in cucina dalle persone che secondo lui sono felici e gli vogliono bene, di là nell’orangerie dalle persone che, sempre secondo lui, sono felici. Abbandona tutti i momenti quelle severe, a suo parere cattive, che impazienti pretendono da lui sempre più di quanto gli sia possibile dare. Dall’impazienza e dalla severità dei miei genitori fuggo nei miei sogni uscendo dall’atrio, passando davanti all’orangerie, davanti alla fattoria, fin dentro i boschi circostanti, avevo detto a Gambetti. Resto disteso per ore sulla sponda di un ruscello e osservo i pesci nell’acqua e i coleotteri sulle serpentarie. Le giornate sono lunghe, le sere troppo brevi. Entrati nell’atrio, avevo detto a Gambetti, dopo una ventina di passi a destra si sale al primo piano per un’ampia scala in legno. Girando a destra arriviamo nel cosiddetto atrio superiore, alla cui estremità orientale si scorge la grande sala da pranzo con la porta sempre aperta. La sala da pranzo è esattamente sopra l’atrio inferiore e ha un grande balcone. Qui da bambini non ci era permesso trattenerci, tranne quando ci veniva espressamente ordinato in certe occasioni solenni. In abiti severi dovevamo restar seduti a tavola e tacere. Qui si trovano ancor oggi gli armadi e i cassettoni pieni delle più preziose stoviglie e posate, qui sono dappertutto i più grandi tesori che i nostri hanno accumulato nel corso dei secoli. Alle pareti sono appesi i ritratti di coloro che hanno costruito Wolfsegg e di quelli che l’hanno conservata e amministrata e che da tempo riposano al cimitero nella nostra tomba di famiglia. Se quella sala da pranzo potesse parlare, avevo detto a Gambetti, avremmo una storia dell’umanità completa e autentica, tanto fantastica quanto reale, tanto radiosa quanto terribile. Al tavolo di quella sala da pranzo, senza dubbio, è stata fatta la storia, avevo detto a Gambetti, e non soltanto storia locale. Ma i tavoli delle sale da pranzo non parlano, avevo detto a Gambetti, ed è un bene, perché se parlassero verrebbero in breve tempo fatti a pezzi da coloro che debbono sedervisi. Ricordo di esser stato seduto a quel tavolo da pranzo con otto diversi arcivescovi e cardinali e con almeno una dozzina di arciduchi, avevo detto a Gambetti, cosa che, com’è naturale, aveva fatto grande impressione al bambino che ero. E con tante grandi dame dell’alta società, di cui oggi ho dimenticato il nome, che arrivavano da Vienna e da Parigi e da Londra per farci visita. E che pernottavano tutte qui a Wolfsegg, per loro venivano aperte quelle stanze che altrimenti restavano sempre chiuse a chiave, quelle grandi stanze che sapevano di muffa, con le loro cupe tappezzerie alle pareti e con i loro tendaggi pesanti, che una persona non troppo forte non riesce a muovere, la sera non riesce a chiuderli e la mattina ad aprirli. In quelle cosiddette stanze degli ospiti, situate tutte sul lato nord, ho sempre avuto paura, avevo detto a Gambetti. Chiunque le abitasse, sia pure per tempo brevissimo, immancabilmente si ammalava. Ma è in piena consapevolezza che a Wolfsegg hanno arredato quelle stanze in maniera così poco accogliente, e le hanno poste proprio sul lato nord e anche sempre tenute a quel certo grado di freddo, caratteristico di quelle stanze, che fa ammalare, non volevano che un ospite restasse più a lungo dello stretto necessario, e la gente, infatti, la invitavano sempre e solo per un motivo preciso, quando volevano qualcosa di ben preciso, un qualche vantaggio che non sarebbe stato possibile ottenere altrimenti. Già a colazione gli ospiti che avevano trascorso la notte in quelle stanze mostravano sempre, subito, i primi sintomi del raffreddore, di solito comparivano già con una sciarpa avvolta intorno al collo, e la loro tosse era quanto mai evidente, avevo detto a Gambetti. Ma nonostante tutto, avevo detto a Gambetti, quella gente tornava sempre, perché Wolfsegg non cessava di esercitare su di loro un grande fascino. Erano sempre in attesa, alla lettera, di essere invitati. I miei nonni invitavano ancora moltissima gente, i miei genitori già assai meno, non erano poi così desiderosi di stare in società, mio padre proprio per niente e mia madre, nei primi tempi, aveva troppe inibizioni e dunque complessi nei confronti di tutta quella gente che, lei credeva, veniva a Wolfsegg soltanto per spiare i suoi errori di etichetta e andarli a raccontare ovunque ciò potesse recarle danno. E infatti nei primi tempi, anzi per un decennio, non aveva invitato i conoscenti di mio padre, ma i suoi, dai quali aveva molto meno da temere, e la conseguenza fu, come si è ricordato, tutta quella gente terribile, il cosiddetto ceto medio colto che ti fa sempre rabbrividire d’orrore, avevo detto a Gambetti, soprattutto quando viene da Wels e Vöcklabruck, da Linz e da Salisburgo e si sente superiore al resto del mondo. Quegli inviti li ho sempre trovati ripugnanti. A Wolfsegg d’altra parte, che era del tutto nuova ed estranea e anzi, in verità, a lei completamente inadeguata, mia madre si sarebbe ritrovata ben presto in completa solitudine a fianco di mio padre, che non era propriamente eccitante, avevo detto a Gambetti, si sarebbe annoiata a morte. Wolfsegg l’avrebbe inevitabilmente schiacciata in brevissimo tempo, la donna che veniva dal basso, come mio padre osava ancora dire scherzando nei primi anni del suo matrimonio con mia madre, sarebbe intristita a Wolfsegg, come si usa dire, fino a morirne. Così, a partire da un ben preciso momento, che era stato decisivo per il suo futuro, fece venire lassù a Wolfsegg, molto semplicemente, quelli come lei e la proletarizzò, così mio padre, avevo detto a Gambetti. Aveva il diritto di salvarsi, avevo detto a Gambetti, anche se a noi riusciva intollerabile vedere con quali mezzi. Solo nella casa padronale ci sono più di quaranta stanze, non le ho mai contate. Una nostra stanza noi bambini l’avevamo avuta soltanto a dodici anni e, cosa interessante, io e mio fratello ne avevamo una per ciascuno sul lato sud, mentre le nostre sorelle avevano le loro stanze sul lato nord. Infatti erano perennemente raffreddate ed è più che possibile che debbano la loro predisposizione alle malattie da raffreddamento alla circostanza di essere esiliate sul lato nord. Da sempre le ragazze erano state esiliate sul lato nord, per così dire come punizione per il fatto di essere ragazze. Ma questa è solo una mia congettura, avevo detto a Gambetti. Coloro che crescono sul lato nord sono anche per il resto della vita dei cosiddetti svantaggiati, avevo detto a Gambetti, restano degli svantaggiati per tutta la vita. Il lato nord non era gradevole neanche in estate, perché non si scaldava mai, le mura di Wolfsegg, che siano esposte a nord o a sud, non si scaldano mai, sono sempre fredde, pericolose per chi si avvicini troppo. Le finestre di Wolfsegg, anche al secondo piano, sono alte più di due metri e noi bambini avevamo sempre difficoltà ad aprirle, ogni volta dovevamo chiedere aiuto se volevamo far entrare aria fresca; i nostri genitori avevano accanto al letto un cosiddetto campanello per la servitù, noi naturalmente non avevamo un simile campanello. Ai tempi della nostra infanzia non c’erano ancora gabinetti al secondo piano, dove dormivamo e dove inoltre dovevamo trascorrere la parte più lunga della giornata, le nostre stanze erano al contempo le nostre stanze di studio e da letto, e di notte facevamo i nostri bisogni in vecchi pitali di porcellana, in tutta naturalezza come i nostri nonni, e di mattina, molto semplicemente, da una delle finestre del corridoio del secondo piano rovesciavamo i pitali giù nel vuoto, con gesti resi sicuri dall’abitudine, debbo dire. La sera dovevamo portarci da soli su al secondo piano e nelle nostre stanze, in grandi brocche di terraglia, l’acqua per lavarci, perché là sopra non arrivava acqua. Anche l’acqua sporca con cui ci eravamo lavati la rovesciavamo giù nel vuoto, molto semplicemente, dal secondo piano, là dove rovesciavamo i nostri pitali e catini, in fondo, cinquanta o più metri sotto di noi, crescevano rigogliose gigantesche serpentarie, là attecchivano come in nessun altro luogo. I bambini di Wolfsegg si liberavano molto presto della loro paura, si abituavano presto al senso di abbandono nel gigantesco edificio freddo, i bambini forestieri avevano una paura immensa a Wolfsegg, urlavano quando li si lasciava soli anche per brevissimo tempo; noi non avevamo paura di sorta. Già quando avevamo quattro o cinque anni, credo, nostra madre ci aveva esiliati dalla sua stanza, avevo detto a Gambetti, dapprima naturalmente in camere comuni, ma tuttavia esiliati, compariva ogni sera, dopo che ci eravamo lavati, per darci il bacio della buona notte.
Johannes voleva sempre da lei il bacio della buona notte, io rifiutavo dentro di me il bacio della buona notte, lo odiavo, anche se non sono mai riuscito a sfuggirgli. Ancora oggi mia madre mi perseguita in sogno con il bacio della buona notte, avevo detto a Gambetti, si china su di me e io, inerme, sono alla mercé di quel bacio della buona notte, lei preme le labbra sulla mia guancia, con forza, come se volesse punirmi. Dopo aver dato a entrambi il bacio della buona notte, spegneva la luce ma non usciva subito dalla nostra stanza, restava qualche tempo alla porta e aspettava che ci fossimo girati sul fianco e addormentati. Siccome già da bambino avevo un udito straordinariamente fine, sapevo che lei stava in ascolto dietro la porta chiusa, prima di scendere al primo piano, dove i miei genitori dormivano. Diffidava anche di noi bambini, non so per quale ragione, avevo detto a Gambetti, la diffidenza di nostra madre era estrema, ne soffriva in maniera incessante, inguaribile, ossessiva, oggi debbo dire assolutamente perversa. A Wolfsegg tutti i locali, dunque anche le stanze, erano imbiancati a calce. I tendaggi erano verde cupo, quasi neri nelle stanze del secondo piano, rosso cupo, quasi neri nelle stanze del primo piano. Al secondo piano, dove si trovavano le nostre stanze, erano di lino pesante, cosiddetto del Mühlviertel, nelle stanze del primo piano erano di velluto pesante che, si dice, la mia nonna paterna aveva fatto arrivare dall’Italia ancor prima della fine del secolo. Per quanto riesco a ricordare, quei tendaggi non sono mai stati lavati, vale a dire neanche mai tirati giù dalle pareti. Quando bisognava fare i compiti, mio fratello Johannes e io, ma più tardi anche le mie sorelle, venivamo rinchiusi nelle nostre stanze finché non avevamo finito i compiti e solo nei casi più urgenti, quando non sapevamo proprio più come andare avanti, potevamo chiedere aiuto, ma nostra madre non ci aiutava, si limitava sempre a dire che dovevamo arrivare da soli, con le sole nostre forze, alla soluzione dei nostri problemi ed enigmi. Questo metodo non aveva nelle sue intenzioni il minimo valore educativo, tornava utile soltanto alla sua indolenza. Nostro padre non si è mai curato dei nostri compiti. Si limitava a irritarsi quando tornavamo a casa con dei brutti voti, eravamo assolutamente indegni di lui, diceva quando uno di noi prendeva un cinque o addirittura un quattro, i quattro c’erano, quando andavamo a scuola noi. Due quattro avrebbero avuto come inevitabile conseguenza la bocciatura, ma noi non prendevamo mai due quattro, uno sì, però, e molto spesso. Le nostre stanze al secondo piano venivano riscaldate solo in casi estremi, solo quando si arrivava a dieci gradi sotto zero, benché a Wolfsegg ci sia sempre stata grande sovrabbondanza di legname, e poi dovevamo accendere da soli le stufe con la legna che noi stessi, per così dire con le nostre mani, dovevamo portare su al secondo piano, perché alla servitù non era permesso portarci su al secondo piano la legna da ardere. Quell’ordine glielo aveva dato mio padre, che voleva educarci a diventare individui temprati. Gambetti non aveva capito il concetto di temprato, e io avevo cercato di spiegarglielo. Ma in effetti quei metodi per temprare, che nostro padre stesso definiva educazione alla tempra, non ci avevano affatto temprati, bensì resi particolarmente predisposti a tutte le possibili malattie, non così predisposti, tuttavia, come le nostre sorelle, che sono cresciute nelle stanze a nord. I metodi educativi, i metodi per temprare di nostro padre non ci hanno temprati, bensì resi particolarmente cagionevoli, avevo detto a Gambetti. Con il suo metodo per temprare, nostro padre aveva ottenuto esattamente il contrario, siamo sempre stati molto più malati di coloro che non erano sottoposti a nessun cosiddetto metodo per temprare, più malati di tutti i bambini giù al villaggio, i quali naturalmente, sebbene fossero più o meno poveri, come si usa dire, e non avessero nulla a differenza di noi, che rispetto a loro, lo si può ben dire, nuotavamo nella ricchezza, accendevano la stufa nelle loro stanze. A Wolfsegg, avevo detto a Gambetti, ha sempre regnato inoltre una tremenda avarizia. Mia madre era la più avara, più avara di tutti gli altri. Spesso ho pensato che la sua unica vera passione fosse la sua avarizia. Se prescindo dal fatto che spendeva somme favolose per i vestiti, era la persona più avara che io abbia conosciuto in vita mia, anche verso se stessa. Non si concedeva nulla. Nelle pentole di Wolfsegg si poteva cucinare solo lo stretto necessario, tutto di produzione propria se possibile, nulla di comprato in paese. È per questo che mangiavamo sempre tanta carne di maiale e di manzo e tutti i momenti a Wolfsegg c’erano sanguinacci e tutti i generi di passata di farina e di semolino e d’avena e soufflé. E naturalmente di continuo uova strapazzate. Solo quando c’era una cosiddetta visita importante si faceva mostra di sé, allora la cucina di Wolfsegg si profondeva fino all’eccesso, diventava prodiga con una ricchezza senza eguali di piatti prelibati. Nostra madre è sempre stata una persona interamente volta all’esterno, ciò che le importava di più è sempre stato cosa gli altri pensassero di lei, come gli altri la giudicassero e, com’è naturale, voleva che di lei si pensasse sempre bene e che gli altri la giudicassero sempre bene. In cucina sapevano cucinare magnificamente! avevo esclamato parlando con Gambetti, ma quasi sempre cucinavano cibi noiosi, che si ripetevano ogni due giorni. Spesso mi sono chiesto, avevo detto a Gambetti, che ce ne facciamo di tre giardinieri se poi non si riesce mai a mangiare verdura decente, mai qualcosa di buono preso dall’orto, quando invece sarebbe stato così facile mettere in tavola, in tutte le forme possibili, verdure squisite, magnifiche insalate, proprio perché amo tanto mangiare verdure e insalata; no, il raccolto di verdure e il raccolto di insalata venivano venduti per intero, non arrivavano sulla nostra tavola, venivano portati dai giardinieri al mercato di Wels o di Vöcklabruck, era più redditizio. Non era indispensabile, avevo detto a Gambetti, che nostro padre a Wolfsegg si ammalasse di stomaco. Le cuoche e le loro aiutanti erano occupate quasi tutto il tempo, come ho già detto una volta, a far conserve di frutta e a mettere sotto vetro interiora d’animali, persino a far salsicce tutti i momenti, perché a Wolfsegg si macellava anche, mangiavano sempre e soltanto carne macellata sul posto. Senza dubbio hanno sempre prodotto i migliori sanguinacci che io abbia mangiato in vita mia. Un macellaio saliva dal paese e abbatteva le mucche, i vitelli, scannava i maiali e li squartava con cura meticolosa nella macelleria di Wolfsegg, accanto alla fattoria. Era sempre un piacere stare a guardare il macellaio, quando eravamo piccoli, com’è naturale, un piacere sinistro, ripugnante, anzi nauseabondo, più tardi avevo preso a considerare il lavoro del macellaio come una delle arti più nobili, a porlo sullo stesso piano di quello medico-chirurgico, anzi, mi pareva ancora più ammirevole. Per noi di Wolfsegg, fin da piccolissimi, era naturale che gli animali venissero macellati e preparati, presto non ci fece più paura, ci rendemmo conto più tardi che ciò che al principio trovavamo ripugnante era affatto necessario, e il lavoro del macellaio è oltremodo difficile e, quando venga eseguito in maniera eccelsa, ammirevole. I bambini di campagna si abituano fin da piccoli, per così dire dopo il primo shock, ad affrontare la vita e la morte, ben presto per loro ciò non ha più nulla di spaventoso, perché non ha proprio nulla di sensazionale, ma soltanto una naturalezza assoluta. Sotto il tetto abbiamo, del resto, un grande affumicatoio, avevo detto a Gambetti, la parola affumicatoio lo aveva divertito e io avevo dovuto ripetergliela diverse volte, aveva voluto sentirla più volte, in un affumicatoio della fattoria, gli avevo detto, erano sempre appese centinaia di salsicce, centinaia di pezzi di carne affumicata. Attorno alla corte interna dell’edificio principale, in cui si svolge più o meno la vita della famiglia, avevo detto a Gambetti, corre a tutti e tre i piani un colonnato aperto, dove vado sempre a lucidarmi le scarpe. A quella mia osservazione Gambetti era scoppiato di nuovo a ridere, mentre mi versava del vino. E laggiù in quella corte tenevamo d’inverno i caprioli feriti oppure gracili, gli avevo detto, che i cacciatori cercavano per noi e ci portavano a Wolfsegg. La casa dei cacciatori si trova davanti alla cosiddetta villa dei bambini, ma dietro la casa dei giardinieri, avevo detto a Gambetti. Vista dall’alto, Wolfsegg si presenta così: erto e scosceso sopra il paese l’edificio principale, dinanzi al quale per centocinquanta o centosettanta metri, in un ovale dalla forma incerta, il cosiddetto parco si estende verso oriente fino al muro, che è interrotto dall’alto portale in pietra da taglio sotto il quale passano le vetture dell’azienda, e a destra del muro, costruita a ridosso, l’orangerie, Gambetti, avevo detto, e di fronte per così dire l’ala sinistra della fattoria che, con la pianta a ferro di cavallo, ha certamente, nel complesso, una lunghezza di duecentocinquanta metri. Dietro, rivolta proprio a oriente, la casa dei giardinieri e alle sue spalle la casa dei cacciatori e, un tratto oltre, la cosiddetta villa dei bambini, tanto amata. Questa cosiddetta villa dei bambini è stata costruita circa duecento anni fa nello stile delle ville fiorentine, come le si vede ancora oggi sulla via di Fiesole, naturalmente non così sfarzosa, avevo detto a Gambetti, e tuttavia straordinaria per quella regione dell’Alta Austria. Ma non si può dire che non sia in armonia col paesaggio, al contrario, è in effetti più incantevole di ogni altra cosa nel nostro paesaggio. Suona assolutamente strano, ma è stata costruita per i bambini. Ospita un teatro delle marionette, nel quale hanno sempre avuto luogo rappresentazioni teatrali messe in scena da bambini. Pièce scritte da bambini, piccole scene, commedie, che ai bambini vengono in mente con tanta facilità, con un finale triste che a ben guardare non è poi così triste. In versi naturalmente. Nella villa dei bambini sono conservati centinaia di costumi teatrali per bambini. Oggi la villa dei bambini è chiusa, credo che nessuno vi metta piede da anni. Diverse finestre sono sfondate, probabilmente per mano dei bambini del paese, avevo detto a Gambetti, ma dal tetto non piove ancora dentro, Gambetti. Questa villa dei bambini ho sempre voluto restaurarla, avevo detto a Gambetti, ma i miei non avevano permesso che si spendesse denaro per una simile assurdità. I miei fratelli e io abbiamo ancora fatto teatro là dentro, molto spesso, finché non ci è stato proibito perché dovevamo studiare di più, fare meno teatro. È un peccato, avevo detto a Gambetti, che la villa dei bambini sia un edificio morto, proprio la villa dei bambini, il più bell’edificio a perdita d’occhio in tutto il paese, ha tanto fascino, non può assolutamente immaginarlo, Gambetti, in una regione che non è ricca di edifici amabili, di case piacevoli, di un’architettura gioiosa. Forse riuscirò un giorno a farmi valere con i miei, avevo detto a Gambetti, e a riaprire proprio la villa dei bambini, a restaurarla e riaprirla, a inaugurarla con una commedia recitata dai bambini del paese. Mi darebbe una gioia immensa, avevo detto a Gambetti, uno spettacolo, recitato dai bambini del paese, nei costumi vecchi di secoli, così magnifici nei colori, così fantasiosi, Gambetti, così altamente artistici, veramente poetici. Ma come sempre, avevo detto a Gambetti, ciò che è effettivamente poetico viene trascurato come null’altro. Quasi non si volesse saperne di ciò che è effettivamente poetico. La villa dei bambini, chiusa e abbandonata alla rovina, è un capitolo quanto mai triste, ma interessante, della nostra storia di Wolfsegg, avevo detto a Gambetti, forse è il più triste in assoluto. I cacciatori non erano mai stati miei amici, avevo detto a Gambetti, nella casa dei cacciatori entravo solo con riluttanza, mentre quello era il luogo preferito di mio fratello. Come per mio padre, anche per mio fratello la caccia era diventata molto presto la sola vera passione. Oggi, avevo detto a Gambetti, lui va a caccia non appena può, e a Wolfsegg diverse volte l’anno si tengono grandi partite di caccia, alle quali negli ultimi anni non mi sono mai fatto vedere, tutti i possibili cosiddetti aristocratici d’Europa si radunano a Wolfsegg, avevo detto a Gambetti, a Wolfsegg si parlano allora molte lingue, per giorni e giorni, lo spagnolo soprattutto, quando ci sono i nostri parenti spagnoli, di Bilbao, di Cadice. Queste partite di caccia nascono però dall’iniziativa di nostro padre, che non ha voluto rinunciarvi per nostra madre, sono, come si usa dire, una tradizione antichissima a Wolfsegg. Quasi tutte le stanze sono allora occupate, avevo detto a Gambetti, anche le meno accoglienti, anche le più fredde. Anche molti italiani sono ospiti a Wolfsegg in queste occasioni, allora le dispense vengono svuotate, avevo detto a Gambetti, e i vasi di marmellata aperti a dozzine e ci sono persino insalate e composte delle specie più svariate. La casa dei cacciatori è il luogo preferito di mio fratello, là si ritira per fare i bilanci di Wolfsegg, l’intera contabilità è nella casa dei cacciatori. Io non ho mai avuto inclinazione per i trofei di caccia, avevo detto a Gambetti, il culto dei trofei di caccia mi ha sempre ripugnato, la caccia stessa l’ho sempre respinta ed esecrata dal profondo, sebbene sia convinto della sua assoluta necessità. Non appena può, mio fratello parte per la Polonia e va a caccia, anche per la Russia, pur di soddisfare la sua passione non rifugge nemmeno il cosiddetto sistema comunista laggiù dominante. Non bada a spese per la caccia. Da un lato è un fanatico della vela, d’altro lato un fanatico della caccia. E infatti non lo si vede se non in tenuta da cacciatore, avevo detto a Gambetti, che nelle campagne austriache è diventata da tempo per così dire il costume nazionale. Siccome è così pratico, avevo detto a Gambetti, tutti vanno in giro vestiti da cacciatori, quale che sia la condizione sociale, anche se con la caccia non hanno nulla a che vedere, vanno in giro vestiti di verde e grigio e a volte sembra che l’intero popolo austriaco sia ormai soltanto un popolo di cacciatori, anche a Vienna vanno in giro a migliaia per le strade in abiti da caccia. Anche ai cittadini l’istinto della caccia sembra aver dato alla testa, avevo detto a Gambetti, perché, come si spiega altrimenti che dappertutto si vede gente andare in giro in abiti da cacciatore, anche quando è soltanto comico, grottesco-perverso? La casa dei cacciatori è stata costruita solo alla fine del secolo scorso nello stesso luogo di un’altra, distrutta da un incendio. Uno dei miei bisnonni vi aveva allestito un tempo una sua biblioteca personale, pensi, avevo detto a Gambetti, sarebbe stata per così dire la sesta di Wolfsegg, all’inizio era stata concepita soltanto come biblioteca di caccia, ma in seguito è stata ampliata fino a diventare generale. In essa trovai a suo tempo i tesori più incredibili, avevo detto a Gambetti, era fatta per chi effettivamente volesse dedicarsi ai libri in pace assoluta, abbandonarsi loro nelle condizioni ideali. Alla casa dei cacciatori non viene nessuno, non ci sono intrusi da temere, è inondata d’aria, è calda, alle pareti sono appesi i più begli esemplari di antiche pitture su vetro, dipinte soprattutto nel diciassettesimo secolo con straordinario senso artistico, e c’è una storia universale di Schedel, colorata da una mia bisnonna, su uno scrittoio in stile giuseppino proveniente da Steyr, con un pesante piano di marmo di Carrara alto venti centimetri, un pezzo unico, avevo detto a Gambetti, come se ne trovano raramente a nord delle Alpi. Proprio su quello scrittoio e su quel piano di marmo riusciva in maniera ideale a mettere per iscritto i suoi pensieri, diceva sempre mio zio Georg, il quale, su quel piano di marmo, ha cominciato a scrivere ciò che lui stesso chiamava la sua antiautobiografia, un manoscritto di diverse centinaia di pagine che per due decenni ha poi continuato a Cannes, annotandovi tutto ciò che giudicava degno di essere annotato. Alla sua morte, però, nessuno di noi ha trovato quel manoscritto e si è mormorato che lui stesso l’avesse bruciato poco prima della morte, perché ancora due settimane prima, come sappiamo dalle persone che gli stavano intorno, aveva preso un appunto, che per la precisione riguardava Wolfsegg. Il buon Jean aveva visto di persona quell’appunto riguardante Wolfsegg, ma non era più stato in grado di ricordarne il contenuto, pare che fosse particolarmente conciso. Per come conosco mio zio Georg, può essersi trattato soltanto di una frase radicale, della quale i miei probabilmente si sarebbero spaventati a morte. Può darsi, avevo detto a Gambetti, che sia stato il buon Jean stesso a far sparire il manoscritto, ma non va neppure esclusa la possibilità che l’abbia distrutto mia madre, aveva avuto accesso allo studio dello zio Georg quando ancora nessuno l’aveva toccato, il manoscritto era sempre stato nel cassetto dello scrittoio, due giorni dopo che mia madre era stata nello studio dello zio Georg il manoscritto, l’antiautobiografia senza dubbio interessante dello zio Georg, mancava, non era più stato possibile trovarla. Da quella antiautobiografia mia madre usciva probabilmente peggio di tutti, e lei è capacissima di essersi chiusa per qualche tempo nello studio dello zio Georg, come se fosse addolorata, e di aver scorso quell’antiautobiografia, poi, offesa, è probabilmente andata per le spicce con quel manoscritto a lei in effetti dannoso. Per una vita intera mio zio Georg ha visto in lei la responsabile di tutto. A ogni istante diceva tua madre è la sventura di Wolfsegg. C’è da supporre che abbia scritto quella frase anche nella sua antiautobiografia. Il piano di marmo di Carrara sullo scrittoio in stile giuseppino proveniente da Steyr è sempre freddo, gelido, avevo detto a Gambetti, non conta quanto sia alta o quanto sia bassa la temperatura esterna, anche in piena estate, quando tutto geme nella calura, il piano di marmo di Carrara è gelido. Su quel freddo gelido mio zio Georg aveva annotato le idee che gli attraversavano la mente, è sopra quel freddo piano di marmo, ripeteva sempre, che in assoluto si pensa meglio. Anch’io, negli ultimi anni che avevo vissuto a Wolfsegg, sebbene per tutto il tempo, consapevolmente o inconsapevolmente, già prendessi congedo da Wolfsegg, per così dire per sempre, avevo detto a Gambetti, avevo annotato su quel piano di marmo di Carrara qualcosa che mi era parso degno di essere annotato, pensieri filosofeggianti di quei tempi, avevo detto a Gambetti, che peraltro non portarono a nulla e che più tardi ho distrutto, come tante altre cose. Sopra un piano di pietra freddo, gelido se possibile, pensiamo nella maniera migliore, avevo detto a Gambetti, là scriviamo nella maniera migliore. Un pezzo unico, avevo detto a Gambetti, un oggetto assolutamente senza eguali, quel piano di marmo di Carrara. È quello, infatti, che di tanto in tanto mi rendeva attraente la casa dei cacciatori, altrimenti, come si è detto, non ci mettevo piede, meno che mai durante la stagione della caccia. I cacciatori erano gli amici di mio fratello, non i miei, io avevo i miei giardinieri. Nella casa dei giardinieri andavo spesso, quasi tutti i giorni. Quando andavo di là nella casa dei giardinieri, andavo dalla gente del popolo, avevo detto a Gambetti, e io amavo la gente del popolo. Ne avevo gran desiderio e in nessun luogo mi sentivo più felice. Amavo le persone semplici, i loro modi semplici. Proprio come le loro piante, così trattavano anche me quando andavo da loro, con amore. Avevano comprensione per le mie angustie e i miei disagi, esattamente la comprensione che i cacciatori non hanno mai avuto nei miei confronti, per me tenevano in serbo sempre soltanto le loro frasi da padroni, a me, bambino ancora piccolissimo, credevano di dover raccontare soltanto le loro barzellette sconce, di potermi allietare agitando sopra le loro teste le bottiglie di grappa, mentre con quel loro ripugnante modo di presentarsi non facevano che rendermi ancora più insicuro e triste di quanto già non fossi, al contrario dei giardinieri che, senza tante parole, mi capivano e tutte le volte sapevano aiutarmi.
Già da lontano i cacciatori mi aggredivano con la boria e la tracotanza delle loro maniere, con le voci chiassose da ubriachi, i giardinieri avevano esattamente la sensibilità che mi acquietava. Dai giardinieri andavo quando ero più infelice del sopportabile, quando ero in difficoltà estrema, avevo detto a Gambetti, non dai cacciatori. A Wolfsegg si erano sempre fronteggiati due campi contrapposti, quello dei cacciatori e quello dei giardinieri. Hanno resistito per secoli gli uni accanto agli altri, il che, certamente, non è stato facile. Non è forse interessante, avevo detto a Gambetti, che ogni tanto un cacciatore si sia ucciso, tirandosi un colpo naturalmente, ma mai un giardiniere? Molti sono i suicidii fra i cacciatori di Wolfsegg, nessuno fra i giardinieri. Ogni due o tre anni a Wolfsegg un cacciatore si tira un colpo e bisogna cercarne uno nuovo. I cacciatori inoltre non diventano molto vecchi, rimbambiscono presto, avevo detto a Gambetti, e bevono fino ad abbrutirsi. I giardinieri a Wolfsegg sono sempre diventati vecchissimi. Non è raro che un giardiniere abbia raggiunto i novant’anni, i cacciatori se ne vanno quasi tutti a cinquanta, perché non sono più in grado di fare il loro lavoro. Tremano nel prendere la mira e già a quarant’anni rivelano alterazioni dell’equilibrio. Li si trova quasi tutto il tempo in paese, dove se ne stanno oziosamente seduti nelle osterie accanto al fucile senza sicura e, ben in carne, danno fiato ai loro assurdi commenti politici, cosa che spesso degenera in risse che, come sempre in campagna, sfociano, com’è naturale, in veri scontri e finiscono poi con dei feriti, anzi addirittura con dei morti. Son sempre stati i cacciatori a far gazzarra, ad attaccar briga. Se uno non gli andava bene, alla prima occasione semplicemente lo abbattevano a fucilate e in tribunale si difendevano dicendo di aver scambiato la vittima per un capo di selvaggina. La storia giudiziaria dell’Alta Austria è piena di simili incidenti di caccia, che di solito non valevano al colpevole più di una diffida, secondo la massima: se un cacciatore ti ammazza, la colpa è tua. I cacciatori, poi, sono sempre stati dei fanatici, avevo detto a Gambetti, in effetti si può dimostrare che le disgrazie del mondo sono imputabili in gran parte ai cacciatori, tutti i dittatori avevano la passione della caccia, avrebbero dato qualsiasi cosa per la caccia, ucciso il loro stesso popolo per la caccia, come abbiamo ben visto. I cacciatori erano i fascisti, i cacciatori erano i nazionalsocialisti, avevo detto a Gambetti. Giù in paese, durante il dominio nazista, erano i cacciatori a dettar legge e son stati inoltre i cacciatori, alla fin fine, a estorcere a mio padre, per così dire, l’adesione al nazionalsocialismo. Quando il nazionalsocialismo è salito al potere erano loro i più forti, e mio padre il debole che dovette piegarsi al loro volere. Così, per via dei cacciatori, Wolfsegg era diventata senz’altro nazionalsocialista. Mio padre era un nazista per forza, deve sapere, Gambetti, aizzato da mia madre, com’è naturale, che era una nazionalsocialista isterica, durante tutto il dominio nazista, deve sapere, una Donna Tedesca, come lei stessa si è sempre definita. Al compleanno di Hitler, a Wolfsegg si issava regolarmente la bandiera nazista, avevo detto a Gambetti, una cosa rivoltante. Mio zio Georg, infatti, se n’è andato da Wolfsegg soprattutto perché non voleva sopportare e non poteva sopportare il nazionalsocialismo che là si imponeva in tutta la sua violenza. Andò a Cannes, più tardi qualche tempo a Marsiglia e da laggiù lavorò contro i tedeschi. È la cosa che i miei gli hanno perdonato di meno. Alla fin fine, in effetti, mio padre non era soltanto un nazista per forza, ma uno convinto, e mia madre una fanatica. Quell’epoca è la più ripugnante che Wolfsegg abbia mai vissuto, avevo detto a Gambetti, umiliante per Wolfsegg, mortale per Wolfsegg, che mai nessuno potrà tacere e nascondere, perché è la verità. Quando Le dico che mio padre, solo perché mia madre lo esigeva, invitava a Wolfsegg i gerarchi nazisti, ancora oggi mi corrono i brividi lungo la schiena. Che le cosiddette SA del paese si siano schierate nella corte e abbiano gridato Heil Hitler! Indubbiamente mio padre ha tratto profitto dai nazisti. E quando loro se ne andarono, lui ne uscì indenne, assolutamente indenne. Senza alcun cambiamento, fu il padrone anche per la gente del dopoguerra. Di sua spontanea volontà aveva messo a disposizione dei nazisti, per le loro adunate, la villa dei bambini, lo so, mia madre non dovette neppure incoraggiarlo. Nella villa dei bambini la Gioventù hitleriana trafficava coi suoi lavoretti manuali, là imparava a memoria le sue ottuse canzoni naziste. Dalla villa dei bambini continuò a sventolare anno dopo anno la bandiera con la svastica, finché, completamente battuta e slavata dalle intemperie, non fu ritirata un giorno da mia madre, qualche ora prima che arrivassero gli americani. Ritirando quella croce uncinata si è procurata una distorsione al collo, avevo detto a Gambetti, e da allora ha sempre avuto una sorta di reumatismo cervicale cronico. Del resto, delle dozzine di bandiere con la croce uncinata sono stati fatti a Wolfsegg grembiuli da lavoro per i giardinieri e per le ragazze di cucina, mia madre in persona le ha tinte di blu scuro. Su indicazione di mia madre, avevo detto a Gambetti, mio padre è entrato nel partito e dal momento del suo ingresso ha portato il distintivo del partito, senza alcun imbarazzo, debbo dire, molto apertamente in ogni occasione. Ancora oggi ha delle giacche con un foro la cui origine non è altro che il distintivo del partito portato per tanti anni. L’ultima volta che mio zio Georg era stato a Wolfsegg, alla fine di una discussione in cui si era parlato più o meno di tutto, ma in particolare dell’equilibrio degli armamenti fra i russi e gli americani, aveva ricordato a mio padre che lui un tempo, e non per poco, era stato membro del partito. Al che mio padre era balzato in piedi e aveva fracassato sulla tavola il suo piatto, precipitandosi poi fuori della sala da pranzo. Mia madre aveva gettato in faccia a mio zio le parole vigliacco schifoso e aveva seguito suo marito. Così l’ultimo soggiorno di mio zio Georg a Wolfsegg aveva avuto un triste epilogo. Ma era quasi ogni volta il nazionalsocialismo, avevo detto a Gambetti, a separarli alla fine del soggiorno di mio zio Georg a Wolfsegg, e sempre in maniera ripugnante. I nazisti non avevano neanche fatto in tempo ad andarsene, avevo detto a Gambetti, che i miei si erano già buttati al collo degli americani e da quel disgustoso legame avevano tratto, daccapo, soltanto vantaggi. I miei sono sempre stati degli opportunisti, il loro carattere lo si può ben definire ignobile. Si sono sempre adeguati alla situazione politica del momento, e ogni mezzo era buono per ricavar vantaggi da qualsiasi regime. Si erano sempre schierati dalla parte di chi al momento si trovasse al potere, e da austriaci nati dominavano l’arte dell’opportunismo come nessun’altra, politicamente non erano mai caduti in disgrazia. È alla loro mancanza di carattere, debbo dire, che Wolfsegg deve il fatto di essere stata risparmiata fino a oggi, intendo dire la proprietà, gli edifici e la terra che li circonda; non è mai stata bombardata o incendiata dai nemici. Il fatto incredibile è questo: durante il dominio nazista Wolfsegg è stata una roccaforte del nazionalsocialismo e al contempo una roccaforte del cattolicesimo. Arcivescovi e Gauleiter si avvicendavano ogni fine settimana, si davano il cambio. A quell’epoca era mia madre ad avere in mano il governo di tutto, insieme ai cacciatori, che ancor oggi non sono altro che dei nazisti, così come mia madre, nel profondo del cuore, in pace assoluta grazie alla sua ipocrisia cattolica, ancor oggi non è altro che una nazionalsocialista. Il nazionalsocialismo è sempre stato il suo ideale, come per almeno il novanta per cento di tutte le donne austriache, avevo detto a Gambetti. Così la casa dei cacciatori è sempre stata dalla parte di mia madre, avevo detto a Gambetti. Nostro padre non era mai stato altro, per tutta la vita, che il suo organo esecutivo, per parlare nella lingua del nazionalsocialismo, Gambetti. Quell’imbecille, come lei stessa si esprimeva, che non capisce niente di niente e che deve ubbidirle. Il pensiero della casa dei cacciatori mi ha indotto a questa digressione, avevo detto a Gambetti. Basta la parola casa dei cacciatori per far rivivere in me l’epoca nazionalsocialista. Potrei raccontare ben altro su quella casa dei cacciatori, che da bambino mi ha sempre riempito di inquietudine, avevo detto a Gambetti, parlarLe per esempio di assassinii legati alla casa dei cacciatori e al nazionalsocialismo, ma ora, in questa atmosfera nel complesso felice, non ne ho voglia. Ma un giorno, avevo detto a Gambetti, voglio cominciare a mettere per iscritto tutto ciò che, riguardo a Wolfsegg, non mi dà pace, tutto ciò che riguarda Wolfsegg. Non mi dà pace da decenni. In effetti mi perseguita giorno e notte. Siccome i miei non hanno né l’intenzione né la capacità di descrivere Wolfsegg, così com’è e come è sempre stata, questo, che è un compito naturale, tocca a me. Voglio fare almeno il tentativo, avevo detto a Gambetti, di descrivere Wolfsegg come io la vedo, perché ciascuno può descrivere solo ciò che vede lui, come appare a lui, non altrimenti. E se dovessi dirmi che vedo soltanto una Wolfsegg spaventosa con gente spaventosa, non dovrei farmi distogliere dal documentarlo. Sono sicuro che mio zio Georg si proponeva qualcosa del genere nella sua antiautobiografia. Siccome quella antiautobiografia di mio zio Georg non esiste più, io stesso ho addirittura il dovere di procedere a una spietata osservazione di Wolfsegg e di render conto di quella spietata osservazione. E quando, se non ora, ora che ne sono in grado, che ho la testa per farlo, avevo detto a Gambetti, qui, con il distacco che mi dà Roma e che a un tale progetto può essere solo di straordinario giovamento. Qui dove sono in pace in questa casa in piazza della Minerva, in fondo perfettamente indisturbato in uno dei centri del nostro mondo di oggi, addirittura ideale per un resoconto del genere. Da anni penso che devo scrivere questo resoconto su Wolfsegg, sulla gente di Wolfsegg, sulle condizioni di Wolfsegg, sulla loro infelicità e sulla loro meschinità, sulla loro decrepitezza e sulla loro mancanza di carattere, su tutto ciò che mi hanno messo sotto gli occhi e che, da quando vivo, ha più o meno reso insonni e rovinato le notti della mia vita, a dir la verità, Gambetti. Cercherò di mostrare i miei così come sono, anche se allora saranno sulla carta solo come io li ho visti e come io li vedo. Poiché nessuno, finora, ha scritto qualcosa su di loro tranne mio zio Georg, la cui antiautobiografia è però distrutta, devo farlo io, Gambetti. La difficoltà sta sempre soltanto nel sapere come cominciare un tale resoconto, dove prendere la prima frase, effettivamente adatta, di un tale scritto, quella primissima frase. In verità, Gambetti, ho cominciato spesso quel resoconto, ma già nell’annotare la primissima frase ho fallito. Allora ho sempre lasciato perdere e mi son sempre messo le mani nei capelli riflettendo che probabilmente ero un pazzo, se pensavo anche soltanto di voler fare un tale resoconto su Wolfsegg, perché solo un pazzo fa un tale resoconto. E con quale utilità? mi dicevo ogni volta ed ero sempre arrivato alla conclusione che un tale resoconto non può essere di nessuna utilità. Ma mi è sempre stato chiaro, e negli ultimi tempi è diventato ancora più chiaro, che quel resoconto lo debbo fare, che non posso sottrarmi a quel resoconto su Wolfsegg, quali che siano le mie resistenze, un giorno dovrò farlo. La mia testa lo pretende da me. E la mia testa è diventata una testa inesorabile soprattutto verso me stesso. La più inesorabile, avevo detto a Gambetti. E sa, avevo detto a Gambetti, il tempo che ancora mi resta è ormai brevissimo, se non comincio presto il mio resoconto sarà troppo tardi. Non lo so, ma lo sento, avevo detto a Gambetti, non ho più molto tempo. E un tale resoconto richiede invece che colui che lo scrive ci lavori per anni, non solo un paio, eventualmente, ma diversi anni, avevo detto a Gambetti. Non basta fare solo uno schizzo, avevo detto a Gambetti. L’unica cosa che io abbia già definitivamente in testa, avevo detto a Gambetti, è il titolo Estinzione, perché il mio resoconto è lì solo per estinguere ciò che in esso viene descritto, per estinguere tutto ciò che intendo con Wolfsegg, e tutto ciò che Wolfsegg è, tutto, Gambetti, mi capisca, veramente ed effettivamente tutto. Dopo quel resoconto tutto ciò che Wolfsegg è deve essere estinto. Il mio resoconto non è altro che un’estinzione, avevo detto a Gambetti. Il mio resoconto molto semplicemente estingue Wolfsegg. Fin verso le undici sono rimasto con Gambetti in piazza del Popolo, mi dissi guardando le foto sulla mia scrivania. Tutti portiamo una Wolfsegg in noi e abbiamo la volontà di estinguerla per la nostra salvezza, volendo metterla per iscritto vogliamo annientarla, estinguerla. Ma quasi sempre non abbiamo la forza per una tale estinzione. Ma forse il momento è arrivato. Ho l’età giusta, avevo detto a Gambetti, ideale per un simile progetto. La mia casa in piazza della Minerva, gli avevo detto, nella semioscurità, dunque le tende tirate quasi del tutto, per essere lasciato in pace, per essere al sicuro dalla luce romana e cominciare il lavoro. Cosa mi impedisce, avevo detto a Gambetti, di cominciare all’istante? Ma subito avevo replicato: crediamo di poter dare avvio a un simile progetto e invece non ne siamo in grado, tutto è sempre contro di noi e contro quel progetto, così continuiamo a rinviarlo e non troviamo mai il tempo, in questo modo tanti lavori intellettuali che dovrebbero essere scritti non vengono mai scritti, tanti abbozzi che per tutto il tempo, per anni, per decenni abbiamo in testa, restano nella nostra testa. Adduciamo tutte le ragioni possibili per non dover cominciare quel lavoro, tiriamo fuori tutte le scuse possibili, invochiamo tutti gli spiriti possibili, che possono essere soltanto spiriti maligni, per non dover cominciare, quando invece dovremmo cominciare. La tragedia di chi vuole mettere qualcosa per iscritto è che continua a invocare chi ostacola la sua scrittura, avevo detto a Gambetti, la tragedia che al contempo è una perfetta e perfida commedia. Dovrebbe pur essere possibile redigere uno scritto, se non compiuto, almeno adeguato su Wolfsegg, su quella Wolfsegg di cui Le ho già parlato tanto, Gambetti, e che ha sempre significato tanto per me e che, probabilmente, conta per me più di ogni altra cosa nella mia vita. Non basta prendere appunti su ciò che conta per noi, su ciò che forse più conta per noi, avevo detto a Gambetti, su tutto il nostro complesso dell’origine, aver riempito centinaia e migliaia di foglietti su quel tema che è il tema di tutta la nostra vita, occorre fare, senza dubbio e in effetti, un resoconto rilevante, per non dire grande, su ciò da cui in fondo siamo nati e di cui siamo fatti, portandone il marchio per l’arco intero della nostra esistenza. Per molti anni possiamo ritrarci spaventati e fuggire come null’altro un simile sforzo quasi sovrumano, ma in definitiva e alla fine dobbiamo affrontarlo e compierlo. A che mi serve tutta questa atmosfera romana, a che mi serve la mia casa in piazza della Minerva, se non a questo fine, avevo detto a Gambetti.
