sabato 5 giugno 2021

LIMONOV Emmanuel Carrère



LIMONOV 

Emmanuel Carrère 

Recensione

 Appena terminato Limonov di Emmanuel Carrère, sto ancora metabolizzando.

Non è facile parlare di un libro come Limonov.  Limonov è troppo, troppo di tutto. Non so nemmeno da dove iniziare.

Limonov non è un personaggio di fantasia, ma un uomo reale, Eduard Veniaminovic Savenko che assume lo pseudonimo di Limonov. Una sorta di superuomo, che odia la meschinità, la mediocrità, i compromessi, che vive una vita esagerata, facendo esperienze estreme. Odia chi ha avuto successo perché è convinto che lui ne meriterebbe di più, ma odia anche i perdenti. Se qualcuno di voi ha letto un romanzo intitolato Shantaram, di David Gregory Roberts, il personaggio di Limonov lo ricorda in parte o almeno a me ha fatto quasi subito pensare a lui. 

Contro il regime ma anche contro Gorbaciov, Eltsin e Putin. Fondatore di un partito, i nazionalbolscevichi.

Umanamente, capace di enormi passioni,  ha amato le donne importanti della sua vita al punto da restare distrutto quando alcune di loro lo mollano.  Un personaggio che, tutto sommato, pur essendo a volte orribile, a volte insopportabile, a me è piaciuto. Ho letto recensioni di lettori che hanno detto di non essere riusciti ad affezionarglisi: a me non è successo. Ho sofferto insieme a lui e anche quando non ho condiviso la sua vita, i suoi comportamenti, i suoi pensieri, le sue scelte, non sono riuscita a sentirlo “odioso”.  La parte finale, in cui Carrère risponde alla domanda sul perché abbia scelto di scrivere un libro su di lui e cioè che è perché ha avuto una vita straordinaria e lui, sorridendo amaramente, commenta “Già, una vita di merda”, è struggente. Lui è Limonov e non poteva, non avrebbe potuto essere null’altro.


Il romanzo, poi, come mi è accaduto sempre, finora, per Carrère, mi è sembrato perfetto.

Pensiamo all’Avversario: Carrère non giudica mai, si limita a raccontare, si pone domande ma, quando risponde,  dà la sua risposta, lasciando al lettore la possibilità di darsene una diversa e personale.  

Lo stile è impeccabile, pulito, mai eccessivo, sobrio, equilibrato; la ricostruzione dei particolari storici puntuale.  Si legge tutto d’un fiato e, arrivata alla fine, non volevo separarmi. Non che sia una lettura facile e amena, assolutamente no. La parte centrale, dopo il ritorno a Mosca di Eduard, è complessa e a tratti ostica, ma non viene la voglia di “saltare” le pagine, anzi, al contrario, si rallenta per concentrarsi meglio. 

Le parti secondo me narrativamente più riuscite sono quelle in cui Limonov è a New York e la parte finale, in cui lui è in prigione, dove dà prova di una personalità fuori dal comune. Uomo di passioni, Limonov resta per me un incontro straordinario, un folle visionario, pieno di idee e ideali approssimativi e non chiari nemmeno a lui stesso, ma comunque una persona non ordinaria.

Questo romanzo resta, per me, nel Gotha dei miei libri del cuore e Carrère può, a buon diritto, vantare il titolo di mio“autore preferito”. Se dovessi dare un voto sarebbe senz’altro 9 e mezzo. (Valentina Dago)

  LIMONOV

EMMANUEL CARRÈRE

© 2011

 

Traduzione di Francesco Bergamasco

TITOLO ORIGINALE: Limonov

 

 

 

 

 

 

LIMONOV

 

«Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore».VLADIMIR PUTIN

 

 

PROLOGO
MOSCA, OTTOBRE 2006-SETTEMBRE 2007

 

 

1

 

Prima che Anna Politkovskaja venisse ammazzata sulle scale del palazzo in cui abitava, il 7 ottobre 2006, soltanto chi si interessava da vicino alle guerre cecene conosceva il nome di questa giornalista coraggiosa, dichiarata avversaria della politica di Vladimir Putin. Da un giorno all’altro, il suo volto dall’aria triste e decisa è diventato in Occidente un’icona della libertà d’espressione. A quel tempo io avevo da poco finito di girare un documentario in una cittadina russa – andavo spesso in Russia – sicché, appena si è diffusa la notizia, una rivista mi ha proposto di prendere il primo volo per Mosca. Il compito che mi era stato affidato non era di svolgere un’inchiesta sull’assassinio della Politkovskaja, ma di far parlare le persone che l’avevano conosciuta e amata. Ho trascorso così una settimana negli uffici della «Novaja Gazeta», il giornale di cui lei era l’inviata di punta, ma anche nelle sedi di associazioni per la difesa dei diritti umani e di comitati di madri dei soldati uccisi o mutilati in Cecenia. Erano uffici minuscoli, male illuminati, forniti di computer antidiluviani. Non meno in là con gli anni, e pateticamente poco numerosi, erano spesso anche gli attivisti che trovavo ad accogliermi. Si tratta di una cerchia ristrettissima di persone, dove tutti si conoscono, e dove in poco tempo ho conosciuto tutti, una ristrettissima cerchia che rappresenta di fatto l’unica opposizione democratica in Russia.

Oltre ad alcuni amici russi, a Mosca frequentavo, e tuttora frequento, un’altra cerchia ristretta, formata da espatriati francesi, giornalisti o uomini d’affari, che sorridevano con un po’ di commiserazione quando, alla sera, raccontavo loro i miei incontri della giornata: i virtuosi democratici di cui parlavo, i militanti per la difesa dei diritti umani erano naturalmente persone perbene, ma la verità è che tutti se ne infischiavano. In un paese in cui nessuno bada granché alle libertà formali, purché gli sia garantito il diritto di arricchirsi, la loro era una battaglia persa in partenza. D’altro canto, nulla divertiva di più i miei amici espatriati – o, a seconda del carattere, niente li irritava di più – della tesi diffusa presso l’opinione pubblica francese secondo cui i mandanti dell’assassinio della Politkovskaja sarebbero stati l’FSB – la polizia politica che ai tempi dell’Unione Sovietica si chiamava KGB – e più o meno lo stesso Putin.

«Senti,» mi disse Pavel, un professore universitario francorusso che si era dato agli affari «bisogna piantarla di parlare a vanvera. Sai che cosa ho letto – credo sul “Nouvel Observateur”? Che è davvero una strana coincidenza che abbiano fatto fuori la Politkovskaja proprio il giorno del compleanno di Putin. Una strana coincidenza! Ma ti rendi conto di quanto bisogna essere idioti per scrivere, nero su bianco, una strana coincidenza? Ti immagini la scena? Riunione di crisi all’FSB. Il capo fa: “Ragazzi, dobbiamo spremerci le meningi. Fra poco è il compleanno di Vladimir Vladimiroviè. Bisogna assolutamente trovare un regalo di suo gradimento. Qualche idea?”. Tutti ci rimuginano su, poi si alza una voce: “E se gli portassimo la testa di Anna Politkovskaja, quella rompiballe che non fa altro che criticarlo?”. Mormorii di approvazione. “Ottima idea! Al lavoro ragazzi, avete carta bianca”. Scusa eh,» ha continuato Pavel «ma una scena del genere non me la bevo. Al limite, in un remake russo di In famiglia si spara, ma non nella realtà. E sai un’altra cosa? La realtà è quella che ha detto Putin scandalizzando tanto le anime belle occidentali: l’assassinio di Anna Politkovskaja e il baccano che ne è seguito danneggiano il Cremlino molto più degli articoli che scriveva lei quand’era viva, in quel suo giornale che non leggeva nessuno».

Ascoltavo Pavel e i suoi amici, in quei begli appartamenti del centro di Mosca che la gente come loro affitta a peso d’oro, mentre difendevano il potere sostenendo che, in primo luogo, le cose potrebbero andare mille volte peggio, e, in secondo luogo, che i russi sono contenti così – e allora in nome di che cosa fargli la lezione? Ma ascoltavo anche donne tristi e sciupate che passavano la giornata a raccontarmi storie di rapimenti compiuti nel cuore della notte da automobili senza targa, di militari torturati non dal nemico ma dai loro stessi superiori, e soprattutto di giustizia negata. Era questo l’argomento che ricorreva incessantemente. Che la polizia o l’esercito siano corrotti rientra nell’ordine delle cose. Che la vita umana valga poco rientra nella tradizione russa. Ma l’arroganza e la brutalità dei rappresentanti del potere di fronte a semplici cittadini che si azzardavano a chiedere spiegazioni, e la certezza che avevano di restare impuniti: ecco quello che non potevano sopportare le madri dei soldati, né le madri dei bambini massacrati nella scuola di Beslan, nel Caucaso, né i familiari delle vittime del teatro della Dubrovka.

 

Ricordate? Era l’ottobre del 2002. Per tre giorni tutte le televisioni del globo non mostrarono altro. Durante la rappresentazione di una commedia musicale intitolata Nord-Ost, alcuni terroristi ceceni avevano preso in ostaggio tutto il pubblico del teatro. Le forze speciali scartarono ogni ipotesi di negoziato, risolsero il problema gassando insieme sequestratori e ostaggi – fermezza di cui si congratulò vivamente il presidente Putin. Il numero delle vittime fra i civili non è certo, ma si aggira sulle centocinquanta, e i loro familiari passano per complici dei terroristi quando domandano se non si sarebbe potuta tentare un’altra strada e chiedono di essere trattati, loro e il loro dolore, con un po’ meno indifferenza. Da allora, ogni anno si ritrovano per una cerimonia commemorativa che la polizia non ha il coraggio di proibire espressamente ma sorveglia come se si trattasse di un’adunata sediziosa – cosa che di fatto è divenuta.

Ci sono andato. Nella piazza del teatro ci saranno state due o trecento persone, e attorno a loro altrettanti OMON, l’equivalente russo dei nostri nuclei antisommossa, come questi dotati di caschi, scudi e pesanti sfollagente. È iniziato a piovere. Si sono aperti alcuni ombrelli sopra le candele che, con le loro crestine di carta per proteggere le dita dalla cera bollente, mi hanno ricordato le funzioni ortodosse a cui mi portavano da piccolo, a Pasqua. Al posto delle icone c’erano cartelloni con le foto e i nomi dei morti. Reggevano i cartelloni e le candele orfani, vedovi e vedove, genitori che avevano perduto un figlio – per i quali, in russo non meno che in francese, manca un termine. Non c’era nessun rappresentante dello Stato, come ha sottolineato con gelida rabbia un rappresentante delle famiglie, che ha pronunciato poche parole – le uniche di tutta la cerimonia. Nessun discorso, nessuno slogan, nessun canto. Ci si accontentava di restare in piedi, in silenzio, ciascuno con la propria candela in mano, e di parlare piano, a gruppetti, fra i bastioni di OMON che avevano perimetrato la zona. Guardandomi attorno ho riconosciuto parecchi volti: oltre alle famiglie straziate, era presente al gran completo quel piccolo mondo di oppositori che frequentavo assiduamente da una settimana, con i quali ho scambiato alcuni cenni del capo improntati all’afflizione del caso.

In cima alla scalinata, davanti alle porte chiuse del teatro, ho visto una sagoma che mi ricordava vagamente qualcuno, ma non riuscivo a capire chi. Era un uomo con un cappotto nero, reggeva come gli altri una candela, ed era circondato da diverse persone con cui parlava sottovoce. Al centro di quel cerchio dominava la folla, benché defilato attirava gli sguardi, dava l’impressione di essere importante, e per qualche strana ragione mi ha fatto pensare a un boss mafioso che partecipi, attorniato da guardie del corpo, al funerale di uno dei suoi uomini. Lo vedevo di scorcio; dal bavero rialzato del cappotto spuntava un pizzetto. Accanto a me, una donna che pure l’aveva notato si è rivolta alla vicina: «È venuto Eduard, bene». L’uomo ha girato la testa, come se nonostante la distanza l’avesse sentita. La fiamma della candela ne ha scolpito i lineamenti.

Ho riconosciuto Limonov.

 

2

 

Da quanto tempo non pensavo a lui? L’avevo conosciuto all’inizio degli anni Ottanta, quando si era trasferito a Parigi aureolato del successo di un romanzo scandaloso, Il poeta russo preferisce i grandi negri, in cui raccontava la propria miserabile e splendida esistenza a New York, dopo aver abbandonato l’Unione Sovietica. Lavoretti saltuari, vita alla giornata in uno squallido albergo e talvolta per strada, accoppiamenti etero e omosessuali, sbronze, furti e risse: per la violenza e la rabbia poteva far pensare alla deriva urbana di Robert De Niro in Taxi Driver, per lo slancio vitalistico ai romanzi di Henry Miller, del quale Limonov aveva la scorza dura e la cannibalesca placidità. Era un libro notevole, e il suo autore, a conoscerlo, non deludeva. All’epoca eravamo abituati a dissidenti sovietici barbuti e seri, malvestiti, che abitavano in angusti appartamenti zeppi di libri e di icone dove trascorrevano nottate intere a parlare di come l’ortodossia avrebbe salvato il mondo – e ci trovavamo davanti un tipo sexy, smaliziato, spiritoso, che sembrava al contempo un marinaio in libera uscita e una rockstar. Eravamo in piena moda punk, Limonov aveva eletto a suo eroe Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, e non si faceva scrupolo di definire Solenicyn un vecchio coglione. Era una boccata d’aria fresca, quella sua dissidenza new wave, e sin dal suo arrivo Limonov divenne il cocco del piccolo mondo letterario parigino – nel quale anch’io muovevo timidamente i primi passi. Non era un romanziere: sapeva raccontare soltanto la sua vita, ma la sua vita era appassionante e lui la raccontava bene, con uno stile semplice, concreto, senza vezzi letterari, con l’energia di un Jack London russo. Dopo le cronache dell’emigrazione, pubblicò i suoi ricordi di bambino vissuto alla periferia di Char’kov, in Ucraina, poi di giovane delinquente, poi di poeta d’avanguardia a Mosca, sotto Brenev. Parlava con beffarda nostalgia di quel periodo e dell’Unione Sovietica come di un paradiso per hooligan scafati, e non di rado al termine della cena, quando eravamo tutti ubriachi tranne lui, che regge l’alcol magnificamente, si metteva a tessere le lodi di Stalin – cosa che attribuivamo al suo gusto per la provocazione. Lo si poteva incontrare al Palace, dove sfoggiava una giubba da ufficiale dell’Armata Rossa. Scriveva per «L’Idiot international», il giornale di Jean-Édern Hallier, non un modello di coerenza ideologica, ma punto d’incontro di menti anticonformiste e brillanti. Gli piacevano le risse, e aveva un successo incredibile con le ragazze. La sua spregiudicatezza e il suo passato avventuroso mettevano in soggezione noi giovani borghesi. Limonov era il nostro barbaro, il nostro teppista: lo adoravamo.


 

Le cose hanno cominciato a prendere una strana piega quando è crollato il comunismo. Erano tutti felici tranne lui, e adesso, quando invocava per Gorbaèëv il plotone di esecuzione non sembrava affatto che scherzasse. Ha iniziato a scomparire per lunghi viaggi nei Balcani, dove abbiamo scoperto inorriditi che combatteva a fianco dell’esercito serbo – il che significava, ai nostri occhi, a fianco dei nazisti o degli hutu colpevoli di genocidio. Lo abbiamo visto in un documentario della BBC mitragliare Sarajevo assediata sotto lo sguardo benevolo di Radovan Karadiæ, leader dei serbi bosniaci e notorio criminale di guerra. Dopo tali prodezze, è tornato in Russia, dove ha fondato un partito politico dall’accattivante nome di Partito nazionalbolscevico. Ogni tanto ci capitava di vedere alla televisione dei giovani dal cranio rasato, vestiti di nero, che sfilavano per le strade di Mosca esibendosi in un saluto metà hitleriano (braccio teso) e metà comunista (pugno chiuso), sbraitando slogan come «Stalin! Berija! Gulag!» (sottinteso: ridateceli!) e sventolando bandiere che imitavano quelle del Terzo Reich, con falce e martello al posto della croce uncinata. L’esaltato con il berretto da baseball che gesticolava, megafono alla mano, in testa a quei cortei era il ragazzo simpatico e attraente del quale, pochi anni prima, eravamo tutti così orgogliosi di essere amici. Faceva uno strano effetto, come scoprire che un vecchio compagno di scuola è diventato un boss della criminalità o è saltato in aria in un attentato terroristico. Si ripensa a lui, si rivangano i ricordi, si cerca di immaginare quali possano essere state le molle interiori e la concatenazione di eventi che hanno spinto la sua vita così lontano dalla nostra. Nel 2001 abbiamo saputo che Limonov era stato arrestato, processato e incarcerato per motivi piuttosto oscuri: si parlava di traffico d’armi e di un tentativo di colpo di stato in Kazakistan. Dire che a Parigi non abbiamo sgomitato per firmare la petizione che ne chiedeva la liberazione è un eufemismo.


 

Ignoravo che fosse uscito di prigione, ed ero soprattutto sbalordito di ritrovarlo lì. Rispetto al passato aveva meno l’aspetto di un rocker e più quello di un intellettuale, ma era sempre circondato dalla stessa aura, imperiosa, energica, percettibile anche a cento metri di distanza. Mi sono chiesto se unirmi alla fila di persone che, visibilmente emozionate per la sua presenza, andavano a salutarlo con rispetto. A un certo punto, però, ho incrociato il suo sguardo: non sembrava avermi riconosciuto, e io del resto non sapevo bene cosa dirgli, così ho lasciato perdere.

Turbato da questo incontro, sono tornato in albergo, dove mi aspettava un’altra sorpresa. Sfogliando una raccolta di articoli di Anna Politkovskaja, ho scoperto che due anni prima la giornalista aveva seguito il processo di trentanove militanti del Partito nazionalbolscevico accusati di avere assalito e devastato la sede dell’amministrazione presidenziale al grido di «Putin vattene!», reato per il quale si erano beccati pesanti pene detentive. La Politkovskaja li difendeva a spada tratta: giovani coraggiosi, puliti, gli unici o quasi che permettevano di guardare con fiducia all’avvenire morale del paese.

Non mi raccapezzavo. Il suo caso mi sembrava passato in giudicato, senza appello: Limonov era uno sporco fascista, a capo di una milizia di skinhead. E invece adesso una donna che dalla sua morte era unanimemente considerata una santa parlava di lui, e dei suoi, come di eroi della lotta democratica in Russia. Su internet, Elena Bonner era dello stesso avviso. Elena Bonner, la vedova di Andrej Sacharov, grande scienziato, grande dissidente, grande coscienza morale, premio Nobel per la pace! Anche lei aveva stima dei nazbol – imparai in quell’occasione che in Russia i membri del Partito nazionalbolscevico vengono chiamati così. Forse avrebbero fatto bene, diceva Elena Bonner, a cambiare nome al partito, e a sceglierne uno che non suonasse così male a certe orecchie: quanto al resto, i nazbol erano persone eccezionali.

Qualche mese dopo ho saputo che si stava organizzando sotto il nome di Drugaja Rossija, «L’Altra Russia», una coalizione politica formata da Garri Kasparov, Michail Kas’janov e Eduard Limonov – ossia uno dei più grandi giocatori di scacchi di tutti i tempi, un ex primo ministro di Putin e uno scrittore impresentabile secondo i nostri canoni: bizzarra combriccola. Evidentemente era cambiato qualcosa, forse non Limonov, ma la posizione che questi occupava nel paese. Perciò, quando Patrick de Saint-Exupéry, che avevo conosciuto ai tempi in cui era corrispondente del «Figaro» da Mosca, mi ha detto che stava preparando il lancio di una rivista di attualità e mi ha chiesto se avessi un argomento per il primo numero, ho risposto senza neanche pensarci: Limonov. Patrick ha sgranato tanto d’occhi: «Ma Limonov è un farabutto di mezza tacca».

«Non lo so» ho ribattuto. «Bisognerebbe verificare».

«Bene,» ha tagliato corto Patrick senza chiedere spiegazioni «vai a verificare».


 

Mi ci è voluto un po’ prima di imboccare la pista giusta e ottenere il suo numero di cellulare da Saša Ivanov, un editore di Mosca. E quando l’ho avuto, mi ci è voluto un pezzo prima di comporlo. Non sapevo che tono adottare, non solamente nei suoi riguardi ma anche nei miei: ero un vecchio amico o un intervistatore sospettoso? Dovevo parlare russo o francese? Dargli del «tu» o del «lei»? Ricordo tutti questi dubbi ma, curiosamente, non la frase che ho pronunciato quando, già al mio primo tentativo e persino prima del secondo squillo, Limonov ha sollevato il ricevitore. Devo essermi presentato e lui, senza esitare un attimo, ha risposto: «Ah, Emmanuel. Come sta?». Preso alla sprovvista, ho farfugliato un «Non c’è male»: noi due ci conoscevamo appena, non ci vedevamo da quindici anni, e mi aspettavo di dovergli ricordare chi fossi. Ha subito continuato: «Lei era alla cerimonia della Dubrovka l’anno scorso, vero?».

Sono rimasto senza parole. Io lo avevo fissato a lungo, a cento metri di distanza, ma i nostri sguardi si erano incrociati solo per un attimo, e da parte sua non c’era stato alcun segno – né un’esitazione, né un’alzata di sopracciglio – che mi avesse riconosciuto. Poi, una volta ripresomi dallo stupore, ho pensato che Saša Ivanov, il nostro amico editore, avesse potuto anticipargli la mia telefonata, ma a Saša Ivanov non avevo detto niente della mia presenza alla Dubrovka. Il mistero restava dunque insoluto. Ho capito in seguito che non c’era nessun mistero: semplicemente, Limonov ha una memoria prodigiosa e un non meno prodigioso autocontrollo. Quando gli ho detto che volevo scrivere un lungo articolo su di lui, ha accettato senza problemi di lasciarmi passare due settimane in sua compagnia – «a meno che» ha aggiunto «non mi rimettano in galera».

 

3

 

Vengono a prendermi per portarmi dal loro capo due ragazzi muscolosi, cranio rasato, jeans neri, bomber nero e anfibi. Attraversiamo Mosca su una Volga nera con i vetri oscurati e non mi stupirei se mi bendassero. Invece no: i miei angeli custodi si accontentano di ispezionare velocemente il cortile interno del palazzo, poi la tromba delle scale, infine il pianerottolo su cui si affaccia un appartamentino buio, quasi privo di mobili, come un alloggio occupato abusivamente; all’interno, altri due crani rasati ammazzano il tempo fumando sigarette. Eduard, mi informa uno di loro, si divide fra tre o quattro domicili, li cambia il più spesso possibile, evita di avere orari regolari e non fa mai un passo senza guardie del corpo – tutti militanti del suo partito.

Mentre mi fanno aspettare, penso che il mio articolo comincia bene: nascondigli, clandestinità, tutto è quanto mai romanzesco. Soltanto, non mi è facile scegliere fra i due generi di questo romanzo: il terrorismo e la resistenza, Carlos e Jean Moulin – anche se, finché non viene chiusa la partita e la versione ufficiale della storia determinata una volta per tutte, i due generi si somigliano. Mi chiedo pure che cosa si aspetti Limonov dalla mia visita. Forse è rimasto scottato dai pochi profili che gli hanno dedicato i giornalisti occidentali ed è diffidente, o forse conta su di me per una riabilitazione. Io stesso non ne ho la minima idea. Direi anzi che capita di rado, al momento d’incontrare la persona di cui si deve scrivere, di avere un’idea tanto vaga di che pesci pigliare.

Alla fine vengo fatto entrare in un ufficio spartano con le tende tirate; Limonov è in piedi, in jeans e maglione neri. Stretta di mano, nessun sorriso. Circospezione. A Parigi ci davamo del «tu», ma al telefono mi ha dato del «lei», e così andiamo avanti. Nonostante la mancanza di esercizio, il suo francese è meglio del mio russo; vada dunque per il francese. Una volta faceva un’ora al giorno di flessioni e sollevamento pesi, e deve aver continuato perché, a sessantacinque anni, è ancora asciutto: pancia piatta, linea da adolescente, pelle liscia e bruna da mongolo, anche se ormai porta i baffi e un pizzetto grigi che ricordano un po’ il d’Artagnan invecchiato di Vent’anni dopo, e molto un commissario politico bolscevico, in particolare Trockij – tranne che, per quanto ne so io, Trockij non faceva body-building.

In aereo ho riletto uno dei suoi libri migliori, Diario di un fallito, di cui la quarta di copertina dà un’idea abbastanza precisa: «Se Charles Manson o Lee Harvey Oswald avessero tenuto un diario sarebbe stato simile a questo». Ne ho ricopiato qualche brano nel taccuino. Questo, per esempio: «Sogno un’insurrezione violenta … Non sarò mai un altro Nabokov, non andrò a caccia di farfalle per i prati, su gambe senilmente nude, pelose e anglofone … Semmai guadagnerò un milione, mi comprerò le armi per organizzare un colpo di stato in un paese qualsiasi». Era la sceneggiatura che Limonov raccontava a se stesso quando aveva trent’anni ed era un esule senza il becco di un quattrino scaricato sui marciapiedi di New York, ed ecco che trent’anni dopo quella sceneggiatura è diventata un film. Limonov vi interpreta il ruolo che sognava: quello del rivoluzionario di professione, dell’esperto di guerriglia urbana, di Lenin nel suo vagone blindato.

Glielo dico. Si mette a ridere, un risolino secco e aspro, con l’aria che esce dalle narici. «È vero» ammette. «Nella vita ho realizzato il mio programma». Ma ci tiene a puntualizzare: non è più il momento della rivolta armata. Non sogna più un’insurrezione violenta, piuttosto una rivoluzione arancione come quella appena avvenuta in Ucraina. Una rivoluzione pacifica, democratica, che secondo lui il Cremlino teme più di ogni altra cosa ed è pronto a reprimere con ogni mezzo. È per questo che vive da uomo braccato. Qualche anno fa è stato picchiato selvaggiamente con mazze da baseball, e di recente è scampato per un soffio a un attentato. Il suo nome compare in cima agli elenchi dei «nemici della Russia», cioè degli uomini da eliminare, che le conventicole vicine al potere additano alla vendetta popolare rendendone pubblici indirizzi e numeri di telefono. Fra gli altri nomi sull’elenco, Anna Politkovskaja, assassinata con un fucile a pompa; l’ex ufficiale dell’FSB, Litvinenko, avvelenato con il polonio dopo che aveva denunciato la deriva criminale dei servizi segreti; il miliardario Chodorkovskij, oggi in prigione in Siberia per aver voluto occuparsi di politica. E il prossimo è lui, Limonov.


 

Il giorno successivo Limonov tiene una conferenza stampa insieme a Kasparov. Riconosco in sala la maggior parte dei militanti che ho incontrato mentre lavoravo al mio articolo sulla Politkovskaja, ma ci sono anche parecchi giornalisti, soprattutto stranieri. Alcuni sono molto eccitati, come la troupe svedese che sta girando non un breve servizio ma un vero e proprio documentario – tre mesi di riprese – su quella che spera diventi l’inarrestabile ascesa del movimento Drugaja Rossija. Ne sembrano sicurissimi, questi svedesi, e contano di vendere il loro documentario a peso d’oro nel mondo intero quando Kasparov e Limonov saranno giunti al potere.

Corporatura massiccia, sorriso aperto, bella faccia da ebreo armeno: quando salgono entrambi sul palco, l’ex campione di scacchi attira l’attenzione molto più di Limonov, che con il suo pizzetto e gli occhiali sembra interpretare la parte dello stratega dal sangue freddo che si mantiene nell’ombra del leader naturale. D’altronde Kasparov parte in quarta spiegando perché le elezioni presidenziali previste per l’anno successivo – il 2008 – sono un’occasione storica. Putin è al termine del suo secondo mandato, e la costituzione gli vieta di ripresentarsi per la terza volta; il presidente ha cristallizzato tutto intorno a sé, e dalle file del potere non si fa avanti nessun candidato. Per la prima volta nella storia della Russia, un’opposizione democratica ha una grande opportunità. Ai media è stato messo il bavaglio, e quindi nessuno sa fino a che punto i russi ne abbiano le scatole piene degli oligarchi, della corruzione e dell’onnipotenza dell’FSB; ma lui, Kasparov, lo sa. L’oratore è eloquente, modula una voce da violoncello, e comincio a pensare che forse gli svedesi hanno ragione. Vorrei poter credere che sto assistendo a un evento straordinario, qualcosa di simile agli esordi di Solidarnoœæ, ma proprio allora il mio vicino, un giornalista inglese, sghignazza e mi sussurra con l’alito pesante di gin: «Bullshit. I russi stravedono per Putin e non capiscono perché una costituzione del cazzo impedisca loro di eleggere per tre volte di fila un presidente così in gamba. E non dimentichi un piccolo particolare: la costituzione vieta tre mandati consecutivi, non di stare fermi un giro, lasciando un uomo di paglia a tenere in caldo la propria poltrona, e ripresentarsi al giro successivo. Vedrà».

Questa confidenza spegne il mio entusiasmo. La verità ridiventa improvvisamente quella dei realisti, di chi sa come va il mondo e non si lascia mettere nel sacco, del mio sagace amico Pavel, secondo cui questa storia dell’opposizione democratica in Russia è come l’arrocco nella dama: un espediente non contemplato dalle regole del gioco, che non ha mai funzionato e non funzionerà mai. Kasparov, che un attimo prima ero disposto a vedere come un Wa³êsa russo, è diventato una specie di François Bayrou. Adesso il suo discorso mi sembra enfatico, farraginoso, e io e il mio vicino cominciamo a sviluppare la complicità di due somari seduti nell’ultima fila di banchi che durante la lezione si passano immagini oscene. Io gli mostro un libro di Limonov che ho appena comprato, e che è stato tradotto soltanto in Serbia. Si intitola Anatomia dell’eroe e contiene una serie di foto piuttosto clamorose in cui si vede l’eroe in questione, Limonov himself, pavoneggiarsi in tuta mimetica accanto al miliziano serbo Arkan, a Jean-Marie Le Pen, al populista russo irinovskij, al mercenario Bob Denard e a qualche altro umanista. «Fucking fascist…» è il commento del giornalista inglese.

Alziamo entrambi lo sguardo su Limonov. Accanto a Kasparov, appena un po’ arretrato, Limonov ascolta le sue rimostranze contro la persecuzione messa in atto dal potere; non sembra che stia aspettando quel che tutti gli uomini politici aspettano in un comizio: che l’oratore finisca di parlare per prendere la parola al posto suo. Si limita a starsene lì, seduto, attento, dritto e tranquillo come un monaco zen in meditazione. La calda voce di Kasparov è ormai soltanto un ronzio in lontananza: ora osservo il volto indecifrabile di Limonov, e più lo osservo più mi accorgo che non ho la minima idea di che cosa stia pensando. Ci crede veramente a questa rivoluzione arancione? O si diverte, lui, il bandito, la canaglia, a impersonare il ruolo del democratico virtuoso in mezzo a quegli ex dissidenti e a quei militanti per la difesa dei diritti umani che per tutta la sua vita ha sempre considerato degli ingenui? Sotto sotto ci gode a fare il lupo nell’ovile?

Ritrovo nel mio taccuino un altro brano del Diario di un fallito: «Sì, ho deciso di schierarmi con il male, con i giornali da strapazzo, con i volantini ciclostilati, con i movimenti e i partiti che non hanno nessuna possibilità di farcela. Nessuna. Mi piacciono i comizi frequentati da quattro gatti, la musica cacofonica di musicisti senza talento … Odio le orchestre sinfoniche e il balletto. Se prendessi il potere, taglierei la gola a tutti i violinisti e i violoncellisti». Lo avrei tradotto volentieri al giornalista inglese ma non è stato necessario, perché anche lui deve aver pensato nello stesso momento quello che ho pensato io; infatti si gira verso di me e mi dice, stavolta assolutamente serio: «Gli amici di Limonov farebbero bene a non fidarsi di lui. Se per caso prendesse il potere, per prima cosa li farebbe fucilare tutti».


 

È un dato privo di ogni rilevanza statistica, ma comunque: per scrivere questo articolo ho parlato di Limonov con più di trenta persone, sconosciuti che mi hanno dato un passaggio (perché a Mosca tutti fanno i tassisti abusivi) o amici appartenenti a quello che con molta prudenza si potrebbe definire l’ambiente radical-chic russo: artisti, giornalisti, editori, gente che compra mobili IKEA e legge l’edizione russa di «Elle». Non degli esaltati, tutt’altro; eppure nessuno mi ha parlato male di Limonov. Nessuno ha pronunciato la parola «fascismo», e quando dicevo: «Però, quelle bandiere, quegli slogan…» alzavano le spalle e mi giudicavano una mammoletta. Era come se avessi dovuto intervistare tutti insieme Houellebecq, Lou Reed e Cohn-Bendit: due settimane con Limonov, che fortuna! Il che però non significa affatto che queste ragionevoli persone voterebbero per lui – non più di quanto i francesi, immagino, voterebbero per Houellebecq se ne avessero l’occasione. Ma amano il suo personaggio sulfureo, ammirano il suo talento e la sua impudenza, e i giornali, che lo sanno, parlano continuamente di lui. Insomma, Limonov è una star.


 

Lo accompagno al ricevimento organizzato dalla radio Echo Moskvy, uno degli eventi mondani della stagione. Lui si porta dietro i suoi gorilla, ma anche la sua nuova moglie, Ekaterina Volkova, una giovane attrice che deve la propria fama a una serie televisiva. Limonov e la moglie sembrano conoscere tutta la crème politicomediatica che affolla questa serata; nessuno è più fotografato e festeggiato di loro. Mi piacerebbe molto che Limonov mi proponesse di unirmi a loro per la cena, ma non lo fa. Non mi invita nemmeno nell’appartamento in cui Ekaterina vive con il figlio – perché, vengo a sapere quella sera, hanno un figlio di otto mesi. Peccato: mi sarebbe piaciuto vedere il luogo in cui si riposa il guerriero tra un nascondiglio e l’altro. Mi sarebbe piaciuto sorprenderlo nel ruolo, spiazzante in lui, di padre di famiglia. Soprattutto, mi sarebbe piaciuto conoscere meglio Ekaterina, che è deliziosa e manifesta una cordialità che credevo esclusiva delle attrici americane: ride molto, si stupisce di tutto ciò che le dite, e vi pianta in asso quando passa uno più importante di voi. Ho comunque la possibilità di chiacchierare con lei cinque minuti, davanti al buffet, quanto basta perché mi racconti con ingenua freschezza che prima di incontrare Eduard non s’interessava di politica, ma che ora ha capito: la Russia è uno Stato totalitario, bisogna lottare per la libertà, partecipare alle marce del dissenso, nelle quali sembra mettere la stessa serietà che nei suoi seminari di yoga. Il giorno dopo leggo in una rivista femminile un’intervista in cui Ekaterina elargisce consigli di bellezza e posa teneramente abbracciata a quel celebre dissidente di suo marito. Mi lascia sbalordito il fatto che a una domanda di politica ripeta esattamente quello che ha detto a me, criticando Putin con la poca prudenza con cui da noi un’attrice impegnata nella difesa dei sans-papiers può criticare Sarkozy. Provo a immaginare quello che sarebbe successo sotto Stalin o anche sotto Brenev nell’ipotesi, a ogni modo inverosimile, in cui fossero stati pubblicati discorsi del genere, e mi dico che il totalitarismo putiniano non è poi tanto male – c’è di peggio.

 

4

 

Fatico a conciliare queste immagini: lo scrittore teppista che ho conosciuto un tempo, il guerrigliero braccato, l’uomo politico responsabile, la star a cui le rubriche di gossip dedicano articoli entusiasti. Penso che per vederci più chiaro devo incontrare i militanti del suo partito, i nazbol di base. I crani rasati che mi accompagnano tutti i giorni dal capo con una Volga nera, e che all’inizio mi spaventavano un po’, sono simpatici ma non molto loquaci, o forse sono io che non ci so fare. Al termine della conferenza stampa con Kasparov ho abbordato una ragazza, semplicemente perché era carina, chiedendole se fosse una giornalista. Mi ha risposto di sì, insomma, lavorava per il sito internet del Partito nazionalbolscevico. Molto graziosa, posata, ben vestita: era una nazbol.

Tramite questa piacevole ragazza incontro un ragazzo altrettanto piacevole, il responsabile – clandestino – della sezione di Mosca. I lunghi capelli raccolti in una coda, l’espressione aperta, cordiale, non sembra per niente un fascio, piuttosto un militante antiglobalizzazione o un autonomo tipo gruppo di Tarnac. Nel suo appartamentino in periferia ci sono dischi di Manu Chao e alle pareti quadri dipinti dalla moglie nello stile di Jean-Michel Basquiat.

Chiedo: «Lei condivide la tua battaglia politica?».

«Certo» mi risponde. «Del resto, è in galera. Era una dei trentanove del grande processo del 2005, quello seguito dalla Politkovskaja».

Lo dice pieno di orgoglio, con un largo sorriso – e se non è in galera anche lui non è per colpa sua, soltanto «Mne ne povezlo»: «A me è andata male». Un’altra volta, forse; non tutto è perduto.

Raggiungiamo insieme il tribunale della sezione urbana di Taganskaja, dove si dà il caso che quel giorno si tenga il processo ad alcuni nazbol. Sala minuscola, imputati chiusi in una gabbia con le manette ai polsi, e sui tre banchi del pubblico amici loro, tutti appartenenti al partito. Dietro le sbarre sono in sette: sei ragazzi dall’aspetto piuttosto eterogeneo – si va dallo studente musulmano con barba al working class hero in tuta da ginnastica – e una donna un po’ più matura, con i neri capelli arruffati, pallida, piuttosto bella nel genere insegnante di storia di sinistra che si arrotola le sigarette a mano. Sono accusati di «hooliganismo», cioè di scontri con i giovani putiniani. Ferite leggere su entrambi i fronti. A domanda rispondono che hanno cominciato gli altri per primi e che nonostante ciò non sono stati perseguiti, che quello è un processo esclusivamente politico e che se devono pagare per le loro opinioni, non c’è problema, pagheranno. La difesa sottolinea che gli imputati non sono hooligan ma studenti seri, con buoni voti, e hanno già fatto un anno di carcerazione preventiva, il che dovrebbe bastare. L’argomento non convince il giudice. Sentenza per tutti: due anni. Quando le guardie li portano via, i condannati escono ridendo, mostrando il pugno e dicendo «Do smerti»: «Fino alla morte». Gli amici li guardano con invidia: sono degli eroi.


 

Ce ne sono a migliaia, forse a decine di migliaia, come loro, in rivolta contro il cinismo diventato ormai la religione della Russia, e tributano a Limonov un autentico culto. Quest’uomo, che potrebbe essere loro padre – e, per i più giovani, addirittura loro nonno –, ha avuto la vita avventurosa che a vent’anni sognano tutti, è una leggenda vivente, e il cuore di questa leggenda, ciò che invoglia tutti a imitarlo, è l’eroismo cool di cui ha dato prova durante la prigionia. Limonov è stato a Lefortovo, la fortezza del KGB che nella mitologia russa non ha nulla da invidiare ad Alcatraz; è stato in un campo di lavoro, sotto il regime più duro, e non si è mai lamentato, non si è mai piegato. È riuscito non soltanto a scrivere sette o otto libri, ma ad aiutare concretamente i compagni di cella, che hanno finito per considerarlo un vero boss e una specie di santo. Il giorno in cui è stato scarcerato, detenuti e guardie hanno fatto a gara per portargli la valigia.


 

Quando ho chiesto a Limonov come fosse la prigione, sulle prime si è limitato a rispondere «Normal’no», che in russo vuol dire «Ok, nessun problema», e solamente in un secondo momento mi ha raccontato questa storiella.

Da Lefortovo lo avevano trasferito al campo di Engel’s, sul Volga, un istituto modello nuovo di zecca, nato dai pensamenti di architetti ambiziosi, che viene mostrato volentieri ai visitatori stranieri perché si facciano un’idea lusinghiera dei progressi compiuti in Russia in tema di condizione carceraria. In realtà, i detenuti di Engel’s chiamano il campo «Eurogulag», e Limonov assicura che le finezze architettoniche non rendono la vita al suo interno meno dura che nelle classiche baracche circondate da filo spinato – anzi. Fatto sta che nel campo i lavabi, costituiti da una lastra di acciaio sormontata da un tubo di ghisa, dalla linea pura e sobria, sono identici a quelli di un albergo, progettato dal designer Philippe Starck, in cui Limonov è stato ospitato dal suo editore americano quando è passato per New York l’ultima volta, alla fine degli anni Ottanta.

La cosa lo ha fatto riflettere: nessuno dei suoi compagni di prigionia era in grado di fare lo stesso paragone, e neanche nessuno degli eleganti clienti dell’elegante albergo newyorkese. Si è chiesto se ci fossero al mondo molti altri uomini come lui, Eduard Limonov, la cui esperienza comprendeva universi così differenti come quello del detenuto comune in un campo di lavori forzati sul Volga e quello dello scrittore alla moda che si muove in ambienti firmati Philippe Starck. No, ha concluso, probabilmente no, e ne ha tratto motivo di un orgoglio che comprendo, e che è appunto quello che mi ha spinto a scrivere questo libro.


 

Io vivo in un paese tranquillo, in fase di declino, dalla mobilità sociale ridotta. Nato in una famiglia borghese di un quartiere elegante, abito ora in una zona di Parigi decisamente radical-chic. Figlio di un alto dirigente e di una storica famosa, scrivo libri e sceneggiature, e mia moglie è giornalista. I miei genitori hanno una casa di vacanza sull’Île de Ré, e a me piacerebbe comprarne una nel Gard. Non che questo sia un male o limiti le possibilità di arricchimento dell’esperienza umana, ma, insomma, dal punto di vista geografico e socioculturale non si può dire che la vita mi abbia condotto molto lontano dal mio punto di partenza, e lo stesso vale per la maggior parte dei miei amici.

Limonov, invece, è stato teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell’immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio. Comunque, dopo aver trovato semplicemente divertente l’aneddoto dei lavabi di Saratov, ho pensato che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Qualcosa, d’accordo; ma cosa? Comincio questo libro per scoprirlo.

 

I
UCRAINA, 1943-1967

 

 

1

 

La storia ha inizio nella primavera del 1942, in una città sulle rive del Volga che prima della rivoluzione si chiamava Rastjapino e dal 1929 si chiama Derdinsk. Il nuovo nome è un omaggio a Feliks Dzerzinskij, bolscevico della prima ora e fondatore della polizia politica in seguito denominata Ceka, GPU (pronunciare ghepeù), NKVD (pronunciare enkavedé), KGB (keghebé) e oggi FSB (efesbé). In questo libro la incontreremo di nuovo sotto i tre ultimi minacciosi acronimi, ma, al di là dei nomi assunti nei vari periodi, i russi continuano a chiamarla, in modo ancora più lugubre, organy: «gli organi».