Ma probabilmente ci ho già pensato fin troppo spesso, indebolendo senza dubbio quel progetto, Estinzione sarà il titolo di quel resoconto, avevo detto a Gambetti, perché in quel resoconto estinguo effettivamente tutto, tutto ciò che metto per iscritto in quel resoconto viene estinto, tutta la mia famiglia vi viene estinta, la sua epoca vi viene estinta, Wolfsegg viene estinta nel mio resoconto, a modo mio, Gambetti. Anche questo lo debbo a mio zio Georg, avevo detto a Gambetti. Ciò che a mio zio è stato possibile a Cannes, avevo detto a Gambetti, mettere Wolfsegg per iscritto, deve essere possibile anche a me a Roma, e a me con indipendenza e incorruttibilità tanto maggiori. Roma, avevo detto a Gambetti, è un luogo ideale per un’estinzione come quella che ho in testa. Perché Roma non è l’antico, antichissimo centro della trascorsa storia universale, è, come vediamo e come sentiamo ogni giorno e ogni ora, se siamo attenti, l’odierno centro del mondo, avevo detto a Gambetti, non New York è l’odierno centro del mondo, non Parigi, non Londra, non Tokyo, non Pechino e non Mosca, come leggiamo e sentiamo dire dappertutto, no, è Roma, oggi è di nuovo Roma, non posso dimostrarlo, in ogni caso non al momento e in ogni caso non con le mie parole, ma lo sento. Lei non ci crederà, avevo detto a Gambetti, ma in piazza della Minerva sono diventato un uomo nuovo. Solo qui ho ritrovato la strada verso me stesso, dopo che per tanti anni mi ero perduto in ogni altro luogo possibile, avevo perduto me stesso e dunque tutto ciò che sono. E per tanti anni non avevo più creduto a una possibile salvezza, avevo visto sempre e soltanto la mia rovina, la mia stessa fine, come muoio, Gambetti, lentamente, in tutti questi lunghi anni ho visto soltanto, ovunque, che vado perduto e muoio e la mia fine non si può arrestare e tutto in me, in effetti, è diventato assolutamente irrilevante. A Parigi, a Lisbona non ho trovato ciò che ho cercato per così tanti anni, un nuovo punto d’appoggio, un nuovo inizio. A Roma sì. Eppure da Roma non mi aspettavo nulla, avevo sempre soltanto pensato, andrà bene per una settimana di svago, non di più. Al massimo per una distrazione di pochi mesi, per null’altro. Del resto era stata un’idea di mio zio Georg, se da Lisbona, che amo, alla fine sono poi andato a Roma, Lisbona, per magnifica che sia, aveva detto mio zio Georg, è pur sempre una città di provincia, Roma invece è una metropoli, una cosiddetta metropoli, aveva detto correggendosi, e io sono andato a Roma solo per strappare una dilazione al mio declino che incessantemente si compiva, quasi senza speranza di salvarmi. E allora era risultato evidente che la mia decisione di andare a Roma aveva portato il rinnovamento della mia esistenza, per così dire la svolta spirituale. D’improvviso ho respirato. Una città rumorosa, terribilmente rumorosa, maleodorante, avevo pensato dapprima, Gambetti, ma subito mi ero accorto che era quella giusta per me, la sola, la necessaria, la salvezza. A Roma ho ricominciato a prendere appunti, cosa che già da molti anni non mi era stata più possibile, e in generale a riflettere di nuovo su tutto, non solo sulla mia stessa fine. Su ogni cosa possibile, Gambetti. D’improvviso ho ripreso a interessarmi di ogni cosa possibile, addirittura della situazione politica, della quale non mi interessavo da anni. Di tutti i cosiddetti oggetti d’arte. Della gente, Gambetti, perché in verità per molti anni non mi sono neanche più interessato della gente, mi dava ormai solo fastidio, per molto tempo non aveva acceso in me il minimo interesse. Per la prima volta dopo tanti anni, a Roma ero entrato di nuovo in un teatro. All’opera, Gambetti, che per tanti anni ho evitato come la peste. E ho ricominciato a leggere, perché per tanti anni non avevo più letto nulla tranne i giornali, libri, Gambetti, libri veri, non solo i quotidiani, dei quali giorno dopo giorno mi ingozzavo a un solo e unico scopo, mi ingozzavo della loro insopportabile immondizia per non annoiarmi a morte, perché per anni, Gambetti, avevo detto, sono quasi morto di noia. Tutto doveva per forza annoiarmi, non avevo più trovato, e dunque avuto, alcuna possibilità di distrazione. Evitavo tutto e tutti, la gente, le cose, anzi alla fine anche l’aria aperta, il che ha avuto come conseguenza il mio decadimento fisico, mi sono effettivamente ammalato e ormai andavo soltanto in cerca di medici, ovunque mi trovassi, e di nessun altro, la mia unica compagnia era ormai soltanto il corpo medico, con cui conversavo soltanto di malattie e naturalmente di solito delle mie, indefinibili, incurabili, come dicevano tutti, mortali, e cosa c’è di più terribile del conversare con i medici, che di regola sono le persone meno interessanti della terra, perché sono quelle con meno interessi. I medici sono gli interlocutori più tristi che ci si possa immaginare e al contempo i più meschini, perché ti dicono di continuo che ormai ti resta poco da vivere e che razza di vita orrenda e miserabile poi, inutile e perversa, fissata solo su se stessa e sulle sue malattie, e che non vale affatto la pena di tirare in lungo. Mi sono ritirato nelle mie case di Parigi e Madrid e Lisbona e la mia sola strada era la strada dell’ufficio postale per controllare che i vaglia da Wolfsegg funzionassero. Era così deprimente che alla fine non facevo altro, ormai, se non andare avanti e indietro fra medici pericolosi e avidi e l’ufficio postale, a Lisbona e a Madrid, per qualche tempo anche a Napoli, avevo detto a Gambetti, che però mi è stata nociva, ha un clima che non sopporto ed è provincia remotissima. Deve perdonarmi, avevo detto a Gambetti, se Napoli è per me provincia remotissima, non posso definirla altrimenti, guardare il Vesuvio è per me una catastrofe, perché così tanti milioni, forse miliardi di persone l’hanno già fatto. In quegli ultimi anni prima di Roma mi ero concentrato ormai soltanto su me stesso e di conseguenza avevo trascurato me stesso nella maniera più grossolana e imperdonabile. Mi sono lasciato decadere soprattutto nello spirito, ma anche nel corpo. Sono diventato un uomo in tutto e per tutto decaduto. In tutto e per tutto ammalato, intollerante, insopportabilmente sospettoso come nessun altro, sono quasi soffocato nella continua osservazione di me stesso e nella contemplazione di me stesso. Avevo completamente dimenticato che oltre al mio mondo spaventoso ne esiste un altro che non è solo spaventoso. Avevo dimenticato soprattutto che esiste una vita dello spirito. Avevo dimenticato i miei filosofi, i miei poeti, tutti i miei creatori d’arte, Gambetti. In genere, posso dire, avevo dimenticato la mia testa, ero aggrappato al mio corpo ammalato e in quell’incessante aggrapparmi al mio corpo malato ero quasi andato in rovina. Finché non sono venuto a Roma. Finché il mio amico Zacchi non mi ha procurato la casa in piazza della Minerva, perché, come Lei sa, i primi tempi abitavo al Hassler, non al de la Ville come mio zio Georg, no, dovevo abitare al Hassler, ero diventato megalomane. Già nel primo istante guardai dal Hassler oltre piazza di Spagna lontano su Roma e inspirai a fondo ed ebbi la sensazione di essere in salvo. Di qui non me ne vado più, ho pensato in quel primo istante. Ero in piedi accanto alla finestra aperta e mi dissi, sono qui, qui resto, più nulla mi porta via di qui. E il mio conto è tornato, sono rimasto a Roma e non sono più andato via. Tutte le altre città le ho amate, è vero, ma nessuna ha avuto su di me un simile effetto elementare, esistenziale. In tutte quelle città ho abitato per qualche tempo o anche a lungo, ma in esse non mi sono mai sentito a casa. Tutte quelle città mi sono andate al cuore, è vero, come si dice sempre senza pensarci, ma nessuna è diventata per questo la mia città. Le amo tutte, Lisbona innanzitutto, Varsavia, Cracovia, Palma, persino Vienna e Parigi, anzi anche Londra e Palermo, ma in nessuna di quelle città oggi resisterei a lungo. Me le sono lasciate alle spalle, senza avere la sensazione di aver perduto qualcosa che appartenga a me, assolutamente a me. Talvolta mi è venuto il pensiero che anche a Lisbona potrei trascorrere tanti anni come a Roma, ma poi mi torna sempre in mente mio zio Georg con la sua giusta frase su quella città, la più magnifica di tutte, come credo. Lisbona è in effetti ancora più bella di Roma, ma è una città di provincia. A Lisbona ho trascorso l’epoca più bella della mia vita, ma non la migliore, come a Roma. C’è a Lisbona, come in nessun’altra città del mondo, ciò che io definisco natura architettonica. A Lisbona questo concetto è perfezione, Gambetti, peccato che Lei non abbia mai avuto occasione di vedere Lisbona. Sono stati i miei anni più belli, probabilmente anche i più felici. Ma la città ideale per la mia testa, che in definitiva ha sempre preteso per sé il mio più grande interesse, Lisbona in fondo e infine non lo è stata tuttavia, mentre Roma lo è sempre stata. Roma è la città per la testa, per la testa dell’antichità Roma è stata la città ideale, per la testa d’oggi è di nuovo la città ideale e, nella caotica situazione politica che oggi regna qui, a maggior ragione per la testa di oggi. Le altre città non lo sono, penso spesso quando penso alla città ideale per la testa, nemmeno New York lo è, Roma lo è, con molta decisione, con sicurezza. È esplosivo qui, mi sta bene, Gambetti. È esplosivo, Gambetti, mi piace. A quel punto pensai che avevo già allontanato di molto Gambetti dai suoi genitori, e mi chiesi quanto avanti io possa e debba spingermi a questo riguardo, ossia nell’allontanarlo sempre più dai suoi genitori e dal loro mondo, dunque dalle loro idee, ma al momento quel pensiero mi era parso assurdo, mi irritò scoprire in me quel pensiero, perché il mio rapporto con Gambetti è, per sua natura, tale da allontanarlo dai suoi genitori e dalle loro idee, dandogli per così dire lezioni di tedesco, mettendogli in mano il Siebenkäs e Il processo, fingo di insegnargli la letteratura tedesca, di rendergli familiare col tempo la letteratura tedesca, ma in realtà lo allontano in tutta consapevolezza dai suoi genitori e dalle loro idee, pensai, agisco come se avessi il diritto di allontanarlo dai suoi genitori e dalle loro idee, di staccarlo sempre più dal loro mondo, che in definitiva mi è contrapposto, dunque faccio ora con Gambetti ciò che tanto tempo addietro ho fatto con me stesso staccandomi da Wolfsegg, ora per Gambetti è bene ciò che è stato bene per me, rivesto il ruolo dello zio Georg, pensai, che mi ha scacciato da Wolfsegg con i suoi pensieri e le sue rivelazioni su Wolfsegg e sul suo significato, finché Wolfsegg non mi si è fatta semplicemente impossibile, io scaccio Gambetti dal mondo dei suoi genitori come mio zio ha scacciato me da Wolfsegg. Ma non mi sono adoperato consapevolmente, pensai, per allontanare Gambetti dal mondo dei suoi genitori, è venuto da sé, senza che da principio mi fosse chiaro, per così dire accanto al cosiddetto insegnamento che impartisco a Gambetti. Quando gli dico come si dovrebbe cambiare il mondo secondo le mie idee, distruggendolo dapprima con la massima radicalità, annientandolo quasi del tutto, per poi ricostruirlo nella maniera che a me sembra, in una parola, sopportabile, facendone un mondo completamente nuovo, sebbene io non sappia dire come questo debba avvenire, so soltanto che dapprima deve essere completamente annientato per essere poi ricostruito, perché senza il suo totale annientamento non può essere rinnovato, Gambetti è più attento, anzi affascinato, di quando gli metto in mano il Siebenkäs e lo prego di farmi poi, alla fine della lettura, domande riguardanti il Siebenkäs. La testa di Gambetti ha già preso molto dalla mia testa, pensai, presto nella testa di Gambetti ci saranno più cose provenienti dalla mia testa che non sue. I suoi genitori osservano con disagio questo processo, pensai. E non mi vedono così di buon occhio come Gambetti cerca di farmi credere, è vero che mi invitano a pranzo a casa loro, ma in fondo vorrebbero vedermi all’inferno, perché già da anni mi considerano il diseducatore del loro unico figlio, che intanto è diventato adulto e non gli dà più ascolto, sono spaventati per aver in definitiva generato un futuro filosofo e rivoluzionario, cosa che non era nei loro intenti, uno che cerca di annientarli anziché restar loro attaccato per tutta la vita, senza pensare a nulla. Di questo ora mi addossano la colpa, del fatto che forse non sono soltanto il sobillatore del loro figlio ovviamente amato, ma anche il suo annientatore, e che di conseguenza, si capisce, sono per giunta il loro stesso annientatore, che si sono presi in casa e per giunta pagano bene, perché le lezioni che dò a Gambetti non costano poco, il loro prezzo sopravanza ogni cifra normalmente richiesta, ma i Gambetti sono gente ricca, mi dico, e non occorre che mi faccia venire i rimorsi perché prendo tanti soldi da loro, che del resto non mi servono, perché io stesso ne ho anche troppi. Ma di questo i Gambetti intuiscono solo qualcosa, non ne sanno nulla di preciso. Gambetti peraltro conosce la mia situazione finanziaria, mi ha detto: se i miei genitori sapessero quanto Lei è ricco non Le pagherebbero nulla, non mi permetterebbero di prendere lezioni da Lei. Così invece credono che un generoso gesto da mecenati rivesta un certo ruolo in queste lezioni che in effetti risultano loro, ormai da tempo, inquietanti, in questo loro mecenatismo si rifugiano naturalmente per distogliersi dal pensiero che forse, pagandomi le Sue lezioni, non fanno un atto buono ma distruttivo. Ma Gambetti trova che vada benissimo che i suoi genitori, per così dire, buttino i soldi dalla finestra affinché io allontani Gambetti da loro e semini in lui idee che probabilmente un giorno si ritorceranno in maniera terribile contro di loro, contro tutto ciò che li riguarda. Un innocuo insegnante di tedesco venuto dall’Austria, tuttavia, non hanno mai potuto considerarmi, pensai, quel che sono e faccio è troppo palese, pensai. Dunque non mi muovo rimproveri di sorta per il mio compito, che è quello di cacciare in testa a Gambetti la letteratura tedesca, ma in più anche le mie idee sul cambiamento e dunque annientamento del mondo. Non mi sono certo insinuato, e nemmeno imposto, pensai, Gambetti è venuto da me su proposta di Zacchi, i genitori di Gambetti mi hanno espressamente chiesto di prendere il loro figlio a lezione, sono l’insegnante ideale, hanno detto. E anch’io sento di essere l’insegnante ideale di Gambetti. E Gambetti divide con me questa sensazione. Ciò che ormai i suoi genitori trovano inquietante in me, a lui pare necessario, ovvio, Gambetti ripete sempre che il mio insegnamento è coerente e che lui stesso in fondo considera la letteratura tedesca, che in definitiva ha scelto per caso, un semplice pretesto per tutto ciò che altrimenti gli insegno, espressione con cui non intende altro se non le mie idee, che nel frattempo ha fatto proprie. A poco a poco dobbiamo rifiutare tutto, ho detto a Gambetti al Pincio, essere a poco a poco contro tutto, per contribuire molto semplicemente all’annientamento generale a cui miriamo, disgregare il vecchio per poterlo alla fine interamente estinguere a beneficio del nuovo. Occorre rinunciare al vecchio, occorre annientarlo, per doloroso che sia quel processo, al fine di rendere possibile il nuovo, anche se non possiamo sapere cosa mai sia questo nuovo, ma che deve essere lo sappiamo, Gambetti, gli ho detto, indietro non si torna. Naturalmente, se pensiamo così, abbiamo tutto il vecchio contro, e dunque abbiamo tutto contro, Gambetti, gli ho detto. Ma questo non deve impedirci di distruggere la nostra idea di scambiare il vecchio con il nuovo che desideriamo. Rinunciare a tutto, ho detto a Gambetti, respingere tutto, in definitiva estinguere tutto, Gambetti. Guardando giù in piazza della Minerva, mi vidi al contempo, d’improvviso, raccontare a Gambetti quel sogno in cui col mio compagno di studi Eisenberg, con Maria e Zacchi ero in una vallata laterale della Val Gardena. Quel sogno, avevo detto a Gambetti, risale almeno a quattro o cinque anni fa. Ero ancora giovanissimo in quel sogno, ho detto a Gambetti, avevo forse vent’anni, Eisenberg altrettanto, e Maria era appena più vecchia. Avevamo preso alloggio in una piccola vecchia locanda che si chiamava All’Eremita, vedo ancor oggi l’insegna della locanda con la stessa chiarezza della prima volta, dissi a Gambetti. Di quel sogno mi sono ricordato molto spesso e ogni volta ho cercato di penetrarlo più a fondo, questa volta con forza di volontà ancora maggiore che in passato, perché, col telegramma in mano, volevo a tutti i costi distrarmi dal telegramma e così il sogno mi era parso il mezzo più adatto a distrarmi da quel telegramma senza dubbio tremendo, non so dire cosa mi abbia riportato alla mente il sogno, forse un’osservazione che Gambetti mi ha fatto solo due o tre ore prima che ricevessi il telegramma, una cosiddetta osservazione incidentale, nella quale però ricorreva la parola alta montagna; Gambetti mi ha detto che la prossima estate sarebbe andato in alta montagna con i suoi genitori e con me, come sottolineò con forza, era una cosa che amava straordinariamente e là, in una stretta vallata a lui conosciuta e familiare fin dall’infanzia, sarebbe stato utile a entrambi nella maniera più gradevole procedere nei nostri studi, perfettamente al riparo dai disturbi che altrimenti molestano sempre quei nostri studi, in maniera affatto incidentale Gambetti ha detto che sarebbe andato, sì, in alta montagna nell’Italia settentrionale con i suoi genitori, ma in fondo con me e che, se la cosa non mi avesse creato problemi, sarei stato suo ospite in quelle giornate di studio in alta montagna, come si espresse, avevamo appena parlato di Schopenhauer, del cane del filosofo, che questi poneva ancora più in alto della sua governante, per poter effettivamente pensare fino in fondo e scrivere fino in fondo il suo Mondo come volontà e rappresentazione, del fatto che il cane e la governante hanno guidato la penna di Schopenhauer, come Gambetti disse, quando Gambetti d’un tratto, in maniera almeno per me affatto sorprendente e incongrua, ha parlato della gita in alta montagna nella prossima estate, di un blocco per appunti a quadretti che intende portarsi lassù, senza dirmi cosa significhi quel blocco per appunti a quadretti, né io gli ho chiesto il significato di quel blocco per appunti a quadretti espressamente menzionato, ma sento ancora con chiarezza Gambetti che dice con i miei genitori in alta montagna, il che equivale a dire con Lei, così Gambetti al Pincio, il che, penso, ora mi fa tornare con la mente al sogno, che diverse volte l’anno, direi, mi perseguita, con tutte le sue stranezze, sono sicuro di aver sognato questo sogno per la prima volta quattro o cinque anni fa, a Neumarkt in Stiria, in una tetra cosiddetta stanza a due letti di un’antica villa padronale, nella quale certi miei parenti mi avevano segregato allora per due giorni, affinché guarissi, come si espressero, perché avevo degli stati febbrili e nessuno sapeva di che malattia si trattasse in effetti. Con le tende tirate stavo disteso in quella stanza a due letti dei miei parenti, che a Neumarkt hanno una grande impresa di carpenteria, e che sono imparentati con mia madre e dunque anche con me, non ricordo più per quale ragione allora fossi andato a trovarli, probabilmente, penso oggi, solo per prendermi un raffreddore a Neumarkt, uno dei luoghi più lugubri e umidi che io conosca. Due giorni e due notti con le tende tirate e senza toccare cibo, penso, a Neumarkt, che in effetti è un brutto posto, non vedo neanche più davanti a me uno dei volti dei parenti, neppure in maniera confusa, so solo che là ho fatto quel sogno. Eravamo arrivati con la pioggia in quella vallata dell’Italia settentrionale, Gambetti, gli ho detto, Eisenberg, il coetaneo, Zacchi, il filosofo della stessa età, e Maria, la poetessa che giudico somma, Maria, così io a Gambetti, la poetessa che già allora giudicavo la più grande; Maria ci aveva raggiunto da Parigi, non da Roma, dove allora abitava già, nella casa in cui è oggi, ma quella casa non aveva ancora l’aspetto che ha oggi, non c’erano ancora migliaia di libri nella sua casa, solo centinaia.
Non c’erano ancora tappeti nella sua casa, Gambetti, gli ho detto. Ma già allora Maria passava la maggior parte del tempo a letto e dal letto riceveva i suoi ospiti. Maria si è unita a noi arrivando da Parigi in uno stravagante tailleur-pantaloni, dissi a Gambetti. Sembrava che stesse andando all’opera o stesse giusto tornando dall’opera. Pantaloni di velluto nero, Gambetti, fermati sotto il ginocchio da grandi fiocchi di seta, e una giacca rosso cardinale con il colletto turchese. Com’è naturale, si è levato un grandissimo scalpore quando Maria è comparsa nella vallata d’alta montagna in quella tenuta da teatro dell’opera. Eisenberg le era andato incontro, io invece la osservavo arrivare già da lontano, mentre lei si dirigeva verso la locanda All’Eremita con movenze da teatro dell’opera, Gambetti, gli dissi, braccia e gambe e la testa in incessanti movenze da teatro dell’opera, a scatti, come se avanzasse verso la locanda a passo di danza, Gambetti, gli dissi. Dapprima, da lontano, la sua tenuta non si distingueva ancora con molta chiarezza, né io avevo pensato, naturalmente, questa è Maria, non mi sarebbe mai venuto in mente, che Maria davvero venisse fin là sì, ma che venisse in quella tenuta e da Parigi anziché da Roma, no davvero, Gambetti, gli ho detto. Eisenberg le è andato incontro, non Zacchi e non io, come se Eisenberg avesse saputo che sarebbe arrivata esattamente a quell’ora, Zacchi e io evidentemente non lo sapevamo, in piedi alla finestra della locanda supponevo che Zacchi fosse nella sua stanza, non ancora alzato ma ormai sveglio, perché lo conoscevo da sempre come uno che si alza tardi a differenza di me e di Eisenberg, che siamo sempre stati mattinieri, Eisenberg è sempre stato ancora più mattiniero di me, ho detto a Gambetti, così era naturale che Eisenberg andasse incontro a Maria e non Zacchi e non io, Maria si è unita a noi tanto presto, ho detto a Gambetti, non erano ancora le cinque di mattina. Avevo avuto, come sempre quando sono in alta montagna, una notte insonne, avevo passato più o meno tutta la notte in piedi alla finestra a guardar fuori, ora dopo ora, fino a svenire, ho detto a Gambetti, senza svenire veramente ed effettivamente, allora vidi Maria dirigersi verso la locanda nella quale mi ero sistemato la sera prima con Zacchi e Eisenberg al solo fine di parlare di Schopenhauer e delle poesie di Maria, in quel sogno ci concedevamo un simile soggiorno a quell’unico fine, dissi a Gambetti, e a quel fine avevamo scelto il clima che ci pareva ideale, quella stretta vallata d’alta montagna alla quale conduce solo un sentiero, non una strada, che dunque si può raggiungere solo a piedi. Maria avrebbe dovuto essere con noi nella vallata già la sera prima, mi vedo ancora intento a placare il padrone della locanda, a cercare senza sosta di convincerlo assicurandogli che la persona più importante, ossia la nostra amica Maria, sarebbe venuta in ogni caso, che si calmasse, il padrone dell’Eremita temeva che volessimo pagare solo per tre, dunque per Eisenberg, Zacchi e me, il cosiddetto prezzo a pensione, perché non avevamo preso per noi soltanto le stanze, bensì la pensione completa, per affrontare ed essere in grado di realizzare perfettamente indisturbati il nostro progetto, che consisteva nel confrontare Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer con le poesie di Maria, cosa che a Roma, da dove eravamo arrivati, Eisenberg, Zacchi e io, ci era sembrata un’impresa di fascino particolare, Eisenberg aveva avuto l’idea, Zacchi ne era rimasto entusiasta, io allora avevo prenotato le stanze all’Eremita e Maria si era detta d’accordo con il nostro progetto, se non è Heidegger, ha detto Maria, è Schopenhauer, era felice dell’impresa, ma quella notte doveva ancora andare a Parigi, lo scopo di quel viaggio a Parigi non ha voluto rivelarlo, per quanto io abbia insistito perché me lo dicesse, è inusuale andare da Roma a Parigi per una sola notte, avevo detto a Maria in quel sogno, deve avere come minimo una ragione esistenziale, così io a Maria, che però non mi ha dato ascolto, e si è messa invece il cappotto e ha lasciato Roma all’istante. Si sarebbe unita puntuale al nostro gruppo, ha detto ancora nell’uscire. E in effetti la vedevo ora, nella sua tenuta da teatro dell’opera, dirigersi al momento convenuto verso la locanda, nella quale noi eravamo già pronti per la nostra discussione. Tutta la sera precedente, pur restando tutto il tempo in piedi alla finestra, mi ero concentrato più o meno su Schopenhauer e sulle poesie di Maria, avevo messo in connessione le due cose, ossia i pensieri di Schopenhauer con quelli di Maria, avevo tentato di stabilire una connessione effettivamente filosofica fra le due disposizioni dello spirito, fra le opere poetiche di Maria e le fatiche filosofiche di Schopenhauer, di subordinare di continuo le une alle altre, di contrapporre queste alle altre, e avevo fatto il tentativo di isolare l’elemento filosofico nelle poesie di Maria, così come l’elemento letterario, ancor meglio, l’elemento poetico dall’opera di Schopenhauer. A quel fine la notte completamente insonne mi era stata favorevole, anzi ideale, ho detto a Gambetti, dobbiamo essere grati per ogni notte insonne della nostra vita, Gambetti, gli ho detto, perché in ogni caso ci fa progredire filosoficamente. Gambetti ascoltava attento, mentre, per nulla infastidito dai rumori del Pincio, proseguivo il racconto del mio sogno, persino il cinguettio degli uccelli, che mi è sempre parso il nemico dello spirito, non riusciva a ostacolare il resoconto del mio sogno. Per tutta la notte ero rimasto in piedi alla finestra della mia stanza nella locanda All’Eremita, Gambetti, e avevo riflettuto su Maria e Schopenhauer e già la sera mi ero prefisso di prolungare il più possibile quella riflessione, il che probabilmente è poi stato il motivo della mia notte insonne. Quando vidi dirigersi verso la locanda All’Eremita quella figura grottesca, Gambetti, che dapprima era solo di un nero profondo e non riconoscibile come Maria, e che si era avvicinata a meno di cinquanta o quaranta metri, emergendo dal nevischio, quando mi era stato chiaro che quel personaggio grottesco, con le sue movenze da marionetta, non poteva essere altri che Maria, ho anche capito subito qual era stata la ragione della sosta notturna di Maria a Parigi, era andata a Parigi solo per una serata all’opera, Gambetti, gli dissi, e naturalmente in quella tenuta, che io ben conoscevo da Roma, perché Maria ha acquistato quei pantaloni e quella giacca con me a Roma, eravamo andati insieme a fare acquisti un pomeriggio che, come Maria dice sempre, era una disperazione e con l’acquisto di quei pantaloni e di quella giacca abbiamo fatto di un pomeriggio disperato un pomeriggio felice, gli acquisti, dissi a Gambetti, in certi casi sono la migliore salvezza, se prendiamo il coraggio a due mani e non esitiamo neppure dinanzi al lusso più grande, vale a dire non esitiamo ad acquistare le cose più deliziose, al contempo le più costose, quanto c’è di più caro e sia pure grottesco come quella tenuta, ho detto a Gambetti; prima di disperarsi a morte è meglio scendere in strada ed entrare in un negozio di lusso e rivestirsi da capo a piedi nella maniera più grottesca, trasformarsi in una creatura viziata dal lusso, magari per un Don Giovanni da strapazzo, prima di cercare scampo nel nostro letto in una tripla dose di sonnifero, senza sapere se ci risveglieremo, quando invece è sempre valsa la pena di risvegliarsi, ho detto a Gambetti; nel momento in cui Maria si è diretta verso l’Eremita, in quel vestito grottesco, ho capito, è andata a Parigi a vedere la sua opera preferita, Pelléas et Mélisande di Debussy/Maeterlinck. Maria non esita a venire nella nostra vallata d’alta montagna direttamente dall’opera di Parigi per mantenere la sua promessa, pensai stando in piedi alla finestra e osservandola dirigersi verso l’Eremita, mentre Eisenberg le andava incontro, dissi a Gambetti. Eisenberg, ho pensato osservandolo, non ha dormito, come me, ed è naturalmente il primo a vedere Maria, dunque anche il primo ad andarle incontro. È caratteristico di Eisenberg, pensai stando in piedi alla finestra. Maria e Eisenberg si sono sempre intesi, non solo bene ma alla perfezione, ed erano di pari levatura spirituale. Eisenberg ama la stessa filosofia amata da Maria, hanno la stessa idea di poesia. Da entrambi ho imparato egualmente tanto, pensai. Maria non aveva nulla in mano, dissi a Gambetti, come in un elementare stato di felicità era emersa dal nevischio e si era diretta verso l’Eremita. Il padrone si calmerà! mi dissi vedendo ora Maria. Zacchi era stato il solo a dubitare dell’arrivo di Maria. Come fa ad andare a Parigi la sera, anziché direttamente con noi in alta montagna nell’Italia settentrionale, e la mattina presto essere comunque con noi nella locanda All’Eremita, dove abbiamo prenotato una stanza anche per lei, aveva detto Zacchi. Zacchi è sempre stato quello diffidente, dissi a Gambetti. Zacchi infatti è sempre stato definito da noi lo scettico. Maria si era fermata e Eisenberg le si avvicinò, dissi a Gambetti, pensai ora, in piedi alla finestra del mio studio, guardando giù in piazza della Minerva, allora sentii, dissi a Gambetti raccontandogli il mio sogno, un terribile scoppio, come un tuono, e tutta la terra tremò in quell’istante. La cosa strana era che nessuno tranne me ha sentito quello scoppio e nessuno si era accorto che la terra tremava, come ho constatato più tardi. Neanche Maria e Eisenberg si erano accorti di quello scoppio di tuono e di quel tremare. Quando Maria e Eisenberg presero a dirigersi verso la locanda, senza accorgersi di me che dalla mia finestra li osservavo entrambi intensamente, mi parve che Maria si dirigesse a piedi nudi verso l’Eremita, e in effetti poi ho visto che Eisenberg portava in mano le sue scarpe e che lei camminava a piedi nudi. Eisenberg era sempre stato il più cortese, ho detto a Gambetti, fra tutti noi colui che per così dire si è assicurato il possesso esclusivo della cortesia come di una seconda natura. Rimasi ancora qualche tempo alla finestra guardando giù, e cercai di ripercorrere con lo sguardo, il più indietro possibile, le orme che Eisenberg e Maria avevano lasciato lungo il cammino verso l’Eremita. Ho contato circa centoventi impronte, lo ricordo bene, Gambetti, gli dissi, come se quel sogno lo sognassi ora e non lo avessi sognato già quattro o cinque anni fa. L’immagine si interrompe bruscamente e d’improvviso vedo Maria giù nell’atrio dell’Eremita insieme ad Eisenberg, intenta a togliere le scarpe ad Eisenberg e poi Maria infila le sue scarpe ad Eisenberg, Eisenberg infila le sue scarpe a Maria. Entrambi ridono senza freno, ma smettono subito di ridere quando io compaio. Dopo una breve pausa entrambi tornano a scoppiare in una risata così forte da scuotere tutto l’Eremita. Maria allunga le gambe e le tiene sollevate in aria con le scarpe di Eisenberg, dunque con gli alti stivali neri di Eisenberg che lui porta sempre, quegli stivali incredibilmente morbidi e tuttavia alti e neri, Gambetti, dico. E Eisenberg saltella avanti e indietro nell’atrio dell’Eremita con le scarpe di Maria, leggere scarpe da ballerina che luccicano argentee; intanto gridano entrambi: ci siamo scambiati le scarpe! Ci siamo scambiati le scarpe! Ci siamo scambiati le scarpe!, finché entrambi non sono sfiniti e Maria mi si getta al collo e mi attira a sé sulla panca dell’atrio e mi bacia, Eisenberg intanto resta in piedi con la schiena rivolta al muro dell’atrio, osservandoci mentre ci sediamo sulla panca dell’atrio. Maria mi bacia finché io non balzo in piedi. Eisenberg vuole in quel momento che Maria si tolga le sue scarpe. Maria si toglie le scarpe di Eisenberg e gliele tira in testa, Eisenberg è indietreggiato evitando così che le scarpe tirate da Maria colpiscano effettivamente la testa di Eisenberg. Eisenberg si china per raccogliere le sue scarpe finite a terra, mentre Maria indica le sue scarpe da ballerina, che Eisenberg ha ancora ai piedi, Gambetti, gli dissi. Era una scena grottesca, Gambetti, Eisenberg col suo cappotto nero lungo fin quasi alle caviglie e ai piedi le scarpe da ballerina di Maria. Eisenberg dice che non si toglierà da solo le scarpe di Maria, noi dobbiamo togliergli le scarpe da ballerina di Maria. Al che Maria ha fatto marameo ad Eisenberg. Ma poi, quando vede che Eisenberg è infelice per il fatto di doversi togliere da solo le scarpe da ballerina di Maria, si china e gliele toglie. Lui rimane in piedi, scalzo, nell’atrio dell’Eremita, dissi a Gambetti, e si dirige verso Maria, che si è stretta a me. Davanti a Maria Eisenberg si inginocchia e le porge le scarpe. Sono le tue scarpe, me le sono tolte per te, dice Eisenberg, dà le scarpe a Maria e si rialza. Maria bacia Eisenberg, dissi a Gambetti, e con le scarpe da ballerina in mano corre fuori all’aperto. Eisenberg e io la seguiamo con lo sguardo. Speriamo che la nostra bambina non muoia, dice Eisenberg in quel momento, dissi a Gambetti. Aveva ripreso a nevicare. Poi mi vedo seduto con Eisenberg e Zacchi a un piccolo tavolo d’angolo nell’Eremita, dissi a Gambetti. Davanti a noi abbiamo le poesie di Maria, e Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Tutto aperto davanti a noi, dissi a Gambetti. Il padrone dell’Eremita entra e vuole servirci la colazione sul tavolo e dice che dobbiamo sgombrare il tavolo. Togliete quella roba dal tavolo, dice il padrone, e si accinge a sgombrare lui stesso il tavolo. Maria entra nell’istante in cui il padrone si appresta a sgombrare il tavolo con le sue mani, senza il nostro permesso. Ma non fa in tempo a strapparci dal tavolo Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, perché Eisenberg lo investe. Non si azzardi! grida Eisenberg in faccia al padrone, mentre Maria è ancora alle spalle del padrone. Non capisce cosa sia appena successo lì, dissi a Gambetti. Eisenberg è balzato in piedi e ha gridato in faccia al padrone, più volte, Non si azzardi! Il che non ha fatto che aumentare la collera del padrone nei nostri confronti. Fulmineo cerca di arrivare al libro aperto di Schopenhauer, per strapparlo via dal tavolo, ma Eisenberg è più veloce. Eisenberg afferra il libro di Schopenhauer e lo tiene contro il petto. Io avevo afferrato le poesie di Maria, Zacchi i nostri quaderni d’appunti che erano lì sul tavolo insieme al resto. Il padrone dell’Eremita era a tal punto fuori di sé che minacciava di ucciderci. In effetti il padrone era un uomo forte e tutti avevamo paura di lui. Maria mi si era seduta accanto e si era stretta a me, dissi a Gambetti. Non capiva cosa fosse accaduto. L’Eremita le era stato descritto a Roma come il luogo ideale per il nostro progetto, le era stato detto che apparteneva a un padrone gentile, anzi estremamente cortese, e che era un presupposto nel complesso favorevole al nostro progetto. E ora si trovava di fronte un uomo che si arrabbiava terribilmente, che minacciava di ucciderci, che, come tutti eravamo costretti a vedere, non arretrava davanti a nulla. L’Eremita l’avevamo scelto perché ci era parso che non vi fosse altro luogo possibile per il nostro progetto, ossia confrontare le poesie di Maria con il pensiero di Schopenhauer nel suo Mondo come volontà e rappresentazione. Mentre minacciava di ucciderci, il padrone dell’Eremita apparecchiava la tavola, perché era sua abitudine apparecchiare la tavola per colazione, a prescindere dalle circostanze, ho detto a Gambetti, doveva apparecchiarla perché gli era stato ordinato da sua moglie, dissi a Gambetti, così minacciava effettivamente di ucciderci e intanto apparecchiava la tavola. E non avete ancora pagato! esclamò il padrone dell’Eremita mentre noi, spaventati, continuavamo a stringere al petto i nostri libri e le carte, senza riuscire a pronunciare una parola. Dovete pagare subito! esclamò il padrone e lo esclamò diverse volte ancor prima che avesse finito di apparecchiare la tavola. Noi non eravamo stati capaci di dire neanche una parola, ma sapevamo che dietro la porta della cucina dell’Eremita stava all’erta la moglie del padrone. Io in ogni caso lo sapevo, credevo di sentir respirare la padrona dietro la porta della cucina. Alla vista dei nostri libri e delle nostre carte il padrone non era riuscito a calmarsi, e anche dopo aver apparecchiato la tavola non smise con le sue minacce. Gente simile bisognerebbe rinchiuderla, esclamò d’un tratto, bisognerebbe metterla dietro le sbarre, gente come voi, ci disse completamente senza fiato, voi che vi portate appresso questi libri e queste carte e che indossate questi abiti, e indicò prima la tenuta di Maria e poi il lungo cappotto nero di Eisenberg, e della barba di Eisenberg disse indignato che la gente che porta barbe come quella bisognerebbe impiccarla. Il padrone dell’Eremita si lasciò andare a una terribile scenata, dissi a Gambetti, gridando più volte che canaglie come voi (ossia come noi) bisognava sterminarle. Più volte ci gridò in faccia la parola sterminarle. Poi fu come se gli fosse venuto un attacco, perché si afferrò d’improvviso il petto e in effetti si sostenne al tavolo. Di quel mancamento del padrone dell’Eremita approfittammo per lasciare all’istante la sala da pranzo e per fuggire dall’Eremita. Corremmo fuori della vallata, dissi a Gambetti, il nostro Schopenhauer e le poesie di Maria stretti a noi, come se corressimo per salvarci la vita. Maria l’avevamo messa nel mezzo. C’era nella vallata un così fitto nevischio che non vedevamo più nulla, ma poiché era stretta, arrivammo alla fine. Come sempre, Gambetti aveva ascoltato con attenzione. Non fece una sola domanda sul mio sogno. Quel sogno l’ho raccontato naturalmente anche ad Eisenberg, Zacchi e Maria. Tutti avevano taciuto. Gambetti parla di Maria come di una persona nella quale Tutto è sempre presente, e della forza del suo spirito nel sopportare quel Tutto, in qualsiasi ambiente si trovi. Per questo, infatti, Maria è sempre subito il centro dell’attenzione, senza essere costretta a dire una parola. Spadolini lo è a modo suo, non importa in mezzo a quali persone. Immancabilmente e istantaneamente Maria è quella su cui, per forza di cose, tutto si concentra, lei lo sa, così come Spadolini sa sempre subito che deve essere lui il centro dell’attenzione in ogni ambiente. Se Maria e Spadolini si incontrano, distruggono immancabilmente ogni gruppo di persone, lo disgregano, ecco tutto. Ho sperimentato spesso, ho detto a Gambetti, che quando erano insieme in un gruppo, quel gruppo si è subito disgregato nelle sue componenti, come si usa dire, perché loro due l’hanno distrutto. O il centro è Spadolini o lo è Maria, ho detto a Gambetti, ma non possono esserlo entrambi. Spadolini fa almeno finta di non odiare Maria, ma Maria non nasconde mai il suo disprezzo per Spadolini, al contrario, lo ostenta non appena ne ha l’occasione, ho detto a Gambetti. Spadolini dice tutti i momenti che apprezza tanto le poesie di Maria, perché con questo vuole distogliere l’attenzione dal suo odio verso Maria, in quelle dichiarazioni di apprezzamento e stima rivolte alle sue poesie vede un mezzo per nascondere quell’odio verso Maria, ma naturalmente non gli riesce, Gambetti, gli ho detto. Vi è sempre un minimo di eccesso quando Spadolini elogia le poesie di Maria, che del resto non possono piacergli affatto, ho detto a Gambetti, perché sono dirette contro Spadolini in tutto e per tutto, su Spadolini hanno un effetto addirittura distruttivo, ho detto a Gambetti. Spadolini loda pubblicamente le traduzioni che Maria ha fatto delle poesie di Ungaretti, ed esagera a tal punto che tutto l’odio di Spadolini viene alla luce, ho detto a Gambetti, fa la corte a Maria sebbene lei non gli piaccia e trovi disgustoso tutto ciò che Maria dice. Maria invece rifiuta apertamente Spadolini e non capisce come mai io non abbia da tempo interrotto i contatti con Spadolini e non vi abbia rinunciato, Gambetti. Non riesce a capire che sono affezionato a Spadolini, che non voglio rinunciare a lui.