Infuria la guerra; l’industria pesante è stata smantellata e trasferita dal teatro delle operazioni nelle retrovie. Vista la situazione, a Dzerdzinsk una fabbrica di armamenti impiega tutta la popolazione, per sorvegliare la quale vengono mobilitate squadre dell’NKVD. È un’epoca all’insegna dell’eroismo e della durezza: un operaio che si presenta al lavoro con cinque minuti di ritardo viene mandato davanti al consiglio di guerra; i èekisti arrestano, processano e all’occorrenza giustiziano con una pallottola alla nuca. Una notte in cui alcuni Messerschmitt in ricognizione sul basso Volga sganciano bombe sulla città, uno dei soldati di guardia alla fabbrica illumina con la pila la strada a una giovane operaia uscita tardi, che si affretta verso un rifugio. La ragazza incespica, si aggrappa al braccio del soldato, lui nota un tatuaggio sul suo polso. Nell’oscurità rischiarata dai bagliori degli incendi i loro volti si avvicinano. Le labbra si toccano.


 

Il soldato, Veniamin Savenko, ha ventitré anni. Proviene da una famiglia di contadini ucraini. Abile elettricista, è stato arruolato dall’NKVD, che seleziona il personale migliore in ogni campo. Sicché, invece di finire al fronte come la maggior parte della sua classe di leva, è stato destinato di guardia a una fabbrica di armamenti nelle retrovie. Si trova lontano da casa; in Unione Sovietica è la regola, non l’eccezione: fra deportazioni, esili e trasferimenti in massa di popolazioni, la gente viene spostata di continuo e le possibilità di vivere e morire nel luogo in cui si è nati sono praticamente nulle.

Raisa Zybina invece è originaria di Gor’kij, ex Ninij Novgorod, dove il padre era direttore di un ristorante. In Unione Sovietica non esistono proprietari né gestori di ristoranti, ma direttori. Non si tratta di un’attività commerciale che si possa avviare o rilevare, ma di un posto di lavoro a cui si viene assegnati, e non è un brutto posto. Disgraziatamente, il padre di Raisa è stato rimosso per malversazione e spedito nel battaglione disciplinare sul campo di Leningrado, dove è morto poco tempo prima. Questa è una macchia sulla famiglia e, in quei tempi e in quel paese, una macchia sulla famiglia può rovinare una vita. Che i figli non debbano pagare per le colpe dei padri a noi sembra un pilastro della giustizia, ma nella realtà sovietica non è nemmeno un principio formale, qualcosa da poter invocare anche solo in teoria. I figli di trockisti, i figli di kulaki – come vengono chiamati i contadini benestanti – o i figli di privilegiati nel regime zarista sono destinati a una vita da proscritti, banditi dai Pionieri, dall’università, dall’Armata Rossa, dal partito, e hanno qualche possibilità di sfuggire alla proscrizione soltanto rinnegando i genitori e dando prova poi del massimo zelo; e siccome dare prova del massimo zelo significa denunciare il prossimo, i migliori collaboratori degli organi saranno le persone dalla biografia non irreprensibile. Può darsi che, nel caso del padre di Raisa, la morte sul campo dell’onore abbia rimesso un po’ le cose a posto; fatto sta che gli Zybin, come i Savenko, sono passati attraverso il Grande Terrore degli anni Trenta senza incidenti. Probabilmente erano pesci troppo piccoli. Ma questa fortuna non impedisce alla giovane Raisa di vergognarsi del padre disonesto come del tatuaggio che si è fatta fare quando frequentava la scuola tecnica. In seguito, cercherà di cancellarlo strofinandosi il polso con acido cloridrico, perché soffre di non poter andare a passeggio con abiti a maniche corte e dover somigliare, lei, moglie di un ufficiale, a una poco di buono.


 

La gravidanza di Raisa procede quasi di pari passo con l’assedio di Stalingrado. Concepito nel terribile maggio del 1942, al tempo delle più cocenti sconfitte, Eduard nasce il 2 febbraio 1943, venti giorni prima della capitolazione della sesta armata tedesca e del rovesciamento delle sorti della guerra. Gli ripeteranno che è un figlio della vittoria e che sarebbe nato in un mondo di schiavi se gli uomini e le donne del suo popolo non avessero sacrificato la vita per non abbandonare al nemico la città che portava il nome di Stalin. Più tardi la gente parlerà male di Stalin, dirà che era un tiranno, si compiacerà nel denunciare il terrore che regnava sotto di lui, ma per quelli della generazione di Eduard Stalin rimarrà il capo supremo dei popoli dell’Unione nel momento più tragico della loro storia, l’uomo che ha sconfitto i nazisti ed è stato capace di un gesto degno di Plutarco: quando l’alto comando tedesco gli propose uno scambio tra suo figlio, il tenente Jakov Dugašvili, caduto prigioniero, e il feldmaresciallo Paulus, uno dei grandi capi militari del Reich, che i russi avevano catturato davanti a Stalingrado, Stalin rispose altero che non scambiava un feldmaresciallo con un semplice tenente. Jakov si suicidò gettandosi contro il filo spinato elettrificato del campo in cui era rinchiuso.


 

Dalla prima infanzia di Eduard vengono a galla due aneddoti. Uno, tenero, è quello preferito dal padre: il neonato, che in mancanza di culla è stato adagiato in una cassa di granate, succhia come se fosse un ciuccio una coda di aringa e sorride beato. «Molodec!» esclama Veniamin: «Bravo piccolo! Si troverà bene dappertutto!».

L’altro, meno piacevole, lo racconta Raisa. La donna è andata in città portandosi dietro il bambino, quando comincia un bombardamento della Luftwaffe. I due trovano riparo in una cantina con una decina di concittadini, alcuni terrorizzati, altri apatici. Le pareti e il pavimento tremano; i rifugiati tendono l’orecchio per indovinare a quale distanza cadano le bombe e quali edifici distruggano. Il piccolo Eduard si mette a piangere, attirando l’attenzione e poi l’ira di un tizio che spiega con voce sibilante come i crucchi dispongano di tecniche ultramoderne per individuare i bersagli animati e siano capaci di orientarsi seguendo anche i suoni più deboli, e che il pianto del bambino li farà uccidere tutti. L’uomo aizza gli altri al punto che Raisa viene buttata fuori ed è costretta a cercarsi, sotto le bombe, un altro rifugio. Furibonda, la donna dice a se stessa e al suo bambino che tutto ciò che gli potranno raccontare sull’aiutarsi gli uni con gli altri, sulla solidarietà e la fratellanza sono balle. «La verità, non dimenticarlo mai, Edièka, è che gli uomini sono dei vigliacchi, delle carogne, e che se non vuoi finire ammazzato devi essere pronto a colpire per primo».

 

2

 

Al termine della guerra le città non si chiamano più «città» ma «concentrazioni di popolazione», e la giovane famiglia Savenko conduce la propria vita, senza mai poter scegliere la destinazione, tra casermoni e baraccamenti in diverse concentrazioni di popolazione lungo il Volga, prima di stabilirsi, nel febbraio del 1947, a Char’kov in Ucraina. Char’kov è un grosso centro industriale e ferroviario, ragione per cui è stato oggetto di una violenta contesa fra russi e tedeschi, che l’hanno conquistato, riconquistato, occupato a turno massacrandone gli abitanti e lasciando alla fine della guerra soltanto una distesa di macerie. L’edificio costruttivista in calcestruzzo di via dell’Armata Rossa in cui vivono gli ufficiali dell’NKVD e le loro famiglie – indicate come «persone a carico» – si affaccia su quella che è stata l’imponente stazione centrale, ora ridotta a un cumulo di pietre, mattoni e metallo recintato da una staccionata che è vietato scavalcare perché fra le macerie si trovano, oltre ai cadaveri di soldati tedeschi, mine e granate: è così che un ragazzino ha perso una mano. Nonostante quel precedente, la banda di scapestrati cui Eduard si aggrega intensifica le spedizioni fra le rovine alla ricerca di cartucce, per poi versarne la polvere sui binari del tram e provocare botti, fuochi d’artificio e una volta persino un deragliamento divenuto leggendario. Dopo cena, i più grandi raccontano storie spaventose: di crucchi morti che si aggirano fra le rovine e aspettano al varco gli imprudenti; di pentole, in mensa, sul fondo delle quali si trovano dita di bambini; di cannibali e di traffico di carne umana. In quei tempi si soffre la fame, si mangia soltanto pane, patate e soprattutto kaša, la pappetta di grano saraceno che compare a ogni pasto sulla tavola dei russi poveri e qualche volta su quella dei parigini benestanti, come me, che mi vanto di saperla fare bene. Il salame è un lusso rarissimo; Eduard ne va pazzo, al punto che sogna, da grande, di fare il salumiere. Niente cani, niente gatti, niente animali domestici: verrebbero mangiati. In compenso, abbondano i topi. Venti milioni di russi sono morti in guerra, ma altri venti milioni affrontano il dopoguerra senza un tetto. La maggior parte dei bambini non ha più padre, la maggior parte degli uomini ancora vivi è invalida. A ogni angolo di strada si incrociano persone che hanno perso un braccio, o una gamba, o entrambe le gambe. Si vedono ovunque bande di ragazzini abbandonati a se stessi, ragazzini i cui genitori sono morti in guerra o diventati nemici del popolo, ragazzini affamati, ragazzini ladri, ragazzini assassini, regrediti allo stato selvatico, che si spostano in orde pericolose, e per i quali è stata abbassata a dodici anni l’età in cui si diventa responsabili di fronte alla legge, vale a dire l’età in cui si può essere condannati a morte.


 

Il bambino ammira suo padre. Gli piace guardarlo il sabato sera mentre lubrifica l’arma di servizio, gli piace vederlo quando indossa la divisa, e niente lo rende felice quanto avere il permesso di lucidargli gli stivali. Vi affonda il braccio sino alla spalla, spalma la cera con cura, usa in ogni fase dell’operazione spazzole e panni particolari, tutto un campionario di arnesi che, quando Veniamin parte in missione, occupano metà della valigia; il figlio li spacchetta, li impacchetta e se ne prende cura in attesa del gran giorno in cui avrà anche lui lo stesso armamentario. Ai suoi occhi, gli unici uomini degni di questo nome sono i militari, e gli unici bambini frequentabili i figli di militari. Eduard non ne conosce altri: le famiglie di ufficiali e sottufficiali che abitano nel palazzo dell’NKVD, in via dell’Armata Rossa, si frequentano solo tra loro e hanno scarsa considerazione per i civili, individui frignoni e indisciplinati che si fermano senza preavviso in mezzo al marciapiede, costringendo a modificare la sua traiettoria il soldato che invece cammina con andatura regolamentare, costante e sostenuta: sei chilometri all’ora. Così camminerà Eduard sino alla fine dei suoi giorni.

In via dell’Armata Rossa, per addormentare i bambini si raccontano storie di quella guerra che i russi non chiamano come noi seconda guerra mondiale ma grande guerra patriottica, e i sogni dei piccoli sono pieni di trincee che franano, di cavalli morti, di compagni a cui lo scoppio di una granata porta via la testa proprio sotto i tuoi occhi. Queste storie eccitano Eduard, però gli sembra di vedere il padre un po’ a disagio durante i racconti della madre, nei quali non compaiono mai né lui né le sue imprese, ma quelle dello zio, il fratello di Raisa, e il bambino non ha il coraggio di chiedere: «E tu, papà, sei stato in guerra anche tu? Hai combattuto?».

No, lui non ha combattuto. La maggior parte dei suoi coetanei ha visto la morte in faccia. La guerra, scriverà più tardi il figlio, li ha morsi fra i propri denti come quando si saggia una moneta, e loro, che non si sono mai piegati, sanno di non essere moneta falsa. Suo padre no. Lui non ha visto la morte in faccia. Ha fatto la guerra nelle retrovie, e la moglie non perde quasi mai l’occasione di ricordarglielo.


 

Raisa è una donna dura, compresa della propria posizione sociale, nemica di ogni forma di tenerezza. Prende sempre le difese dei rivali contro Eduard; se questi è stato picchiato, non lo consola ma si congratula con l’aggressore: così il figlio diventerà un uomo, e non una femminuccia. Uno dei primi ricordi di Eduard è di essere stato colpito a cinque anni da una grave forma di otite. Gli usciva pus dalle orecchie, e rimase sordo parecchie settimane. Per raggiungere l’ambulatorio in cui la madre lo stava portando, era necessario attraversare i binari della ferrovia. Senza sentirlo, Eduard vide arrivare il treno, il fumo, la velocità, il mostro di acciaio nero e, colto improvvisamente dall’irrazionale paura che la madre volesse gettarlo sotto le ruote, iniziò a urlare: «Mamma! Mammina mia! Non buttarmi sotto il treno! Per favore, non buttarmi sotto il treno!». Nel raccontare l’episodio, Eduard sottolinea l’importanza di quel «per favore», come se soltanto la buona educazione avesse fatto desistere la madre dal suo funesto disegno.


 

Quando l’ho conosciuto a Parigi, trent’anni dopo, a Eduard piaceva dire che il padre era un èekista, perché sapeva di provocare l’imbarazzo generale. Si godeva l’effetto delle sue parole, e poi ci prendeva in giro: «Piantatela di farvi un film dell’orrore. Mio padre era l’equivalente di un gendarme, tutto qua».

Davvero?

Subito dopo la rivoluzione, durante la guerra civile, Trockij fu costretto a incorporare nell’Armata Rossa, allora sotto il suo comando, elementi provenienti dall’esercito imperiale, militari di carriera, esperti di armi, ma «esperti borghesi», e in quanto tali poco affidabili; creò allora un corpo di commissari politici per tenerli sotto controllo, controfirmarne gli ordini ed eliminare i recalcitranti. Nacque così il principio della «doppia amministrazione», basato sull’idea che per eseguire un compito fossero necessari almeno due uomini: colui che lo eseguiva e colui che si assicurava che l’esecutore rispettasse i princìpi marxisti-leninisti. Dall’Armata Rossa il criterio si estese a tutta la società, e ci si accorse poi che c’era bisogno di un terzo uomo per sorvegliare il secondo, di un quarto per sorvegliare il terzo e così via.

Veniamin Savenko è solo un piccolo ingranaggio di questo sistema paranoico. Il suo lavoro consiste nel sorvegliare, controllare e riferire, il che non comporta necessariamente orribili azioni repressive – su questo Eduard ha ragione. Abbiamo visto che durante la guerra Veniamin è stato un soldato semplice dell’NKVD e ha trascorso quegli anni piantonando una fabbrica. In tempo di pace, promosso al modesto grado di sottotenente, ricopre l’incarico di administrator nacht-kluba, che potremmo tradurre con «gestore di locale notturno», ma che, nel contesto in cui si muove Veniamin, significa animare il tempo libero e la vita culturale del soldato, per esempio allestendo serate danzanti in occasione del Giorno dell’Armata Rossa. È un incarico adatto a lui che suona la chitarra, ama cantare, a suo modo ha gusto per le cose raffinate, e si vernicia persino le unghie di smalto trasparente: un vero dandy, il sottotenente Savenko, che avrebbe potuto, sostiene retrospettivamente il figlio, vivere un’esistenza più interessante se solo avesse avuto il coraggio di scrollarsi di dosso la rigida autorità di Raisa.


 

Il nightclubbing in versione NKVD è per Veniamin un periodo di relativa spensieratezza, che purtroppo non dura a lungo, perché il sottotenente si fa soffiare il posto da un certo capitano Levitin, che diviene a sua insaputa il nemico giurato dei Savenko, e una figura capitale nella personale mitologia di Eduard: l’intrigante che lavora meno bene ma ha più successo di voi, e vi umilia con la sua sfrontatezza e la sua sfacciata buona sorte, e vi umilia non soltanto davanti ai vostri superiori ma anche, cosa molto più grave, davanti alla vostra famiglia, cosicché vostro figlio, pur coltivando lealmente il disprezzo dei genitori nei riguardi di Levitin, non può, per quanto se lo rimproveri, impedirsi di pensare segretamente che il padre sia un poveraccio, uno sfigato, e che il figlio di Levitin sia comunque un ragazzo fortunato. Eduard elaborerà in seguito la teoria secondo cui tutti noi abbiamo il nostro capitano Levitin. Il suo farà presto la comparsa in questo libro nelle sembianze del poeta Iosif Brodskij.

 

3

 

Quando muore Stalin, il 5 marzo 1953, Eduard ha dieci anni. I suoi genitori, al pari dei loro coetanei, hanno passato tutta la vita nella sua ombra. Stalin aveva la risposta a qualsiasi domanda, una risposta burbera e laconica che fugava ogni dubbio. Gli adulti ricordano i giorni tremendi e luttuosi seguiti all’attacco tedesco del 1941, e anche il giorno in cui, uscendo dal suo stato di prostrazione, Stalin aveva parlato alla radio. Si era rivolto agli uomini e alle donne del suo paese chiamandoli non «compagni», ma «fratelli e sorelle». «Fratelli e sorelle»: quelle parole, così semplici e familiari, quelle parole di cui tutti avevano dimenticato il calore e che nell’immane tragedia erano un balsamo per l’anima, erano state importanti per i russi come per noi quelle di Churchill e di de Gaulle. Adesso il paese intero è in lutto per la morte dell’uomo che le ha pronunciate. A scuola i bambini piangono perché non possono dare la propria vita per prolungare quella di Stalin. Eduard piange come gli altri.

In questi anni è un bravo ragazzino, sensibile e un po’ gracile, che ama il padre, teme la madre e dà loro molte soddisfazioni. Rappresentante del soviet dei Pionieri della sua classe, figura ogni anno nell’elenco dei migliori allievi, come si addice al figlio di un ufficiale. Legge molto. I suoi autori preferiti sono Alexandre Dumas e Jules Verne, entrambi molto popolari in Unione Sovietica. Sotto questo aspetto, la sua infanzia somiglia alla mia, pur così diversa. Anch’io ho avuto per modelli i tre moschettieri e il conte di Montecristo. Anch’io ho sognato di diventare cacciatore di pelli, esploratore, marinaio – più precisamente ramponiere, come il Ned Land interpretato da Kirk Douglas nel film tratto da Ventimila leghe sotto i mari. I pettorali scolpiti sotto la maglia a righe, tatuato, beffardo, imperturbabile, Ned Land sovrastava con la propria prestanza fisica il professor Aronnax e persino il tenebroso capitano Nemo. Era facile identificarsi con questi tre personaggi: lo scienziato, il ribelle, l’uomo d’azione che era anche un uomo del popolo, e se fosse dipeso soltanto da me avrei voluto essere quest’ultimo. Ma non dipendeva soltanto da me. I miei genitori mi hanno presto fatto capire che, no, ramponiere non sarebbe stato possibile, era meglio fare lo scienziato – non ricordo che all’epoca sia stata presa in considerazione la terza possibilità, quella del ribelle –, anche perché ero molto miope: provateci, ad arpionare le balene con gli occhiali!

Ho dovuto portarli dall’età di otto anni. Anche Eduard, ma lui ne ha patito più di me, perché questo handicap non gli precludeva una carriera utopica, ma quella a cui era naturalmente destinato. L’oculista che lo ha visitato ha lasciato poche speranze ai suoi genitori: con una vista così scarsa, il figlio sarebbe stato quasi certamente riformato.


  Questa diagnosi per lui è una tragedia. Eduard ha sempre pensato che avrebbe fatto l’ufficiale, e ora gli dicono che non presterà nemmeno servizio militare, che è condannato a diventare ciò che sin dalla più tenera età gli hanno insegnato a disprezzare: un civile.

Forse lo sarebbe diventato, se il palazzo in cui abitavano gli ufficiali dell’NKVD non fosse stato demolito, i suoi inquilini separati e ai Savenko non fosse stato assegnato un alloggio nel nuovo agglomerato di Saltov, all’estrema periferia di Char’kov. Saltov significa strade che si intersecano ad angolo retto, non asfaltate per mancanza di tempo o di mezzi, e cubi di calcestruzzo a quattro piani, appena costruiti e già fatiscenti, nei quali vivono gli operai di tre fabbriche, chiamate Turbina, Pistone, e Falce e martello. Siamo in Unione Sovietica, dove in linea di principio non è squalificante essere proletari, ma a Saltov gli uomini sono per la maggior parte alcolizzati e analfabeti, i loro figli in genere abbandonano la scuola a quindici anni per lavorare in fabbrica o più spesso per stare in strada, a ubriacarsi e a menare le mani, e non si capisce perché, pur nella società senza classi, i Savenko dovrebbero prendere quell’esilio per qualcosa di diverso da un declassamento. Sin dal primo giorno Raisa rimpiange amaramente via dell’Armata Rossa, la comunità di ufficiali orgogliosi di appartenere alla stessa casta, i libri che ci si prestava a vicenda, le serate in cui i mariti, con la giacca della divisa sbottonata sulla camicia bianca, facevano ballare le giovani mogli sulle note di dischi di fox-trot o di tango confiscati in Germania. Raisa sommerge Veniamin di rimproveri, gli porta a esempio colleghi più svegli che, mentre lui passava faticosamente dal grado di sottotenente a quello di tenente, sono saliti di tre gradi e hanno ottenuto appartamenti veri in centro città, quando invece loro devono accontentarsi di una stanza per tre in quell’orribile periferia dove nessuno legge o balla il fox-trot, una donna distinta non ha nessuno con cui parlare, e dopo ogni pioggia le strade traboccano di fango nerastro. Non si spinge fino a sostenere che avrebbe fatto meglio a sposare un capitano Levitin, ma decisamente lo pensa, e il piccolo Eduard, che ha tanto ammirato il padre, i suoi stivali, la sua divisa e la sua pistola, comincia a provarne pena, a trovarlo onesto e un po’ stupido. I suoi nuovi amici non sono figli di ufficiali ma di proletari, e quelli che più gli vanno a genio non vogliono diventare proletari come i genitori, ma delinquenti. È una carriera che, come quella militare, ha un suo codice di comportamento, suoi valori, una sua morale, tutte cose che attraggono Eduard. Non vuole più diventare come suo padre. Non sa che farsene di una vita onesta e un po’ stupida, vuole una vita libera e pericolosa: una vita da uomo.


  Compie un decisivo passo avanti su questa strada il giorno in cui si azzuffa con un compagno di scuola, un grosso siberiano di nome Jura. In realtà, non fa a botte con Jura, ma è Jura che gliele suona di santa ragione. Lo portano a casa intontito e pieno di ecchimosi. Fedele ai propri princìpi di stoicismo militare, la madre non lo consola, non lo coccola, ma dà ragione a Jura; ed è un bene che sia così, ritiene oggi Eduard, perché quel giorno la sua vita cambia. Eduard capisce allora una cosa fondamentale, ossia che ci sono due categorie di persone: quelle che si possono picchiare e quelle che non si possono picchiare, non perché siano più forti o meglio allenate, ma perché sono pronte a uccidere. È questo il segreto, l’unico, e il bravo piccolo Eduard decide di passare nella seconda categoria: sarà un uomo che nessuno colpisce perché tutti sanno che è capace di uccidere.


  Da quando non è più un administrator nacht-kluba, Veniamin è spesso in missione e resta lontano da casa per diverse settimane. In che cosa consistano di preciso queste missioni non è chiaro; Eduard ha cominciato a vivere la sua vita e non se ne interessa molto, ma quando un giorno la madre gli dice che conta sulla sua presenza a cena perché il padre torna dalla Siberia, gli viene in mente di andargli incontro.

Eduard arriva in anticipo, un’abitudine che non perderà mai. Aspetta. Finalmente, il treno Vladivostok-Kiev entra in stazione. I passeggeri scendono e si dirigono verso l’uscita; Eduard si è messo in un punto da cui non può sfuggirgli nessuno, ma il padre non si vede. Il ragazzo si informa, chiede conferma dell’orario del treno – nulla di più facile che sbagliarsi, dato che fra Vladivostok e Leningrado ci sono undici fusi orari e in ogni stazione arrivi e partenze sono indicati con l’ora di Mosca (ancora oggi tocca al passeggero calcolare la differenza tra i vari fusi). Deluso, gironzola sulle banchine, spostandosi da un marciapiede all’altro nel frastuono della stazione riverberato dalle immense vetrate. Viene preso a male parole dalle vecchie comari con fazzoletto in testa e stivaletti di feltro che cercano di vendere ai passeggeri i loro secchi di cetrioli e mirtilli rossi. Attraversa i binari morti, raggiunge l’area riservata allo scarico merci. E lì, in un angolo appartato della stazione, fra due convogli in sosta, assiste a questa scena: alcuni uomini in borghese, ammanettati e con l’espressione stravolta, scendono su un’asse da un vagone merci e vengono spinti senza tanti complimenti su un camion nero privo di finestrini da soldati in pastrano e con le baionette in canna. Comanda le operazioni un ufficiale, che ha una mano occupata da un fascio di fogli fissati con una pinza di metallo e l’altra posata sul fodero della pistola. Fa l’appello con voce brusca.

Quell’ufficiale è suo padre.

Eduard resta nascosto finché l’ultimo prigioniero è salito sul camion. Poi torna a casa, in preda al turbamento e alla vergogna. Vergogna di che cosa? Non del fatto che il padre dia manforte a un mostruoso sistema repressivo. Eduard non ha nessuna idea di questo sistema, non ha mai sentito la parola «gulag». Sa che ci sono campi e prigioni in cui vengono rinchiusi i delinquenti e non ci trova nulla da ridire. Il fatto, che egli stenta a capire e che spiega quel turbamento, è che il suo sistema di valori sta cambiando. Quand’era bambino c’erano da un lato i militari, dall’altro i borghesi, e suo padre, anche se non aveva fatto la guerra in prima linea, meritava rispetto perché era un militare. Nel codice dei ragazzi di Saltov, che Eduard sta assimilando, da un lato ci sono i delinquenti, dall’altro gli sbirri, e ora, nel momento in cui sceglie il campo dei delinquenti, Eduard scopre che il padre non è un militare, ma piuttosto uno sbirro, e di infimo livello: un aguzzino, un piantone, un piccolo tutore dell’ordine.


  La scena ha un seguito notturno. Nell’unica stanza in cui la famiglia vive, il letto del ragazzo è ai piedi di quello dei genitori. Eduard non ricorda di averli mai sentiti fare l’amore, ma ricorda una loro conversazione sottovoce quando lo credevano addormentato. Depresso, Veniamin racconta a Raisa che invece di accompagnare come al solito i condannati dall’Ucraina in Siberia ha scortato in senso opposto un contingente intero destinato alla fucilazione. Questa alternanza è stata introdotta per non abbattere troppo il morale delle guardie del campo: tutti i condannati a morte dell’Unione Sovietica vengono fucilati un anno in una prigione, l’anno dopo in un’altra. Ho cercato inutilmente traccia di questa improbabile consuetudine nei libri sui gulag ma, anche se Eduard avesse frainteso le parole del padre, una cosa è certa: gli uomini che Veniamin faceva uscire dal vagone chiamandoli per nome e spuntandoli sulla sua lista salivano sul camion per andare incontro alla morte. Uno in particolare, racconta ancora l’uomo alla moglie, lo ha colpito. La sua pratica portava il codice che corrisponde a «soggetto estremamente pericoloso». Era un giovane sempre tranquillo e educato, che parlava un russo elegante e, sia in cella che nel vagone merci, trovava modo di fare ginnastica ogni giorno. Agli occhi di Eduard quel condannato a morte stoico e distinto diventa un eroe: il ragazzo comincia a sognare di essere un giorno come lui, di finire anche lui in prigione e farsi rispettare non soltanto da quei poveri diavoli di sbirri sottopagati come suo padre, ma anche dalle donne, dai delinquenti, dai veri uomini – e, come tutto ciò che ha sognato di fare da piccolo, ci riuscirà.

  4  

Ovunque vada, è il più giovane, il più piccolo, l’unico con gli occhiali, ma ha sempre in tasca un coltello a serramanico dotato di una lama che misura un po’ più del palmo della mano, la distanza tra il petto e il cuore, e questo significa che quel coltello può uccidere. Inoltre ha imparato a bere. Non glielo ha insegnato il padre ma un vicino, ex prigioniero di guerra. In realtà, dice il prigioniero di guerra, a bere non si impara: bisogna essere nati con un fegato d’acciaio, e questo è il caso di Eduard. Tuttavia, ci sono alcuni trucchi: ingoiare un bicchierino di olio per ungere le budella prima di una bevuta (l’hanno insegnato anche a me: mia madre lo aveva saputo da un vecchio prete siberiano) ed evitare di mangiare e bere contemporaneamente (a me hanno insegnato il contrario, quindi riferisco il consiglio con beneficio d’inventario). Forte delle sue qualità innate e di questa tecnica, Eduard può scolarsi un litro di vodka all’ora, al ritmo di un grosso bicchiere da un quarto ogni quindici minuti. Questa dote sociale gli permette di stupire persino gli azeri che arrivano da Baku per vendere arance al mercato e di vincere qualche scommessa che gli porta in tasca un po’ di spiccioli. Gli permette inoltre di reggere quelle maratone di ubriacatura che i russi chiamano zapoj.

Zapoj è una cosa seria, non la sbronza di una sera che, come da noi, lascia soltanto un cerchio alla testa il giorno dopo. Zapoj vuol dire restare ubriachi per parecchi giorni senza smaltire la sbornia, vagare da un posto all’altro, salire su treni che non si sa dove vanno, confidare i segreti più intimi a persone incontrate per caso, dimenticare tutto ciò che si è detto e fatto: una specie di trip. Accade così che una notte Eduard e il suo migliore amico Kostja, che hanno cominciato a darci dentro con l’alcol e si trovano a corto di rifornimenti, decidano di svaligiare un negozio di alimentari. A quattordici anni Kostja, soprannominato il Gatto, è già stato in un carcere minorile per rapina a mano armata. Dall’alto della sua esperienza, insegna all’allievo Eduard la regola aurea dello scassinatore: «Agisci con coraggio e decisione, senza aspettare che ci siano tutte le condizioni ideali, perché le condizioni ideali non esistono». I due danno una rapida occhiata a destra e a sinistra per sincerarsi che non ci sia nessuno in giro. Arrotolano il giubbotto attorno alla mano chiusa a pugno, con un colpo secco spaccano la finestra dello scantinato, e oplà, sono dentro. Il luogo è buio, di accendere la luce non se ne parla. I due razziano tutte le bottiglie di vodka che possono stare negli zaini, poi forzano il registratore di cassa. Soltanto venti rubli, una vera miseria. Nell’ufficio del direttore c’è una cassaforte, ma provate voi ad aprire una cassaforte con un coltello. Kostja comunque ci prova e, mentre l’amico armeggia, Eduard cerca se c’è altro da rubare. Sull’attaccapanni dietro la porta vede un cappotto con il collo di astrakan: ma sì, lo si può rivendere. In fondo a un cassetto, una bottiglia quasi piena di cognac armeno, sicuramente la scorta personale del direttore, che a quei proletari dei suoi clienti non vende questo tipo di alcolici. Nella personale sociologia di Eduard, i commercianti sono tutti farabutti ma bisogna ammettere che hanno buon gusto. A un tratto, voci e rumore di passi, vicinissimi. La paura gli strizza le budella: Eduard si abbassa i calzoni, si accovaccia sollevando le falde del soprabito rubato e lascia andare uno schizzo di merda liquida. Falso allarme.

Poco dopo, usciti da dove sono entrati, i due ragazzi si fermano in una di quelle tristi aree giochi che tanto piacciono ai progettisti di città operaie. Seduti sulla sabbia sporca e umida, ai piedi di uno scivolo così arrugginito che i genitori evitano di farci salire i figli per paura che si prendano il tetano, si scolano a canna la bottiglia di cognac, e Eduard, superata un’iniziale vergogna, finisce per vantarsi di avere cacato nell’ufficio del direttore. «Scommetto» dice Kostja «che quella carogna approfitterà del furto per denunciare come denaro rubato anche quello che si è messo in tasca lui». Più tardi vanno a casa di Kostja. La madre di questi, vedova di guerra, si lamenta e protesta quando i due si chiudono in camera per continuare a bere. «Sta’ zitta, vecchia cagna,» risponde con eleganza il figlio da dietro la porta «se no il mio amico Ed viene fuori e te lo mette nel culo!».


 

Dopo aver bevuto tutta la notte, i due ragazzi portano le bottiglie superstiti da Slava, che da quando i genitori sono stati mandati in un campo di lavoro per reati economici vive con il nonno in una catapecchia in riva al fiume. Oltre a Eduard e Kostja, da Slava quel pomeriggio c’è un tizio più grande, Gorkun, che ha i denti di metallo, le braccia tatuate, parla poco e, dichiara Slava orgoglioso, ha trascorso metà dei suoi trent’anni nella Kolyma. I campi di lavoro della Kolyma, all’estremità orientale della Siberia, sono considerati i più duri di tutti, e agli occhi dei ragazzi averci scontato tre condanne a cinque anni è come essere tre volte eroi dell’Unione Sovietica: rispetto. Le ore scorrono via lente a dire stronzate, ad allontanare con mano pigra le nubi di zanzare che a luglio svolazzano sopra il fiume in secca e a tracannare vodka tiepida accompagnata da pezzetti di lardo che Gorkun taglia con il proprio coltello siberiano. Sono tutti e quattro ubriachi, ma hanno superato i saliscendi tipici della prima giornata di sbronza e raggiunto quello stato di ebetudine cupa e ostinata che consente allo zapoj di tenere la sua velocità di crociera. Quando cala il buio decidono di farsi un giro al parco di Krasnozavodsk, dove il sabato sera si ritrova la gioventù di Saltov.

Lì, non ci si può sbagliare, c’è sempre da menare le mani, proprio quello che in realtà stanno cercando Eduard e compagni. Tutto ha inizio sulla pista da ballo, all’aperto. Gorkun invita una ragazza dai capelli rossi, con grossi seni e l’abito a fiori, ma lei rifiuta perché Gorkun puzza davvero troppo di alcol e somiglia a quello che è: uno zek, come vengono chiamati in russo i galeotti. Per mettersi in mostra davanti a Gorkun, Eduard si avvicina alla ragazza, estrae il coltello e ne preme leggermente la punta sul suo seno. Cercando di assumere una voce da adulto le dice: «Conto fino a tre, e se al tre non vai a ballare con il mio amico…». Un po’ dopo, in un angolo buio del parco, Eduard e gli altri vengono aggrediti dagli amici della ragazza. All’arrivo della polizia la rissa si trasforma in un fuggi fuggi generale. Kostja e Slava riescono a scappare, ma gli sbirri acciuffano Eduard e Gorkun. Li scaraventano a terra, cominciano a prenderli a calci nelle costole e a schiacciare con metodo le loro mani: schiacciare le mani serve a impedire che possano impugnare armi in futuro. Eduard agita il coltello alla cieca, lacera i pantaloni a un poliziotto ferendolo di striscio al polpaccio. Tutti gli altri poliziotti lo pestano fino a fargli perdere i sensi.


 

Eduard rinviene in cella, nel puzzo caratteristico di tutte le stazioni di polizia del mondo – ne conoscerà molte altre. Il commissario che lo interroga è un uomo sorprendentemente educato, ma non gli nasconde che l’aggressione a mano armata ai danni di un poliziotto gli sarebbe potuta costare la pena di morte se fosse stato maggiorenne e, siccome non lo è, gli costerà almeno cinque anni di colonia penale. Un’adolescenza dietro le sbarre avrebbe forse piegato Eduard riportandolo nei ranghi o sarebbe stata solo un altro episodio nella sua vita di avventuriere? In ogni caso, il ragazzo evita la prigione perché il commissario, quando sente il nome Savenko, inarca il sopracciglio e gli chiede se sia proprio il figlio del tenente Savenko, dell’NKVD, e siccome il tenente Savenko è un suo vecchio commilitone il commissario mette a tacere la faccenda, insabbia il verbale sulla coltellata, e invece di cinque anni Eduard si becca solo due settimane. In teoria, dovrebbe passarle a raccogliere immondizia, ma è troppo malconcio per muoversi, e così lo lasciano in cella con Gorkun. Grazie all’ardore dimostrato, Eduard si è conquistato la fiducia del compagno, che diventa loquace e per due settimane lo delizia con storie della Kolyma.


 

Naturalmente Gorkun ci è finito per reati comuni, altrimenti non se ne vanterebbe con ragazzi come Eduard e i suoi amici che, al contrario di noi, non hanno alcun rispetto per i prigionieri politici e, pur non conoscendone nessuno di persona, li ritengono intellettuali saccenti, o cretini che si sono fatti sbattere dentro senza neanche sapere perché. I criminali, invece, sono degli eroi, soprattutto i membri di quell’aristocrazia criminale nota come vory v zakone, «i ladri che obbediscono alla legge». A Saltov, dove imperversa la piccola delinquenza, non ce ne sono, e lo stesso Gorkun non ha la pretesa di essere uno di loro; però al campo ne ha conosciuti parecchi, e non si stanca di raccontarne le imprese, mettendo sullo stesso piano e presentando come degni della stessa ammirazione gesti di coraggio pazzesco e atti di ferina crudeltà. A patto che si tratti di un criminale onesto, vale a dire rispettoso delle leggi del proprio gruppo, e che sappia uccidere e morire, Gorkun considera un segno di ardimento e distinzione morale giocarsi a carte la vita di un compagno di baracca e, terminata la partita, sgozzarlo come un maiale, o trascinarne un altro in un tentativo di evasione con il proposito di mangiarlo quando in mezzo alla taiga saranno esauriti i viveri. Eduard ascolta Gorkun con rispetto, ne ammira i tatuaggi, si fa iniziare al loro significato misterioso. Perché i malviventi russi, e soprattutto quelli siberiani, non si fanno tatuare una cosa qualsiasi in un qualsiasi punto del corpo: le figure e la loro posizione designano un ben preciso livello nella gerarchia criminale, e a mano a mano che se ne scalano i gradini si acquisisce il diritto a coprirsi il corpo di tatuaggi. E guai allo sbruffone che usurpa tale diritto: verrà scuoiato, e con la sua pelle si faranno dei guanti.


 

Negli ultimi giorni di prigionia Eduard giunge a una conclusione che lo colma di una strana gioia, di una sorta di pienezza la cui ricerca diventerà una costante della sua vita. Quando è entrato in carcere, ammirava Gorkun e sognava di diventare un giorno come lui. Quando ne esce, è persuaso, e da qui nasce quell’entusiasmo, che Gorkun non meriti poi tanta ammirazione e che lui, Eduard, farà molta più strada. Con i suoi anni passati nel campo e i suoi tatuaggi, Gorkun può abbagliare per qualche tempo degli adolescenti di provincia, ma conoscendolo un po’ ci si accorge che parla dei grandi criminali da quel piccolo criminale che è: non si confronta con loro e non pensa per un solo istante che potrebbe essere al loro posto; ne parla un po’ come quel povero coglione di Veniamin parla degli alti gradi. È un modo di stare al proprio posto che ha una sua umiltà e un suo candore, ma questa umiltà e questo candore non fanno per Eduard, il quale pensa che fare il criminale è una buona cosa, anzi che non c’è niente di meglio, ma pensa anche che bisogna puntare in alto: diventare un re del crimine, non uno scagnozzo qualsiasi.

 

5

 

Quando Eduard lo mette a parte di questi nuovi propositi, Kostja ne è elettrizzato. Mentre l’unica ambizione di Gorkun tornato in libertà sembra quella di giocare a domino, i due ragazzi si aizzano reciprocamente al disprezzo per tutto ciò che li circonda. Della società che si può vedere a Saltov non si salva nulla: proletari ottusi e rassegnati, teppistelli destinati a diventare proletari come i genitori, ingegneri o ufficiali che sono soltanto proletari ripuliti – dei commercianti, non parliamone neanche. Nessun dubbio, l’unica soluzione è diventare criminali.

Ma come? Come trovare una banda e farsi accettare? In città devono essercene per forza. I due si fanno coraggio e salgono sul tram che li porta in centro, eccitatissimi: a noi due, Char’kov! Purtroppo, una volta arrivati, si trovano a disagio come la feccia della banlieue parigina in boulevard Saint-Germain. Eduard però ha vissuto lì, in un’epoca che, come la madre, tende a idealizzare. Porta Kostja in pellegrinaggio ai luoghi della propria infanzia – via dell’Armata Rossa, viale Sverdlov –, ma il giro termina presto, e i due non sanno più dove andare, a chi rivolgersi, hanno appena il coraggio di ordinare una birra in un chiosco, dopodiché, con la coda tra le gambe, fanno ritorno al loro sobborgo dove la vita è così drammaticamente lontana dalla vita vera, ma dove si dà il caso che vivano – e questa è una gran sfiga.


 

Poi Eduard conosce Kadik, che sarà l’altro grande amico della sua adolescenza, e le cose cambiano. Più grande di lui di un anno, Kadik vive con la madre e non bazzica i piccoli delinquenti di Saltov. Frequenta gente in centro città, ma non i criminali che Eduard desidera ardentemente avvicinare. La cosa di cui va più fiero è di conoscere un sassofonista che suona Caravan di Duke Ellington e di essere entrato in contatto, tramite lui, con i componenti del gruppo di Char’kov chiamato Il Cavallo Blu, sorta di beatnik che hanno avuto l’onore di un articolo sulla «Komsomol’skaja Pravda»: la swinging Char’kov, in qualche modo. Per sottrarsi al destino segnato di ogni giovane di Saltov, Kadik aspira a diventare un artista, e anche se non ha una vocazione precisa è perlomeno quello che si potrebbe definire uno al passo con i tempi: suona un po’ la chitarra, acquista dischi, di cui fa collezione, legge e dedica ogni energia a tenersi aggiornato su ciò che succede in città, a Mosca, e perfino in America.

Tutte cose assolutamente nuove per Eduard. I suoi valori e i suoi codici vengono stravolti da Kadik, sotto la cui influenza Eduard si inizia al culto della sciccheria. Quand’era piccolo la madre lo vestiva con abiti comprati al mercato delle pulci, luogo di smercio del bottino di guerra: Eduard indossava bei completini da bambino modello stile tedesco, e provava un morboso piacere al pensiero che quelli erano i vestiti di un figlio del direttore della IG Farben o di Krupp, ucciso a Berlino nel 1944. In seguito si è imposto il codice vestimentario di Saltov: pantaloni da lavoro e grosso parka foderato di pelliccia sintetica – qualunque stranezza è considerata roba da checca. Sicché tutti i suoi amici rimangono di stucco il giorno in cui lo vedono sfoggiare, sotto un giubbotto giallo canarino con il cappuccio, un paio di pantaloni di velluto lilla cangiante e scarpe con una chiodatura così robusta che i tacchi, quando li trascina sull’asfalto, mandano scintille. A Saltov lui e Kadik sono gli unici in grado di apprezzare il proprio dandismo, ma siccome tutti sanno che Eduard è pronto a tirare fuori il coltello ci si limita a prenderlo un po’ in giro senza dargli della checca.

Il dandismo è quel che gli piace anche nei jazzisti idolatrati dal suo nuovo amico. Alla musica Eduard è abbastanza indifferente, e lo resterà tutta la vita, ma in compenso ricomincia a leggere. Si era fermato a Jules Verne e Alexandre Dumas, ora riprende da Romain Rolland di cui Kadik gli presta Jean-Christophe e L’Âme enchantée, vasti e vaporosi romanzi di formazione che penso di essere stato uno degli ultimi adolescenti francesi a leggere, ma che incontravano ancora un certo favore in Unione Sovietica perché il loro autore era stato, per via del suo pacifismo, compagno di strada dei comunisti. Passa poi a Jack London, Knut Hamsun, i grandi vagabondi, quelli che hanno fatto tutti i mestieri e alimentato i propri libri di queste esperienze. In prosa, i suoi preferiti sono autori stranieri, ma quando si tratta di poesia nulla vale quanto la poesia russa, e un ragazzo che legge poesia diventa naturalmente un ragazzo che scrive poesia, e poi legge ciò che ha scritto alle persone che lo circondano: così Eduard, che prima non aveva mai contemplato una simile vocazione, si ritrova poeta.


 

Uno stereotipo vuole che in Russia i poeti siano popolari come da noi i cantanti di varietà e, al pari di molti stereotipi sulla Russia, anche questo è, o almeno era, assolutamente vero. Basti pensare a quel nome ricercato che il nostro eroe deve alla predilezione del padre, semplice sottufficiale ucraino, per il poeta minore Eduard Bagrickij (1895-1934); e nel leggere Eddy-Baby ti amo, il libro da cui ricavo le informazioni di questo capitolo, si rimane stupiti nel vedere che gli amici di Eduard, i piccoli delinquenti di Saltov, pur apprezzando le sue poesie, lo canzonavano un po’ perché rubacchiava da Blok o da Esenin. Un poeta alle prime armi in una città industriale dell’Ucraina non è affatto fuori luogo – non più di un rapper in erba nella periferia parigina di oggi. Come lui può pensare che quella sia la sua grande occasione per sfuggire alla fabbrica o alla malavita, e come lui può contare sull’incoraggiamento degli amici, sul loro orgoglio nel caso in cui abbia anche solo un po’ di successo. Spinto non soltanto da Kadik ma anche da Kostja e dalla sua banda, Eduard si iscrive a un concorso di poesia che si tiene il 7 novembre 1957, una delle feste nazionali dell’Unione Sovietica e, come vedremo, giorno decisivo della sua vita.


 

Quel giorno la città intera si ritrova in piazza Dzerinskij, che è stata lastricata da prigionieri tedeschi ed è, come sanno tutti gli abitanti di Char’kov, la piazza più grande d’Europa e la seconda più grande del mondo dopo Tian’anmen. Si susseguono sfilate, balletti, discorsi, premiazioni. Le masse proletarie sono vestite di tutto punto, spettacolo che suscita i sarcasmi dei nostri due dandy. E poi c’è il concorso di poesia al cinema Pobeda, «Vittoria», dove Eduard, dietro la sua aria spavalda, spera con tutto il cuore che ci sia Sveta ad ascoltarlo.

Kadik è fiducioso: Sveta ci sarà, non può non esserci. Nulla di meno certo, in realtà. Sveta è volubile, lunatica. Eduard, in teoria, «esce» con lei, e quando gli amici gli chiedono se se l’è fatta risponde di sì, benché non sia vero: non si è ancora fatto nessuna ragazza. Gli pesa essere vergine ed essere costretto a mentire, perché secondo lui un uomo non dovrebbe mentire mai. Gli pesa non avere alcun diritto su Sveta e sapere che a lei piacciono i ragazzi più grandi. Gli pesa, a quindici anni, dimostrarne dodici. Ripone ogni speranza nel quaderno che contiene i suoi versi. Ha scelto con cura quelli da recitare; ha scartato le – numerose – poesie sui malviventi, le rapine a mano armata, la prigione, e ha saggiamente deciso di restare sulla lirica amorosa.

Quando arriva insieme a Kadik al cinema Pobeda, Eduard vede fra il pubblico tutta la banda di Saltov, ma non Sveta. Kadik cerca di rassicurarlo: è ancora presto. Sul palco si succedono diversi oratori ufficiali. Eduard non riesce più a trattenersi; si umilia a chiedere se qualcuno ha visto Sveta, e disgraziatamente qualcuno l’ha vista: al parco della Cultura, con Šurik. Šurik è un imbecille di diciotto anni con una rada peluria sul labbro superiore, e Eduard è sicuro che resterà commesso in un negozio di scarpe sino all’età della pensione mentre lui avrà una vita avventurosa in giro per il mondo – ma con tutto ciò, in quel momento, Eduard darebbe qualsiasi cosa per essere al suo posto.

Il concorso ha inizio. La prima poesia verte sugli orrori della servitù della gleba, cosa che fa sghignazzare Kadik: la servitù della gleba è finita da un secolo. Moderno, il tipo! Segue un pezzo sulla boxe copiato, come non sfugge a nessuno dei teppisti presenti, dall’astro nascente della poesia: Evgenij Evtušenko. Alla fine tocca a Eduard, che recita, sforzandosi di non piangere, la poesia composta per Sveta. Dopo, mentre sul palco si danno il cambio gli altri partecipanti, la sua banda lo festeggia. Gli amici lo abbracciano, gli danno pacche sulle spalle, gli dicono: «Succhiati l’uccello!» – saluto di rito fra i ragazzi di Saltov –, gli profetizzano la vittoria, e alla fine Eduard vince. Sale di nuovo sul palco; il direttore della Casa della cultura Stalin si congratula con lui e gli consegna un attestato e un regalo.

Che regalo?

Una scatola di domino.

«Cazzo, che figli di puttana!» pensa Eduard. «Una scatola di domino!».


 

All’uscita dal Pobeda Eduard è attorniato dagli amici e cerca di darsi un contegno, quando gli si avvicina un tizio che dice di venire da parte di Tuzik. Tuzik è un malvivente molto noto a Saltov: ha vent’anni, si nasconde per evitare il servizio militare, non si sposta mai senza una scorta di uomini armati. E, dice il suo emissario, vuole conoscere il poeta. Gli amici si guardano preoccupati: c’è poco da scherzare. Sanno tutti che Tuzik è pericoloso, ma che sarebbe ancora più pericoloso rifiutare il suo invito. Eduard segue l’emissario in un vicolo cieco nei pressi del cinema; qui lo stanno aspettando una quindicina di tizi dalle facce patibolari, e in mezzo a quella corte, robusto, quasi grasso, vestito di nero, Tuzik, che gli dice di aver apprezzato molto la poesia, e vuole che il poeta ne scriva una per Galja, la bionda dal trucco pesante a cui tiene un braccio intorno alla vita. Eduard promette che lo farà; per sigillare l’accordo Tuzik gli offre uno spinello di hashish del Tagikistan. È la prima volta che Eduard fuma, lo spinello gli dà il voltastomaco, ma lui aspira ugualmente. Poi Tuzik lo invita a baciare Galja, sulla bocca. Non c’è da fidarsi, tutto quello che dice Tuzik sembra avere un doppio senso; se vi abbraccia può darsi che voglia cavarvi le budella. Si dice che anche Stalin fosse così: adulatore e violento. Eduard cerca di sottrarsi ridendo, ma l’altro insiste: «Non vuoi pomiciare con la mia ragazza? Non ti piace, la mia ragazza? Dai, mettici la lingua!». È una musica già sentita, di malaugurio, ma non accade niente di brutto. Continuano a bere, fumare e sfottersi per molto, molto tempo, finché Tuzik decide di levare le tende per andare a fare due passi in città. Eduard, che non capisce bene se lo hanno adottato come mascotte o come zimbello, vorrebbe approfittarne per eclissarsi, ma Tuzik non lo molla.

«Hai già fatto fuori qualcuno, poeta?».

«No» risponde Eduard.

«Ti piacerebbe?».

«Ehm…».


 

Dopotutto Eduard trova eccitante essere amico di Tuzik e camminare con lui alla testa di una ventina di bulli pronti a mettere a ferro e fuoco la città. È tardi, la festa è finita, la gente perlopiù è tornata a casa, e quelli che vedono avvicinarsi la banda lungo le strade dai lampioni rotti si affrettano a farsi da parte. Ma un tizio e due ragazze non si scostano in tempo, e Tuzik comincia a molestarli. «Hai due pollastre tutte per te» dice con soavità al tizio. «Me ne presti una?». Il tizio, pallido, capisce di trovarsi in una brutta situazione e cerca di scherzare, ma Tuzik lo piega in due con un pugno allo stomaco. Al suo segnale, gli altri cominciano a palpare le ragazze. Ci scapperà uno stupro. Ci scappa uno stupro. Ben presto una delle ragazze si ritrova nuda: è grassa, ha la pelle chiara, dev’essere di una famiglia proletaria di Saltov. A turno gli scagnozzi di Tuzik le infilano le dita nella passera. Eduard fa come loro; sente umido e freddo, e le dita, quando le tira fuori, sono sporche di sangue. Di colpo ritorna in sé, l’eccitazione si spegne. A qualche metro di distanza, in dieci fanno la fila per violentare l’altra ragazza. Nel frattempo il tizio viene pestato con violenza. Si lamenta sempre più debolmente, poi cessa di muoversi. Metà del suo volto è ridotta a una poltiglia sanguinolenta.


 

L’incidente provoca qualche attimo di esitazione, e stavolta Eduard riesce a svignarsela. Cammina a passi veloci, con il coltello e il quaderno di poesie in tasca, la scatola di domino sotto il braccio, senza sapere dove andare. Non da Kadik, non da Kostja. Alla fine va da Sveta. Ha voglia di scopare o di uccidere. Se Sveta è sola la scopa, se è con Šurik, li uccide entrambi. Non ha motivo di non farlo: siccome è minorenne non possono fucilarlo; si beccherà quindici anni e per gli amici diventerà un eroe.

Nonostante l’ora tarda, la madre di Sveta, nota per essere poco meno di una puttana, gli apre la porta. Sveta non è ancora rientrata.

«Vuoi aspettarla?».

«No. Tornerò».

Eduard esce di nuovo nella notte, cammina, cammina, in preda a un miscuglio di eccitazione, rabbia, disgusto e altri sentimenti che non riesce a identificare. Quando torna, Sveta è in casa. Sola. Quel che avviene in seguito è confuso, non c’è stato un vero e proprio scambio di parole, Eduard è a letto con lei e la scopa. È la prima volta. Le dice: «È così che te lo infila dentro Šurik?». Dopo che Eduard ha raggiunto, troppo in fretta, l’orgasmo, Sveta si accende una sigaretta e gli espone la sua filosofia: la donna è più matura dell’uomo, e quindi, perché l’unione funzioni sul piano sessuale, l’uomo dev’essere più vecchio. «Io ho dell’affetto per te, Edik, ma, capisci, sei troppo piccolo. Se vuoi, puoi fermarti a dormire».

Eduard non vuole e se ne va furibondo, convinto che le persone meritino di essere uccise, e determinato, da grande, a uccidere: senz’altro.

Ecco: questa è la storia di come Eduard ha perso la verginità.

 

6

 

La scena successiva si svolge cinque anni dopo, nella stanza in cui la famiglia Savenko vive. È mezzanotte, Eduard si sveste senza fare rumore per non svegliare la madre che dorme sola nel letto matrimoniale. Il padre è in missione, Eduard non sa dove, e non gli interessa; sono lontani i tempi in cui lo ammirava. Pur essendo, dopo otto ore di fabbrica, stanco morto, non ha sonno, così si siede davanti al tavolo, su cui trova Il rosso e il nero, un volume di una collana di classici stranieri rilegati in similpelle. Dev’essere stata la madre a tirarlo fuori dalla piccola biblioteca in vetro che protegge dalla polvere le testimonianze della sua cultura, per avere un po’ di compagnia durante la cena solitaria. In passato Eduard lo ha letto, e gli è piaciuto. Sfogliandolo, gli cade sotto l’occhio la celebre scena in cui in una notte d’estate, sotto un tiglio, Julien Sorel si forza a prendere la mano di Madame de Rênal. Questa scena, che un tempo lo aveva entusiasmato, lo riempie ora di un’improvvisa, vertiginosa tristezza. Solo pochi anni prima gli era facile identificarsi con Julien, venuto fuori da un paesino fetente senza altre risorse che il suo fascino e la sua smania di successo, e immaginarsi di sedurre anche lui una bella aristocratica. Ma ora vede con feroce chiarezza che, di belle aristocratiche, non soltanto non ne conosce nessuna, ma che non avrà mai la possibilità di conoscerne una.

Aveva grandi sogni, e da due anni tutto va storto. In realtà, da quando Kostja e altri due loro amici sono stati condannati a morte dal tribunale regionale di Char’kov. Uno è stato giustiziato, mentre Kostja e l’altro se la sono cavata con dodici anni di campo. Anche Kadik aveva grandi sogni, voleva diventare un jazzista, ed è entrato nella fabbrica Falce e martello; e non valeva proprio la pena di prenderlo in giro per poi seguire qualche mese dopo, con la coda fra le gambe, la sua stessa strada. Eduard adesso fa il fonditore. È un lavoro duro, che lo abbrutisce, ma Eduard è uno di quelli che vuole riuscire in tutto quello che fa. Se il destino gli avesse consentito di fare il delinquente, sarebbe stato un buon delinquente. Poiché fa il proletario, è un buon proletario: berretto in testa, gavetta per il pranzo, regolare menzione nella lista dei migliori; e il sabato sera manda giù i suoi tre quarti di vodka in compagnia degli altri ragazzi del reparto. Non scrive più poesie. Ha delle amichette, proletarie come lui. L’ultima tegola che potrebbe cadergli in testa sarebbe metterne incinta una e doverla sposare, e a guardare le cose bene in faccia è più che probabile che questa tegola gli cadrà in testa. Com’è caduta in testa a Kadik, il suo apripista sulla strada della disfatta. Kadik ha appena messo su famiglia con un’operaia di nome Lidija, più vecchia di lui, nemmeno bella, e con il ventre che si sta già arrotondando. Il disgraziato ripete con penosa ostinazione, per cercare di convincersi, che con Lidija sta bene, con lei ha trovato il vero amore e non si pente proprio, ma proprio per niente, di sacrificarle le sue chimere da ragazzino immaturo.

Povero Kadik. Povero Eduard. Neanche vent’anni e già spacciato. Delinquente fallito, poeta fallito, condannato a una vita di merda nel buco del culo del mondo. Gli hanno ripetuto spesso che è stato fortunato a non trovarsi con Kostja e gli altri due la sera in cui, ubriachi, hanno ucciso un uomo. Ma è proprio così? Non è meglio morire da vivi che vivere da morti? Quando, trent’anni dopo, Eduard ricorderà quella notte, penserà che è stato per sentirsi vivo, e non per morire, che ha preso dalla mensola sopra il lavabo il rasoio con il manico d’avorio del padre – lui, Eduard, a malapena si rasa: ha una pelle asiatica, quasi glabra, una pelle che avrebbe meritato di essere carezzata da donne belle e raffinate, ma gli è andata male.

Posa la lama affilata del rasoio sull’interno del polso. Guarda, nella penombra, la stanza brutta e familiare in cui ha trascorso più di metà della vita. Era ancora un bambino quando ci è arrivato: un ragazzino tenero e serio. Quanto tempo è passato… A tre metri da lui, la madre russa sotto le coperte, con la faccia rivolta verso la parete. Morirà di dolore, ma Eduard ha già cominciato a farla morire di dolore quando ha abbandonato la scuola e si è messo a fare l’operaio, e allora tanto vale portare a termine il lavoro. La prima incisione è facile; la pelle si apre, è quasi indolore. Ma quando si arriva alle vene la cosa si complica. Bisogna distogliere lo sguardo, stringere i denti, dare un colpo secco, premendo la lama a fondo, per far uscire il sangue. Eduard non ha più le forze per passare all’altro polso, uno dovrebbe bastare. Lo appoggia davanti a sé sul tavolo, guarda la macchia scura che si allarga sulla tela cerata e imbratta Il rosso e il nero. Non si muove. Sente il proprio corpo raffreddarsi. Quando cade, il rumore della sedia sveglia la madre di soprassalto. Lui si sveglia, il giorno dopo, in mezzo ai pazzi.


 

È peggio della prigione, l’ospedale psichiatrico, perché in prigione almeno si conosce la durata della condanna, si sa quando si uscirà, mentre qui si è in balìa dei dottori che vi guardano da dietro gli occhiali e vi dicono: «Vedremo» o, più spesso ancora, non vi dicono niente. Si passano le giornate a dormire, fumare, abbuffarsi di kaša, rompersi le palle. Rompersele talmente tanto che Eduard scongiura Kadik di aiutarlo a squagliarsela, e Kadik, il buon Kadik, senza dire niente a quel cerbero di Lidija, appoggia una scala alla finestra e riesce a svellere una sbarra. Così Eduard è fuori, deciso ad andarsene molto lontano, ma commette l’errore di passare da casa, dove i poliziotti vengono a prelevarlo il mattino dopo. Li ha chiamati la madre, e quando Eduard, pazzo di rabbia, le chiede perché lo abbia fatto, Raisa gli spiega che è stato per il suo bene: se torna all’ospedale lo faranno uscire molto presto, e in regola, mentre se evade diventerà un ricercato e in regola non lo sarà mai. Belle parole, probabilmente la madre ci crede davvero, ma invece di farlo uscire presto lo trasferiscono dai pazzi calmi ai pazzi furiosi dove lo legano con asciugamani bagnati alle sbarre del suo letto, o più precisamente del letto che spartisce con un demente impegnato a masturbarsi da mattina a sera, perché i pazzi furiosi non hanno nemmeno un letto tutto per loro. Gli fanno una iniezione al giorno di insulina, anche se non ha il diabete, tanto per insegnargli a stare al mondo e calmarlo. E Eduard si calma, non c’è dubbio. Diventa lento, gonfio, molle, sente che il cervello, privato di zucchero, gli va in pappa, e non ha nemmeno più la forza di ribellarsi. Comincia a desiderare di cadere in coma, non svegliarsi, e che sia finita.


 

Dopo aver subìto due mesi buoni di questo regime, Eduard ha la fortuna di incappare in un vecchio psichiatra con le orecchie pelose il quale, al termine di una breve conversazione con il ragazzo trasformato in zombie, è tanto saggio da concludere: «Tu non sei pazzo. Vuoi soltanto attirare l’attenzione. Ti do un consiglio: per questo, ci sono mezzi migliori che tagliarsi le vene. Non tornare in fabbrica. Va’ a trovare queste persone da parte mia».

 

7

 

L’indirizzo che gli ha dato il vecchio psichiatra è quello di una libreria del centro di Char’kov, che sta cercando un venditore ambulante. Si tratta di esporre libri di seconda mano su un tavolino pieghevole nell’atrio di un cinema o all’ingresso dello zoo e aspettare i clienti. I clienti sono rari, i libri quasi regalati, e la percentuale di guadagno su ogni volume ridicola. È un lavoretto più che altro adatto a riempire il tempo libero di un pensionato, e Eduard non resisterebbe a lungo, se non avesse scoperto che la Libreria 41, in cui va a prendere gli scatoloni al mattino e riporta l’incasso alla sera, è il punto d’incontro di tutti gli artisti e poeti di Char’kov, all’epoca chiamati «decadenti»: il mondo attorno a cui orbitava il povero Kadik prima che la falce, il martello e Lidija mettessero ordine nella sua vita. Nonostante la timidezza, Eduard comincia a trattenersi dopo la chiusura. Gli capita spesso di perdere l’ultimo tram e dover camminare due ore al buio e nella neve per raggiungere la lontana periferia operaia in cui vive. Infatti è di sera, dopo che è stata abbassata la saracinesca, che si comincia non soltanto a bere e a chiacchierare ma, soprattutto, a scambiarsi copie clandestine di opere proibite chiamate samizdat – letteralmente: «autopubblicato». Ve ne consegnano una copia, e voi ne fate qualche altra. Con questo sistema è circolata più o meno tutta la parte viva della letteratura sovietica: Bulgakov, Mandel’štam, la Achmatova, la Cvetaeva, Pil’njak, Platonov… Al 41 è una serata storica quando, per esempio, arriva da Leningrado l’esemplare pressoché illeggibile, perché si è schiarito troppo (quinta o sesta copia carbone, stimano con una smorfia gli intenditori), della poesia del giovane Iosif Brodskij La processione, definita vent’anni dopo da Eduard «un’imitazione di dubbio valore artistico di Marina Cvetaeva, che però corrispondeva esattamente al grado di sviluppo socioculturale di Char’kov e dei frequentatori della libreria».


 

Non so bene cosa pensare di questo giudizio impertinente, per un motivo che forse è arrivato il momento di confessare: sono del tutto sordo alla poesia. Come quelli che, in un museo, guardano prima del quadro il nome del pittore sulla targhetta per sapere se devono o no andare in estasi, così io nel campo della poesia non ho un’opinione personale, ragion per cui quella del giovane Eduard, rapida e perentoria, mi incute il massimo rispetto. Eduard non si limita a dire «mi piace», «non mi piace», ma distingue a prima vista l’originale dall’imitazione, e non si lascia abbindolare, per esempio, da «quegli imitatori dei modernisti polacchi che non hanno più l’originaria freschezza e sono a loro volta degli imitatori». Ho già accennato alla sorprendente competenza dei teppistelli di Saltov, capaci di individuare nei primi versi di Eduard echi di Esenin o di Blok. Al 41 Eduard scopre che Esenin e Blok non sono malaccio, allo stesso modo in cui non lo sono, per dire, Apollinaire o, a voler essere cattivi, Prévert: li capisce anche chi non ci capisce niente, ma chi ci capisce qualcosa preferisce di gran lunga un Mandel’štam o, meglio, Viktor Vladimiroviè Chlebnikov, il grande avanguardista degli anni Venti.

Chlebnikov, per esempio, è il poeta preferito di Motriè, considerato il genio del 41. A trent’anni, Motriè non ha pubblicato nulla e non pubblicherà mai nulla, ma il bello della censura è che uno può non pubblicare nulla senza per questo essere sospettato di non avere talento, anzi. Ai margini del gruppo c’è un ragazzo che ha scritto una raccolta di poesie sull’equipaggio dell’incrociatore Dzerinskij con la quale ha vinto il premio letterario del Komsomol dell’Ucraina. Buon esordio, alta tiratura, e all’orizzonte una bella carriera di apparatèik delle lettere. Ebbene, questo ragazzo è inferiore a Motriè non soltanto agli occhi di tutto il 41, ma anche ai propri, e quando si arrischia a presentarsi in libreria cerca in ogni modo di far dimenticare un successo che lo addita chiaramente come venduto e impostore. Motriè andrà incontro alla sorte di tutti gli eroi di Eduard, che è quella di essere in breve scalzati dal piedistallo, ma per il momento è il suo eroe, un vero poeta vivente – e, dirà più tardi Eduard, con una distinzione piuttosto sottile, un cattivo poeta ma un poeta autentico. Eduard legge i versi di Motriè, ne ascolta i vaticini, grazie alla sua influenza si appassiona a Chlebnikov, di cui ricopia a mano i tre volumi delle opere complete, e nelle lunghe ore vuote che gli regala il suo lavoro di libraio ambulante ricomincia a scrivere, senza dirlo a nessuno.


 

Anna Moiseevna Rubinštejn, la capocommessa del 41, è una donna imponente, con i capelli già grigi, un bel volto tragico e un culo enorme. Quand’era più giovane somigliava a Elizabeth Taylor; a ventotto anni è già una matrona a cui i ragazzi cedono il posto sul tram. Vittima di disturbi maniaco-depressivi per i quali riscuote un assegno di invalidità, si definisce con orgoglio una «schizoide» e considera pazze tutte le persone che stima. Queste prendono la cosa per un complimento. Nel mondo dei «decadenti» di Char’kov, infatti, il genio ha il dovere di essere non soltanto misconosciuto ma anche avvinazzato, eccentrico, disadattato. E poiché l’ospedale psichiatrico è uno strumento di repressione politica, un soggiorno fra le sue mura rilascia una patente di dissidenza – parola che muove i suoi primi passi nell’epoca di cui sto parlando. Eduard non la conosceva ancora, quando è stato rinchiuso con i pazzi furiosi, ma ha il dono di sapersi mettere rapidamente al passo, e ormai non perde occasione per raccontare della sua camicia di forza e del compagno di letto che sbavava e si faceva seghe tutto il giorno. Nello scrivere queste righe mi è venuto in mente che io stesso ho ceduto fino a un’età relativamente matura al culto romantico della follia. Grazie a Dio mi è passata. L’esperienza mi ha insegnato che questa forma di romanticismo è un’idiozia, che al mondo non c’è nulla di più triste e lugubre della follia. Penso che istintivamente Eduard lo abbia sempre saputo, che si sia sempre rallegrato di essere tutto ciò che si vuole – duro, egocentrico, spietato – ma pazzo no, proprio no. Il contrario, piuttosto, ammesso che esista qualcosa come il contrario della pazzia.

Anna, invece, pazza lo è davvero. La sua follia prenderà una china tragica, ma per il momento può ancora passare per una forma di stravaganza, di esuberante originalità, come la sua ben nota voracità sessuale. Al 41 si racconta che si sia passata tutta la bohème di Char’kov – è soprattutto una specialista nello sverginamento di giovani autori. Dato che abita proprio lì accanto, le serate in libreria finiscono spesso a casa sua. Eduard all’inizio non viene apertamente invitato e si immagina che vi si svolgano autentiche orge. In realtà, come scopre quando si fa coraggio e si accoda ai presenti, gli after da Anna consistono, come in libreria, in accese conversazioni su arte e letteratura, declamazioni poetiche sempre più stentate, pettegolezzi e private jokes incomprensibili per lui che, seduto su un angolo del divano peloso, ride quando ridono gli altri e si ubriaca per vincere la timidezza. Eccetto la padrona di casa e la madre di lei, che ogni tanto bussa alla porta per chiedere di fare meno rumore, a quelle serate ci sono soltanto uomini, che abbracciano Anna con familiarità e la baciano sulla bocca; Eduard ha la sgradevole impressione di essere l’unico del gruppo a non essersela sbattuta. Ha davvero voglia di sbattersela o non piuttosto di far parte di quel gruppo che considera, con lucidità, la sua unica speranza di uscire da Saltov? Anna ha un bel seno, è vero, ma a lui non piacciono le grasse. Quando si masturba pensando a lei, Eduard manca di convinzione e teme, se finiscono a letto, di non riuscire a farselo venire duro o di eiaculare troppo in fretta. E poi una notte, tardissimo, gli invitati se ne vanno l’uno dopo l’altro, e lui rimane. Come Julien si era ripromesso di prendere la mano di Madame de Rênal, Eduard si è ripromesso di rimanere, costi quel che costi, anche solo per dimostrare a se stesso di non essere un fifone. Gli ultimi ad andarsene gli strizzano l’occhio mentre si infilano il cappotto. Eduard recita al suo meglio la parte del tipo vissuto, calmo, che sa come comportarsi. Quando restano soli, Anna non si fa pregare. Come previsto, la prima volta Eduard viene in fretta, ma ricomincia subito; è il privilegio della gioventù. Quanto ad Anna, sembra contenta: è questo l’essenziale.


 

Perché il piano del nostro Eduard, questo Barry Lyndon sovietico, non prevedeva soltanto di andare a letto con Anna ma anche di sistemarsi armi e bagagli a casa sua, nel sancta sanctorum della bohème, e passare così dal ruolo di piccolo proletario appiccicoso a quello di amante in carica e padrone di famiglia. Siccome l’appartamento è costituito – gran lusso – da due stanze e Anna vi abita con la madre, Célia Jakovlevna, questa all’inizio finge di non accorgersi che Eduard resta a dormire, ma ben presto comincia a trattarlo come uno di famiglia, sia perché Eduard ci sa fare con le signore in età, sia perché la donna gli è riconoscente per avere messo fine alla sfilata di amanti che faceva spettegolare il palazzo.

Pensare a quella sfilata farebbe precipitare un altro uomo nei tormenti della gelosia retrospettiva: per lui, è uno stimolante. Va detto che Anna non lo eccita granché, e per poter muovere all’assalto di quel corpo enorme, pieno di pieghe, Eduard deve ubriacarsi; in compenso, immaginare tutti gli uomini che lo hanno preceduto lo eccita. Molti appartengono alla loro cerchia. Lo invidiano o si fanno beffe di lui – ciò che Eduard rispettivamente desidera e teme più di tutto al mondo? Probabilmente un po’ entrambe le cose. Certo è che l’Eduard di soli pochi mesi prima, fonditore alla Falce e martello, avrebbe invidiato dal profondo del cuore questo Eduard che non abita più a Saltov, ma in quel centro un tempo inaccessibile; che ha per amici non più operai e teppisti di periferia ma poeti e artisti, ai quali apre la porta con la noncurante sicurezza dell’uomo che è a casa propria, ama le improvvisate e avere ospiti a tavola. Non è più costretto ad alzare la voce nel chiasso delle discussioni; quando parla gli altri lo ascoltano, perché lui è il chozjajn, termine che indica il padrone di casa ma con una sfumatura di autorità feudale: si può essere il chozjajn di un’intera città, Stalin lo era dell’Unione Sovietica. Naturalmente sarebbe meglio se Anna fosse più bella e se lui la desiderasse di più, ma ciascuno dei due trae il proprio vantaggio da questa specie di partenariato, al contempo burrascoso e affettuoso, che si forma tra loro, e che durerà sette anni: lui le dà stabilità, lei lo dirozza.


 

Eduard legge le proprie poesie ad Anna, che le trova buone e le passa a Motriè, e anche lui le trova buone. Anzi ottime. Forte di questi incoraggiamenti, Eduard le legge in libreria, e mette insieme una raccolta di cui copia personalmente a mano una decina di esemplari. Non è ancora arrivato allo stadio in cui sono gli altri a eseguire le copie – questo è il secondo gradino sulla scala della gloria dissidente; il terzo è quello che si chiama non più samizdat ma tamizdat: «pubblicato laggiù», in Occidente, come il Dottor ivago. La sua piccola raccolta circola soltanto negli immediati paraggi del 41, ma è sufficiente per farlo considerare un poeta a pieno titolo.

È un titolo invidiabile perché, anche se si conduce una vita di miseria, protegge dalla degradazione insita in una vita di miseria, e molti che l’hanno ottenuto ne usufruiscono senza più scrivere niente fino alla fine dei loro giorni. Non Eduard, che non è pigro e non si accontenta facilmente: ha scoperto che basta lavorare un poco ogni giorno, ma tutti i giorni, per essere certi di progredire – e a questa disciplina resterà fedele tutta la vita. Ha anche scoperto che in una poesia non è il caso di parlare di «cielo blu» perché tutti sanno che il cielo è blu, e che le trovate del tipo «blu come un’arancia», che ormai si leggono ovunque, sono quasi peggio. Eduard vuole stupire e punta per questo sulla prosaicità anziché sui preziosismi: nessuna parola rara, niente metafore, chiamare «gatto» il gatto, e se si parla di persone conosciute fornire nomi e indirizzi. Così si fabbrica uno stile che lo rende a suo giudizio non un grande poeta ma almeno un poeta riconoscibile.

Per essere completamente poeta gli manca soltanto il nome, qualcosa che suoni meglio del suo infelice cognome da bifolco ucraino. Una sera il gruppetto riunito da Anna si mette a inventare nomi per gioco. Lënja Ivanov diventa Odejalov, Saša Melechov diventa Buchankin, e Eduard Savenko diventa Ed Limonov – tributo al suo spirito acido e bellicoso perché in russo limon significa «limone» e limonka «granata» (nel senso di bomba a mano). Gli altri lasceranno perdere i loro pseudonimi, mentre Eduard manterrà il proprio. Anche del suo nome vuole essere debitore soltanto a se stesso.

 

8

 

È arrivato il momento di parlare dei pantaloni. Tutto ha inizio quando un ospite nota i jeans a zampa d’elefante di Eduard e, dato che in commercio non se ne trovano, gli chiede chi glieli abbia fatti. «Io» si vanta stupidamente Eduard; in realtà li ha confezionati un piccolo sarto da cui si serviva Kadik ai tempi in cui era un dandy. «Se riesco a procurarmi la stoffa, potresti farmeli uguali?».

«Certo» risponde Eduard, che ha intenzione di portare la stoffa dal sarto e fare la cresta sul prezzo.

Purtroppo, il giorno in cui va a cercarlo, niente più sarto: volatilizzato, sparito senza lasciare recapito. Per una volta che mente, gli va storta. Siccome di perdere la faccia non se ne parla, non gli resta che una soluzione: chiudersi in casa con i propri pantaloni per modello, ago, filo e forbici, e non mettere il naso fuori prima di aver prodotto qualcosa che somigli a un paio di jeans a zampa d’elefante. Cucire un paio di pantaloni non è semplice, ma Eduard ha ereditato dal padre un autentico talento per il lavoro manuale di ogni genere: dopo quarantotto ore di tentativi, errori e piani non meno complessi di quelli per un ponte ferroviario, il risultato soddisfa il cliente che dà a Eduard venti rubli per il lavoro e fa girare il suo indirizzo fra i conoscenti, sicché le ordinazioni cominciano a fioccare.

Così, per caso, Eduard ha risolto il problema del proprio sostentamento per i dieci anni a venire, e in un modo a lui congeniale perché gli risparmia il confronto con qualsiasi tipo di autorità: dirigenti di fabbrica, capiofficina, capireparto, padroni di qualsiasi genere. In quanto sarto, dipende soltanto da se stesso e dall’abilità delle proprie dita, e lavora quando ne ha voglia – ma se ha delle ordinazioni può fare due o anche tre pantaloni in un giorno, e poi dedicarsi alla poesia. Quando Anna torna dalla libreria, Eduard sposta le stoffe e i fogli in fondo alla tavola, e allora Célia Jakovlevna porta bei pomodori ucraini di un rosso vivace, un pâté di melanzane o una carpa farcita: una vera vita di famiglia.

«Gli manca solo che sia ebreo, al tuo uomo» scherza la madre. «Dovremmo farlo circoncidere».

«Ha già un lavoro da ebreo» risponde Anna Moiseevna. «Non bisogna pretendere troppo».


 

A Eduard piace anche questo, che Anna sia, come dice lei, «una prodiga figlia della tribù d’Israele». Una delle prime reazioni provocate dal progetto di scrivere questo libro è stata quella del mio amico Pierre Wolkenstein, che ha quasi deciso di rompere con me perché secondo lui l’uomo di cui volevo occuparmi, un russo leader di una formazione politica perlomeno discutibile, non poteva che essere antisemita. Ebbene, non è così. A Eduard si possono imputare molte aberrazioni ma non questa, che ha evitato non per dirittura morale o coscienza storica (se ne frega altamente della Shoah, come del resto la maggior parte dei russi dall’alto dei loro venti milioni di morti, e sarebbe senz’altro d’accordo con Jean-Marie Le Pen nel considerarla un «dettaglio» della seconda guerra mondiale), ma per qualcosa che ha a che vedere con lo snobismo. Che il russo e più ancora l’ucraino della strada siano notoriamente antisemiti è per lui il miglior motivo per non esserlo. Diffidare degli ebrei è una cosa da zotici con i paraocchi, lenti e goffi, una cosa da Savenko, e ciò che vi è di più lontano dai Savenko di ogni risma sono gli ebrei. A Eduard non è certo indifferente che Anna sia ebrea, ma si tratta di un esotismo che apprezza senza riserve, e per quanto Anna sia, come dice lei stessa, una hooligan, una schizoide e una degenerata, Eduard vede in lei una principessa orientale, una principessa grazie alla quale lui, che era programmato per una vita da mulo a Saltov, si è innalzato a un ambiente familiare variopinto, poetico e stravagante come un quadro di Chagall.


 

Tuttavia Eduard non sarebbe Eduard se restasse seduto a fare il sarto in camera sua sfornando versi e pantaloni. Oltre ai «decadenti» del 41, si è fatto un nuovo amico, un plejboj (la parola comincia a diffondersi in Russia) di nome Guenka. Guenka è figlio di un ufficiale del KGB il quale, più sveglio del povero Veniamin, si è riciclato come direttore di un ristorante chic, frequentato dai vertici della gerarchia èekista: un uomo molto importante in città, dunque. Con conoscenze simili, Guenka potrebbe entrare nel partito come suo padre, diventare a trent’anni segretario del comitato distrettuale e godere per il resto dei suoi giorni di una vita beata: dacia, auto di rappresentanza, vacanze in stazioni balneari della Crimea dotate di ogni comfort. Una strada in discesa, tanto più che all’epoca tutti sanno che è finito il tempo delle epurazioni e del terrore. La rivoluzione non divora più i suoi figli; il potere, secondo l’espressione di Anna Achmatova, è diventato vegetariano. Con Nikita Chrušèëv, il radioso avvenire ha assunto l’aspetto di un obiettivo semplice e pacifico: sicurezza, un tenore di vita più elevato, crescita serena delle felici famiglie socialiste nelle quali i figli non vengono più esortati a denunciare i genitori. Dopo la morte di Stalin c’era stata, è vero, la delicata fase della liberazione di milioni di zek, alcuni dei quali sono stati addirittura riabilitati. Di una cosa erano certi i burocrati, i provocatori e gli spioni che li avevano spediti nei gulag: che non avrebbero mai fatto ritorno. Ora alcuni sono tornati e, per citare ancora la Achmatova, «si sono trovate faccia a faccia due Russie: quella che ha denunciato e quella che è stata denunciata». Avrebbe potuto esserci un bagno di sangue, ma così non è stato. Quando delatore e reduce si incrociavano per strada, sapevano come comportarsi l’uno nei riguardi dell’altro: distoglievano lo sguardo e continuavano ciascuno per la propria strada, a disagio, entrambi in preda a una confusa vergogna, come persone che in passato l’hanno fatta sporca e ora preferiscono non parlarne.

Alcuni, tuttavia, ne parlavano. Nel 1956 Chrušèëv aveva letto al XX Congresso del Partito comunista un «rapporto segreto», che non era rimasto tale a lungo, in cui denunciava il «culto della personalità» ai tempi di Stalin e ammetteva implicitamente che per vent’anni il paese era stato governato da assassini. Nel 1962 Chrušèev in persona aveva autorizzato la pubblicazione del libro di un ex zek che si chiamava Solenicyn, Una giornata di Ivan Denisoviè. Era stato un elettroshock. Il numero 11 della rivista «Novyj Mir», dove era uscito quel racconto, sobrio e dettagliato, di una normale giornata di un normale detenuto in un campo neanche troppo duro, era andato a ruba in tutta la Russia. La gente era rimasta sbalordita, non osava crederci, e aveva cominciato a dire cose come: è il disgelo, ritorna la vita, Lazzaro risuscita. Basta che un uomo abbia il coraggio di dire la verità perché nessuno possa più nasconderla. Pochi libri hanno suscitato un tale scalpore, nel proprio paese e nel mondo intero. Nessuno, tranne dieci anni dopo Arcipelago Gulag, ha cambiato tanto a fondo, e realmente, il corso della storia.

Il potere capisce che se si continua a dire la verità sui campi e sul passato si rischia di spazzare via tutto: non soltanto Stalin, ma anche Lenin, e lo stesso sistema, e le menzogne su cui esso è stato costruito. Per questo Una giornata di Ivan Denisoviè segna l’apice ma anche la fine della destalinizzazione. Dopo la rimozione di Chrušèëv, la generazione di apparatèik uscita dalle epurazioni passa, sotto l’egida dell’amabile Leonid Brenev, a una sorta di stalinismo morbido basato su un partito ipertrofico, quadri stabili, raccomandazioni, cooptazioni, prebende grandi e piccole e repressione moderata: ciò che insomma verrà definito «comunismo della nomenklatura», dal nome dell’élite beneficiaria, benché questa élite risulti in fondo relativamente numerosa e piuttosto permeabile – basta solo stare un po’ al gioco. Praticamente ogni russo abbastanza vecchio per avere vissuto quegli anni stabili e plumbei, rassegnati e in un certo senso confortevoli, li ricorda con nostalgia oggi che si ritrova condannato a galleggiare e spesso ad annegare nelle gelide acque del calcolo egoistico. Il grande adagio dell’epoca, equivalente al nostro «lavorare di più per guadagnare di più», era: «Noi facciamo finta di lavorare e loro fanno finta di pagarci». Non è uno stile di vita esaltante, ma comunque funziona: si tira avanti. Non ci sono pericoli reali, a meno che uno non sia un vero piantagrane. Tutti se ne sbattono di tutto e, chiusi in cucina, rifanno dalle fondamenta un mondo che, a meno di non chiamarsi Solenicyn, si è certi resterà immutato per secoli, perché la sua ragion d’essere è l’inerzia.

In questo mondo, un segaiolo come Guenka, per tornare a lui, può permettersi di essere un segaiolo, e anche un padre èekista come il suo può permetterglielo. Naturalmente sarebbe meglio se Guenka entrasse nel partito, come sarebbe meglio se un giovane borghese nella Francia degli stessi anni, i gloriosi Trenta, si iscrivesse all’ENA o al Politecnico; ma anche se non lo fa non è poi tanto grave, non morirà di fame, né in un campo di lavoro, gli si troverà una piccola sinecura nella burocrazia onde scansare l’arresto come parassita ed elemento antisociale, e sarà a posto. Così Guenka, sgravato di ogni preoccupazione sul suo futuro, passa le notti a bere gratis con l’amico Eduard nei locali gestiti dai colleghi del padre e le giornate, almeno quelle estive, al bar dello zoo, dove tiene tavola imbandita e fa piegare dalle risate la sua corte scacciando i clienti con la scusa che è in corso il Congresso straordinario dei domatori di tigri del Bengala, di cui lui è segretario generale.


 

La corte di Guenka si divide in due gruppi: SS e sionisti. Il più pittoresco fra le SS è un bravo ragazzo la cui dote sociale è saper imitare Hitler: non conosce granché di tedesco, ma il suo pubblico ancora meno, e basta che emetta qualche rutto, strabuzzi gli occhi e gli astanti riconoscano qualche parola come Kommunisten, Kommissare, Partizanen, Juden, perché tutti si divertano un mondo, a cominciare dai sionisti. Nessuno dei sionisti è ebreo. Il loro entusiasmo per Israele è nato con la guerra dei Sei Giorni, ma è una posizione alquanto difficile da difendere in politica estera, perché i sionisti, per quanto mascalzoni, sono pur sempre buoni patrioti e la loro patria appoggia gli arabi e li rifornisce di armi. Ciò a cui i sionisti sono più sensibili è il valore militare, e sotto questo aspetto tanto di cappello agli uomini di Moshe Dayan. Soldati veri, tipi tosti, come i crucchi, come i musi gialli; e i russi, anche se combattono o hanno combattuto contro di loro, li rispettano, mentre non potranno mai rispettare gli americani, quei grossi imbecilli rosei e delicati il cui ideale di guerra consiste, come si è visto a Hiroshima, nello sganciare dall’alto bombe che disintegrano ogni cosa, senza rischiare nulla in prima persona.