Il carattere di Spadolini lei lo definisce sempre abietto, mi spiega anche perché, Gambetti, e mi rinfaccia i miei incontri relativamente frequenti con Spadolini, con quell’uomo insulso che tutte le volte seduce tua madre, come dice lei. Ai suoi occhi Spadolini è la persona più ipocrita che lei conosca, Spadolini è il ciarlatano nato, l’opportunista nato, quando si tratta dei suoi fini, neanche di quelli ecclesiastici, di quelli bassissimi e personali, io sono uno senza carattere perché continuo a coltivare i rapporti con Spadolini, così Maria ancora ieri sera, di nuovo, così io a Gambetti al Pincio. Maria legge le sue poesie all’Istituto austriaco di cultura e Spadolini applaude entusiasta, perché se ne ripromette dei vantaggi, non perché le poesie gli siano piaciute, così Maria, dissi a Gambetti. All’ambasciatore peruviano Spadolini presenta Maria, alla lettera, come la più grande poetessa vivente, e non può assolutamente soffrirla, la odia e la invita a pranzo almeno una volta al mese in via Veneto, che Spadolini ama e che Maria odia, detesta, ho detto a Gambetti, anche se Maria ha sempre rifiutato quegli inviti, Spadolini continua a invitare Maria. Ho di nuovo invitato Maria, viene a dirmi, ma lei ha rifiutato, io continuerò a invitarla e lei continuerà a rifiutare, ho detto a Gambetti. A suo modo Spadolini è una cosiddetta grande personalità, che da Maria può solo essere rifiutata, lei non tollera accanto a sé grandi personalità, e altrettanto Spadolini in fondo, ma Spadolini è il diplomatico di mondo che conosce tutte le scaltrezze, Maria non le conosce e lo mostra apertamente, perché non sa fare altrimenti. Ciascuno di loro, Spadolini e Maria, ho detto a Gambetti, è il centro, non esistono due centri, Spadolini lo è per scaltrezza, Maria lo è per natura, ho detto a Gambetti. L’elemento austriaco è quanto Maria ha di naturale, l’elemento vaticano quanto Spadolini ha di artificiale, ho detto a Gambetti. Entrambi sono egualmente grandi ed egualmente si odiano, ho detto a Gambetti, e sono consapevoli della loro grandezza e del loro odio, ma Spadolini è il più forte, per questo non ha bisogno di ritrarsi sempre come Maria, la cui unica arma in fondo è sempre stata il ritrarsi. Spadolini entra veramente in scena quando la situazione si fa pericolosa, ho detto a Gambetti, Maria si ritrae. Entrambi hanno un’inclinazione non solo agli abiti stravaganti, ho detto a Gambetti, ma alla stravaganza in generale. In fondo vengono entrambi dalla provincia, Gambetti, sono riusciti ad affermarsi solo grazie alla loro stravaganza, tutto in Spadolini è stravaganza, tutto in Maria, sia pure la più scaltra nell’uno, la più naturale nell’altra, Gambetti. Se decidesse di scrivere un libro che abbia per contenuto la quintessenza del ciarlatano, così Maria una volta, così io a Gambetti, non esiterebbe un istante a descrivere Spadolini come personaggio principale di quel libro. Scrivere in prosa è sempre stato, del resto, il suo sogno, ma tutti i suoi tentativi in questo senso sono falliti, si è sempre arresa subito e, se no, ha sempre capito di non aver creato un’opera d’arte, bensì di aver realizzato uno stupefacente lavoro, così lei stessa, Gambetti. Spadolini è il grande fanatico, Maria la grande artista, ho detto a Gambetti. In fondo, gli ho detto, sono felice di avere come amici due persone simili e due personalità effettivamente grandi, poco importa come quelle amicizie vengano considerate dall’esterno, poco importa come Spadolini consideri Maria e viceversa, io voglio coltivarli e non perderli, mai, ho detto a Gambetti. Quando Spadolini mi parla del Perù, è esattamente come quando Maria mi legge le sue poesie, ha per me lo stesso valore, Gambetti. Se guardiamo solo alle persone di nobile carattere diventiamo in brevissimo tempo sterili e vuoti, ho detto a Gambetti, dobbiamo al contrario frequentare sempre i cosiddetti senza carattere, per poter resistere, perché il nostro spirito non vada in rovina. La gente con il cosiddetto buon carattere è quella che col tempo finisce solo per tediarci e ucciderci, dobbiamo soprattutto guardarci dalla loro compagnia, ho detto a Gambetti. Maria e Spadolini inoltre sono sempre stati per me dei grandi maestri, Gambetti. Senza che io glielo abbia mai detto. Maria l’ho conosciuta attraverso Zacchi, il mediatore di persone, l’eccentrico filosofeggiante, grande viaggiatore, uomo di mondo, che però già in precedenza conosceva Eisenberg, che a sua volta mi ha fatto conoscere Zacchi. Eisenberg ha vissuto a Roma per tre anni, prima del suo periodo viennese, è evaso dalla sua casa paterna in Svizzera per andare a Vienna, dove è diventato il mio più intimo amico. Il periodo viennese con Eisenberg, dopo la mia fuga da Wolfsegg, che a sua volta debbo a mio zio Georg, pensai ora, è stato decisivo per l’intera successiva evoluzione del mio spirito, ha avuto in tutto un orientamento eisenberghiano, studiare il mondo e, in quello studio, decifrarlo e risolverlo a poco a poco. Eisenberg, il coetaneo, è stato dopo lo zio Georg la testa decisiva per me, ha dato alle mie idee il giusto orientamento. Quando ero a Vienna con Maria, pensai stando in piedi alla finestra, osservando in piazza della Minerva le poche persone che ora passavano là sotto, quiete, senza che nulla le incalzasse, trascorrevamo le nostre giornate più o meno con e grazie ad Eisenberg, andavamo con lui sul Kahlenberg, sul Kobenzl, fuori città a Heiligenstadt. Lui ha mostrato a Maria le bellezze di Vienna, l’ha introdotta nella città che anche per la sua esistenza sarebbe stata decisiva. Con Eisenberg non ci annoiavamo mai ed eravamo sempre felici, mi dissi, fin dal principio Maria e Eisenberg avevano avuto un rapporto filosofico, dal quale emanava per me, che potevo osservarlo in tutta quiete, senza il minimo turbamento emotivo, un grande fascino, è su di loro che ho potuto studiare per la prima volta come persone di pensiero si comprendano in maniera ideale, e ho sempre pensato, è una cosa che raramente riesce ad altri. Maria, che veniva dalla piccola ridicola città di provincia dell’Austria meridionale dove è nato Musil, ma con cui Musil, tranne questa circostanza, non ha mai avuto nulla a che fare per tutta la vita, e che ciononostante ha sfruttato quella circostanza della nascita di Musil fino al limite estremo del cattivo gusto, dalla città fatalmente vicina al confine dove il nazionalismo e il nazionalsocialismo e l’ottusità provinciale da sempre sono sbocciati in oscene fioriture, da quella piccola città in cui, come mostra l’esperienza, è la piccola borghesia ammuffita a dare il tono, votata all’ottusità e alla megalomania fra le sue deprimenti file di case, costruite con goffaggine, fra colline senza interesse, e in un clima più stantio che rinfrancante, con tutte le ridicolaggini tipiche delle dimensioni intorno ai cinquantamila abitanti, i quali non hanno idea del mondo ma si sentono il centro del mondo, Maria, di sua volontà, in tutto paragonabile a quella che alla fine mi ha allontanato da Wolfsegg, ha lasciato la città della sua infanzia, che le è sempre stata altrettanto dannosa, ed è andata a Vienna, per sistemarsi là, come si usa dire, dove la cosa però è sempre stata difficilissima, già con tutte le future poesie in testa, come ora pensai di nuovo, la ragazza con una piccola borsa soltanto e tutte le illusioni della ribelle, della fuggitiva, di colei che non solo cerca una via d’uscita ma subito la imbocca, come me. A Vienna, città da cui, dopo la guerra, tutte le teste pensanti della provincia si erano aspettate più di quanto essa potesse poi mantenere, perché Vienna anche allora non ha mai mantenuto con nessuno ciò che gli aveva promesso, naturalmente neanche con Maria, e neanche con tutti gli altri. È vero che Vienna si dimostrava da principio un’ancora di salvezza, ma solo per poco tempo, poi anche allora, come oggi, prendeva a paralizzare coloro che in essa cercavano e cercano salvezza. Solo per brevissimo tempo Vienna è la salvezza per coloro che filosofeggiano, che si arrovellano, che trovano stimolo nella propria testa, come so e come intanto è stato confermato milioni di volte. Essere andati a Vienna significa essersi salvati per brevissimo tempo, non oltre, il che vuol dire che chi sia fuggito a Vienna deve andarsene da Vienna il più presto possibile, perché se non volta le spalle il più presto possibile a quella città spietata, completamente degradata, va in rovina, Maria l’ha compreso presto, anch’io, Eisenberg è il solo fra noi che ancor oggi sopporti Vienna, ma Eisenberg è un uomo più duro con una testa ancor più lucida di Maria e di me, pensai stando in piedi alla finestra. Un’anima come quella di Maria, queste le parole di Eisenberg, a Vienna viene presto schiacciata, pensai stando in piedi alla finestra e guardando giù in piazza della Minerva e poi, verso il Pantheon, alle finestre di Zacchi, che non è in casa, pensai. Maria è riuscita a evadere, prima la Germania, poi Parigi, poi Roma, in maniera rispondente alle sue opere poetiche, pensai. Ma ha continuato a far tentativi per stabilirsi a Vienna, si è messa a frequentare ogni sorta di persone, sollecitandole perché le rendessero possibile il ritorno a Vienna, ma ogni volta che effettivamente arrivava il momento di tornare a Vienna tutto andava in fumo, allora tutti i progetti relativi a Vienna si disintegravano, lei urtava le persone che per esempio le avevano procurato una casa, parecchie di quelle case destinate a durare una vita, come ogni volta diceva, le ha disdette ancor prima di mettervi piede. Si è lasciata attirare a Vienna da molta gente orrenda, soprattutto del ministero della Cultura, e da quella gente di immondi princìpi, devo dire, si è persino lasciata abbindolare, perché non aveva mai voluto credere che, come io le ho sempre detto, tutta quella gente che la attirava a Vienna ha princìpi immondi, nessun vero interesse per lei, soltanto per i propri scopi affatto meschini e bassi, che quella gente, cioè, ha soltanto usato Maria come pretesto per fare un favore a sé, per essere utile a se stessa servendosi del nome di Maria, divenuto nel frattempo famoso; conoscevo benissimo quella gente, pensai ora, ma lei, per un falso sentimentalismo nei confronti di Vienna, assolutamente fredda e, contro l’opinione comune, in effetti brutale e priva di sentimento, si faceva imbrogliare da tutta quella gente, peraltro solo fino al momento decisivo in cui disdiceva tutto, rispondeva picche da Roma, come si usa dire, dove alla fin fine, nella sua casa, si sentiva meglio che in ogni altro luogo. A volte mi diceva in fondo voglio tornare a Vienna, ma poi, spesso neanche due minuti più tardi, esattamente il contrario, con la medesima convinzione mi diceva in fondo non voglio tornare a Vienna, in fondo voglio restare a Roma e voglio persino morire a Roma. Maria diceva spesso di voler morire a Roma, pensai. Il suo intelletto la costringeva a stare a Roma, in verità ad amare Vienna ma a stare a Roma, pensai. Ma dopo che era passata qualche settimana, dopo che a Vienna aveva urtato, come si usa dire, tutti quelli che le avevano procurato delle case, che le avevano aperto in effetti tutte le cosiddette porte che contano a Vienna, cominciava di nuovo a parlare di un ritorno definitivo a Vienna, che è la sua patria, cosa che io liquidavo con una semplice risata, perché la parola patria, detta proprio da lei, non è mai stata meno grottesca che detta da me, solo che io non la pronuncio mai perché la trovo troppo repellente per essere usata, mentre Maria continuava a cercare rifugio in quella parola, e della parola patria diceva sempre che era la più seducente. Allora scriveva di nuovo a quella gente di Vienna nei più diversi ministeri, frequentava l’ambasciata austriaca o il cosiddetto Istituto austriaco di cultura in viale Bruno Buozzi, quel palazzo tronfio nei pressi della Flaminia, nel quale l’incultura austriaca, in tutte le sue sfumature, ha la sua dipendenza romana da quando quell’edificio esiste, va alle cosiddette letture poetiche di cosiddetti poeti austriaci e a tutte le possibili conferenze pseudoscientifiche che vengono tenute in viale Bruno Buozzi da tutti i possibili pseudoscienziati austriaci, persino a cosiddette serate liederistiche che là vengono regolarmente organizzate con cantanti austriaci un tempo famosi, che da anni non hanno più voce, ma emettono solo un senile gracchiare che sull’orecchio italiano può soltanto avere atroci, irreparabili effetti. Maria, che vuole essere romana, e austriaca al contempo, e da questo pericoloso stato dei sentimenti e dell’animo trae le sue grandi opere poetiche, pensai. Il sogno dell’Eremita, che a suo tempo l’ha molto impressionata, mi ha fatto venire in mente Maria e, stando in piedi alla finestra, guardando giù in piazza della Minerva, assaporai il pensiero di lei. Cosa sarebbe veramente Roma per me, senza di lei, pensai. Una fortuna, che io debba fare solo due passi per rinfrancarmi alla sua presenza, una fortuna che lei esista. Le conversazioni con lei sono sempre quelle con il massimo effetto, e insieme le più gradevoli in assoluto. Con Maria è sempre stimolante, anzi sempre eccitante, quasi sempre una felicità, pensai. Ha sempre le idee migliori e in effetti anche per Gambetti Maria è sempre, come dice lui, un evento. Nei suoi pensieri, lei non arretra davanti a nulla, pensai. È nelle sue poesie al cento per cento, pensai, come mai accade nelle creazioni delle sue colleghe, siano pure famose quanto vogliono, le rivali che, come so, intrigano senza sosta contro di lei. In ogni verso che scrive, lei c’è per intero, tutto è suo. Da Spadolini ho imparato sul serio a vedere e a osservare, ho detto a Gambetti, da Maria ad ascoltare. Entrambi mi hanno insegnato a essere quello che ora sono. Poi parlai con Gambetti del fatto che Spadolini non ha mai esitato ad accettare denaro da mia madre, anche per i suoi personalissimi fini, con quel denaro ha potuto soddisfare la sua vanità, dissi a Gambetti, più volte all’anno mia madre gli versava forti somme di denaro, che senza dubbio provenivano dal capitale di Wolfsegg. Forse, dissi a Gambetti, la cosa era addirittura nota a mio padre, che faceva di tutto pur di tener buona mia madre e che, a sua volta, non esitava ad andare anche lui in Italia, per così dire in tre e dunque insieme a mia madre e a Spadolini, per così dire come testimone principale di quell’insolita relazione, dove non Spadolini, cosa che sarebbe stata più semplice da capire, bensì mio padre aveva la funzione dello spettatore. Ma mio padre è sempre stato affascinato quanto me da Spadolini, mai aveva voluto rinunciare a lui, per nessuna ragione, ho detto a Gambetti. Spadolini non è una persona cui si possa rinunciare, quale che sia la nostra opinione di una persona simile noi non vogliamo farne a meno, poco importano i danni che quella persona provoca, così io a Gambetti. Poi d’un tratto pensai che è cosa ben singolare che io debba far conoscere a Gambetti proprio la letteratura tedesca, proprio la tedesca e l’austriaca e la svizzera, la cosiddetta letteratura di lingua tedesca, come tutti sempre dicono con formula spaventosamente infelice, io in fondo non posso affatto amarla, l’ho sempre tenuta in minor considerazione della russa, della francese, anche dell’italiana, e forse è un errore da parte mia insegnare proprio quella non amata, solo perché, rispetto a un’altra, credo di poterne parlare con maggior competenza. La letteratura tedesca, ho detto a Gambetti, anche ai suoi vertici assoluti, non va mai messa alla pari con le letterature da me amate, come la russa o la francese e la spagnola, nemmeno con l’italiana. Già la lingua tedesca, a guardar bene, è brutta, e non solo, come si è detto, schiaccia a terra ogni cosa pensata, ma falsifica tutto con la sua pesantezza, in maniera effettivamente meschina, non è per nulla in grado di restituire effettivamente una verità come quella effettiva verità, falsifica tutto per sua natura, è una lingua cruda, senza alcuna musicalità, e se non fosse la mia lingua madre non la parlerei, ho detto a Gambetti, con quanta precisione il francese coglie ogni cosa, persino il russo, anzi persino l’inglese, dissi, per non parlare dell’italiano e dello spagnolo, così graditi al nostro orecchio, mentre il tedesco, sebbene sia la nostra lingua madre, ci risuona negli orecchi sempre estraneo e devastante. Per una persona dall’indole musicale e matematica come la mia e come la Sua, Gambetti, gli ho detto, la lingua tedesca è un supplizio. Quando la sentiamo, è fastidiosa, mai bella, goffa, rozza anche quando crediamo di averla accolta in noi come grande arte. La lingua tedesca è completamente antimusicale, ho detto a Gambetti, in tutto e per tutto meschina e ordinaria e per questa ragione avvertiamo come tali anche le nostre opere poetiche. Gli scrittori tedeschi non hanno mai avuto altro a disposizione se non uno strumentario affatto primitivo, dissi a Gambetti, per questo incontrano difficoltà cento volte maggiori di tutti gli altri. Noi facciamo un calcolo e quello non torna, mi dissi ora osservando le fotografie di famiglia, un incidente lo manda all’aria. Le facce beffarde delle mie sorelle nella foto che le mostra a Cannes sono le mie sorelle, le vedo sempre e soltanto come le facce beffarde che hanno, non importa quando e dove e in quale rapporto con loro io le veda, vedo sempre e soltanto le loro facce beffarde, quelle ho in testa in qualsiasi momento mi capiti di pensare alle mie sorelle, quelle facce beffarde ho conservato nel cassetto della mia scrivania romana, non le altre, che esse hanno sempre avuto inoltre, le tristi, le orgogliose, le superbe, le arroganti in tutto e per tutto, no, quelle beffarde, e non parlo, quando parlo delle mie sorelle, delle mie effettive sorelle in realtà, avevo detto una volta a Gambetti, bensì delle facce beffarde delle mie sorelle, così come il caso le ha fissate, come si usa dire, in quelle fotografie. Se fossero morte, mi dissi, di loro non mi resterebbe altro che le loro facce beffarde. Le sento ridere in sogno, ma qualche volta poi, quando cammino per Roma, in maniera del tutto repentina sento la loro risata singolare, che conta di vivere una lunga vita, e istantaneamente vedo solo le loro facce beffarde, null’altro di loro. Dicono qualcosa e io rifletto su quello che hanno detto, e vedo le loro facce beffarde e mi dico che quelle facce beffarde le hanno prese da nostra madre, che ha, pure lei, una faccia beffarda così: ma raddoppiata nelle mie sorelle, mi dissi, ha un effetto talmente grottesco, anzi spaventoso. Ho fatto spesso il tentativo di separarmi dalle facce beffarde delle mie sorelle, di dissolverle in altre facce, non beffarde, ma non ci sono mai riuscito. Non ho sorelle, mi dissi, ho soltanto le loro facce beffarde, non ho né Caecilia né Amalia, ho soltanto due facce beffarde nel loro spaventoso irrigidimento fotografico. Volevano essere belle, giovani, dare un’impressione di felicità, mi dissi osservando la foto, e lì sono solo brutte e in effetti non più giovani, sebbene ancora molto giovani, già davvero vecchie e in fin dei conti profondamente infelici agli occhi dei cosiddetti posteri di quella foto. Se avessero saputo che sarebbero rimaste soltanto le loro facce beffarde e l’impressione di effettiva infelicità che nella foto senza dubbio producono su chi le osservi, non si sarebbero fatte fotografare, ma in quella fotografia si erano addirittura infilate a forza, mi dissi, mi ricordo bene, l’avevano voluta, si erano messe in posa così, strette l’una all’altra, fingendo felicità e spontaneità, una naturalezza che, nel momento in cui la foto è stata fatta, avevano ritenuto fosse loro connaturata, mentre a deformarle con tanta crudeltà era uno spaventoso artificio privo di qualsiasi naturalezza. Avevo fatto controvoglia, mi ricordo, quella fotografia. Ma non è mia la colpa di quella foto impietosa, mi dissi, è loro, delle mie sorelle, perché mi avevano costretto a fare quella foto e con ciò, cosa che né io né loro potevamo sapere, mi avevano per così dire imposto per tutta la vita le loro facce beffarde. Non mi sono più liberato delle loro facce beffarde, ogni tentativo del genere è sempre fallito, una volta mi venne l’idea di distruggere la foto, di strapparla, di bruciarla, ma poi continuai a non farlo, perché mi pareva ridicolo ricorrere alla distruzione in un caso come quello, che costituisce addirittura l’esempio tipico del ridicolo irrilevante, mi dissi, rimettendo la foto insieme alle altre nel cassetto della scrivania.
Non sono le mie sorelle a perseguitarmi giorno e notte, mi dissi, sono le loro facce beffarde a non darmi pace giorno e notte, a tormentarmi spesso per giorni, anzi per settimane. Fra i milioni e miliardi di momenti di due persone ne abbiamo trattenuto uno solo, con il mezzo diabolico della fotografia, mi dissi, e per tutta la vita accusiamo quelle due persone sulla fotografia a causa di quell’unico momento che mostra le loro facce beffarde. Ma io ho delle sorelle, non soltanto le loro facce beffarde, mi dissi, e a quel pensiero assurdo mi misi le mani nei capelli. Ho delle sorelle a Wolfsegg, non solo due facce beffarde, e loro, come continuo a credere, sono in tutto e per tutto contro di me. Adesso una delle due facce beffarde si è sposata, dovetti dirmi a rigor di logica, con quel fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo in Brisgovia, quel tipo strano che a mio avviso ha sulle spalle una testa troppo piccola per un corpo dall’imponente sviluppo in larghezza, quel corpo goffo e pesante. Una faccia beffarda ha un marito, un consorte, l’altra faccia beffarda non ce l’ha e si è ritirata nella casa dei giardinieri perché quell’altra ce l’ha, per questa ragione, odiando per così dire la sua controfaccia beffarda che si è sposata d’un tratto, dall’oggi al domani. Ma non mi è mai riuscito di vedere separate le due facce beffarde delle mie sorelle, non mi riusciva neppure quando con tutte le mie forze mi impegnavo in un tentativo del genere, subito tornavo sempre a vedere soltanto le due facce beffarde delle mie sorelle insieme. La foto mostra due facce beffarde, mi dissi, ma le mie sorelle hanno effettivamente quelle facce beffarde? mi chiesi. Hanno quelle facce beffarde in realtà? Non le hanno avute soltanto, quelle facce beffarde, nell’unico momento in cui è stata fatta loro la cosiddetta foto di Cannes? Forse quelle facce beffarde le hanno effettivamente avute soltanto nell’unico momento di Cannes, mi dissi, mai altrimenti, mentre ora io credo che abbiano avuto sempre e sempre soltanto quelle facce beffarde come nella foto di Cannes. La fotografia è in effetti l’arte diabolica del nostro tempo, mi dissi, per anni e per decenni e per tutta la vita ci fa vedere facce beffarde, quando invece quelle facce beffarde sono esistite una volta sola, un istante solo in una foto che abbiamo fatto del tutto senza pensarci, cedendo a un improvviso capriccio. E quell’improvviso capriccio ha poi effetti che durano tutta la vita, devastanti, anzi terribili. Effetti non più eliminabili, che talvolta ci spingono fino all’orlo della disperazione. Non posso più eliminare le facce beffarde delle mie sorelle, avevo detto una volta a Gambetti, con il quale ho parlato molto spesso, in maniera repellente, credo, delle facce beffarde delle mie sorelle, che in effetti hanno sempre rivestito un ruolo importante nella mia vita, da quando ho fatto la foto. Quella foto devastante, avevo detto spesso a Gambetti. Qui si tratta delle facce beffarde delle mie sorelle, che non riesco più a eliminare, a togliermi dalla testa, avevo detto a Gambetti, ma lo stesso ci accade anche con altre foto, seppure con reazioni meno viscerali, per esempio con le foto di conoscenze e celebrità che abbiamo classificato come importanti, pensi soltanto alla foto che mostra Einstein mentre tira fuori la lingua. Non posso più vedere Einstein senza che tiri fuori la lingua, Gambetti, gli avevo detto. Non posso pensare a Einstein senza vederne la lingua, quella lingua cattiva, astuta, Gambetti, che lui mostra al mondo intero, anzi all’intero universo. E non posso vedere Churchill senza il suo labbro inferiore sporto in avanti con diffidenza. Eppure sono altissime le probabilità che Einstein abbia tirato fuori la lingua un’unica volta, almeno in quella maniera cattiva e astuta, e che soltanto nell’unico istante in cui gli è stata fatta quella foto Churchill abbia sporto in avanti il labbro inferiore in quella maniera diffidente. Leggo gli scritti di Churchill, avevo detto a Gambetti, e non vedo altro, di continuo, che il labbro inferiore di Churchill sporto in avanti con diffidenza, leggo qualcosa di Einstein e sono completamente ossessionato da quella lingua tirata fuori, che lui mostra al mondo intero e, come si è detto, all’intero universo. E arrivo a credere che non sia stato Churchill a scrivere quelle memorie, bensì il suo labbro inferiore sporto in avanti con diffidenza, che non sia stato Einstein a dire quelle frasi sensazionali, bensì la sua lingua tirata fuori. Già una volta ho pensato, avevo detto a Gambetti, che forse mi sarebbe possibile, con la stesura di uno scritto sulle facce beffarde delle mie sorelle Amalia e Caecilia, liberarmi delle loro facce beffarde, ma quel pensiero, com’è naturale, era stato da me subito abbandonato, perché presto si era rivelato uno dei più assurdi in assoluto. Non riuscirò mai a liberarmi delle facce beffarde delle mie sorelle, avevo detto allora a Gambetti, con quelle facce dovrò vivere, dovrò condurre la mia esistenza per tutto il tempo che durerà. E invece potrebbe essere incredibilmente utile redigere uno scritto dal titolo: Le facce beffarde delle mie sorelle. Ma a che scopo? avevo detto allora a Gambetti. Dovrei effettivamente soffrire della noia più estrema, per stendere un tale scritto, Gambetti. A impedirlo ci han sempre pensato le facce beffarde delle mie sorelle, gli avevo detto, che non mi hanno dato pace da che ho memoria. È naturalmente insensato credere che, se strappo la fotografia con le facce beffarde delle mie sorelle, mi sarò liberato delle loro facce beffarde. Se distruggo la fotografia, dandole semplicemente fuoco. La tagliuzzo con le forbici in migliaia di minuscoli ritagli. Quelle non farebbero allora che tormentarmi con intensità tanto maggiore, Gambetti. E i miei genitori nella seconda foto, mi dissi, fanno soltanto un’impressione miserevole, tutt’altro che buona, un’impressione ridicola, comica, mentre alla stazione Victoria di Londra salgono sul treno per Dover. Senza bagaglio, soltanto con i loro ombrelli Burberry al braccio, mio padre nei suoi calzoni alla zuava vecchi di trent’anni, che si è comprato a Vienna prima della guerra nell’elegante negozio del signor Habig sulla Kärntnerstraße e con i quali è andato in giro per tutti gli anni del nazismo. Lo vedo sempre in quei calzoni alla zuava, mi dissi, da che ho memoria. Anche quando ne porta di diversi, per me ha indosso i calzoni alla zuava del signor Habig. Dice di continuo Heil Hitler in quei calzoni alla zuava di Habig, che probabilmente sono costati molto, perché sono indistruttibili. In effetti sono eleganti, mi dissi, ma non indosso a mio padre, indosso a lui sono ridicoli. In quei calzoni alla zuava di Habig ricevette all’ingresso del cortile il Gauleiter di Salisburgo e lo portò subito nelle scuderie, perché pensava che ciò avrebbe prodotto sul Gauleiter la miglior impressione, avrebbe dimostrato subito, come null’altro, la signorilità di Wolfsegg e la sua personale signorilità. E riceveva gli arcivescovi in quei calzoni alla zuava, cosa priva di gusto ma perfettamente consona all’epoca nazista. Lì salivano sul treno a Londra e mia madre allunga il collo e così il cappello, in maniera grottesca, le rimane ormai appena appena fissato alla testa, mi dissi ora, probabilmente solo da uno spillone. Perché mai ho nella scrivania proprio questa foto dei miei genitori, non un’altra, questa foto ridicola, comica, che mostra i miei genitori in una luce ridicola e comica, e non un’altra, mentre loro invece non erano sempre e soltanto comici e ridicoli, mi dissi, la maggior parte del tempo erano del tutto diversi, per nulla ridicoli e comici, anzi severi e scostanti e freddamente calcolatori. Mentre i loro ombrelli Burberry appesi al braccio pendevano verticali verso terra, i loro corpi avevano la positura obliqua di chi sta salendo sul treno. Nella foto sono così comici e ridicoli anche perché, soprattutto, hanno quella positura obliqua e insieme gli ombrelli Burberry che pendono verticali verso terra, è la legge di gravità che in quell’istante li rende comici e ridicoli, loro naturalmente non lo sanno nell’istante in cui vengono fotografati. Non volevano essere fotografati, allora, e furono fotografati da me. Ci son state centinaia di foto dei miei genitori che mi sono appartenute, che però ho distrutto, gettato via tutte, solo quest’unica ho conservato e messo nella mia scrivania, questa, in cui loro sono ridicoli e comici, perché? mi chiesi. Probabilmente volevo avere genitori ridicoli e comici nella foto che serbo, mi dissi. Anche di mio fratello volevo avere una foto nella quale non è ritratto così com’è in effetti, ma una foto che lo mostra sotto un aspetto ridicolo, come io lo voglio vedere, in una posa ridicola sulla sua barca a vela sul Wolfgangsee, quell’uomo indubbiamente bello d’un tratto ridicolo, insignificante, perverso, anzi stupido, sprovveduto, da non prendere sul serio. Avevo sempre voluto avere soltanto quell’unica foto di mio fratello, che lo raffigura in maniera ridicola, avevo detto una volta a Gambetti, avevo voluto avere un fratello ridicolo, comico, così come volevo avere dei genitori ridicoli, comici, non delle sorelle, soltanto le loro facce beffarde, Gambetti, questa è la verità. Abbiamo tutti una natura diabolica, che si manifesta anche in simili piccolezze, come usiamo dire, in particolari secondari come le fotografie che raccogliamo. La nostra bassezza viene così dimostrata, la nostra meschinità, la nostra sfrontatezza. E questo per nessun’altra ragione che non sia la nostra debolezza, perché, se siamo onesti, dobbiamo ammettere che noi stessi siamo molto più deboli di coloro che vogliamo vedere deboli, molto più ridicoli di coloro che vogliamo vedere ridicoli, comici, senza carattere. Noi siamo quelli senza carattere, i ridicoli, i comici, i perversi, Gambetti, innanzitutto, non l’inverso. Conservando queste foto dei miei, e non altre, per giunta nella mia scrivania, affinché mi sia possibile osservarle in qualsiasi momento, dimostro apertamente la mia meschinità, la mia sfrontatezza e mancanza di carattere. Non ho mai dovuto far altro che aprire il cassetto della scrivania, per deliziarmi alla vista delle mie impossibili sorelle con le loro facce beffarde, avevo detto una volta a Gambetti, per deliziarmi alla vista della ridicolaggine dei miei genitori, dell’atteggiamento infelice di mio fratello, per trarne vigore in un attacco di debolezza, tirando fuori le foto dal cassetto della scrivania e osservandole e, debbo dire, placandomi grazie a quella meschinità. Quanto sia basso l’uomo, lo vediamo da questo esempio. Descriviamo gli altri come meschini e bassi e cerchiamo tutti i possibili argomenti per sostenerlo, e noi stessi lo siamo in misura ben più grave. Mentre nel cassetto della scrivania dovremmo nascondere noi stessi in forma di foto ridicola e comica, vi nascondiamo i nostri familiari, per servirci di loro, in caso di bisogno, per i nostri scopi quanto mai meschini, avevo detto a Gambetti. Naturalmente, gli avevo detto, c’è gente che dei propri familiari conserva quelle foto che mettono in buona luce coloro che vi sono ritratti, ma io non sono di questi, io conservo quelle comiche, quelle ridicole, perché in fondo sono un uomo in tutto e per tutto debole e dunque sono anche un carattere in tutto e per tutto debole. Senza tener conto del fatto che ogni foto è una meschina falsificazione, ce ne sono di quelle che conserviamo per così dire in onore e per amore di chi vi è ritratto, e di quelle che mettiamo nella scrivania o appendiamo al muro per meschinità e per odio contro chi vi è ritratto. Debbo dire purtroppo che io appartengo assolutamente a quest’ultima abietta categoria. A una certa età, avevo detto a Gambetti, verso i quaranta, riusciamo spesso a presentarci come realmente siamo, con tutte le nostre bassezze, cosa che prima di quell’età non ci sarebbe mai neppure venuta in mente. A partire da quell’età lasciamo che si guardi dentro di noi, in maniera che talvolta atterrisce. Alla mia età, Gambetti, abbiamo già scostato ben bene le cortine rimaste per decenni così ermeticamente chiuse che abbiamo rischiato di soffocare, là dietro. Un giorno saranno aperte del tutto, avevo detto a Gambetti. Come reagiranno le mie sorelle, avevo pensato, ora che mi presenterò loro, per così dire, come amministratore dell’eredità e come erede? Mi accoglieranno anche ora in quella maniera che mi è sempre parsa sfrontata? Non osai seguitare quel pensiero, me ne guardai bene. I sopravvissuti, le mie sorelle e io, mi dissi. Sono sopravvissuti proprio coloro che mai si è pensato potessero sopravvivere. Perché di me avevano sempre pensato che per il mio modo di vivere senza respiro sarei rapidamente andato in rovina, da qualche parte, certo non a Wolfsegg, è possibile e probabile, pensai ora, che fossero loro ad aspettarsi sempre un telegramma con la comunicazione della mia morte. E sono sopravvissute le mie sorelle, coloro che per l’assoluta irrilevanza, così sempre mia madre, non figuravano in alcun pensiero realmente fondamentale ed esistenziale. Ma io non mi ero mai aspettato un telegramma con la notizia che i miei genitori erano morti. Molti temono sempre un telegramma del genere, io non ho mai temuto un telegramma del genere. Milioni vivono di continuo, giorno dopo giorno, nella paura di un telegramma del genere, avevo detto spesso a Gambetti, che comunichi loro la morte di quelli che amano o stimano. Io non avevo mai temuto un telegramma del genere. Quando vediamo fotografie come quelle che io avevo ora sulla scrivania, pensiamo che coloro che sono ritratti in quelle fotografie non siano, almeno in quelle fotografie, pericolosi per noi, mentre in realtà, forse, sono pericolosi per noi. Letali. Coloro che sono ritratti nelle fotografie sono alti al massimo dieci centimetri e non ci contraddicono neppure. Gli diciamo in faccia le più grandi mostruosità e loro non ci contraddicono neppure, ci scagliamo contro di loro e loro non si difendono, possiamo dirgli in faccia quel che vogliamo, loro non si muovono. Ma proprio per questo montiamo in una collera irrefrenabile, e siamo ancora più furiosi. Malediciamo quelli delle fotografie perché non ci rispondono, perché non replicano alcunché, mentre noi nulla aspettiamo tanto e da nulla tanto dipendiamo quanto dalla loro replica. Ci battiamo per così dire con nani ridotti a dimensioni microscopiche e diventiamo folli, avevo detto una volta a Gambetti. Schiaffeggiamo nani ridotti a dimensioni microscopiche e così facciamo impazzire ogni cosa in noi. Ci lasciamo persino trascinare, avevo detto a Gambetti, a insultare teste che hanno un unico centimetro di diametro, Gambetti, e così ci esponiamo completamente al ridicolo. Osservo i miei genitori nella foto, mentre, alti meno di dieci centimetri, salgono sul treno per Dover alla stazione Victoria e li insulto, dico che individui ridicoli siete sempre stati, e al momento non mi accorgo neppure di quanto, così facendo, mi sia reso ridicolo io stesso, molto, molto più ridicolo di quel che i miei genitori abbiano mai potuto essere, come non sono mai stati, Gambetti. Imbecille, dico a mio fratello alto meno di dieci centimetri, sorelle perverse, a loro che non sono alte neppure otto centimetri sulla terrazza di Cannes. Fare una fotografia significa schernire un essere umano, Gambetti, avevo detto, in questo senso tutti coloro che fotografano, anche se in questo campo sono riusciti a raggiungere le vette di una professione e forse persino di una grande arte, non sono altro che schernitori dell’uomo. La fotografia in sé è il più grande scherno che esista, per così dire il massimo scherno rivolto al mondo. Ma oggi, avevo detto a Gambetti, ci sono già cento volte più persone fotografate che reali, vale a dire naturali, cosa che dovrebbe far riflettere. Come sono felice, avevo detto a Gambetti appena due giorni prima, dopo il mio ritorno da Wolfsegg, di essere di nuovo qui, sfuggito per qualche tempo al Nord e alle sue ottusità. Agli artigli della mia famiglia, alle esaltazioni di mia madre soprattutto, al perpetuo brontolio di mio padre, al cattivo tempo di quel paese. Per tre quarti dell’anno abbiamo cattivo tempo, lassù, e quando crediamo che la primavera sia arrivata ci vogliono ancora mesi perché sia realtà e poi trapassa subito nell’estate, che è sempre più corta. E l’autunno, di per sé la più bella stagione lassù, tiene tutti in pensiero in quel paese dominato dal clima cattivo, che abbiano la gotta o i reumatismi, con le sue bufere frequenti e il suo freddo glaciale gli ricorda già in ottobre che la loro esistenza è continuamente minacciata. Per non parlare degli inverni lassù, che rendono tutto insopportabile, se si son passati i trent’anni. Ma la gente di qui non sa neppure in quale ineguagliabile regione climatica viva, tutti desiderano sempre soltanto il Nord freddo, gli abeti, i laghi fra i monti, l’alta montagna che vivifica. Vede, Gambetti, gli uni desiderano il Sud, gli altri il Nord, e così tutti sono sempre, in gran misura, almeno egualmente infelici. Ma al momento io assaporo quest’aria vivificante e tuttavia calda, questa gente rumorosa e tuttavia gradevole, la loro spensieratezza, avevo detto. A Wolfsegg indossavo il cappotto pesante, qui vado in giro con la camicia aperta e il pullover sulle spalle. Questa è la differenza. La gente di qui non è carica di abiti che pesano chili, di scarpe pesanti, di giacche pesanti, di spessi cappelli di feltro, cammina per le strade in vestiti leggerissimi e quasi tutto l’anno siede fuori a mangiare all’aperto. Mi sento ancora esclamare il mio Per un pezzo!, pensai, col che avevo inteso per un pezzo non tornerò a Wolfsegg, mentre ora il telegramma mi costringe a tornare a Wolfsegg nel minor tempo possibile. Quella cosa ovvia, però, credevo ora di poterla rinviare con l’inazione assoluta, se, molto semplicemente, restavo seduto alla scrivania a osservare le fotografie, sottoponendole a un’osservazione più profonda anziché solo attenta, per tutto il tempo non ne avevo più distolto lo sguardo, il telegramma l’avevo messo a fianco e dispiegato, il breve testo con la notizia della morte dei miei continuamente dinanzi a me, tornando a compitarlo, così mi era parso, fino ai margini della pazzia. Al contrario di me, mio fratello era una persona quieta, a Wolfsegg io sono sempre stato lo spirito inquieto, lui il punto di quiete. Lui era sempre stato definito dai nostri genitori un cuor contento, io sempre un cuore scontento. Quando combinavamo qualcosa insieme, davano a me la colpa di tutto, come si usa dire, non a lui, a lui credevano quando si giustificava, a me no. Se ad esempio perdevo dei soldi che per qualche ragione avevo in consegna, non credevano che li avessi perduti, per quanto io protestassi, pensavano piuttosto che fingessi soltanto di aver perduto i soldi e mi arricchissi con quei soldi, mentre invece non esitavano a credere che mio fratello i soldi li avesse perduti. Che si era perso nel bosco, diceva lui ad esempio, e loro gli credevano all’istante, se io dicevo la stessa cosa non mi credevano, per nessuna ragione, io dovevo sempre giustificarmi a lungo e con fervore. Una volta mio fratello mi aveva buttato nello stagno dietro la villa dei bambini, più o meno involontariamente, mi aveva spinto dentro passandomi accanto, perché entrambi stavamo giocando sul muretto dello stagno, che non è largo e in due non si può passare sul muretto di quello stagno. Feci un’immensa fatica a tenermi a galla e a non andare a fondo, credetti effettivamente di annegare e intanto credevo anche che forse mio fratello non mi aveva buttato nello stagno per sbaglio e per goffaggine, bensì intenzionalmente, quel pensiero mi rose il cervello per tutto il tempo che nello stagno lottai per la mia vita. Mio fratello non era stato in grado di aiutarmi senza mettere se stesso in pericolo, effettivamente in pericolo di vita.
Aveva fatto, com’è naturale, molti tentativi per venirmi in aiuto, ma quei tentativi erano falliti. Lo stagno è profondo ed è inevitabile che un bambino vada giù e anneghi, se non sa tenersi a galla, avevo detto a Gambetti. Nell’istante in cui avevo avuto la certezza di annegare, ero riuscito invece ad aggrapparmi a un anello di ferro fissato al muretto, che serviva a legare le piccole barche che avevamo sullo stagno, e potei uscire. Quando, arrivato a casa, i miei genitori pretesero di sapere perché fossi bagnato da capo a piedi, e io non dissi loro la verità, ma effettivamente una menzogna, dicendo, poiché intendevo proteggere mio fratello, di essere caduto nello stagno per un caso sfortunato, loro dissero all’istante che ero saltato di proposito nello stagno, per mettere mio fratello in una situazione difficile. Quando dissi di no, che ero caduto dentro in maniera del tutto imprevista, mi insultarono, mi diedero del bugiardo, trassero a sé mio fratello come se volessero proteggerlo, e con i vestiti ancora bagnati mi cacciarono giù in cucina, a farmi mettere dei vestiti puliti e asciutti. Mio fratello aveva taciuto per tutto il tempo e non aveva detto una sola parola, non aveva detto la verità ma neppure, almeno, che ero caduto nello stagno senza alcuna colpa, rimase a osservare quella scena penosa e non accennò a voler chiarire alcunché o a mettermi in una luce migliore, al contrario, aveva premuto la testa contro la gonna di mia madre, come se cercasse protezione, con il solo effetto di peggiorare ulteriormente, per me, tutta la faccenda. Quando cadevo e mi strappavo le calze, mi insultavano subito per le calze strappate, ma non gli veniva in mente di consolarmi perché mi ero anche scorticato le ginocchia e sanguinavo e avevo un gran male, mi insultavano per ore e la sera, quando io stesso avevo ormai dimenticato la mia disavventura, tornavano daccapo a insultarmi, come se provassero gusto nell’insultarmi e nel farmi piangere. Mio fratello lo consolavano quando aveva piccolissime ferite, me neppure quando me ne procuravo di grandi. Siccome, a loro avviso, andavo troppo spesso e sempre troppo a lungo dai giardinieri, continuavano a sgridarmi perché non volevano che andassi dai giardinieri i quali, come credevano, esercitavano su di me una cattiva influenza, volevano che andassi dai cacciatori, a cui attribuivano una buona influenza su di me, ma io odiavo i cacciatori, come ho detto, e andavo sempre dai giardinieri, che amavo, e loro mi insultavano ogni qualvolta venivano a sapere che ero stato dai giardinieri e al contempo insultavano anche i giardinieri perché, come dicevano, mi avevano dato retta, i giardinieri che gli son sempre parsi estremamente dannosi per me, così mia madre. Se mio fratello andava dai cacciatori, gli dicevano tutte le volte bravo che sei stato dai cacciatori, ci fa piacere, e, per la precisione, sempre in maniera tale che io fossi costretto a sentire e quando erano sicuri di ferirmi. Una volta che ero stato dai cacciatori, perché per una qualche ragione, una volta tanto, non ero voluto andare dai giardinieri ma dai cacciatori, non ne so più la ragione effettiva, e alla domanda dove fossi stato avevo risposto dai cacciatori, non mi credettero e mi schiaffeggiarono in presenza di mio fratello, il quale sapeva benissimo che ero stato dai cacciatori perché era stato dai cacciatori insieme a me, e mio fratello tacque, non aveva detto, per venirmi in aiuto, la verità. Era rimasto in silenzio, senza batter ciglio, anche quando mia madre mi aveva dato uno schiaffo per quella menzogna, come lei credeva, sebbene io avessi detto la verità. Anche quando ero già adulto, i miei genitori non mi credevano in nessun caso, come ricordo. Quando avevo visite e loro mi chiedevano il nome del visitatore, chi mai mi avesse fatto visita, e io dicevo loro il nome del visitatore e, appunto, chi mi avesse fatto visita, non mi credevano, dicevano sempre che sapevano bene chi mi avesse fatto visita, in ogni caso non colui che io affermavo avermi fatto visita. Se ero stato a Wels e loro chiedevano dove fossi stato e io rispondevo a Wels, loro dicevano che non ero stato a Wels, che sapevano dove ero stato in effetti, a Vöcklabruck, a Linz, a Steyr, soltanto non a Wels e non c’era verso di convincerli del contrario. Non mi credevano mai, la sola cosa a cui credevano era che avevano dinanzi, in me, non soltanto un normalissimo bugiardo, ma, come mia madre diceva sempre, un bugiardo nato. Ma cosa fai tutto il tempo in biblioteca? chiedevano quando venivo dalla biblioteca, poco importa da quale delle nostre cinque biblioteche, che in fondo gli erano sospette, e in effetti ero l’unico di loro che continuasse ad andare in una delle nostre biblioteche. Certo non per leggere! dicevano, e pretendevano spiegazioni. Non serviva a nulla che io protestassi dinanzi a loro di essere effettivamente andato in biblioteca al solo fine di leggere. Vai in biblioteca per coltivare i tuoi pensieri aberranti, diceva sempre mia madre e non prendeva atto di quanto io continuavo a dire, no, sono andato in biblioteca per leggere, per nessun’altra ragione e là non ho fatto null’altro. Di continuo protestavo di essere stato in biblioteca unicamente a fini di lettura, di essermi trattenuto là a fini di lettura. Ma lei non si calmava, mi definiva un bugiardo e asseriva senza sosta che ero stato in biblioteca per coltivare i miei pensieri aberranti. Quando le chiesi cosa intendesse con pensieri aberranti, mi diede, come tante volte fin dalla mia infanzia, del piantagrane, senza rispondere alla mia domanda, aggiunse che ero sfrontato e bugiardo e mi lasciò semplicemente in asso. Tutti i momenti mi sospettava di coltivare quei pensieri aberranti, senza che lei stessa probabilmente abbia mai saputo cosa fossero quei pensieri aberranti, ma si era abituata a rinfacciarmeli, anche quando c’era gente non ero al sicuro, anche a tavola, in presenza di estranei nostri ospiti, di solito addirittura davanti a quelli che mi hanno sempre ispirato il maggior disgusto, i rappresentanti del cosiddetto ceto medio delle cittadine circostanti, che lei conosceva dall’infanzia e con i quali ha sempre intrattenuto rapporti regolari, diceva che coltivavo i miei pensieri aberranti. Devo dire che mia madre amava mio fratello Johannes soprattutto perché lui non ha mai avvertito il bisogno di andare in una delle biblioteche, infatti diceva tutti i momenti, Johannes non va in biblioteca per coltivare pensieri aberranti, va nella casa dei cacciatori dove c’è tanta allegria. Ma l’allegria nella casa dei cacciatori, per i miei princìpi e a giudicare dalla mia esperienza, era sempre stata piuttosto meschina e abietta, i cacciatori avevano un’allegria meschina e abietta che consisteva nel raccontare senza tregua barzellette insulse e assolutamente grossolane, che non ho mai potuto trovare divertenti senza avere la sensazione di insudiciarmi, questa è sempre stata, infatti, la ragione principale per cui la casa dei cacciatori mi faceva orrore, mentre quelle barzellette insulse e assolutamente grossolane e abissalmente primitive nella casa dei cacciatori sono sempre piaciute a mia madre, nulla la divertiva più di quelle barzellette, ogni volta usciva dalla casa dei cacciatori con le lacrime agli occhi dal ridere, cosa che persino mio padre, una volta, aveva definito perversa. Vai nella casa dei giardinieri, mi diceva sempre, dove tutto è così scialbo, è un fatto significativo. Non le era mai parso sotto il suo livello passare mezze nottate a cantare con i cacciatori le loro sciocche canzoni, starsene seduta con i cacciatori e stringersi con i cacciatori su una stessa panca e lasciare che costoro non solo le si rivolgessero in maniera inequivocabile, ma che a tarda ora le mettessero anche le mani addosso e le pizzicassero il sedere, debbo dire. Quando mio fratello finiva i compiti e glieli mostrava, loro dicevano sempre che aveva fatto un buon lavoro, quando lo facevo io, trovavano almeno qualcosa da ridire sul mio lavoro, notavano là uno sbaglio, qui un’irregolarità e mi facevano continuamente la predica per la mia grafia illeggibile, come dicevano sempre. Quando mio fratello portava a casa un buon voto, lo elogiavano, com’è naturale, mentre di un fatto analogo nel mio caso prendevano atto soltanto con un cenno del capo forzatamente gentile. Ricordo che a mio fratello, al contrario di me, al quale ne davano sempre di un po’ consunte, davano le coperte e le lenzuola migliori, i cuscini di prima qualità, non quelli rattoppati come a me. Io dovevo portare le calze più a lungo di lui, i cappotti, le giacche, non serviva a nulla che li pregassi di poterne indossare di nuovi come mio fratello, al quale lo permettevano, quando le calze, i cappotti, le giacche eccetera gli si erano logorati o sporcati in maniera insignificante, a me non lo permettevano. Dicevano sempre, allora, che ero uno sprecone, a mio fratello non avevano mai rifilato l’epiteto di sprecone. I miei genitori non erano mai stati, credo, giusti nei miei confronti, perché già nella prima infanzia avevano avuto la sensazione che forse ero loro superiore, non so definire con precisione cosa abbia instillato in loro quel timore. Solo i nonni erano stati giusti nei miei confronti, mi trattavano esattamente come Johannes, non c’erano differenze, per loro, fra l’uno e l’altro nipote, o almeno non facevano differenze fra noi due. E infatti, finché i nonni rimasero in vita, avemmo a Wolfsegg, Johannes e io, la nostra epoca più felice. Com’è naturale, ho detto una volta a Gambetti, perché i nonni, per loro natura, non conoscevano favoritismi. Quando morirono mi accorsi subito che i miei genitori volevano punirmi del fatto che, come credevano, i nonni mi avevano sempre trattato meglio di mio fratello, cosa che però non corrisponde al vero, se l’erano sempre e soltanto messa in testa i miei genitori, specialmente mia madre. Sembrava che dopo la morte dei nonni i nostri genitori avessero pensato, ora però dobbiamo dedicarci a Johannes che è sempre stato sfavorito dai nonni e trattarlo particolarmente bene, lui che è sempre stato trascurato dai nonni, che ha sempre dovuto soffrire per la preferenza accordata al fratello, dunque alla mia persona, ma mio fratello non era mai stato sfavorito dai nonni, esattamente come io non ero stato preferito da loro, questa è la verità, i miei avevano solo trovato un’intesa, nell’idea che io ero stato il preferito dei nonni e mio fratello lo sfavorito, per farmi pesare, d’ora in avanti, sempre esattamente le conseguenze di ciò che si erano messi in testa, ma che non ha mai corrisposto alla verità. Così, a partire dalla morte dei nonni, hanno sempre trattato mio fratello Johannes con benevolenza, me invece, al contrario, sempre con avversione, e la loro preferenza nei confronti di Johannes la svilupparono col tempo fino a rendermela, credo, effettivamente insopportabile, e così fecero, con il medesimo risultato, con la loro avversione nei miei confronti. Si erano abituati, per farla breve, ad amare mio fratello e a odiare me. È assurdo, avevo detto a Gambetti al Pincio, che proprio in una casa con cinque biblioteche tutto ciò che riguarda il pensiero e lo spirito venga non soltanto tenuto in scarsa considerazione, ma effettivamente disprezzato. Ai primi che hanno costruito e abitato Wolfsegg una biblioteca sola, debbo supporre, non era bastata, avevano un bisogno naturale di spirito e di pensiero, erano stati certamente pensatori appassionati e dunque lavoratori del pensiero, del pensiero avevano fatto, credo, il loro compito principale, come dimostrano tante loro testimonianze, che ancora possediamo, erano convinti che la cosa più alta dell’esistenza umana sia condurre una vita nel pensiero, una vita nello spirito, Gambetti, non nella quotidianità e nella quotidiana ottusità, come i miei. Che tempi, quelli in cui l’intelletto è stato elevato a pensiero, del pensiero si è fatto il comandamento supremo, come sappiamo. Oggi tutto ciò che un giorno ha reso grande Wolfsegg si è spento, perché è stato svilito in piena consapevolezza dai discendenti; nell’ultimo secolo e soprattutto negli ultimi decenni l’hanno effettivamente trascinata nel fango. Non una sola biblioteca, avevo detto a Gambetti, cinque biblioteche si erano concessi, una al primo piano a sinistra e una al primo piano a destra, una al pianterreno a sinistra e una al pianterreno a destra e la biblioteca nella villa dei bambini, tutte le scienze umane vi avevano trovato posto per secoli, tutti gli orientamenti dello spirito, tutte le arti. Una volta mi ero trincerato nella biblioteca al primo piano a sinistra, Gambetti, per leggere il Siebenkäs di Jean Paul, un libro, peraltro, che mio zio Georg amava particolarmente. Lessi il libro per ore, e a poco a poco avevo dimenticato ogni cosa intorno a me, anche il fatto che nello stesso tempo in cui ero rimasto immerso nel Siebenkäs avrei dovuto aiutare mia madre nel riordino delle lettere. Avevo dimenticato la sua disposizione di presentarmi alle sei, come ogni sabato pomeriggio, nel suo cosiddetto studio per il riordino delle lettere, il Siebenkäs mi aveva fatto dimenticare effettivamente tutto, nella biblioteca al primo piano a sinistra, dunque anche la disposizione di mia madre. Ogni sabato, fra le sei e le sette di sera, lei sedeva nel suo studio e si faceva riordinare da me, oppure a turno da Johannes, esattamente quelle lettere che le erano state scritte nella settimana appena trascorsa, esattamente nell’ordine del loro arrivo. Quando avevo finito di riordinare le lettere, dovevo posarle in un punto preciso della sua scrivania. Mentre riordinavo le lettere, avevo la possibilità di parlare in pace con mia madre, cosa che altrimenti non era mai possibile. Mentre io riordinavo quelle lettere, lei sbrigava la sua corrispondenza e mi dava occasione di interpellarla su questioni di ogni genere. Un’occasione che altrimenti non avevo. Sebbene non le fosse mai piaciuto che io facessi domande, perché aveva sempre trovato improponibili le mie domande, durante il riordino delle lettere avevo il permesso di farle anche delle domande e lei rispondeva alle mie domande. In fondo quel riordino delle lettere nello studio di mia madre era la sola occasione, in assoluto, per avvicinarla, in quella breve ora prima di cena. Era anche già accaduto che lei stessa mi dicesse una parola gentile, anzi ogni tanto persino affettuosa. Durante il riordino di quelle lettere mi era parso spesso di amare, anche, mia madre, e con grandissimo fervore in effetti, quando la osservavo di lato trovavo bello il suo volto, che altrimenti mi aveva sempre infastidito per i suoi tratti ordinari. La lampada della scrivania, che lei teneva accesa e che le gettava sul volto una luce tenue, faceva bene al volto di mia madre, avevo detto a Gambetti al Pincio, era per mia madre, in quell’ora, una luce assai benevola. Quando le mettevo sulla scrivania le lettere riordinate, capitava che lei alzasse lo sguardo dalla corrispondenza e mi posasse, come in una sorta di dolce affezione, la mano sui capelli. Ma come se, nell’istante in cui era riuscita a compierlo, si fosse poi vergognata di quel gesto, ritirava sempre di scatto la mano e mi mandava via. Come se in quell’occasione avesse pensato non è Johannes, ritirava la mano da me e bruscamente tornava alla sua corrispondenza. Ma in realtà volevo dire qualcos’altro, Gambetti, gli avevo detto al Pincio. Mi ero ritirato nella biblioteca al primo piano a sinistra col Siebenkäs e avevo dimenticato il riordino delle lettere. Erano le nove quando d’improvviso, più o meno spaventato, mi destai dal Siebenkäs e riposi il libro e uscii dalla biblioteca che in fondo mi era proibita, come Lei sa, e scesi dai miei, che intanto avevano cenato da un pezzo. Il Siebenkäs mi aveva incatenato per cinque ore, immobile, alla poltrona della biblioteca e io avevo dimenticato non solo il riordino delle lettere, ma anche la cena. Scesi, Gambetti, e loro sedevano tutti nel cosiddetto salotto verde e, come avevo subito capito, aspettavano soltanto me. Mi accolsero senza una parola. Dopo alcuni minuti, durante i quali mio fratello Johannes, come mi era parso, era rimasto in attesa con una gioia maligna, ripugnante, mia madre, senza guardarmi, pretese di sapere dove mai fossi stato, cosa mi avesse fatto trascurare il riordino delle lettere, come mi venisse in mente di coronare la mia abituale sfrontatezza con una simile insolenza: ignorare come se niente fosse il riordino delle lettere e la cena, non c’era ragione infatti, nessuna almeno che lei potesse immaginare, per ignorare il riordino delle lettere, piantarli in asso durante la cena, mettere tutti quanti nella più grande apprensione, non sapendo loro dove io fossi in realtà; avevano pensato a tutte le disgrazie possibili, di cui avrei potuto essere vittima, a tutti i possibili orrori. Ero mai consapevole di aver gettato soprattutto lei, mia madre, in un’angoscia mortale? Non c’è ragione al mondo che ti esima dal presentarti al riordino delle lettere, né una ragione per ignorare la cena. Mia madre non mi aveva ancora degnato di uno sguardo. Improvvisamente mi guardò in faccia e disse: sei un mostro! Se non m’inganno del tutto, sei stato in biblioteca! E cosa hai fatto? Hai di nuovo coltivato i tuoi pensieri aberranti, disse. Mio padre e i miei fratelli aspettavano con ansia che l’accusa toccasse il vertice, avevano concentrato tutta la loro attenzione su di me che, in preda alla paura, ero rimasto sulla porta. Avevo allora forse nove o dieci anni, non lo so più con precisione, avevo detto a Gambetti. Tremavo in ogni fibra del corpo, dentro e fuori. Per piccole che fossero le mie sorelle, non si riconosceva altro, in loro, se non un’infame eccitazione rivolta contro di me, la sete di vedermi punito in modo sensazionale da mia madre, che peraltro contro di me procedeva sempre e soltanto in maniera inesorabile. Bene, cos’hai fatto veramente in biblioteca? aveva detto mia madre, e io le avevo risposto: leggevo il Siebenkäs. A quella mia asserzione era balzata in piedi e mi aveva preso a schiaffi e mandato a letto. Il vero castigo era consistito nel fatto che per tre giorni non potei più uscire dalla stanza, mia madre l’aveva chiusa a chiave e per tutti e tre i giorni mi aveva lasciato completamente senza cibo. Io mi ero seduto al tavolo e per tutti e tre i giorni non avevo fatto altro che piangere. Fuori, davanti alla porta, le mie due sorelle andavano continuamente avanti e indietro e gridavano senza sosta con immensa, maligna gioia Siebenkäs, Siebenkäs, Siebenkäs. Se un giorno dovesse leggere questo Siebenkäs, caro Gambetti, gli avevo detto al Pincio, non dimentichi questa piccola storia. Chissà se Gambetti, oggi che dopo tanto tempo gli ho dato effettivamente da leggere il Siebenkäs, si ricorda ancora di quella storia? mi chiesi. Tutti i libri che ho letto a Wolfsegg hanno un epilogo di questo genere, sono legati per tutta la vita, per me, a un simile epilogo (o prologo!), pensai, anche se non sempre, soltanto, a uno così triste come quello che è legato per me al Siebenkäs di Jean Paul. Mia madre, Gambetti, non aveva idea di cosa fosse Siebenkäs e aveva creduto che la prendessi in giro, avevo detto a Gambetti. Quando mia madre è stata a Roma, avevo detto a Gambetti, nell’autunno di tre anni fa, Lei ricorderà, com’è naturale l’ho portata in giro per la città. Ma lei si annoiava a morte, voleva vedere sempre e soltanto i negozi famosi, soprattutto quelli del Corso e di via Condotti, aveva tutta una lunga lista con i nomi dei negozi famosi e procedeva nei suoi giri solo seguendo quella lista, aveva scritto i negozi famosi uno sotto l’altro in ordine alfabetico, il che era stato un errore, come lei stessa aveva dovuto presto riconoscere, perché i negozi naturalmente non erano situati uno accanto all’altro in ordine alfabetico come nella sua lista, ma molto spesso lontani l’uno dall’altro. Entrammo in un negozio famoso dopo l’altro, specialmente quelli nelle vicinanze di piazza di Spagna, e in nessuno restavamo meno di mezz’ora, nella maggior parte lei si fermava quasi un’ora, cosa che mi ha fatto pressoché impazzire.