Oltre alla Wehrmacht e alla Tsahal, Guenka e i suoi amici, i sionisti non meno delle SS, stravedono per un film che in quegli anni a Char’kov è nelle sale quasi ininterrottamente, e che hanno visto in gruppo dieci, venti volte: I tre avventurieri, con Alain Delon e Lino Ventura. I film stranieri, soprattutto francesi, sono una delle novità degli anni di Chrušèëv. Tutti conoscono Louis de Funès e Alain Delon – dieci anni dopo, sarà il turno di Pierre Richard, persona squisita, ancora oggi considerato un dio in terra negli angoli più sperduti dell’ex Unione Sovietica e non rifiuta mai una comparsata da guest star in una produzione georgiana o kazaka. La scena iniziale dei Tre avventurieri, in cui Delon passa in aereo sotto l’Arco di Trionfo, ispirerà a Eduard e Guenka la loro più memorabile bravata, quando, tanto per cambiare sbronzi, cercheranno di fregare un vecchio trabiccolo e farlo decollare sulla pista dell’aerodromo militare. La faccenda non avrà conseguenze: le guardie che li arrestano la prendono sul ridere e, intenerite come lo sono stato io il giorno in cui i miei figli di sei e tre anni sono fuggiti di casa con un fagotto annodato attorno al manico di un ombrello, offrono loro un bicchiere per consolarli del fiasco.


 

Così trascorrono le giornate di Eduard. Cuce, scrive, frequenta Guenka e la sua banda sfoggiando quei bei completi che si fa da solo – ne ha uno color cioccolato con un filo d’oro di cui è particolarmente orgoglioso. Fa addominali e flessioni, è muscoloso, abbronzato d’inverno come d’estate perché la tintarella si conserva a lungo sulla sua pelle bruna, ma darebbe una fortuna per qualche centimetro in più, non portare gli occhiali e non avere il naso all’insù: insomma, per somigliare a uno come Alain Delon, che cerca di imitare quando è solo davanti allo specchio. Se viene trascurata troppo a lungo, Anna non resiste e parte alla ricerca di Eduard. Di solito finisce per trovarlo al bar dello zoo. Allora si infuria, gliene dice di tutti i colori davanti agli amici e lo insulta chiamandolo piccola canaglia: Molodoj negodjaj è appunto il titolo che Eduard darà ai propri ricordi di questo periodo. Le scenate di Anna umiliano Eduard e divertono gli amici, che scherzano sul grosso culo e i capelli grigi di quell’amante che pesa due volte più di lui e potrebbe essere sua madre. Per salvare la faccia, Eduard dà a intendere che la sfrutta e si fa mantenere da lei. Una volta assicura persino che Anna fa marchette per lui. È la sua filosofia: meglio essere un ruffiano in erba che un bravo ragazzo.

 

9

 

Come osserva lo stesso Limonov, una cronaca della vita sovietica negli anni Sessanta sarebbe incompleta senza il KGB. Il lettore occidentale già rabbrividisce, immagina gulag e internamenti in ospedali psichiatrici. In realtà, anche se Eduard è passato fin troppe volte per le stazioni di polizia, a Char’kov i suoi rapporti con gli organi sono stati semplicemente farseschi. Ecco la storia.

Un pittore del suo giro, Bachèanjan, detto Bach, ha conosciuto un turista francese che gli ha regalato un giubbotto di jeans e qualche vecchio numero di «Paris Match». In quegli anni, subito dopo la caduta di Chrušèëv e la restaurazione della troika Brenev-Kosygin-Gromyko, ciò costituisce reato, e un reato piuttosto grave. È proibito ogni contatto con gli stranieri, sospettati di diffondere pericolosi virus occidentali sotto forma di libri, dischi e persino abiti, e di far uscire dal paese testi di dissidenti. Appena lasciato l’albergo del francese con addosso il giubbotto e in mano una sporta di plastica contenente i numeri di «Paris Match», Bach è assalito dalla paura di essere seguito. Si precipita a casa di Anna e Eduard, cui confida i propri timori. I tre hanno appena il tempo di ficcare il giubbotto e le riviste in un baule su cui Anna si siede con tutta la sua callipigia imponenza: il èekista sta già bussando alla porta.

Va ad aprire Eduard, che con una sola occhiata gli prende le misure: capelli biondi tendenti al grigio, l’aria di un ex atleta che si è lasciato andare, e non è difficile indovinare che ha una moglie della sua stessa età e due o tre figli brutti e senza futuro; insomma un collega e un fratello del povero Veniamin. Alla vista dei libri e dei quadri, l’uomo sembra intimidito per aver fatto irruzione in casa di artisti. Forse pensa che la loro vita sia più interessante della sua, e di conseguenza potrebbe incattivirsi, ma non è uno cattivo. Esegue la perquisizione, perché quello è il suo lavoro, senza troppo zelo; i tre credono che se ne andrà a mani vuote. L’uomo è ormai quasi sul pianerottolo, sta indugiando con lo sguardo quando gli viene in mente che per tutta la durata dell’ispezione Anna non si è mossa dal baule su cui è seduta. Le chiede di aprirlo. Prova di forza. Anna all’inizio rifiuta con veemenza, come se si trovasse davanti la Gestapo intenzionata a estorcerle i nomi della sua banda partigiana, ma alla fine cede. Così il malloppo viene scoperto e confiscato.

Anna e Eduard se la caveranno con una reprimenda, mentre Bach verrà processato da un «collettivo di compagni» della fabbrica Pistone. Improvvisatisi critici d’arte, i compagni opinano che anche un asino con un pennello attaccato alla coda sarebbe stato capace di dipingere i quadri di Bach e, per richiamarlo a un’arte più figurativa, lo spediscono per un mese a scavare buche in un cantiere, dopodiché Bach ritornerà tranquillamente alle sue superate astrazioni da provinciale. Conclusione di Eduard: se le autorità di Char’kov fossero state un po’ più carogne, l’onesto pittore Bachèanjan sarebbe potuto diventare celebre in tutto il mondo come lo è appena diventato l’onesto poeta Brodskij, che ha avuto soltanto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto e vincere così un terno al lotto.


 

Soffermiamoci un momento su questa osservazione e su quanto essa ci rivela del nostro eroe. Presentiamo l’uomo che Eduard considererà per gran parte della vita il proprio capitano Levitin: Iosif Brodskij, giovane prodigio di Leningrado, consacrato all’inizio degli anni Sessanta da Anna Achmatova in persona.

Anna Achmatova non è mica Motriè. Dopo la scomparsa di Mandel’štam e della Cvetaeva, è ritenuta da tutti gli intenditori il più grande poeta russo vivente. C’è anche Pasternak, ma Pasternak è ricco, carico di riconoscimenti, sfrontatamente felice e il suo tardo conflitto con il potere si manterrà sempre entro limiti civili. La Achmatova invece, colpita nel 1946 dal divieto di pubblicazione, vive di tè e pane secco in stanze di appartamenti condivisi, cosa che al genio aggiunge l’aureola della resistenza e del martirio. Dice la Achmatova: «Mi sono sempre trovata là dove aveva la sfortuna di essere il mio popolo».

Nel suo malanimo, Eduard si compiace di descrivere Brodskij come un eterno primo della classe, sempre attaccato alle gonnelle della sua protettrice. Ma la verità è che, in quanto ad avventure, la giovinezza di Brodskij non ha nulla da invidiare a quella di Eduard. Anche lui figlio di un piccolo ufficiale, Brodskij ha abbandonato presto la scuola e ha lavorato come fresatore, sezionatore di cadaveri all’obitorio e assistente in spedizioni geologiche in Iacuzia. Con un malvivente amico suo è andato a Samarcanda, da dove ha cercato di raggiungere l’Afghanistan dirottando un aereo. Internato in un ospedale psichiatrico, è stato sottoposto a iniezioni di zolfo terribilmente dolorose e a una simpatica terapia chiamata ukrutka, che consiste nel tuffare il paziente avvolto in un lenzuolo dentro una vasca di acqua gelida e lasciarlo poi ad asciugare dentro lo stesso lenzuolo. La sua vita ha subito una svolta a ventitré anni quando è stato arrestato con l’accusa di «parassitismo sociale». Il processo contro «questo pigmeo ebreo con pantaloni di velluto a coste, questo poeta da strapazzo nei cui versi l’incomprensibilità fa a gara con la pornografia» (per citare il capo d’imputazione) sarebbe dovuto passare inosservato. Ma una giornalista presente all’udienza ha stenografato le sedute; i verbali sono circolati in forma di samizdat e un’intera generazione è rimasta sbalordita da questo dialogo: «Chi le ha dato il diritto di diventare poeta?» chiede il giudice. Brodskij, pensieroso: «Chi mi ha dato quello di diventare uomo? Forse Dio…». E Anna Achmatova commenta: «Che bella biografia stanno costruendo al nostro rosso malpelo! Sembra che sia lui a guidare il gioco!».

Condannato a cinque anni di confino, Brodskij è finito a spalare letame in un paesino del Grande Nord non lontano da Archangel’sk. Terra gelida, paesaggi resi astratti dal freddo, dallo spazio e dal biancore, amicizia ruvida dei paesani: questa esperienza gli ha ispirato alcune poesie che, giunte a Leningrado per vie tortuose, sono diventate oggetto di culto in tutti i circoli più o meno dissidenti dell’Unione Sovietica. Alla Libreria 41 non si fa altro che parlare di Brodskij, e la cosa dà ai nervi al competitivo Eduard, che già ha mal digerito l’ondata di entusiasmo sollevata nel paese due anni prima dalla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisoviè. Ma questo ci poteva anche stare: Solenicyn potrebbe essere suo padre. Brodskij invece ha soltanto tre anni più di lui. Dovrebbero combattere nella stessa categoria, ma ce ne corre.


 

Molto presto il giovane ribelle Limonov ha cominciato a considerare la dissidenza nata negli anni Sessanta con beffarda ostilità, e a mettere apertamente nello stesso mazzo Solenicyn e Brenev, Brodskij e Kosygin: tutte persone importanti, ufficialmente riconosciute, istituzionali, che pontificano ciascuna dal proprio lato della barricata; le opere complete del Primo Segretario sul materialismo dialettico bilanciate dai mattoni dell’uomo con la barba che si atteggia a profeta. Non sono cose che fanno per noi, noi delinquenti, smaliziati, piccoli Lumpen astuti che sanno quanto sia esagerato dire che la società sovietica è totalitaria: la società sovietica è soprattutto incasinata, e basta essere un po’ furbi per approfittare di questo casino e divertirsi.

Secondo gli storici più seri (Robert Conquest, Alec Nove, mia madre), venti milioni di russi sono stati uccisi dai tedeschi nei quattro anni di guerra e venti milioni dal governo nei venticinque anni del regno di Stalin. Si tratta di numeri approssimativi, i periodi si sovrappongono un po’, ma quel che conta ai fini della storia che sto raccontando è che l’infanzia e l’adolescenza di Eduard sono state cullate dal primo dato e che in seguito egli ha fatto il possibile per ignorare il secondo perché, malgrado il suo gusto per la ribellione e il suo disprezzo per il destino mediocre dei genitori, è rimasto un loro figlio: il figlio di un ufficiale della Èeca, cresciuto in una famiglia risparmiata dai più grandi sconvolgimenti del paese senza mai sperimentare l’arbitrio assoluto, e quindi convinto che se si arrestano delle persone deve pur esserci un motivo; un piccolo pioniere orgoglioso del suo paese, della sua vittoria contro i crucchi, dell’impero che si estende su due continenti e undici fusi orari, e della fifa maledetta che incute a quelle pappe molli di occidentali. Eduard se ne frega di tutto, ma non di questo. Quando sente parlare di gulag, pensa sinceramente che si esageri e che gli intellettuali che li denunciano facciano tante storie per qualcosa che i delinquenti prendono con più filosofia. E poi, i posti sulla nave della dissidenza sono ormai tutti occupati. Ci sono già le star, se sale a bordo anche lui non sarà altro che un figurante – e questo no, mai. Così preferisce sghignazzare e dire che quelli come Brodskij se la tirano tanto, che il suo confino ad Archangel’sk è solo uno scherzo – cinque anni, poi ridotti a tre, di villeggiatura in campagna e in più, anche se Eduard ancora non lo sa, il premio Nobel in arrivo: bel colpo, capitano Levitin!

 

10

 

Sono già tre anni che Eduard fa la vita del bohémien a Char’kov, e gli sembra di non avere più niente da scoprire, di essere più avanti di tutti quelli che lo mettevano in soggezione e di aver demolito l’uno dopo l’altro tutti i suoi idoli. Motriè, il grande poeta del gruppo, è soltanto un povero ubriacone che, a trent’anni suonati, aspetta che la madre esca di casa per invitare gli amici, e li fa bere tutti dallo stesso bicchiere perché ha paura che gliene rompano qualcuno. Guenka, il plejboj, passerà la vita a guardare I tre avventurieri senza avere mai il coraggio di diventare come loro. Gli amici di Saltov, non parliamone nemmeno: Kostja marcisce in prigione, il povero Kadik in fabbrica. E quando ogni tanto lui e Eduard si ritrovano, fa pena vedere quanto Kadik sia amareggiato. Kadik sognava di diventare un artista e di vivere in centro; Eduard è un artista e vive in centro, così Kadik gli dà del parassita, dice che è molto bello pavoneggiarsi al bar dello zoo in completo color cioccolato con un filo d’oro ma ci vuole anche qualcuno che avviti i bulloni dei motori.

«Qualcuno, sì, ma non io» risponde Eduard, che spinge la sua crudeltà fino a citare una frase di un autore che gli ha fatto scoprire Kadik, e che entrambi hanno adorato: «Ti ricordi cosa diceva Knut Hamsun? Gli operai, bisognerebbe farli fuori tutti».

«Era un fascista, il tuo Hamsun» mormora Kadik fra i denti.

Eduard fa spallucce: «E con ciò?».

Eduard ritiene che, si tratti di malviventi o artisti, quanti hanno contribuito a trasformare il fonditore Savenko nel poeta Limonov non abbiano più niente da insegnargli. Li considera tutti dei falliti e glielo rinfaccia apertamente. In uno dei libri sulla propria giovinezza scritto anni dopo, a Parigi, riferisce con la consueta onestà la conversazione con un’amica che, con tono gentile e un po’ triste, gli dice che quella maniera di dividere il mondo in falliti e non falliti è un giochetto da immaturi e soprattutto un sistema per essere sempre infelici. «Eddy, non sei capace di immaginare che si possa avere una vita piena anche senza il successo e la celebrità? Che il criterio per valutare se uno è o no un uomo affermato sia per esempio l’amore, una famiglia, una vita tranquilla e armoniosa?». No, Eddy non ne è capace, e si vanta di non esserlo. L’unica vita degna di lui è quella dell’eroe; lui vuole che il mondo intero lo ammiri e pensa che ogni altro criterio, una vita familiare tranquilla e armoniosa, i piaceri semplici, il giardino coltivato al riparo dagli sguardi, siano autogiustificazioni da falliti, la minestra che Lidija serve al suo povero Kadik per tenerlo a cuccia. «Povero Eddy» sospira l’amica. Poveri voi, pensa Eddy. E, certo, povero me se divento come voi.


 

«A Mosca! A Mosca!» sospiravano dal fondo della provincia russa le tre sorelle di Èechov, e un secolo dopo sarà lui a partire. Anche Anna è attratta dall’avventura, pur temendo che laggiù la sua seducente piccola canaglia trovi di meglio e le sfugga di mano. Una sera arriva al 41 un amico dell’ex marito di Anna, un pittore nato a Char’kov ma trapiantato da tempo nella capitale. Brusilovskij è elegante, conosce gente famosa che chiama per nome, anzi, per diminutivo. Secondo la divertente descrizione di Limonov, è il tipo che in provincia fa credere di essere famoso a Mosca e a Mosca di essere famoso in provincia. Eduard è intimidito, a disagio, tanto più che Anna insiste perché legga le sue poesie al visitatore, il quale ha la condiscendenza di trovarle buone. «Ma perché andarvene?» domanda. «Si sta bene, a Char’kov. Si può far maturare la propria opera, lontano dal tourbillon superficiale e artificioso della capitale. Guai a chi si fa distrarre dagli specchietti per le allodole. La vita vera, la vita calma e lenta: di questo ha bisogno l’artista. Sapete una cosa? Vi invidio».

Tutte chiacchiere, stronzo, pensa Eduard. Se Char’kov ti piaceva tanto, perché te la sei squagliata? Questo pensa Eduard, ma ascolta compunto, da bravo bambino (parte che ha imparato a recitare molto bene), il moscovita che, dopo avere esaltato la vita così genuina della provincia, attacca con i suoi amici del gruppo SMOG. «Come, non conoscete gli smoghisti? Non conoscete lo SMOG? La società dei giovani geni? Non conoscete Gubanov? Ha solo vent’anni ma a Mosca la gente che conta pende dalle sue labbra». E Brusilovskij comincia a recitare a occhi socchiusi alcuni versi del giovane genio: «Non sono io che mi perdo negli occhi del Cremlino, ma il Cremlino che si perde nei miei».

Gubanov, uno stronzo di vent’anni, schiuma di rabbia Eduard. Io fra poco ne avrò venticinque e sono già stato superato da Brodskij. Nessuno al mondo sa che esisto. Non può continuare così ancora per molto.

 

II
MOSCA, 1967-1974

 

 

1

 

In quegli anni, mia madre ha pubblicato il suo primo libro, Il marxismo e l’Asia. Mi faceva una grande impressione che mia madre avesse scritto un libro; ho provato a leggerlo, ma mi sono arreso dopo le prime cinque parole, che erano: «Tutti sanno che il marxismo…». Quell’incipit era diventato argomento di scherzo per me e le mie sorelle: «Ma no,» ripetevamo «non tutti sanno che il marxismo. Noi non lo sappiamo. Avresti pure potuto pensare a noi!».

Il libro affrontava la questione, allora poco indagata e alla quale mia madre aveva dedicato la sua giovane carriera di ricercatrice, di come le popolazioni musulmane dell’Asia centrale si siano adattate all’ideologia e al potere sovietici. Avevo sei mesi quando mia madre partì per un lungo viaggio di studio in Uzbekistan, al seguito di una spedizione di scienziati che svolgeva ricerche sull’epizoozia degli ovini. Da Buchara, Taškent e Samarcanda aveva portato fotografie di moschee, cupole, mendicanti ascetici e alteri con la testa fasciata da turbanti e gli occhi nerissimi. Quelle foto erano immerse in un’ammaliante luce color seppia che da piccolo mi attraeva e mi faceva un po’ paura. Avrei voluto accompagnare mia madre in quel paese misterioso che lei chiamava «lurss»: non mi piaceva che ci andasse, perché le nostre separazioni mi facevano soffrire, e poche volte sono stato così felice come il giorno in cui, invitata a un convegno di storici a Mosca, ha deciso che ero abbastanza grande per andare con lei.

Di quel viaggio incantato ricordo ogni particolare. Mia madre mi portava con sé dappertutto. Al pranzo con il consigliere culturale francese ero seduto a tavola accanto a lei, ascoltavo buono buono i discorsi degli adulti ed ero così felice di stare in quel posto che più di quarant’anni dopo sono in grado di ripetere come un mantra i nomi degli ospiti. C’era un professore che si chiamava Gilbert Dagron, una certa Néna (non Nina, né Léna: Néna), moglie del regista Jacques Baratier – che aveva girato Confetti al pepe, con Guy Bedos –, e un ragazzo che pur essendo russo aveva un nome francese: Vadim Delaunay. Era giovanissimo, bellissimo, gentilissimo: una specie di ideale fratello maggiore che mi ha subito preso in simpatia. Se mi fosse piaciuto giocare, sono sicuro che avrebbe giocato con me. Siccome mi piaceva leggere, si è informato delle mie letture. Come me, era imbattibile su Alexandre Dumas.


 

Questo accadeva nel 1968 e io avevo dieci anni. Quanto a Eduard e Anna, si erano da poco stabiliti a Mosca. In Unione Sovietica trasferirsi di propria iniziativa in un’altra città non era una cosa semplice. Dopo la rivoluzione di Ottobre, e ancora oggi, bisogna essere forniti di un’autorizzazione di residenza, la propiska, difficile da ottenere. Loro non l’avevano ottenuta, e pertanto erano condannati a una vita da clandestini, sempre a rischio di un controllo sulla metropolitana. Abitavano in stanzette di periferia, e traslocavano spesso per non richiamare l’attenzione. Le loro proprietà si riducevano a una valigia con un po’ di vestiti, una macchina per scrivere le poesie e una macchina per cucire i pantaloni. Con un po’ di tela indiana acquistata a buon mercato, Eduard e Anna avevano iniziato a fabbricare anche borsette a due manici, imitazioni di un modello visto su uno dei vecchi numeri di «Paris Match» di Bach. Costo di produzione: un rublo. Prezzo di vendita: tre rubli. Il loro primo inverno a Mosca era stato il più rigido del decennio: anche mettendosi l’uno sopra l’altro tutti i vestiti che possedevano, avevano sempre freddo, e anche sempre fame. Andavano a mangiare in una mensa, dove recuperavano dai piatti sporchi residui di purè e pelle di salame.

Nei primi tempi, il pittore Brusilovskij, il concittadino che aveva fatto fortuna a Mosca, era stato il loro protettore e il centro della loro vita sociale. Per questi quasi poveri, il suo grande atelier con pelli di animali stese sui divani, carte geografiche trasformate in abat-jour e alcolici d’importazione era un’oasi di lusso e di calore, e bastava essere disposti ad ammirarne il successo perché Brusilovskij si rivelasse un brav’uomo. Era stato lui a consigliare a Eduard di muovere alla conquista di Mosca partendo dal seminario di poesia di Arsenij Tarkovskij – allo stesso modo in cui, in quegli stessi anni, un Brusilovskij francese avrebbe mandato un giovane provinciale ambizioso ad ascoltare Gilles Deleuze a Vincennes. «Bada, però,» lo aveva avvisato «che c’è un mare di gente. Mica ci si entra così, bisogna far parte della cerchia dei discepoli. Chiedi di Rita».


 

Un lunedì sera Eduard infila dunque il quaderno di poesie nella tasca interna del cappotto troppo corto e troppo leggero – «in pelliccia di pesce», dicono i russi – e prende il metrò fino alla sede dell’Unione degli scrittori, un’ex residenza nobiliare che Tolstoj aveva preso a modello per quella della famiglia Rostov in Guerra e pace. È in anticipo di un’ora, ma c’è già molta gente che come lui batte i piedi per riscaldarsi (il termometro segna meno venti). Eduard chiede di Rita; gli rispondono che non si è ancora vista, che arriverà, ma Rita non arriva. Una Volga nera accosta silenziosamente al marciapiede coperto di neve. Ne scende il maestro, i lisci capelli bianchi pettinati all’indietro, imbacuccato in un’elegante pelliccia, fra le labbra una pipa inglese da cui escono volute di tabacco aromatico. Zoppica leggermente, e anche questo in lui diventa un tratto di distinzione. È in compagnia di un’altera bellezza che potrebbe essere sua figlia. Le porte si aprono davanti a loro, si richiudono dietro di loro, ma insieme a loro entra solo un esiguo drappello di eletti. Eduard afferma di essere rimasto fuori, con la plebaglia, per sei lunedì consecutivi: mi sembrano tanti, ma Eduard non ha l’abitudine di esagerare, e quindi gli credo. Il settimo lunedì compare Rita, e Eduard accede al sancta sanctorum.

Oggigiorno Arsenij Tarkovskij è molto meno famoso del figlio Andrej, che allora era appena agli inizi della sua carriera di genio della cinematografia mondiale. Per quanto ne so, Eduard – la cui opinione su Nikita Michalkov non tarderemo a scoprire – di Tarkovskij figlio non ha mai parlato, e mi pare strano, perché non fatico a immaginare le cattiverie che il nostro ragazzaccio avrebbe potuto scrivere su questo mostro sacro della cultura, che io come tutti ammiro: la sua seriosità impermeabile a ogni umorismo, la sua spiritualità austera, le sue inquadrature contemplative immancabilmente accompagnate da cantate di Bach… Il padre, comunque, all’epoca poeta molto stimato ed ex amante di Marina Cvetaeva, sin dal primo istante non gli piace: non perché lo trovi mediocre, tutt’altro, ma perché l’unico ruolo possibile accanto a lui è evidentemente quello del discepolo devoto, e questo a Eduard, anche se è giovane, grazie tante ma non interessa.


A ogni incontro un partecipante legge le proprie poesie. Quella settimana tocca a una certa Mašenka, che indossa, cito Eduard, una palandrana color merda e ha la tipica espressione appassionata e malinconica di tutte le poetesse che frequentano le Case della cultura in Unione Sovietica. I suoi versi sono in linea con l’aspetto fisico: scopiazzati da Pasternak, delicatamente lirici, assolutamente prevedibili. Se fosse al posto di Tarkovskij, Eduard le consiglierebbe di buttarsi sotto un treno, ma il maestro si accontenta di metterla in guardia, con fare paternalistico, dalle rime troppo perfette, e di raccontare in merito un aneddoto il cui protagonista è il suo defunto amico Osip Emil’eviè. Osip Emil’eviè è Mandel’štam, e di aneddoti su Osip Emil’eviè e Marina Ivanovna (Cvetaeva) ce ne saranno ogni settimana. Eduard ribolle di delusione e rabbia. Vorrebbe leggere i propri versi e lasciare tutti a bocca aperta. Il lunedì successivo è uguale al precedente, e così pure quello dopo. Eduard si rende conto di non essere l’unico frustrato dall’eterna attesa del proprio turno, così, dopo un seminario, e benché un paio di birre al prezzo di quarantadue copechi significhino, considerate le sue finanze, saltare i pasti il giorno dopo, va a bere qualcosa con gli altri e cerca di fomentare una rivolta, come ha visto fare a uno dei suoi eroi, il marinaio della Corazzata Potëmkin che d’improvviso esclama: «Ehi, ragazzi, che storia è questa? Ci danno da mangiare carne avariata!». Sulle prime i poeti non prendono sul serio quel ragazzo di provincia con il naso all’insù e la voce acuta, ma Eduard estrae il suo quaderno, comincia a leggere e presto tutto il gruppo lo ascolta in un silenzio sempre più attonito. Allo stesso modo, narra la leggenda, i parnassiani ascoltarono un adolescente arrogante, maleducato, con grosse mani arrossate, che veniva dalle Ardenne e si chiamava Arthur Rimbaud. Fra i testimoni della scena c’era Vadim Delaunay.

 

2

 

Mi sono imbattuto nel suo nome leggendo Il libro dei morti, un libro in cui Limonov ha riunito alcuni ritratti di persone famose o anonime che ha conosciuto nel corso della sua vita e che hanno in comune il fatto di essere morte. La descrizione di Vadim Delaunay data da Limonov corrisponde ai miei ricordi: giovanissimo – vent’anni appena –, bellissimo, affabilissimo. Tutti, dice Limonov, gli volevano bene. Vadim era un discendente del marchese de Launay, comandante della Guardia della Bastiglia nel 1789; i suoi antenati erano emigrati in Russia per fuggire la Rivoluzione, e doveva probabilmente alle sue origini la possibilità di avere rapporti con un diplomatico straniero – cosa del tutto eccezionale nell’era breneviana. Vadim Delaunay scriveva poesie. Era il beniamino degli smoghisti, quel movimento di avanguardia con cui a Char’kov Brusilovskij aveva martellato sino allo sfinimento Eduard e Anna. Ho controllato le date: nulla mi vieta di immaginare che, proprio quel giorno, dopo aver trascorso l’intero pranzo dal consigliere culturale a parlare dei tre moschettieri con un ragazzino francese, Vadim Delaunay sia andato di volata al seminario di Arsenij Tarkovskij e abbia assistito al debutto del poeta Limonov nell’underground moscovita.


 

C’era la letteratura ufficiale. Gli «ingegneri dell’anima», come una volta Stalin aveva definito gli scrittori. Quelli che rimanevano ligi al realismo socialista. La coorte dei Fadeev, dei Šolochov, dei Simonov, con appartamento, dacia, viaggi all’estero, ingresso ai negozi riservati ai gerarchi del partito, opere complete rilegate, tirate in milioni di copie e insignite del premio Lenin. Ma questi privilegiati non avevano la botte piena e la moglie ubriaca. Quanto guadagnavano in comfort e sicurezza, lo perdevano in autostima. Ai tempi eroici dei costruttori del socialismo, potevano ancora credere a ciò che scrivevano, essere orgogliosi di ciò che erano, ma al tempo di Brenev, dello stalinismo morbido e della nomenklatura, non potevano più farsi illusioni. Sapevano bene di essere al servizio di un regime corrotto e di aver venduto l’anima, e sapevano che gli altri lo sapevano. Solenicyn, il loro comune rimorso, lo ha scritto: uno degli aspetti più deleteri del sistema sovietico era che a meno di non diventare martiri non si poteva essere onesti. Non si poteva avere una buona opinione di se stessi. Gli intellettuali di regime, se non erano completamente abbrutiti o del tutto cinici, si vergognavano di quel che facevano, si vergognavano di quel che erano. Si vergognavano di scrivere sulla «Pravda» lunghi articoli di denuncia contro Pasternak nel 1957, Brodskij nel 1964, Sinjavskij e Daniel’ nel 1966, Solenicyn nel 1969, mentre in cuor loro li invidiavano. Sapevano che erano quelli gli autentici eroi della loro epoca, i grandi scrittori russi a cui il popolo chiedeva, come un tempo a Tolstoj: «Che cos’è bene? Che cos’è male? Come dobbiamo vivere?». I più infingardi dicevano sospirando che se fosse dipeso soltanto da loro avrebbero seguito quegli esempi sublimi, ma avevano una famiglia, figli che avevano intrapreso lunghi studi, tutte le validissime ragioni che ognuno di noi ha per diventare un collaboratore anziché un dissidente. Molti si rifugiavano nell’alcol; alcuni, come Fadeev, si suicidavano. I più furbi, che erano anche i più giovani, imparavano a giocare su due tavoli, pratica ormai possibile perché al potere facevano comodo questi semidissidenti moderati ed esportabili che Aragon si era specializzato nell’accogliere da noi a braccia aperte. Evgenij Evtušenko, che incontreremo più avanti, si prestava ottimamente alla bisogna.

Ma per restituire il colore dell’epoca, va detto che c’era anche la massa di quanti non erano né eroi, né corrotti, né furbetti. Erano tutti quelli che appartenevano all’underground, e avevano due certezze assolute: che i libri pubblicati, i quadri esposti, i drammi rappresentati fossero necessariamente compromessi con il potere e mediocri; che un artista autentico fosse necessariamente un fallito. Non per colpa sua, ma di un’epoca in cui essere un fallito era un marchio di nobiltà. Lo era, per un pittore, guadagnarsi da vivere come portiere di notte. Lo era, per un poeta, spalare la neve davanti a una casa editrice a cui mai e poi mai avrebbe dato in lettura le proprie poesie, e toccava al direttore sentirsi a disagio quando scendeva dalla sua Volga e lo vedeva nel cortile con la pala in mano. Facevano una vita di merda, ma non avevano tradito. Ci si scaldava, tra falliti, nelle cucine dove si discuteva per nottate intere, facendo circolare samizdat e bevendo samogonka, la vodka fatta in casa nella vasca da bagno, con zucchero e alcol denaturato.


 

C’è stato uno che tutto questo l’ha raccontato. Si chiamava Venedikt Erofeev. Aveva cinque anni più di Eduard, era nato come lui in provincia e, dopo essere passato per tutte le tappe comuni alle persone sensibili di quel tempo (l’adolescenza appassionata, la deriva alcolica, l’assenteismo e una vita di espedienti), era giunto a Mosca nel 1969 con un manoscritto in prosa che però lui chiamava «poema», come Gogol’ faceva con Le anime morte. Aveva ragione: Mosca sulla vodka è il grande poema dello zapoj, l’ubriacatura russa di lungo corso a cui, sotto Leonid Brenev, tendeva ad assomigliare la vita intera. La squallida, catastrofica odissea dello sbronzo Venedikt fra la stazione Kurskaja a Mosca e Petuški, un centro sperduto all’estrema periferia; centoventi chilometri in quarantott’ore, senza biglietto ma con l’aiuto di un imprecisato numero di litri di alcolici: vodka, birra, vino e soprattutto cocktail inventati dal narratore, che ne fornisce ogni volta la ricetta – la Lacrima della Komsomolka, per esempio, è una miscela di birra, white spirit, limonata e deodorante per piedi. Protagonista alcolizzato, treno ubriaco, passeggeri avvinazzati: sono tutti sbronzi in questo libro basato sulla convinzione che «tutti gli uomini di valore, in Russia, bevono come spugne». Per disperazione, e perché in un mondo di menzogne soltanto l’ubriachezza non mente. Lo stile, volutamente enfatico e burlesco, è una parodia del politichese sovietico, le frasi sono citazioni storpiate di Lenin, di Majakovskij, dei maestri del realismo socialista. Tutti gli «under», come gli appartenenti all’underground chiamavano se stessi, si sono riconosciuti in questo trattato del fatalismo e del coma etilico. Assiduamente ricopiato, letto, recitato nella cerchia frequentata da Eduard, tradotto in Occidente, Mosca sulla vodka è diventato una specie di classico, e Venedikt una leggenda: fallito metafisico, ubriacone sublime, incarnazione grandiosa di tutto ciò che quell’epoca aveva di vigorosamente negativo. Si andava e si va ancora in pellegrinaggio alla stazione di Petuški, dove da qualche anno si erge anche la statua di Erofeev.


 

Punk ante litteram, Venedikt era la derisione e la rinuncia personificate, e sotto questo aspetto l’opposto dei dissidenti che si ostinavano a credere nel futuro e nel potere della verità. A quarant’anni di distanza, le cose tendono a essere meno nette: certo, gli under leggevano i dissidenti e facevano circolare le loro opere, ma, tranne rare eccezioni, non si esponevano agli stessi pericoli e soprattutto non erano animati dalla stessa fede. Solenicyn era per loro una specie di statua del Commendatore, con cui per fortuna non avevano nessuna probabilità di avere a che fare: viveva in provincia, a Rjazan’, lavorava giorno e notte, e frequentava soltanto ex zek, dei quali stava raccogliendo con immense precauzioni le testimonianze sulle basi delle quali sarebbe stato scritto Arcipelago Gulag. Il piccolo mondo gregario, caloroso, mordace di cui Venedikt Erofeev era l’eroe e Edièka Limonov l’astro nascente, Solenicyn non lo conosceva neppure, e se lo avesse conosciuto lo avrebbe disprezzato. La sua determinazione e il suo coraggio avevano qualcosa di disumano, poiché Solenicyn si aspettava dagli altri ciò che chiedeva a se stesso. Giudicava vile scrivere di un argomento diverso dai gulag, perché questo significava tacere i gulag.


 

Nell’agosto del 1968, qualche mese dopo il mio pranzo dal consigliere culturale francese, l’Unione Sovietica invase la Cecoslovacchia e represse nel sangue la Primavera di Praga. Per protesta contro l’invasione, un gruppo di dissidenti ebbe la singolare audacia di andare a manifestare sulla Piazza Rossa. Erano in otto, e ci tengo a scrivere qui i loro nomi: Larisa Bogoraz, Pavel Litvinov, Vladimir Dremljuga, Tat’jana Baeva, Viktor Fajnberg, Konstantin Babickij, Natalija Gorbanevskaja – che si era portata il figlio neonato in carrozzina – e Vadim Delaunay, che teneva un cartello su cui aveva scritto: «Per la nostra libertà e per la vostra». I manifestanti vennero subito arrestati e condannati a pene detentive di varia durata: Vadim si beccò due anni e mezzo. Dopo la scarcerazione e altri guai con il KGB, il ragazzo con cui ero stato così contento di parlare di Athos, Porthos e Aramis è emigrato. Si è trasferito a Parigi, dove avrei potuto incontrarlo di nuovo, se l’avessi saputo, e dove è morto nel 1983, all’età di trentacinque anni.

 

3

 

Eduard ha conosciuto bene tutte queste persone, che trovano grande spazio nel suo Libro dei morti. Anche per via dell’alcol, la maggior parte di loro è morta giovane. A Eduard piaceva molto Vadim Delaunay, molto meno Erofeev. Il suo presunto capolavoro gli sembrava sopravvalutato, come sopravvalutato gli sembrava Il maestro e Margherita di Bulgakov, il cui culto postumo è iniziato in quegli anni. Il fatto è che a Eduard non piacciono i culti di cui non sia lui il destinatario. Pensa che l’ammirazione riservata ad altri venga sottratta a lui.

Da questo punto di vista, la sua bestia nera era Brodskij. Rientrato dal suo esilio nel Grande Nord, Brodskij viveva a Leningrado ma si recava qualche volta a Mosca e si faceva vedere, anche se con parsimonia, nelle cucine degli under, che letteralmente lo veneravano: conoscevano a memoria i suoi versi, le geniali risposte date nel corso del processo, nonché l’elenco dei personaggi pubblici, da Šostakoviè a Sartre a T.S. Eliot, che gli avevano espresso solidarietà. Con un paio di pantaloni sformati e un vecchio maglione pieno di buchi, i capelli, già radi, troppo lunghi e arruffati, arrivava tardi alle feste e se ne andava presto, trattenendosi appena il tempo necessario perché si potessero notare i suoi modi semplici e discreti. Si metteva sempre nell’angolo meno illuminato, e tutti si disponevano in cerchio attorno a lui, rompendo le uova nel paniere al giovane poeta Limonov, che con la sua sfrontatezza e i suoi abiti di velluto cangiante aveva tenuto la scena finché non era arrivato Brodskij. Per consolarsi, Eduard cercava di convincersi che l’aura di Brodskij non era naturale, che Brodskij si era costruito un personaggio. Il mio amico Pierre Pachet, che ha conosciuto un po’ Brodskij, ritiene che ci sia del vero in questo giudizio – ma chi non si costruisce un personaggio? Quale semplicità è veramente semplice? Brodskij, in ogni caso, si imponeva per la sua figura non tanto di dissidente quanto di ribelle incontrollabile: più che antisovietico era a-sovietico. Declinava senza scomporsi le offerte di pubblicazione che gli facevano balenare con il solito ritornello - «dipende solo da lei essere uno dei nostri» – i colleghi dalla schiena più elastica come Evtušenko. La continua obiezione di coscienza ha finito per rendere Brodskij così irritante che nel 1972 il KGB gli ha intimato di fare le valigie. Che liberazione, deve aver pensato Eduard.


 

Fortunatamente per il suo amor proprio, nel piccolo mondo dell’underground c’era una gran quantità di soldati semplici tra i quali lui e Anna si sono fatti degli amici, molti amici. Il migliore, il più valido degli under, era il pittore Igor’ Vorošilov, ubriacone lirico e sentimentale, esperto nella preparazione del labardan, un piatto per squattrinati a base di teste di pesce. Con lui Eduard e Anna hanno diviso tutto: la miseria, le bottiglie e la rara fortuna, in estate, di abitare in veri appartamenti che gli inquilini, partiti per le ferie, affidavano loro in custodia. Eduard apprezzava Igor’ soprattutto perché non ne era geloso, come mostra la vicenda che segue. Una notte Igor’ chiede aiuto a Eduard: ha deciso di uccidersi. Eduard attraversa Mosca per dissuaderlo, e trova l’amico palesemente ubriaco. I due parlano. Piangendo a dirotto, Igor’ spiega a Eduard che non si fa più illusioni, che sa di essere un pittore di second’ordine. Eduard prende la faccenda sul serio: anche se uno non si uccide – e Igor’ non si ucciderà –, è terribile scoprire di essere un artista, e forse un essere umano, di second’ordine. È quello che Eduard teme più di tutto al mondo. E la cosa più terribile, aggiunge, è che secondo lui Igor’ non ha torto. Il futuro e il mercato lo confermeranno: Igor’ era un bravissimo ragazzo, ma un pittore di secondo e forse di terz’ordine.

Quello che sembra terribile a me è la crudele pacatezza con cui Eduard formula una simile constatazione. In seguito, Eduard incontrerà alcune figure dell’underground newyorkese, Andy Warhol, gente della Factory, beatnik come Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, e pur non restandone folgorato ammetterà che i loro nomi sono passati alla storia. Meritano tutti quanti che si dica di loro: io li ho conosciuti. Invece, a suo parere, degli smoghisti, del loro leader Lënja Gubanov, di Igor’ Vorošilov, di Vadim Delaunay, di Cholin, di Sapgir, e di altri sui quali ho riempito pagine e pagine di appunti che vi risparmio, non è rimasto nulla. Avanguardia superata, catino di acqua stagnante, comparse di un breve capitolo nella movimentata vita di Eduard, gente che però in quel catino ci ha passato la vita – e questo è triste.


 

Una simile miscela di disprezzo e invidia non rende molto simpatico il mio eroe, me ne rendo conto, e conosco a Mosca un certo numero di persone che lo hanno frequentato in quel periodo e se lo ricordano come un tipo insopportabile. Queste stesse persone ammettono però che Limonov era un abile sarto, un poeta di grande talento e, a modo suo, una persona onesta. Arrogante, ma di una lealtà a tutta prova. Incapace di indulgenza, ma sollecito, curioso e persino altruista. In fondo, anche se pensava che il suo amico Igor’ aveva ragione di considerarsi un fallito, ha passato la notte a fare di tutto per tirarlo su di morale. Anche chi non lo amava lo riteneva qualcuno su cui si poteva fare affidamento, uno che non scaricava le persone, e pur dicendone peste e corna si occupava di loro se erano ammalate o infelici, e io penso che molti che si proclamano amici del genere umano e si riempiono continuamente la bocca di parole come «comprensione» e «compassione» siano in realtà più egoisti e più indifferenti di questo ragazzo che ha passato tutta la vita a raffigurare se stesso come un farabutto. Un particolare: quando abbandonerà il paese, lascerà dietro di sé una trentina di raccolte, messe insieme e rilegate da lui personalmente, di altri poeti. Perché, dice en passant, «rientra nel mio programma di vita interessarmi agli altri».

 

4

 

A Mosca Eduard e Anna si sono integrati, le ordinazioni di pantaloni arrivano numerose e i due conducono una vita da bohémien piuttosto allegra; cominciano però a prendere corpo i timori che aveva Anna prima di partire da Char’kov: la piccola canaglia non la tradisce, perché la fedeltà coniugale rientra nel suo codice morale, ma è attraente e scoppia di salute e gioia di vivere, mentre lei è grassa e sciupata, una donna ormai al tramonto e sull’orlo di quella follia che ha tenuto a bada per molto tempo. Anna fa scenate a Eduard, e questa non è una novità. Ma non solo: ha vuoti di memoria e momenti di prostrazione. Comincia a cadere per strada. Un giorno, con lo sguardo fisso, gli dice: «Mi ucciderai. So che mi ucciderai».


 

La ricoverano per alcune settimane in un ospedale psichiatrico. Quando Eduard va a farle visita, Anna il più delle volte è stralunata, istupidita dai potenti sedativi, ma gli capita anche di trovarla legata al letto perché è venuta alle mani con altre detenute – «detenute», e non «malate», tanto il luogo somiglia a un carcere.