Mia madre poi è anche una fanatica, quanto mai primitiva, dei gioielli, avevo detto a Gambetti, e per questa ragione correva da un gioielliere all’altro alla ricerca non di una cosa sola, ma di interi mucchi di anelli e collane di suo gusto. Io l’accompagnavo controvoglia, come Lei può immaginare, ma non avevo scelta. Io stesso, come Lei sa, sono nemico di coloro che vedono solo i monumenti e le chiese celebri, ma un’indifferenza così sfacciatamente dichiarata, debbo dire, verso tutti quei tesori della cultura, senza dubbio imponenti, non l’ho mai vista prima. Mia madre è entrata in San Pietro, l’avevo portata io, e, com’è naturale, si è entusiasmata proprio per l’altare del Bernini, che a me fa orrore, ma per il resto non ha visto altro, durante il suo soggiorno romano, che gli arredi dei gioiellieri e delle case di moda di Roma. Su mia proposta, abitava al Hassler, che però trovava troppo fuori moda. Non c’era cosa su cui non avesse da ridire, sebbene il Hassler sia senza dubbio il miglior hotel di Roma e forse addirittura uno dei tre o quattro migliori del mondo. Nulla le pareva alla sua altezza. Alla fine aveva comprato così tante cose, avevo detto a Gambetti, che non sapeva più dove metterle, le scatole si accatastavano nella sua stanza. Avevamo cinque inviti a cena a casa di parenti, anche del nostro amico Zacchi, naturalmente, avevo detto a Gambetti, ma lei andò a una sola, e non, come forse Lei pensa, a quella del nostro amico Zacchi, persona ammirevole, bensì a quella dell’ambasciatore austriaco, dove, come Lei può immaginare, c’era la stessa noia di sempre, solo perché era per lei la più rappresentativa, tutti gli invitati alla cena dell’ambasciatore erano i soliti diplomatici privi di spirito e stupidi, e le loro mogli stupide ancora più prive di spirito, che snocciolarono per due ore le loro chiacchiere mondane. Ma Lei vorrà certamente sapere perché io menzioni tutto questo, avevo detto a Gambetti, il fatto è che sulla strada dal Hassler all’ambasciata austriaca, d’un tratto, bruscamente, mia madre mi aveva chiesto, d’improvviso e a bruciapelo e dopo tanti anni, anzi decenni, cosa fosse mai in realtà quel Siebenkäs con cui decenni prima l’avevo presa in giro. Per decenni aveva ricordato quella scena del Siebenkäs, avevo detto a Gambetti. Quella scena del Siebenkäs aveva prodotto su di lei e su di me un’impressione egualmente grande, come ora constatavo. Eravamo usciti dal Hassler, una di quelle magnifiche notti romane, Gambetti, nelle quali si crede effettivamente al paradiso, e dopo qualche passo lei aveva chiesto: ma cos’è Siebenkäs, puoi dirmelo? E io le avevo detto che Siebenkäs è un’invenzione di Jean Paul. Ma anche Jean Paul non sapeva cosa fosse, e allora avevo dovuto anche dirle che Jean Paul è uno scrittore, lo scrittore che ha scritto il Siebenkäs. Ah, aveva replicato lei, se lo avessi saputo! Credevo che Siebenkäs fosse una tua invenzione contro di me, un trucco meschino. Ma mentre io ero scoppiato a ridere forte per quella rivelazione sulla strada dal Hassler all’ambasciata austriaca, e ne avevo ben ragione, mia madre era rimasta sempre in silenzio. Ed era poi realmente vero che Jean Paul è uno scrittore e il Siebenkäs un’opera di quello scrittore, volle sapere ancora, perché dapprima non voleva crederci, perché non voleva mai credermi, Gambetti. E così Siebenkäs è un’opera letteraria e Jean Paul è uno scrittore, aveva ripetuto mia madre ancora diverse volte sulla strada per l’ambasciata austriaca. Andavamo a piedi all’ambasciata austriaca. Dopo aver percorso circa metà della strada, quasi senza scambiarci una parola, lei aveva detto all’improvviso: e anche Kafka è uno scrittore? Sì, anche Kafka è uno scrittore. Peccato, aveva replicato lei, credevo fossero tutte tue invenzioni. Peccato. Non riusciva a capacitarsi che Jean Paul e Kafka siano scrittori che hanno scritto il Siebenkäs e Il processo e non mie invenzioni contro di lei, mia madre, naturalmente. Lo vede, avevo detto a Gambetti, in quale condizione spirituale si trovi la mia famiglia. Si trovi Wolfsegg. Cinque biblioteche, Gambetti, e non un’idea dei nostri più grandi scrittori e poeti, per non parlare dei grandi filosofi che hanno contrassegnato un’epoca, i cui nomi mia madre non ha mai sentito, in ogni caso mai sentito consapevolmente. Mio padre conosce sì i nomi, ma neppure lui sa cosa quella gente abbia pensato e scritto, anche l’agricoltore in fondo non è mai stato altro che un primitivo spregiatore dello spirito, per il quale le mucche e i maiali significavano tutto, lo spirito più o meno nulla. Se mio padre potesse scegliere fra la compagnia di Kant e quella di un maiale da ingrasso premiato a Ried nell’Innkreis, un famoso mercato del bestiame, avevo detto a Gambetti, deciderebbe all’istante a favore del secondo. Non L’ho presentata a mia madre, allora, quando era a Roma, Gambetti, gli avevo detto, perché mia madre non Le avrebbe dimostrato alcuna comprensione. Avrebbe trovato solo da ridire su di Lei, perché non porta la cravatta per esempio e, anziché la cartella delle imposte, sotto il braccio ha un libro di filosofia. Anche se così Lei si è perso effettivamente qualcosa, avevo detto a Gambetti. Alla cena dell’ambasciatore siamo arrivati naturalmente con grande ritardo, c’erano già tutti e ci aspettavano. Persone che se ne stanno lì e si tagliano i panni addosso a vicenda e mettono in mostra le loro origini e le loro onorificenze, dicono tutti i momenti che sono stati accreditati in Cina, in Giappone, in Persia e in Perù e rimestano senza tregua nella loro brodaglia diplomatica ormai da tempo rancida. Dicono in continuazione che conoscono il mondo intero e quant’altro ancora, e che nei loro appartamenti in città si annoiano esattamente come nelle loro tenute di campagna. Parlano di libri come se si trattasse di crostini un po’ scipiti e si intendono della direzione di un’orchestra sinfonica tanto quanto di Spinoza, di Heidegger tanto quanto di Dante, e l’osservatore acuto ha sempre l’impressione che abbiano visto tutto e nulla. Mia madre, nel complesso, non fa una cattiva figura a questi ricevimenti, perché non è inadeguata né al ruolo né alla situazione, e le sue spensierate ciance di campagna, in cui trionfa tutta l’insensatezza della sua ridicola esistenza, divertono la gente di città. Come suo accompagnatore sono condannato al silenzio, e in fin dei conti lei mi fa passare per scemo. Tornando a casa dall’ambasciata, verso mezzanotte, mi aveva chiesto un’altra volta se avessi detto la verità affermando che Jean Paul è uno scrittore e il Siebenkäs una sua opera. Siccome non mi aveva mai creduto, Gambetti, non mi aveva creduto neanche in quell’occasione. Mia madre del resto è venuta a Roma al solo fine di soddisfare la sua curiosità, avevo detto a Gambetti, perché voleva assolutamente sapere dove e come io abitassi. Ossessionata da quella curiosità, un giorno aveva preso il treno ed era partita per Roma, per indagare, come avrebbe detto lo zio Georg, su tutto ciò che mi riguarda. Piazza della Minerva non le aveva detto nulla, il Pantheon era per lei soltanto una parola mostruosa che conosceva per sentito dire, Gambetti. Che avessi preso una delle più belle case di tutta Roma e ci abitassi effettivamente, almeno questo le aveva fatto all’inizio grande impressione, in un vero palazzo, aveva esclamato subito entrando nell’edificio dove al terzo piano ho la mia casa; con vista sul Pantheon, le avevo detto, ora vedrai. Non stava nella pelle. Hai effettivamente una casa da principe, aveva detto ancor prima di entrare in casa mia e quelle parole erano suonate subito come un rimprovero. Ma questo è un portale immenso! aveva esclamato quando si era trovata davanti al palazzo dov’è casa mia e aveva alzato lo sguardo sulla facciata di marmo. Mi ero figurata qualcosa di ben diverso, così lei, quando le dissi di entrare e di salire con me i tre piani, perché qui non c’è ascensore, le avevo detto, non sarebbe cosa per te, poi era salita e tutti i momenti si fermava per voltarsi e diceva: effettivamente da principe! Che la casa, non avevo detto: che il palazzo non abbia l’ascensore rende l’appartamento relativamente poco costoso, le avevo detto, ma è tuttavia uno degli affitti più alti quello che devo pagare qui, non avevo esitato a dire mentre salivo con lei in casa mia, ora precedendola di tre passi, ora di nuovo seguendola, con una certa solennità, come si può immaginare, Gambetti. Finalmente fummo di sopra, al terzo piano, e ci ritrovammo davanti alla mia porta di casa. Che non avessi messo la targhetta col mio nome, la infastidì. Niente targhetta, aveva detto, neppure il postino saprà che abiti qui. Ti è sempre piaciuto essere anonimo, aveva detto prima che entrassimo e io avevo replicato che mi era sempre parsa la cosa più gradevole, nella società umana, conservare l’anonimato, a differenza sua, che aveva sempre badato a farsi conoscere come una persona particolare, sebbene lei stessa non abbia mai saputo in che cosa veramente consista la sua particolarità. Osservando la fotografia nella quale i miei genitori salgono sul treno per Dover alla stazione Victoria di Londra, mi ricordai come mia madre sia entrata nella mia casa in piazza della Minerva: stupita, al contempo spaventata, fece un’immensa fatica a trovare anche una sola parola di commento, dopo che vi fu entrata. Dapprima le era mancato il respiro. Intanto però, e già aprendo la porta di casa mia, e probabilmente per questa ragione mentre entravo, mi era venuto in mente qualcosa di davvero assurdo, Gambetti: una volta, anni fa, mia madre aveva perso, e non più ritrovato, una delle sue chiavi della cassaforte, aveva frugato e fatto frugare non soltanto nelle sue, bensì in tutte le stanze alla ricerca della chiave della cassaforte, ma la chiave era risultata irreperibile. Così, d’improvviso, mi sospettò di aver sottratto la chiave della cassaforte, per un ignobile motivo, come si era espressa allora, che non riusciva a spiegarsi, che tuttavia le pareva evidente. E mi accusò, del tutto senza ragione, Gambetti, di aver fatto sparire la chiave della cassaforte nell’istante in cui i suoi sospetti erano caduti su di me, quando per così dire mi ero ritrovato con le spalle al muro, e per la precisione di aver gettato la sua chiave della cassaforte, proprio all’ultimo momento, nel pozzo situato sotto la sua stanza, nel pozzo asciutto ormai da decenni, Gambetti, per non venir subito smascherato come un volgare ladruncolo. E si immagini, Gambetti, gli avevo detto, mia madre ordinò di frugare il pozzo, uno dei giardinieri era stato calato nel pozzo dai suoi colleghi sotto gli occhi di mia madre, per recuperare la chiave della cassaforte che io, il figlio di Satana, avevo gettato nel pozzo quando mi ero visto perduto. Naturalmente il giardiniere calato nel pozzo non aveva trovato nel pozzo la chiave smarrita della cassaforte, perché non poteva essere nel pozzo, visto che io non l’avevo gettata là dentro in realtà, ma solo nella spaventosa fantasia di mia madre, sempre rivolta contro di me. Il giardiniere era uscito dal pozzo e aveva continuato a protestare che nel pozzo la chiave della cassaforte non c’era, che non c’era nulla nel pozzo, tranne una vecchia scarpa già mezza marcia. Mia madre si arrabbiò a tal punto per il fatto che nel pozzo non c’era la sua chiave della cassaforte ma solo una scarpa mezza marcia, che prese a insultare il giardiniere. Insultò anche me, sconciamente, debbo dire, Gambetti, e non aveva smesso con i suoi insulti fino a tarda sera. Lo so, mi aveva detto ancora molti giorni dopo quell’episodio e dopo che il giardiniere era sceso inutilmente nel pozzo, che l’hai sottratta tu la chiave della cassaforte, anche se non l’hai gettata nel pozzo l’hai comunque portata via in maniera meschina, chissà dove. A quel sospetto, Gambetti, non sfuggo neppure oggi, continua per così dire a gravarmi addosso, ancora dopo tanti anni mia madre era convinta che avessi fatto sparire io la chiave della cassaforte. Ma non l’ho mai sottratta, Gambetti, gli avevo detto, non saprei per quale ragione, a quale fine. Non mi sarebbe mai passato per la testa, avevo detto a Gambetti. Avevo giusto aperto la porta di casa mia ed ero entrato con mia madre in casa mia, allora, quando lei era stata a Roma, che subito mi era venuto in mente quell’episodio significativo, in grado di descrivere meglio di ogni altro la relazione fra me e mia madre. È uno degli episodi più caratteristici del nostro rapporto, avevo detto a Gambetti, addirittura, forse, il più caratteristico in assoluto. Per tutto il tempo, da che mia madre era entrata in casa mia, non avevo avuto altro in mente se non che lei aveva fatto frugare nel pozzo perché credeva che io avessi gettato nel pozzo la sua chiave della cassaforte, di proposito, con intenti ignobili. Il gesto di aprire la porta di casa mia mi aveva riportato alla memoria quell’episodio così remoto, e per tutto il tempo non avevo smesso di pensarci, ma a mia madre non ho detto quale pensiero mi occupasse la mente più del suo ingresso in casa mia, neppure quando lei, fattasi inquieta, infastidita dal mio comportamento inusuale, mi chiese cosa mi stesse accadendo. Nulla, le avevo risposto. Mi ero ben guardato dal rivelarle i miei pensieri sulla questione della chiave della cassaforte nel pozzo, che mi teneva occupato più del suo primo ingresso nella mia casa di piazza della Minerva, con ogni probabilità avrei provocato una repellente discussione al riguardo, dopo tanti anni, Gambetti, gli avevo detto. E le discussioni con mia madre le temevo, le temo ancor oggi, Gambetti. Mio padre quella volta l’aveva lasciato a Wolfsegg da solo, sebbene lui, come so, sarebbe venuto volentieri a Roma con lei. L’aveva convinto che non si poteva assolutamente fare a meno di lui. Non puoi mica lasciare sola Wolfsegg in questi tempi incerti, erano le sue parole di rimprovero, sempre uguali, nei confronti di mio padre, pensai osservando la fotografia. Non puoi mica lasciare soli i cacciatori, ora che è la stagione della caccia, aveva detto a mio padre e aveva asserito per giunta che non le faceva poi tanto piacere fare il viaggio a Roma da sola, senza mio padre, quando invece era abituata ad andare a Roma con lui, il suo protettore, il suo protettore, come, canzonandolo, molto spesso chiamava mio padre, per lusingarlo, non perché ritenesse effettivamente che suo marito, mio padre, fosse davvero il suo protettore, e infatti non lo era, non aveva mai saputo esserlo. Andò quindi a Roma da sola, per tenermi d’occhio, così lei a mio padre e anche a Johannes, come so, e poi a Roma se ne andò in giro soltanto col suo amico Spadolini, che già allora era un altissimo funzionario vaticano, salito molto presto al rango di arcivescovo, avevo detto a Gambetti, le notti le trascorreva solo con Spadolini, quando telefonavo al Hassler mi dicevano sempre che la signora non c’era, non alle undici, non a mezzanotte, non all’una e mezzo, non alle tre, questa è la verità su mia madre, sul suo viaggio romano, del quale io in definitiva sono stato soltanto il pretesto, Gambetti. Mi aveva solo usato come scusa di fronte a suo marito, mio padre, per quel viaggio romano. Spadolini lo conosceva dai tempi in cui lui era ancora un piccolo consigliere alla nunziatura di Vienna. Non posso dire che questo Spadolini non mi sia sempre piaciuto, al contrario, è un personaggio in tutto e per tutto affascinante, né ho qualcosa contro il fatto che mia madre abbia tenuto viva per decenni la conoscenza, anzi l’amicizia con lui, che l’abbia più o meno coltivata per decenni, ma sono contro la segretezza di quel legame, che in realtà è una relazione, Gambetti. E so anche che mia madre non è stata a Roma quell’unica volta, e che quella volta non è stata l’ultima, si è incontrata spesso con Spadolini, è andata spesso a Roma, in treno o in aereo, fingendo un improrogabile viaggio a Vienna, solo per trascorrere con Spadolini una notte o due. Anche Spadolini è stato spesso a Wolfsegg, non senza che là, cosa che metteva lui stesso in grande imbarazzo, dovesse celebrare per noi, nella nostra cappella, delle messe per così dire in pompa magna, come se celebrasse una messa a San Pietro. Mia madre è avida di cerimonie e ama lo sfarzo e quello cristiano-ecclesiastico più di ogni altro, è cattolica, credo, per la semplice ragione che ama lo sfarzo della Chiesa cattolica e soprattutto le cerimonie ai funerali cristiano-cattolici, dissi a Gambetti. Un arcivescovo in casa, e per giunta uno dei massimi funzionari vaticani per così dire, questo l’aveva affascinata e a quel fascino aveva continuato a cedere in tutte le possibili occasioni più o meno sconvenienti, per molto tempo mio padre non comprese le manovre di mia madre, quando le comprese era troppo tardi, i due avevano ormai troppo perfezionato la loro congiura, Gambetti. Ma Spadolini è una personalità straordinaria, com’è naturale, altrimenti non sarebbe arrivato tanto in alto nella gerarchia vaticana, avevo detto a Gambetti. A parte la rivoltante relazione fra lui e mia madre, io lo stimo molto, è una persona tra le più intelligenti e colte. Nunzio a Lima, a Copenaghen, infine a Parigi, a New York e a Madrid, Gambetti, è già qualcosa, tutte le lingue che parla, le migliaia di libri che quell’uomo ha letto, tutto quel che ha visto e sentito, questo è il lato sorprendente, che proprio uno così si sia imbattuto in mia madre e con lei sia rimasto, con una donna simile, in tutto e per tutto superficiale. Si incontrava con lui e usava me come pretesto, avevo detto a Gambetti, era dovuta andare a trovare il figlio per così dire in superficie, per potersi incontrare nel profondo con l’arcivescovo, in una segretezza che si può solo definire ignobile. E si immagini, per due giorni è andata a Palermo con Spadolini in aereo e ha trascorso con lui, per giunta, due notti a Cefalù. Non ho nulla in contrario, Gambetti, ma quella segretezza mi ripugna. In verità non conosco persona più colta e di maggior valore di Spadolini, Lei e Zacchi esclusi, avevo detto a Gambetti. Un carattere così altamente sensibile, una testa così pervasa di spiritualità, e legato a mia madre, in ripugnante segretezza, per anni, per decenni. Ma mia madre non ha imparato nulla da Spadolini. Forse ciò che affascina Spadolini è proprio la noncuranza, la stupidità di mia madre, avevo detto a Gambetti. Di giorno lei faceva con me il giro dei negozi romani, di notte si incontrava con Spadolini a Trastevere, come so. Ma non solo, come facciamo noi, per mangiar pesce, bere vino, allungare le gambe e non chieder altro per essere felici, Gambetti, non solo questo. Loro due frequentavano certe bettole nei pressi del cosiddetto canile municipale, che Lei conosce, senza lasciarsi turbare dagli spaventosi ululati dei cani romani cosiddetti randagi, rinchiusi là dentro per essere sterminati. Non svelerò tuttavia da quale fonte io tragga le mie informazioni, avevo detto a Gambetti, neppure a Lei. Spadolini, testa intelligente, studioso d’eccezione, autore di scritti straordinari, genio nell’arte del parlare e del tacere, dal quale è sempre emanato per me un grandissimo fascino. Quando è venuto a Wolfsegg per la prima volta avevo pensato: Wolfsegg non ha mai visto finora una persona e un uomo di tale statura. Quando ha detto la prima messa da noi nei paramenti della Pentecoste, Gambetti, non può immaginare il mio segreto entusiasmo, sono stato sul punto di abbandonare i miei dubbi sulla Chiesa cattolica, quando l’ho visto per la prima volta. Un uomo di tale bellezza, debbo dire, di tale garbo, di naturalezza ineguagliabile e, parimenti, di ineguagliabile artificio. Mi ero subito innamorato di Spadolini, questa è la verità. Ma per mio padre Spadolini era sempre stato una spina nel fianco, non aveva potuto far nulla contro di lui, mia madre decideva quando Spadolini ci avrebbe fatto visita, mia madre decideva quando lei sarebbe andata a trovare Spadolini, il suo amante, a Vienna o a Parigi, infine a Roma. Vado da Spadolini, pensava mentre diceva a mio padre che veniva da me. Forse mi ha solo dato a intendere di essere appena arrivata a Roma, Gambetti, il pomeriggio che è venuta al Hassler, e invece era a Roma da giorni insieme a Spadolini, chissà.
Mia madre è capace di tutto. Spadolini la portava all’opera, Spadolini andava con lei a Napoli, Spadolini noleggiava un taxi per loro due, per andare con lei a Bari a trovare un comune amico, come so. Perché Spadolini, come Lei sa, è colui che più affascina tutte le donne, dinanzi al quale le ambasciatrici crollano a terra, si accalcano per baciargli la mano e guardarlo negli occhi, da sotto in su, con le ginocchia che tremano. E infatti sarebbe del tutto innaturale se un uomo simile andasse perduto per le cose terrene, avevo detto a Gambetti, ma che debba essere proprio mia madre la prescelta fra le centinaia di aspiranti al suo charme ineguagliabile, è una sventura. Io sono la menzogna, Gambetti, avevo detto a Gambetti, che rende possibile Spadolini. Ma mio padre, naturalmente, non ha soltanto sentore di questa liaison, avevo detto a Gambetti, ne è pienamente a conoscenza, solo che per lui non avrebbe alcun senso ribellarsi, mia madre può fare con mio padre quello che vuole. Non osava, tuttavia, andare apertamente a Roma da Spadolini, e così, con la massima disinvoltura, dovette usare me come pretesto, il figlio pazzo e megalomane che per mesi ha abitato al Hassler e che contro tutte le regole della decenza ha preso in affitto per anni, forse per decenni, una delle case più costose in piazza della Minerva, perché vuole avere la vista sul Pantheon a colazione. E io so che mia madre non sa che è innanzitutto con Spadolini che lei si incontra a Roma, avevo detto allora a Gambetti. La sua commedia è perfetta, quando si tratta di mentire a mio padre, avevo detto a Gambetti. Là raggiunge un’insuperabile maestria, degna degli artisti più consumati. Essendo venuta a Roma solo per Spadolini quella volta, pensai ora osservando la foto che la mostra con mio padre alla stazione Victoria di Londra, con me si annoiava tutto il tempo, perché tutto il tempo non aveva altro in testa che Spadolini. Ma la relazione fra i due non va imputata a Spadolini, va interamente imputata a mia madre. Non puoi mica lasciare soli i cacciatori, ora che è la stagione della caccia, quella sua frase detta da lei a mio padre mi sembra oggi, tanto tempo dopo quella sua visita romana, ancor più meschina di allora. Persino i cacciatori e alla fine anch’io avevamo dovuto fare la nostra parte, per renderle possibile Spadolini a Roma. Mentre pensava soltanto a ritrovarsi, il più presto possibile, con Spadolini, non si vergognava e aveva la faccia, come si usa dire, di mandare a mio padre ogni giorno una cartolina con Castel Sant’Angelo e il Pantheon e San Pietro, dunque le più insulse in assoluto, con frasi come: noi (vale a dire lei e io!) trascorriamo giorni molto belli a Roma eccetera e di farmi firmare quelle cartoline, così, credeva, aveva un alibi e una prova del fatto che era stata ogni giorno con me, con nessun altro. Era Spadolini il protagonista del suo soggiorno romano, di tutti i suoi soggiorni romani, Gambetti, non io. D’altra parte, Gambetti, avevo detto a Gambetti, non ci tengo affatto a essere il protagonista dei suoi soggiorni romani. La falsità di mia madre aveva raggiunto all’epoca un alto grado di spudoratezza, avevo detto a Gambetti e di quella frase, debbo confessarmelo, mi ero vergognato all’istante, sentii che con quell’osservazione avevo passato il segno, almeno agli occhi di Gambetti, come infatti avevo subito potuto dedurre dal suo modo di reagire alla mia osservazione. È troppo sensibile, avevo pensato allora, per non trovare fuori luogo, anzi francamente disgustosa quella mia osservazione, e non solo quella. Il maestro non deve palesarsi all’allievo in questa maniera disgustosa, avevo pensato, ma quella conclusione era arrivata troppo tardi. D’altra parte, avevo pensato, nei confronti del mio allievo Gambetti devo essere aperto. Aperto sì, ma non ignobile, mi ero subito corretto, aperto sì ma non meschino, aperto sì ma non volgare, aperto sì ma non infame. Ma Gambetti mi conosce da troppo tempo per non comprendermi, avevo poi pensato in risposta, e mi conosce già da tanto tempo e mi accetta, avrà le sue ragioni, avevo pensato. Quello di Spadolini e mia madre è un capitolo pericoloso, avevo detto a Gambetti, tornando a chiudere quel capitolo, e intanto camminavamo avanti e indietro sotto la casa di De Chirico, senza saper decidere se bere un tè nella sala da tè in piazza di Spagna, oppure sederci al Greco. Un acquazzone improvviso ci aveva poi costretti a cercar riparo al Greco, come tante altre volte, per seguitare il nostro colloquio, che in effetti aveva Pavese per argomento, non Spadolini e mia madre, ai quali mi aveva fatto pensare un’osservazione di Pavese nel Mestiere di vivere, il suo celebre libro, uno di quelli che per me più contano in assoluto, di cui allora avevo menzionato a Gambetti alcuni passi. Misi Pavese a confronto con Heine e spiegai a Gambetti la mia opinione. Non so più come da Pavese e Heine, gli amati, io sia arrivato a Spadolini e mia madre. Spadolini, com’è naturale, mi ha sempre taciuto i suoi incontri con mia madre a Roma, anche se vedo Spadolini molto spesso, e lo vedo volentieri e quasi tutte le settimane vado a trovarlo a casa sua oppure nei suoi uffici, lui non ha mai neppure lontanamente alluso al fatto di aver incontrato mia madre, l’ecclesiastico serbava il silenzio. Non sono sicuro che non sapesse comunque che sono informato dei suoi incontri con mia madre. Una volta ci siamo visti insieme, Spadolini, mia madre e io, e siamo andati su a Rocca di Papa, dove Spadolini ci ha invitati a pranzo, come sempre col suo modo di fare generoso. È uno dei migliori ospiti che io conosca. In quell’occasione a Rocca di Papa Spadolini e mia madre mi si rivelarono attori perfetti, nulla in loro, durante quel pranzo, tradiva il fatto che la sera prima si fossero incontrati per tutta una notte, né il fatto che avessero già preso nuovi accordi per incontrarsi quella sera. La mia posizione fra i due bugiardi e ipocriti, fra la madre bugiarda e l’ecclesiastico ipocrita, non era gradevole, come si può immaginare. Ma me la sono cavata lo stesso, avevo fatto finta di nulla, mi comportai come se riguardo a loro due io fossi totalmente ignaro. Mia madre congedò Spadolini a Rocca di Papa come se dovesse vederlo per l’ultima volta, quando invece aveva già fissato con lui un incontro per la sera. Spadolini tornò a Roma in taxi, altrettanto facemmo io e mia madre, quel viaggio separato, un’auto dietro l’altra, mi parve uno spettacolo penoso e grottesco, che mi rese evidente l’intera situazione proprio perché era inscenato in maniera perfetta, non so dire da chi dei due con abilità maggiore, se da Spadolini o da mia madre. Posso però supporre che, come sempre in situazioni analoghe, mia madre sia stata la più scaltra. Spadolini è soltanto l’esecutore, da lei manovrato, della sua arte dissimulatoria, avevo pensato, avevo detto a Gambetti. È per me il più penoso dei pensieri, Gambetti, dover dire a me stesso che il principe della Chiesa è il supino cascamorto di mia madre, come Lei può immaginare. Com’è naturale, il mio rapporto con Spadolini, per via del legame con mia madre, è arduo, ma io, naturalmente, non rinuncerò mai a quel rapporto, anche se venisse sottoposto a una prova ancora più dura, perché non voglio fare a meno di una persona come Spadolini. Vado volentieri a fargli visita e sono felice della sua presenza a Roma. Non conosciamo molte persone che possiamo incontrare con maggior interesse e con maggior fascino, quando ne abbiamo bisogno. Perché senza dubbio Spadolini è una delle poche persone di pensiero che io abbia a Roma. E una persona d’intelletto non fa a meno di un uomo simile. No, davvero, Gambetti, gli avevo detto, riguardo a Spadolini non mi faccio il minimo scrupolo. Solo non concedo a mia madre di averlo, Gambetti, lei non merita uno come Spadolini. Loro due chiamano amicizia, dissi scoppiando a ridere, ciò che invece è solo un’abietta, ma al tempo stesso fin troppo ridicola relazione, avevo detto a Gambetti. In effetti le fotografie non dissimulano nulla, non coprono nulla, rendono palese, spietato, quanto coloro che vi sono ritratti vorrebbero dissimulare e nascondere per tutta la vita, pensai seguitando a osservare le foto. Quel che in esse è deformato, menzognero, è la verità, pensai. L’assoluta calunnia in esse è la verità. Se coloro che nelle foto sono ritratti, ripresi, come si usa dire, sono morti, non per questo sono migliori. Millenovecentotrentuno a Londra, mi dissi, allora i miei genitori erano ancora dei giovani, come si usa dire. Viaggiavano. Non avevano ancora figli. Per anni mia madre si è rifiutata di avere figli, finché suo marito non l’ha costretta ad avere figli. Pretese da lei almeno un erede. Wolfsegg doveva avere un erede. Quando mise al mondo Johannes, pare lei abbia giurato: mai più figli. Ma già un anno più tardi ero venuto al mondo io, incarnazione del difficile, del demoniaco, del funesto. Non mi voleva, come ho sempre sentito dire, mi rifiutava. Ma aveva dovuto partorirmi. Partorire colui che le avrebbe portato sciagure, come diceva tanto spesso, anche in faccia a me, in tutte le possibili occasioni, che non si possono neanche più contare. Ma neppure delle mie sorelle, che vennero dopo di me, era stata felice, non era mai stata ciò che in generale si definisce una madre felice, ammesso che una tale madre felice esista. L’erede era stato accettato, io non ero mai stato veramente accettato, ero riconosciuto in quanto suo facente funzione, non per altro, per tutta la vita ho dovuto sentirmi il sostituto di Johannes e mi è stato fatto capire che ero soltanto il sostituto erede, generato per così dire in vista di una necessità estrema, come so, una sera d’estate nella villa dei bambini. Controvoglia, come mia madre mi ha detto spesso. Nel fervore della lotta, per così dire, a metà agosto. Pare che mia madre sia andata a Wels da un internista con il proposito di liberarsi di me grazie al suo aiuto, ma l’internista ha rifiutato perché era pericoloso per la vita di mia madre. Il cosiddetto aborto non era ancora tanto semplice, a quei tempi, avveniva sempre, in effetti, a rischio della vita. Così lei si era rassegnata al suo destino. Per tutta la vita mi ha considerato importuno e mi ha anche sempre e soltanto presentato come importuno, quale che ne fosse l’occasione, spesso mi definiva anche il figlio più inutile che si possa immaginare. Io, certo, avevo cercato rifugio presso i nonni, quelli materni a Wels, quelli paterni nella stessa Wolfsegg, ma rimasi sempre colui che non era al suo posto in nessun luogo. Questo rese la mia educazione effettivamente impossibile, mi distrusse quasi nei primi anni di vita, mi annientò quasi verso i diciotto o diciannove anni. Posso dire che nessun altro mi ha salvato alla fine se non mio zio Georg, che si è preso cura di me nell’istante in cui mi ero sentito completamente abbandonato da tutti. Il sostituto erede era sempre stato piuttosto indifferente a tutti. Guardavano a Johannes, di me non si curavano. Il nostro Johannes! si diceva sempre nelle circostanze felici, il mio nome non gliel’ho mai sentito pronunciare se non in relazione a qualcosa di repellente. A render completa la sventura è arrivato poi anche il nazionalsocialismo, per il quale i miei avevano mostrato la più grande inclinazione. Il nazionalsocialismo rispondeva alla loro indole in tutto e per tutto, in esso avevano per così dire scoperto se stessi. Accanto al loro grande, ma quasi sempre, tuttavia, soltanto buon Dio, ebbero d’improvviso anche il grande Führer. Sebbene, quando sono arrivato per così dire all’età della ragione, appartenesse da tempo al passato, avevo ancora fatto in tempo a risentire del nazionalsocialismo, con le peggiori conseguenze. Il nazionalsocialismo dei miei genitori, infatti, non era finito con la fine del nazionalsocialismo; poiché era loro connaturato, i miei continuarono a coltivarlo dopo la fine dell’èra nazionalsocialista, esso, come il loro cattolicesimo, non era effettivamente altro che la loro stessa vita, e non potevano farcela, né sopravvivere senza. Così, sebbene l’èra nazionalsocialista fosse da tempo passata, ero stato tuttavia educato secondo princìpi nazionalsocialisti, e al contempo cattolici, dunque con un metodo austriaco ibrido e coercitivo che ebbe effetti crudeli e spaventosi sull’adolescente che ero. L’elemento cattolico-nazionalsocialista, i metodi educativi cattolico-nazionalsocialisti sono però normali in Austria, consueti, i più largamente diffusi e dunque producono dappertutto, senza ostacoli, effetti devastanti e crudeli su un intero popolo in definitiva nazionalsocialista-cattolico. In Austria dominano senza alcun limite metodi educativi nazionalsocialisti-cattolici, chiunque affermi altro è un bugiardo e insieme un ignorante, e anche le leggi di quel paese sono nazionalsocialiste-cattoliche e null’altro, tali da innescare un meccanismo dagli effetti devastanti e annichilenti. Questa è la verità austriaca. L’individuo austriaco è, per sua natura, nazionalsocialista-cattolico in tutto e per tutto, qualsiasi cosa dica in sua difesa. Cattolicesimo e nazionalsocialismo si sono sempre bilanciati in quel popolo e in quel paese, che è stato ora più nazionalsocialista, ora più cattolico, ma mai una sola delle due cose. La testa austriaca pensa sempre soltanto in maniera nazionalsocialista-cattolica. Anche i pensatori austriaci hanno sempre pensato così, con una simile rivoltante testa nazionalsocialista-cattolica. Se usciamo in strada a Vienna, non vediamo altro, in definitiva, che nazionalsocialisti e cattolici, i quali si mostrano ora più nazionalsocialisti, ora più cattolici, ma di solito le due cose insieme, ed è questo che, incontrandoli e osservandoli meglio e studiandoli con maggior attenzione, li rende in definitiva così repellenti, che noi lo si voglia o meno, avevo detto a Gambetti. Se leggiamo qualcosa sui giornali austriaci, è o cattolico o nazionalsocialista, questa, dobbiamo dirlo, è la natura austriaca, avevo detto a Gambetti, due volte bugiarda, due volte meschina, due volte contraria allo spirito, Gambetti, gli avevo detto. Se parliamo per qualche tempo con un austriaco, abbiamo ben presto l’impressione di parlare con un cattolico, non con una persona libera, indipendente, Gambetti, oppure abbiamo l’impressione di parlare con un nazionalsocialista e infine l’impressione di parlare con uno che è cattolico-nazionalsocialista in tutto e per tutto, che ben presto ci risulta repellente. Questo spirito cattolico-nazionalsocialista, se proprio sono costretto, non potendo fare altrimenti, a esporre in questo contesto la parola spirito a una simile ingiuria, avevo detto a Gambetti, ha sempre regnato a Wolfsegg e sempre vi regnerà. Mio fratello Johannes è partecipe dello stesso spirito, come le mie sorelle del resto, ma queste, è ovvio, in modo stupido e insolente, a differenza di mio fratello Johannes che, come nostro padre, ha coltivato più o meno per tutta la vita lo spirito cattolico-nazionalsocialista, che è di certo, come spesso ho ripetuto, lo spirito nefasto dell’Austria. Io mi sono sottratto a quello spirito, Gambetti, anche se per tutta la vita dovrò combattere questa battaglia, perché quello spirito è innato e degli spiriti innati o non ci si libera assolutamente più, oppure solo nella maniera più terribile, senza sosta, sì, ma mai definitivamente, com’è probabile, Gambetti. Ma la mia esistenza è la perpetua liberazione da quello spirito nefasto dell’Austria, avevo detto a Gambetti. Quello spirito, che è uno spirito nefasto, mina senza sosta le mie forze, avevo detto a Gambetti. Ma non appena noto in me o su di me quello spirito nefasto primordialmente austriaco, lo respingo anima e corpo. Nel millenovecentotrentuno, pensai osservando la fotografia dell’anno 1960 che mostra i miei genitori alla stazione Victoria di Londra, i miei genitori erano appena sposati e mia madre aveva ottenuto il suo trionfo, era per così dire giunta all’apice. Mio padre invece non aveva ancora ottenuto quel che voleva: l’erede. Gli uomini come mio padre non vogliono un figlio, vogliono un erede, e si sposano solo molto tardi con quell’unico obiettivo che realmente li domina, nella loro smania di un erede precipitano le nozze con una donna che conoscono solo da poco tempo e della quale non possono sapere quasi nulla. Quando l’erede viene al mondo, sono già piuttosto svigoriti e si possono definire vecchi. La madre dice a un uomo simile, ti regalo un erede, e intanto e in effetti gli porta via praticamente tutto. D’altra parte il padre novello ha la sensazione di aver adempiuto al dovere che per lui maggiormente contava. Una volta che c’è l’erede, la moglie non gli interessa più. Quasi tutto il tempo la punisce ignorandola e, quando è dell’umore giusto e lei gliene offre l’occasione, le rimprovera la sua meschinità, il fatto di aver sfruttato la sua generosità e di averlo sposato soltanto per mettere le mani sul suo patrimonio. Col tempo i due si rinfacciano a vicenda ogni cosa e si rendono la vita un inferno. Il matrimonio non si trasforma in stima e conforto reciproci e in convivenza disposta alla comprensione e infine piena di comprensione, ma a poco a poco viene da loro trasformato in un inferno. I due si sistemano in quell’inferno e infine si odiano. Di quell’odio reciproco riconoscono ben presto la necessità e ci convivono piuttosto bene per il resto della loro esistenza. Ma mentre mio padre nei confronti di mia madre col tempo si è ritirato in se stesso, lei si era guardata attorno, alla ricerca di un campo d’azione per le sue idee e passioni femminili tutt’altro che spente, alla ricerca appunto di uno Spadolini, mi dissi osservando la foto. Le circostanze più o meno infelici le avevano poi, invece, felicemente procurato addirittura un arcivescovo. Uno, per giunta, che oltre a un corpo invidiabilmente ben fatto ha anche una testa lucidissima. Quando con Spadolini è al culmine della felicità, lei gli dice mio nunzio, come so. La scena è di certo commovente, straziante, avevo detto a Gambetti. Ed ero furioso, come sempre quando tiro in ballo, per così dire, l’arduo Spadolini. È assurdo, mi dissi, insegniamo la letteratura tedesca e la poesia tedesca e, siccome siamo megalomani, per giunta anche la filosofia tedesca e pretendiamo di conoscere quella letteratura e quella poesia e quella filosofia o almeno di avere confidenza con essa, e in verità non siamo altro che una parte di quella canaglia di Wolfsegg, della quale abbiamo orrore ogni istante, quando ci pensiamo. Da quell’ignobile inferno di provincia che è Wolfsegg ce ne andiamo a Roma e parliamo con tutti di Schopenhauer e di Goethe e non ci vergogniamo. È un impulso affatto perverso, mi dissi, quello cui obbediamo. In effetti sto scomponendo e disgregando Wolfsegg e i miei, li sto annientando, estinguendo, e nel far ciò scompongo me stesso, mi disgrego, mi anniento, mi estinguo. Un pensiero, peraltro, avevo detto a Gambetti, che mi torna gradito, la mia autodisgregazione e autoestinzione. Non mi prefiggo altro, per tutta la vita. E se non mi sbaglio, questa autodisgregazione e autoestinzione mi riescono anche, Gambetti. In realtà non faccio altro che disgregarmi ed estinguermi, quando mi sveglio la mattina il mio primo pensiero è di farlo, di accingermi con risolutezza alla mia disgregazione ed estinzione. I nostri genitori ci hanno portati da bambini sempre e soltanto sull’orlo dell’abisso, senza mostrarci veramente l’abisso, non ci lasciavano guardare giù, al momento decisivo ci tiravano sempre indietro, cercarono sempre di portarci soltanto e sempre sull’orlo degli abissi, senza mostrarceli, e questo ci ha rovinato. Così agiscono miliardi di genitori, avevo detto a Gambetti. Ora cambiai la posizione delle foto, misi quella che ritrae mio fratello in barca a vela sopra quella che ritrae i miei genitori, e sotto questa quella delle mie sorelle. Quella volta erano venute a Cannes con l’intenzione di spillare denaro al loro e mio zio Georg per un viaggio in America che avevano in progetto, e per il quale i miei genitori non avevano dato loro un centesimo, giudicando un tale viaggio assolutamente superfluo per le mie sorelle.