Quando esce dall’ospedale la mandano a passare un periodo di riposo da amici di amici che hanno una casetta in riva al mare, in Lettonia. Eduard la accompagna, si occupa della sua sistemazione, si mette d’accordo, a sua insaputa, con Dagmar, la padrona di casa, per farle prendere le medicine. Il padre di Dagmar, un vecchio pittore con la barba che somiglia a un fauno, propone di insegnare alla convalescente, per rasserenarla, la pittura ad acquerello. Bella idea, approva Eduard, e torna da solo a Mosca dove, la sera del 6 giugno 1971, va alla festa di compleanno del suo amico Sapgir.

Sapgir, come Brusilovskij, è uno dei pochi loro amici che nella vita se la sfanga bene. Scrive fiabe piene di orsi e di rusal’ki lette da tutti i bambini in URSS, ha un bell’appartamento, una dacia, e conoscenze sia nell’underground, sia nel mondo della cultura ufficiale. In casa sua si incontrano persone come i fratelli Michalkov, Nikita e Andrej, entrambi registi di talento, famosi all’estero, non meno abili del padre – celebrato poeta che tra l’alba e il crepuscolo della sua lunga carriera riuscirà a comporre inni sia a Stalin che a Putin – a barcamenarsi tra remissività e audacia. Eduard detesta i Michalkov, come detesta tutti gli eredi. Tra gli amici di Sapgir ce n’è un altro che appartiene alla stessa categoria: Viktor, un alto apparatèik della cultura, un cinquantenne calvo ed elegante che quella sera arriva con una Mercedes bianca e presenta alla compagnia la sua nuova fidanzata, Tanja.


 

Tanja ha vent’anni. Bruna, longilinea, minigonna di pelle, collant e tacchi alti. Una ragazza del genere Eduard non l’ha mai vista dal vero, ma soltanto sulle copertine delle riviste straniere che la gente si scambia di nascosto: «Elle» o «Harper’s Bazaar». Resta folgorato. Non ha il coraggio di avvicinarla. Quando Tanja lo guarda, lui affonda il naso nel piatto. È lei ad abbordarlo, divertita dalla sua timidezza. Qualche settimana dopo gli dirà che in mezzo a quella gente disincantata e ben pasciuta, lui con i suoi jeans bianchi e la camicia rossa generosamente sbottonata sul petto abbronzato era l’unica persona viva. Tanja scoppia a ridere quando, nel far saltare il tappo di una bottiglia di champagne, Eduard rompe alcuni bicchieri veneziani. Che lui sia un poeta non ha di per sé niente di straordinario – il mondo è pieno di poeti –, ma quando, su richiesta di Tanja, recita una delle sue poesie, la ragazza sgrana tanto d’occhi. Anche lei, spronata da Viktor, ha scritto dei versi: sono brutti ma Eduard non glielo dice. Non le dice nemmeno che trova ridicolo il suo barboncino. Mentre i due parlano, ridono e ingozzano di caviale il barboncino medesimo, Viktor e altri personaggi importanti suoi coetanei confrontano i propri privilegi e se ne rallegrano rumorosamente l’uno con l’altro. Al momento di andarsene, Viktor chiede a Tanja – con il tono del padre che va a prendere la figlia all’asilo – se si sia divertita. Sapgir, più sagace, ha osservato i due ragazzi con la coda dell’occhio, e prende da parte Eduard: «Non fare cazzate» gli dice. «Non è una per te».


 

All’inizio dell’estate Viktor va in Polonia per una serie di conferenze sull’alta missione dell’arte socialista e l’amicizia fra i popoli. E a Eduard capita un colpo di fortuna: certi suoi amici partono per la dacia e gli lasciano in custodia un appartamento di tre stanze, in pieno centro.

Sarà Tanja, per curiosità, a portarselo a letto, non l’inverso, e la prima volta non sarà granché; con il tempo Eduard si rifarà, ma fino ai ventisette anni la sua vita sessuale non è stata certo esaltante: alle scopatelle di Saltov sono seguiti sei anni di monogamia con una donna che in realtà non lo eccita ed è più una compagna di sopravvivenza che un’amante. Per Eduard, Tanja è un’extraterrestre: il corpo esile da ragazza ricca, la pelle incredibilmente liscia, senza una sola protuberanza, senza una chiazza rossa, senza una piega. È quello che ha sognato per tutta la vita, ma non era sicuro che esistesse. Ora che la tiene fra le braccia, lei dev’essere sua, e mai più di nessun altro. Purtroppo, però, capisce presto che Tanja non la vede affatto allo stesso modo: lei ha approfittato dell’assenza di Viktor per andare a letto con quel ragazzo muscoloso, pieno di energia, insieme timido e sfrontato, ma nell’ambiente in cui vive andare a letto con qualcuno non significa niente. Tutti vanno più o meno a letto con tutti, e il giovane poeta – Tanja non vede perché mai dovrebbe tenerglielo nascosto – non è l’unico ad andarle a genio: c’è anche un attore piuttosto noto, assiduo di quella cricca di privilegiati che bevono champagne e si spostano in Mercedes.

 

Rimasto senza notizie di Tanja, nei giorni seguenti Eduard si arrovella, poi una sera non ce la fa più e va da lei. Suona alla porta con il cuore in gola. Nessuno. Decide di aspettare sul pianerottolo. È estate, il palazzo, abitato da membri della nomenklatura, è deserto, non ci sono vicini sospettosi a chiedergli che cosa faccia lì. Un’ora, due ore, passa tutta la notte. Eduard si addormenta, con la fronte sulle ginocchia, svegliandosi ogni tanto di soprassalto. Poco prima dell’alba sente la risata di Tanja nella hall, tre piani più in basso, e di rimando la risata di un uomo.

Si nasconde al piano di sopra, e da lì vede l’ascensore fermarsi e uscirne, ancora ridendo, Tanja, in compagnia del noto attore che la bacia appassionatamente sulla bocca prima di entrare in casa con lei. Eduard soffre, gli sembra di non aver mai sofferto tanto in vita sua. Per un ragazzo di Saltov, l’unico modo per porre termine a una tale sofferenza è fare ciò che non ha avuto l’occasione di fare dieci anni prima con Sveta e quello stronzo di Šurik: ucciderli tutti e due, lei e il suo amante. Eduard ha ancora con sé il coltello. Lo estrae, scende al piano di sotto, suona di nuovo. Nessuna risposta. Non avranno mica avuto il tempo di mettersi a scopare. Eduard scampanella, poi comincia a menare alla porta colpi minacciosi, come fanno i èekisti quando vanno ad arrestare le persone di notte. I tempi saranno anche diventati vegetariani, ma Tanja si spaventa. Eduard la sente avvicinarsi dal fondo dell’appartamento. La ragazza chiede chi è con voce stravolta. «Eddy?» scoppia a ridere, sollevata. «Sei pazzo! Hai visto che ore sono?». Si rifiuta di farlo entrare, lo prega di andarsene, prima in tono gentile, poi in tono meno gentile. Che problema c’è? Eduard si taglia le vene sul pianerottolo. Dovranno pur aprire la porta per occuparsi di lui. Nella cucina dove lo hanno trasportato, il barboncino lecca alacremente il sangue che gli cola dal polso.

 

 

Un’altra avrebbe rotto seduta stante. Non Tanja, la quale, più che impaurita da questa sceneggiata, è colpita dall’amore del giovane poeta. Nel suo ambiente nessuno è capace di amare in quel modo: selvaggiamente, con intransigenza. Eduard prende tutto troppo sul serio, ma paragonati a lui gli uomini che conosce le sembrano tiepidi. Inoltre, superato il turbamento iniziale, Eduard si rivela un amante notevole, e i due passano l’estate a scopare in tutte le posizioni e in tutti i buchi, sicché presto Tanja finisce per aspettare i loro incontri con la stessa impazienza di Eduard. Quando Viktor torna dalla Polonia, si incontrano nell’appartamento di cui Eduard ha il compito di innaffiare le piante. A Mosca l’estate è torrida. Eduard e Tanja restano nudi tutto il pomeriggio, fanno la doccia insieme, si eccitano guardando negli specchi il corpo abbronzato di lui e quello bianchissimo di lei. A fine agosto i proprietari tornano dalla dacia e i due devono sloggiare ma, nuovo colpo di fortuna, un’amica cerca qualcuno a cui subaffittare la sua stanza di nove metri quadrati – un capitale che, pur costretta a trasferirsi, non intende certo mollare –, e quella stanza si trova a cinque minuti da casa di Tanja e Viktor, dall’altro lato del convento di Novodevièij. Per Eduard è un segno del destino, così, quando anche Anna rientra dalla Lettonia, fa qualcosa che di solito aborre: mente. Le dice che la stanza che occupavano prima dell’estate non è più libera, che nell’attesa di trovare qualcosa di meglio dorme sul divano in casa di amici dove non c’è posto per due, e che, sempre nell’attesa, le ha trovato un altro divano libero da altri amici.

Potrebbe parlarle, dirle che si è innamorato di un’altra. Dovrebbe farlo, la menzogna gli pesa, ma non osa: ha paura della reazione di Anna, della sua follia, di darle il colpo di grazia. Anna però sembra in forma, serena; l’estate sul Baltico le ha fatto bene. Ma Eduard la trova cambiata, e non solo perché sta meglio. Quando vanno a letto insieme, ha la conferma della sua impressione: i gesti di lei non sono più gli stessi. Pur essendo innamorato di un’altra, Eduard ne è turbato. Il mattino dopo, mentre Anna dorme ancora, fruga nella sua valigia e scopre un quaderno in cui lei ha annotato i suoi pensieri. Parla della natura, del mare, dei fiori, della sua nuova vocazione di pittrice – e poi, improvvisamente, rivela la sua folle passione sensuale per il padre di Dagmar, il vecchio pittore con la barba che somiglia a un fauno. Eduard è sconvolto, pazzo di gelosia. Intanto Anna si è svegliata e va e viene nella camera: com’è tranquilla, questa donna falsa e infedele! Come sembra avere la coscienza pulita!

Eduard non dice nulla ma la convince a tornare a Char’kov per un po’, giusto il tempo che lui trovi una stanza adatta a loro due. Il giorno dopo accompagna Anna alla stazione, senza smettere un istante di pensare al suo grasso corpo sformato penetrato dal vecchio corpo nodoso del pittore, e non si calma neanche all’idea che lui, Eduard, possiede l’esile corpo di quella ragazza ricca – pur sapendo perfettamente che non lo possiede affatto, e che Tanja lo usa come le pare senza preoccuparsi di lui. Eduard soffre. Compra ad Anna qualche provvista per il viaggio, l’aiuta a sistemarsi comodamente. Si tratta, in teoria, di una separazione temporanea, ma lui sa che in realtà è finita. Anna non tornerà più a Mosca.

 

 

Per tutto l’autunno Eduard è divorato dalla passione per Tanja. Insieme fanno lunghe passeggiate nel cimitero di Novodevièij – meta obbligata di pellegrinaggio letterario per i cultori di Èechov e degli altri autori barbuti del diciannovesimo secolo. Davanti alle loro tombe Tanja, visto che ama un poeta, ritiene opportuno mostrare un atteggiamento raccolto e riflessivo, ma lui, che è glabro, giovane e pieno di vita, e non è attratto né dai pellegrinaggi letterari né dai barbuti del diciannovesimo secolo, la scandalizza deliziosamente mettendole una mano sul culo. Il barboncino che ha bevuto il sangue di Eduard li segue trotterellando ed emette guaiti lamentosi mentre loro due scopano sul letto a una piazza della stanzetta di kommunalka. Tanja gode rumorosamente. La babuška della stanza accanto lancia loro strizzatine d’occhio ammiccanti. «Si vede subito» dice a Eduard «che quella non è del tuo ambiente, ma si vede pure che tu hai quel che ci vuole nei pantaloni. Secondo me le fai dei giochetti che i suoi amici ricconi non sanno neanche che esistono». A Eduard piace molto la babuška, e anche la parte del proletario con il cazzo grosso che fa impazzire di piacere la principessa e di gelosia i suoi spasimanti del bel mondo. Tutti sono innamorati di Tanja, ma lei ama Eduard, ed è per lui che quell’inverno decide di lasciare Viktor. È lui che sposa, in chiesa. È con lui che accetta di vivere poveramente in una stanzetta, qualche volta in appartamenti concessi in prestito.

 

 

Eduard ha vinto. Tutti lo invidiano: il piccolo mondo dell’ underground dove non si sono mai viste donne così belle e sofisticate, e i ricchi a cui lo sfrontato poeta in jeans bianchi ha rapito la principessa. Per alcune stagioni Eduard e Tanja regnano sulla bohème moscovita. Se attorno al 1970, nel più tetro grigiore dell’era breneviana, c’è stato in Unione Sovietica qualcosa di simile al glamour, ebbene Eduard e Tanja ne sono stati l’incarnazione. C’è una foto in cui si vede Eduard in piedi, con i capelli lunghi, trionfante, e con addosso quella che lui chiama la sua «giacca da eroe nazionale» – un patchwork di centoquattordici pezzi variopinti che ha cucito lui stesso –, e ai suoi piedi Tanja, nuda, incantevole, gracile, con quei suoi piccoli seni sodi e leggeri che lo facevano impazzire. Quella foto Eduard l’ha sempre conservata, se l’è portata dietro dappertutto, e l’ha appesa come un’icona alla parete di ogni suo alloggio di fortuna. Quella foto è il suo talismano. Quella foto dice che, qualsiasi cosa accada, per quanto in basso possa cadere, un giorno lui è stato quell’uomo. E ha avuto quella donna.

 

5

 

Vite parallele di uomini illustri: Aleksandr Solenicyn e Eduard Limonov hanno lasciato entrambi il paese nella primavera del 1974, ma la partenza del primo ha suscitato nel mondo molto più clamore. Dopo la caduta di Chrušèëv, fra il potere e il profeta di Rjazan’ era ormai guerra aperta. Per una contraddizione tipicamente sovietica, Solenicyn era considerato lo scrittore più importante del suo tempo, ma di fatto era vietato pubblicarlo. Poche storie sono belle come quella di quest’uomo solo, medioevale, contadino, scampato al cancro e al gulag, sorretto dalla certezza che prima di morire riuscirà ad assistere al trionfo della verità, perché quelli che mentono hanno paura, e lui no. Quest’uomo che, quando i suoi colleghi ne votano l’espulsione dalla loro Unione perché, tra l’altro, è «assente dalle sue opere il tema dell’amicizia fra gli scrittori», è capace di rispondere pacatamente: «La letteratura ufficiale, le riviste, i romanzi pubblicati, io li considero semplicemente inesistenti. Certo, anche da quel terreno possono nascere talenti (ce ne sono), ma sono condannati a morire perché quel terreno non è fertile, poiché lì ci si adatta a non dire la verità capitale, quella che balza agli occhi senza bisogno della letteratura». La verità capitale è naturalmente il gulag, e anche che il gulag è esistito prima di Stalin ed esiste dopo di lui, che il gulag non è una malattia del sistema sovietico ma la sua essenza e addirittura il suo scopo. Solenicyn ha passato dieci anni a raccogliere in segreto le testimonianze di duecentoventisette ex zek – occultando i manoscritti riempiti della sua minuta grafia e ricavandone microfilm da far passare clandestinamente in Occidente –, a erigere quel monumento, Arcipelago Gulag, che viene pubblicato in Francia e negli Stati Uniti all’inizio del 1974, e di cui Radio Liberté inizia a trasmettere la lettura.

L’uomo che ha appena assunto la guida del KGB, Jurij Andropov, capisce che quel libro è per il regime una bomba più pericolosa di tutto l’arsenale nucleare americano, e decide di convocare d’urgenza il Politburo. Il verbale di questa riunione di crisi sarà reso pubblico nel 1992, quando Boris El’cin desecreterà gli archivi: si tratta di una vera e propria opera teatrale, che meriterebbe di essere messa in scena. Brenev, che già non è più quello di una volta, non si rende ben conto del pericolo. È favorevole, naturalmente, a denunciare come propaganda borghese quell’attacco «contro tutto ciò che abbiamo di più sacro», ma in fin dei conti sarebbe incline a lasciar correre: la cosa si sistemerà da sola, com’è accaduto con le proteste contro l’invasione della Cecoslovacchia. Podgornyj, il presidente del presidium, non condivide il suo fatalismo. Schiuma di rabbia e si rammarica perché il sistema si è rammollito al punto da non prendere neanche in considerazione la soluzione di buon senso: una pallottola alla nuca. Non si fanno mica problemi, in Cile; d’accordo, sotto Stalin forse si è esagerato un po’, ma ora si esagera in senso opposto. Più diplomatico, Kosygin propone il confino oltre il Circolo Polare Artico. Durante queste tirate, sembra di sentire sospirare Andropov, sembra di vederlo alzare gli occhi al cielo. Alla fine, il capo del KGB prende la parola: «Tutto ciò è assai ben detto, miei cari amici, ma adesso è troppo tardi. Il colpo alla nuca, bisognava spararglielo dieci anni fa. Ora il mondo intero ci guarda e a Solenicyn non possiamo torcere un capello. No. L’unica carta che ci resta da giocare è l’espulsione».

 

 

Tutto è grandioso nel destino di Solenicyn, il quale, due giorni dopo questa riunione, viene caricato di peso su un aereo diretto a Francoforte dove Willy Brandt lo accoglie come un capo di Stato. Il che dimostra però (ed era questo il cruccio, fondato, dell’irruente Podgornyj) che il sistema sovietico aveva perso il piacere e la forza di fare paura, mostrava i denti ma senza più crederci davvero, e invece di perseguitare i ribelli preferiva mandarli al diavolo. Al diavolo significava in Israele, destinazione per la quale in quegli anni si sono cominciati a rilasciare passaporti con grande prodigalità. Per beneficiarne, bisognava in teoria essere ebrei, ma le autorità non andavano tanto per il sottile e tendevano a considerare una specie di ebreo ogni rompiscatole conclamato – il che permetteva di accogliere la candidatura di Limonov.

Quando l’ho interrogato sulle circostanze della sua partenza, Limonov mi ha parlato di una convocazione alla Lubjanka, la sede moscovita del KGB: edificio quanto mai sinistro, in cui si entrava senza avere la certezza di uscirne; il solo nome bastava a far impallidire chiunque, ma non lui. Limonov dice di esserci andato con le mani in tasca e quasi fischiettando; suo padre lavorava in ditta, e i èekisti non erano poi così cattivi come i dissidenti volevano fare credere: erano funzionari bonaccioni e sonnacchiosi, e bastava una battuta azzeccata per farseli amici. Limonov racconta anche di aver conosciuto, tramite uno del suo giro che era all’università con lei, nientemeno che la figlia di Andropov, una ragazza tra l’altro piuttosto carina, che lui ha fatto ridere un’intera serata, corteggiandola un po’ e infine sfidandola: sarebbe stata capace di convincere il paparino a dare un’occhiata al dossier del poeta Savenko-Limonov? Lei ha accettato la sfida con spavalderia e qualche giorno dopo – ma come sapere se è la verità o se lo stava prendendo in giro? – è tornata con questo verdetto: «Elemento antisociale, fermamente antisovietico».

Certo è che, al contrario di altri elementi antisociali e antisovietici come Brodskij o Solenicyn, che sono stati costretti a partire e avrebbero dato un braccio pur di non abbandonare la terra e la lingua natali, Eduard e Tanja volevano emigrare. Eduard perché, secondo uno schema che abbiamo imparato a conoscere, era convinto di aver esaurito in quei sette anni l’esperienza dell’underground moscovita, così come nei sette anni precedenti aveva esaurito quella dei decadenti di Char’kov; Tanja perché aveva la testa imbottita di riviste straniere, star e indossatrici famose, e pensava: «Perché non io?».

 

 

Qualche volta Tanja portava Eduard da una signora molto anziana, che era la prozia di una sua amica e si chiamava Lili Brik. Una leggenda vivente, diceva la ragazza con rispetto, perché da giovane Lili Brik era stata la musa di Majakovskij, e in Francia sua sorella era diventata, con il nome di Elsa Triolet, quella di Aragon – ma per Eduard rimaneva un mistero come quelle due donnine tozze e brutte fossero riuscite a prendere all’amo uomini di tal calibro.

Le visite a Lili Brik lo indisponevano. L’unica leggenda vivente che gli interessi è lui stesso, e non gli piacciono né il passato né gli appartamenti, così caratteristici, della vecchia intelligencija russa, zeppi di libri e di quadri, di samovar, di tappeti e di medicine che la polvere ha incollato sui comò. Quello che gli ci vuole sono una sedia e un materasso, ed è già tanto, siamo agli ozi di Capua: in campagna, basta un buon cappotto. Ma Tanja insisteva, perché le piacevano le celebrità, e l’ottuagenaria Lili la adulava spudoratamente, decantandone la bellezza a più non posso: non appena l’Occidente l’avesse vista sarebbe caduto ai suoi piedi. Se i due giovani fossero andati a Parigi, sarebbero dovuti passare da Aragon e, se fossero andati a New York, dalla sua vecchia amica Tat’jana, che era stata anche lei, nei tempi andati, amante di Majakovskij, e ora era la regina della vita mondana di Manhattan. A ogni visita, Lili Brik mostrava a Tanja un braccialetto d’argento bello e pesante che le aveva regalato Majakovskij. Lo faceva ruotare e scivolare sul suo vecchio polso rinsecchito, sorridendole: «Quando sarò morta, lo porterai tu, mia cara. Te lo regalerò il giorno prima della tua partenza».

 

 

Per noi che andiamo e veniamo prendendo aerei come e quanto ci pare è difficile capire che per un cittadino sovietico la parola «emigrare» indicava un viaggio senza ritorno; è difficile capire queste parole, semplici come un colpo di scure: «per sempre». Non sto parlando dei transfughi, di artisti come Nureev e Baryšnikov che approfittavano di una tournée all’estero per chiedere asilo politico: quelli di cui in Occidente si diceva che avevano «scelto la libertà» e che sulla «Pravda» venivano bollati come «traditori della patria». Parlo di quelli che emigravano legalmente. Per quanto difficile, negli anni Settanta non era impossibile, ma chi presentava domanda sapeva che, se fosse stata accolta, non sarebbe mai più potuto tornare in Unione Sovietica. Neanche di passaggio, neanche per una breve visita, neanche per un bacio alla madre morente. Era una scelta ardua, e infatti non erano molti quelli che decidevano di partire, cosa che probabilmente il potere si aspettava quando aveva aperto quella valvola di sfogo.

Gli ultimi giorni erano strazianti. Ridere con un amico, sedersi sotto un tiglio, prendere la scala mobile tra gli sfarzosi lampadari della fermata del metrò Kropotkinskaja e uscire all’aria aperta, in mezzo alle bancarelle dei fiorai, nel profumo della primavera di Mosca: tutti gesti ripetuti migliaia di volte senza badarci e che ora ci si accorgeva con una sorta di stupore di compiere per l’ultima volta. Ogni particella di quel mondo così familiare sarebbe divenuta presto, e per sempre, irraggiungibile: ricordo, pagina voltata che non si potrà rileggere mai più, motivo di incurabile nostalgia. Abbandonare quella vita, la vita conosciuta di sempre, per un’altra da cui si sperava molto ma di cui non si sapeva quasi nulla, era come morire. E quelli che restavano, se non vi maledicevano, si sforzavano di mostrarsi gioiosi, ma lo erano allo stesso modo dei credenti che accompagnano i congiunti fin sulla soglia di un mondo migliore. Dovevano rallegrarsi perché laggiù i loro cari sarebbero stati più felici che qui? O piangere perché non li avrebbero rivisti mai più? Nel dubbio, si beveva. Alcuni di quei brindisi di addio si sono trasformati in zapoj così convulsi che gli aspiranti alla partenza ne riemergevano, stravolti, solo quando l’aereo era già decollato. Non ci sarebbe stata un’altra occasione, la porta si era richiusa per non aprirsi mai più, non restava che bere un altro goccetto, senza sapere se lo si faceva per annegare una disperazione ormai irreparabile o, come ripetevano gli amici con grandi pacche sulle spalle, per ringraziare il cielo di averla scampata bella. «Si sta meglio qui, no? Tutti insieme. A casa».

 

 

Pur essendo assai poco sentimentale e guardando con grande fiducia al radioso futuro che li attendeva entrambi in America, anche lui dev’essersi sentito strappare il cuore dal petto. Immagino che abbia accompagnato Tanja a salutare per l’ultima volta la sua famiglia – una famiglia di militari, ma di grado molto più elevato di quella di Eduard –, so per certo, a ogni modo, che lei è andata in treno con Eduard a Char’kov dove ha conosciuto non soltanto Veniamin e Raisa – sbalorditi dall’audacia del figlio e sgomenti all’idea di perderlo – ma anche Anna che, informata dai vicini del ritorno lampo dell’ex compagno, si è presentata a casa dei Savenko dove si è prodotta in una scena isterica degna della migliore tradizione dostoevskijana: gettatasi ai piedi dell’attraente giovane donna che le ha rubato la sua piccola canaglia, le ha baciato le mani piangendo e ripetendo che era una ragazza bella, buona, nobile, che era tutto ciò che avevano di più caro Dio e gli angeli, mentre lei, Anna Jakovlevna, era una povera ebrea grassa, brutta e perduta, indegna di vivere e di sfiorarle l’orlo del vestito. Per non essere da meno, e forse ricordandosi del gesto di Nastas’ja Filíppovna nell’Idiota, Tanja ha rialzato la sventurata, l’ha baciata con passione e per finire si è sfilata dal polso con mossa teatrale un bellissimo braccialetto – una gioia di famiglia – insistendo perché Anna lo tenesse in suo ricordo. E, al culmine dell’esaltazione: «Prega per me, cara, carissima! Promettimi che pregherai per me!».

Sul treno che li riportava a Mosca, mentre sulla banchina andavano rimpicciolendo le povere figure già curve dei suoi genitori che agitavano i fazzoletti, sicuri di non rivedere mai più il loro unico figlio, a Eduard è balenata l’idea che se Tanja si era concessa il lusso di regalare il suo bel bracciale a quella pazza di Anna è perché conta su un altro, ancora più bello. Il giorno prima della partenza, Eduard e Tanja passano a salutare Lili Brik. Certo, la vecchia fornisce loro le lettere di presentazione promesse («Ti affido» scrive alla ex rivale Tat’jana «due ragazzi meravigliosi. Abbine cura. Sii la loro fata buona»), ma per la prima volta da quando vanno a trovarla non ha al polso il costoso braccialetto, e durante tutta la visita non ne fa mai cenno.

 

III
NEW YORK, 1975-1980

 

 

1

 

Un francese che veda New York per la prima volta non rimane stupito, caso mai si stupisce del fatto che la città somigli così tanto a quella che ha visto nei film. Per Eduard e Tanja, figli della Guerra Fredda e di un paese in cui i film americani sono proibiti, è tutto nuovo e meraviglioso: il vapore che esce dalle bocche d’aerazione; le scale di metallo appese come ragnatele alle mura dei palazzi anneriti; le insegne luminose che si accavallano su Broadway; lo skyline visto da un prato di Central Park; il movimento incessante; le sirene della polizia; i taxi gialli e i lustrascarpe neri; la gente che cammina per strada parlando da sola, senza che nessuno intervenga per farla smettere. Passare da Mosca a New York è come passare da un film in bianco e nero a un film a colori.

I primi giorni, Eduard e Tanja si fanno a piedi tutta Manhattan, tenendosi per mano o per la vita, si guardano attorno e in alto con avidità, poi si guardano l’un l’altro, scoppiando a ridere e baciandosi più avidamente ancora. Hanno comprato una piantina della città in una libreria come non ne avevano mai viste prima: invece di essere custoditi sotto chiave dietro il bancone, come i bottoni in una merceria, i libri sono a portata di mano. Si possono aprire, sfogliare, e persino leggere senza essere costretti a comprarli. La piantina, poi, li sbalordisce per la sua precisione: se indica che nella seconda strada a destra c’è Saint Mark’s Place, be’, lì c’è davvero Saint Mark’s Place, cosa inimmaginabile in Unione Sovietica dove le piantine, quando se ne trovano, sono immancabilmente sbagliate, o perché risalgono all’ultima guerra, o perché anticipano grandi opere pubbliche e mostrano la città come si spera sia tra quindici anni, o semplicemente perché mirano a disorientare il turista, sempre più o meno sospetto di essere una spia. Eduard e Tanja passeggiano, entrano in negozi che vendono vestiti a prezzi spropositati, nei diners, nei fast-food, in cinemini dove si proiettano due film di seguito, a volte pornografici, e anche questo li manda in estasi. Nel posto accanto a lui Tanja è tutta bagnata, glielo dice, e lui la masturba. Quando si riaccendono le luci, scoprono un pubblico di uomini soli che probabilmente i gemiti di Tanja hanno eccitato più del film. Eduard si gonfia di orgoglio, perché ha una donna tanto bella, perché è invidiato da quei poveracci e perché non è capitato in quel posto spinto come loro dalla miseria sessuale ma attratto da esperienze singolari ed esotiche, come si conviene a un autentico libertino.

Quando hanno lasciato Mosca, Tanja sapeva giusto qualche parola di inglese, Eduard neanche quella, lui sa leggere solo l’alfabeto cirillico, ma nei due mesi che hanno trascorso a Vienna, in un centro di transito per emigranti dove toccava giocare continuamente d’astuzia per non ritrovarsi nella fila in partenza per Israele, ne hanno imparato i rudimenti, e ora masticano il broken english che di fatto basta e avanza per moltissimi degli stranieri che vivono a New York. E poi sono belli, giovani, innamorati, la gente ha voglia di sorridergli e di aiutarli. Quando camminano abbracciati per una strada innevata del Greenwich Village, sanno di assomigliare a Bob Dylan e alla sua ragazza sulla copertina del disco che contiene Blowin’ in the Wind. A Char’kov, quel disco era il tesoro più prezioso della collezione di Kadik. Vista la cura con cui lo conservava, forse Kadik ce l’ha ancora e qualche volta, di ritorno dalla fabbrica Pistone, lo ascolta di nascosto da Lidija. Penserà al suo audace amico Eddy che se n’è andato al di là dell’oceano? Ovvio che ci pensa, e ci penserà tutta la vita, con ammirazione e amarezza. Povero Kadik, pensa Eduard, e più pensa a Kadik e a tutti quelli che si è lasciato alle spalle, a Saltov, a Char’kov e a Mosca, più ringrazia il cielo di essere se stesso.

Lui e Tanja hanno due indirizzi: quello di Tat’jana Liberman, l’amica ed ex rivale di Lili Brik, e quello di Brodskij, che nel piccolo mondo dell’underground moscovita viene dato a mo’ di viatico a tutti gli emigranti diretti a New York, come a un povero contadino della Bretagna o dell’Alvernia che va in cerca di fortuna a Parigi viene dato l’indirizzo di un cugino che pare ce l’abbia fatta. Perché Brodskij, espulso tre anni prima, è diventato l’idolo dell’alta nomenklatura intellettuale dell’Occidente, da Octavio Paz a Susan Sontag. Si è speso molto per aprire gli occhi dei suoi nuovi amici — per la maggior parte ancora compagni di strada dei partiti comunisti nei rispettivi paesi – sulla realtà del regime sovietico, e la sua posizione non è stata scalfita neanche dall’arrivo in pompa magna di Solenicyn, perché Solenicyn è una compagnia ingrata, mentre Brodskij, dietro la sua aria da studioso con la testa fra le nuvole, si è rivelato il reuccio delle chiacchierate sulla poesia e dell’amicizia con i grandi della terra. L’intervista a Brodskij è diventata, come quella a Borges, un vero e proprio genere letterario. Il leggendario ristorante Russian Samovar della Cinquantaduesima Strada, a Manhattan, vanta ancora oggi il suo patrocinio. Gli esuli russi di New York lo chiamano in segno di rispetto naèal’nik, capo – come, detto per inciso, i èekisti chiamavano Stalin.

Al telefono Brodskij non ricordava bene chi fosse questo Eduard – gliene mandano tanti, di russi che non parlano nemmeno inglese… –, ma gli ha dato appuntamento in una sala da tè dell’East Village, un luogo accogliente, con luci soffuse, che aspira a uno charme mitteleuropeo ed è propizio alle lunghe discussioni sulla letteratura, del tipo ti piace di più Dostoevskij o Tolstoj, la Achmatova o la Cvetaeva, che costituiscono il passatempo preferito di Brodskij. È, come gli appartamenti dei vecchi intellettuali moscoviti, proprio il genere di posto che il nostro Limonov odia, e la cosa peggiora quando scopre che non servono alcol. Per fortuna Tanja è venuta con lui. A Brodskij piacciono le belle donne, lei fa di tutto per sedurlo – senza sforzarsi, ammetterà poi – e i due cominciano a parlare in modo sempre più rilassato. Eduard, in disparte, osserva il poeta. I suoi capelli rossi arruffati tendono già al grigio, e lui fuma e tossisce molto. Si dice che sia piuttosto malmesso, che abbia problemi al cuore. Si stenta a credere che non abbia neanche quarant’anni, ne dimostra quindici di più, e, benché sia di poco più giovane, Eduard si sente destinato alla parte del ragazzo turbolento di fronte al vecchio saggio. Un vecchio saggio malizioso, del resto, cordiale, molto più alla mano che a Mosca, anche se dietro la bonarietà si intuisce la condiscendenza di un uomo di successo consapevole che, per quanto un’onda lasci il posto all’altra, i nuovi arrivati dovranno remare a lungo sulla loro scialuppa di salvataggio se vogliono rubargli il posto nella cabina di prima classe.

«L’America, sai, è una giungla» dice, rivolgendosi finalmente a Eduard questo nemico giurato dello stereotipo. «Per sopravvivere qui, bisogna avere la pelle dura. Io, ce l’ho. Tu, non ne sono sicuro». Vecchio coglione, pensa Eduard, continuando a sorridere amabilmente. Aspetta il seguito: le dritte, i contatti, e questi arrivano senza dover chiedere. Eduard ha bisogno di un lavoro per tirare avanti: dal momento che sa scrivere, vada a trovare Moisej Borodatych, il caporedattore del «Russkoe Delo», un quotidiano in russo per gli esuli. «Non è il tipo di giornale che esce con scoop sul Watergate,» ironizza Brodskij «ma ti permetterà di campare mentre impari l’inglese». E poi, se si presenterà l’occasione, porterà Eduard e Tanja dai suoi amici Liberman, dove potranno conoscere parecchia gente…

Come invito, è piuttosto vago; Eduard non resiste al piacere di dire che, per quanto riguarda i Liberman, lui e Tanja hanno già un contatto e anzi la settimana successiva parteciperanno a un party a casa loro. Una breve pausa, poi: «Allora ci vediamo lì» conclude allegramente Brodskij.

 

 

Il modo migliore per descrivere il party dei Liberman sarebbe raccontarlo come il ballo al castello della Vaubyessard in Madame Bovary, senza tralasciare un cucchiaino, né una fonte di luce. Vorrei saperlo fare, ma non ne sono capace. Diciamo soltanto che la scena ha luogo in un enorme penthouse dell’Upper East Side, che la lista degli invitati calibra in proporzioni ideali ricchezza, potere, bellezza, gloria e talento; insomma, che siamo fra le pagine mondane di «Vogue». Tanja e Eduard, che il maître fa subito entrare, pensano, lei, che lo scopo della sua vita è ormai farsi strada in quel mondo, lui, che quello della sua è ridurlo in cenere. Ciò non toglie che prima di ridurlo in cenere sia interessante vederlo da vicino e gratificante pensare di essere arrivati lì partendo da Saltov. A Saltov nessuno ha mai visto né vedrà mai un posto come quello. Nessuno tra gli invitati dei Liberman ha la più pallida idea di che cosa sia Saltov. Lui solo conosce entrambi i mondi, ed è questa la sua forza.

Si è appena entusiasmato per questo orgoglioso pensiero e già deve ricredersi, perché scorge al centro di uno dei salotti, al centro dell’attenzione, al centro di tutto – ovunque si trovi, quell’uomo è al centro – nientemeno che Rudol’f Nureev. Che scalogna: uno si sente un conquistatore mongolo la cui sola presenza – placida, bruna, crudele – non tarderà a evidenziare lo scialbore di tutte quelle persone squisitamente civili, e si trova davanti Nureev che, arrivato da un posto ancora più sperduto di Saltov, dai recessi fangosi di un villaggio della Baschiria, è assurto alle vette più alte e, fulgido e demoniaco, è la seduzione barbara fatta persona. Altri avrebbero cercato di avvicinarsi a Nureev e di incrociarne lo sguardo, è evidente che Tanja vorrebbe provarci. Non Eduard, che si allontana con aria torva, passa in un altro salotto e si rifugia in bagno, dove sono appesi alcuni disegni di Dalí con dedica a Tat’jana Liberman.

Ed eccola Tat’jana, che ora, con un’esuberanza slava appena sopra le righe, fa le feste ai due meravigliosi ragazzi. Non giovane, ma più giovane di Lili Brik e invecchiata infinitamente meglio, Tat’jana è emigrata al momento giusto, divenendo una delle più celebri bellezze della Francia degli anni Venti. Eccentrica, con bocchino e pettinatura alla Louise Brooks come nell’età del jazz e di Scott Fitzgerald, moglie di un aristocratico francese, vedova di guerra, si è risposata con un intraprendente ucraino, Alexs Liberman, che ha seguito a New York, dove lui è diventato direttore artistico delle edizioni Condé Nast, ossia di «Vogue» e «Vanity Fair», per citare solo le navi ammiraglie. Dal loro ponte di comando, da trent’anni Alexs e la moglie fanno e disfano le carriere di fotografi, modelle e persino artisti a priori estranei al mondo della moda. Sono loro che hanno costruito la carriera di Brodskij, confida Tat’jana ai giovani Limonov. Quando ha abbandonato l’URSS, il poverino ha avuto il buon senso di snobbare Israele ma ha accettato, seguendo non si sa quale consiglio idiota, l’invito dell’Università di Ann Arbor in cui ha rischiato di restare sepolto tutta la vita tra professori di letteratura russa che fumano la pipa e portano gilet fatti a maglia: spaventoso destino al quale i Liberman lo hanno strappato riportandolo a New York e presentandolo ai loro amici. «E ora, vedete…» dice Tat’jana indicandolo: arrivato per ultimo come sempre, come sempre con una vecchia giacca consunta e pantaloni flosci, spettinato, ostenta un’aria trasognata ma è comunque molto attento a quel che gli dice una ragazza immensa, ieratica, sontuosa, che, sussurra Tanja in estasi al marito, è l’indossatrice Veruschka. Incrociando lo sguardo della padrona di casa, il poeta le dedica, quasi le dedicasse un’elegia, un sorriso grato e commosso, leggermente servile pensa il crudele Eduard. Poi, riconoscendo al fianco di Tat’jana i due giovani russi, alza il calice verso di loro, come a dire: «Buona fortuna, ragazzi. Siete nel posto giusto, adesso dipende tutto da voi».

 

 

Non gli dispiacerebbe affatto, a quei due, essere presi sotto l’ala protettrice dei Liberman e, come Brodskij, introdotti nel jet set. La prospettiva di diventare frequentatori abituali di quelle residenze nobiliari attenua l’impulso iniziale di Eduard, che era quello di appiccarvi il fuoco. Un contratto da modella per Tanja, un libro di successo per lui, e il paternalista capitano Levitin avrà pane per i suoi denti.

In effetti, all’inizio le cose sembrano prendere la giusta piega. Ai Liberman piace tutto ciò che è russo, la gioventù, l’impudenza, e si incapricciano di Eduard e Tanja. In quella prima stagione li invitano ad altri party non meno sfarzosi, dove si incontrano Andy Warhol, Susan Sontag, Truman Capote, per non parlare dei congressmen di ogni fede politica. Un giorno Tat’jana presenta Tanja al grande fotografo Richard Avedon, che lascia alla ragazza il proprio biglietto da visita dicendole di chiamarlo; un altro giorno a Salvador Dalí che, in un inglese elementare quasi quanto il suo, le dice di essere rimasto affascinato da quel «delizioso scheletrino» (di fatto Tanja sembra quasi denutrita per quanto è magra) e che vorrebbe farle un ritratto, forse in coppia con Grace Jones. Un weekend i Liberman portano i due giovani, sui sedili posteriori dell’auto come fossero i loro figli, nella grande dimora che possiedono in Connecticut. Visitando lo studio in cui la figlia snob e depressa di Tat’jana si dedica alla letteratura, Eduard si domanda quali libri possano mai venire alla luce in quell’ambiente così calmo, così confortevole e, ai suoi occhi, così morto. Per scrivere cose interessanti, pensa Eduard, bisogna innanzitutto vivere cose interessanti: conoscere le avversità, la povertà, la guerra – ma sta bene attento a non dirlo, e va giudiziosamente in estasi per il paesaggio, l’arredamento, le marmellate servite a colazione. Lui e Tanja sono due giovani russi adorabili, due graziosi animali da compagnia, ed è ancora presto per uscire dal ruolo. Eduard se ne accorge quando azzarda un’osservazione sul gusto per i riconoscimenti che Brodskij nasconde dietro la sua aria da studioso sempre con la testa fra le nuvole. Tat’jana lo interrompe inarcando un sopracciglio: ha già superato il limite.

 

 

Al ritorno dalla campagna, i Liberman li riportano a casa in auto. Alexs si rallegra perché i Limonov vivono, come loro, sulla Lexington: «Allora siamo vicini» – ma gli uni abitano all’altezza della Quinta Avenue, gli altri al numero 233, all’estremità meridionale di Manhattan; fra le due zone c’è la stessa differenza che a Parigi tra l’avenue Foch e la Goutte d’Or. La coppia di vecchi ricchi insiste per vedere l’alloggio della coppia di giovani poveri e trova incantevoli la minuscola stanza che dà su un cortile buio e la cucina-bagno invasa da scarafaggi. Eppure finanche il suscettibile Eduard non trova indecenti i loro commenti. Incoraggianti, piuttosto, perché i Liberman hanno avuto inizi difficili, almeno Alexs, il quale sembra sincero – forse pensa alla sua malinconica figliastra – quando ripete: «Bene, bene. Così si deve cominciare. Da giovani bisogna lottare ed essere affamati, altrimenti non si conclude nulla».

Qualche giorno dopo fa recapitare loro un televisore perché possano migliorare più in fretta il loro inglese. Quando lo accendono, compare Solenicyn, ospite unico della puntata speciale di un talk show. Uno dei migliori ricordi della vita di Eduard è quello di avere inculato Tanja davanti alla televisione, alla faccia del profeta che arringava l’Occidente e ne stigmatizzava la decadenza.

 

2

 

Il «Russkoe Delo» è un quotidiano in russo fondato nel 1912, un po’ prima della «Pravda», con la quale potrebbe essere confuso tanto sono simili per formato e caratteri. I suoi uffici occupano un intero piano di un palazzo fatiscente, non lontano da Broadway, e benché questo magico nome faccia sognare Eduard fino dalla sua prima visita, sembra di stare in un tranquillo quartiere di una piccola città ucraina. Anche il mestiere di giornalista faceva sognare Eduard; pensava a Hemingway, a Henry Miller, a Jack London, che in quel mestiere hanno mosso i primi passi, ma, come gli ha detto Brodskij, il modo in cui viene praticato al «Russkoe Delo» non si può dire che sia eccitante. Il lavoro di Eduard consiste nel tradurre e stilare una sintesi degli articoli dei giornali newyorkesi destinata a lettori russi scarsamente esigenti circa la freschezza delle notizie, tanto più che le ricevono per abbonamento con tre giorni di ritardo. Oltre a questo surrogato di informazione, il sommario del giornale prevede un interminabile feuilleton intitolato «Il castello della principessa Tamara», ricette di cucina che sono più o meno tutte varianti della kaša, e soprattutto lettere o articoli (il confine non è tracciato in modo chiaro) di grafomani anticomunisti. I redattori sono vecchi ebrei che portano le bretelle e parlano un inglese stentato, pur essendo trapiantati a New York da quasi cinquant’anni dato che per la maggior parte sono emigrati subito dopo la rivoluzione, e il più anziano di loro ricorda persino, prima ancora, le visite di Trockij al giornale. Lev Davidoviè, racconta il vecchio a chi ha voglia di stare a sentirlo, abitava nel Bronx e tirava a campare tenendo conferenze sulla rivoluzione mondiale davanti a quattro gatti. I camerieri delle trattorie dove andava a mangiare lo odiavano, perché Trockij riteneva offensivo per la loro dignità lasciare mance. Nel 1917 acquistò mobili a rate per un totale di duecento dollari, poi scomparve senza lasciare un recapito, e quando la società di recupero crediti ne ritrovò le tracce era a capo dell’esercito del paese più grande del mondo.

Benché gli abbiano ripetuto per tutta la sua infanzia che Trockij era il nemico dell’umanità, Eduard va pazzo per quel destino spettacolare. Gli piace anche ascoltare Porfirij, un ucraino più giovane che ha cominciato la guerra nell’Armata Rossa, poi è passato con l’armata di Vlasov, cioè con i russi bianchi che combattevano al fianco dei nazisti, e l’ha terminata come guardia di un campo in Pomerania. Un piccolo stalag simpatico, precisa, non un campo di sterminio. Comunque ha ucciso degli uomini, e ne parla senza vantarsene. Un giorno Eduard gli confessa che non è sicuro di esserne capace. «Ma come no» lo rassicura Porfirij. «Quando non avrai altra scelta, lo farai, come tutti. Non preoccuparti».

 

 

L’atmosfera al «Russkoe Delo» è quieta, polverosa, molto russa. Caffè al mattino, tè molto zuccherato a tutte le ore e, più o meno un giorno sì e uno no, un compleanno che permette di tirare fuori i cetriolini marinati, la vodka e il cognac Napoléon, snobistica prerogativa dei linotipisti. Ci si chiama a vicenda «mio caro» e «Eduard Veniaminoviè», lungo come la Quaresima. È insomma un luogo caldo e rassicurante per chi è appena arrivato e non parla inglese, ma anche l’anticamera della fine in cui sono naufragate le aspettative di chi è venuto in America credendo che lo attendesse una vita nuova ed è rimasto impaniato in quell’accogliente tepore, in quei meschini battibecchi, in quelle nostalgie e in quelle vane speranze di un ritorno in patria. La bestia nera di tutti loro, più ancora dei bolscevichi, è Nabokov, non tanto perché Lolita li abbia scandalizzati (be’, un po’ sì), quanto perché Nabokov non scrive più romanzi di esuli per esuli, ha voltato le sue larghe spalle al loro piccolo mondo stantio. Per odio di classe e disprezzo nei confronti della letteratura per letterati, Eduard non ama certo Nabokov più di loro, ma per niente al mondo vorrebbe odiarlo per le loro stesse ragioni, né perdere il suo tempo fra quei muri che puzzano di morte e piscio di gatto.

 

 

Per farsi conoscere, uno scrittore può, grosso modo, scegliere tra inventare storie, raccontarne di vere o dare la propria opinione su come va il mondo. Eduard non ha nessuna fantasia, le cronache che cerca di piazzare sui delinquenti di Char’kov e l’underground moscovita non interessano a nessuno, e i versi, poi, men che meno. Rimane la carriera di polemista. L’assegnazione del premio Nobel per la pace a Sacharov offre a Eduard l’occasione per fare il suo esordio.

Da qualche anno il grande fisico, padre della bomba all’idrogeno sovietica, si è avvicinato alle posizioni dei dissidenti e si è schierato pubblicamente per il rispetto degli accordi di Helsinki, vale a dire dei diritti umani nel proprio paese. Non c’è testimonianza su Andrej Sacharov che non lo descriva come uomo di irreprensibile rigore intellettuale e di una integrità morale ai limiti della santità, e non c’è nessun motivo per non crederci, ma al punto in cui siamo arrivati non c’è più nemmeno nessun motivo di stupirsi che questo eroe senza macchia dia sui nervi a Eduard. Il quale si chiude in casa due giorni per spiegare, in tono rabbioso e brillante, che i dissidenti non hanno nessun rapporto con il popolo, rappresentano solo se stessi e, nel caso di Sacharov, gli interessi della propria casta, l’alta nomenklatura scientifica. Che se per caso arrivassero al potere, loro personalmente o i politici influenzati dalle loro idee, sarebbe una catastrofe molto peggiore dell’attuale burocrazia. Che la vita in Unione Sovietica è certamente grigia e noiosa, ma non è quel campo di concentramento che raccontano loro. E per finire che l’Occidente non è meglio dell’Unione Sovietica e che quanti la abbandonano, aizzati contro il proprio paese da quegli irresponsabili, sono vittime di una crudele presa in giro, perché la triste verità è che in America nessuno ha bisogno di loro.

Qui Eduard parla per se stesso: esprime i propri timori dopo sei mesi passati a marcire al «Russkoe Delo» e a fare la comparsa ai margini del jet set. La fiduciosa euforia dell’arrivo è evaporata, e non a caso il suo articolo si intitola «Disillusione». Viene rifiutato dal «New York Times» e da parecchi altri prestigiosi giornali – o meglio: il «New York Times» e gli altri prestigiosi giornali non ne accusano nemmeno ricevuta – e finisce per essere pubblicato su un’oscura rivista, più di due mesi dopo l’avvenimento che ne è stato lo spunto. Il che significa che passa inosservato presso il pubblico a cui mirava: gli editorialisti di punta e gli opinion maker newyorkesi. In compenso, mette in agitazione la ristretta cerchia degli esuli. Turba il dolce torpore del «Russkoe Delo». Anche quanti ammettono che l’analisi contiene una parte di verità ritengono inopportuno sbandierarla ai quattro venti: non si fa il gioco dei comunisti, in quel modo?

Un mattino il caporedattore Moisej Borodatych convoca Eduard. Con un indice tremante di indignazione gli mostra un giornale aperto sulla propria scrivania. Eduard si china: la sua foto occupa mezza pagina. È una vecchia foto, scattata a Mosca, anche se lo raffigura ai piedi di un grattacielo newyorkese. Il giornale, sovietico, è la «Komsomol’skaja Pravda» e, sotto il fotomontaggio, annuncia: «Il poeta Limonov dice tutta la verità su dissidenti ed esuli». Eduard scorre l’articolo, alza la testa con un sorriso un po’ seccato e un po’ rassegnato, cercando di prenderla sul ridere. Moisej Borodatych non la prende affatto sul ridere. Dopo un istante di silenzio, scandisce: «In giro si dice che tu sia un agente del KGB». Eduard fa spallucce: «È una domanda?». Esce dall’ufficio senza aspettare di essere messo alla porta.

 

 

Nelle avversità è una consolazione essere in due, ma Eduard e Tanja lo sono sempre di meno. Tanja gli sta sfuggendo. Persuasa dalle profezie di Lili Brik, ha creduto che sarebbe diventata una modella famosa, ma Alexs Liberman, che con una sola parola potrebbe aprirle le porte di «Vogue», quella parola non la pronuncia mai e si limita a complimentarsi per la sua bellezza in modo tanto galante da sembrare, alla lunga, un maniaco. I collaboratori di Avedon e di Dalí non la richiamano. Tanja scopre l’umiliante condizione di proletaria di lusso. Per presentarsi alle agenzie bisogna avere un book, e la giovane e bella sconosciuta che ha bisogno di un book è evidentemente preda del primo puttaniere che si spacci per fotografo. Sempre più spesso Tanja è fuori quando Eduard rincasa la sera. Gli telefona per dirgli di cenare senza di lei perché la seduta fotografica non è ancora terminata. Eduard sente della musica nella stanza da cui lei lo sta chiamando, le chiede se tornerà presto. «Sì, sì, presto». Presto significa raramente prima delle due o delle tre del mattino, e allora Tanja è stanca morta, si lamenta perché ha bevuto troppo champagne e sniffato troppa coca, con il tono irritato di chi dica: «Lavoro, io!». È inverno, in casa loro fa freddo. Tanja si corica con tutti i vestiti addosso e vuole che Eduard la tenga fra le braccia mentre si addormenta, ma non ha più la forza di fare l’amore. Russa e ha sempre il naso chiuso. Nel sonno, si disegnano sul suo volto piccoli spasmi di contrarietà. E lui resta sveglio fino all’alba a torturarsi pensando che non ha i mezzi per tenersi una donna così bella, che lei lo lascerà come lui ha lasciato Anna, perché sul mercato c’è di meglio. È inevitabile, è la regola, al suo posto lui farebbe lo stesso.

 

 

Eduard la interroga, lei svicola. Lui vuole parlare, lei sospira: «Ma di che cosa vuoi parlare?». Quando Eduard le confessa le sue inquietudini, Tanja gli risponde con un’alzata di spalle che è troppo serio: è quello il problema con lui. «Che cosa vuol dire “troppo serio”? Troppo innamorato di te?». No: vuol dire che non sa divertirsi. Che non sa godersi la vita. E mentre dice queste cose la sua bocca prende una piega così amara che Eduard la spinge davanti allo specchio del bagno e le dice: «Guardati. Ti stai godendo la vita, tu? Ti sembra di avere l’aria di una che si diverte?».

«Come vuoi che mi diverta con te?» risponde lei. «Mi fai sempre scenate. Mi interroghi come fossi uno del KGB».

Una scenata dopo l’altra, un interrogatorio dopo l’altro, Tanja finisce per sputare il rospo. Come tutte le donne in simili situazioni, cerca dapprima di dire il meno possibile – «che importanza può avere chi è?» –, ma Eduard non desiste finché non viene a sapere che l’altro si chiama Jean-Pierre. Francese, sì. Fotografo. Quarantacinque anni. Bello? Non proprio: calvo, con la barba. Un loft che dà su Spring Street. Non straricco, no, non una superstar della sua professione, ma a lui sta bene. Un adulto, insomma, non un piccolo straccione ucraino che accusa il mondo dei suoi fallimenti e non fa altro che tenere il broncio e piangere.

È così che adesso lo vede lei, e, infatti, Eduard piange. Eduard, l’osso duro, piange. Come nella canzone di Jacques Brel, è disposto a diventare l’ombra della sua mano, l’ombra del suo cane, purché Tanja non lo lasci. «Ma io non voglio lasciarti» dice lei, commossa dalla sua profonda sofferenza. Eduard si riprende: allora tutto andrà bene. Finché restano insieme, tutto andrà bene. Tanja può avere un amante, non è una cosa grave. Può fare la puttana: lui, Eduard, sarà il suo ruffiano. Sarà eccitante, un altro episodio eccitante fra i tanti della loro vita di avventurieri, libertini ma inseparabili. Eduard è entusiasta del patto, per festeggiarlo apre una bottiglia di champagne. Sollevata, Tanja sorride e dice sì, sì, evasiva.

 

 

Quella notte fanno l’amore e si addormentano stremati. Nei giorni successivi, Eduard, che non deve più andare in ufficio, ha una sola ossessione: restare chiuso in casa con lei, non uscire dal letto, non smettere di scoparla. Si sente al sicuro soltanto dentro di lei, è la sua unica terraferma. Attorno, sabbie mobili. L’erezione dura tre o quattro ore di fila, non gli serve neanche più il fallo di gomma che spesso dava il cambio al suo cazzo per assicurare a Tanja quegli interminabili orgasmi multipli che erano la gioia di entrambi. Eduard tiene il viso di Tanja fra le mani, la guarda, le chiede di tenere gli occhi aperti. Lei li spalanca, e lui ci vede amore, ma anche spavento. Dopo, Tanja, sfinita, stravolta, si gira sul fianco. Eduard vuole prenderla ancora. Lei lo respinge, con voce assonnata dice di no, non ce la fa più, le fa male la fica. Eduard precipita di nuovo in fondo a un pozzo, abbandonato. Si alza, va in quella specie di sgabuzzino che serve insieme da cucina, bagno e cesso. Sotto la lampadina gialla, si mette a frugare nel cesto della biancheria sporca e ne tira fuori uno slip di Tanja, lo annusa, lo gratta con un’unghia alla ricerca delle tracce di sperma dell’altro uomo. Si masturba con lo slip, a lungo, senza arrivare al piacere, poi torna a letto; le lenzuola puzzano di sudore, di angoscia e del pessimo vino che hanno rovesciato bevendo a canna. Appoggiato su un gomito, guarda il corpo raggomitolato, bianco e magro della donna che ama, i seni piccoli e appuntiti, i grossi calzini all’estremità delle sue lunghe cosce da rana. Tanja si lamenta perché ha una cattiva circolazione e i piedi sempre gelati. A Eduard piaceva, piaceva tanto prenderli fra le mani e strofinarli piano piano per riscaldarli. Quanto l’ha amata! Quanto l’ha trovata bella! È davvero così bella? Quella vecchia vipera, Lili Brik, non l’avrà presa crudelmente in giro facendole credere che in Occidente sarebbero caduti tutti ai suoi piedi? Una ragione dev’esserci se Alexs Liberman non fa niente per lei, se le agenzie non la richiamano, e la ragione balza agli occhi quando si guardano le foto del suo book. Una bella ragazza, certo, ma di una bellezza goffa, provinciale. Poteva abbagliare Mosca, ma Mosca è appunto la provincia. Quando ci si rende conto di questo, diventa patetico il contrasto fra le sue smorfie da femme fatale e la reale condizione di aspirante modella che non avrà mai successo e si fa sbattere da fotografi di terz’ordine. È una cosa che ora a Eduard sembra chiara, e vuole svegliare Tanja per dirgliela. Si prepara le frasi più crudeli, e più sono crudeli più gli sembrano lucide, Eduard ne ricava una gioia dolorosa e allo stesso tempo si sente invadere da un’immensa ondata di pietà, vede una ragazzina spaventata e infelice, vorrebbe proteggerla, riportarla a casa, da dove non sarebbero mai dovuti partire, e i suoi occhi si girano a guardare l’icona che come tutti i russi, anche miscredenti, lui e Tanja hanno appeso in un angolo di quella stanza squallida, perduta in terra straniera, e gli sembra che la Vergine, che tiene sul seno un Bambin Gesù dalla testa troppo grande, li fissi con aria triste, che le lacrime le scorrano sulle guance, e Eduard la supplica, senza crederci, di salvarli entrambi.

 

 

Tanja si sveglia, e l’inferno ricomincia. Lei vuole uscire, lui non vuole che esca, allora litigano, bevono, vengono alle mani. Quando ha bevuto Tanja diventa cattiva, e siccome è stato Eduard a chiederle di dirgli tutta la verità, di non nascondergli nulla, ebbene, allora lei non gli nasconderà nulla e gli dirà tutto quello che lo farà soffrire di più. Per esempio, che Jean-Pierre l’ha iniziata al sadomasochismo. Che si legano a vicenda, che Jean-Pierre le ha comprato un collare chiodato simile al collare di un cane e un fallo di gomma come il loro, ma ancora più grosso, che lei gli mette in culo. Questo particolare – il fallo di gomma che lei, Tanja, mette in culo a Jean-Pierre – fa perdere la testa a Eduard, che scaraventa Tanja sul letto e inizia a stringerle il collo. Sente le fragili vertebre di lei sotto le sue mani forti e nervose. All’inizio Tanja ride, lo sfida, poi il suo volto comincia a diventare rosso, la sua espressione passa dalla sfida all’incredulità, poi dall’incredulità al puro terrore. Tanja comincia a inarcarsi, a scalciare, ma lui la schiaccia con tutto il suo peso, e vede negli occhi di Tanja che lei ha capito ciò che sta per accaderle. Eduard stringe, stringe ancora, le nocche delle sue mani sul collo di Tanja diventano bianche, e lei si dibatte, cerca l’aria, vuole vivere. Il terrore e i sussulti del corpo di lei lo eccitano al punto da farlo eiaculare; e mentre il suo sesso si svuota con lunghe scosse, Eduard allenta la presa, apre le mani, le abbandona e si lascia cadere su di lei.

 

 

Molto tempo dopo ne riparleranno. Tanja gli dirà di essersi eccitata, ma di avere pensato che se lui ci avesse riprovato sarebbe andato fino in fondo, e per questo se n’è andata. «Avevi ragione» ammetterà lui. «Ci avrei riprovato, e sarei andato fino in fondo».

Un giorno, rincasando dopo aver fatto la spesa, Eduard trova gli armadi vuoti, ma non è sorpreso. Cerca qualche traccia di Tanja nei cassetti, sotto il letto, nella spazzatura, e deposita ciò che ha trovato – una calza smagliata, un tampax, foto venute male fatte a pezzi – ai piedi della loro icona. Accende una candela. Se avesse una macchina fotografica, scatterebbe una foto a quelle reliquie. Resta seduto lì davanti un momento, come fanno i russi, per una breve preghiera, prima di mettersi in viaggio.

Poi esce.

 

3

 

Lui che ricorda tutto, non ricorda nulla della settimana successiva. Deve aver vagato per le strade, essersi appostato sotto casa di Jean-Pierre, aver fatto a botte con lui o un altro – lo testimonia un occhio nero –, e soprattutto deve aver bevuto fino a perdere coscienza. Zapoj totale, zapoj kamikaze, zapoj extraterrestre. Sa che Tanja se n’è andata il 22 febbraio 1976 e che lui si è svegliato il 28 in una stanza dell’Hotel Winslow, con il buon Lënja Kosogor al capezzale.

 

 

I primi giorni non esce dalla stanza, e nemmeno dal letto. Troppo debole, troppo malconcio, e poi non saprebbe dove andare. Niente donna, niente lavoro, niente genitori, niente amici. La sua vita si è ridotta a quel perimetro, quattro passi in lunghezza, tre in larghezza, linoleum consunto, lenzuola cambiate ogni due settimane, odore di varechina che cerca di sovrastare il piscio e il vomito: proprio quello che ci vuole per uno come lui. Finora ha sempre creduto nella sua buona stella, ha sempre pensato che la sua vita avventurosa lo avrebbe condotto da qualche parte, che il film avrebbe avuto un lieto fine. «Lieto fine» significa che in un modo o nell’altro sarebbe diventato famoso, che il mondo avrebbe saputo chi era o, nel peggiore dei casi, chi era stato Eduard Limonov. Ora che Tanja se n’è andata, non ci crede più. Crede che la sudicia stanza in cui si ritrova non sia una scena fra le altre, ma l’ultima, quella cui portano tutte le precedenti. Fine della corsa, non resta che lasciarsi andare. Bere il brodo di pollo che gli prepara il buon Lënja Kosogor. Dormire, sperare di non svegliarsi.

 

 

L’Hotel Winslow è un rifugio per i russi, soprattutto ebrei, che appartengono come lui alla «terza emigrazione», quella degli anni Settanta. Eduard è in grado di riconoscerli per strada, anche di spalle, dalla stanchezza e dall’infelicità che emanano. A loro pensava quando ha scritto l’articolo che gli ha fatto perdere il posto. A Mosca o a Leningrado erano poeti, pittori, musicisti, under di valore che se ne stavano al caldo nelle cucine, e ora, a New York, fanno i lavapiatti, gli imbianchini, i traslocatori, e per quanto si affannino a credere ancora ciò che credevano all’inizio – che è una situazione provvisoria e che un giorno i loro veri talenti saranno riconosciuti – sanno bene che non è così. Allora, sempre tra loro e sempre in russo, si ubriacano, recriminano, parlano della patria, sognano di avere il permesso di ritornarvi, ma non avranno mai il permesso di ritornarvi e moriranno lì, in trappola e beffati dal destino.

C’è un russo di quel genere, al Winslow. Ogni volta che va a trovarlo per farsi un goccetto o scroccargli un dollaro, Eduard ha l’impressione che ci sia un cane in camera sua, perché c’è puzza di cane, e che in qualche angolo ci siano degli ossi rosicchiati e persino merde di cane sul pavimento, e invece no, quello non ce l’ha un cane, non ha nemmeno un cane, è solo da morire, e non fa altro che rileggere da mattina a sera le poche lettere ricevute dalla madre. Ce n’è un altro che scrive a macchina tutto il santo giorno, senza mai pubblicare nulla, e vive nel terrore che i vicini vogliano soffiargli la stanza. È inutile spiegargli che questa è una fissazione importata dall’URSS, dove anche la stanza più squallida è un bene prezioso ed effettivamente c’è gente che può passare mesi e mesi a ordire piani contorti per rovinare i propri vicini e mettere le mani su nove metri quadrati in cui stare stipati in quattro. È inutile spiegargli che in America non funziona così, perché il russo ci tiene alla sua fissazione, è l’ultimo legame con la lurida kommunalka che, senza ammetterlo, rimpiange tanto di aver abbandonato. E poi c’è Lënja Kosogor, il buon Lënja Kosogor, che ha passato dieci anni alla Kolyma ed è orgoglioso di vedere il proprio nome scritto nero su bianco in Arcipelago Gulag. Tutti, nell’ambiente degli esuli, lo chiamano «il tizio di cui parla Solenicyn», e poiché dieci anni sono più di quelli che si è fatto Solenicyn, Lënja pensa che anche lui potrebbe scrivere del gulag e diventare ricco e famoso, ma naturalmente non lo fa. Da quando ha trovato Eduard sul marciapiede, quasi privo di sensi e mezzo morto dal freddo, non lo perde un attimo di vista: è la sua buona azione. Forse al suo altruismo non è estranea l’intima soddisfazione di vedere ridotto a mangiare la polvere il ragazzo arrogante che quando lo incrociava tirava dritto, per paura che lui, Lënja, portasse iella. Forse sotto sotto è contento di introdurlo nella comunità dei losers portandolo all’ufficio del Welfare, il servizio di assistenza ai poveri, che accorda a Eduard duecentosettantotto dollari al mese.

 

 

La stanza meno cara di un albergo miserabile come il Winslow costa duecento dollari al mese. Gliene restano settantotto, pochi, ma Eduard non ha voglia di cercarsi un lavoro. Gli sta bene ubriacarsi con bottiglie di vino californiano da mezzo gallone a novantacinque centesimi, frugare nei bidoni dell’immondizia dei ristoranti, scroccare un po’ di denaro ai suoi connazionali, alla peggio arrangiarsi con qualche scippo. È una merda, vivrà come una merda. Passa le giornate a camminare per le strade, senza meta, ma con una predilezione per i quartieri poveri e pericolosi dove sa di non rischiare nulla perché lui stesso è povero e pericoloso. Si introduce nelle case abbandonate dalle imposte inchiodate, cinte da steccati coperti di muschio, dove trova sempre barboni che marciscono in pozzanghere d’urina; gli piace parlare con loro, raramente in una lingua comune. Gli piace anche rifugiarsi nelle chiese. Un giorno, durante una funzione, conficca il proprio coltello nel legno di un inginocchiatoio e si diverte a farlo vibrare. I fedeli lo guardano con la coda dell’occhio, preoccupati, ma nessuno osa avvicinarsi. La sera, ogni tanto, si concede un cinema porno, più che per eccitarsi, per piangere piano, in silenzio, pensando al tempo in cui ci andava con la sua bellissima donna e la faceva godere suscitando la gelosia dei relitti di cui ora fa parte.

Dov’è Tanja adesso? Non lo sa, e ha rinunciato a saperlo. Dopo il colossale zapoj seguito alla sua partenza, non è più tornato dalle parti del loft dove forse Tanja abita. Quando rientra in albergo, si masturba pensando a lei. La cosa che più gli fa effetto non è tanto l’idea di lui, Eduard, che la scopa, quanto quella di lei che si fa scopare, e non da lui ma da Jean-Pierre o, con un grosso fallo di gomma, dall’amichetta lesbica di Jean-Pierre; per farlo ingelosire ulteriormente, Tanja infatti gli ha descritto un rapporto a tre. Che cosa prova Tanja quando si fa inculare e tradisce Limonov, suo marito? Per scoprirlo, Eduard si infila una candela nel culo, alza le gambe e le allarga, comincia ad ansimare e a gemere come Tanja, a dire quello che Tanja diceva a lui e che ora probabilmente dice ad altri, «sì, mi piace, è duro, lo sento», cose del genere. Quando viene, resta disteso, con il ventre imbrattato di sperma. Non vale la pena asciugarsi con un fazzoletto, le lenzuola sono comunque sporche. Prende un po’ di sperma con la punta delle dita, lo lecca, lo manda giù con un po’ di cattivo vino rosso, vince il voltastomaco, ricomincia daccapo. La leggenda dice che il poeta Esenin abbia scritto alcune poesie con il proprio sangue. La leggenda dirà che il poeta Limonov si ubriacava con la propria sborra? Molto più probabilmente, purtroppo, non ci saranno leggende, nessuno saprà chi fosse il poeta Limonov, povero ragazzo russo perduto a Manhattan, compagno di sventura di Lënja Kosogor, di Edik Brutt, di Alëša Šneerzon e di altri che moriranno come sono vissuti, ignorati da tutti.

Gonfio di pietà per se stesso, guarda il proprio corpo, bello, giovane, forte, e di cui nessuno ha bisogno. Se lo vedessero, solo e nudo nel letto, molte donne vorrebbero accarezzarlo, e anche molti uomini. Dopo essere stato tradito da Tanja, si è spesso ripetuto che è meglio avere la fica che il cazzo, essere preda anziché predatore e che gli piacerebbe che qualcuno si occupasse di lui come di una donna. In fondo sarebbe bello essere frocio. A trentatré anni Eduard sembra ancora un adolescente, sa di piacere agli uomini, lo ha sempre saputo. Ligio al codice d’onore di Saltov, ha sempre risposto con lo scherno al loro desiderio, ma ora se ne frega del codice d’onore di Saltov. Ha bisogno di essere protetto e coccolato, tranne poi disprezzare quelli che lo proteggono e lo coccolano. Ha bisogno di essere Tanja al posto di Tanja.

 

 

Eduard espone il suo problema a un frocio russo che gli presenta un frocio americano. Il frocio americano si chiama Raymond, sessant’anni ben portati, raffinato, i capelli tinti e l’aria gentile. Il loro primo incontro avviene in un ristorante di classe; Raymond guarda Eduard che divora il suo cocktail di gamberetti e avocado con il sorriso commosso del benefattore che offre un pasto caldo a un ragazzino povero. «Non mangiare così in fretta» gli dice accarezzandogli la mano. Eduard immagina quello che pensano i camerieri, gli piace passare per ciò che ha deciso di essere: una troietta. La sola cosa che lo preoccupa è che anche il povero Raymond sembra cercare amore, cercare cioè di riceverlo e non solo di darlo. Per come la vede Eduard, in amore c’è chi dà e chi riceve, e lui ritiene di aver già dato abbastanza.

Dopo pranzo vanno a casa di Raymond, si siedono sul divano l’uno accanto all’altro, e da sopra i jeans Raymond comincia a palpargli l’uccello.

«Vieni» si sente dire Eduard. L’americano lo prende per mano e lo porta in camera, sul letto. Mentre Raymond si dà da fare per slacciare la fibbia del pesante cinturone militare, eredità di Veniamin e dell’NKVD, Eduard, con gli occhi socchiusi, scuote la testa da destra a sinistra come ha visto fare a Tanja. Cerca di fare tutto come Tanja, però non gli si rizza. Alla fine Raymond riesce a tirargli fuori dai jeans l’uccello raggrinzito, lo prende in mano, in bocca, con molta dolcezza e buona volontà, senza ottenere risultati. Entrambi un po’ imbarazzati, si ricompongono e tornano in salotto a bere qualcosa. Quando Eduard se ne va, promettono di risentirsi, ma nessuno dei due ci crede.

Non di rado, con la bella stagione, Eduard passa tutta la notte fuori. Per strada, sulle panchine. Ora è nell’area riservata ai bambini di un giardino pubblico. Recinto di sabbia, altalene, scivolo. Ricorda una notte in un’area giochi simile, solo un po’ più malandata – perché in Unione Sovietica tutto è più malandato – con Kostja, detto il Gatto, che poi ha ucciso un uomo e si è beccato dodici anni di gulag. Dove sarà Kostja? È vivo o morto? Eduard gioca con la sabbia, passandosela da una mano nell’altra, quando vede brillare nell’ombra, ai piedi dello scivolo, due occhi che lo guardano. Non ha paura, è un pezzo ormai che non sa più cosa significhi aver paura. Si avvicina: è un ragazzo nero raggomitolato, vestito di scuro, certamente fatto.

«Hi» dice Eduard. «Io mi chiamo Ed. Hai da fumare?».

«Fuck off»ringhia l’altro. Eduard non si offende e si accovaccia accanto a lui. Senza preavviso, il nero gli salta addosso e lo colpisce. I due rotolano avvinghiati nella sabbia. Lottano. Eduard riesce a liberare una mano, prende il coltello nascosto nello stivale, e forse lo avrebbe usato se, così inaspettatamente come l’aveva aggredito, l’avversario non avesse lasciato la presa. Restano l’uno addosso all’altro, sulla sabbia umida, a riprendere fiato.

«Ho voglia di te» dice Eduard. «Vuoi fare l’amore?».

Cominciano a baciarsi e ad accarezzarsi. Il giovane nero ha la pelle morbida e, sotto gli abiti puzzolenti, un corpo muscoloso, sodo, molto simile al suo. Anche lui scuote la testa, con gli occhi socchiusi, e mormora: «Baby, baby…». Eduard si china e gli sfila la cintura, impaziente di sapere se è vero quel che si dice del cazzo dei neri. È vero: è più grosso del suo. Lo prende in bocca, si distende sulla sabbia, lui stesso ce l’ha durissimo, lo succhia a lungo, con grande calma, come se avessero l’eternità davanti a loro. Non c’è nulla di furtivo, è un momento sereno, intimo, maestoso. Sono felice, pensa Eduard: ho una relazione. L’altro si abbandona completamente, fiducioso, lascia fare tutto a Eduard, e intanto gli accarezza i capelli, mugola piano, e alla fine viene. Eduard, che conosce già il sapore del proprio sperma, trova buonissimo quello del giovane nero e lo ingoia tutto. Poi appoggia la testa sul suo uccello svuotato e si mette a piangere.

Piange a lungo, come se sfogasse tutta la sofferenza accumulata da quando se n’è andata Tanja. Il giovane nero lo stringe fra le braccia e lo consola. «Baby, my baby, you are my baby…» ripete, come un incantesimo. «I am Eddy» dice Eduard. «I have nobody in my life. Will you love me?». «Yes, baby, yes» canticchia l’altro. «What is your name?». «Chris». Eduard si acquieta. Immagina la loro vita, insieme, nei bassifondi. Faranno gli spacciatori, abiteranno nelle case abbandonate, non si lasceranno mai. Dopo un po’ Eduard si cala i pantaloni e lo slip, offre il culo a Chris come faceva Tanja con lui, e gli dice: «Fuck me». Chris si sputa sul cazzo e glielo infila. Anche se il cazzo è più grosso della candela, a Eduard l’allenamento è servito: non sente troppo male. Quando Chris eiacula, cadono entrambi sulla sabbia e si addormentano così. Eduard si sveglia un po’ prima dell’alba, si libera dalla stretta del giovane nero che borbotta piano. Tasta in giro per ritrovare gli occhiali, poi se ne va. Cammina attraverso la città che si sta svegliando, pienamente felice e orgoglioso di se stesso. Non ho avuto paura, pensa, mi sono fatto inculare. «Molodec!» come avrebbe detto suo padre: sì, proprio un bravo ragazzo.

 

4

 

È estate. Eduard si abbronza sul suo minuscolo balcone, al sedicesimo e ultimo piano dell’Hotel Winslow, mangiando una zuppa di cavoli direttamente dalla pentola. È ottima, la zuppa di cavoli: una pentola costa due dollari, dura tre giorni, è buona sia calda che fredda e anche senza frigorifero non va a male. I palazzi di fronte a lui sono occupati da uffici con i vetri oscurati, dietro i quali dirigenti in giacca e cravatta e segretarie che abitano in periferia devono chiedersi chi sia quel tipo abbronzato, muscoloso, che prende il sole sul balcone in minislip rosso e qualche volta, senza porsi il minimo problema, con l’uccello di fuori. Ecco a voi Edièka, cari contribuenti americani, il poeta russo che vi costa duecentosettantotto dollari al mese e vi disprezza cordialmente. Ogni due settimane Eduard si presenta all’ufficio del Welfare, dove aspetta pazientemente in compagnia di altri relitti della società che gli venga dato il suo assegno. Ogni due mesi va a un colloquio con un impiegato del Welfare che si informa sui suoi progetti. «I look for job, I look very much for job» dice Eduard esagerando il suo cattivo inglese per spiegare che le sue ricerche sono state infruttuose. In realtà, Eduard non look affatto for job e si accontenta di arrotondare il sussidio di disoccupazione dando talvolta, in nero, una mano a Lënja Kosogor che lavora per un ebreo russo specializzato in traslochi per ebrei russi: rabbini, intellettuali con scatoloni pieni di edizioni complete di Èechov o Tolstoj nelle loro rilegature sovietiche verde scuro la cui colla puzza ancora un po’ di pesce.

Il Welfare, che pensa alla sua integrazione, gli offre dei corsi d’inglese. I corsi, a parte lui, sono frequentati unicamente da donne: nere, asiatiche, latine che gli mostrano le foto dei figli, tirati a lustro come sono sempre i figli dei poveri. Qualche volta gli portano anche vaschette ignifughe contenenti piatti tipici dei loro paesi, a base di patate dolci e banane platano. Loro gli parlano di quei paesi, e lui parla del suo, e le donne sgranano gli occhi quando Eduard racconta che in Unione Sovietica l’istruzione e l’assistenza sanitaria sono gratuite: perché ha lasciato un paese tanto buono?

Già, perché?

 

 

Ogni mattina va a piedi fino a Central Park, e si sdraia su un prato usando come cuscino il sacchetto di plastica in cui tiene il suo quaderno. Rimane per ore a guardare il cielo, e sotto il cielo le terrazze dei palazzi per nababbi della Quinta Avenue, dove vivono quelli come i Liberman, che ormai non vede più e il cui mondo raffinato appartiene ai suoi occhi a una remota vita anteriore. Soltanto un anno prima andava a casa loro nei panni del giovane scrittore dal promettente futuro, marito di una bella donna che sarebbe diventata una famosa modella, e ora è un barbone. Guarda le persone attorno a sé, ne ascolta i discorsi, valuta le probabilità che ha ognuna di loro di sfuggire alla sua condizione attuale. Per i barboni, quelli veri, non c’è scampo. Gli impiegati e le segretarie che arrivano all’ora di pranzo per mangiare un sandwich su una panchina faranno un po’ di strada ma non andranno lontano, e del resto non ci pensano nemmeno, ad andare lontano. I due ragazzi con la faccia da intellettuali che discutono e coprono di appunti i fogli su cui devono aver battuto a macchina una sceneggiatura sembrano prendersi molto sul serio: sicuramente ci credono, ai loro dialoghi alla cazzo di cane, ai loro personaggi alla cazzo di cane, e forse fanno bene a crederci, forse sfonderanno, forse vedranno Hollywood, le piscine, le starlette e la cerimonia degli Oscar. In compenso, la tribù di portoricani che sciorina sul prato tutto un armamentario di coperte, radioline, neonati, thermos – quelli si può stare sicuri che resteranno dove sono. Anche se… chi può mai dirlo? Forse, grazie ai loro sacrifici, quel neonato che frigna nel suo pannolino pieno di merda porterà a termine studi eccezionali e riceverà il premio Nobel per la medicina o diventerà segretario generale dell’ONU. E lui, Eduard, con i suoi jeans bianchi e le sue idee nere, che ne sarà di lui? Quello che sta vivendo è un capitolo tra i tanti della sua vita romanzesca – barbone a New York – oppure è l’ultimo capitolo, l’epilogo del suo libro? Eduard estrae dal sacchetto di plastica il quaderno e, fumando uno spinello comprato da uno dei piccoli spacciatori di cui è diventato amico, comincia a scrivere, appoggiato su un gomito, tutto quello che ho appena raccontato: il Welfare, l’Hotel Winslow, i miserabili esuli russi, Tanja, e come è arrivato a questo punto. Scrive di getto, senza preoccupazioni letterarie, e presto arriva al secondo, al terzo quaderno, sa che quel racconto sta diventando un libro e che quel libro è la sua unica speranza di salvezza.

 

 

Si considera omosessuale, ma non pratica granché, la sua è più che altro una posa. Un pomeriggio in cui sta sbevazzando su una panchina in compagnia di un russo lagnoso, pittore astratto a Mosca e imbianchino a New York, un giovane nero con l’aria da barbone si avvicina per scroccare loro una sigaretta. Per pura provocazione, Eduard cerca di rimorchiarlo. Gli dice: «I want you», lo prende per le spalle, lo bacia; il ragazzo ride, lo lascia fare. Se ne vanno insieme a scopare sulle scale di un palazzo. Il pittore resta sulla panchina, sbalordito, poi racconta in giro l’episodio. «Allora è vero! Quella canaglia di Limonov è diventato frocio! Si fa inculare dai negri!». Già circola voce che sia al soldo del KGB; secondo un’altra, Limonov si sarebbe invece suicidato dopo essere stato abbandonato da Tanja. Lui lascia dire, divertito. In realtà preferisce le ragazze. Il problema è trovarne.

Al parco, dove passa le giornate a scrivere, ne abborda una che distribuisce volantini del Partito dei lavoratori. Il bello dei volantinatori, non importa se sinistrorsi o testimoni di Geova, è che, essendo abituati a venire respinti in malo modo, sono contenti quando qualcuno si ferma a discutere con loro. La ragazza si chiama Carol, è magra, non bella, ma in quel momento della sua vita Eduard non può permettersi di fare lo schizzinoso. Il Partito dei lavoratori, gli spiega Carol, sono i trockisti americani, che propugnano la rivoluzione mondiale. La rivoluzione mondiale? Eduard è a favore. Lui è per principio dalla parte dei rossi, dei neri, degli arabi, dei froci, dei barboni, dei drogati, dei portoricani, di tutti quelli che non avendo niente da perdere appoggiano, o almeno dovrebbero appoggiare, la rivoluzione mondiale. Ed è a favore anche di Trockij – ma ciò non significa che sia contro Stalin, sebbene questo intuisce sia meglio non dirlo a Carol. Colpita dalla sua foga, la ragazza lo invita a un comizio di sostegno al popolo palestinese avvertendolo che potrebbe essere pericoloso. Fantastico, si scalda Eduard, ma il comizio del giorno dopo è una delusione terribile. I discorsi non mancano di energia, ma alla fine i partecipanti si disperdono, tornano a casa o se ne vanno in gruppetti a continuare la discussione in qualche coffee shop, con l’unica prospettiva di un altro comizio, fra un mese.

«Non capisco» dice Carol, perplessa. «Che cosa avresti voluto fare?».

«Be’, restare insieme. Andare a prendere delle armi e attaccare un edificio del governo. O dirottare un aereo. O preparare un attentato. Insomma, non so, qualcosa».

Eduard si appiccica a Carol con la vaga speranza di andarci a letto, ma viene a sapere che la ragazza sta già con uno, non meno incendiario di lei a parole e altrettanto prudente nella pratica, e ancora una volta se ne torna in albergo da solo. Pensava che i rivoluzionari vivessero tutti insieme in una casa occupata, in una sede clandestina, non ciascuno in un piccolo appartamento dove nel migliore dei casi invitare gli altri per un caffè. Però li rivede, Carol e i suoi amici: sono pur sempre un gruppo, una famiglia, e Eduard ha disperato bisogno di una famiglia, al punto che, quando a Central Park vede gli Hare Krishna agitare campanelle e tamburini salmodiando le loro stronzate, si sorprende a pensare che in fondo non dev’essere male starsene lì, in mezzo a loro. Partecipa alle riunioni del Partito dei lavoratori, accetta di distribuire volantini. Carol gli presta le opere di Trockij, che decisamente gli piace sempre di più. Gli piace che Trockij dichiari apertamente: «Viva la guerra civile!». Che disprezzi i discorsi da donnicciole e da preti sul sacro valore della vita umana. Che dica che per definizione i vincitori hanno ragione e gli sconfitti torto e che il posto dei secondi è nella spazzatura della storia. Queste sì che sono parole virili, e gli piace ancor più quello che raccontava il vecchio del «Russkoe Delo»: il tizio che le ha pronunciate è passato in pochi mesi dalla condizione di esule morto di fame a New York a quella di generalissimo dell’Armata Rossa, uno che si spostava da un fronte all’altro a bordo di un vagone blindato. Questo è il genere di destino che si augura Eduard, ma purtroppo non gli capiterà niente di simile con quegli invertebrati di trockisti americani, sempre pronti a disquisire sui diritti delle minoranze oppresse e dei prigionieri politici, ma terrorizzati dalle strade, dalle periferie, dai veri poveri.

 

 

Per quanto desideri inserirsi in una comunità, Eduard ne ha piene le scatole di loro. E siccome ne ha abbastanza anche degli esuli russi, sposta la valigia dall’Hotel Winslow, loro quartier generale, all’Hotel Embassy, se possibile ancora più squallido, ma frequentato solamente da neri, drogati e prostitute d’ambo i sessi, che Eduard trova più eleganti. Lui è l’unico bianco, ma non stona perché, come ha osservato Carol – e sulle sue labbra non sembrava un complimento –, si veste come un negro. Appena il trasloco di un altro rabbino gli procura qualche dollaro, spende tutto in capi di vestiario, usati ma appariscenti: gli abiti bianchi e rosa, le camicie con jabot di merletti, le giacche di velluto lilla cangiante, gli stivaletti con i tacchi bicolore gli procurano la stima dei vicini. Sapendo di fargli piacere, Lënja Kosogor, l’ultimo dei suoi amici, gli riferisce che tra gli esuli si sta spargendo la voce: prima si diceva che fosse frocio, èekista, o morto suicida, ora si dice che viva con due puttane nere e che sia il loro ruffiano.

 

 

La sua finestra all’Embassy dà sul tetto della piccola casa in Columbus Avenue nella quale vive Gennadij Šmakov insieme a due ballerini, omosessuali come lui. A Leningrado, Šmakov era il miglior amico di Brodskij, che nelle sue interviste lo ricorda con grande affetto. Generoso, coltissimo, pettegolo, parla cinque lingue e conosce a memoria cinquanta balletti: è un po’ il prototipo della checca fanatica della danza e dell’opera, e Brodskij e Limonov, per una volta d’accordo, ne hanno grande stima, tanto più che Šmakov è nato in una famiglia di spaventosi bifolchi degli Urali. Secondo Brodskij, è una regola: soltanto un provinciale può diventare un autentico dandy.