A Cannes avevano fatto di tutto per alleggerire mio zio della somma necessaria al loro viaggio. Ma dopo due settimane si erano arrese, mio zio non aveva dato loro un centesimo, anche lui era dell’avviso che il denaro dato alle mie sorelle per un viaggio in America fosse denaro buttato dalla finestra. Da allora le mie sorelle presero a odiare lo zio Georg di un odio ancor maggiore di prima. Benché a Nizza lui le abbia trattate con grande generosità, come so, le abbia portate nei locali più costosi, abbia comprato loro molti vestiti, braccialetti, collane eccetera. Ma mio zio Georg ne aveva capito le intenzioni. E del resto non a loro è venuto in mente di andare a Cannes dallo zio Georg al fine di carpirgli il denaro per l’America, bensì, come so, a mia madre. Fu lei a mandare le sue figlie a Cannes con un intento meschino, invano. La forza propulsiva del male, debbo dirmi, è sempre stata mia madre, avevo detto a Gambetti. Il male a Wolfsegg, quando lo riconducevamo alla sua origine, riconduceva sempre a nostra madre, lei ne era il punto di partenza. D’altra parte, avevo detto a Gambetti, non avrebbe alcun senso dichiararla colpevole, per assurdo che appaia lei non ne aveva colpa. Esattamente come è sempre stata l’origine di ogni male, ha anche sempre attirato il male. Chiunque venisse in contatto con lei era d’un tratto un malvagio, potrei dire, avevo detto a Gambetti, così anche di Spadolini ha fatto un malvagio, come di me, di mio fratello eccetera. E naturalmente di mio padre, che in origine non era un malvagio, uno sciocco sì, debbo dire, ma non malvagio. Una persona come mia madre rende malvagia una famiglia che non è mai stata malvagia, rende malvagia una casa che non è mai stata malvagia, Gambetti. Ma non avrebbe alcun senso voler addossare a lei sola la colpa di quel male, come facciamo noi perché non abbiamo altra scelta, perché pensare altrimenti ci risulta troppo difficile, troppo complicato, semplicemente impossibile; noi semplifichiamo la cosa e diciamo è una persona malvagia, nostra madre, e ne abbiamo fatto un pensiero che dura tutta la vita. Esposti al contagio di quella donna, tutti siamo diventati malvagi, avevo detto a Gambetti. L’aspetto senza dubbio commovente delle foto che avevo dinanzi non mi preservava, neppure adesso che erano morti, dall’accusare i miei genitori, dall’avversarli nella maniera più rozza. Anzi, d’un tratto mi venne addirittura il pensiero che i miei genitori, alla loro maniera meschina, mi avessero lasciato e lasciato solo in tutta consapevolezza. Ma distrussi all’istante quel pensiero, perché nel momento stesso in cui l’avevo pensato mi era parso del tutto privo di senso. Le madri sono le responsabili, avevo detto d’improvviso a Gambetti, camminando con lui per il Corso qualche giorno prima della mia partenza per Wolfsegg, dominato ormai interamente e soltanto da Wolfsegg, dalla situazione, che là mi attendeva, di un cosiddetto matrimonio di mia sorella con un fabbricante di tappi per bottiglie da vino, da Wolfsegg che ogni volta, ancor prima che partissi da Roma, mi serrava la gola in una morsa, le madri soltanto sono le responsabili e proprio loro, quando sono madri, si sottraggono quasi interamente a quella responsabilità e riversano tutto sul mondo che le circonda. Le madri sono le responsabili, ma non vengono mai chiamate a render conto delle loro responsabilità, quando sarebbe necessario, perché il mondo che le circonda ha delle madri, da millenni, un’opinione così alta, inestirpabile, positiva. Perché? avevo chiesto a Gambetti, perché? Le madri gettano i loro figli nel mondo, e sul mondo fanno ricadere la responsabilità di ciò e di tutte le conseguenze che quei figli comportano, mentre loro stesse dovrebbero assumersi la responsabilità, e invece non se l’assumono. Le madri si tirano indietro dinanzi a ogni responsabilità riguardante i figli che gettano nel mondo, questa è la verità, Gambetti. Ciò che dico vale per gran parte, per la maggior parte delle madri. Ma come sono solo a pensarla così. Pensieri simili possiamo pensarli in segreto, ma non esprimerli, Gambetti, tenerli per noi, ma non renderli pubblici, dobbiamo più o meno lasciare che ci soffochino in un mondo che a quei pensieri reagisce a modo suo, ossia con orrore. Uno scritto, Gambetti, che intitolassi Le madri e che poi pubblicassi, avrebbe la sola conseguenza di farmi dichiarar bugiardo o pazzo o entrambe le cose insieme. Il mondo non sopporterebbe un tale scritto da me redatto e pubblicato, abituato com’è solo alla menzogna e all’ipocrisia e non ai fatti. In verità in questo mondo i fatti vengono ignorati e gli ideali fantastici proclamati fatti, perché questo è politicamente più utile e gradevole del contrario, Gambetti. Il telegramma non mi ha scosso, come si usa dire, mi ha fatto passare per la testa, a poco a poco, le conseguenze che comporterà, com’è naturale, ma conservavo la mente sgombra che avevo quando lessi il telegramma per la prima volta. Anche dopo che lo ebbi letto per la seconda e per la terza volta le mie mani non tremarono, non una scossa mi attraversò il corpo, dopo ore non tremavano, le mie mani, non una scossa lo attraversava, il mio corpo. Con grande calma osservai la mia casa, che negli ultimi anni ho arredato secondo il mio gusto e interamente secondo il mio spirito. Mi sono abituato all’ampiezza di questa casa, l’ho resa per così dire ideale per i miei fini. Questa casa la devi a Zacchi, ho pensato, che abita nel suo palazzo di fronte a casa mia. Qui nella tua casa è il tuo centro, e qui rimarrà. Non rinuncerai più a questo centro di te stesso, farai di tutto per non dovervi mai rinunciare. Nulla ti porterà lontano e via da Roma e indietro a Wolfsegg. Mi alzai e andai alla finestra. Piazza della Minerva era quieta come non mai, due, tre persone, null’altro, era insolito a quell’ora, le cinque del pomeriggio. Avevo chiuso le persiane, oscurando quasi completamente la mia casa, è così, in quella casa pressoché completamente oscurata, che più mi piace trattenermi, che ho i pensieri migliori. Parto per Wolfsegg questa sera stessa, col treno della notte, pensavo un istante, parto solo domattina presto, pensavo poi invece, parto subito col treno, pensavo ora, parto solo domani mattina presto con il primo aereo, pensavo poi, ma, sempre camminando con calma avanti e indietro, continuavo solo a pensare e a ripensare come tornare a Wolfsegg. Mi figuravo come e in che maniera le mie sorelle già mi attendessero, le lascio nell’incertezza riguardo al mio arrivo, pensai. Scendo a telefonare, pensavo, e mi avviavo davvero verso la porta per scendere, ma quando ero alla porta me ne allontanavo e tornavo alla finestra e viceversa, dozzine di volte, forse centinaia di volte andai alla porta e tornai indietro, non so più esattamente quante volte, ma ero andato alla finestra e tornato alla porta più di qualche volta soltanto, più di qualche dozzina di volte soltanto. Mi risedetti alla scrivania, come d’abitudine verso quell’ora, ma non per dedicarmi al mio lavoro, per prendere i miei appunti, per preparare, soprattutto, le mie lezioni con Gambetti, bensì per guardare di nuovo le fotografie, che avevo ancora sulla scrivania. Non avvertivo il minimo bisogno di mettermi in contatto con qualcuno, volevo essere assolutamente solo, molto semplicemente non avvertivo alcun bisogno di comunicazione, ed era anche necessario, ora, che restassi solo con la notizia della loro morte, e chi mai, avevo pensato, dovrei avvertire della morte dei miei genitori, e come e in che maniera, l’una o l’altra persona mi venne in mente, l’uno o l’altro nome avevo anche preso in considerazione, l’uno o l’altro numero di telefono ebbi in testa d’improvviso, ma ogni volta avevo abbandonato l’idea di comunicare a qualcuno la notizia della loro morte, forse a Gambetti, pensai, forse a Zacchi, forse a Maria, la mia poetessa, che abita vicino a via Condotti e con cui quella sera avevo appuntamento a cena. Da quando sono a Roma mi sono incontrato regolarmente con Maria, la sola donna con cui io abbia davvero coltivato i rapporti, la sola da cui per tutto il tempo, ogni settimana, io abbia avvertito il bisogno di andare, vai da quella donna intelligente, ho sempre pensato, fantasiosa, grande, perché non ho mai dubitato un istante che ciò che scrive sia davvero grande, sempre assai più grande di qualsiasi altra opera di qualsiasi altra poetessa. A lei innanzitutto debbo telefonare e dire perché non se ne farà nulla del nostro appuntamento, perché io debba tornare a Wolfsegg, che le ho descritto sempre e soltanto come la Wolfsegg maledetta, a me letale. Maria non conosce altra Wolfsegg che quella a me letale, da me maledetta, così come Gambetti non ne conosce altra, neppure Zacchi ne conosce altra, neppure tutti gli altri con cui mi incontro a Roma, con tutti loro ho parlato sempre e soltanto di una Wolfsegg maledetta e a me letale, dell’inferno di provincia di Wolfsegg. Telefonare a Maria, telefonare a Zacchi, telefonare a Gambetti, pensai, e tornai a sedermi alla scrivania. Non portarsi nulla appresso, a Wolfsegg, pensai. Restare calmi. Telefonare alle mie sorelle, pensai. Dare loro comunicazione del mio arrivo. Ma prima devo saperlo io stesso, quando parto, e non lo so ancora. Ma non riuscivo a risolvermi, non arrivavo a nessuna decisione definitiva. Se scioperano le ferrovie vado in aereo, mi dissi, se scioperano le compagnie aeree vado in treno, ma col treno devo partire già questa notte, con l’aereo domani mattina alle cinque. Non mi era mai capitato, dopo i precedenti ritorni da Wolfsegg, di ripensare a Wolfsegg con tanto orrore e di giurarmi che a Wolfsegg non sarei tornato per un pezzo. Ora dovevo tornare all’istante. Mi venne in mente il nostro avvocato di Wels, l’avvocato di mio padre, che ha lo studio nel Franz Josefsplatz, studio che ogni volta, appena ci mettevo piede, trovavo repellente. Vidi d’improvviso la moglie dell’avvocato, altrettanto repellente. Vidi il nostro medico di Wels, repellente. Sua moglie, repellente. In una luce repellente vidi la città di Wels e, al seguito, tutte le cittadine circostanti. Vidi Vöcklabruck, repellente, vidi Gmunden, repellente. Quella gente terribile nei suoi pesanti, nauseabondi cappotti invernali, pensai, con in testa i suoi cappelli privi di gusto, le pesanti, massicce scarpe ai piedi. Vidi la piazza del mercato di Wels e pensai, spaventosa, ripugnante, la piazza principale di Gmunden e pensai, repellente. Quando parliamo con la gente di quei luoghi repellenti, tutto il mondo, ai nostri occhi, non è altro che repellente. Ma se viviamo in quella regione, abbiamo a che fare di continuo con quegli individui repellenti, ho pensato, non sfuggiamo loro, loro sono la regola. Sopporto il loro modo di parlare tanto poco quanto il loro abbigliamento, non sopporto quel che pensano, quel che mettono in mostra, quel che hanno fatto e quel che si prefiggono di fare. Quel che dicono è contro di me, quel che fanno è contro di me. Non sopporto, molto semplicemente, il loro modo di vivere cattolico-nazionalsocialista, non sopporto la loro inflessione, non solo quel che dicono, non sopporto neppure come dicono quel che dicono. Quando li osservo, non riesco a provare per loro i sentimenti che gli sono dovuti, bensì solo i più ingiusti, mi dissi, probabilmente soffro di un’avversione morbosa nei confronti di Wolfsegg, nel mio modo di osservare sono ingiusto verso di loro, sono spietatamente ingiusto verso di loro e verso tutto ciò che li riguarda, quando li osservo ne ho semplicemente orrore, mi sento male. A che servono le belle vie di quelle cittadine, se sono popolate da individui ripugnanti, pensai, a che mi servono le belle piazze, se in esse stanno in giro a far nulla individui più o meno orribili. Da moltissimo tempo, ormai, non riesco più ad aver comprensione per loro. Li disprezzo, li odio, al contempo sono consapevole della mia spaventosa ingiustizia nei loro confronti. Ma non posso e non voglio farmi benvolere da tutti quegli individui, non voglio mischiarmi a quella genia e quindi farmi benvolere, mi dissi, non posso più tornare da loro e nella loro genia. Non posso più entrare nei loro ridicoli negozi, non posso più andare nei loro uffici fetidi, non posso più metter piede nelle loro gelide chiese tutte addobbate con ipocrisia. Quei medici mi hanno rovinato, quegli avvocati mi hanno imbrogliato, quei preti mi hanno mentito, tutti quegli individui mi hanno deluso nella maniera più ripugnante e umiliato nella mia fede in loro, non posso più comparirgli davanti, pensai, non mi sono più tollerabili e nulla potrà più rendermeli tollerabili. Tutti quegli individui odiano ciò che io amo, disprezzano ciò che io stimo, a loro piace ciò che a me non piace. L’aria stessa che respirano mi dà ormai soltanto la nausea. Ho amici in tutto il mondo, mi dissi, soltanto là dove in realtà dovrei essere a casa non ho mai avuto amici, se non fra i semplici e semplicissimi operai e minatori. In tutto il mondo ero sempre stato, almeno a tratti, immensamente felice, in molti luoghi l’uomo più contento e il più felice, anzi persino il più riconoscente, ma mai e poi mai là dove avrei dovuto esserlo. Non ti capiscono, non capiscono nulla, non capiscono assolutamente nulla, mi dissi. Non sanno stare al mondo, mi dissi. Vivono per lavorare, anziché lavorare per vivere. Sono meschini, sono ignobili, al contempo megalomani. Dicono buon giorno in maniera perversa, altrettanto perversamente buona sera, buona notte. Se pensi ai tuoi, ti senti male, se pensi agli altri, ti senti altrettanto male. Chi pensa così è malato, naturalmente, mi dissi, e mi resi conto all’istante di quanto fosse pericoloso il mio stato d’animo. Restare calmi, mi dissi, conservare la mente sgombra, calmi, assolutamente calmi. Ma non riuscivo a sottrarmi a quel pericoloso stato d’animo. Alla lettera, li sentivo dire: soffre di mania di persecuzione, lo dicono tutti, di una megalomania diversa dalla nostra, la sua megalomania. Sono loro che quando mi vedono si sentono male, lui dice buon giorno e loro lo trovano perverso, il modo in cui dice buona sera, buona notte, mi dissi ora. Il modo in cui si veste lo trovano altrettanto ripugnante, i suoi vestiti, i suoi cappelli, le sue scarpe, quel che dice, quel che pensa, quel che fa o non fa. Lo disprezzano come lui li disprezza, lo odiano come lui li odia. Il disprezzo di chi, l’odio di chi ha maggior legittimità? Non saprei dirlo, mi dissi. Mi alzai e andai alla finestra, perché non resistevo più alla scrivania, e guardai giù in piazza della Minerva. Zacchi aveva chiuso tutte le persiane, mi dissi, probabilmente non c’è neppure, probabilmente è da sua sorella a Palermo. Va a trovarla spesso. Una malattia ai reni la tiene rinchiusa in un ospedale specializzato appunto nelle cosiddette nefrosclerosi, in uno dei più bei paesaggi della Sicilia, ai piedi del Monte Pellegrino. Quando chiude tutte le persiane, vuol dire che è andato a Palermo da sua sorella, pensai. Ma farò tuttavia il tentativo di comunicargli la morte dei miei genitori, mi dissi. Stasera tardi, forse allora sarà di ritorno. Camminai per tutta la casa, dove lascio sempre tutte le porte aperte, spalancate il più possibile, per poter camminare avanti e indietro senza ostacoli, in questa maniera posso fare a meno, molto spesso, di scendere in strada per rigenerarmi, mi basta camminare diverse volte avanti e indietro per la mia casa. Sono stato io ad allontanarmi da Wolfsegg, mi dissi e attraversai la mia casa in una direzione. Lentamente mi stavo calmando. Sono stato io ad allontanarmi in tutta consapevolezza da Wolfsegg e dai miei. Ho deliberatamente rotto con Wolfsegg. Ho sempre offeso i miei genitori, infatti. Ho sempre fatto di tutto contro di loro, sempre fatto di tutto anche contro i miei fratelli, per offenderli. Non andavo troppo per il sottile nella scelta dei miei strumenti d’offesa. Molto spesso li ho screditati e resi ridicoli, quando non c’era proprio nulla, in loro, da screditare e da rendere ridicolo, mi dissi, e la mia mente tornò sgombra. Spesso ho accusato mio padre nella maniera più abietta in questioni dove non c’era nulla da accusare, ho mentito a mia madre, spesso l’ho anche resa ridicola davanti a tutti, l’ho screditata, l’ho colpita duramente con la mia superbia, dovetti dirmi ora. Ma tornai effettivamente a calmarmi, avevo effettivamente la mente sgombra. Mi sono separato dai miei in tutta consapevolezza, di fronte a loro mi sono privato, per colpa mia, per così dire, dei miei diritti, mi dissi, e presi a camminare nell’altra direzione. Sono tanti anni che non faccio ridipingere la casa, perché non sopporto più gli operai, mi dissi osservando le crepe sul soffitto. In un palazzo rinascimentale sono dovuto andare ad abitare, per sentirmi definitivamente solo, per portare a compimento la separazione da tutti, mi dissi, perché la verità è pur questa, che mi sono separato da tutti, non soltanto dai miei di Wolfsegg, Gambetti, Zacchi, Maria, la mia vita sociale si è ridotta a queste poche persone, e presto anche questa vita sociale ridotta cesserà di esistere, mi dissi, e ripresi a camminare in direzione inversa. Quando riusciamo a cogliere l’intera situazione, siamo d’un tratto completamente soli e non abbiamo neppure una persona, mi dissi. Avevo incrociato le mani dietro la schiena, un’abitudine che ho preso dal mio nonno paterno, mi dissi. In generale ho preso non solo molto, ma quasi tutto dal mio nonno paterno. Se mio zio Georg sapesse come sono solo in realtà, ora, d’un tratto. Desidero sempre, con ardore, la solitudine, ma quando sono solo sono il più infelice degli uomini. Non sopporto la solitudine e ne parlo in continuazione, predico la solitudine e la odio dal profondo, perché rende infelici come nessun’altra cosa, come so, e già ora comincio ad accorgermene, predico la solitudine per esempio a Gambetti e so benissimo che la solitudine è il più tremendo dei castighi. Dico a Gambetti, Gambetti, il bene più alto è la solitudine, perché mi atteggio a suo filosofo, ma so benissimo che la solitudine è il più tremendo dei castighi. Soltanto un pazzo fa l’elogio della solitudine, ed essere completamente soli non significa altro, alla fine, che essere completamente pazzi, pensai, e ripresi a camminare in direzione inversa. La casa è tanto grande che non sono costretto, in essa, a sentirmi limitato o addirittura oppresso nei miei pensieri, dà ai miei pensieri la libertà che tutti i luoghi grandi mi danno di solito per i miei pensieri. Ne ho tenuto conto, quando nella mia megalomania ho preso la casa, perché è stata senza dubbio la mia megalomania a farmi prendere in affitto questa grande casa in piazza della Minerva a un prezzo in definitiva davvero inaudito, riguardo al quale non avrei mai dovuto lasciar trapelare nulla parlando con i miei, una volta avevo loro indicato una somma perché me l’avevano chiesto, ma non avevo indicato loro neppure la metà del prezzo, bensì una somma inventata di sana pianta, perché di fronte alla verità mi avrebbero dichiarato pazzo. È una delle case più convenienti di tutta Roma, avevo detto loro e poi mai più parlato con loro del prezzo della mia casa. In verità, però, anch’io ogni tanto avverto questa casa come un carcere, mi dissi, e ci cammino avanti e indietro come se camminassi avanti e indietro in un carcere. E infatti, spesso, definisco questa mia casa come il mio carcere del pensiero, ma solo fra me e me, mai quando parlo con qualcuno, per non essere sospettato di pazzia, perché di definire una casa carcere del pensiero può venire in mente soltanto a un pazzo, pensano di sicuro. Sedetti alla scrivania e osservai le fotografie che avevo già osservato per tutto il pomeriggio, contemplato, come mi corressi subito. Ora misi le foto l’una accanto all’altra e mi dissi che non in questo modo possono venir giudicati coloro che vi sono ritratti. Non in quanto persone fotografate. Misi le fotografie una sopra l’altra, in modo tale che la foto dei miei genitori, che li mostra alla stazione Victoria di Londra proprio nell’atto di salire sul treno per Dover, copriva le altre due. Avevo desiderato il contrario, ma ora essi mi facevano la medesima impressione comica e ridicola di prima. Riposi le fotografie nel cassetto della scrivania e decisi di telefonare ai miei amici, come si usa dire, e partire da Roma con il primo aereo del mattino, verso casa. Le mie dita non tremarono, non una scossa attraversò il mio corpo. Avevo la mente perfettamente sgombra. Cosa significasse il telegramma, lo sapevo.
IL TESTAMENTO
Il mio arrivo a Wolfsegg era stato quell’arrivo non appariscente, a sorpresa, che non mi hanno mai perdonato, perché, invece di salire subito da loro, sono sceso prima in paese, nel luogo in cui ero sicuro di passare assolutamente inosservato; all’ingresso del paese, dove la strada maestra si biforca verso le miniere, nei pressi della scuola, accanto alla cosiddetta colonna della Vergine chiesi all’autista di fermarsi, di farmi scendere, ed ero riuscito ad attraversare tutta la piazza del villaggio senza incontrare nessuno; mi era parso che tutti si fossero ritirati nelle loro case e dimore, come se non volessero mostrarsi, ora che i miei genitori, come supponevo, erano lassù a Wolfsegg composti nella bara insieme a mio fratello, come se tutto il paese fosse effettivamente in lutto, avevo pensato, senza considerare che intorno a mezzogiorno il paese è vuoto anche in normalissimi giorni feriali. Per nessuna ragione ero voluto salire a Wolfsegg, naturalmente l’autista mi aveva riconosciuto, già alla stazione, già ad Attnang-Puchheim, dove ero sceso dal treno e, attraversando i marciapiedi, ero subito andato verso il taxi, mi era parso che la gente mi riconoscesse, ma mi sono sottratto ai loro sguardi con passi più veloci del solito, e mi sono subito diretto verso il taxi e ho detto che volevo andare a Wolfsegg il più rapidamente possibile. Ma durante il viaggio non avevo pensato a Wolfsegg, verso la quale mi dirigevo, bensì a Roma, che avevo lasciato all’alba, solo controvoglia sali questa strada verso Wolfsegg, avevo pensato, solo controvoglia sei qui, tutto il tempo, e invece attraversavo in taxi una delle più belle regioni che esistano, allontanandomi dalla zona prealpina alla volta del Hausruck, che è sempre stato per me il più piacevole e pacificante dei paesaggi, forse addirittura il più bello di tutti, se avessi mai potuto osservarlo senza i miei e senza Wolfsegg. In fondo attraversavo il mio paesaggio prediletto, le folte foreste presso Kien e Stocket, in direzione di Ottnang. Questa gente, mi dissi durante il viaggio, l’hai sempre amata, la gente semplice, semplicissima, i contadini e i minatori, gli artigiani, le famiglie degli albergatori, al contrario dei tuoi lassù a Wolfsegg, che fin da bambino hai sempre trovato spaventosi, e durante il viaggio mi chiesi perché io abbia sempre amato gli uni, i cosiddetti inferiori, perché vivono nella zona inferiore, al contrario dei miei in quella superiore, gli altri no, perché abbia sempre apprezzato gli uni, gli inferiori, a differenza dei miei lassù, che in fondo ho sempre disprezzato, se non addirittura sempre odiato, con gli uni, gli inferiori, ti sei sentito bene per tutta la vita, con gli altri, i miei, i superiori, sempre spaventosamente male, con gli uni, gli inferiori, a casa, con i miei, i superiori, mai, per non spingere oltre questo pensiero. Vedevo la bellezza del paesaggio che attraversavo, e pensai a quanto io ami la gente che là vive, soprattutto i minatori, mi dissi, li hai sempre amati, il loro modo di trattarti e come si son sempre comportati fra loro, alla fin fine sei pur cresciuto con loro, mi dissi, con loro sei andato a scuola, con loro hai condiviso interi decenni. Siccome ero assorto in quei pensieri riguardo al paesaggio e ai suoi abitanti, per tutto il tempo, cosa di cui però mi sono reso conto solo dopo essere sceso, non avevo rivolto la parola al conducente, che conoscevo di vista, come si usa dire, ma non sapevo come si chiamasse, né gliel’ho chiesto, mentre di solito chiedo sempre alla gente del luogo, fin dal principio, quale sia il suo nome, come si chiami, un’abitudine che mi ha insegnato mio zio Georg, grande conoscitore d’uomini e, debbo dire, grande amico degli uomini. Nessuno come mio zio Georg sapeva trattare così bene la gente, soprattutto le persone semplici e senza artificio. Da lui soltanto ho appreso come trattarle, come parlare, come intrattenermi con loro, stabilire fra loro e i miei pari un equilibrio tale da essere giusto per entrambe le parti. Mio zio andava d’accordo con i semplici più che con chiunque altro, li amava, lo stesso posso dire senz’altro di me. Sulla piazza del villaggio non c’era effettivamente anima viva, persino i gatti che di solito restano accoccolati nella calura del mezzogiorno erano spariti, io ero dunque potuto salire senza ostacoli, come credevo, effettivamente inosservato, per il mio cammino verso Wolfsegg. Le locande avevano tirato le tende, la vetrina del fornaio era vuota, il macellaio aveva calato la serranda, tutto faceva esattamente la triste impressione che ben s’adattava alla disgrazia da cui eravamo stati colpiti. A Roma avevo ancora detto a Zacchi, che effettivamente avevo rintracciato per telefono a Palermo, che non mi era facile dover tornare daccapo a Wolfsegg, ora, daccapo dopo tre giorni dalla mia partenza, avevo detto, proprio in quel tono inammissibile, pensavo, che ora non mi sarei dovuto permettere soprattutto con una persona come Zacchi, che non mi è certo così vicina come per esempio Maria o Gambetti, e sul mio cammino attraverso la piazza del villaggio rimpiansi, in generale, di aver telefonato a Zacchi, perché durante tutta la telefonata Zacchi mi era parso non mostrare troppa comprensione per la mia situazione, a differenza di Maria che mi aveva capito fino in fondo in ciascuno dei dettagli che le avevo raccontato, in tutte le mie asserzioni, seppure strane, che però, come lei probabilmente ha subito avvertito, erano precisamente le più caratteristiche della mia natura, anche a Gambetti avevo detto più del necessario e sono anche ricaduto subito in accuse all’indirizzo dei miei, senza aver poi modo di ritirarle subito, parlando con lui mi ero subito abbandonato, nella mia maniera incontrollata, ad accuse che sono io il primo a odiare, che però non riesco a impedirmi quando esigono di essere dette, torno all’inferno, avevo detto a Gambetti, già domattina alle cinque, spaventoso gli avevo anche detto, senza considerare, ovvero senza tener conto che quelle osservazioni erano perfettamente inutili e in fondo meschine e quanto meno inammissibili, inaudite nei confronti dei miei, in un momento in cui essi potevano esigere almeno il mio rispetto, ma non riesco a smentirmi mai, debbo mostrarmi così come sono, come mi hanno fatto appunto quei miei genitori, ho pensato sul mio cammino attraverso la piazza del villaggio. La gente che mi vede penserà, quest’uomo è sempre stato strano, innanzitutto e ancor prima di aver salutato i suoi su a Wolfsegg se ne va per la piazza del villaggio, l’insolente, il rinnegato, il non amato. Ma avevo subito pensato, in risposta, che la gente del villaggio non pensa di me quel che pensano i miei, che di me hanno sempre pensato così, contro di me in maniera altrettanto inaudita quanto io contro di loro, che quella gente, a differenza dei miei lassù che mi disprezzano, mi apprezza, a differenza dei miei lassù che più o meno mi odiano, mi ama. Gli abitanti del villaggio mi hanno sempre amato, come io ho amato loro, soprattutto i minatori, quasi tutti gli abitanti del villaggio sono minatori che lavoravano nelle nostre miniere di lignite e ci lavorano ancor oggi, seppure in numero ormai esiguo. Loro, gli abitanti del villaggio, sono sempre stati il mio solo conforto, mi dissi sul mio cammino attraverso la piazza del villaggio. Qui ho potuto dire ciò che ai miei non avevo mai potuto dire, ho potuto farmi capire, ho potuto, da bambino, dare sfogo al mio pianto. Mentre qui nel villaggio tutto si svolge nella maniera più naturale e con effettiva umanità, ho pensato sul mio cammino, tutto su a Wolfsegg si svolge per artificio, senza umanità, e mi chiesi come sia accaduto, quale ne sia la causa. Ma il tempo su quel cammino attraverso la piazza del villaggio era troppo breve per seguitare quel pensiero, un altro ne prese subito il posto: come e in quale disposizione d’animo troverò le mie sorelle? mi sono chiesto, e con un solo sguardo ho abbracciato da ovest a est tutto il paesaggio, ampio circa duecento chilometri, cosa che solo da qui è possibile, da nessun altro punto dell’Austria. Proprio nel luogo in cui mi sono sempre fermato perché è il migliore, in quella giornata senza nubi avevo rivisto d’un tratto tutto il paesaggio, e avevo respirato profondamente. Perché mai, mi sono chiesto in quell’istante, ci lasciamo sfigurare e distruggere una natura di tale magnificenza da persone che tutto hanno predisposto in sé a quell’unico fine, come crediamo. Sono arrivato al momento giusto, ho pensato e ho proseguito, in salita. Sembrava che tutto il paese fosse morto, perché continuavo a non sentir nulla. Di solito sentivo da tutte le finestre proprio quei rumori che attiravano l’attenzione sulle attività di coloro che vivono dietro le finestre, ora non sentivo nulla, e collegai anche quella circostanza alla nostra disgrazia. Tutti partecipano alla nostra disgrazia, pensai. Il viale in salita non l’ho percorso più lentamente, come sarebbe stato naturalissimo, ma più in fretta. Una curiosità sfacciata, di cui mi resi conto d’improvviso, mi spinse infine a salire di corsa su per il viale, ma anche a fermarmi dinanzi al grande portale del muro di cinta a ridosso della fattoria, attraverso i rami giganteschi dei due castagni ai lati del portale guardai fin dentro il parco e alla volta dell’orangerie, perché è nell’orangerie che, da che esiste memoria, sono sempre stati composti i morti di Wolfsegg. In effetti l’orangerie era aperta e, davanti, i giardinieri andavano su e giù con corone e mazzi di fiori. Decisi di non andare subito all’orangerie, non volevo ancora vedere i miei genitori morti e mio fratello morto. Approfittai di quel rinvio per sottoporre a un’osservazione più attenta quanto accadeva dinanzi all’orangerie, ne avevo ancora la possibilità perché non ero ancora stato scoperto, nessuno si era ancora accorto di me. I modi pacati dei giardinieri mi avevano colpito subito, di nuovo, la maniera in cui, senza parlare e con i loro gesti caratteristici, uscivano dalla fattoria ed entravano nell’orangerie portando le corone. Dalla scuderia di fronte trascinavano mastelli d’acqua fin dentro l’orangerie. Comparve un cacciatore, fece l’atto di entrare nell’orangerie, invece tornò indietro prima e sparì in direzione della fattoria. Io mi ero stretto al muro del portale, per avere un punto d’osservazione ancora più perfetto. Dobbiamo osservare la gente quando non sa di essere vittima di quella nostra osservazione, ho pensato. I giardinieri uscivano dalla fattoria ed entravano nell’orangerie, sempre con mazzi di fiori e corone, con mastelli d’acqua e assi di legno. Davanti all’orangerie erano disposti grandi mastelli di legno con cipressi e palme, anche un’agave, di quelle che nell’orangerie i giardinieri hanno sempre tirato su e coltivato con la cura più grande. Con quanta fatica vengono coltivate e vezzeggiate, qui al Nord, simili piante caratteristiche del Sud, ho pensato, stretto al muro, da un lato con la coscienza sporca, come si usa dire, dall’altro traendo da quel mio osservare un grandissimo piacere. Trovai la calma di osservare i giardinieri pensando che presto, probabilmente, mi sarebbe almeno capitata sotto gli occhi anche una delle mie sorelle o qualcun altro dei miei parenti, senza l’urgenza di dover subito vedere i miei genitori composti nella bara e mio fratello composto nella bara, come indubbiamente richiedeva la più elementare decenza. Ma forse avevo anche paura di vedere all’improvviso i miei non più vivi, ma ormai soltanto morti. Temevo i loro volti di morti, come ho temuto quelli da vivi, ora non temevo i loro volti di morti quanto quelli da vivi, ma li temevo e preferivo restare ancora qualche tempo in piedi stretto al muro anziché entrare semplicemente nel parco. L’aspetto teatrale di quanto stava accadendo all’orangerie mi si era palesato d’un tratto, sono spettatore in un teatro in cui recitano giardinieri con corone e mazzi di fiori. In questo teatro manca però il personaggio principale, ho pensato al contempo, e insieme, il vero spettacolo potrà cominciare soltanto quando entrerò in scena io, per così dire l’interprete principale accorso da Roma per questa tragedia. Ciò che vedo dal portale del muro di cinta, ho pensato, non sono altro che i preparativi per quello spettacolo, che sarò io, e nessun altro, a inaugurare. Tutta la scena e quella alle sue spalle, che ancora non avevo visto, ossia quella nella casa padronale, mi ricordarono allora i camerini in cui gli attori si preparano, si truccano, ripassano i loro dialoghi come io stesso facevo, perché io stesso mi sentivo come l’interprete principale che si prepara alla sua entrata in scena, ricorrendo a tutte le risorse immaginabili, per non dire scaltrezze, che ricapitola una volta ancora tutto quello che deve rappresentare e recitare, che rivede una volta ancora il copione, che mentalmente prova una volta ancora i suoi passi, mentre con calma osserva gli altri nei loro preparativi, che devono essere tutti preparativi segreti. Mi sorprese la calma con cui restavo in piedi addossato all’arco del portale, ricapitolando la mia parte per uno spettacolo che d’improvviso non mi è parso neppure nuovo, bensì già provato centinaia di volte, se non migliaia di volte. Conosco questo spettacolo da cima a fondo, ho pensato. Le parole da recitare non mi tormentavano, mi venivano da sole, i miei passi, i gesti delle mani erano studiati con tanta perfezione che non avevo neppure bisogno di riflettere su come eseguirli, come metterli compiutamente in risalto. Sono arrivato da Roma in qualità di interprete principale di questa tragedia, pensai, e non ho rinunciato al piacere di quel pensiero, non provai alcuna vergogna a quel pensiero. Saprò mettermi in scena, ho pensato, senza pensare, al contempo, sei una persona meschina che non prende atto dell’abiezione del momento. Questo spettacolo, in quanto tragedia, è vecchio di secoli, ho pensato, e tutto procede senza alcuno sforzo, l’interprete principale si meraviglierà di come funzioni bene, di come i suoi colleghi, dal canto loro, abbiano imparato e studiato bene la loro arte, perché non dubitavo che le mie sorelle e tutti gli altri che forse mi stavano aspettando, fossero a loro volta intenti a rivedere le loro parti, perché, come me, non hanno la minima voglia o anche soltanto l’intenzione di far brutta figura davanti al pubblico che poi comparirà, che viene chiamato corteo funebre, non sapendo il copione, non i passi, e incespicando, quando invece ero convinto che loro, esattamente come me, tenessero molto alla grande arte e non solo al puro dilettantismo e, come si sa, l’arte del funerale, specialmente in campagna, è la più alta arte drammatica che si possa immaginare, persino la gente più semplice mostra ai funerali una bravura che il più delle volte va classificata molto più in alto di quella dei nostri teatri, dove quasi sempre domina il puro dilettantismo. Le mie sorelle camminano avanti e indietro e provano questo funerale non solo come uno spettacolo, pensai, lo provano come una rappresentazione di gala, e il fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo, mi dissi, fa loro da assistente e intanto impara anche la sua parte, che dev’essere però una parte assolutamente secondaria, pensai. Camminano avanti e indietro e mi aspettano e provano la tragedia che tanto repentinamente è stata messa in cartellone a Wolfsegg, pensai. Domani ci sarà il funerale, pensai, è sempre tre giorni dopo la morte. Il sipario non si è ancora alzato. I costumi non gli vanno ancora del tutto bene, pensai, il copione, per così dire, non gli esce ancora di bocca liscio come l’olio. E cosa c’è di più bello di uno spettacolo in cui tutti i costumi sono neri, in cui domina solo il colore nero. E in cui anche le comparse del villaggio devono presentarsi solo in nero. Da tanto tempo a Wolfsegg non assistevamo più a questo spettacolo, l’ultima volta alla morte del mio nonno paterno, che a ottantanove anni è inciampato in una radice di pino nel bosco che dietro la villa dei bambini si estende fin verso Haag, ed è morto sul colpo. I miei erano sempre stati, per così dire, preparati a un funerale, avevano gli attrezzi di scena sempre a portata di mano, anche i relativi costumi, tutti i relativi oggetti, ma ci è voluto tanto, prima di poterli di nuovo utilizzare, ho pensato. Non hanno dovuto far altro che spolverare tutto, pensai. In effetti, come ora potevo vedere, su tutti i lati dell’edificio principale avevano messo fuori i drappi neri. I giardinieri eseguono gli ordini delle mie sorelle, più gli ordini di mia sorella Caecilia che quelli di Amalia, pensai, e al contempo, quale parte avranno intanto assegnato, quelle due, al fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo, cosa avrà lui da recitare quando lo spettacolo comincerà, pensai, che genere di copione gli avranno fatto mandare a memoria, perché, che ne avesse uno proprio, di questo dubitavo dopo il mio unico incontro con lui, il giorno delle nozze qualche giorno prima. Wolfsegg andava ora trasformata, assolutamente, da cerimonia di nozze in funerale, ho pensato restando in piedi addossato al muro del portale, ancora stupito, inoltre, del fatto che il viaggio da Roma, passando per Vienna, fosse avvenuto senza contrattempi e senza un secondo di ritardo, contro ogni regola, né i ferrovieri né le compagnie aeree hanno fatto sciopero, tutte le coincidenze hanno funzionato a meraviglia, le mie sorelle, ho pensato, certamente non hanno ancora riposto gli addobbi delle nozze che già debbono sistemare e disporre dappertutto gli addobbi del funerale, esattamente secondo quel piano che ben conoscono, perché mia madre, per così dire almeno due o tre volte l’anno, per il suo piacere, come diceva sempre, e perché non si può mai sapere, lo discuteva fin nei minimi dettagli, quel piano per il funerale, vecchio di secoli. Anche le nozze e le feste per le nascite si sono sempre svolte a Wolfsegg secondo un piano esattamente prestabilito, come si usa dire. Che nell’atrio, per esempio, a destra e a sinistra dietro le lampade, non si debba sistemare un solo ramo d’alloro dell’orangerie, bensì due nel caso di un funerale, che sopra sul balcone debbano stare due cipressi, uno tutto a sinistra, uno tutto a destra, e che quei cipressi ovviamente debbano essere di pari altezza, ma non di altezza tale da entrare dalle finestre della sala da pranzo, le mie sorelle lo sanno. Per ogni genere di celebrazione esiste a Wolfsegg un piano esatto, quei piani mia madre li ha sempre conservati nella sua scrivania, nel cassetto in alto a destra. Ha sempre proceduto secondo quei piani, come tutti prima di lei. L’esatto procedere secondo quei cosiddetti piani celebrativi non ha dovuto esserle imposto da mio padre, in brevissimo tempo lei ne ha fatto la sua personale passione. E i funerali sono sempre stati la passione di mia madre. Ma al suo, soprattutto al fatto che avrebbe avuto luogo tanto presto, certamente non ha pensato, mi dissi stando in piedi addossato al muro del portale, se potesse, pensai d’improvviso, si allestirebbe da sola il suo, e, senza vederle veramente, vidi le mie sorelle già intente a esaudire i desideri di mia madre riguardo al suo stesso funerale. In quell’istante avevo in testa la parola alacrità. Per chiunque altro sarebbe stato ovvio risalire il viale con il taxi fino in cima e, come si fa di solito, fin davanti il portale, per me no. Il tassista infatti, che mi aveva riconosciuto, si era sorpreso non poco nel vedermi scendere proprio in quel luogo nascosto accanto alla colonna della Vergine, fra le due locande. E che io abbia camminato da solo per il paese e attraverso la piazza del villaggio, non lo capirebbe nessuno, pensai. Ma avevo voluto avvicinarmi a Wolfsegg a piedi, e la piazza del villaggio completamente vuota aveva favorito il mio proposito in maniera ideale, non ho avuto soltanto la sensazione di passare del tutto inosservato, lo ero davvero, e in fondo non avevo bagaglio con me, cosa insolita se si considera che arrivavo da Roma, e proprio per quello, per il fatto che ero assolutamente senza bagaglio, potevo mettere tutti i momenti, senz’altro, le mani nelle tasche dei calzoni. Ed è così, con le mani nelle tasche dei calzoni, che avevo poi svoltato nel viale, con un’insolenza tanto inaudita che nessuno avrebbe capito, naturalmente neppure la gente del villaggio. Ho pur sempre quarantotto anni e arrivo da Roma, per giunta al funerale dei miei genitori e di mio fratello, e vado in giro con le mani nelle tasche dei calzoni! ho pensato e mi sono stretto al muro del portale per non farmi vedere dai giardinieri, che entravano di nuovo nell’orangerie con le corone portate fuori dalla fattoria. Una composizione delle salme è sempre un grande spettacolo, ho pensato, un’opera d’arte che nasce a poco a poco al tocco di molte mani che sanno come creare una simile opera d’arte. Che i miei stessi genitori e mio fratello fossero composti nell’orangerie, quel pensiero lo rimossi subito, non pensai alla tragedia, ma all’opera d’arte, alla grandiosità della composizione delle salme, non al suo effettivo orrore, come in questo caso.