Meno richiesto dei suoi celebri amici (Brodskij e la stella del balletto Michail Baryšnikov), a New York Šmakov vive nella loro scia, approfitta delle loro conoscenze e ottiene grazie a loro traduzioni e articoli sui grandi coreografi russi. Eduard è già stato scottato da quel mondo troppo brillante dove, lui che aspira al ruolo di protagonista, ha finito con il fare la comparsa, ma Šmakov e i suoi due coinquilini sono soltanto satelliti dello star system, e per questo Eduard non si sente troppo in soggezione, così, quando non ne può più della solitudine, deve soltanto attraversare la strada per trovare in casa loro, a qualsiasi ora, quella generosa accoglienza russa che gli scalda il cuore. I tre gli preparano manicaretti – Šmakov è un cuoco eccezionale –, lo vezzeggiano, lo consolano, gli dicono che è carino e desiderabile, insomma Eduard riceve da loro tutta la dolcezza che si aspettava da una relazione omosessuale senza però essere costretto ad andare fino in fondo. «Come Riccioli d’oro nella casa dei tre orsi» scherza Šmakov tagliando il kulebjaka.

Eduard è talmente a suo agio con Šmakov da fargli leggere, per primo, il manoscritto di «Io, Edièka», il libro che ha buttato giù durante l’estate sui prati di Central Park. Šmakov ne è entusiasta. Be’, diciamo che ne rimane colpito. Trova Edièka terribilmente cattivo, ma cattivo alla maniera di Raskol’nikov in Delitto e castigo, e comincia a chiamare lui Rodion, come Raskol’nikov, e il suo libro: «Io, Rodionka». Inoltre, questo esteta e uomo di buon gusto pensa che, di tutti gli esuli russi di talento, quella piccola canaglia sia l’unico ad aver scritto qualcosa di veramente contemporaneo. Nabokov è un grande artista, ma un professore universitario, un parnassiano e anche un maiale ipocrita. «E pure Iosif,» dice Šmakov abbassando la voce, come intimorito dalla sua stessa bestemmia, perché a Brodskij deve tutto e senza di lui a New York non sarebbe niente «un genio, Iosif, ma un genio sul tipo di T.S. Eliot o del suo amico Wystan Auden, un genio della vecchia scuola». Leggere i versi di Brodskij è come ascoltare musica classica, Prokof’ev o Britten, mentre quello che scrive quel ragazzaccio di Edièka fa pensare piuttosto a Lou Reed: a walk on the wild side. «Con questo non voglio dire» sfuma il suo giudizio Šmakov «che Lou Reed sia meglio di Britten o di Prokof’ev – io personalmente preferisco Britten e Prokof’ev – ma, insomma, un’esibizione di Lou Reed alla Factory è più contemporanea di una rappresentazione di Romeo e Giulietta al Metropolitan Opera, non si può certo sostenere il contrario».

Questi complimenti fanno piacere a Eduard ma non lo sorprendono poi tanto: lui lo sapeva già che il suo libro era geniale. Accetta perciò che Šmakov faccia circolare il manoscritto nella sua cerchia, sotto forma di samizdat, partendo dai suoi due eroi: Brodskij e Baryšnikov.

Di Brodskij Eduard non si fidava, e aveva ragione. Il grand’uomo impiega un’eternità a leggere il manoscritto, probabilmente nemmeno lo finisce, e lascia passare molto tempo prima di rendere note le sue preziose impressioni, che sono negative. Anche a Brodskij il libro ha fatto venire in mente Dostoevskij, solo che a lui non sembra scritto da Dostoevskij, e neanche da Raskol’nikov, ma da Svidrigajlov, il personaggio più perverso, negativo e depravato di Delitto e castigo, e questo fa un’enorme differenza. Baryšnikov invece ne è rimasto stregato. Durante le prove del balletto, appena aveva un momento libero si appartava per rituffarsi nella lettura. Purtroppo, però, è così influenzato da Brodskij che non avrà il coraggio di contraddirlo.

Non potendo prendersela con nessuno dei due, Eduard sfoga il proprio risentimento contro il buono e generoso Šmakov. Lo accusa di essere un cortigiano, un parassita, l’amico senza spina dorsale della gente ricca e famosa. «Già che c’eri,» lo rimprovera «avresti potuto dare il mio libro a Rostropoviè, il re degli opportunisti, il terzo componente della troika infernale dei padrini che se fossero rimasti in Unione Sovietica adesso sarebbero senz’altro segretari generali dell’Unione degli scrittori, dei compositori, dei ballerini, e farebbero tutto quello che è in loro potere per soffocare gli artisti veramente rivoluzionari esattamente come fanno qui».

Šmakov china il capo, mortificato.

 

5

 

Una sera d’inverno, per distrarlo, Šmakov insiste per portare Eduard a una lettura tenuta da una poetessa sovietica al Queens College. L’idea non lo entusiasma affatto. Quelle sviolinate fra universitari americani e intellettuali russi vanno bene per Brodskij, non per lui, ma non sopporta più di girare a vuoto nella sua topaia, e così ci va. Nella sala piena, lui e Šmakov si siedono non lontano da Baryšnikov, che finge di non riconoscere Eduard – ma può anche darsi che veramente non lo riconosca. Proprio quel che Eduard temeva: un’umiliante serata di rabbia repressa, e il suo umore non migliora quando ha inizio la lettura.

La poetessa, Bella Achmadulina, appartiene, come Evtušenko, alla generazione degli anni Sessanta convinta, cito Eduard, «che per costruirsi un destino di poeta siano sufficienti un viaggio a Parigi, una sbronza alla Casa degli scrittori e qualche verso irriverente in fondo alle tasche. Specializzati nel dare a Stalin, morto e sepolto, il calcio dell’asino, destinatari delle premure degli intellettuali occidentali che si precipitano a firmare petizioni appena viene rifiutata loro una tournée all’estero o una loro silloge viene stampata in centomila copie anziché un milione, e convenientemente devoti alla santissima trinità: Cvetaeva impiccata in uno sperduto villaggio, Mandel’štam morto folle di terrore in un campo, fra le immondizie, mentre cercava ossi da rosicchiare, e soprattutto Pasternak, talento lirico gradevole ma uomo compromesso e servile, filosofo da dacia, amante dell’aria pura, delle comodità e dei libri antichi, che ha tradotto un’intera raccolta di inni a Stalin in ogni lingua immaginabile, e se la fa sotto dalla paura davanti al suo stesso Dottor ivago, questo inno alla vigliaccheria della intelligencija russa…».

Chiudiamo le virgolette.

 

 

Dopo la lettura vi è una cena. Qualcuno viene invitato, qualcuno no, non si capisce bene, ma Eduard segue Šmakov; i due si infilano in un’auto che li porta nei quartieri alti e si ritrovano in una casa di tre piani con giardino sull’East River, una cucina grande come una sala da ballo, un arredamento del tipo che si vede sulle riviste: ancora più bella di quella dei Liberman. Idem per il buffet: champagne, e vodka così ghiacciata che scivola giù liscia come l’olio. Una trentina di invitati, russi e americani, fra cui l’unico che Eduard conosca è Baryšnikov, che però lo evita accuratamente. Riceve tutta quella gente una ragazza di nome Jenny, il volto rotondo, affabile. Eduard si chiede se sia lei la padrona di casa. No, è troppo giovane: piuttosto la figlia dei padroni di casa. Alcuni la baciano, altri no; Eduard si rammarica di non aver avuto la faccia tosta di baciarla quand’è arrivato.

Si rilassa con l’aiuto della vodka, tira fuori l’erba giamaicana che ha sempre in tasca e comincia a rollare canne. In cucina si forma un capannello attorno a lui. Jenny, impegnata a girare da una stanza all’altra per badare a tutti gli invitati, tira una boccata ogni volta che passa, e ogni volta che passa Eduard scherza con lei con sempre maggiore familiarità, come se si conoscessero da un pezzo. Non si può dire che Jenny sia bella, ma c’è in lei un che di aperto, disponibile, quasi di campagnolo che stride con quella cornice lussuosa e rassicura. Eduard è sempre più ubriaco, sempre più espansivo. Prende la gente per le spalle, ripete che lui non voleva venire ma sbagliava: è da tanto che non trascorreva una serata così piacevole. Gli sembra che tutti gli vogliano bene. Poi la poetessa e il marito salgono a dormire nella camera che è stata riservata loro al primo piano, gli ultimi sbevazzoni se ne vanno, e Eduard aiuta i camerieri a sparecchiare. Quindi se ne vanno anche i camerieri. In cucina restano solo lui e Jenny. Commentano la serata, come una coppia dopo che gli invitati se ne sono andati. Eduard si rolla l’ultima canna, la passa a Jenny, poi la bacia. Lei si lascia baciare, ridendo un po’ troppo rumorosamente per i gusti di Eduard, ma quando lui vuole spingersi più in là Jenny si sottrae. Eduard insiste, ma lei non cede. Come ultima spiaggia le propone di dormire insieme «senza fare niente». Jenny scuote la testa: no no no, conosce quei trucchetti; ora bisogna che lui torni a casa.

 

 

A casa! Se Jenny sapesse cos’è casa sua! Il lungo ritorno a piedi, sotto la gelida pioggia di febbraio, è crudele, e la sua stanza mille volte più squallida di quando l’ha lasciata una decina di ore prima. Però Eduard ha il numero di telefono di Jenny. Lei gli ha detto di richiamarla, lui lo fa già il giorno dopo, ma no, oggi è impossibile, ci sono degli invitati. E io, pensa Eduard senza avere il coraggio di dirlo, non posso essere invitato con gli invitati? Anche due giorni dopo è impossibile perché la sorella di Steven si trattiene tutta la settimana. Eduard ignora chi siano questo Steven e questa sorella, e al telefono, con il suo scarso inglese, non capisce neanche la metà di quello che Jenny gli dice, ma pensa che la ragazza ce l’abbia con lui e si dispera. Resta a letto una settimana, senza alzarsi. Piove ininterrottamente. Eduard ascolta, oltre la parete della stanza, il cigolio dei cavi dell’ascensore, in cui i clienti delle prostitute pisciano senza farsi problemi, e pensa alla vita che potrebbe fare se riuscisse a sedurre quella ricca ereditiera.

 

 

Alla fine, una domenica pomeriggio, Jenny permette a Eduard di andarla a trovare. È sola in casa. Ha smesso di piovere, e i due vanno a prendere il caffè nel giardinetto privato da cui si vede il fiume. Jenny indossa una tuta che lascia scoperte caviglie inaspettatamente tozze per una ricca ereditiera, pensa Eduard, il quale però decide di spiegarselo supponendo una sua origine irlandese. Eduard spera di commuoverla raccontandole qualche episodio della propria vita sentimentale: la prima moglie pazza, la seconda da cui è stato mollato perché è senza un soldo, la madre che lo ha fatto rinchiudere in un ospedale psichiatrico. Funziona, Jenny si commuove e vanno a letto insieme.

La stanza della ragazza, all’ultimo piano, è più piccola di quanto Eduard pensasse. La rustica passera di Jenny non vale quella, così graziosa, di Tanja. Jenny fa l’amore con bovina placidità e scandalizza Eduard, che si ritiene difficilmente scandalizzabile, dicendogli senza perifrasi che in quelle due settimane si è negata non perché lui non le piacesse ma perché aveva un’infezione urinaria. Al mattino, però, Jenny gli prepara una magnifica colazione con spremuta d’arancia fresca, crêpe allo sciroppo d’acero e uova al bacon, e Eduard pensa che comunque dev’essere meraviglioso svegliarsi ogni giorno accanto a una donna affettuosa, in un letto tiepido dalle lenzuola stirate, con Vivaldi in sottofondo e il profumo dei toast che sale dalla cucina.

 

6

 

In Storia di un domestico, il libro in cui ha raccontato questa vicenda, non c’è una scena madre in cui il protagonista scopre di aver preso un abbaglio. Quando ho riletto il libro, sono rimasto sorpreso che un tipo con tanto spirito di osservazione ci abbia messo quasi un mese a capire che la ricca ereditiera era in realtà la governante. Jenny non ha fatto nulla per nasconderglielo. Non ha sospettato il qui pro quo, né, una volta chiarito, quanto profonda fosse la delusione di Eduard, che aveva creduto per un attimo di essere stato ammesso tra i privilegiati della terra; e in effetti vi era stato ammesso, ma come amante della domestica.

 

 

Poiché ora Eduard è il suo boyfriend, pensa Jenny, può presentarlo al padrone. Il padrone si chiama Steven Grey. Quarant’anni, belloccio, bon vivant, miliardario. Non milionario, miliardario. In inglese: billions. Nel suo libro Limonov lo chiama Gatsby, ma sbaglia, perché Steven è un Gatsby della seconda generazione, senza incrinature, sicuro del proprio posto nel mondo, cioè l’esatto contrario di Gatsby. Steven possiede una splendida dimora nel Connecticut in cui vivono la moglie e i tre figli, e ogni tanto, quando non è a sciare in Svizzera o a fare immersioni nell’Oceano Indiano, gli capita di occupare il pied-à-terre newyorkese di Sutton Place, sul quale veglia la preziosa Jenny. Lei sola vi abita stabilmente, ma ogni giorno vengono ad aiutarla una segretaria che si occupa della posta e una donna di servizio haitiana. Questa squadra ridotta (in Connecticut i dipendenti sono una decina abbondante) vive nell’attesa e, va detto, nel timore delle puntate del padrone, il quale per fortuna viene molto di rado, e raramente per più di sette giorni di fila – ancora meglio sarebbe, pensa Eduard, se non venisse proprio.

Non che Steven sia un tiranno. Soltanto, è impaziente, sempre di corsa, capace per un nonnulla di scatti d’ira di cui poi si scusa, preoccupato com’è di mostrarsi un padrone liberale – potremmo quasi dire, se non fossimo in America, un padrone di sinistra. In inglese la questione del «tu» resta in sospeso, ma se Steven chiama Jenny «Jenny», lei lo chiama «Steven» e Eduard sarà invitato a fare altrettanto. Per niente al mondo Steven userebbe il campanello o si farebbe portare il vassoio con la colazione in camera; ovviamente dev’essere sempre tutto pronto in ogni momento, con il tè lasciato in infusione il tempo giusto e i toast cotti a puntino, a qualsiasi ora Steven si svegli, ma scende lui stesso a prendere il vassoio in cucina e se, come avviene sempre più spesso, vi trova Eduard che sta leggendo il «New York Times» spinge la delicatezza fino a chiedere se non gli dispiace passarglielo. Eduard morirebbe dalla voglia di rispondere, tanto per vedere: «Sì, mi dispiace», e naturalmente risponde: «No, Steven, è tutto suo».

 

 

Perché Eduard ormai è uno di casa. Sin dal primo momento è piaciuto molto a Steven che ha amici artisti, si vanta di aver perso un milione di dollari nella produzione di un film di avanguardia e adora tutto ciò che è russo. Sua nonna era russa, bianca naturalmente, emigrata dopo la rivoluzione, e quando lui era piccolo gli parlava in russo; ormai sa soltanto poche parole, ma gli resta, come a me, un accento ancien régime. Per questo Steven ospita i russi di passaggio a New York, e per questo è entusiasta di avere in casa, praticamente in pianta stabile, un vero poeta russo con cui parlare della durezza ma anche dell’autenticità della vita in Unione Sovietica. Eduard gli racconta del soggiorno in ospedale psichiatrico e dei guai con il KGB. Calca un po’ la mano, rimpolpa la versione unanimemente apprezzata dell’internamento politico. Sa quale musica piace al suo interlocutore e gliela suona con la dovuta compiacenza.

Eduard sorride, depone le tazze nella lavastoviglie, concorda garbatamente con Steven, ma dentro di sé – mentre Steven assai soddisfatto della loro conversazione sale a indossare un completo da diecimila dollari per andare a pranzo in un ristorante dove con quel che costa il piatto più economico si potrebbe sfamare per un mese una famiglia di portoricani – sta pensando che sarebbe proprio divertente vederlo in azione, Steven, se invece di aver ereditato una montagna di quattrini fosse stato paracadutato da solo nella giungla e per cavarsela potesse contare unicamente sui suoi coglioni e sul suo coltello. Per la prima volta in vita sua Eduard può osservare da vicino una persona tanto in alto nella scala sociale, e deve ammettere che si tratta di un esemplare piuttosto umano, civile, per nulla somigliante alla caricatura del capitalista diffusa nell’immaginario sovietico: panciuto, crudele, pronto a succhiare il sangue dei poveri. Tutto questo è vero, ma non sposta il problema di una virgola: perché lui e non io?

C’è una sola risposta a questa domanda: la rivoluzione. Quella vera, non le chiacchiere degli amici di Carol né le generiche riforme auspicate dai socialtraditori di ogni generazione. No: la violenza, le teste conficcate sulle punte delle picche. In America, pensa Eduard, è partito con il piede sbagliato. Dovrebbe unirsi ai palestinesi o raggiungere Gheddafi – di cui ha incollato con lo scotch la fotografia sopra il letto, accanto a quelle di Charles Manson e di se stesso vestito da «eroe nazionale» con Tanja nuda ai suoi piedi. Non avrebbe paura. Neanche di morire avrebbe paura. Quello che gli dispiacerebbe è morire da sconosciuto. Se «Io, Edièka» fosse stato pubblicato e avesse avuto il successo che meritava, allora d’accordo: lo scandaloso scrittore Limonov ucciso da una raffica di Uzi a Beirut occuperebbe la prima pagina del «New York Times». Steven e i suoi pari leggerebbero la notizia tenendo il giornale sopra le loro crêpe allo sciroppo d’acero e si direbbero, con aria pensosa: «Questo è un uomo che ha vissuto veramente». Così sì varrebbe la pena. La morte da milite ignoto, no.

 

 

Steven si informa dei suoi progetti. Ha scritto un libro? Perché non farlo tradurre, almeno in parte? Perché non farlo vedere a un agente letterario? Lui ne conosce uno, e può presentarglielo. Eduard segue il consiglio di Steven; paga con i suoi poveri mezzi la traduzione dei primi quattro capitoli fino alla scena, inclusa, della scopata con Chris nel recinto di sabbia. L’agente li manda in lettura alla casa editrice Macmillan. La risposta tarda ad arrivare ma sembra che sia la norma. Un mattino Eduard va a dare un’occhiata all’edificio in cui si decide il suo destino. All’ingresso, due impiegati postali di colore rovesciano un cassone contenente una montagna di grosse buste. Due o tre metri cubi di manoscritti, valuta inorridito Eduard. E ancor più lo inorridisce il pensiero che lassù, ai piani alti, un tizio che lui non conosce aprirà una di quelle buste, vedrà il titolo inglese, «That’s me, Eddy», e comincerà a leggere. Può succedere, naturalmente, che ne sia catturato, e che giunto alla fine del quarto capitolo entri senza farsi annunciare nell’ufficio del gran capo per comunicargli di aver scoperto, in mezzo a tanta roba insignificante, il nuovo Henry Miller. Ma può anche succedere che il tizio alzi le spalle e deponga senza pensarci tanto il manoscritto sulla pila dei respinti d’ufficio. Se almeno Eduard potesse vederlo, sapere che faccia ha l’uomo dal cui gusto, umore, capriccio, dipenderà se lui, Eduard Limonov, uscirà o meno dall’informe massa dei perdenti… E se fosse quel giovane che sta entrando nella hall con il passo spedito di chi è di casa? Giacca e cravatta, occhiali sottili senza montatura, una vera faccia da culo… C’è da impazzire.

 

 

In base al numero di bicchieri che trova la mattina sul tavolino davanti al caminetto, Jenny sa se deve preparare la colazione per una o per due persone. Perché Steven torna spesso a casa in compagnia, risvegliando in Eduard una bruciante e dolorosa curiosità. Mi vergogno un po’ per lui a riferirlo, ma Eduard ha l’abitudine di dare un voto alle donne: A, B, C, D, E, come a scuola, e si tratta di una graduatoria che contempla sia l’aspetto sociale, sia quello sessuale. Con la clamorosa eccezione di Tanja, che Eduard ha sempre considerato la quintessenza della categoria A, pur domandandosi se non l’abbia un po’ sopravvalutata, nella sua vita ci sono state molte D, e anche alcune E, quelle che ti sbatti senza andare a dirlo in giro. Jenny? Diciamo una C. Le donne che escono dal letto di Steven sono come quelle che si incontrano ai ricevimenti dei Liberman: tutte A. Come quella contessa inglese, non bellissima ma incredibilmente elegante, la quale, assicura Jenny, possiede in Inghilterra un castello con trecento domestici.

«Trecento domestici!» ripete la ragazza con orgoglio, come se fossero suoi, e la cosa più inconcepibile per Eduard è che Jenny sembra sinceramente felice per la contessa e per se stessa, che ha la fortuna di servire la contessa. Eduard sarebbe voluto sprofondare sottoterra quando Steven lo ha presentato con cordialità all’amica come «il boyfriend della nostra cara Jenny». Su un’isola deserta – su questo Eduard non ha il minimo dubbio – la contessa lo troverebbe attraente. Ma lì, la parte di amichetto della governante dai polpacci grossi lo squalifica completamente sul piano sessuale, lo rende invisibile, e Eduard ce l’ha a morte con Jenny. Non sopporta più il suo buonumore, il suo mostrarsi sempre soddisfatta della propria vita, il modo in cui si siede, allargando le sue grasse cosce, e il fatto che non si apparti nemmeno per schiacciarsi i punti neri sul naso. E non sopporta le sue due migliori amiche, che piombano in casa appena Steven se ne va per fumare spinelli parlando di chakra e diete macrobiotiche. Che poi non sono nemmeno vere hippy, come quelle della famiglia di Charles Manson: una fa la segretaria, l’altra l’assistente di un dentista. Tutto sommato, Eduard preferisce ancora i genitori di Jenny, autentici rednecks del Middle West, a cui la ragazza vuole a tutti i costi presentarlo quando i suoi vengono a passare una settimana nella metropoli. Il padre lavorava per l’FBI e somiglia in modo sorprendente a Veniamin. Quando Eduard glielo dice, e aggiunge che il padre lavorava per il KGB, l’altro scuote la testa e dichiara con solennità che ci sono brave persone ovunque: «Il popolo americano e quello russo sono pieni di brave persone; sono i dirigenti che fanno le porcate, e gli ebrei». Racconta con orgoglio che Edgar Hoover gli ha mandato un regalo per la nascita di ciascuno dei suoi figli, e quando viene a sapere che Eduard scrive gli augura di avere lo stesso successo che ha avuto Peter Benchley, l’autore dello Squalo. Birra, camicia a scacchi, buon diavolo, senza malizia: a Eduard piace più della figlia.

 

 

Si potrebbero vedere le cose con serenità, come fa Jenny: lei ha un posto da leccarsi le dita; abita in una residenza splendida, con tutto il lusso possibile e immaginabile e, tranne i pochi giorni al mese in cui è presente Steven e ovviamente bisogna essere ai posti di combattimento, la pace regna sovrana; riceve chi vuole, non paga niente, e in cambio di un po’ di disponibilità e di pazienza gode di tutti i vantaggi della ricchezza senza doverne sopportare le preoccupazioni – perché i ricchi, secondo Jenny, sono oppressi dalle preoccupazioni: a nessuno piacerebbe essere al loro posto.

Certo, si potrebbero vedere le cose in questo modo. Eduard potrebbe considerare un meraviglioso dono del destino il suo ingresso in quella casa dove ormai praticamente vive. «Ma cazzo, Jenny, tu sei la cameriera! E io sono l’amante della cameriera!» gli scappa detto un giorno, come uno sputo in faccia. Vuole farla uscire dai gangheri. Ma Jenny non esce dai gangheri. Lo guarda, sorpresa più che rattristata, come se fosse matto, e invece di innervosirsi gli risponde con calma: «Nessuno ti obbliga a restare, Ed». Semplice ma eccellente risposta. No, nessuno lo obbliga a restare. Se non che, dopo aver assaporato il lusso, lui che a trentacinque anni non ha praticamente mai vissuto in condizioni dignitose, non ha la minima voglia di tornare all’Hotel Embassy, alle giornate oziose sui prati di Central Park, alle scopate nei bassifondi. Peccato, pensa Eduard, che Steven non sia finocchio.

 

7

 

Šmakov, che conosce tutti, gli dà notizie di Tanja. Eduard la credeva ormai inserita in un mondo a lui inaccessibile – loft, champagne, cocaina, artisti e modelle internazionali –, ma in realtà Tanja non se la passa molto bene. Ha lasciato Jean-Pierre, ha avuto altri amanti che l’hanno trattata piuttosto male, e dall’ultimo è stata addirittura piantata.

I due si rivedono. Tanja abita in uno squallido monolocale, non tanto diverso dalla loro topaia di Lexington. Tira su con il naso, ha gli occhi arrossati, e il frigo è vuoto. È già tanto se chiede a Eduard come vanno le cose: meglio così, a lui non farebbe piacere confessare la propria posizione di domestico acquisito. Escono a fare due passi, e sapendo che per lei come per lui è un magico toccasana Eduard le propone di andare a comprare vestiti da Bloomingdale. «Prendi quello che vuoi» dice Eduard. Lei lo fissa, preoccupata, sospettosa: avrà abbastanza denaro? Nessun problema, ha appena riscosso l’assegno del Welfare. Bene. Indovinate che cosa sceglie Tanja? Un paio di mutandine. Un paio di deliziose mutandine da puttana per metterci dentro la sua passera che lui non ha più il diritto di aprire e di penetrare. Tanja vuole provarle, ed esce dalla cabina a seno nudo, con i tacchi alti e i collant, con sopra le mutandine, e nonostante questo si intravedono i peli.

Eduard si domanda se è talmente abituata a girare così quando lavora da non farci neanche più caso, o se lo fa apposta, per eccitarlo e frustrarlo. La disprezza: è una troia, un’indossatrice fallita, una donna perduta che farà una brutta fine, ma dal fondo di quel disprezzo scaturisce un’ondata d’amore e di pietà che lo travolge. Che la sua principessa russa sia diventata quell’essere patetico, volgare, e anche cattivo per difendersi dal suo stesso terrore, gliela rende ancora più cara. Ora, più che di scoparla, ha voglia di stringerla fra le braccia, cullarla, consolarla. Ha voglia di dirle: «Finiamola con le stronzate, andiamocene finché siamo in tempo, concediamoci una seconda possibilità, l’unica cosa che conta al mondo è l’amore, è potersi fidare di qualcuno, e tu puoi fidarti di me, io sono leale, buono e forte, quando ho dato la mia parola non la ritiro. Non possiamo tornare nel nostro paese, ma possiamo lasciare questa grande città che ci mortifica, andare in un posto tranquillo. Troverò un lavoro come tutte le altre persone, farò il traslocatore come Lënja Kosogor, e poi comprerò un camion, due camion, diventerò proprietario di un’impresa di traslochi. Avremo una famiglia, la sera tu porterai in tavola la zuppa e io ti racconterò la mia giornata, la notte staremo abbracciati, io ti dirò che ti amo, ti amerò sempre, ti chiuderò gli occhi o tu li chiuderai a me».

Dopo avere speso cento dollari per due paia di mutandine, Eduard le propone di andare a bere qualcosa. Lei conosce un locale non distante, e va da sé che è un locale terribilmente costoso. Tanja si allontana un momento per fare una telefonata. Eduard, solo al tavolo, si ripete ciò che ha deciso di dirle e si esalta nel ripeterlo, ma quando torna lei gli chiede se non gli dispiace che li raggiunga un amico, e cinque minuti dopo l’amico compare. È un tizio sulla cinquantina, che ordina un whisky e tratta Tanja come un proprietario noncurante. Parlano entrambi, davanti a Eduard, di persone che lui non conosce, ridono, poi Tanja si alza, dice a Eduard che devono andare, si china sull’ex marito e gli dà un bacio leggero all’angolo delle labbra ringraziandolo, è stato davvero carino, mi ha fatto piacere vederti, e se ne va con il tizio lasciando a Eduard le tre consumazioni da pagare.

 

 

Eduard torna a casa passando per Madison Avenue e squadrando i passanti, soprattutto gli uomini, per fare un confronto: meglio di me? Peggio? Perlopiù sono vestiti meglio: siamo tra i ricchi. Molti sono più alti. Qualcuno più bello. Ma soltanto lui ha l’aria dura e determinata di uno capace di uccidere. E quando incrociano i suoi occhi, tutti distolgono lo sguardo spaventati.

Arrivato a Sutton Place, Eduard si mette a letto, si ammala. Per due settimane Jenny lo cura come un bambino. Le piace farlo, e quando lui sta meglio gli dice con un po’ di rimpianto: «Sembravi umano».

 

 

Torna l’estate. È passato un anno da quando Eduard ha scritto il suo libro a Central Park. Jenny gli ha proposto di andare in vacanza con lei sulla costa occidentale e lui ha accettato, un po’ per curiosità, un po’ per viltà, perché non può stare a Sutton Place quando lei non c’è, e il mese di agosto all’Hotel Embassy gli fa paura. Ma appena scesi dall’aereo, quando si ritrovano in un’auto a noleggio in compagnia del fratello e delle due migliori amiche di Jenny, quelle che lui non sopporta, Eduard capisce che sarà un incubo. La California non gli dispiace, ma bisognerebbe starci, pensa, insieme a Nastassja Kinski, non con quella combriccola di piccoli borghesi che giocano a fare gli hippy, bevono succo di carota e fanno i calcoli su un angolo della tovaglia di carta di miserabili caffetterie per dividere il conto, scoppiando a ridere rumorosamente, a lungo, per far vedere che, secondo la loro espressione preferita, «se la godono un sacco». Dopo tre giorni passati a farsi mantenere con aria imbronciata, Eduard non ne può più e decide di tornare a New York. Jenny non cerca di trattenerlo: il suo credo è che ognuno è libero di fare quello che vuole purché non dia fastidio agli altri.

 

 

New York è una fornace, e lui pensa, troppo tardi, che avrebbe fatto meglio a rimanere sulla costa occidentale: perso per perso, in agosto meglio starsene a Venice che a Manhattan. Ricomincia a scrivere. Niente poesie, stavolta, né un racconto. Prose brevi, raramente più lunghe di una pagina, in cui finisce tutto quello che Eduard ha in testa. Quello che ha in testa è spaventoso, ma bisogna riconoscere che sa vuotare il sacco con onestà: rancore, invidia, odio di classe, fantasie sadiche, ma nessuna ipocrisia, nessuna vergogna, nessuna scusa. In seguito queste pagine diventeranno un libro, a mio parere uno dei suoi migliori, con il titolo Diario di un fallito. Eccone un saggio:

«Verranno tutti. I delinquenti e i timidi – i timidi sanno battersi bene. Gli spacciatori di droga e i procacciatori di clienti per i bordelli. Verranno gli onanisti, gli amanti di riviste e di film porno. Verranno quelli che si aggirano da soli nelle sale dei musei o sfogliano libri nelle biblioteche cristiane. Verranno quelli che ci mettono due ore a sorseggiare il loro caffè da McDonald’s, guardando malinconicamente attraverso la vetrata. Verranno i falliti in amore, negli affari e nel lavoro, e quelli che hanno avuto la sfortuna di nascere in una famiglia povera. Verranno i pensionati che al supermercato fanno la coda nella fila riservata a chi compra meno di cinque articoli. Verranno i delinquenti neri che sognano di scoparsi una bianca di buona famiglia e, siccome non ce la faranno mai, la violentano. Verrà il doorman dai capelli grigi, che vorrebbe tanto sequestrare e torturare quell’insolente ragazzina ricca che sta all’ultimo piano. Verranno gli audaci e i forti di ogni strato sociale, per distinguersi e conquistare la gloria. Verranno gli omosessuali a coppie, tenendosi abbracciati, verranno gli adolescenti che si amano … Verranno i pittori, i musicisti, gli scrittori di cui nessuno compra le opere. Verrà la grande e valorosa tribù dei falliti, losers in inglese, in russo neudaèniki. Verranno tutti, imbracceranno le armi, occuperanno una città dopo l’altra, distruggeranno le banche, le fabbriche, gli uffici, le case editrici, e io, Eduard Limonov, marcerò in testa alla colonna, e tutti mi riconosceranno e mi ameranno».

 

 

Al ritorno dalle vacanze, Jenny gli dice con aria seria che deve parlargli. Eduard non si è accorto di niente, non ha avuto il minimo sospetto su quel buzzurro con baffi e camicia a scacchi a casa del quale hanno fatto una grigliata il giorno prima della sua precipitosa partenza, e ora viene a sapere che Jenny andrà a vivere con lui in California, che lo sposerà e avrà dei figli, e del resto è già incinta. «Tra noi non era vero amore» dice con dolcezza Jenny a Eduard, solo una bella amicizia che non ha motivo di finire nonostante la distanza fra una costa e l’altra, anzi. Da quella brava ragazza che è sempre stata, Jenny non vuole che Eduard soffra, e lui recita la parte di quello che capisce, che le augura di essere felice, che trova anzi che è meglio così, ma in realtà soffre, ed è una sofferenza che lo prende alla sprovvista e lo devasta. Pensava che sarebbe stato lui a lasciarla, non il contrario. Eduard non l’amava, ma era sicuro che lei lo amasse e questa certezza lo rassicurava. Aveva qualcuno che lo aspettava, un rifugio, e ora non ha più niente. Di nuovo il mondo ostile e il vento freddo, là fuori.

A Sutton Place è ancora il benvenuto, ma per una tazza di caffè, niente di più. Quando lo vede, Steven ha il cattivo gusto di battergli una mano sulla spalla, come per consolarlo di essere stato piantato – lui, Limonov, piantato da quella baldracca! Steven gli chiede che cosa abbia intenzione di fare ora. Il libro è ancora in lettura, brutto segno. Sapendo che Eduard è abile nei lavori manuali, Steven gli dice che un suo amico sta cercando qualcuno che esegua dei lavori in nero nella casa di campagna. Eduard si ritrova così per due mesi a Long Island con una pala e una cazzuola in mano per quattro dollari all’ora. In autunno i ricchi newyorkesi occupano le loro eleganti residenze al mare soltanto nel weekend. Durante la settimana non c’è nessuno. La casa non ha riscaldamento, né mobilia. Eduard vive accampato: dorme su un materasso in schiuma che isola alla bell’e meglio dal pavimento umido con un telone di plastica, rimesta zuppe liofilizzate su un fornello da campo, indossa maglioni l’uno sopra l’altro senza riuscire a scaldarsi. Qualche volta approfitta di una schiarita per andare in spiaggia a spaventare i gabbiani o a farsi una birra nell’unico bar, deserto, del paese più vicino, e sulla via del ritorno immancabilmente si inzuppa fino alle ossa. Allora si infila battendo i denti nel sacco a pelo e sogna Jenny che fa l’amore con il suo buzzurro con i baffi. Se gli avessero detto, quando stavano insieme, che un giorno si sarebbe fatto una sega pensando a lei…

Esclusi il proprietario del bar e quello del piccolo supermercato dove si rifornisce, Eduard non parla con nessuno per parecchie settimane di seguito. Benché abbia dato il proprio numero a qualche essere umano che considera ancora suo amico – Šmakov, Lënja Kosogor, Jenny –, il telefono non squilla mai. Nessuno pensa a lui, nessuno si ricorda che esiste. Eccetto, un giorno, il suo agente letterario, che lo chiama per dirgli che Macmillan ha rifiutato il manoscritto. Troppo negativo. In effetti, un libro che termina con la frase: «Andate tutti a farvi fottere!»… L’agente dice, senza crederci, che non si dà per vinto, che ha in mente altri editori. Eduard non vede l’ora di terminare quella conversazione sgradevole, non vede l’ora di riagganciare. Riaggancia. Resta seduto sul suo sacco di cemento, solo nella sala vuota, solo al mondo. La pioggia cade a raffiche così violente che colpisce le finestre di traverso, come in aereo. Eduard si dice che stavolta è fregato. Ha tentato e ha fallito. Resterà un proletario che fa buchi nel cemento, ridipinge le case dei ricchi fuori stagione e sfoglia riviste pornografiche. Morirà senza che nessuno sappia chi è stato.

 

 

Ho l’impressione di avere già scritto questa scena. In una storia inventata, bisogna scegliere: il protagonista può toccare il fondo una volta, anzi è consigliabile, ma due è troppo, si rischia di ripetersi. Nella realtà penso che Eduard il fondo l’abbia toccato parecchie volte. Parecchie volte si è ritrovato a terra, veramente disperato, veramente privo di appoggi e, cosa che ammiro in lui, si è sempre rialzato, si è sempre rimesso in cammino, si è sempre fatto coraggio pensando che, quando hai scelto la vita dell’avventuriero, sentirsi così perduti e soli, senza vie di scampo, non è altro che il prezzo da pagare. Quando Tanja l’ha mollato, per sopravvivere ha adottato la tattica di lasciarsi andare a fondo: la miseria, la strada, il sesso selvaggio, ai suoi occhi sono state altrettante esperienze. Stavolta gli viene un’altra idea. Di lì a poco Jenny raggiungerà il fidanzato in California, e Steven, che si rammarica di perderla, non è ancora riuscito a sostituirla. Lui, Eduard, ha svolto per parecchi mesi le mansioni di aiuto domestico riparando il piede di un tavolo, oliando gli attrezzi da giardinaggio, preparando un boršè che ha riscosso grande successo fra gli ospiti. Conosce la casa alla perfezione. E, soprattutto, Steven è uno snob: l’idea di avere per maggiordomo un poeta russo gli piacerà da pazzi.

 

8

 

Come previsto, a Steven l’idea piace eccome, e non soltanto l’idea, perché il poeta russo si rivela un maggiordomo esemplare. Esigente con la donna di servizio haitiana, in buoni rapporti con la segretaria, ma non facile da accontentare. Diffidente verso chiunque suoni alla porta, ma capace di passare con naturalezza dalla più grande circospezione alla più grande deferenza nel caso in cui l’estraneo si riveli non estraneo. È a proprio agio con i fornitori. Si fa mettere da parte i bocconi migliori da Ottomanelli, la macelleria più cara di New York; è un cuoco provetto, abile non soltanto nella preparazione di boršè e manzo alla Strogonoff, ma anche di quelle verdure piene di vitamine che piacciono tanto ai ricchi: finocchi, broccoli e rucola, di cui, prima di diventare maggiordomo, questo divoratore di patate e cavoli ignorava persino l’esistenza. È degno di fiducia al punto da essere mandato in banca a prelevare diecimila dollari in contanti. Bada a tutto, ricorda perfettamente i gusti e le abitudini del padrone. Gli serve il whisky alla temperatura giusta. Distoglie lo sguardo con disinvoltura quando una donna esce nuda dal bagno. Sa stare al suo posto, ma intuisce quali ospiti vedano di buon occhio una maglietta con l’immagine di Che Guevara sotto la livrea o che lui si unisca alla conversazione. Insomma, una perla. Gli amici di Steven glielo invidiano, tutta Manhattan ne parla.

 

 

La cosa andrà avanti per un anno, fino a quando un editore francese accetterà il romanzo di Eduard, che a quel punto prenderà il volo per Parigi con la commossa benedizione di Steven. I suoi libri saranno presto tradotti in America dagli stessi editori che li avevano rifiutati, e ora cerco di immaginare che cosa deve avere pensato Steven quando ha letto His Servant’s Story, pubblicato da Doubleday nel 1983.

Che cosa ha scoperto? Innanzitutto che appena il padrone voltava le spalle il maggiordomo esemplare scendeva dal suo piccolo alloggio nel sottotetto e prendeva possesso della master’s bedroom al piano nobile; che si rigirava fra le lenzuola di seta del padrone, fumava spinelli nella sua vasca da bagno, provava i suoi abiti, camminava a piedi nudi sulla sua soffice moquette; che rovistava nei suoi cassetti, si beveva il suo Château Margaux e, naturalmente, si portava a casa delle ragazze, pescate dove capitava, ogni tanto due alla volta: se le scopava e le guardava scopare nel grande specchio veneziano opportunamente inclinato sopra il letto king-size, facendo credere loro di essere, se non il padrone di casa, almeno uno dei suoi amici, un suo pari. Forse mi sbaglio, ma non penso che queste trasgressioni abbiano turbato Steven più di tanto. Perché credo, ma forse mi sbaglio di nuovo, che tutti i domestici sognino più o meno la stessa cosa, di scopare nel letto del padrone, che alcuni lo facciano e che chi assume un domestico – a meno che non sia un completo idiota – lo sappia e finga di non vedere. L’importante è che dopo tutto venga rimesso in ordine, che le lenzuola finiscano in lavatrice – e su questo di Eduard ci si poteva fidare.

No, ciò che deve aver veramente turbato Steven non è quello che il domestico faceva in sua assenza, ma quello che pensava in sua presenza.

Steven non era tanto ingenuo da credere che il poeta russo gli volesse bene, ma forse pensava di piacergli, e in effetti era vero. Eduard non trovava Steven né stupido né odioso; non aveva niente di personale contro di lui, ma di fronte a Steven si sentiva come il muik che pur obbedendo al barin aspetta che giunga la sua ora, e quando quell’ora sarà giunta entrerà dalla porta principale nella bella casa piena di oggetti d’arte del barin, la saccheggerà, gli violenterà la moglie, getterà a terra il barin stesso e lo prenderà a calci con un riso di trionfo. La nonna aveva descritto a Steven lo stupore dei nobili zaristi quando videro scatenarsi a quel modo i loro bravi Vanja tanto devoti e fedeli, che avevano visto nascere i loro figli ed erano sempre stati così carini, e penso che Steven abbia provato a sua volta lo stesso stupore nel leggere il libro dell’ex domestico. Per circa due anni Steven aveva vissuto senza alcun sospetto accanto a quell’uomo tranquillo, sorridente e simpatico, che gli era nemico nel più profondo dell’animo.

 

 

Immagino Steven mentre legge e ricorda il giorno – lo aveva completamente dimenticato – in cui ha inveito contro il suo domestico perché un paio di pantaloni non era tornato a tempo dalla lavanderia. Eduard ha incassato, con il volto pallido, chiuso nella sua impassibilità di mongolo. Un’ora dopo Steven si è scusato, l’incidente era chiuso e ne hanno riso – cioè, Steven ne ha riso. Non ha neanche lontanamente immaginato che se la sfuriata fosse durata qualche secondo in più Eduard sarebbe andato a prendere il trinciante dal cassetto della cucina e lo avrebbe sgozzato da un orecchio all’altro come un maialino da latte (questo almeno è quello che dice Eduard).