Siccome sono sempre stato uno che contempla con attenzione e osserva con attenzione ancora maggiore, e di questo contemplare e osservare ho fatto ormai una delle mie massime virtù, era naturale per me stare in piedi addossato al muro del portale a contemplare e a osservare, inoltre, a quel fine, i giardinieri erano per me un soggetto ideale e oltremodo pacificante, li avevo sempre contemplati e osservati volentieri, anche di lì, in quegli istanti che con grandissima cura, debbo dire, ho dilatato nel tempo e ampliato e aumentato di centinaia, anzi in definitiva di migliaia. Il contemplare o osservare, quando il contemplato o l’osservato non sa di essere contemplato o osservato, è uno dei piaceri più grandi. Ma è al contempo, pensai, un’arte del tutto illecita, alla quale tuttavia non ci si può sottrarre, una volta che ci si è preso gusto. Di nuovo era comparso un cacciatore, uscendo dalla fattoria con un cosiddetto candelabro funebre, per consegnarlo a uno dei giardinieri, che era uscito dall’orangerie probabilmente proprio per prendere in consegna quel candelabro funebre, quei candelabri sono alti più di un metro e mezzo e vengono sistemati alle due estremità delle salme, in maniera tale da gettare su di esse una luce ideale, in tutto vengono sistemati quattro di quei candelabri funebri, che un tempo, molti anni fa, sono stati ridipinti con una vernice dorata, come ricordai, cosa che allora ha esercitato su di me un grande fascino, perché, piccolo com’ero, avevo pensato che venissero ridipinti e lucidati per un ben preciso funerale, di cui già si sapeva quale fosse, ma era stato un errore, perché dopo quella riverniciatura dei candelabri funebri erano trascorsi decenni sino al funerale successivo, che, come si è detto, è stato quello del mio nonno paterno. Quando, in una famiglia, per molto tempo non ci sono stati funerali, ci si aspetta che d’un tratto e d’improvviso ce ne saranno diversi, questa è l’opinione comune; e come si avverava ora a Wolfsegg, pensai, tre persone avevano trovato la morte insieme, vengono sepolte contemporaneamente, il che significa che poi avremo un altro lungo periodo di pace, perché lo si dice sempre, che le disgrazie non vengono mai sole, dunque anche i funerali mai soli, saranno sempre tre uno dopo l’altro come le disgrazie, ma così per un funerale sono morte direttamente tre persone in una volta, in maniera effettivamente elementare, ho pensato, una volta per tre volte. Dal paese, attraverso gli alberi e i cespugli già molto alti sul pendio, sentivo salire ora una musica per strumenti a fiato, un brano di Haydn, come constatai subito, probabilmente, pensai, giù in paese provano già la musica funebre per domani nella cosiddetta casa della musica, un vecchio edificio accanto alla scuola. La musica si era interrotta già dopo qualche battuta, e si instaurò un silenzio perfetto. Poi la musica aveva ripreso, daccapo, qualche battuta in più rispetto a prima, per fermarsi di nuovo, come accade di solito durante le prove, la musica riprese diverse volte e fece risuonare qualche battuta, sempre qualche battuta in più, e tornò a fermarsi. Sempre lo stesso brano di Haydn. Già da piccolissimo amavo la musica della gente del villaggio, la musica per strumenti a fiato soprattutto, e ho conservato quell’amore, che vorrei definire predilezione. Ancora oggi la pongo sullo stesso piano della cosiddetta grande musica, molto spesso anche assai più in alto, nella consapevolezza che la cosiddetta grande musica sarebbe inconcepibile senza la cosiddetta musica popolare, soprattutto quella che si suona in campagna alle nozze e ai funerali. Cosa sarebbero quei funerali e quelle nozze, senza quella musica. La gente di villaggio suona per lo più con orecchio assoluto, e quando è brava è quasi sempre, nel suonare, della stessa levatura dei cosiddetti orchestrali di professione, il suo vantaggio è che la sua musica non è professionale, che viene suonata solo ed esclusivamente per passione e predilezione, non per ragioni professionali e quindi, in definitiva, per malattia professionale, come sappiamo. Com’era diversa la musica di quella banda alle nozze di mia sorella, pensai, allegra, concisa e serrata nel ritmo era stata quella musica, malinconica, lenta è questa, ma anch’essa, come quella suonata alle nozze, è di Haydn, il musicista che accanto a Mozart giudico il più grande, che accanto a Mozart, infatti, ho sempre più amato ascoltare e che forse, proprio perché è sempre stato, nella storia della musica, in svantaggio rispetto all’amatissimo Mozart, va posto molto più in alto di questi. Amo Mozart e Haydn, ma Haydn è dei due il più grande, pensai. Quella musica di Haydn si confaceva all’atmosfera meridiana, allo scintillio tremolante dell’aria, ai movimenti dei giardinieri, che dalla fattoria di fronte portavano le loro corone e i loro mazzi di fiori, con cura uniforme, fin dentro l’orangerie, senza che nulla o nessuno li disturbasse. Mi ricordai di molti pomeriggi della mia infanzia, quando sentivo salire fino alla mia stanza la musica per strumenti a fiato del paese, esattamente quel brano ed esattamente gli stessi strumenti, come pensai e come potevo sentire dai suoni della banda. Ma mentre di solito sono soltanto i brani musicali semplici, quelli che suonano, pensai, ora suonano invece quelli più complicati, che nel complesso, come si usa dire, pretendono davvero molto dai suonatori, per Wolfsegg ci voleva la musica complicata, la cosiddetta musica superiore per le cosiddette personalità superiori, perché tali erano le salme composte nell’orangerie. Doveva essere stato uno shock per tutti, laggiù, quando in paese si era diffusa la notizia della morte dei miei. Wolfsegg non aveva mai vissuto, da che esiste memoria, un evento così straordinariamente spaventoso, pensai, e in quell’istante mi dispiacque non essere nelle case laggiù, per sentire cosa la gente dicesse della disgrazia, cosa ne pensasse, cosa provasse, e non poter partecipare, nelle sue case, al suo lutto senza dubbio perfettamente naturale. Mio padre lo rispettavano, anche se non lo amavano, pensai, alcuni lo amavano anche, mio fratello più o meno lo rispettavano e lo amavano tutti, è vero, mia madre la rispettavano ma non la amavano, così il loro lutto era pur sempre grande e certamente la disgrazia aveva avuto su di loro un effetto violento, come si può pensare, pensai. Ma cosa gli passerà realmente per la testa, pensai, senza potermi dare la benché minima risposta. Per secoli il paese è vissuto di noi lassù, pensai, ancor oggi esistono in gran parte grazie a noi, potrei dire, i minatori soprattutto, i mattonai, i cosiddetti braccianti, tutti in paese direttamente o indirettamente, più o meno grazie a Wolfsegg, intorno alla quale, un centinaio di metri più in basso, ancor oggi si raccolgono come se fosse del tutto naturale, come cercando rifugio. Un unico istante, mi dissi, cambia tutto in un paese come questo, in un paesaggio come questo. E in una famiglia come la mia, pensai. Ormai da tempo, mi dissi, restando in piedi addossato al muro del portale, faccio qualcosa che non si deve fare, almeno non secondo il generale concetto di decenza, rinvio la mia effettiva comparsa a Wolfsegg nella maniera più inaudita, pensai. Ma probabilmente ero troppo vile anche per entrare subito nel parco e per dirigermi almeno verso l’orangerie, se proprio non volevo varcarne subito la soglia, verso il portale, se proprio non volevo andare subito dai miei genitori composti nella bara e da mio fratello composto nella bara, cosa che molto semplicemente non mi sarebbe stata possibile, non ne avevo la forza, solo di stare in piedi addossato al muro del portale e di guardare attraverso il portale alla volta dell’orangerie, di questo ero capace, non di farmi riconoscere subito, questa è la verità. Non ho la spensieratezza che permette di entrare subito, per così dire senza storie, in una scena simile, indubbiamente spaventosa. Ma chi potrebbe dar prova di tanta forza, mi chiesi, e rimasi a osservare i giardinieri che su un carro trasportavano dalla fattoria una quantità di cavalletti di legno, per scaricarli davanti all’orangerie. Conosco i loro nomi, pensai osservando con insistenza i giardinieri intenti a scaricare. Conosco non solo i loro nomi, conosco anche le loro famiglie e so con esattezza da dove vengono, con uno di loro ho frequentato non solo la stessa scuola ma la stessa classe, e lui era sempre stato più bravo di me in tutte le materie, soprattutto in aritmetica, ma scriveva anche molto meglio di me, per questo però non ci voleva un artista. Uno di loro abita all’uscita del paese esattamente sul confine tra Wolfsegg e Ottnang, e suo padre era operaio del comune, pensai, becchino per giunta, quando io ero ancora piccolo, un uomo stimato che, contro ogni supposizione, perché era pur sempre il becchino, i bambini amavano molto, i bambini di campagna hanno sempre con la morte un rapporto naturale, a differenza dei bambini di città, che hanno paura di tutto quanto abbia a che fare con la morte, i bambini di campagna non hanno alcuna paura al riguardo. Un altro era destinato a diventar parroco, un tempo, e la parrocchia l’aveva mandato in seminario a Kremsmünster, ma là, lui che alle elementari era stato così eccellente da venir considerato il più dotato in assoluto, aveva fallito completamente ed era tornato a Wolfsegg per fare l’apprendista presso un falegname. Ma col tempo si è stancato della falegnameria e ha fatto domanda presso di noi per un posto da giardiniere. Dopo l’apprendistato da falegname ha portato a termine da noi anche un apprendistato da giardiniere ed è quindi falegname qualificato e al contempo giardiniere qualificato, mia madre parlava spesso di quel colpo di fortuna, era stata una sua mossa, di prendere a sue spese, provvedendo al vitto e all’alloggio, quell’uomo come apprendista giardiniere, così ha potuto risparmiarsi di assumere un falegname per Wolfsegg. Mia madre pensava sempre a tutto e in primo luogo alle cose pratiche e a tutti i vantaggi pratici, come si è dimostrato nel corso di decenni. Il terzo viene da una famiglia di minatori di Kohlgrube, anche lui veniva con me alle elementari ed è subito andato a fare l’apprendista giardiniere, non però da noi a Wolfsegg bensì a Vöcklabruck, dove ha una zia che lo ha preso con sé e gli ha dato di che vivere sino alla fine dell’apprendistato. Con questi tre giocavo quando eravamo bambini, pensai. Con loro ho corso per i boschi, lungo i pendii. Probabilmente le loro case sono rimaste le stesse di allora, pensai, a differenza delle altre case, che negli ultimi anni sono state tutte più o meno modificate e, come credo, sfigurate dai loro proprietari con mobili nuovi e moderni, che non valgono nulla e si rompono subito. A quei due invece non è mai importato nulla della modernità, sempre molto, al contrario, della qualità e per questa ragione le loro case, certamente, sono cambiate di poco. Ciascuno di loro ha tre figli, che hanno adesso la mia età di allora, pensai, e creano loro quei problemi che i bambini hanno di per sé, io non ho di quei problemi, mi dissi. Per chiunque altro, pensai, sarebbe stato facile avvicinarsi ai due giardinieri e stringere loro la mano, fermarsi qualche istante a conversare con loro, sebbene ne avessi il desiderio mi fu impossibile. Ho girato mezzo mondo, mi dissi osservando i giardinieri, e più o meno mi destreggio in quel mondo, e per quanto riguarda le forme della convivenza, inoltre, lo faccio con la massima naturalezza, per non dire maestria, in quel destreggiarmi ho raggiunto ovunque un alto grado di spontaneità, in quasi tutte le capitali del mondo e in tutti gli strati sociali, come si usa dire, ma ero incapace di avvicinarmi ai giardinieri, stringere loro la mano e conversare qualche istante con loro. Avrei dovuto avvicinarli subito, pensai, non appena ero arrivato al portale del muro di cinta e li avevo visti, perché quando ero arrivato al portale del muro di cinta loro erano già davanti all’orangerie, ma io non mi sono avvicinato loro con passo risoluto, come sarebbe stato meglio, ma, in effetti, mi sono ritratto con spavento dinanzi a loro e, più o meno preso dal timore e dalla vergogna, mi sono stretto al muro del portale, perché non mi vedessero. E invece sarebbe stato l’ideale, salutare per prima cosa i giardinieri, mi dissi. Ma quell’opportunità l’ho mancata, l’ho lasciata passare senza afferrarla. Fossero stati i cacciatori, pensai, ma proprio i giardinieri, dei quali ho grandissima stima e per i quali, come per nessun altro, provo non solo affetto ma amore. Ma questo ostinato sostare sul portale del muro di cinta è del resto caratteristico da parte mia, mi dissi, non sono una persona che entri subito in scena, poco importa quale, e che possa comparire in scena all’istante. L’esitazione è il mio modo d’essere, che mi spinge a ritrarmi prima in un punto d’osservazione favorevole. Molto semplicemente, mi si addicono i modi indiretti. Le famiglie dei giardinieri, al completo, sono invitate una volta l’anno nella villa dei bambini per una cosiddetta merenda dei giardinieri, questa merenda dei giardinieri è una tradizione secolare. I giardinieri salgono a Wolfsegg con le loro famiglie e vengono da noi rifocillati nella villa dei bambini, ai miei tempi sempre da mia madre e da mio padre. La merenda dei giardinieri è sempre stata una cosa particolare. Alla fine, ormai verso il crepuscolo, ai bambini dei giardinieri venivano distribuiti dei regali, non ricordo che anche noi, Johannes e io, abbiamo mai ricevuto dei regali in quella maniera, debbo dire, davvero commovente, là, infatti, mia madre era del tutto nel suo elemento, debbo dire, distribuiva i regali con calma e ognuno aveva la sensazione che fosse un suo vero, profondo desiderio, non una commedia, come tutto altrimenti. Probabilmente, questo il mio pensiero, il modo di vivere dei giardinieri esercitava persino su mia madre la sua influenza benigna, pensai, perché con i giardinieri e quindi durante la merenda dei giardinieri nella villa dei bambini era come trasformata, lontanissima da tutto ciò che in lei è sempre stato così ripugnante. Con i cacciatori trovavo mia madre sempre ripugnante, con i giardinieri no. I giardinieri di Wolfsegg avevano sempre esercitato un’influenza salutare. Non per nulla la prima cosa che ho fatto, non appena sono stato in grado di camminare, è stata di andare dai giardinieri. Anche a Roma, molto spesso, penso ai giardinieri, quando resto a letto sveglio senza riuscire ad addormentarmi, mi vedo fra loro, sempre in una felice disposizione d’animo. Come se mi fossi insinuato con l’inganno, così mi sentivo ora. Per così dire, i giardinieri che osservavo erano gli uomini puri, io l’impuro, e questo per tutta la vita. Pensai, mai più sarò al mio posto qui, e tanto meno uno di loro, e per tutta la vita non ho avuto desiderio più grande che di essere uno di loro, ma non è mai stato altro che un pensiero assurdo, effettivamente illecito, che solo un pazzo come me può permettersi. Per tutta la vita ho cercato le persone semplici, ho voluto legarmi a loro, ma, com’è naturale, non ci sono mai riuscito, qualche volta avevo pensato di avercela fatta, spesso avevo anche potuto protrarre nel tempo quell’errore, soprattutto quando ero in compagnia dei giardinieri e dei minatori, cui ho voluto bene fin dal principio, ma quel ragionamento fallace si risolveva ogni volta in maniera terribile. Quanto più i miei mi tenevano lontano dai cosiddetti semplici, tentavano di rendermeli intollerabili, tanto più grande era il mio desiderio nei loro confronti, per molti anni ho riscontrato in me un morboso bisogno di loro e, per quanto lo volessi, rendendomi conto che agire altrimenti è insensato, impossibile, non ho avuto la forza di liberarmi da quel bisogno morboso, ne soffro ancor oggi. Mentre i cosiddetti inferiori hanno sempre cercato di innalzarsi fino a noi, io ho sempre soltanto cercato di scendere fino a loro. Gli inferiori erano sempre stati infelici in quanto inferiori, io lo ero in quanto superiore, perché soffrivo del fatto di essere in alto così come quelli in basso di essere in basso. Per tutta la vita avevo voluto insinuarmi presso i semplici, che però sono soltanto dei cosiddetti semplici, pensai stando in piedi addossato al muro del portale, ho usato molti stratagemmi per gabbarli, ma loro hanno capito i miei intenti e mi hanno sbarrato la via, così come i miei hanno sbarrato la via ai cosiddetti inferiori, perché ne hanno capito gli intenti e quindi gli hanno sbarrato la via. Nella mia casa romana li raggiungo molto spesso, per così dire, con la fantasia, pensai stando in piedi addossato al muro del portale, mi mescolo a loro, comincio a parlare la loro lingua, a pensare i loro pensieri, ad assumere le loro abitudini, ma questo, com’è naturale, mi riesce soltanto in sogno, non nella realtà, è qualcosa di totalmente errato ciò con cui ho grandissima voglia di misurarmi. Io non sono semplice, debbo dirmi allora, loro non sono complicati, io non sono come loro, loro non sono come me, questa formula è diventata per me un tormento a vita, impossibile a eliminarsi. Quando definisco bugiardi i miei in quanto cosiddetti superiori, e i cosiddetti inferiori no, è uno sbaglio, perché alla loro maniera gli inferiori sono altrettanto bugiardi quanto i miei alla loro. Come se dicessi, gli inferiori sono brave persone, come se dicessi che non sono avidi, non megalomani, i semplici lo sono in misura eguale, alla loro maniera. Ma posso ben dire che fra e con i semplici mi sono sempre sentito meglio che fra i miei, anche se poi, quando mi rendevo conto di essere in errore al loro riguardo, sono sempre rabbrividito, anche nel tradimento che così facendo, senza dubbio, commettevo contro i miei e contro me stesso. Tradiamo senza sosta noi stessi, quando preferiamo gli altri, quando per così dire li rendiamo migliori di quanto in definitiva non siano, ho pensato. Facciamo un torto a loro, quando per così dire ci dichiariamo dei loro, e intanto facciamo un torto a noi stessi in maniera ben più ripugnante, perché facciamo un torto a noi in loro favore e contro di noi. Ma non ci riesce del tutto di restare noi stessi e di stare insieme a loro, solo così di rado ci riesce, in ogni caso, che non ci si può fare affidamento, che non conta nulla. Quando siamo insieme a loro ci spogliamo per lo più di tutto quanto ci connota, cosa che loro subito avvertono e di cui tengono conto a nostro danno, al che noi non abbiamo più la stessa sicurezza che avevamo nel momento in cui abbiamo iniziato il nostro gioco con loro, perché è sempre solo un gioco, null’altro, quando crediamo di dover essere loro perché provavamo per loro un desiderio struggente, perché non sopportiamo più noi stessi, e loro ci appaiono invece ideali. Questo errore a vita ci umilia a vita. I semplici non sono così semplici come si crede, e i complicati non così complicati. Dal muro del portale vidi ora i giardinieri uscire dalla fattoria ed entrare nell’orangerie portando grandi teli neri, i cosiddetti teli funebri, che vengono conservati nella fattoria in un’apposita camera mortuaria, per la composizione delle salme. Ricordo di aver già visto un’altra volta esattamente la stessa scena: i giardinieri, diversi da quelli che vedevo ora, com’è naturale, escono dalla fattoria ed entrano nell’orangerie portando i teli funebri, ma da bambino non stavo, come ora, qui in piedi addossato al muro del portale, bensì direttamente davanti all’orangerie, perfettamente a mio agio guardavo i giardinieri da vicino, senza la minima vergogna, senza il minimo scrupolo, sebbene il morto nell’orangerie fosse il mio amato nonno, mentre ora, trent’anni dopo, stavo in piedi addossato al muro del portale e dovevo nascondermi per ragioni delle quali in fondo non avevo neppure coscienza piena, per molte ragioni, tuttavia, che semplicemente mi opprimevano. D’un tratto mi sentivo oppresso. Stavo là in piedi e non avevo la naturale consapevolezza di me che avevo allora da bambino, per avvicinarmi molto semplicemente ai giardinieri e stringere loro la mano, per dire loro quanto bene gli voglia, quanto siano sempre stati utili, per andare da loro e mostrarmi loro così come sono. Di fronte a questo mi ritraevo spaventato.
Di questo avevo paura. Si arriva alla catastrofe, pensai, quando l’uomo naturale incontra l’uomo artificiale, io, senza dubbio l’artificiale, come pensavo, i giardinieri senza dubbio naturali. Per un istante mi dissi, la mia artificialità non è altro che una mia idea fissa, sono naturale, così come non è altro che una mia idea fissa il fatto che i giardinieri siano naturali, in effetti i giardinieri sono artificiali e naturali esattamente quanto me, mi dissi. Avevo le mani fredde, sebbene facesse molto caldo. Da bambino, pensai, ho sempre trovato le parole giuste, ora non le trovo più. Non avevo bisogno di riflettere per farmi capire dai giardinieri o dai minatori nella maniera più naturale. È dunque per questo che sono dovuto andare per il mondo e a Parigi e a Londra e a Roma, pensai, per essere ora, come si usa dire con espressione appropriata, bloccato quanto mai prima, per questo ho studiato le mie scienze e acquisito, come credo, una superiore conoscenza degli uomini, per non sapere più, ora, come andare dai giardinieri e stringere loro la mano e scambiare con loro due parole. Per un istante ebbi la sensazione che nei decenni in cui ho fatto di tutto per liberarmi di Wolfsegg e rendermene indipendente, e indipendente non soltanto da Wolfsegg, ma da tutto, io non mi sia liberato e non mi sia reso indipendente, ma al contrario mutilato nella maniera più deprimente. Sono un uomo mutilato, ho pensato. Ma subito dopo sono andato dai giardinieri e ho stretto loro la mano. Non si erano sorpresi della mia comparsa, per loro improvvisa. Li chiamai per nome, strinsi loro la mano, dissi che dal paese ero salito a Wolfsegg a piedi, dissi che li avevo osservati per qualche tempo, addossato al portale del muro di cinta dove mi ero fermato, dissi volgendomi a guardare in quella direzione. Non capirono, ma a quella osservazione non avevano attribuito alcuna importanza, guardarono con me verso il portale del muro di cinta, senza sapere che partito prendere. Naturalmente, come si conveniva a quel giorno, non avevano la stessa disinvoltura di sempre, parlavano soltanto se gli si chiedeva qualcosa, e io gli chiesi soltanto come stessero, al che rimasero in silenzio. Credevano che, ovviamente, sarei entrato subito nell’orangerie per andare dai morti, ma io non entrai, guardai il portone d’ingresso, spalancato come ho visto subito, poi verso la fattoria di fronte, dove non si scorgeva anima viva, poi di nuovo il portone d’ingresso e chiesi ai giardinieri se le mie sorelle fossero in casa. Alla mia domanda risposero di sì. Allora mi avviai verso il portone d’ingresso, verso il grande rettangolo nero là in alto, sul quale pendeva, dal balcone soprastante, il drappo nero interamente srotolato. Una settimana prima il parco era pieno di gente di ogni specie, più o meno felice, come pensavo, con vestiti più o meno colorati, che festeggiava la giovane coppia, mia sorella Caecilia e il suo fabbricante di tappi per bottiglie da vino, sinché un temporale improvviso non ha messo fine a quell’andirivieni, non ha disperso tutti, chi verso le auto, per andarsene e tornare a casa, chi dentro casa nostra per rimanerci l’intera notte a mangiare, bere vino, ballare senza sosta. Un’orchestrina di Ebensee ha suonato l’intera notte, tenendo svegli quelli che erano andati a letto a mezzanotte. Solo alle cinque del mattino l’orchestrina ha smesso di suonare e gli ultimi ballerini di ballare, d’improvviso tutto era tornato tranquillo, pensai dirigendomi verso il portone d’ingresso. L’allegria sfrenata degli invitati alle nozze aveva contagiato anche me, e non mi ero limitato a osservare la scena, ma in quella scena sfrenata avevo anche fatto la mia parte, addirittura ballato due volte, una volta con Amalia, una volta con Caecilia, ma naturalmente quei due balli mi erano bastati, avevo ballato niente male, una volta che si sa ballare non si disimpara più, con Caecilia in ogni caso ballai meglio del fabbricante di tappi per bottiglie da vino. Anche se i grassi non ballano male, mi dissi, di solito ballano meglio dei magri, hanno anche più orecchio. Ma tutti quei nipoti e quelle nipoti, che d’un tratto mi sono capitati sotto gli occhi a quelle nozze, pensai, mi diedero presto sui nervi, ed ebbi un altro esempio di quanto sia superficiale l’odierna generazione dei ventenni, quanto sia disinteressata a tutto, tranne che alla sua furiosa sete di divertimento. Non ho potuto conversare veramente con nessuno di quei nipoti e con nessuna di quelle nipoti, non penso neppure a un colloquio, voglio dire, non è stata possibile con loro neppure una breve, più o meno spiritosa conversazione, quando non ballavano se ne stavano lì attorno a far niente, privi di senso dell’umorismo, palesemente ottusi, e gli si leggeva in faccia la noia a vita dalla quale sono afflitti, perché non hanno agito abbastanza presto contro quella noia in definitiva mortale. Per tutti quei giovani è ormai troppo tardi, ho pensato, per sottrarsi a quella mortale noia a vita, già ora sono quasi interamente divorati dai loro capricci, dalle loro professioni, dalle loro ragazze e donne, prigionieri delle loro perverse esteriorità. Quando si parla con loro, non hanno in testa altro se non la loro atroce superficialità, e soprattutto la prospettiva della pensione e la macchina. Non converso con una persona, converso con uno sbruffone assolutamente primitivo, privo di fantasia e di qualsiasi riguardo, quando converso con uno di loro, ho pensato. I più primitivi fanfaroni della cosiddetta buona società della zona, imbottiti di soldi e null’altro, si erano ritrovati a quelle nozze con indosso i loro orrori di sartoria, le chiassose bande dei loro calzoni e gli enormi bottoni di corno di cervo sui risvolti delle loro giacche dominavano la scena, le giacchette di feltro nero degli antenati e le gorgiere di tela nera, anch’esse degli antenati. E Caecilia, per giunta, aveva costretto il suo fabbricante di tappi per bottiglie da vino dentro un paio di calzoni di pelle che il mio nonno paterno quando era ancora vivo già non portava più da decenni, probabilmente solo per fare del suo fabbricante di tappi per bottiglie da vino, in segreto, un personaggio ancora più ridicolo, su quel punto non ero di certo fuori strada, perché la conosco. E gli aveva rifilato la giacca che lo stesso nonno indossava quando è caduto nel bosco inciampando nella radice di pino, e quando lo hanno portato a casa dal bosco e lo hanno disteso dapprima nella fattoria e infine composto anche lui nella bara nell’orangerie. Quella giacca, pensai tutto il tempo mentre osservavo il marito di mia sorella, già una volta era stata composta nella bara, cosa che mia sorella sapeva, in tutta consapevolezza ha rifilato al suo fabbricante di tappi per bottiglie da vino quella giacca già una volta composta nella bara nell’orangerie, quella giacca da morto, gliel’ha messa alle nozze spinta da un impulso indubbiamente perverso. Che sensazione spaventosa doveva aver avuto lo sposo, tutto il tempo, in quella giacca che era una giacca da morto, pensai, l’infamia di mia sorella non conosce confini, ma non si può affatto escludere che sia stata mia madre ad aver avuto l’idea di mettere al fabbricante di tappi per bottiglie da vino, alle nozze, quella giacca che era una giacca da morto, già una volta composta nella bara nell’orangerie, in fondo sarebbe ancora più plausibile, perché mia madre aveva sempre avuto le idee più perfide e l’infamia in sé era sempre stata il motore principale delle sue azioni. Quel poveretto inoltre, come per tutto il tempo ho avuto modo di vedere, non riusciva a camminare nelle scarpe con la fibbia appartenute a quello stesso nonno, bensì solo a tenersi in piedi con una bizzarra andatura, ma dopo tutto aveva indosso un vestito vecchio di centovent’anni, cosa che Caecilia tutti i momenti faceva notare a tutti, senza che nessuno le avesse chiesto nulla, per rendersi interessante, ma, consapevolmente o inconsapevolmente, per rendere ridicolo suo marito davanti a tutti gli invitati. Caecilia in fondo, presentando suo marito agli invitati in quei vestiti vecchi di centovent’anni, gli ha fatto fare la figura del buffone, pensai. D’altra parte, pensai, tutti avevano indosso costumi da buffoni, perché tutti, tranne poche eccezioni come i medici di Wels e Vöcklabruck, come gli avvocati di quelle stesse città, come qualcuno dei parenti di Vienna e di Monaco, indossavano simili vecchi costumi, vecchi di cent’anni almeno. E con ciò si erano resi dei buffoni, com’è ovvio. Nozze del genere non avevano mai fatto altro che deprimermi e presto, infatti, avevo smesso di prendervi parte, avevo sempre rifiutato di andarci. Ma sarebbe stato impossibile non andare alle nozze di mia sorella, restare a Roma, un simile affronto non era affatto nelle mie intenzioni, al contrario, ero sorpreso di aver superato tanto bene quelle nozze. E sono anche le ultime nozze a cui prendo parte, avevo pensato, come se escludessi a priori e per sempre le nozze dell’altra mia sorella, dunque di Amalia, e le nozze di mio fratello almeno per il decennio successivo. Gente di una stupidità meschina, pensai, quella che era alle nozze. Siamo felici di vedere qualcuno che conosciamo più o meno da tutta la vita, gli stringiamo la mano, ma vediamo subito che non è diventato altro che un imbecille, pensai. E i giovani sono ancora più stupidi dei vecchi, che di solito sono almeno grotteschi. Viviamo sempre nell’errore che, così come noi ci siamo evoluti, poco importa in che senso, anche gli altri si evolvano, ma è un errore, quasi tutti si sono fermati e non si sono assolutamente evoluti, né nell’una né nell’altra direzione, non sono né migliori né peggiori, sono soltanto diventati vecchi e quindi in larghissima misura privi di interesse. Crediamo che ci sorprenderà l’evoluzione di una persona che non abbiamo visto per tanto tempo, e invece, quando la rivediamo, siamo sorpresi solo del fatto che non si sia assolutamente evoluta, che abbia soltanto vent’anni di più e, anziché una corporatura asciutta, abbia ora una gran pancia e pesanti anelli di pessimo gusto alle dita grasse che un tempo ci parevano tanto belle. Crediamo di poter parlare di molte cose con l’uno o con l’altro, e constatiamo invece che con tutta questa gente non possiamo parlare proprio di nulla. Stiamo lì e ci chiediamo perché, e non sappiamo cosa dire, tranne che il tempo è così o così, che la crisi politica è così o così, che il socialismo ora mostra il suo vero volto e via di seguito. Crediamo che l’amico di un tempo sia anche l’amico di oggi, ma scorgiamo subito il nostro errore crudele, molto spesso addirittura fatale. Con questa donna puoi conversare di pittura, con quest’altra di poesia, pensi, ma poi devi ammettere che ti sei sbagliato, l’una s’intende tanto poco di pittura quanto l’altra di poesia, entrambe dispongono soltanto delle loro ciance di cucina, come si fa a Vienna e come a Innsbruck la minestra di patate, e quanto costa un paio di scarpe a Merano e quanto uno eguale a Padova. Come potevi parlare bene, pensi, con l’uno di matematica, con l’altro di architettura, ma constati poi che all’uno la sua matematica, all’altro la sua architettura sono rimaste impantanate vent’anni prima nella palude della crescita. Non trovi più appigli, non un sostegno, in questo modo li offendi, senza che loro sappiano perché. D’un tratto non sei più altri che colui che offende, che senza sosta li offende. Saranno nozze più che ridicole, ho pensato prima di partire da Roma per Wolfsegg, e poi, dopo avervi preso parte, ho pensato che in fondo sono state molto, molto più ridicole, ridicole a un punto che non avevo neppure osato immaginare. E invece sentivo parlare solo di nozze magnifiche, senza eguali, come si usa dire. Tuttavia mi guarderò bene dal dire loro la mia verità, quando la loro è al potere, pensai. Ora però le nozze vere e proprie erano state davvero divertenti, comiche in maniera deliziosa. La cappella in cui hanno avuto luogo era, com’è naturale, sovraffollata, sicché altrettanta gente era dovuta stare in piedi nell’atrio durante la cerimonia. Com’è naturale non mi ero accalcato fino alle prime due file per stare con i miei, mi ero rifiutato a priori, ed ero invece rimasto in piedi nell’atrio con le ragazze di cucina e i giardinieri. Siccome ho un buon udito, ho sentito tutto quello che il parroco diceva. Siccome il parroco era leggermente ubriaco, il suo solenne ministero aveva qualcosa di improvvisato e non era noioso come di solito in queste occasioni, bensì uno spasso per tutti. Solo mia madre doveva aver sudato freddo, come si usa dire. Il parroco doveva tenere un discorso in onore degli sposi. E in esso egli aveva toccato di sfuggita ogni sorta di cose vere e inventate, concludendolo poi con la frase, buona per tutte le occasioni, secondo cui la vita è una vita in Dio sino alla fine e null’altro. Arrivato però al momento culminante del rito, quando deve chiedere agli sposi se vogliano dirsi a vicenda il famoso sì, aveva dimenticato il nome della sposa e dopo una pausa lunga, pesante, aveva chiesto aiuto a voce alta, ossia il nome della sposa, che mio padre gli ha allora gridato con grande risolutezza, cosa che nella cappella e in tutto l’atrio aveva provocato all’istante una risata fragorosa. Siccome aveva dimenticato anche il nome dello sposo, dovette chiedere anche quello e mio padre, questa volta però già furioso, gli aveva gridato anche quel nome, al che era scoppiata nella cappella e nell’atrio una risata ancor più fragorosa che non al primo vuoto di memoria del sacerdote. In quell’occasione mi era venuta una gran voglia di gridare nella cappella, al di sopra delle teste, anziché il nome del mio futuro cognato, semplicemente l’espressione fabbricante di tappi per bottiglie da vino, ma all’ultimissimo momento ero riuscito a dominarmi. Quell’abiezione da parte mia è dunque rimasta un mio segreto, pensai. È sempre ridicolo, quando la sposa dice sì, ma ancora più ridicolo quando lo sposo dice sì. L’ho constatato di nuovo in quell’occasione. Come facciamo a prendere sul serio quel sì della sposa, quando sappiamo bene che è una menzogna, una menzogna quanto il sì dello sposo, quel sì d’emergenza pronunciato due volte, col quale non si fa che decidere un martirio di decenni, ho pensato. Il sì del matrimonio decide il giogo del matrimonio. Null’altro. E a nulla gli uomini anelano di più che a dirsi sì e abbandonarsi e annientarsi a vicenda, ho pensato. Siccome mi era parso di aver assistito a un piccolo spettacolo, effettivamente in sé compiuto, scena buffa e commedia insieme, mi era venuta una gran voglia di applaudire con impeto nel momento in cui il parroco aveva pronunciato l’ultima parola e si era allontanato con i chierichetti, nipotini di sei o sette anni. Ma mi dominai anche questa volta. Passare inosservato contava troppo per me, uno scandalo mi avrebbe reso il soggiorno a Wolfsegg assolutamente impossibile, non mi veniva neppure in mente di attirare l’attenzione su di me, perché poi si tornasse a dire, il piantagrane si è di nuovo messo in scena. Il momento culminante del piccolo spettacolo delle nozze, vecchio di tanti secoli, è il sì, avevo pensato, con cui la Chiesa cattolica prende pieno possesso di coloro che hanno pronunciato quel sì. Poi il parroco era stato invitato a salire al primo piano, dove attese il segnale d’inizio del banchetto, che veniva dato in tutte le stanze anteriori del primo piano. Mia madre, come sempre in occasioni del genere, dominava su tutto e gli sposi erano stati da lei ridotti alle dimensioni senz’altro adeguate a quella coppia di sposi, a una marionetta grassa e una magra, che avevano preso posto l’una accanto all’altra a metà del tavolo, per così dire con le spalle al balcone e dunque al mondo esterno, il grasso fabbricante di tappi per bottiglie da vino e mia sorella Caecilia, che con la mano destra continuava a carezzargli la mano sinistra, non per un bisogno interiore, ma perché così si conveniva, come doveva pensare. Quando gli invitati alle nozze ebbero mangiato i cibi, indubbiamente buoni, e bevuto il vino, anch’esso indubbiamente di prima qualità e naturalmente del Baden, mia madre si alzò ancora una volta per tenere un piccolo discorso, in cui poté manifestarsi in maniera inimitabile la sua arte della menzogna. Aveva ora il miglior genero che potesse, in assoluto, immaginare, aveva detto, e la figlia più felice che ci si possa figurare. Era andata dal fabbricante di tappi per bottiglie da vino e lo aveva coperto di baci davanti a tutti e poi aveva abbracciato Caecilia, per giunta, e invitato tutti a scendere nel parco. Là erano disposti molti tavoli, perché faceva bel tempo, e i giardinieri e i cacciatori si erano presto mescolati ai cosiddetti superiori. Anche molta gente del villaggio era salita per prendere parte alla festa. Tutti lo fecero con assoluta spontaneità. Di nuovo furono i giardinieri e i minatori a piacermi di più. La banda aveva preso posto davanti all’orangerie su un podio appena costruito e dato fondo, via via, all’intero repertorio, sicché ogni ora ricominciava daccapo. Fino ad Atzbach, che si trova a sei chilometri a est, pare che abbiano sentito l’allegria sfrenata di quelle nozze. Mio fratello era stato di una riservatezza manifesta, si era ritirato molto presto e non si era più fatto vedere, quelle feste lo avevano sempre disgustato dopo poco tempo, ma per ragioni ben diverse da me, che non sono mai riuscito a sopportarne per più di qualche ora la superficialità e in definitiva la goffaggine, per ragioni di salute. Ogni volta gli veniva subito l’emicrania. Per tutta la vita ha sofferto di emicrania, come mio padre, al quale, egualmente, quell’emicrania ha sempre guastato ogni cosa. Lui, mio fratello, fatto per questo come nessun altro, finora non si è sposato, mi sono detto, e non riesco a spiegarmi come mai; lui, che ha assoluto bisogno di un erede e a quella soluzione viene continuamente sollecitato da sua madre, lui che al riguardo vive in lite perenne con sua madre, ho pensato di continuo durante le nozze. Naturalmente un giorno si sposerà, poco prima che sia troppo tardi, con una donna qualsiasi, ho pensato, la figlia di un qualche droghiere di Wels, di Vöcklabruck, una qualche infermiera di Salisburgo, la figlia di un qualche albergatore di Unterrach o di Straßwalchen. Quelli come mio fratello aspettano di avere cinquant’anni e che il tempo sia agli sgoccioli, allora si fanno avanti a tentoni con la prima che capita, ho pensato, e toccano la vetta del cammino di vecchio scemo che negli anni hanno percorso. Prima lasciano passare le occasioni senza afferrarle, le migliori, come si usa dire, le cosiddette avventure non le lasciano diventare abitudine, né cosa naturale il legame con una ragazza o una donna. In quell’epoca il letto non appartiene a una sola, ma a diverse, e pur se non a molte, tuttavia sempre a una nuova, che poi ne viene subito cacciata per paura della prigionia perpetua, così pensa lui di sicuro, ho pensato. Ora questa stupida di Caecilia si è sposata, io non lo farò prima di avere cinquant’anni o anche più tardi, avrà pensato, dentro di sé, portando intanto la mano alla testa, e con quella sua emicrania si è ritirato. Ha preso l’abitudine di mettersi ormai solo vecchi cappelli, avevo pensato, come suo padre, di indossare vecchie giacche, vecchi calzoni, vecchie scarpe, tutto indosso a lui deve sempre essere vecchio, in questo modo, come quasi tutti quelli del suo ceto e delle sue origini, crede sempre di poter rappresentare meglio quel ceto e quelle origini, di poterli portare in giro con sé, di poter rispondere al gusto dei cosiddetti superiori, fra i quali si è sempre annoverato.
Si compra un cappello e lo espone alla pioggia, per qualche settimana lo lascia appeso a un gancio sul balcone della casa dei cacciatori e non lo stacca dal gancio finché non è battuto dalle intemperie; poi lo rivolta sopra l’acqua bollente e se lo mette così, scaldato al massimo, per fargli prendere la forma della sua testa, i calzoni li immerge brevemente nell’acqua e li appende alla finestra perché stiano al vento prima di indossarli, altrettanto fa con le giacche, con le scarpe va prima su e giù, come si deve, nel fango del giardino, perché non diano l’impressione di essere nuove di zecca, giacché non si portano le scarpe nuove, non si indossano le giacche nuove, non si mettono i cappelli nuovi, tutto ciò che è nuovo viene profondamente disprezzato, anzi odiato, perché così si fa, anche le case nuove, le chiese nuove, le strade nuove, le invenzioni nuove, ovviamente anche tutte le persone nuove, come si è detto, tutto ciò che è nuovo, e naturalmente anche i pensieri nuovi sono nel novero. Quella cerchia sociale si è abituata nel corso dei secoli a disprezzare e odiare tutto ciò che è nuovo, e così è diventata vecchia a sua volta e non si è più rinnovata. Pover’uomo, mi dicevo spesso a proposito di mio fratello. Quel pover’uomo è stato completamente fagocitato dalla cerchia sociale che lui ritiene, come si usa dire, l’unica in grado di portare alla felicità, non è rimasto nulla di suo a ricordare la sua personalità, come suo padre, pensai, conduce la vita di uno dei milioni di duplicati di quella vecchia cerchia sociale. Tutto su di lui e intorno a lui deve essere vecchio, malconcio, pensai, con la sola eccezione della sua macchina, a quel riguardo ci teneva moltissimo che fosse la più nuova e la migliore, il che significava che doveva sempre essere anche la più costosa. Una macchina nuova all’anno è diventata per lui un’abitudine, dal momento che la usa anche mia madre, perché lei non possiede una sua macchina, perché non ha la cosiddetta patente, quella macchina doveva essere ai loro occhi la più bella e la migliore. Ora la più bella e la migliore delle macchine, la Jaguar, è stata loro fatale, pensai. Il loro culto della macchina li ha annientati, pensai. Lui che di solito era il più tranquillo degli uomini, alla guida della macchina era ormai soltanto scatenato, l’uomo investito di quel potere assoluto che fuori della macchina non poteva essere, a impedirlo provvedeva sua e mia madre, che rivendicava per sé tale investitura, ma in macchina, nella Jaguar, era lui l’uomo investito del potere e lei doveva piegarsi, era lui che decideva, se non la direzione, quanto meno la velocità, e questo a lei, che in quelle occasioni gli sedeva accanto sempre piena di terrore, come so, non andava affatto a genio, come si usa dire. Mio padre amava il trattore, non la macchina, che gli è sempre parsa troppo facile, nostro padre non perdeva occasione per sedersi su uno dei nostri McCormick anche se non aveva assolutamente nulla da fare. Sul trattore si considerava il più felice degli uomini. Il più indipendente. Sul trattore era se stesso, diceva, una cosa triste quanto vera, e io gli credevo, a questo punto si doveva arrivare, che ormai riesco a essere solo e felice soltanto sul trattore, mi ha detto una volta. Suo figlio invece, mio fratello Johannes, diceva spesso di dover salire in macchina per poter respirare liberamente e abbandonarsi ai suoi pensieri qualsiasi cosa ciò significasse per lui, mi deprimeva sentirglielo dire, doverlo prendere per vero. Mio fratello si sta trasformando sempre di più in mio padre, ho pensato spesso. Negli ultimi tempi gli si è già avvicinato tanto, non ci vorrà più molto, ho pensato alle nozze, perché sia nostro padre. La sua andatura, tutto il suo portamento, la sua voce, assomigliano sempre più a mio padre, presto coincideranno con il portamento di nostro padre, con la sua andatura, con il suo stato d’animo e di conseguenza, com’è naturale, col suo atteggiamento spirituale. Il figlio primogenito era per così dire destinato fin dal principio a essere il padre, e presto lo sarà, ho pensato. È ormai soltanto una questione di pochissimo tempo. E talvolta, pensai, quando mio fratello parla, ho addirittura la sensazione che sia mio padre a parlare, quando sento mio fratello camminare, che sia mio padre a camminare, quando mio fratello pensa, che sia mio padre a pensare. In Johannes i miei genitori avevano avuto un figlio da sogno, pensai. Non avrebbero potuto immaginarne uno migliore, ossia più conforme a loro. Passo dopo passo si avvicinava all’ideale di figlio che hanno sempre avuto, con la stessa velocità con cui da quell’ideale io mi allontanavo. Per questo lo amavano sempre di più, e sempre di più provavano per me disprezzo e odio, e addirittura orrore, senza confessarselo in verità, non osavano farlo, con tutte le incessanti misure di autodifesa che avevano in testa. L’ideale è quasi raggiunto, avevo pensato alle nozze di mia sorella Caecilia, coincide quasi interamente con il modello che i miei, seppure solo a posteriori, come si usa dire, avevano dichiarato ideale. Mio fratello si era lasciato educare fino a incarnare l’ideale, io mi ero sempre sottratto a quella pretesa, non avevo mai avuto interesse a rappresentare un ideale come quello dei miei genitori, ne avevo orrore, perché, in poche parole, non ho mai voluto corrispondere a nessun modello e quindi non avrei neanche mai potuto essere un ideale. Johannes, come si usa dire, avevano potuto modellarlo, plasmarlo, me no. E a modellare mio fratello, a sottoporlo all’opera plasmatrice delle loro mani di genitori avevano cominciato presto, già quando quella infantile massa da plasmare non aveva più di tre o quattro anni si accorsero che da quella massa da plasmare era possibile trarre il loro ideale, e si erano messi a plasmare e a modellare la massa Johannes, senza incontrare resistenza, mentre con me, al riguardo, hanno sempre incontrato massima resistenza, perché fin dal principio mi ero sottratto alle loro mani, sottratto alla loro testa, sottratto alle loro arti di genitori che plasmano e modellano, non li avevo lasciati avvicinare, ma respinti subito fin dal principio. Plasmarono Johannes come volevano e se ne compiacquero, senza neppure rendersi conto che con la loro arte plasmatrice e modellatrice lo hanno distrutto e annientato, definitivamente. Della sua testa naturale avevano fatto una testa ideale e con ciò, a mio giudizio, annientato quella testa, nella maniera più sfrontata e meschina, senza pietà, avevano fatto di lui ciò che non avevano potuto fare con me, un imbecille ideale, che col tempo è diventato ciò che loro volevano, una persona che fin nei minimi dettagli corrispondeva alle loro intenzioni, totalmente succube. Johannes, pensai, è diventato assolutamente succube dei miei genitori, ma soprattutto di mia madre, non si era difeso, questo gli era tornato più comodo del contrario, ossia difendersi da ogni mostruosità dei genitori e da ogni meschinità dei genitori e da ogni tendenza dei genitori a deturpare tutto; solo in macchina, nella Jaguar, e anche lì, per così dire, solo durante la corsa, gli lasciavano manifestare i suoi pensieri, in quelle corse del terrore, come mia madre diceva sempre, poteva trovare sfogo, ma poi, una volta sceso dalla macchina, dalla Jaguar, gliela facevano pagare mille volte, poveretto, pensai. Sono sicuro che quando avrà cinquant’anni qui ci saranno delle nozze coi fiocchi, pensai. Ma un morto non può più sposarsi. Con questo pensiero ho varcato il portone d’ingresso. L’atrio era vuoto. Le lampade dell’atrio erano addobbate con rami d’alloro, come supponevo, ciascuna con due rami d’alloro secondo il piano del funerale. Regnava esattamente quell’inquietante pace dolciastra caratteristica delle case in lutto. Il pavimento dell’atrio era stato lavato qualche ora prima del mio ingresso, strofinato, come diciamo noi, in ginocchio, dalle ragazze di servizio, la più vecchia delle quali ha ormai settantaquattro anni, ma viene tuttora annoverata fra le ragazze di servizio, anche sul letto di morte, quando sarà vecchissima, quando forse avrà passato gli ottant’anni come è accaduto qui con quasi tutte le ragazze di servizio, continuerà a essere definita ragazza di servizio. Le ragazze di servizio si sono sempre trovate bene a Wolfsegg, così mia madre, sebbene d’altra parte, come mia madre ha anche sempre detto, non gli sia stato risparmiato nulla e non gli venga risparmiato nulla. Portano i grembiuli grigi, confezionati dalla sarta di casa nostra giù in paese, che le rendono riconoscibili già da lontano, hanno i capelli spazzolati lisci all’indietro e per il resto sono del tutto disadorne, poiché così si conviene a Wolfsegg, così mia madre. È quel che gli sta meglio, così mia madre. Di solito entrano in servizio a Wolfsegg già a quattordici o quindici anni, e a Wolfsegg invecchiano. Non hanno di che stare allegre, come si usa dire, ma a Wolfsegg sono molto stimate da tutti, così ancora mia madre. Il loro numero si è drasticamente ridotto negli ultimi anni, prima erano dodici, incluse le ragazze di cucina, la più vecchia delle quali ha passato anch’essa i settanta, oggi, ormai, sono soltanto cinque in tutto. La maggior parte di loro ha sempre avuto, fin dalla nascita, una voce sgradevole, così mia madre, oppure quella voce sgradevole gli è venuta a Wolfsegg con l’andar del tempo, perché a Wolfsegg non gli è mai stato consentito di parlare con la loro voce nella maniera loro naturale, bensì in modo artificiale, anch’esso inculcato loro da mia madre, il più possibile sommesso e riservato, così ancora mia madre, che alla fine non poteva che deturpar loro la voce. Oggi le ragazze di servizio vengono quasi tutte dal paese di sotto, ma prima mia madre preferiva sempre prendere quelle del Mühlviertel che è tanto conveniente, così diceva lei stessa, se possibile di famiglia contadina, numerosa, perché quelle erano note per accontentarsi sempre di tutto (mia madre) e per essere brave e comunque sempre laboriose. Ma negli ultimi tempi il Mühlviertel non forniva più ragazze di servizio, le ragazze del Mühlviertel preferivano diventare operaie anziché ragazze di servizio, cosa che mia madre ha sempre definito la decadenza del Mühlviertel, caratteristica, in generale, non solo del Mühlviertel ma dell’intera evoluzione del mondo. Com’è naturale, le ragazze di servizio erano cattoliche dalla testa ai piedi, e avevano nei confronti dell’autorità, non solo ecclesiastica ma anche temporale, esattamente quell’atteggiamento dimesso che veniva richiesto. Le ragazze preferite le avevano sempre avute dalla regione di Freistadt e da Aigen-Schlägel, dove il confine boemo e quello bavarese e quello austriaco si scontrano e dove non arriva la ferrovia. Erano sempre state le più devote, così mia madre, le più ammodo, così ancora mia madre. Andava a cercarle di persona, passando dai conventi di Freistadt e Aigen-Schlägel e chiedendo quel che desiderava. Le suore o i frati, a seconda, le consegnavano di solito due o tre ragazze giovanissime non ancora corrotte, con le quali lei tornava a Wolfsegg per iniziarle al lavoro e metterle alla prova. Quell’iniziazione in forma di prova consisteva nel fatto che mia madre, tanto per cominciare, faceva strofinare l’atrio alle ragazze, cosa che, tanto per cominciare, costava a ciascuna di loro un’immensa fatica, perché la lunghezza dell’atrio e anche la larghezza, quando si tratta di strofinare, esigono effettivamente uno sforzo disumano. Ma le ragazze, affascinate dalle smancerie di mia madre e da Wolfsegg in generale, da una proprietà di cui in vita loro non avevano mai visto l’eguale, strofinavano l’atrio, poco importa con quali sofferenze, alcune fallivano, allora mia madre assestava loro il colpo, l’orrenda notizia che non poteva prenderle, al che colei che prima aveva fallito era in grado, al secondo tentativo, di strofinare l’atrio effettivamente per intero. Mia madre era sempre stata implacabile. E siccome era con se stessa più implacabile che con chiunque altro, non risparmiava mai a chi le stava intorno almeno una pari implacabilità. Le ragazze di servizio si ammazzavano di lavoro, come si usa dire, eppure erano sempre felici di poter stare a Wolfsegg, come loro stesse continuavano a esprimersi, a mia madre costavano quattro soldi, e a riprova del buon trattamento ricevuto, per così dire, diventavano vecchissime a Wolfsegg, come ho già ricordato. L’assurdità era che da un lato si ammazzavano sempre di lavoro, ma d’altro lato diventavano vecchissime. Nessuna delle ragazze di servizio di Wolfsegg è morta per così dire giovane, quanto meno non prima dei sessant’anni. Facevano a tutte un bel funerale, così mia madre, e le famiglie delle ragazze di servizio erano sempre riconoscenti che a una delle loro fosse concesso di lavorare a Wolfsegg. Questo atteggiamento non è mai cambiato, pensai nell’atrio deserto, strofinato di fresco, con le sue larghe assi di larice. Le ragnatele che di solito oscuravano l’atrio negli angoli erano già state tolte prima delle nozze, pensai, i vetri lavati, le lampade unte con l’olio perché risplendessero. I giardinieri mi avevano detto che le mie sorelle erano nella casa padronale, anche il padrone nuovo, come nella loro innocenza hanno definito il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, pensai. I tre saranno dunque di sopra al primo piano, senza immaginare che io sono già nell’atrio, più o meno sotto di loro. Ma non avevo voglia di salire subito da loro, e lasciai trascorrere nell’atrio i minuti successivi. Stavo ai piedi della scala che conduce al primo piano, là dove alla parete è appeso un quadro del mio antenato e prozio Ferdinand che ha salvato, come si usa dire, la vita all’imperatore, gettandosi fra l’imperatore e un ungherese in procinto di scagliarsi a tradimento contro l’imperatore. Il mio antenato e prozio ha pagato con la vita quell’atto eroico, e in cambio è stato innalzato di un grado nella gerarchia, post mortem, come ancor oggi si sussurra. Quell’uomo, pensai, somiglia effettivamente a Descartes, cosa che prima non avevo mai notato, in fondo ha vissuto nella stessa epoca del filosofo, ma erano poi più gli abiti, a farlo somigliare a Descartes, e assai meno la testa. Ma la somiglianza fra quell’antenato e prozio e Descartes mi lasciò improvvisamente sconcertato. Come ha fatto a non venirmi in mente finora, mi chiesi contemplando il quadro con curiosità ancor maggiore. In effetti il mio antenato e prozio aveva nel quadro anche la caratteristica barba cartesiana e il sopracciglio cartesianamente sollevato. Il quadro è tutt’altro che ridicolo, ho pensato, chiedendomi al contempo se non fosse possibile, in effetti, che quell’antenato e prozio trasformato qui in quadro a olio sia stato anche un filosofo, perché aveva qualcosa di filosofico nell’aspetto. Decisi di controllare nelle nostre biblioteche se per caso non si trovassero lì delle annotazioni di quell’antenato e prozio, magari dei Saggi, pensai, di cui finora ignoravo l’esistenza, scritti effettivamente filosofici, credevo di non sbagliarmi nel veder ritratto nel quadro a olio uno scrittore di testi filosofici, e già ne supponevo le opere in una delle nostre cinque biblioteche. Il nome lo conoscevo, non dovevo far altro che mettermi alla ricerca nelle nostre biblioteche. Non mi sorprendeva affatto che i miei non avessero mai parlato del filosofo Ferdinand, perché è cosa caratteristica in loro quella di non nominare mai, neppure lontanamente, i cosiddetti uomini di pensiero, e quando accadeva, accadeva in un contesto spiacevole, che in ogni caso sminuiva quelle personalità filosofiche. Ora mi pareva addirittura di aver già sentito parlare del filosofo Ferdinand, così lo chiamai fra me e me, forse l’ho anche già letto senza sapere che colui che stavo leggendo era l’uomo del ritratto a olio appeso nella scala dell’atrio. D’improvviso mi venne l’idea di sottoporre a un esame più attento anche gli altri quadri a olio dei miei antenati appesi su per le scale, finora li avevo osservati sempre e soltanto in superficie, avevo sempre saputo in fondo che si trattava di antenati, ma mai di quali, finora non me n’ero interessato, i quadri a Wolfsegg li avevo sempre guardati esattamente come i miei hanno sempre guardato i quadri, ossia guardando sì quei quadri, ma senza mai saper dire cosa o chi ritraessero, perché per decenni li hanno guardati solo per abitudine, come macchie di colore più o meno offuscate, che in gran parte avevano trovato posto sulle nostre pareti già secoli prima di noi, poco importa per quale ragione, in questo o quel luogo, nessuno ci aveva mai riflettuto, e tanto meno aveva fatto ricerche. Chissà, ho pensato, cosa c’è realmente alle pareti di Wolfsegg, magari si scopre che abbiamo avuto addirittura molti filosofi come antenati e forse, per giunta, una schiera di altri uomini di pensiero, pensatori dunque, e forse i quadri appesi alle pareti sono effettivamente e realmente di inestimabile valore, come si è sempre mormorato nella nostra famiglia. Ma quel valore mi interessava davvero meno delle persone o delle cose rappresentate in quei quadri, diverse centinaia in tutto. Per non parlare dei molti quadri e dipinti sparsi alla rinfusa nelle nostre soffitte, pensai, che sono tutti per lo più dimenticati e, per la svagatezza e l’insolenza dei secoli a Wolfsegg, ridotti in uno stato deplorevole. Un giorno dovrò far venire un restauratore da Vienna, ho pensato, trattenendo poi quel pensiero nella mente, che identifichi e poi classifichi e infine valuti tutti quei quadri. E pensai a una persona precisa, che conosco e che è il cosiddetto restauratore capo dei nostri maggiori musei e che per esempio negli ultimi tempi ha restaurato il più prezioso Velázquez che quei musei possiedano e, come so, essi possiedono i più preziosi Velázquez che esistano, ancora più preziosi di quanti ne possieda il Prado a Madrid. Alla parola Velázquez e alla parola Prado mi venne d’improvviso in mente che forse a Wolfsegg potrebbe esserci un Velázquez, a nostra insaputa, perché nei secoli abbiamo avuto non pochi parenti spagnoli, qui ci son sempre stati degli spagnoli, ancor oggi ricompaiono qui ogni tanto, trascorrono a Wolfsegg giornate di caccia, e con la Spagna Wolfsegg ha sempre avuto legami e rapporti strettissimi. E con l’Italia. E anche con l’Olanda, com’è naturale, dove comunque Rembrandt e Vermeer e gli altri cosiddetti grandi olandesi hanno vissuto e dipinto. Ebbi d’improvviso un cosiddetto pensiero fantastico, che poi continuò a occuparmi la mente per tutto il tempo, anche quando ero già nella cappella, dove sono andato per non dover salire subito dai miei. Procederò lentamente e con discrezione, ho pensato entrando nella cappella, in cui da tempo erano stati tolti gli addobbi delle nozze e già sistemati gli addobbi del funerale. Con che velocità hanno trasformato la scena, pensai. Teli neri coprivano tutti gli oggetti della cappella, di solito lustri e rilucenti, i candelabri e i vassoi, i vasi e le catenelle, e ciascuna delle due finestre era egualmente velata da un telo nero, solo la cosiddetta lampada perpetua ardeva, in modo che chi entrava non dovesse sostare nell’oscurità più completa. Mi era tornato in mente il vuoto di memoria del parroco ubriaco, che aveva divertito gli invitati alle nozze, e sentivo ancora la risata fragorosa dell’uditorio delle nozze. Mi venne in mente la mia infamia, che non avevo poi reso pubblica, e ora udii ancora una volta mio padre gridare il nome Caecilia, che aveva rimesso in moto la scena del matrimonio, ormai completamente ferma. Per quanto tempo udiamo la voce di una persona che ancora pochi giorni prima abbiamo udito in realtà come voce di un vivo, quando quella persona è effettivamente e improvvisamente morta? mi chiesi. Per un istante ebbi la sensazione di dovermi inginocchiare nella cappella, come si fa di solito entrando, ma non lo feci, perché il lato teatrale e totalmente artificiale di un simile gesto da parte mia aveva fatto in tempo ad affiorarmi alla coscienza al momento giusto, la menzogna che senza dubbio avrebbe significato prender posto in un banco e inginocchiarmi, quando invece non avevo alcun bisogno di inginocchiarmi, ma solo l’idea che è naturale che chi entri nella cappella si inginocchi, per giunta in una situazione simile. Ma qual è in verità la mia situazione? mi chiesi, e avanzai di qualche passo, per poi fermarmi.
Pensai che da bambino la cappella è sempre stata per me non un asilo di pace e di raccoglimento, come sempre affermano gli altri, perché così, pare, essa ha sempre agito su di loro, bensì il luogo dei sentimenti sinistri e del terrore. Ancora a quindici anni, forse ancora a venti entravo nella cappella effettivamente come in un luogo di terrore e crudeltà, come in uno spazio di dannazione, per così dire, in cui si decideva di me, a quel tempo entravo nella cappella come nella sala di un’alta corte di giustizia, in cui ogni volta venivo condannato. Le dita che in quella sala della dannazione vedevo allora, giudicanti, implacabili, erano sempre rivolte verso il basso, e da bambino e da adolescente uscivo dalla cappella sempre e soltanto con la testa ritratta fra le spalle, umiliato, punito. La Chiesa cattolica avrebbe molto da riparare nei miei confronti, mi dissi, se le mettessi in conto ciò che con la sua dottrina ha devastato e distrutto e rovinato in me bambino, avrebbe, nonostante il suo cinismo, di che restare atterrita, pensai. Mia madre mi aveva sempre mandato nella cappella, perché là, per così dire, mi tormentassi con le mie centinaia e centinaia di peccati, senza speranza. Nella cappella sono sempre entrato tremando, per uscirne sgomento. I soli bei ricordi della cappella erano quando, in maggio, si cantava per le funzioni mariane. Sebbene il mondo intero nel frattempo sia cambiato completamente e, debbo dire, totalmente, a Wolfsegg continuano ad andare nella cappella come se nulla fosse cambiato, tutti continuano ad andarci così, pensai. Così come in generale, a Wolfsegg, si comportano come se il mondo non fosse cambiato negli ultimi cent’anni, quando invece è cambiato radicalmente, per così dire si è messo da solo a testa in giù, potrei dire, pensai. I miei hanno sempre considerato Wolfsegg esattamente come i loro quadri alle pareti, che a quelle pareti son sempre rimasti appesi così e non altrimenti, e che non si sono mai potuti cambiare o addirittura staccare, i miei hanno finito per considerare così anche se stessi, non potevano cambiare in nulla, chi si lasciava cambiare o cambiava da solo, come mio zio Georg e come me, pensai, veniva escluso, non aveva più nulla a che fare in mezzo a loro e, come credevano, con loro. Ma è anche sbagliato dire che a Wolfsegg il tempo si sia fermato, perché loro, i miei, sono invece in questo tempo, esistono in questo tempo, sono parte di questo tempo, anch’essi sono dunque, in tutto e per tutto, questo tempo, come dimostrano con la loro esistenza di oggi. Sono addirittura impregnati di questo tempo presente, pensai, molto più profondamente di altri, ma a modo loro. Non è esatto dire che i miei sono relitti di un tempo passato, antico, ormai remoto, perché essi sono invece in questo tempo. Ma a modo loro. Non provengono, come si potrebbe affermare vedendoli e osservandoli per un poco, da un tempo che col nostro non ha più nulla a che fare, perché essi provengono invece da questo tempo. Ma a modo loro. Chiunque viva in questo tempo partecipa di questo tempo, pensai. La gente sbaglia, se crede che i miei non siano al loro posto in questo tempo, perché in verità e in realtà i miei sono più vivi di altri, in questo tempo, e dominano questo tempo, come si vede, con maggior senso pratico di altri, se considero che non è affatto scarsa l’influenza che essi esercitano oggi su chi li circonda. Ma è gente fatta a modo suo, poco importa se quel modo venga rifiutato oppure no, se ripugni oppure no. Dire che i miei sono gente di un altro mondo equivale a dire un’assurdità. Che sia gente che vive nella maniera più strana e conduce un’esistenza di stranezza estrema, gente appunto che non prende atto del cambiamento del mondo e dell’umanità, è un’altra questione, ma è gente di questo tempo, naturalmente. Sarebbe la cosa più stupida affermare che sono di un altro tempo o di un altro mondo, perché, più di milioni di altri, sono di questo tempo e di questo mondo, e in esso dominano come sempre, questa è la verità. Forse è anche il loro grande trucco, dare a intendere di essere di un altro tempo e di un altro mondo, pensai, un trucco di cui si servono e col quale, come si usa dire, non se la cavano affatto male, perché in fondo non se la cavano affatto male, se la passano assai meglio di milioni di altri che asseriscono di essere gente di questo tempo e di questo mondo, cosa che i miei, guidati forse da un istinto innato, ottimo più che semplicemente buono, per i nessi che regolano questo tempo e questo mondo, non hanno mai asserito. Io stesso arrivo ad asserire che i miei, comunque siano, sono più attuali di quasi tutti quelli che conosco, e così pensavo nella cappella, mentre non riuscivo, ancora non riuscivo a decidermi a uscire dalla cappella e a salire dai miei. Abbiamo la presunzione, pensai, di escludere la gente come i miei da questo mondo e da questa società, e di dire che non sono di questo mondo, non di questo tempo, che sono inattuali, perché sentiamo bene di aver torto, proprio la gente come i miei, lo vedo ora con chiarezza di giorno in giorno maggiore, vive in maniera attuale. Che io rifiuti il loro modo di vivere non significa da parte mia affermare che non appartengono a questo tempo, che sono inattuali. Proprio loro, potrei aggiungere, sono anzi sulla strada giusta, non su quella che tutto distrugge e annienta, ma su quella che tutto tiene unito e protegge, per quanto possa dispiacerci la natura delle condizioni in cui essi perseguono quei fini, pensai. Che io non abbia nulla da spartire con costoro non significa che bisognerebbe eliminarli, come spesso si pensa, come quasi sempre si pensa, come quasi sempre si pensa e di conseguenza si agisce. E pensai che, sebbene io la pensi diversamente, in questi anni ho fatto di me colui che li elimina e li estingue, e quindi penso nella stessa maniera incompetente e inammissibile in cui rimprovero agli altri di pensare. La maggioranza non è attuale perché è la maggioranza, come si crede e come, guidati da quel credo, si agisce, molto spesso a svantaggio dell’epoca, anche una o la minoranza può essere attuale e molto spesso ben più attuale della maggioranza, e lo è quasi sempre, anche un singolo può essere più attuale della maggioranza e in fondo molto spesso è il più attuale in assoluto. La maggioranza è sempre stata soltanto portatrice di sventura, pensai, ancor oggi dobbiamo la nostra sventura, sempre che sia tale, alla maggioranza. La minoranza o anche semplicemente il singolo vengono schiacciati dalla maggioranza proprio perché essi sono molto più attuali della maggioranza, perché agiscono in maniera molto più attuale della maggioranza. I pensieri attuali sono sempre inattuali, pensai. I pensieri attuali sono sempre in anticipo sul loro tempo, quando sono gli effettivi pensieri attuali, pensai. L’attuale è dunque effettivamente sempre l’inattuale, pensai, su questo argomento ho avuto una volta un lungo colloquio con Zacchi. Io sono attuale significa: debbo essere in anticipo col mio pensiero, non significa: agisco in maniera attuale, perché agire in maniera attuale significa essere inattuali e via di seguito. Su quell’argomento una volta mi ero soffermato con Zacchi per diversi giorni, a Orvieto, dove lui ha una casa sui monti, ereditata da uno dei suoi estimatori. In fondo e in verità, pensai, sono quelli di Wolfsegg, per esecrabili che possano apparire al singolo o anche alla maggioranza, a essere tuttavia attuali, ho pensato, specialmente quando prendiamo in esame questo nostro tempo con profondità e incorruttibilità di giudizio, senza lasciarci offuscare e ottundere la mente dall’opinione dominante di turno, eccitata soltanto dalla politica del giorno, pensai. Da secoli esiste l’opinione della politica del giorno ed esistono i fatti inconfutati, da sempre contrapposti all’opinione della politica del giorno. Il fatto è, mi dissi, che al momento il mondo si trova in una condizione di caos, mentre a Wolfsegg regna l’ordine, di proposito non mi dissi regna ancora l’ordine, mi dissi solo regna l’ordine. Mentre il mondo, in uno stato quasi comatoso, non è in grado di svegliarsi e, in questo stato quasi comatoso, di giungere alla coscienza, quelli di Wolfsegg sono molto coscienti, possono pure ripugnarmi, posso pure essermi sottratto loro spinto dall’orrore, ma che agiscano, mi corressi, agissero con maggior coscienza della maggioranza del resto del mondo, non lo contesto, pensai. A modo loro, mi dissi. Subito dopo pensai che quel che avevo appena pensato erano invece tutte sciocchezze, o almeno una pazzia che non porta a nulla, un fallimento del pensiero. Per portare avanti quel pensiero, secondo cui sono quelli di Wolfsegg a essere attuali, e non il resto del mondo, avrei avuto bisogno di Zacchi, o di Gambetti, è uguale, da solo ho fallito in quel pensiero come in tanti pensieri da me pensati, vittima di un ragionamento fallace, di un’insolenza del pensiero, come pensai. Ma dobbiamo sempre tener conto del fallimento, altrimenti finiamo bruscamente nell’inazione, pensai, così come non c’è nulla, fuori della nostra testa, contro cui dobbiamo procedere con risolutezza maggiore che contro la nostra inazione, anche dentro la nostra testa dobbiamo procedere nella stessa maniera contro l’inazione, più o meno con la brutalità che ci è congeniale. Dobbiamo permetterci il pensiero, averne il coraggio, anche a rischio di fallire presto perché d’improvviso ci è impossibile mettere ordine nei nostri pensieri, falliamo sempre, com’è naturale, perché, quando pensiamo, dobbiamo sempre tener conto di tutti i pensieri che esistono e che sono possibili; in fondo abbiamo sempre fallito, e anche tutti gli altri, poco importa come si chiamassero, poco importa che fossero gli spiriti più grandi, d’un tratto, su un qualche punto, hanno fallito e il loro sistema è crollato, come dimostrano i loro scritti, che ammiriamo perché sono quelli che più si sono spinti dentro il fallimento. Pensare significa fallire, pensai. Agire significa fallire. Ma, com’è naturale, noi non agiamo per fallire, così come non pensiamo per fallire, pensai. Nietzsche è un buon esempio di un pensiero che si è addentrato nel fallimento a un punto tale da non poter essere ormai definito altrimenti che folle, ho detto una volta a Zacchi, pensai. Fra quelle mura fredde, imbiancate a calce ho potuto evolvermi, come mia madre diceva molto spesso, pensai, chiedendomi nell’atrio se dovessi salire subito al primo piano oppure no, dai miei oppure dagli altri che erano raccolti in cucina, come notai. Le ragazze di cucina e le ragazze di servizio conversavano sottovoce in cucina, con riguardo al fatto che era una casa in lutto, quella in cui ora si trovavano. Rimasi fermo davanti alla porta della cucina, cercando di capire quale fosse l’argomento della loro conversazione, ma non capivo cosa dicessero, soltanto singole parole, dalle quali non ricavai però alcun senso compiuto, sebbene avessi potuto constatare che parlavano delle loro famiglie, continuavano a ripetere la parola Mühlviertel. Mi rendevo conto che era inammissibile, quel mio restar fermo davanti alla porta, ma non mi ero mosso, senza d’altra parte riuscire a decidermi se salire al primo piano e porre fine, salutandoli, a quel mio avvicinamento ai miei, o se aprire molto semplicemente la porta della cucina e salutare per prima cosa le donne e le ragazze che vi erano raccolte. D’un tratto queste erano scoppiate a ridere e io pensai, se ora aprissero la porta d’improvviso mi scoprirebbero intento a origliare, a quel pensiero, pur nella mia spudoratezza, mi ero sentito gelare. Io stesso non potevo che giudicare assolutamente impossibile il mio comportamento, qualsiasi cosa io scelga ora, pensai, se di aprire la porta della cucina e di salutare quindi le donne e le ragazze in cucina, oppure di salire al primo piano dai miei per salutarli, ormai da tempo mi ero reso colpevole, alla mia maniera, incomprensibile, offensiva, com’è naturale. L’argomento della conversazione in cucina, che ora seguivo dall’atrio con la massima attenzione, erano i diversi funerali cui le donne e le ragazze raccolte in cucina avevano già assistito, e i relativi incidenti. Un vecchio di ottantasette anni, dicevano, era precipitato nel torrente, una vecchia di sessantasei anni si era impiccata a una finestra della camera da letto, un bambino era stato investito da un carro che nella cosiddetta Miniera, il nostro insediamento di minatori, aveva caricato sacchi di carbone proprio per la famiglia di quel bambino. Dicevano che i cadaveri hanno un odore sgradevole e che le corone sono diventate molto care, che le imprese di pompe funebri sono sempre di meno e che le famiglie, persino i parenti più stretti del defunto, non portano più il lutto per sei mesi, senza eccezione, come prima, persino le vedove, hanno detto. Sembrava che in cucina si stessero preparando il caffè del pomeriggio. Mentre loro prendono il caffè del pomeriggio già verso le due, pensai, solo verso le cinque mettono su l’acqua del tè per quelli del primo piano, quando per loro è di nuovo ora di cena, mentre quelli del primo piano cenano solo verso le sette e mezzo. D’improvviso trovai gradevole il fatto che a Wolfsegg nulla sia cambiato in queste abitudini, in quelle di ogni giorno, pensai. In cucina parlavano di un macchinista aggredito e ucciso, i cui cinque figli erano rimasti senza mezzi e la cui vedova ora cercava lavoro per poter mantenere se stessa e quei cinque figli, perché lo Stato non paga nulla alle famiglie delle persone assassinate, anche quando il colpevole è stato preso, in questo Stato le leggi sono quanto mai carenti. Sentii parlare di un carro rovesciatosi nei pressi della villa dei bambini, sul quale le ragazze di cucina dovevano trasportare certe panche di legno dalla villa dei bambini alla casa padronale, e le sentii scoppiare a ridere forte per un’osservazione riguardante le galline che depongono le uova, ma poi tornar subito ad ammutolire, come se di quello scoppio di risa si vergognassero come di un’insolenza a loro non consentita. Se entro da loro a salutarle, pensai, faccio una figura impossibile, così salii al primo piano, il fatto di aver viaggiato senza bagaglio, da Roma, per la precisione soltanto con il portafogli e un fazzoletto, null’altro, mi divertiva segretamente persino in quell’atmosfera triste. Chiederò una perizia per tutti i quadri alle pareti e nelle soffitte, per farmi un’idea del loro valore effettivo, mi dissi salendo al primo piano e passando davanti al quadro a olio del mio antenato e prozio Ferdinand, con molta calma, tenere a bada l’affanno, ho pensato nel fermarmi di nuovo alla svolta delle scale, origliando e ascoltando. Mia sorella Amalia stava evidentemente parlando con suo cognato, che è anche mio cognato, con il fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo, che ci ha portato i vini del Baden, pensai, e con il quale alle nozze non ho quasi scambiato una parola, non perché io fossi stato troppo superbo, ma perché lui ha preferito sottrarsi, mi aveva sfuggito senza sosta, per quanto poteva, se l’era svignata di fronte a me, certo temeva le mie domande. Lo vedo ancora nel parco, in piedi sotto una quercia, pensai, da solo, cosa che mi ha dato l’occasione di dirigermi verso di lui per parlargli, per cavargli, come ho pensato, più di quanto già sapessi, il che però non era molto, perché mia sorella non si era mai lasciata cavar fuori molto riguardo al fidanzato, ma mentre mi dirigevo verso la quercia mio cognato era già sparito, mi stava osservando e nel momento in cui si era accorto della mia intenzione di dirigermi verso di lui mi si era sottratto avviandosi rapidamente, senza alcun motivo, come pensai, dall’altra parte verso l’orangerie, dove non c’era nessuno, in ogni caso io non avevo visto nessuno, rimasi dunque da solo sotto la quercia, senza il mio ricco cognato. Anche durante il pranzo non mi era stato possibile parlare con lui, perché ogni volta che guardavo nella sua direzione lui guardava altrove, era evidente che soffriva di essere osservato da me, ma è la cosa più naturale, che il nuovo cognato venga osservato dal fratello di sua moglie, come si comporti, cosa abbia da dire, come sia, per così dire, il suo contegno non solo esteriore ma anche interiore. Ma il fabbricante di tappi per bottiglie da vino aveva preferito evitarmi. Durante il mio intero soggiorno a Wolfsegg non ho mai avuto una sola occasione di parlare davvero con lui, pensai ora; ne avevo sempre l’intenzione, il bisogno, com’è naturale, ma non ero mai stato messo in condizione di farlo, quel genere di persone, del Baden per giunta, delle regioni del vino, hanno una grande abilità nel sottrarsi a chi voglia parlare con loro, ho pensato, scansano di continuo chi li incalzi ponendo domande, sono molto astuti nell’arte di scansare gli altri. È uno stupido, diciamo noi, ma al contempo dobbiamo ammettere che è astuto. I grassocci sono sempre più astuti degli altri, in fondo anche sempre più mobili. Ma quella mobilità si limita al corpo, perché il loro spirito, ammesso che di spirito si possa parlare nel loro caso, è assolutamente immobile. Volevo sottoporre mio cognato a prove di vario genere e pensavo che non sarebbe stato difficile fargli quelle prove, interrogarlo per così dire, scoprirne i raggiri, ma avevo largamente sopravvalutato la mia arte dell’approccio, avevo fallito, senza dubbio. Ma, avevo pensato, per quali ragioni mi si sottrae, mio cognato? Cosa teme in me, che in fondo sono il fratello della sua fidanzata e, dopo le nozze, di sua moglie, che, come credevo, ho il diritto di informarmi su di lui? Indubbiamente tutti hanno trovato inaudito, da parte di mia sorella, l’aver sposato quell’uomo, senza chiedere nulla, senza conoscerlo in verità, perché è evidente che non lo conosce. Si era sempre limitata a dire che la nostra cosiddetta zia di Titisee lo conosce, sino in fondo, conosce la sua famiglia da una vita. Ma naturalmente non basta, ho pensato, proprio come mia madre, che in quel pensiero si è spinta molto più a fondo di me, senza tuttavia poter impedire quelle nozze, perché Caecilia aveva insistito, per la prima volta in vita sua aveva puntato i piedi, come si usa dire, e commesso un crimine contro mia madre, perché mia madre fin dal principio aveva definito quel matrimonio unicamente un crimine che Caecilia commetteva contro di lei e solo contro di lei, d’altra parte nostra madre aveva osato concepire quel pensiero solo segretamente e fra di noi, per non perdere la faccia. Entrambe le figlie, questo pensava e immaginava inoltre come fatto immutabile, sarebbero rimaste per tutta la vita al suo servizio nelle sue immediate vicinanze, ossia a Wolfsegg, e un matrimonio era assolutamente escluso. Finché la zia di Titisee non si è imposta con la sua idea assurda, così mia madre molto spesso, contro ogni piano stabilito in precedenza. Ma queste nozze sono anche contro Amalia, ho pensato, perché, come so, le mie sorelle si erano giurate, seppur tacitamente, fedeltà eterna, il che significava soltanto che nessuna delle due avrebbe preso marito, perché prendere marito significava naturalmente la loro separazione, che ora si è compiuta a causa di queste nozze, come tornai a pensare, assolutamente bizzarre, che mia madre, con perfidia suprema, ha sempre definito soltanto unione, una parola che, fino a quelle nozze, è sempre stata pronunciata a Wolfsegg col più grande disprezzo. Ma il fabbricante di tappi per bottiglie da vino non diceva mai nozze, bensì sempre unione, perché la parola gli è familiare dalla zona del Baden e dalle persone che frequenta, e non gli è mai parsa imbarazzante, come a chiunque non abbia confidenza con la nostra ironia, pensai. Non lo ritengo un imbroglione, né uno speculatore, ma un imbecille che aspira alle cosiddette cose superiori e migliori, come ce ne vengono incontro a migliaia, dappertutto, per la strada, e trasformano in un intollerabile inferno ogni locale e in definitiva ogni gruppo di persone di una qualche consistenza.
Per essere un imbroglione, così come per essere uno speculatore, gli mancava la scaltrezza, è un onesto arrampicatore con i suoi complessi, mi dissi. È vero che avrei potuto costringerlo a darmi conto di sé, mi dissi, non mi sarebbe stato difficile intralciargli il passo, ma non ne avevo voglia. Forse non volevo neppure essere messo di fronte al suo linguaggio grottesco, pensai, con la parlata dei tedeschi del Sud-Ovest, la parlata del Baden. La bonomia del Baden, che ho conosciuto durante diversi soggiorni nella Selva Nera presso la mia zia di Titisee, non mi è mai piaciuta, mi è parsa ben poco felice, come pure la cosiddetta bonomia viennese, che mi ha sempre ripugnato anch’essa per quel suo tratto diabolico-ottuso, e il concetto stesso di bonomia mi ha sempre per lo meno infastidito, ma per lo più depresso, perché la cosiddetta bonomia non è altro che un rapporto meschino con la vita, un rapporto meschino con la natura umana, se vogliamo esasperare questo pensiero, un uso assolutamente abietto della nostra concezione del mondo. Non posso dire che il fabbricante di tappi per bottiglie da vino si sia insinuato a Wolfsegg con l’inganno, perché è in perfetta consapevolezza che mia sorella lo ha portato a Wolfsegg, contro sua madre, e ha commesso contro di lei, con lui, un crimine capitale. Uno che non ha mai sentito nominare Max Bruch, disse mia madre a tavola una volta che si parlava del fabbricante di tappi per bottiglie da vino e solo del fabbricante di tappi per bottiglie da vino, lei che di musica non capiva nulla e per la quale il concerto per violino di Max Bruch è stato per tutta la vita la suprema estasi musicale, se debbo dire la verità, proprio lei ha sentito il bisogno di rendere il futuro genero, in quel modo, ancora più ridicolo di quanto già non fosse, e non solo per iniziativa sua ma anche nostra, di fargli fare brutta figura proprio con il discutibile nome di Max Bruch, pensai. A Roma, con i mei amici, non ho lasciato trapelare nulla riguardo al fabbricante di tappi per bottiglie da vino finché le nozze non furono più o meno fissate, poi avevo sciorinato la sua storia, per così dire, a ritroso, con Zacchi, Gambetti, anche Maria, che alle mie descrizioni non riusciva a stare in piedi dal ridere. Solo più tardi mi ero reso conto della meschinità di quel mio comportamento, del fatto che così facendo non ho parlato contro di lui, il mio nuovo cognato, ma in fondo soltanto contro di me, che così facendo ho tradito me stesso. Di mio cognato non ero riuscito a parlare seriamente, ma sempre e soltanto in quella maniera ironico-amara a cui ricorro quando non sopporto la serietà. Ma sono proprio le persone come il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, quelle che mi hanno sempre fatto andare in collera, che in definitiva hanno sempre scatenato in me un furore cieco, come si usa dire, perché più di chiunque altro mostrano l’insopportabile caricatura dell’uomo, la sua immagine sfigurata, la sua meschina ridicolaggine, che non va presa per sprovvedutezza. Così come c’è differenza, se ho dinanzi una persona semplice oppure un proletario, l’uno è sopportabile, pacificante, l’altro è assolutamente insopportabile, inquietante, deformato, pensai. Il proletario è l’uomo dell’industria, che non c’era prima dell’industrializzazione, e lo schiavo della macchina, colui che senza sosta viene umiliato dalla macchina e non può difendersi da quell’umiliazione, che dalla macchina viene reso meschino, mentre l’uomo semplice, così come io lo concepisco, non si è mai reso schiavo della macchina, non se ne è lasciato umiliare e dunque neppure distruggere e annientare, pensai. Il piccolo borghese e il proletario sono prodotti, miserevoli ma insopportabili, dell’età della macchina, e noi ci spaventiamo quando li abbiamo dinanzi, perché non possiamo fare a meno di pensare a cosa le macchine e gli uffici abbiano fatto di loro. Dalle macchine e dagli uffici è stata distrutta e annientata gran parte, la maggior parte degli uomini, pensai, il fabbricante di tappi per bottiglie da vino è stato distrutto e annientato, reso insopportabile, dal suo ufficio di tappi per bottiglie da vino e dalle sue macchine di tappi per bottiglie da vino, pensai, fermandomi, benché già al primo piano, in cima alle scale. Non posso sapere cosa abbia spinto mia sorella a fare proprio di quell’uomo l’uomo della sua vita. D’altra parte so che non ne ha trovato nessuno disposto a legarsi a lei, tutti i suoi tentativi, e di tentativi ne ha fatti parecchi, sono falliti, non potevano non fallire con una madre che ha sempre proibito alle sue figlie gli uomini e, in generale, di frequentare gli uomini, le mie sorelle erano già sui trent’anni e dovevano ancora attenersi a quel divieto materno, non osavano infrangerlo perché temevano, in quel caso, di venir cacciate da nostra madre e private dei loro diritti. Le hanno sempre minacciate di diseredarle, se non si attenevano alle disposizioni materne, quindi vi si attenevano, perché nulla temevano di più che di essere diseredate, perché lasciate a se stesse si sentivano effettivamente impotenti, delle nullità, posso ben dire. Una volta che Caecilia aveva manifestato il desiderio di andare a Salisburgo, solo per due giorni, con un amico, come si era infelicemente espressa, per una settimana le avevano proibito anche soltanto di uscire di casa. Ad Amalia non è andata meglio, quando nei suoi desideri c’erano gite pericolose di questo genere, così mia madre. Ma come mi comporterò adesso, in questa situazione, con il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, pensai, sentendo contemporaneamente le voci dei miei, di tutti e tre, anche se, stando lì nel corridoio, non capivo di cosa parlassero, discutevano senza dubbio di qualcosa che era in relazione con il funerale, questo mi fu subito chiaro. Qual è la maniera migliore di procedere? mi chiesi, come muovermi sulla scena appena fatta la mia comparsa? Riflessioni simili di solito non portano a nulla, non fanno che rendere tutto ancora più difficile, complicano ciò che in definitiva è invece sempre molto semplice, anche se appare complicatissimo, intricato oltre misura. Sapevo che le cose, come si usa dire, vanno sempre a posto da sole, e che è inutile preoccuparsi in quei casi che generalmente vengono definiti i più difficili, come per esempio il primo farsi incontro quando, avvertiti di una disgrazia come quella in questione, torniamo a casa, e i testimoni o le persone che la disgrazia ha colpito per prime ci stanno aspettando. Sappiamo che le cose si aggiustano da sole, ma non confidiamo mai in questo fatto, lo trascuriamo sempre e trasformiamo la nostra testa in un inferno. Se le mie sorelle fossero sole, pensai, non avrei la benché minima difficoltà, in questo caso sarei con loro già da tempo a discutere del prossimo futuro, ma il fabbricante di tappi per bottiglie da vino impediva che la mia comparsa avesse quella semplice spontaneità. Mi è già d’intralcio, ho pensato, blocca già il mio agire naturale, pensai. Oggi, a una settimana di distanza dalla loro celebrazione, quelle nozze risultano già essere un grave e grossolano errore, pensai, sono il cuneo fra Caecilia e Amalia, pensai, che le separerà definitivamente, in maniera sostanziale, non in quella capricciosa che ha spinto Amalia a trasferirsi per un poco nella casa dei giardinieri, per punire Caecilia, per un periodo ridicolmente breve. Ora il fabbricante di tappi per bottiglie da vino è seduto lì con loro, e discute quel che loro in verità dovrebbero discutere con me, pensai. Si immischia in questioni che non lo riguardano, forse dirige già Wolfsegg a modo suo, con la sua demenza, con le sue opinioni e concezioni piccolo borghesi che mai saranno in grado di diventare idee. A meno di una settimana dalle nozze si è già stabilito a Wolfsegg, se ne è impadronito, pensai, e mi misi in una posizione tale da poter sentire quasi tutto quello che i tre dicevano, badando sempre e soltanto, in fondo, ad afferrare d’improvviso qualcosa che mi riguardasse, qualsiasi cosa, ma li sentivo parlare solo dell’impresario delle pompe funebri, che era già stato lì tre volte e col quale non riuscivano a mettersi d’accordo. Dire che erano già arrivate ottanta corone e quaranta mazzi di fiori. Che avevano pubblicato grandi annunci mortuari non solo sulle «Oberösterreichische Nachrichten» e sugli altri giornali dell’Alta Austria, ma anche sui giornali di Vienna e Monaco, e stavano considerando l’opportunità di fare inserzioni anche sulla «Frankfurter Allgemeine». Parlano così piano perché nessuno li senta, pensai, e invece io sentivo tutto, per la prima volta avevo fatto la scoperta che fuori nel corridoio si sente quasi tutto anche quando dentro si parla assolutamente piano, pianissimo, questo mi spaventò, perché finora avevo sempre creduto che fuori non si sentisse quel che si dice dentro. Questa scoperta è della massima importanza, pensai, mi costringe a misure di prudenza estrema, riguardo al mio modo di parlare nel cosiddetto salone. Loro sono sicuri di non essere uditi e invece si capisce ogni parola, pensai. Il fabbricante di tappi per bottiglie da vino non faceva che rispondere sì o no, per tutto il tempo, alle domande più irrilevanti, erano le mie sorelle a guidare la discussione, questo mi rassicurò un poco. Ma all’improvviso disse che il catafalco occorreva sollevarlo un poco, al che io, com’è naturale, tesi l’orecchio con attenzione ancora maggiore. Il catafalco, disse, era troppo basso e i visitatori avevano grandissime difficoltà a vedere le salme composte nelle bare, si poteva rimediare solo alzando daccapo il catafalco. Ne parlarono e riparlarono per qualche tempo, finché non decisero tutti e tre di dare l’incarico di alzare di nuovo il catafalco. Poi parlarono dei giardinieri, poi dei cacciatori, poi del fatto che avevano già prenotato tutte le stanze per gli invitati al funerale, che da ogni parte avevano annunciato il loro arrivo, in tutte le locande non solo giù in paese ma anche a Ottnang, più volte era stato fatto il nome Gesswagner, il nome della locanda nella quale più mi piaceva mangiare, sempre, quando mi sottraevo alla cucina di Wolfsegg. Da Gesswagner avevano grandi stanze con letti antichi, dove gli ospiti che avevamo alloggiato là nelle più diverse occasioni si sono sempre trovati bene, non è un caso che quella locanda sia famosa, come pure la macelleria che ne fa parte. La parola Gesswagner mi ricordò istantaneamente che avevo trascorso tante ore felici nella locanda così chiamata, in compagnia della gente di Ottnang, è ai minatori, ai contadini, ai falegnami e agli stradini che la frequentano che debbo i progressi tanto precoci nel mio modo di vedere le cose. In nessun’altra locanda ho mai conosciuto un’allegria così briosa e perfettamente naturale, per questa ragione la parola Gesswagner è per me una parola magica. È il cuore di Ottnang, conosciuta e famosa per la sua gente piena di brio e schiettamente gioiosa, nonché per la migliore banda musicale accanto a quella del nostro paese. Ma solo per me, naturalmente, che ne conosco le implicazioni, la parola Gesswagner rappresenta qualcosa che infonde felicità, pensai. D’improvviso il discorso cadde su di me, non riuscivano a spiegarsi perché non mi fossi fatto vivo finora, quando invece mi avevano mandato il telegramma subito dopo che si era saputo della disgrazia. Non una telefonata, nulla, disse Amalia. Quello era il momento di entrare. Si erano alzati, non erano stati in grado di dire nulla, io abbracciai le mie sorelle, strinsi la mano a mio cognato. Senza aggiungere una parola scesi poi con Caecilia nell’orangerie. La mia prima impressione di loro fu che mi rispettassero come unico successore delle vittime dell’incidente, non avevano scelta, così si accoglie colui nel quale esse ripongono ora ogni speranza, questo avevo pensato, e inoltre, per un istante, che ora sono nelle mie mani, che dipendono dal mio aiuto, soprattutto devono darmi ascolto. Per un istante, che senza di me non sono più in grado di sopravvivere, che ora contano sulla mia generosità, nella certezza che io sono l’erede naturale dei defunti, intorno al quale ora esse si raccolgono, ridotte dalla disgrazia alla completa impotenza. Il rinnegato, il reietto, il dannato, l’odiato era diventato d’improvviso, per così dire, il solo arbitro, il responsabile del sostentamento, il salvatore delle vite altrui. In quel primo istante del nostro incontro puntavano tutto su di me, pretendevano da me che, più o meno costretto dalle circostanze, dimenticassi di colpo, per salvarle, tutto quanto loro e i defunti insopportabilmente mi avevano inflitto. Quell’intenzione l’avevo senza dubbio e gliela feci capire, non con le parole, solo col mio contegno, che non è possibile spiegare con maggior precisione. Mio cognato era ormai interamente scivolato nella loro stessa posizione, si aspettava da me che ora lo proteggessi insieme alle mie sorelle, che dovessi subito includere anche lui, com’è naturale, nelle mie riflessioni sul futuro. Ma se loro non potevano sapere che cosa sarebbe accaduto ora, altrettanto poco lo sapevo io, perché sul fatto che l’intero complesso di Wolfsegg, con tutti i suoi effetti e le sue ripercussioni, era toccato a me ed esclusivamente a me, non avevo ancora riflettuto, neppure minimamente, né il giorno prima a Roma, tenuto conto del telegramma senza dubbio traumatico, né per tutto quel tempo, che il viaggio subito intrapreso aveva interamente assorbito, senza lasciarmi il tempo di riflettere su Wolfsegg come complesso futuro, in ogni caso non me ne ero dato il tempo, non ho voluto, perché non volevo, ancor prima che i miei genitori e mio fratello fossero sepolti, gravarmi subito, per così dire, del peso e dell’oppressione di quel complesso di Wolfsegg dopo di loro, la notizia della morte dei miei genitori e di mio fratello, inoltre, era arrivata a Roma troppo repentinamente, lo shock, come ho già detto, non mi aveva scosso, bensì, al contrario, mi aveva messo dapprima, di fronte a quella disgrazia senza dubbio spaventosa, in una disposizione di spirito addirittura indifferente, che non ho avuto la forza, e dunque neppure la volontà di abbandonare. Avevo soltanto messo le fotografie sulla scrivania e fantasticato su quelle fotografie, come posso ben dire, per distrarmi più o meno dall’orrore, quel metodo era il migliore, come ora vedevo, dopo il telegramma con la notizia della morte dei miei ero più calmo che scosso, come si usa dire, avevo il pieno dominio di me stesso e la mia mente, come ho detto, era rimasta sgombra, ma, com’è naturale, non avevo riflettuto a fondo sulle conseguenze della notizia di quella morte, nel dettaglio e in tutto il suo peso schiacciante, perché volevo proteggermi, dovevo proteggermi, non potevo e non volevo lasciarmi schiacciare dal fatto che i miei genitori e mio fratello erano morti. Sulla strada verso l’orangerie, mentre Amalia era andata avanti, avevo pensato che ora le mie sorelle e mio cognato si sarebbero interamente affidati a me, che già ora, per necessità assoluta, erano completamente cambiati nei miei confronti. D’un tratto, dopo la morte dei nostri genitori e del nostro fratello maggiore, interpretavo un ruolo per loro effettivamente sempre inimmaginabile, quello del responsabile del loro sostentamento e nutrimento. Eppure sono la stessa persona di prima, pensai, io non sono cambiato, io non cambio, anche se loro adesso se lo aspettavano da me, dovevano crederci, per non disperare subito e lasciarsi sfuggire tutto di mano. Il fatto è che sulla strada verso l’orangerie, per quanto sia stato triste anche per me, com’è naturale, pensavo che alle mie sorelle va liquidata la loro parte, che non ci penso neppure a lasciarle a Wolfsegg in avvenire, né permetterò che Wolfsegg continui a essere amministrata con i metodi usati finora, ma naturalmente non potevo sapere in quale altro modo, sapevo solo che le cose non avrebbero continuato ad andare com’erano andate per secoli, fino a oggi. Amalia mi aveva preceduto di proposito fino all’orangerie, forse effettivamente nelle vesti della figlia e sorella affranta per la morte improvvisa dei genitori e del fratello, vestita di nero, in un abito aderente di lana nera, i capelli raccolti sulla nuca, aveva un ottimo aspetto, come Caecilia del resto, pensai, alla quale il nero sta altrettanto bene. Se almeno non andassero sempre in giro con quegli atroci vestiti alla tirolese, ho pensato, se indossassero vestiti neri, sarebbero più gradevoli, pensai. Mio cognato, a fianco di Caecilia, in un primo momento mi aveva fatto l’impressione di un uomo assolutamente sprovveduto, ora non era più lo sposo di una settimana prima, da un lato trionfante, d’altro lato carico di complessi; la disgrazia e le sue immediate ripercussioni non gli permettevano più di celare minimamente la sua irrilevanza e stupidità, le avevo davanti, in tutta la loro deprimente assenza di significato. Anziché essere lui a sorreggere Caecilia, come sarebbe stato naturale, era lei che sorreggeva il marito, questa almeno la mia impressione nel momento in cui ero entrato nel cosiddetto salone, guardando prima Caecilia e il marito, soltanto dopo Amalia, che mi è parsa ancora la più calma. Avevano predisposto tutto, avevano detto, non riuscii a immaginare cosa, ma pensai che per loro iniziativa era stato avviato tutto quanto era necessario fare. Prima di arrivare all’orangerie, Caecilia ha detto di aver mandato, insieme al mio, un telegramma anche a Spadolini. Chi ancora dovesse essere avvertito della disgrazia oltre a quelli che erano già stati avvertiti, stava a me deciderlo. Aveva trovato ovvio mandare un telegramma a Spadolini. In quel momento mi fu chiaro inoltre che Caecilia sapeva benissimo di quale natura fosse la relazione di nostra madre con Spadolini. Le mie sorelle sono sempre state al corrente di tutto, pensai. Il fabbricante di tappi per bottiglie da vino ora mi è d’ingombro in tutto, pensai al contempo, ma non posso escluderlo, al contrario, ho l’impressione che Caecilia voglia spingerlo espressamente in primo piano, per così dire come suo protettore, ma quel pensiero non mi disturbava, perché, anche se adesso era mio cognato, non temevo il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, resterà una figura marginale assolutamente priva di influenza, pensai. Al fine troppo scoperto di metterlo in primo piano, quando io ero entrato nel salone Caecilia si era messa dietro di lui, facendosene, per così dire, scudo. Fin dal primo istante, certo, lo trovai un gesto ridicolo, per non dire di cattivo gusto, non era scaturito da una naturale necessità interiore; il fatto di mettersi dietro suo marito mentre ancora si stava alzando, quando mi ha visto entrare nel salone, era indegno di lei, pensai, senza addentrarmi oltre in quel pensiero, non era importante in quel momento, ma mi aveva tuttavia infastidito, pur comprendendo bene ogni smarrimento, ora, in quella situazione. Le mie sorelle si erano sforzate di mostrarsi cambiate, tenendo conto del nuovo stato di cose a Wolfsegg, ma erano riuscite solo a metà a simulare ai miei occhi un loro cambiamento, perché non erano cambiate, erano le stesse di prima, mi era solo parso che fossero cambiate, è stato un errore da parte mia, un errore nel quale sono dapprima caduto, che però si è presto chiarito, già nell’istante in cui ho detto che ora volevo vedere i nostri genitori morti, nostro fratello morto. Prima che arrivassimo all’orangerie ho pensato ancora che adesso probabilmente le mie sorelle non avrebbero preteso da me null’altro che il mio totale sacrificio. Ora, mentre le proteggi meglio che puoi, devi stare in guardia, altrimenti avrai la peggio, in fondo sono andate a scuola da tua madre e sanno sfruttare anche una simile tragedia per i loro meschini scopi. Sul momento ebbi orrore di quel mio pensiero, ma non l’ho pensato senza ragione, ed era assolutamente necessario.
I miei, anche le mie sorelle, non erano mai arretrati davanti a nulla, quando serviva ai loro scopi, perché dovrebbero essere diverse ora, mi dissi, e al contempo, come dev’essere grande e profonda la mia diffidenza nei loro confronti, per poter pensare così in questo momento, ed ebbi orrore di me. La diffidenza è sempre stata la regola fra noi, ciascuno per suo conto l’aveva sviluppata ben oltre le normali proporzioni e ne aveva fatto un’abitudine, assolutamente indispensabile, che riguardava tutto. Ma quella diffidenza io l’avevo solo a Wolfsegg e sempre verso i miei, altrimenti non l’avevo, in nessun altro luogo agiva in quella maniera, penso, non appena ero a Wolfsegg compariva, faceva parte di Wolfsegg, ne faceva parte come tutte le altre cosiddette qualità malvage, che in fondo sono soltanto mezzi affatto naturali per riuscire ad affermarsi, per non soccombere. Troverò delle sorelle pavide, ho pensato a Roma, che reagiranno a tutto con nervosismo, e invece, come constatavo, erano la calma in persona, oppure mi sono sbagliato e ho visto solo la loro calma esteriore, senza percepirne l’inquietudine e il nervosismo interiori. Arriverò in una casa in agitazione, ho pensato a Roma, ma la casa non era in agitazione e io pensai, ma quanto dev’esser grande, una disgrazia, per travolgere i miei, per paralizzarli, non erano travolti, non erano paralizzati, non solo avevano conservato il controllo di sé, come si usa dire, ma erano lucidissimi, quando ero entrato nel salone. Non gli era venuto neanche in mente di chiedermi come e perché fossi arrivato così tardi da Roma, se in treno o in aereo, tale era l’ovvietà del fatto che mi trovassi dinanzi a loro proprio in quel momento e in nessun altro. Non una sola domanda mi hanno rivolto, pensai, né offerto nulla, hanno subito preteso da me che io fossi colui che dirige, colui che ora tiene tutto in mano e deve essere forte; che magari potessi non essere in grado di assumere la nuova carica che di colpo mi era toccata, questo non gli era venuto in mente, in apparenza almeno. Al momento hanno rimesso a me ogni cosa, pensai, sebbene al momento ne sapessero più di me, forse sono stati testimoni della disgrazia, in ogni caso quelli che l’hanno saputo per primi, prima di me, ancora sulla strada verso l’orangerie non sapevo neppure come fosse accaduto, avevo ritegno a chiedere come, non ero, per il momento, nelle condizioni di spirito adatte a interrogarli al riguardo. Ma l’incidente può essere stato solo un incidente d’auto, pensai, neppure alle mie sorelle era venuto in mente di darmi spiegazioni sulla natura dell’incidente, l’avevano evitato nei primi minuti del mio ritorno da Roma, nessuno aveva voluto essere il primo a comunicarmi la vera causa della morte dei miei genitori e di mio fratello, come se al riguardo fossero condannati al silenzio, si comportavano come se si fossero messi d’accordo su quel punto scabroso, su quella vicenda in effetti tremendamente penosa, siccome loro non parlavano, avevo parlato io, avevo detto che non mi era stato possibile venire prima, sebbene fosse una menzogna, ma, come ho visto, mi avevano creduto, conoscono la situazione italiana, sempre caotica per quanto riguarda i mezzi di trasporto, ci pensano i sindacati, in Italia, a far sì che gli scioperi siano quasi quotidiani e quindi quotidiano lo stato di caos in tutta Italia, questo loro lo sanno perché molto spesso gli ho spiegato quello stato di caos e ne erano informati anche dai loro giornali; avevo quindi tranquillamente potuto dire che non ero potuto venire prima, perché alle mie parole debbono aver pensato subito a quella situazione caotica, non a una mia menzogna. La parola Italia è sempre stata anche per i miei sinonimo di situazione caotica, del paese dalla situazione caotica per eccellenza, e spesso mi hanno chiesto perché io mi sia per così dire stabilito proprio in Italia, dove da decenni regna la situazione più caotica in assoluto. Al che avevo detto che a indurmi a fare dell’Italia la mia residenza era stata proprio quella situazione caotica, proprio Roma, dove estreme sono la situazione caotica, le imprevedibilità, le impossibilità, come ho sempre detto loro. Proprio perché l’Italia è il paese più caotico d’Europa, probabilmente il paese più caotico del mondo, ho detto loro, è la mia residenza, Roma, il centro del caos, loro non lo capivano e io non avevo voglia di fornire ulteriori spiegazioni su cosa mi interessasse laggiù. Una grande città soltanto non mi basta, ho detto loro spesso, dev’essere caotica, una metropoli caotica, per così dire. Ma di quei concetti, come in generale di tutti i miei concetti, non avevano mai saputo che farsene. Ma non mi hanno neanche chiesto se voglio un tè o un bicchiere d’acqua, ho pensato, ma poi li ho scusati, considerando l’intera situazione, perché a uno che da Roma arriva direttamente a Wolfsegg, il che in ogni caso è una fatica, senza dubbio si chiede se abbia sete o fame, ma loro non me l’avevano chiesto. Loro stessi stavano prendendo il caffè, ma non me lo avevano offerto, avrei dovuto semplicemente versarmi una tazza di caffè, pensai, ma non lo feci perché io stesso in fondo volevo scendere il più in fretta possibile all’orangerie, per esaminare i miei genitori morti e Johannes morto, non volevo rinviare oltre quell’evento terribile e inevitabile. Caecilia si sorprese in effetti, quando fummo all’orangerie, nel vedere che non stringevo la mano ai giardinieri, che non scambiavo con loro una sola parola, perché non sapeva che almeno mezz’ora prima, se non di più, avevo già parlato con i giardinieri, li avevo salutati da tempo e gli avevo addirittura chiesto come stessero, ma a lei era parso strano il mio contegno nei confronti dei giardinieri, ora che dalla fattoria portavano di nuovo grandi corone, si erano fermati davanti all’orangerie per cedere il passo a noi, ai padroni per così dire. Io entrai nell’orangerie, Caecilia era rimasta sulla porta. Subito mi spaventai, nel vedere che le salme dei miei genitori e di mio fratello erano composte in maniera diseguale, mio padre più in alto di mia madre e di Johannes, e che mio padre e mio fratello giacevano in una bara aperta, mentre la bara di mia madre era chiusa. Mi voltai verso Caecilia, come se all’istante, ancor prima di avvicinarmi alle bare, volessi una spiegazione a quella stranezza, ma poi seppi spiegarmi anche da solo la causa di quella ineguale composizione, la salma di nostra madre era in uno stato che rendeva impossibile una composizione nella bara aperta. Più tardi mi hanno detto che mia madre, come ho supposto, era rimasta a tal punto mutilata nell’incidente stradale da risultare ormai irriconoscibile, come scrissero i giornali, come disse poi Caecilia, tanto che era stato necessario chiudere subito ermeticamente la sua bara. Nell’incidente mia madre era stata più o meno decapitata, mentre sul corpo di mio padre non si notava assolutamente nulla, e neanche su quello di Johannes, entrambi erano soltanto andati a sbattere contro il parabrezza e, in modo egualmente fatale, si erano spezzati l’osso del collo. Una barra di ferro di quel camion di Linz aveva colpito la testa di mia madre in maniera tale che la testa era stata quasi interamente staccata dal tronco, proprio là, nel centro della vettura, dietro, dove lei era solita sedere quando viaggiavano in tre, la barra di ferro era entrata nell’abitacolo e aveva colpito a morte mia madre. Tutti e tre non avevano sofferto. Voltandomi dopo il primo sguardo alla bara chiusa di mia madre, avevo visto che Caecilia aveva gli occhi pieni di lacrime. Alle sue spalle stavano i giardinieri. Rimasi due o tre minuti dinanzi ai morti, poi mi voltai e uscii dall’orangerie. Stando dinanzi alle salme avevo respirato l’odore caratteristico delle salme composte nella bara e per prevenire un malore avevo preferito lasciare l’orangerie, avevo anche l’impressione che fosse meglio non restare oltre dinanzi alle salme che, così ho pensato mentre stavo loro dinanzi, non mi riguardano. La loro vista mi dava la nausea, ero lontanissimo dall’essere commosso, come si usa dire, dal provare qualcosa che non fosse nausea e orrore. Un legame l’avevo con i miei genitori vivi e con mio fratello vivo, non con quei cadaveri maleodoranti, pensai. Naturalmente mi guardai bene dal manifestare quella mia sensazione a mia sorella o a chiunque altro, com’è naturale. I volti composti nella bara di mio padre e di mio fratello non li riconobbi neppure, erano cambiati al punto da sembrare volti estranei, che con mio padre e mio fratello non avevano nulla a che vedere. Andiamo, avevo detto a Caecilia davanti all’orangerie. Tornammo nella casa padronale. Mi infastidì, durante la strada, che il drappo nero che pendeva, addirittura sfacciato, dal balcone centrale non fosse srotolato esattamente dal centro del balcone, e lo feci notare a mia sorella, ho sempre odiato quel genere di inesattezze. Prima, al mio arrivo, quando, ancora solo e non visto, avevo guardato l’edificio principale dal portale del muro di cinta, non mi ero accorto di quel fatto, ora mi disturbava più di ogni altra cosa al momento. Mia sorella fece un cenno a uno dei giardinieri, quello venne e lei gli disse di sistemare il drappo esattamente al centro del balcone, non era difficile. Disse solo che s’era dovuto far tutto così in fretta, suonava come una giustificazione riguardo al drappo nero, che il giardiniere ha poi subito messo al centro del balcone, come ho visto da sotto, io lo guidavo da sotto, gli dicevo dov’era il centro esatto del balcone, dove doveva esser calato il drappo. In quell’occasione scopersi in me un nervosismo nascente, che cercai tuttavia di reprimere subito dicendo a mia sorella Caecilia quanto le stesse bene il vestito nero che indossava, il nero ti sta meglio di tutto, le ho detto, non avevo alcun intento maligno, ma lei naturalmente l’aveva subito presa in quel modo, non mi aveva creduto capace di un’osservazione onesta e senza secondi fini, credette subito al significato infame, quindi non rispose al mio complimento. No, sul serio, ho detto, questo vestito nero ti sta a meraviglia. Ignorò quella mia frase. Alzò lo sguardo ai piccioni sui davanzali, che quell’anno avevano già insudiciato tutti quei davanzali in maniera da far ribrezzo. I piccioni erano un problema grave a Wolfsegg, anno dopo anno se ne stavano a centinaia sugli edifici e li insudiciavano e li rovinavano. Ho sempre odiato i piccioni. Alzando lo sguardo ai piccioni sui davanzali dissi a Caecilia che avevo una gran voglia di avvelenare tutti i piccioni, rovinavano gli edifici, avevano un cattivo odore e inoltre non c’era quasi nulla che mi ispirasse più repulsione del loro tubare. Dissi che fin da bambino odiavo il tubare dei piccioni. Il problema dei piccioni era in effetti vecchio di secoli, non è mai stato risolto, ci si è sempre limitati a parlarne e a maledirlo senza mai avviarlo a soluzione. Ho sempre odiato i piccioni, dissi a Caecilia e presi a contare i piccioni uno dopo l’altro, su un solo davanzale ce n’erano tredici, stretti l’uno all’altro nella loro stessa sporcizia. Che le ragazze tolgano almeno la sporcizia dei piccioni dai davanzali, dissi a Caecilia, e mi sorprese il fatto che la sporcizia dei piccioni non fosse già stata tolta prima delle nozze. Hanno pulito tutto, ma evidentemente non i davanzali dalla sporcizia dei piccioni. Una settimana prima non me n’ero neanche accorto. Alle mie osservazioni sui piccioni Caecilia non replicò nulla. I giardinieri avevano lasciato che un vagabondo trascorresse la notte nella villa dei bambini, disse poi dopo una pausa piuttosto lunga, durante la quale un dubbio mi è penetrato d’improvviso nel cervello, se avessi dato a Gambetti i libri giusti, se non sarebbe stato meglio dargli anche Effi Briest di Fontane, e i vagabondi avevano acceso un fuoco che aveva provocato un incendio nella stanza a pianterreno, dove i vagabondi avevano trascorso la notte. Ma i giardinieri erano riusciti a spegnere l’incendio, i vagabondi erano scomparsi poco prima che scoppiasse l’incendio, nessuno sapeva dove, era indifferente del resto, perché comunque non li si sarebbe più trovati, la stanza distrutta dal fuoco era quella in cui conservavamo le marionette della nostra infanzia, tutte le marionette erano bruciate, disse Caecilia. E intanto guardava verso le montagne, al di là del paese. Proprio le marionette dell’infanzia, pensai, proprio loro, senza riuscire a dir nulla riguardo all’accaduto. Che fossero stati dei vagabondi, a trascorrere la notte nella villa dei bambini e a provocare l’incendio, non mi dispiaceva affatto, perché non pensavo che esistessero ancora dei vagabondi, pensavo che fossero una specie da tempo scomparsa. E pensai che era naturale che fossero stati i giardinieri a permettere ai vagabondi di trascorrere la notte nella villa dei bambini. Ora Caecilia si aspettava probabilmente che io dicessi qualcosa contro i giardinieri, e invece, con sua grande sorpresa, elogiai i giardinieri in maniera particolare, dissi che erano i più fedeli, i più affidabili, i più naturali, i miei prediletti. Era proprio perché Caecilia ora si aspettava da me qualcosa contro i giardinieri, che ne parlavo bene, li elogiavo, inventando tutto di sana pianta, come io stesso sentivo. Farò restaurare la villa dei bambini, dissi d’improvviso, e quell’affermazione del tutto marginale, come credevo, aveva agito come uno shock su Caecilia, che alzò lo sguardo e mi fissò dritto negli occhi. Con quella dichiarazione, in effetti, mi ero fatto padrone di Wolfsegg, perché avevo detto alla lettera farò restaurare la villa dei bambini, mai in precedenza avevo detto che avrei fatto restaurare qualcosa a Wolfsegg, perché fino a oggi non ne avevo avuto il diritto, al contrario, qui tutti i diritti mi erano sempre stati tolti, da decenni ero privo di diritti, mai, fin dal principio, avevo goduto di un qualche diritto riconosciuto a Wolfsegg, sia pur minimo, questa è la verità. La villa dei bambini è un gioiello, dissi, deve essere rimessa in ordine per tornare com’era un tempo, esattamente secondo gli antichi quadri, dissi. E mi venne il pensiero di cominciare il restauro della villa dei bambini nel più breve tempo possibile, ne avevo grande voglia. Anche la fattoria va rimessa in ordine, la fattoria è in pieno abbandono. Visto che abbiamo tanti soldi, dissi, Caecilia taceva e mi lasciava parlare. Era il suo vecchio metodo, quello di lasciarmi parlare finché non avessi parlato assai più di quanto non mi fosse utile, più di quanto non fosse saggio, rivelando troppo con le mie chiacchiere, allora lei trionfava. Anche questa volta ho parlato troppo e mi sono tradito. E poi farò venire il mio restauratore da Vienna, perché cataloghi i nostri quadri e ne stabilisca il valore, dissi. L’avevo appena detto che già ne provai imbarazzo, e cercai di sviare il discorso. Non credevo, dissi, che mi sarei ritrovato tanto presto a Wolfsegg. Non volevo più tornare per molto tempo, dissi. Roma per me è l’ideale. Non posso vivere in nessun’altra città, e tanto meno in campagna. Wolfsegg è ormai fuori discussione per me, ho detto. Forse non avrei dovuto fare neppure quel rilievo, pensai. La villa dei bambini è il mio edificio preferito, dissi. Ti ricordi quando abbiamo rappresentato Confucio, che noi stessi abbiamo inventato e scritto. Non sapevamo neppure cosa o chi fosse Confucio, ma la parola Confucio ci ha dato l’ispirazione per un’opera teatrale. A proposito, dove sono finite le opere teatrali che abbiamo scritto? chiesi a Caecilia. Non lo sapeva. Devono essere nella soffitta della villa dei bambini, dissi. L’ultima volta che le ho viste erano nella soffitta della villa dei bambini. Per Confucio hai dipinto la tua scenografia più bella, dissi. E Amalia è stata una magnifica Confucia. Le biblioteche devono essere aperte, dissi. Tutti quei libri devono prendere aria. Non sappiamo neppure che tesori siano, mai arieggiati, coperti di polvere, dissi. A poco a poco Wolfsegg tornerà viva, come me la figuro io, dissi. Caecilia taceva. Per decenni i nostri genitori hanno messo tutto sotto chiave, dissi. Guardai di nuovo verso i giardinieri, due cacciatori entrarono dal portale del muro di cinta, mi videro e mi salutarono da lontano. Soltanto la caccia, sempre e soltanto la caccia, dissi, e pensai, adesso sono ancora più solo di prima. I piccioni tubavano così forte che alzai di nuovo lo sguardo alle finestre, soprattutto a quelle dell’ultimo piano. Tutte le volte che sta per piovere tubano in maniera particolarmente orrenda, dissi. Del resto, dissi, anche il mio allievo Gambetti odia i piccioni. Roma è piena di piccioni, a Roma distruggono tutte le cose belle, tutta l’architettura. I piccioni vanno decimati, dissi, e all’istante mi è dispiaciuto aver pronunciato la parola decimati. Uno dei giardinieri si avvicinò a noi e mi chiese se davvero la bara chiusa dovesse essere ulteriormente alzata. Sì, disse mia sorella, sebbene il giardiniere si fosse rivolto espressamente a me. Se ne andò, per alzare insieme a un collega la bara di mia madre. La cosa migliore di Wolfsegg sono i giardinieri, dissi a Caecilia. Finse di non sentire. La disgrazia è accaduta, come si usa dire, mercoledì sera. In cucina, bene in vista, c’era una pila di giornali che le ragazze di cucina erano andate a comprarsi, ero entrato in cucina per rimediare almeno un cosiddetto caffè della servitù, e il mio sguardo era caduto subito sulla pila di giornali sul tavolo piccolo accanto alla finestra. Benché in un primo momento mi fossi rifiutato di farlo, non ero poi riuscito a dominarmi e mi ero seduto sulla sedia per scorrere i giornali. Nella maniera ripugnante e abietta di sempre i giornali scrivevano ora della nostra disgrazia, con la sfacciataggine e insieme con la dettagliata precisione che sono tipiche dei nostri giornali, la brutalità con cui trattavano la nostra disgrazia, per trasformarla in evento sensazionale, era quella crudele che avevo sempre temuto, ma anche sempre ammirato leggendo di altre disgrazie, il cosiddetto cinismo, che in questi casi va in stampa con perfetta disinvoltura e viene avidamente divorato dai lettori, me incluso, perché, per quanto riguarda il sensazionale più primitivo, sono sempre stato uno di questi lettori avidi, già da bambino, e ancor oggi; ma questa volta, com’è naturale, le cronache della nostra disgrazia mi hanno subito dato la nausea. I miei genitori sono andati con Johannes a Steyr, per vedere il nuovo modello di una trebbiatrice americana presso un commerciante di macchine agricole di laggiù, anche la trebbiatrice che desideravano, come tutte le macchine agricole di Wolfsegg, doveva essere una McCormick. I miei genitori, cui Johannes ha fatto da autista, si erano trattenuti l’intero pomeriggio a Steyr, in visita presso amici e facendo acquisti, Steyr è un buon posto per gli acquisti, e poi verso sera erano andati a Linz per assistere nel cosiddetto Brucknerhaus sulla riva del Danubio, uno dei cosiddetti edifici culturali più atroci che esistano, a un concerto con musiche di Bruckner diretto da Eugen Jochum. Dopo il concerto, con mio padre come autista, erano tornati subito a Wolfsegg e poi, poco dopo Wels, sulla statale numero 1, dove la strada si biforca in direzione di Gaspoltshofen, proprio all’incrocio, avevano avuto l’incidente. Quale sia stata la dinamica esatta dell’incidente non lo sanno neppure i giornali, che non hanno fatto economia di fotografie raccapriccianti. Hanno addirittura dato grande risalto a una in cui è ritratto il tronco senza testa di mia madre, io contemplai per qualche tempo la fotografia, nella continua paura, com’è naturale, che qualcuno entrasse in cucina e mi sorprendesse. Bevvi il cosiddetto caffè della servitù, ancora caldo per essere rimasto sulla stufa calda, e aprii un giornale dietro l’altro, tutte le prime pagine pubblicavano almeno una fotografia della disgrazia, i titoli erano esattamente di quella meschinità e bassezza per cui si son sempre distinti i giornali di provincia. Non hanno motivo, infatti, di temere per il loro livello, perché proprio questo li distingue agli occhi dei loro lettori: essere senza il benché minimo livello, è questo che garantisce le loro tirature, che sono molto alte e fruttano agli editori profitti immensi.
L’assoluta bassezza, e la mancanza di ritegno, egualmente bassa, di quell’immondizia di provincia la sperimentavo ora, per così dire, non soltanto sulla mia pelle, bensì nella mia testa, e quanto più, seduto sulla sedia, guardavo e leggevo quell’immondizia di provincia, tanto più cresceva la mia ripugnanza. Ciascun giornale si sentiva in dovere, quanto ad abiezione, di lasciarsi alle spalle tutti gli altri. Estinzione di una famiglia e sotto Mutilati e sfigurati tre spettatori di un concerto, diceva, a caratteri cubitali, uno dei titoli. Ampio servizio fotografico all’interno, lessi, e cercai subito quel servizio fotografico. L’ho fatto, debbo dire, con tutta la sfacciataggine immaginabile, sfogliando senza sosta il giornale che già in prima pagina annunciava il servizio fotografico e fissando la porta della cucina con la paura di essere sorpreso a commettere quel mio crimine senza dubbio ripugnante, non devo immergermi interamente nelle cronache della disgrazia, mi dissi, altrimenti può darsi che qualcuno entri in cucina e mi sorprenda. Così, e per la prima volta mi tremarono le mani, lessi quasi tutto ciò che i giornali hanno scritto sui miei, e mentre leggevo avevo l’impressione che i giornali scrivano, sì, con suprema falsità, ma al contempo il vero, che scrivano con tutta la meschinità possibile, ma al contempo null’altro che i fatti, che in quelle cronache sfigurino sì ogni cosa e la mutilino, come loro stessi scrivono della salma di mia madre, ma che al contempo non siano altro che autentici. Tanto falso è tutto ciò che i giornali scrivono, mi dissi anche durante quella lettura, tanto vero è in realtà, quando scrivono con falsità i giornali non scrivono altro che il vero, e quante più falsità scrivono, tanto più è vero. È una constatazione che sono sempre costretto a fare, leggendo i giornali, quella che i giornali non sono altro che falsi ma al contempo non scrivono altro che il vero, a tale assurdità non sono mai riuscito a sfuggire leggendo i giornali, neppure ora leggendo le cronache della disgrazia che ci riguardava, senza dubbio una delle più terribili che l’Alta Austria abbia conosciuto nella storia della sua circolazione stradale. Una di quelle fotografie ritraeva la testa di mia madre, che un sottile brandello di carne univa ancora al tronco seduto in macchina, e nella didascalia il giornale ha scritto: La testa staccata dal tronco. La disgrazia, com’è naturale, ha dato ai giornali anche la possibilità di scrivere qualcosa su Wolfsegg, sciocchezze, come si può immaginare. Riguardo ai miei genitori scrivevano di una coppia felicemente sposata, che ha dedicato la vita al lavoro e al bene comune, mio fratello lo definivano uno dei migliori cacciatori del Paese, mio padre era una volta il tecnico forestale noto per la sua accortezza, un’altra volta l’illustre consigliere agricolo, una terza volta lo stimato esperto nell’arte della caccia, il disinteressato presidente dell’Associazione degli agricoltori dell’Alta Austria. Uno dei giornali ha pubblicato la foto che mostra Johannes sulla sua barca a vela a Sankt Wolfgang scrivendo nella didascalia Un’immagine dei tempi felici; non so come la foto sia finita sul tavolo della redazione di quel giornale, non so spiegarmelo. La «Linzer Volkszeitung» ha stampato in rosso, a caratteri cubitali, il titolo Estinte due generazioni. In nessuna cronaca mancava l’indicazione che la nostra è una famiglia cristiana, mio padre un benefattore della Chiesa, mia madre una donna di grande bontà. Lasciano un figlio che vive a Roma, dove svolge la sua attività di studioso, e le sue due sorelle, scriveva la «Linzer Volkszeitung». Il funerale avrà luogo sabato pomeriggio, lessi. Wolfsegg ha perduto il suo capo, lessi. La traversa ha passato la vettura da parte a parte, come si vede chiaramente in una delle fotografie, ha staccato dal tronco e scagliato contro il vetro posteriore la testa di mia madre, tutti e tre, mio padre, Johannes, ma anche mia madre, erano rimasti seduti ai loro posti. Con enorme violenza la macchina aveva urtato contro il camion che, si suppone, ha frenato di colpo al bivio per Gaspoltshofen. Il carico di traverse era destinato a una ditta di Schwanenstadt. I giornali parlavano di colpa del conducente del camion, che però non può essere perseguito penalmente, perché la colpa è sempre del veicolo che da dietro ne urta un altro. La popolazione partecipa con il più grande cordoglio alla disgrazia, lessi. La benedizione sarà impartita dall’arcivescovo di Salisburgo, amico di famiglia, lessi. L’arcivescovo di Salisburgo è andato a scuola con mio padre, entrambi erano in collegio al liceo di Lambach. Intero paese in lutto, lessi. Sentii dei passi in corridoio e mi alzai. Riposi i giornali sul tavolo così come li avevo trovati, sui giornali gli occhiali della cuoca. La cucina è una grande stanza a volta, da bambini fu per anni il nostro luogo preferito, soprattutto in inverno, perché in cucina c’era sempre caldo anche nella stagione più fredda, a differenza del resto della casa, dove il riscaldamento è sempre stato pessimo. Inoltre, per noi bambini, la cucina era sempre stata il luogo più divertente fino a cinque o sei anni, finché io non conobbi a fondo i giardinieri e non feci amicizia con loro, e Johannes i cacciatori, sui quali è caduta poi la sua scelta. La cuoca è con noi da decenni. Istantaneamente mi chiamò padrone; quella denominazione, per lei, era passata con tutta naturalezza da mio padre a me. Quella denominazione era destinata a mio fratello, ora ero io a doverla sopportare. Non ero ancora consapevole di cosa significasse per me quel titolo nella sua piena estensione. Forse il padrone vuole un caffè, chiese la cuoca e io dissi che avevo appena bevuto un po’ di caffè della servitù. Forse il padrone vuole leggere i giornali, chiese nello stesso tono. No, dissi, mi ero subito rifugiato nella menzogna, pur pensando al contempo, la cuoca sa certamente che intanto ho letto i suoi giornali, che mi sono buttato con avidità su di essi, ancora una volta dissi no, grazie, suonava assai poco credibile. La cosiddetta gente semplice ha l’orecchio fine per il tono sbagliato, per l’uso falso della lingua. Non sapeva ancora quanti invitati sarebbero venuti al funerale, disse la cuoca, questo la teneva in pensiero, ma probabilmente neppure il padrone lo sapeva ancora. Dissi che non lo sapevo, che sapevo meno di niente, ero appena tornato a casa, da Roma. Sì, da Roma, disse la cuoca. Ho disimparato a parlare con la gente semplice, a fare con loro un semplice discorso, pensai, la cosa mi deprimeva, l’ho disimparato, a Roma ho disimparato ad avere contatti con la gente semplice, pensai. Un tempo mi sarebbe stato facile parlare con la cuoca, farle una domanda, ascoltare la risposta, fare un’altra domanda e via di seguito. Quella capacità, all’improvviso, non la possedevo più. Con i giardinieri avevo avuto fortuna, con loro ero riuscito, con la più grande naturalezza, a condurre una breve conversazione, con la cuoca fallii, probabilmente perché per tutto il tempo ho pensato, lei sa che mi sono buttato con avidità sui giornali, cosa che non ha potuto non considerare almeno indecente, sa di avermi sorpreso a compiere una bassezza, di avermi colto sul fatto mentre commettevo una meschinità, d’altra parte ho pensato che è la cosa più naturale, in una simile situazione interamente dominata dall’orrore, provare noi stessi orrore, ed essere in collera e incapaci delle cose più semplici e normali, appunto scambiare con la cuoca due banalissime frasi; né me ne feci un rimprovero, non me ne meravigliai affatto, ma trovai umiliante essere sorpreso dalla cuoca a commettere una meschinità, stavo dinanzi a quella donna come se fossi colpevole di un crimine, e lei intanto si era accorta che i suoi occhiali non erano più sulla pila di giornali nella posizione in cui li aveva messi lei, può anche darsi che sia una mia idea, ma ero convinto che sapesse che avevo messo sottosopra la pila di giornali e divorato avidamente tutto quanto c’era scritto sulla disgrazia, con la voracità che ho sempre quando metto le mani sui giornali, sebbene quella voracità si sia smorzata, non è più grande come un tempo, pensai. La cuoca vede che sono meschino e abietto, pensai, se ne accorge, sfrutta quella certezza a mio danno osservandomi con quell’aria indagatrice, pensai, inusuale in una cosiddetta persona semplice, una donna per giunta, pensai. Nel farlo nascondeva le mani dietro la schiena, fingeva di allacciarsi il nastro del grembiule, ma simulava soltanto quel gesto, per l’imbarazzo di venir sorpresa a sua volta a commettere una mancanza di rispetto, una mancanza di rispetto a lei assolutamente non consentita, come pensai, a sua volta dà prova di abiezione, pensai, della sua meschinità, guardandomi con quell’aria indagatrice. Non si guarda così il padrone, pensai, perché con me lo fa? D’altra parte sapevo di essere in una situazione molto più spiacevole della sua, perché la mia meschinità si era manifestata per prima, la sua invece solo come reazione alla mia, la mia sfacciataggine non era per nulla paragonabile alla sua, la sua sfacciataggine, pensai, è ridicola in confronto alla mia, che è sostanziale, infatti avrei dovuto proibirmi di guardare i giornali, avrei dovuto ignorarli, ma ciò avrebbe significato falsificare il mio carattere che esigeva quella rapida scorsa ai giornali. La cuoca guardò la pila di giornali in modo tale che ebbi la sensazione di essere stato sorpreso, senza alcun dubbio. Per un istante la odiai. Ma poi vidi che era lei ad aver paura di me, il che mi indusse all’istante ad assumere nei suoi confronti un’altra posizione, non più di odio diretto, perché senza dubbio lei aveva potuto leggermi in faccia che mi sentivo in colpa, e che pensavo che mi avesse smascherato. Sarebbe stata soltanto un’imperdonabile stupidità aver paura di una persona come la cuoca, anche per un solo istante, una persona che dipende pur sempre da me e che in definitiva è stupida nella maniera più inoffensiva. A esser sincero, queste facce contadine gonfie e rosee, spesse di stupidità, per così dire, non mi piacciono. In fondo le ho sempre odiate, sebbene sia ingiusto, perché proprio in quelle facce contadine rosee e gonfie c’è anche, come mai in altre, la bonarietà. Ma proprio quella bonarietà mi è sempre stata sospetta, pensai. Come pure la bonarietà in generale, e in generale il concetto di bonarietà, che non mi dice nulla, che in fondo mi ripugna. La cuoca mi conosce fin da bambino, pensai, non ho nulla da darle a intendere, non posso darle a intendere nulla, perché mai mi irrito a causa sua, pensai. Mi conosce da cima a fondo. Ma naturalmente mi sbaglio anche a questo proposito, perché che ne sa la cuoca di cosa e di chi io sia, è ridicolo preoccuparsi del rapporto che la cuoca ha con me. No, dissi, niente più caffè, l’avevo detto in tono burbero, e sono uscito dalla cucina. Mi venne incontro Caecilia, dietro di lei Amalia e dietro Amalia il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, mio cognato. A tuo cognato e alla parola cognato dovrai abituarti, pensai. Mi furono dinanzi all’improvviso, tutti e tre, come se volessero accusarmi. Non sapevo come mi fosse venuta in mente quell’idea assurda, ma pensai, all’improvviso li ho dinanzi in veste di accusatori, dinanzi a me, accusato chissà per quale ragione, forse per tutte le ragioni. Ma Caecilia disse soltanto che stavano per andare alla fattoria ad accordarsi con i cacciatori, che dovevano prendere in spalla le bare e portarle durante il funerale, bisognava accordarsi su chi dovesse portare quale bara e via di seguito. Siccome si parlava solo dei cacciatori come incaricati di portare le bare, dissi che naturalmente anche i giardinieri dovevano portare le bare, mi infastidiva dover parlare senza sosta di bare, questo era l’aspetto inusuale di tutta la conversazione, continuavamo a dire bare, quando invece, in queste occasioni, si è soliti parlare di una sola bara. I cacciatori non sono affatto in grado di portare tutte le bare, dissi. I cacciatori e i giardinieri porteranno le bare, dissi, due bare saranno portate dai cacciatori, una bara dai giardinieri. La bara di nostro padre la porteranno i cacciatori, naturalmente anche la bara di nostra madre, dissi, i giardinieri porteranno Johannes. Durante quella conversazione sul trasporto delle bare Caecilia e Amalia avevano messo da parte il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, che d’improvviso si era ritrovato in secondo piano, senza voce in capitolo. È ovvio, dissi, che la bara di nostra madre venga portata dai cacciatori, così dicendo pensavo al rapporto che mia madre aveva con i cacciatori, e che nostro padre venga portato dai cacciatori è altrettanto chiaro, perché lui era il loro cacciatore, ed era stato per decenni capocaccia regionale, come si usa dire. Quel titolo gliel’hanno dato nel periodo nazista e lui l’ha conservato per due decenni oltre il periodo nazista. Davanti i cacciatori porteranno nostro padre e nostra madre, e dietro i giardinieri porteranno Johannes, è molto semplice, dissi. D’improvviso, ora, le mie sorelle mi si erano attaccate come sanguisughe. Mi scaricavano addosso ogni cosa, mi parve che ormai da tempo mi avessero scaricato addosso tutta Wolfsegg. Quando le vedevo insieme nei loro vestiti neri mi facevano la stessa impressione comica, e al contempo ripugnante, che ne avevo vedendole nei loro vestiti alla tirolese di pessimo gusto. L’aria beffarda era scomparsa dalle loro facce, l’esacerbazione era rimasta, d’improvviso avevano facce grigie e malate, che i vestiti neri delle mie sorelle rendevano, com’è naturale, ancora più deprimenti. Se l’una parlava, l’altra non vedeva l’ora di parlare a sua volta, l’una troncava bruscamente la parola all’altra, come se nulla, qui, fosse cambiato. Si erano pettinate i capelli all’indietro nella stessa maniera, vidi che avevano le stesse scarpe. Amalia, tornata dalla casa dei giardinieri nella casa padronale, pensai, era di nuovo in tutto e per tutto la sorella di Caecilia, e costituiva insieme a lei un’unica congiura. Non più a mio danno, tuttavia, bensì d’improvviso a mio favore, come avvertivo, ma proprio questo mi ripugnava, il loro sfrontato opportunismo, gettato interamente addosso a me ora che i miei genitori e mio fratello erano morti. Le mie sorelle, ai cui occhi per decenni sono stato il mostro, il meschino rinnegato, ora mi si attaccano recitando la commedia della miseria. Ma non dovevo spingermi troppo oltre in quella sensazione e in quel pensiero, se non volevo perdere il controllo, pensai, mi comporterò con grande calma. A poco a poco vollero spiegarmi le modalità dell’incidente, mentre io sapevo già tutto grazie ai giornali, senza sosta l’una insinuava le sue parole nelle parole dell’altra e mio cognato non aveva la sia pur minima opportunità di dire qualcosa. Le lasciai parlare, e così constatai che il loro racconto della disgrazia era tutto diverso da quello dei giornali, per così dire ciascuno racconta della sua disgrazia, come lui la vede, come la vedono i giornali è tutta un’altra cosa rispetto a come la vedono le mie sorelle e come probabilmente la vede mio cognato, della stessa disgrazia raccontano tutti cose ben diverse, ciascuno a suo modo racconta di una disgrazia diversa, mentre invece si tratta della stessa disgrazia, pensai, così come sul medesimo fatto leggiamo tante cronache quanti sono i giornali, le mie sorelle, ciascuna a modo suo, raccontano della medesima disgrazia sempre in maniera diversa, sicché alla fine ci sono tante disgrazie quante sono le persone che ne raccontano. Ciascuno racconta della disgrazia così come la coglie attraverso le sue sensazioni, e si tratta sempre, certo, della medesima disgrazia, ma tuttavia sempre di una diversa, pensai. Caecilia raccontava di una disgrazia tutta diversa da Amalia, Amalia inoltre interrompeva di continuo il racconto di Caecilia e, all’inverso, Caecilia il racconto di Amalia. Mio cognato non aveva voce in capitolo. Mentre Amalia parlava sempre di una barra di ferro che aveva strappato la testa di nostra madre dal tronco, Caecilia parlava sempre di un pezzo di traversa che aveva sfondato la testa di nostra madre. Io non dicevo nulla, perché non volevo lasciar trapelare che conoscevo già tutte le cronache dei giornali, e per nessuna ragione potevo rivelare che avevo letto in cucina quelle cronache dei giornali, non ci pensavo neppure, a mettermi proprio il primo giorno nella luce peggiore. Così le mie sorelle avevano creduto che io sapessi ancora poco o nulla della disgrazia, e avevano preso a parlare a ruota libera, nella maniera che hanno loro di tirar fuori tutto ad alta voce e senza alcun controllo. Era stato il commissariato di Lambach ad avvertirle per primo. Stavano giusto per coricarsi. Anziché andare a letto, avevano dovuto mettersi in strada alla volta di Lambach, identificare le salme, come si espresse Amalia. La macchina era completamente distrutta, nell’oscurità che regnava sul luogo dell’incidente, sotto i riflettori della Stradale, gli agenti le avevano costrette a infilare la testa nell’abitacolo totalmente demolito, per identificare senza possibilità di errore tutti e tre i morti. A quel racconto non mi era stato difficile pensare che il carattere delle mie sorelle è ancora più ignobile del mio. Il loro nervosismo durante il racconto non era riuscito a coprire il loro cinismo. Ridicolo è stato poi, come hanno detto quasi all’unisono, che i nostri genitori e Johannes li abbiano portati via con un’ambulanza di Wels benché fossero morti da tempo. Gli agenti avevano proceduto con correttezza. Naturalmente la disgrazia aveva sollevato grande scalpore nel luogo, molti contadini dei dintorni erano accorsi. Alcuni in camicia da notte abbottonata alla meglio, così Amalia. Che con loro ci fosse pure mio cognato, dapprima non l’avevano nemmeno menzionato, anche se era stato lui a portarle con la sua macchina sul luogo dell’incidente. Anche se avevano dovuto subito sbrigare ogni possibile formalità, dissero, sistemate quelle erano state invece costrette all’inattività totale fino al mattino seguente. Amalia era andata innanzitutto alla posta per spedirmi il telegramma. Avrebbero anche potuto telefonare, ma a quel compito terribile si erano sottratte spedendo il telegramma, lo capisco. Poi avevano mandato mio cognato nella fattoria a cercare i drappi funebri, ed era stato lui che aveva appeso, calato dal balcone, il primo drappo funebre. Da principio c’era un silenzio spaventoso, ha detto Caecilia. Amalia era andata prima dai cacciatori e aveva detto loro della disgrazia, si stavano chiedendo, infatti, dove fosse finita la macchina con cui i padroni erano andati a Steyr il pomeriggio precedente. Caecilia aveva informato i giardinieri. Caecilia aveva detto ad Amalia di spedire, insieme al mio, un telegramma anche a Spadolini, il testo di quel telegramma a Spadolini diceva: Mamma morta. Caecilia, Amalia. Erano certe della partecipazione di Spadolini al funerale. Dapprima era addirittura venuto loro il pensiero di far celebrare la messa funebre allo stesso Spadolini, all’arcivescovo Spadolini, ma poi, sicure del mio assenso su quel punto, avevano deciso a favore dell’arcivescovo di Salisburgo, per buone ragioni, così Amalia. Anche la cosiddetta benedizione sarebbe stata impartita dall’arcivescovo di Salisburgo. Spadolini stesso si terrà certamente in secondo piano, dissero. D’altra parte pensavano che si sarebbero gravate di una colpa irreparabile, negando a nostra madre il fatto che fosse Spadolini a celebrare la messa e a impartire la benedizione, ma quel pensiero, che pure formularono dinanzi a me, mancava di sincerità, l’ho visto subito. Era giusto, effettivamente opportuno lasciare che fosse l’arcivescovo di Salisburgo a celebrare la messa funebre e a impartire la benedizione, sono comunque riuscito a trattenermi dal dire alle mie sorelle che era una cosa ovvia lasciare che fosse Spadolini a celebrare la messa e a impartire la benedizione, ho tenuto per me l’affermazione, di pessimo gusto, che l’amante di nostra madre doveva assolutamente celebrare la messa e impartire la benedizione. Non dovevo rendermi perseguibile per il resto dei miei giorni con un’uscita tanto spudorata, così dissi alle mie sorelle che restava inteso che sarebbe stato l’arcivescovo di Salisburgo a celebrare la messa funebre e a impartire la benedizione, tanto l’avevano deciso da un pezzo senza di me e non si poteva più cambiare nulla.
Con questa mia concessione, e col mio assenso al loro operato, mi assicurai un vantaggio, in più aggiunsi che oltre all’arcivescovo di Salisburgo e a Spadolini sarebbero certamente venuti al funerale almeno altri tre vescovi, ossia quello di Linz, con cui nostro padre era in amicizia esattamente come con gli altri due, di Innsbruck e di Sankt Pölten. Anche con questi vescovi mio padre è andato a scuola, e i contatti fra loro e mio padre, finché mio padre è vissuto, non si sono mai interrotti, neanche negli anni del nazismo, pensai, mentre dicevo alle mie sorelle che i vescovi erano sempre rimasti in buoni rapporti con i nostri genitori, anche negli anni del nazismo. Quell’osservazione non ero riuscito a trattenerla, ma fu tutt’altro che inopportuna, perché impedì che quella vicinanza fra me e le mie sorelle diventasse troppo sentimentale e dunque falsa. In fondo avevo orrore di quel funerale come di nessun altro, tutti quelli che negli ultimi anni avevano avuto luogo nei dintorni di Wolfsegg non erano niente al confronto, d’improvviso vidi con grande chiarezza ciò che mi aspettava sabato, il giorno del funerale. Com’è vero, pensai, quello che ho detto a Zacchi al telefono, che una catastrofe si è abbattuta su di me, pensai, mentre le mie sorelle si erano voltate verso mio cognato, più o meno, come pensai, per impartirgli un ordine, gli dissero di precederci nella fattoria, per controllare se per caso non ci fossero in soffitta ancora due cosiddetti lenzuoli mortuari, come sosteneva Caecilia, in una grande scatola con la scritta Sunlicht, ho rischiato di scoppiare a ridere, in quel momento, per quella parola Sunlicht pronunciata da lei in tutta disinvoltura nel tono sciocco che le è proprio, ma mi dominai. Sunlicht c’è scritto sulla scatola, disse Caecilia a suo marito, che andò subito alla fattoria. Era stato, come pensai, solo il suo intento di restare sola con me e con Amalia, che l’aveva spinta a mandare mio cognato alla fattoria, voleva semplicemente toglierselo di torno, l’intruso, come io pensai e come forse lei stessa avrà pensato in quei momenti, anche lei, d’improvviso, avverte qui mio cognato come un corpo estraneo acquisito, pensai, lei, la consorte, ma il pensiero non mi divertì come avrebbe meritato, era penoso. Il fabbricante di tappi per bottiglie da vino stava andando alla fattoria al solo scopo di permettere a Caecilia di parlare con me e con Amalia più o meno indisturbata, pensai. Mentre il fabbricante di tappi per bottiglie da vino si allontanava, non aveva ancora fatto venti passi, Caecilia disse che suo marito le dava sui nervi, che le stava sempre attaccato, che lei non riusciva a restar sola un attimo. Quell’osservazione mi sorprese, perché finora avevo sempre avuto l’impressione che fosse Caecilia ad attaccarsi a suo marito, mio cognato, no, era lui la sanguisuga, non l’inverso. A una settimana dalle nozze suo marito le sembrava già una sanguisuga, e lei per giunta ne parlava davanti a noi. Amalia era riuscita a stento a reprimere una risata, come vidi. Con quanta facilità una simile risata ti sale alle labbra, anche in una situazione terribile, pensai. Anzi, una situazione terribile come quella provoca addirittura a ridere in quel modo, pensai. Chi, in una disgrazia come la nostra, è sottoposto a una simile tensione, fa presto a rifugiarsi in una risata, pensai. Amalia disse che nostro cognato non le aveva minimamente aiutate nella loro disperazione, era rimasto in camera sua, in piedi accanto alla finestra, non erano riuscite a ottener nulla da lui, più volte lo avevano pregato di aiutarle, per esempio di telefonare a Vöcklabruck all’impresa di pompe funebri che avevano incaricato del funerale, ma lui non si era reso utile in nessun modo, così Amalia. Non aveva fatto altro che parlare dello shock che la disgrazia gli aveva procurato, senza pensare a quanto maggiore in fin dei conti doveva essere lo shock di quella disgrazia per sua moglie e la sorella di lei, che però non avevano potuto, come lui nella sua, chiudersi nelle loro stanze a fare più o meno nulla. Gente della specie di mio cognato, dissi, non è mai all’altezza di simili disgrazie, quella gente viene scaraventata a terra da una simile radicale disgrazia, e non ha la forza di rialzarsi, non come noi, dissi, che una simile disgrazia colpisce in maniera assai più profonda e radicale, ed egualmente atterra, noi ci rialziamo subito e la superiamo. Di quell’affermazione mi ero pentito all’istante, ma non era più possibile tornare indietro, noi la superiamo, avevo detto in effetti, gli altri no, con questo volevo dire soltanto che noi sappiamo far fronte a una simile disgrazia, sia pure la più immensa, la più meschina, il piccolo borghese invece no; naturalmente non ho pronunciato la parola piccolo borghese, diretta di proposito a mio cognato, l’ho solo pensata. Il piccolo borghese, ho pensato, viene fatto a pezzi da una simile disgrazia e per giunta, nel sentimentalismo che lo coglie, non esita a far mostra di sé, noi no. Il piccolo borghese, come anche il proletario, diventa lui, per così dire, la vittima di una simile disgrazia, noi no. Il piccolo borghese, come il proletario, non ha mai la forza, che noi invece abbiamo, di superare una simile radicale disgrazia, pensai. Dissi alle mie sorelle che una simile disgrazia andava oltre le forze di mio cognato, ma loro non lo capirono affatto, non compresero cosa io intendessi con quella frase, non ne compresero neppure la vena di disprezzo. Gente come mio cognato, dissi, occorre lasciarla interamente fuori dal gioco, dopo una simile radicale disgrazia, e la nostra era radicale. Dissi quella frase nel momento in cui il fabbricante di tappi per bottiglie da vino non era ancora scomparso nella fattoria, ancora lo vedevo dirigersi verso la fattoria. Gente come nostro cognato, dissi tuttavia, ha in fondo una natura troppo indolente per le disgrazie, perché in definitiva ha una natura troppo indolente per tutto, non ha lo sguardo freddo sul mondo che abbiamo noi, quando è necessario. Non avevo esitato a manifestare ciò che pensavo in quel momento, e dissi alle mie sorelle nostro cognato non è adatto a noi. Al che Amalia si era limitata a fare una smorfia, Caecilia si era voltata, in silenzio, certo per seguire con lo sguardo mio cognato, ma lui era già entrato nella fattoria. Persone come l’onesto fabbricante di tappi per bottiglie da vino hanno una concezione della vita in tutto e per tutto sentimentale, pensai senza dirlo, che noi non abbiamo. Il tratto sentimentale è quanto essi hanno di ripugnante. Ma il tratto sentimentale è anche la meschinità con cui per tutta la vita fanno maneggi a danno di tutti. Il tratto sentimentale di quelle persone, che rende loro tutto così comodo, è la disgrazia di questo mondo. Il tratto sentimentale, che ostentano senza tregua e che li rende ripugnanti agli occhi di quelli come noi, pensai. Dissi alle mie sorelle che a Wolfsegg mio cognato si era avventurato su un terreno pericoloso. Amalia aveva ben ragione di riderne, Caecilia no, lei che tacque, lei che dopo quella affermazione da parte mia si era limitata a voltarsi verso di me e a guardarmi freddamente in faccia. Il suo errore, riguardo a quelle nozze assurde, veniva dunque riconosciuto, quello sguardo non mi ingannò. Neanche otto giorni, pensai, e la scena è totalmente capovolta, non potrebbe essere più diabolica. Solo un pazzo ha potuto sposarti, dissi a Caecilia, non l’avevo detto con la crudezza che lei, invece, ha immediatamente avvertito, e mi pentii di quell’uscita, ciò che era inteso come scherzo ha colpito in profondità, come ho visto, Caecilia continua a odiarmi, pensai, è quella di un tempo. E Amalia la sosteneva nel suo odio di sorella contro di me. Ma ora debbo vedermela con queste due, pensai, e al contempo ne ebbi compassione, perché, se ancora non avevo un’idea non dico ben definita, ma neppure approssimativa di ciò che le mie sorelle avrebbero dovuto sopportare nel prossimo futuro, ne avevo tuttavia un presagio, e che quel presagio fosse infausto, mi era chiaro. A Caecilia, che dal Baden se lo era portato a Wolfsegg per offendere sua madre, per punirla a modo suo, l’uomo di Friburgo in Brisgovia, la più cattolica delle roccaforti cattoliche, riusciva improvvisamente molesto. A una settimana di distanza dalle nozze, lei già gli tagliava i panni addosso, per così dire, perché la ragione che l’aveva spinta a sposarsi con il fabbricante di tappi per bottiglie da vino, ossia mia madre e il suo modo di agire contro Caecilia e Amalia, riguardo agli uomini e quindi al futuro delle sue figlie, era improvvisamente venuta a mancare, non si dava più, la morte di nostra madre ha tolto a questo matrimonio ogni fondamento, mi dissi, il fabbricante di tappi per bottiglie da vino era già diventato superfluo, era lui il solo a non accorgersene ancora, nelle mie sorelle, dunque non soltanto nella testa di Caecilia, pensai, ha già cominciato a farsi strada ciò che, com’è naturale, ancora non osavano esprimere, che però era già evidente dal loro modo di fare, dal loro contegno nei confronti del fabbricante di tappi per bottiglie da vino, l’idea di come liberarsi di colui che d’improvviso, da un momento all’altro, era diventato inservibile. Mi dà continuamente sui nervi, ha ripetuto Caecilia più volte, Amalia è rimasta in silenzio. Non era più possibile, riguardo al fabbricante di tappi per bottiglie da vino, tenere in piedi la facciata, dietro s’intravedeva già un’avversione che incessantemente si acuiva, e null’altro. Mio cognato era stato allontanato con un pretesto ridicolo, perché loro potessero diffondersi con me a parlar male di lui, pensai, alle sue spalle, com’è nello stile delle mie sorelle. Le dà continuamente sui nervi, questo non dimostrava altro se non che le ha sempre dato continuamente sui nervi, che però, malgrado questo, lei lo ha attirato a sé e portato a Wolfsegg, e la zia di Titisee, nella sua sconfinata meschinità, l’ha sostenuta soltanto per punire sua cognata, nostra madre.