E il giorno del ricevimento offerto dall’alto dirigente dell’ONU? Il dirigente abitava nella casa confinante con quella di Steven, che ha fatto una capatina per un saluto informale, ha bevuto un po’ di champagne nel giardino illuminato dai riflettori, ha chiacchierato con diplomatici, mogli di diplomatici, congressmen e capi di Stato africani, senza sospettare – perché mai avrebbe dovuto? – che dall’abbaino di casa sua, là in alto, il domestico li stava osservando, e che quella festa di potenti alla quale lui non aveva alcuna speranza di essere invitato lo aveva messo in uno stato di furore tale da spingerlo a scendere in cantina, prendere il fucile da caccia del padrone, estrarlo dalla custodia, caricarlo e cominciare a mettere sotto tiro un ospite dopo l’altro. Eduard ne ha riconosciuto uno che aveva visto in televisione: era il segretario generale dell’ONU, Kurt Waldheim – del quale, vent’anni dopo, sarebbe venuto alla luce il passato nazista. Quella sera Steven ha scambiato qualche parola con lui, e mentre Steven parlava il suo domestico li teneva sotto tiro. Quando Steven e Waldheim si sono separati, Eduard ha seguito quest’ultimo da un crocchio all’altro, tenendolo sempre al centro del mirino. Il suo dito si irrigidiva sul grilletto. Era terribilmente difficile resistere. Se avesse sparato, Eduard avrebbe raggiunto la celebrità in un batter d’occhio. Tutto quello che aveva scritto sarebbe stato pubblicato. Il suo Diario di un fallito sarebbe diventato un libro di culto, la bibbia di tutti i losers rabbiosi del pianeta. Eduard si è gingillato con quest’idea, ha indugiato sull’orlo del gesto fatale come si indugia sull’orlo del piacere, poi Waldheim è rientrato in casa e, dopo un istante di tremenda delusione, il domestico ha pensato: «Meglio così. In fondo, non sono ancora a questo punto».

 

 

Peggio di tutto è quello che il domestico scrive sul bambino leucemico, figlio di altri vicini, una coppia deliziosa. Il piccolo aveva cinque anni, nel quartiere tutti lo adoravano e seguivano con angoscia crescente i progressi della malattia. La chemioterapia, la speranza, la ricaduta. Steven conosceva i genitori abbastanza da andarli a trovare. Ogni volta tornava a casa sconvolto. Pensava naturalmente ai propri figli. Un giorno il vicino gli ha detto che non c’era più niente da fare: questione di giorni, probabilmente di ore. Steven è sceso a dare la notizia a Jenny, che è scoppiata in lacrime. Eduard, che come al solito era in cucina, non ha pianto, ma sembrava anche lui commosso alla sua maniera pudica e militare. Sono rimasti tutti e tre in silenzio, e Steven serba di quel momento un ricordo stranamente luminoso. Le barriere sociali erano cadute; c’erano soltanto due uomini e una donna attorno a un tavolo, che aspettavano insieme la morte di un bambino. Tra loro non c’era altro che dolore, compassione e qualcosa di fragile che forse era amore.

Ed ecco quello che scrive Eduard:

«E va bene, morirà di cancro, il piccolo, e chi se ne frega! Sì, è un bel bambino, sì, che pena, ma io ripeto: chi se ne frega! Anzi, meglio così. Che crepi, quel moccioso figlio di ricchi, sono contento. Perché dovrei fingere tenerezza e pietà mentre la mia stessa vita, seria e unica, è distrutta da tutti quei merdosi, senza nessuna eccezione? Muori, bambino condannato! Non ti aiuteranno né il cobalto né i dollari. Il cancro non rispetta il denaro. Offrigli pure miliardi, lui non farà marcia indietro. Ed è bene che sia così: almeno una cosa davanti alla quale tutti sono uguali».

 

 

(«Che figlio di puttana!» pensa Steven, e lo penso anch’io, e probabilmente anche tu, lettore. Tuttavia, penso anche che se si fosse potuto fare qualcosa per salvare il bambino, meglio ancora qualcosa di difficile o pericoloso, il primo che si sarebbe dato da fare e si sarebbe gettato nella lotta con tutte le proprie forze sarebbe stato Eduard).

 

9

 

Un giorno Steven chiede al domestico di preparare la camera degli ospiti più bella per il suo illustre connazionale, il poeta Evgenij Evtušenko. Eduard non ha nessuna stima di quell’ipocrita, dissidente a metà, ricoperto di privilegi e di dacie, che riesce ad avere la botte schifosamente piena e la moglie completamente ubriaca, ma naturalmente non fiata. Evtušenko arriva, alto, bello, soddisfatto di sé, con una giacca di jeans lilla, una macchina fotografica dall’enorme zoom a tracolla e buste dei grandi magazzini piene di gadget di ogni tipo introvabili in patria: un bifolco siberiano sbarcato in città, secondo la definizione di Brodskij che prendo a prestito – e avendo incontrato anch’io Evtušenko, vent’anni dopo, la confermo. Steven, elettrizzato di avere in casa quel russo così russo, organizza un cocktail in suo onore. Del servizio si occupa Eduard, in livrea; com’è prevedibile, teme il momento umiliante della presentazione al grand’uomo, e questo puntualmente arriva, ma, con sua grande sorpresa, Evtušenko ribatte: Limonov? Ha sentito parlare del suo libro. «“Edièka”, giusto?». Dicono che sia formidabile, gli piacerebbe leggerlo.

La comitiva se ne va, prima al Metropolitan, dove è di scena Nureev, poi a cena al Russian Samovar sulla Cinquantaduesima Strada. Eduard invece sparecchia, riordina, e si corica presto: quando Steven è in città, non c’è altro da fare. Alle quattro del mattino squilla in camera sua il telefono interno: è Evtušenko, che gli chiede di scendere in cucina. È seduto insieme a Steven davanti al tavolo, su cui troneggia una bottiglia di vodka, sono entrambi molto ubriachi, hanno i nodi dei papillon disfatti, e invitano Eduard a bere con loro. Di ritorno dal Russian Samovar, Evtušenko ha letto la prima pagina del manoscritto che Eduard ha disciplinatamente lasciato in bella vista in camera sua, poi la seconda, seduto sulla tazza del cesso, e dopo un’altra cinquantina di pagine hai voglia riuscire a dormire. Evtušenko ha trascinato Steven in cucina per bere ancora e festeggiare la sua scoperta e ora ripete con voce impastata ma entusiasta: «It’s not a good book, my friend, it’s a great book! A fucking great book!» – Evtušenko trova che faccia molto cosmopolita e spregiudicato dire fucking, e lo dice a più non posso. Assicura che si adopererà per farlo pubblicare. Steven, che quando beve diventa sentimentale come il riccone con il cappello a cilindro di Luci della città, abbraccia con affetto il giovane prodigio. Fanno un brindisi al capolavoro, poi un altro, e il nostro Eduard riacquista speranza, certo, e si lascia andare un po’ all’euforia generale, ma ciò nonostante pensa, nel suo tenebroso intimo, che un miliardario americano e un poeta sovietico ufficiale appartengono alla medesima classe, quella dei padroni, che lui, Limonov, mille volte più dotato e pieno di energia non ne farà mai parte, che bevono al suo talento ma toccherà a lui ripulire tutto quel casino quando alla fine loro se ne andranno a letto; e che quando arriverà il grande giorno della rivoluzione non gliela farà mica passare liscia a quei due.

 

 

Dopo altri abbracci – ma da sobri sono meno calorosi –, Steven ed Evtušenko vanno a sciare in Colorado. Passano alcune settimane, senza notizie: faceva bene Eduard a non fidarsi. Ma proprio allora riceve una telefonata da un tizio che si chiama Lawrence Ferlinghetti. Quel nome non gli è nuovo: lui stesso poeta, Ferlinghetti è anche l’editore, leggendario, dei beatnik a San Francisco. Il suo amico Evgenij gli ha parlato di quel «grande libro», uno dei migliori scritti in russo dalla fine della guerra – un punto a favore di Evtušenko –, e gli piacerebbe leggerlo. Ferlinghetti è di passaggio a New York, ospite del suo amico Allen Ginsberg – quest’uomo ha soltanto amici famosi. Dato che Steven non c’è, Eduard lo invita a pranzo «a casa».

Ferlinghetti è un uomo non più giovane, calvo, con la barba, piuttosto di bella presenza. La moglie: anche lei niente male. Pur avendone viste tante, i due restano sbalorditi dal lusso di Sutton Place. Evtušenko non ha detto loro cosa facesse il poeta per vivere, dev’essersi dilungato sui passaggi più trash del libro, e si vede che la coppia si sta chiedendo, senza osare chiederlo a Eduard, com’è possibile che quel ragazzo che gli è stato descritto come un mezzo barbone, che va a letto con i neri a Harlem, abiti in un luogo simile. Ha forse un amante miliardario? Oppure è lui stesso miliardario, e bazzica i bassifondi di New York al modo in cui il califfo Hârûn ar-Rashîd bazzicava quelli di Baghdad: travestito da mendicante? Le loro facce cordiali sono ridotte a due punti interrogativi. Eduard è divertito dal malinteso, ma con sua grande sorpresa lo è ancor più dopo che si è rassegnato a chiarirlo. Perché, invece di essere delusi o di guardarlo improvvisamente dall’alto in basso, Ferlinghetti e la moglie scoppiano a ridere, entusiasti del tiro che Eduard ha giocato loro, e si dichiarano ancora più sbalorditi. Che burlone! Che avventuriero! Sicché Eduard non vede più se stesso come un servo ma come uno scrittore alla Jack London che, fra i cento pittoreschi lavori con cui avrà sbarcato il lunario – marinaio, cercatore d’oro, borsaiolo –, avrà fatto anche il servo. Recita per la prima volta davanti a un pubblico di intenditori la parte in cui eccelle: disinvolto, cinico, uno che scivola sulle onde della vita. È un trionfo. La coppia gli chiede di raccontare le sue avventure, e Eduard capisce d’istinto che il suo nuovo pubblico gradirà più la versione canaglia che quella dissidente. «Ma insomma,» gli chiede la moglie di Ferlinghetti che si beve ogni sua parola «lei è omosessuale?».

«Un po’ tutto» risponde lui con noncuranza.

«Un po’ tutto! Fantastico!».

 

 

Quando si lasciano, brilli ed eccitati, la pubblicazione sembra soltanto una formalità. Perciò il colpo è tanto più duro quando, un mese dopo, Eduard riceve da San Francisco il manoscritto con una lettera di Ferlinghetti, che non lo accetta e non lo rifiuta esplicitamente, ma suggerisce un finale diverso, una conclusione tragica: Edièka dovrebbe commettere un omicidio politico, come De Niro in Taxi Driver.

Eduard scuote il capo, avvilito: Ferlinghetti non ha capito niente. Dio solo sa se non ci ha pensato. C’è mancato poco che lo facesse, quando ha inquadrato Waldheim nel mirino del fucile. Se non lo ha fatto, è perché spera ancora di cavarsela diversamente. Lui subisce qualunque cosa, lavori di merda, rifiuti degli editori, solitudine, ragazze di categoria E, perché aspetta il giorno in cui entrerà nel salotto dei ricchi dalla porta principale, si scoperà le loro figlie vergini e verrà pure ringraziato. Sa esattamente cosa passa per la testa di un loser che, esasperato, prende un’arma e spara nel mucchio ma, dal momento che è capace di scriverlo, lui non è ancora quel loser, ed è escluso che lo sia il suo doppio su carta.

La lettera termina con un poscritto, questo: «Visto che oggi il protagonista del suo libro abita in una casa lussuosa in cambio di un lavoro non troppo impegnativo e approfitta, in una certa misura, dei vantaggi della società borghese, non è per caso un po’ più indulgente verso questa stessa società? Non la guarda con occhi più sereni?».

Stronzo. Cazzo, che stronzo.

Falsa speranza, colpo di grazia. Sembra che vada tutto a puttane un’altra volta, e poi, come capita, tutto si rimette in moto. Qualcuno, a Parigi, parla del libro a Jean-Jacques Pauvert. Eduard non sa ancora che si tratta di un editore mitico e sulfureo almeno quanto Ferlinghetti: l’editore dei surrealisti, di Sade e di Histoire d’O, condannato dieci volte per oltraggio al pudore o per offesa al capo dello Stato e dieci volte rinato, allegramente. Pauvert è entusiasta dei pochi capitoli letti in traduzione e decide di pubblicare il libro. Sarà un po’ complicato, perché la sua casa editrice è fallita di nuovo e Pauvert deve trovare ospitalità presso un altro editore, ma non importa. Ciò che conta è che «Io, Edièka» esce nell’autunno del 1980 con il titolo a sensazione trovato da Pauvert: Il poeta russo preferisce i grandi negri.

 

IV
PARIGI, 1980-1989

 

 

1

 

Quando Limonov è arrivato a Parigi io ero appena tornato dall’Indonesia, dove avevo trascorso due anni. Non si può certo dire che prima di quell’esperienza avessi avuto una vita molto avventurosa. Sono stato un bambino giudizioso, poi un adolescente troppo colto. Mia sorella Nathalie, che doveva svolgere un tema dal titolo «Descrivete la vostra famiglia», fece di me questo ritratto: «Mio fratello è molto serio, non fa mai sciocchezze, legge tutto il giorno libri da grandi». A sedici anni avevo un gruppo di amici appassionati come me di musica classica. Passavamo ore intere a confrontare diverse esecuzioni di un quintetto di Mozart o di un’opera di Wagner, scimmiottando la leggendaria trasmissione di France Musique «La Tribune des critiques de disques» i cui ospiti ci affascinavano per l’erudizione, la malafede e l’evidente piacere di costituire una piccola enclave di civiltà ironica e brontolona in un mondo di barbari votati ai ritmi binari. Studente al Lycée Janson-de-Sailly, poi iscritto a Scienze Politiche, ho trascorso gran parte degli anni Settanta a disprezzare il rock, a non ballare, a ubriacarmi per darmi un tono e a sognare di diventare un grande scrittore. Nell’attesa, sono diventato una specie di Wunderkind della critica cinematografica, pubblicando sulla rivista «Positif» lunghi articoli sul cinema fantastico o su Tarkovskij, nonché, sui film che mi sembravano brutti, trafiletti la cui cattiveria oggi mi farebbe arrossire. In politica, ero orientato decisamente a destra. Se mi avessero chiesto perché, avrei risposto, immagino, per dandismo, piacere di appartenere a una minoranza, rifiuto del conformismo. Sarei rimasto stupito se mi avessero detto che, lettore di Marcel Aymé e ferocemente avverso a ciò che ancora non veniva chiamato «politicamente corretto», riproducevo le opinioni della mia famiglia con una remissività tale da fornire una illustrazione esemplare delle tesi di Pierre Bourdieu.

Mi secca mostrarmi così poco indulgente con l’adolescente e il ventenne che sono stato. Vorrei amarlo, riconciliarmi con lui, ma non ci riesco. Mi sembra di poter dire che ero terrorizzato: dalla vita, dagli altri, da me stesso – e che l’unico modo per impedire al terrore di ridurmi alla paralisi totale fosse ripiegarmi su me stesso in un atteggiamento ironico e disincantato, e considerare ogni tipo di entusiasmo o impegno con il ghigno del tipo a cui non la si fa, uno che sa come va il mondo senza essere mai andato da nessuna parte.

 

 

Alla fine però da qualche parte ci sono andato, e ho anche avuto la fortuna di non andarci da solo. A Scienze Politiche ho conosciuto Muriel. Era una bellissima ragazza, aveva il fisico perfetto di una modella di «Playboy» e si vestiva lasciando poco spazio alla fantasia. In rue Saint-Guillaume, dove a quel tempo gli studenti portavano tutti il loden, abbinato con foulard Hermès per le ragazze, e con camicie dal colletto chiuso da un fermaglio d’oro sotto la cravatta per i ragazzi, faceva l’effetto di una bomba. Io, sia detto a mia discolpa, portavo Clarks malconce e una vecchia giacca di pelle, ero uno studente svogliato, beffardo, poco motivato, fedele ai valori menefreghisti delle superiori, che evidentemente non trovavano più spazio in una scuola in cui tutti già si vedevano al timone della Francia. Scrivevo racconti di fantascienza e recensioni di film che mi procuravano l’invito a proiezioni private dove potevo portare con me qualche ragazza, e presumo di dover ringraziare questa miscela di elementi artistici e bohémien, questa generica attitudine all’obiezione di coscienza se, nonostante la mia timidezza, ho agganciato la ragazza più sexy e allo stesso tempo meno presentabile del mio anno.

Come gli studenti di Scienze Politiche, anche i miei amici appassionati di musica classica trovavano Muriel un po’ volgare. Parlava a voce alta, rideva a voce alta, sottolineava le frasi con «voglio dire» e «capisci», rollava spinelli con una macchinetta di metallo che mi ha regalato, e che ho ancora, sul fondo della quale aveva scritto con un pennarello Don’t forget. Ogni volta che l’apro penso a lei con gratitudine, chiedendomi che strada avrebbe preso la mia vita se fossimo rimasti insieme più a lungo. Era una vera fricchettona, e ha fatto anche di me un vero fricchettone. Al termine di un’adolescenza passata a leggere scrittori di destra del periodo fra le due guerre sognando di andare un giorno al festival di Bayreuth, mi ritrovavo in una isolata fattoria della Drôme a fumare erba, ad ascoltare musica psichedelica, a lanciare su kilim sfilacciati le tre monete che permettono di interpretare l’I Ching, e soprattutto a fare l’amore con una ragazza allegra e schietta, la quale, nuda dalla mattina alla sera, mi regalava lo spettacolo e il godimento di un corpo quasi soprannaturale nel suo splendore – e a vent’anni, venendo da dove venivo, indubbiamente non poteva capitarmi di meglio.

 

 

All’epoca il servizio militare era obbligatorio, e per i giovani borghesi come me che non volevano diventare una spina né un allievo ufficiale di complemento c’erano due soluzioni: farsi riformare o andare all’estero con un progetto di cooperazione internazionale. Dopo l’università, ho optato per la cooperazione. Sono stato nominato professore presso il Centro culturale francese di Surabaya, un porto industriale sulla punta orientale di Giava, dove Conrad ha ambientato il romanzo Vittoria e il cui esotico nome ha ispirato a Brecht e Kurt Weill la canzone Surabaya Johnny. Il Centro culturale si trovava in una bella residenza olandese, teatro durante l’occupazione giapponese di interrogatori molto duri, qualcosa di simile da noi alla sede della Gestapo in rue Lauriston. Quel luogo aveva visto atrocità tali da giustificarne la nomea di casa abitata dagli spiriti. Due volte all’anno veniva l’esorcista ed era assai difficile trovare qualcuno disposto a fare da guardiano, ma a parte questo il giardino era un incanto. Insegnavo il francese a signore della buona società cinese che avevano figli ormai grandi e si annoiavano un po’: per loro frequentare quelle lezioni faceva parte del bon ton, come il bridge. Traducevamo articoli di «Vogue» su Catherine Deneuve e Yves Saint Laurent. Mi trovavano simpatico, credo. Poco dopo il mio arrivo mi ha raggiunto Muriel. Facevamo lunghi giri in moto; il brulichio dell’Asia, gli odori dell’Asia ci inebriavano. E proprio a Surabaya, ispirato dalle nostre esperienze con i funghi allucinogeni, ho cominciato il mio primo romanzo. In quegli anni il genere «primo romanzo di un cooperante» si era ritagliato un suo piccolo spazio. Ogni autunno ne venivano pubblicati tre o quattro: un ragazzo dei quartieri bene, che nutriva vaghi sogni letterari, si ritrovava per due anni in Brasile, in Malesia o nello Zaire, lontano dalla famiglia e dagli amici, si prendeva per un avventuriero e raccontava la propria avventura, romanzandola più o meno – per quanto mi riguarda, più anziché meno.

Appena avevo qualche giorno libero, io e Muriel andavamo a Bali, che ci attirava non tanto per lo stile di vita dei balinesi – feste popolari, musica tradizionale, riti ancestrali –, quanto per quello degli occidentali che si erano stabiliti nei lodges di Kuta Beach e di Legian: surf, magic mushrooms e feste in spiaggia alla luce delle torce. Quella società edonistica e cool era divisa in caste. Oltre alla plebe dei turisti di passaggio con macchina fotografica al collo, che non degnavamo nemmeno di uno sguardo, c’erano: i giramondo squattrinati ossessionati dall’idea di non farsi raggirare e di pagare ogni cosa al suo giusto prezzo; i surfisti australiani, tipi senza complicazioni che bevevano birra, ascoltavano hard rock e si vedevano spesso in compagnia di belle ragazze; e, infine, l’aristocrazia, quelli che io e Muriel chiamavamo «fricchettoni chic» e a cui sognavamo di somigliare. Affittavano per la stagione belle case in legno sulla spiaggia. Venivano da Goa, ripartivano per Formentera. Portavano abiti di lino e seta più raffinati di quelli in vendita nei negozi del paese e con cui si agghindavano i turisti. La loro erba era migliore e la loro scioltezza più naturale. Praticavano lo yoga, si dedicavano ad affari che non sembravano mai urgenti. Le entrate che permettevano loro di condurre quella vita meravigliosamente sventata provenivano da traffici su cui erano evasivi: droga, per i più temerari (e temerari dovevano esserlo davvero, perché in Indonesia rischiavano l’ergastolo, da scontare in prigioni spaventose, o addirittura l’impiccagione); pietre preziose, mobili, tessuti, per i pesci più piccoli. Con la sua bellezza e la sua simpatia, Muriel è stata ben presto adottata da quell’ambiente in cui sapevo bene che, senza di lei, non avrei mai messo piede. Ero geloso, e ho iniziato a ostentare disprezzo per quello che in realtà invidiavo, così i nostri rapporti hanno cominciato a incrinarsi. Ciò nonostante, più restavamo a Bali e frequentavamo i fricchettoni chic, meno avevamo voglia di tornare a Parigi alla scadenza fissata, per riprendere gli studi o cercare lavoro. Nelle giornate buone, mi vedevo a scrivere sulla terrazza di una casa di bambù in riva al mare. A torso nudo, con un sarong stretto in vita, aspiravo una boccata della canna che mi aveva passato Muriel prima di scendere a fare il bagno; la guardavo mentre si allontanava ancheggiando sulla spiaggia, bionda, abbronzata, stupenda, e pensavo che quella vita faceva davvero per noi. Così abbiamo cercato il modo di prolungarla, e per cominciare ci siamo mossi con prudenza. Nei negozi di Kuta si trovavano bikini di qualità scadente ma piuttosto carini, intessuti di fili dorati. Da diversi produttori abbiamo saputo che costavano un dollaro l’uno e, secondo Muriel, si potevano rivendere a Parigi a un prezzo dieci volte superiore. Sicché abbiamo investito tutto il denaro che avevamo, più l’indennità che spetta ai cooperanti al termine dei due anni, per ordinare cinquemila costumi da bagno, da spedire in Francia a spese del ministero degli Esteri, che sarebbero serviti per mettere in moto l’ingranaggio grazie al quale io e Muriel avremmo vissuto tra Parigi e Bali, soprattutto Bali.

 

 

La faccio breve. Quando il produttore mi ha consegnato gli scatoloni Muriel mi aveva lasciato da un mese per un fricchettone più vecchio, più sicuro di sé, più cool, con il quale, da quel ragazzo tormentato e sempre più odioso che ero, non reggevo minimamente il confronto. E così, dopo avere sognato di mollare gli ormeggi e vivere una vita avventurosa, ero tornato a Parigi solo, infelice, portandomi dietro il manoscritto di un romanzo che raccontava una meravigliosa storia d’amore e cinquemila costumi da bagno intessuti di fili dorati che rievocavano la fine di quell’amore e, pensavo, della mia stessa vita. Ho un ricordo spaventoso dell’inverno successivo al mio rientro. Non sono mai stato grasso, ma il caldo dei Tropici mi aveva fatto perdere dieci chili, e ciò che laggiù poteva essere scambiata per elegante snellezza asiatica diventava, nel grigiore parigino, una magrezza da fantasma o da malato grave. Lo spazio che mi era stato concesso sulla terra si era ristretto, per strada la gente mi urtava senza vedermi, e io avevo paura che finissero per camminarmi direttamente sopra. Nel monolocale in cui abitavo c’erano un materasso steso sul pavimento, qualche sedia e, come tavoli, le due casse contenenti i costumi da bagno. Quando veniva a trovarmi una ragazza, la invitavo a servirsi, a prenderne cinque, dieci, quanti ne voleva. I costumi riscuotevano scarso successo, non ricordo nemmeno più come e quando me ne sono sbarazzato. Il mio romanzo ormai mi ispirava solo disgusto; l’ho spedito comunque ad alcuni editori le cui lettere di rifiuto hanno scandito l’inverno. Avevo sognato che il trionfo dello scrittore avrebbe vendicato l’insuccesso dell’avventuriero e dell’amante, ma evidentemente avevano fatto fiasco tutti e tre.

 

2

 

Due anni prima, invece, era toccato a mia madre diventare famosa. Su richiesta di un editore intelligente, lei, che fino a quel momento era stata un’accademica stimata solo dai colleghi, aveva sintetizzato le ricerche che conduceva sin dall’inizio della sua carriera in un libro che si era trasformato rapidamente in un best seller. All’epoca la tesi di Esplosione di un impero? era innovativa e coraggiosa. È un errore, diceva mia madre, identificare la Russia con l’URSS. L’URSS è un mosaico di popolazioni che convivono alla meno peggio e in cui le minoranze etniche, linguistiche e religiose (soprattutto musulmane) sono così numerose, così veloci nel riprodursi e così insoddisfatte della propria condizione che finiranno, con il tempo, per diventare la maggioranza, rappresentando quindi una minaccia per l’egemonia russa. Di conseguenza, è un errore non meno grave credere (come credevano tutti o quasi nel 1978) che l’impero sovietico rimarrà al suo posto ancora per diverse generazioni: l’URSS è fragile, sosteneva mia madre, corrosa dalle identità nazionali come da termiti, ed è probabile che finirà per crollare.

L’URSS non è crollata affatto a quel modo, ma il nuovo decennio ha confermato comunque le intuizioni di mia madre, che è stata elevata al rango di oracolo, posizione che lei in seguito ha accuratamente evitato di mettere a repentaglio con profezie avventate. Esplosione di un impero? ha destato abbastanza scalpore da meritarsi un articolo sulla prima pagina della «Pravda», nel quale la «tristemente nota» Hélène Carrère d’Encausse veniva denunciata quale ispiratrice di una forma nuova e particolarmente perniciosa di anticomunismo. Ciò non toglie che l’anno successivo mia madre si sia recata a Mosca e abbia incontrato l’autore dell’articolo, uno storico, al quale brillavano gli occhi allorché le ha chiesto: «Ha con sé il libro? No? Che peccato, mi sarebbe tanto piaciuto leggerlo. Dicono che sia un ottimo lavoro» – a riprova del fatto che quei tempi di brenevismo crepuscolare erano diventati decisamente vegetariani.

Come esperta ormai indiscussa dell’Unione Sovietica, mia madre ha iniziato a ricevere tutto ciò che riguardava quel paese da vicino o da lontano. Così è successo che, una domenica di quel crudele inverno in cui ero a pranzo dai miei genitori, spulciando la pila degli ultimi arrivi mi sono imbattuto in un libro dal titolo intrigante: Il poeta russo preferisce i grandi negri. La pagina di guardia recava una dedica dalla grafia incerta perché poco avvezza all’alfabeto latino: «A Carrère d’Encausse dal Johnny Rotten della letteratura». Nonostante il mio malumore allora cronico, ho sorriso al pensiero che di certo l’autore di quella dedica non sapeva chi fosse quel «Carrère d’Encausse» a cui l’editore lo aveva costretto a spedire il libro più di quanto mia madre sapesse chi era Johnny Rotten. Le ho chiesto se l’aveva letto. Lei ha risposto con un’alzata di spalle: «Soltanto sfogliato. È noioso e pornografico» – due vocaboli che nella nostra famiglia sono considerati sinonimi. Mi sono portato via il libro.

 

 

Non l’ho trovato noioso, tutt’altro, ma mi ha fatto male, e non era quello di cui avevo bisogno. La mia ambizione era diventare un grande scrittore, ma mi sentivo lontano anni luce dal realizzarla, e il talento altrui mi oltraggiava. I classici, i grandi defunti, passi ancora, ma quelli che avevano solo pochi anni più di me… Dato che si trattava di Limonov, la prima cosa che mi ha colpito non è stato il suo talento di scrittore. Poiché il dio della mia gioventù era Nabokov, e solo con il tempo sono arrivato ad amare la prosa sincera e diretta, devo avere pensato che lo stile del poeta russo fosse un po’ corrivo. Quel che raccontava, ossia la sua vita, mi impressionava più del modo in cui lo raccontava. Che vita! Che energia! Quell’energia, purtroppo, anziché stimolarmi, mi faceva sprofondare sempre di più, pagina dopo pagina, nella depressione e nell’odio per me stesso. Più leggevo, e più mi sembrava di essere fatto di una materia sbiadita e mediocre, e di essere destinato a recitare nel mondo la parte della comparsa, una comparsa amareggiata e invidiosa che sogna ruoli da protagonista ben sapendo che non li avrà mai perché le mancano il carisma, la generosità, il coraggio, tutto, tranne la spaventosa lucidità dei falliti. Avrei potuto consolarmi pensando che anche Limonov aveva provato quello che provavo io, che anche lui divideva l’umanità, come facevo io all’epoca, in forti e deboli, vincitori e vinti, VIP e plebaglia, che anche lui viveva attanagliato dall’angoscia di appartenere alla seconda categoria e che proprio quell’angoscia, espressa in modo così crudo, era la forza del suo libro. Ma queste cose non le vedevo. Vedevo soltanto che lui era un avventuriero e anche uno scrittore pubblicato, mentre io non ero e non sarei mai stato né l’uno né l’altro, e l’unica e grottesca avventura della mia vita si era conclusa con un manoscritto che non interessava a nessuno e due casse piene di ridicoli costumi da bagno.

 

 Tornato dall’Indonesia, ho trovato impiego come critico cinematografico. Un editore che aveva notato i miei articoli e intendeva avviare una collana di monografie sui registi contemporanei mi ha proposto di scriverne una, su chi mi pareva, e io ho scelto Werner Herzog. Ammiravo i suoi film, che all’epoca avevano un enorme successo, ma soprattutto lui. Herzog aveva lavorato in fabbrica per autofinanziarsi, senza perdere tempo a convincere questo o quello, documentari estatici che mostravano sopravvissuti a catastrofi, esclusi, miraggi. In Aguirre, furore di Dio, aveva domato la foresta amazzonica e la follia dell’attore protagonista, Klaus Kinski. Aveva attraversato l’Europa a piedi, in pieno inverno e in linea retta, per impedire alla morte di portarsi via un’anziana signora, Lotte Eisner, che era la memoria del cinema tedesco. Possente, fisico, intenso, assolutamente estraneo allo spirito frivolo e ironico che era la specialità di noi parigini dei primi anni Ottanta, andava per la sua strada senza fermarsi davanti a niente, sfidando la natura, coartando all’occorrenza l’indole di qualcuno, senza farsi condizionare dalla prudenza o dagli scrupoli di quanti stentavano a tenergli dietro. Con lui, il cinema assumeva una dimensione diversa dalle chiacchiere da caffè filmate dagli studenti usciti dall’IDECH. Insomma, ammiravo Herzog come fosse un superuomo e di conseguenza, secondo uno schema che da qualche pagina dovrebbe essere chiaro, ero ancora più avvilito di non essere io stesso un superuomo.

Ho toccato l’apice dell’avvilimento quando, subito dopo la pubblicazione del mio libro, il settimanale «Télérama» mi ha inviato al festival di Cannes per intervistare Herzog che presentava il suo ultimo film, Fitzcarraldo. Ai miei amici sembrava una fortuna poter andare a Cannes: a me è sembrata una cosa atroce, il teatro di una continua umiliazione. Giornalista freelance agli esordi e senza conoscenze, occupavo uno dei gradini più bassi della scala che dalle celebrità volteggianti nell’empireo scende fino al popolo bue accalcato dietro le transenne per intravedere le star e, con un po’ di fortuna, farsi fotografare con loro. Appena sopra il popolo bue, ma senza l’ingenuità che permette a questo, in fondo, di essere contento del proprio destino, ero fornito di un badge che mi consentiva di assistere alle proiezioni più scomode: la plebaglia della plebaglia. Per il giorno della presentazione in concorso di Fitzcarraldo, al mio editore è venuta l’idea di organizzare nel palazzo del festival, al termine della proiezione, una vendita di copie autografate del mio libro. Mi sono dunque ritrovato dietro un banchetto pieno di copie del libro in attesa dei clienti, come in seguito mi è capitato spesso nelle librerie o nei Saloni – una situazione che può essere una rude prova, e nel mio battesimo del fuoco l’ho sperimentata nella sua versione più crudele, poiché chi esce da una proiezione a Cannes è bombardato per tutto il giorno da materiale che non sa più dove mettere, rassegne stampa, libri fotografici, curricula vitae e brochure di ogni tipo, e non lo sfiora minimamente l’idea di comprare qualcosa di stampato. Perlopiù i potenziali clienti che passavano davanti al mio banchetto neanche si accorgevano di me, tranne qualcuno che, con il gesto automatico e svogliato con cui, al passaggio del vassoio, l’imbucato a una festa prende una coppa di champagne perché è gratis, si portava via una copia del libro, e mentre si allontanava cercava già con lo sguardo un cestino per liberarsene, come si fa con un volantino elettorale accettato per vigliaccheria o per buona educazione, e io ero costretto a rincorrerlo per spiegargli, con tono di scuse, che in realtà quel libro era in vendita.

Ma questa prova non è stata nulla al confronto dell’intervista con Herzog. Tramite il suo addetto stampa, la vigilia dell’incontro gli avevo fatto avere il mio libro. Sapevo che Herzog non leggeva il francese, e quindi non mi aspettavo chissà quali commenti, ma almeno che ricevesse un ragazzo che aveva passato un anno a scrivere un saggio sui suoi film con un po’ più di calore di quello riservato ai giornalisti scafati, a cui, a blocchi di tre quarti d’ora a testa, dedicava l’intera giornata. Mi ha aperto lui stesso la porta della sua suite al Carlton. Indossava una informe maglietta a maniche corte, un paio di pantaloni da lavoro e pesanti scarponi da trekking, sembrava appena uscito dalla sua tenda al campo base dell’Everest sotto una tempesta, e naturalmente non sorrideva: tutto in regola. Io invece sorridevo, pure troppo. Temevo che l’addetto stampa non lo avesse avvertito e che Herzog mi scambiasse per uno dei soliti giornalisti, ma quando ci siamo seduti ho visto il mio libro sul tavolino e ho farfugliato in inglese qualcosa come: «Ah, gliel’hanno dato. So che non può leggerlo, ma…».

Mi sono fermato, sperando che continuasse lui. Mi ha guardato un istante in silenzio, con l’aria saggia e severa che immaginiamo avessero Martin Heidegger o Meister Eckhart, poi con una voce molto bassa e allo stesso tempo dolcissima, una voce assolutamente magnifica, ha detto, ricordo le sue esatte parole: «I prefer we don’t talk about that. I know it’s bullshit. Let’s work».

Let’s work voleva dire: facciamo l’intervista, mi tocca, fa parte delle rotture inevitabili, come le zanzare in Amazzonia. Ero così timido e stupito che invece – invece di cosa? di alzarmi e andarmene? di dargli un pugno? Quale sarebbe stata la reazione adeguata? – ho acceso il registratore e gli ho rivolto la prima domanda che mi ero preparato. Lui ha risposto, come alle seguenti, in modo molto professionale.

Un ultimo episodio prima di ritornare a Limonov. Siamo nel settembre del 1973, e i protagonisti sono Sacharov e la moglie, Elena Bonner, in vacanza per qualche giorno sul Mar Nero. In spiaggia, un tizio rivolge loro la parola. Si presenta come un accademico, e dice a Sacharov che lo ammira, non solo come scienziato ma anche come cittadino, perché rende onore al paese eccetera. Sacharov lo ringrazia, commosso. Due giorni dopo la «Pravda» pubblica un lungo articolo in cui quaranta accademici denunciano Sacharov – con il risultato che Sacharov sarà confinato per quindici anni a Gor’kij. Tra i firmatari c’è il tizio che si è rivolto a lui e a sua moglie con tanta cordialità. Quando Elena Bonner lo viene a sapere, prorompe in imprecazioni: quello è proprio l’ultimo dei farabutti. Il testimone che riferisce l’episodio si stupisce che Sacharov non sia né indignato né irritato. Ma Sacharov riflette. Esamina il problema da scienziato: la condotta dell’accademico gli appare, più ancora che ripugnante, incomprensibile.

Ignoro se Sacharov abbia trovato una spiegazione – o forse la spiegazione, direbbe Alexsandr Zinov’ev, è la società sovietica nel suo insieme. Per quanto mi riguarda, ne cerco una al comportamento di Herzog. Che soddisfazione poteva dargli offendere gratuitamente, pacatamente, un ragazzo che si presentava da lui esprimendogli tutta la sua ammirazione? Herzog non aveva letto il libro, ma anche ammettendo che fosse brutto, la questione non cambia. Mi dispiace riferire un aspetto così antipatico di un uomo che nonostante tutto ammiro, e le cui opere recenti mi inducono a credere che non farebbe più una cosa del genere, e sarebbe anzi molto sorpreso se qualcuno gli ricordasse quella storia; eppure, è una storia che ha un significato, sia per me che per lui.

 

 

Un amico a cui ho raccontato la mia disavventura mi ha detto ridendo: «Così impari ad ammirare i fascisti». Un giudizio drastico e, penso, motivato. Herzog, che pure era capace di provare una fervida compassione per un aborigeno sordomuto o un vagabondo schizofrenico, considerava un giovane cinefilo con gli occhiali una cimice che meritava di essere moralmente schiacciata, e io ero il candidato ideale a quel trattamento. Mi sembra che qui sia in gioco qualcosa che costituisce il centro nodale del fascismo.

Che cosa troviamo, se questo centro lo mettiamo a nudo? A voler essere radicali, una visione del mondo indiscutibilmente scandalosa: Übermenschen e Untermenschen, ariani ed ebrei, d’accordo – ma non è di questo che voglio parlare. Non voglio parlare né di neonazisti né di sterminio dei presunti esseri inferiori, e nemmeno del disprezzo esibito con la ruvida franchezza di un Werner Herzog, ma del modo in cui ciascuno di noi si rassegna al fatto ovvio che la vita è ingiusta e gli uomini non sono uguali: più o meno belli, più o meno dotati, più o meno attrezzati per la lotta. Nietzsche, Limonov e questa istanza in noi che io definisco «il fascista» dicono in coro: «È la realtà, il mondo così com’è». Che altro dire? Quale potrebbe essere l’alternativa a questa ovvietà?

«Lo sappiamo benissimo» risponde il fascista. «La pia menzogna, il buonismo di sinistra, il politicamente corretto, tutte cose più diffuse della lucidità».

Io invece direi: il cristianesimo. L’idea che nel Regno, che non è certamente l’aldilà ma la realtà della realtà, il più piccolo è il più grande. Oppure l’idea, espressa in un Sûtra buddhista che mi ha fatto conoscere il mio amico Hervé Clerc, secondo la quale «l’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà».

Forse quest’idea ha senso soltanto nel quadro di una dottrina che considera l’«io» un’illusione, e chi non vi aderisce potrebbe addurre mille controesempi; tutto il nostro sistema di pensiero si fonda su una gerarchia di meriti per cui il Mahatma Gandhi è una figura umana più elevata, diciamo, del pedofilo e assassino Marc Dutroux. Scelgo di proposito un esempio incontrovertibile, poiché molti casi sono discutibili, i criteri variabili, e del resto gli stessi buddhisti insistono sulla necessità di distinguere, nella condotta di vita, l’uomo puro dal corrotto. Tuttavia, e benché io stesso stabilisca di continuo gerarchie del genere, e come Limonov non possa incontrare uno dei miei simili senza chiedermi più o meno consapevolmente se sono al di sopra o al di sotto di lui e sentirmi quindi sollevato o mortificato, penso che quest’idea – ripeto: «L’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà» — rappresenti il vertice della saggezza e non basti una vita a farsene permeare, ad assimilarla, a interiorizzarla in modo che cessi di essere un’idea e plasmi invece il nostro modo di vedere e di agire in ogni situazione. Scrivere questo libro rappresenta per me un modo bizzarro di lavorarci su.

 

3

 

Oltre a scrivere su «Télérama», conducevo una trasmissione settimanale per una radio libera, e quando è uscito Diario di un fallito ho invitato Limonov come ospite. Sono passato a prenderlo in moto. Abitava in un monolocale del Marais arredato in modo spartano; a terra c’erano dei pesi e sul tavolo, accanto alla macchina per scrivere, un attrezzo a molla per irrobustire i muscoli delle mani. Strizzato in una T-shirt nera che ne metteva in risalto pettorali e bicipiti, e con i capelli tagliati a spazzola sembrava un parà, ma un parà con un gran paio di occhiali e qualcosa di stranamente infantile nella figura, nel volto, nell’espressione. La foto che accompagnava la mia recensione del Diario mostrava Limonov con una cresta di capelli alla moicana, varie spille, tutta una panoplia da punk che doveva risalire al suo arrivo in Francia ed era già passata di moda, e una delle prime cose che mi ha detto è stata che avremmo potuto mettere una foto più recente: sembrava che quella scelta lo infastidisse davvero.

Non ricordo granché della trasmissione. Al termine l’ho riportato a casa, e al momento di lasciarci non gli ho proposto di andare a bere qualcosa né di rivederci alla prima occasione. Eppure proprio così Eduard si era fatto i primi amici a Parigi, molti dei quali erano, come me, giornalisti freelance, conduttori di trasmissioni in radio libere, editori agli esordi. Gente fra i venti e i trent’anni a cui era piaciuto il suo primo libro e che aveva colto il pretesto di un’intervista per conoscerlo, dopodiché erano andati a bere qualcosa, a cena insieme, erano usciti in gruppo e avevano fatto amicizia. Arrivato da poco a Parigi, Limonov, che non conosceva nessuno e parlava male il francese, aveva chiaramente una gran voglia di incontrare quel genere di persone, e in breve, grazie a Thierry Marignac, Fabienne Issartel, Dominique Gaultier o il mio amico Olivier Rubinstein è entrato a far parte della piccola tribù dei modaioli parigini: vernissage, cocktail da editori, serate al Palace e poi ai Bains-Douches. Io invece non facevo parte di quella tribù, che fingevo di snobbare e che in realtà mi intimidiva. È triste dirlo, ma non sono mai andato al Palace. In seguito, ho incontrato Limonov solo qualche volta, di solito alle feste a casa di Olivier. Ci scambiavamo un saluto superficiale, poche parole. Lui esisteva molto per me e io, pensavo, molto poco per lui. Per questo sono rimasto sbalordito quando, rivedendolo venticinque anni dopo a Mosca, si è ricordato perfettamente le circostanze in cui ci eravamo conosciuti, la trasmissione radiofonica e persino la mia moto. «Una Honda 125 rossa, vero?».

Era vero.

 

 

I primi anni del soggiorno parigino sono stati, penso, i più felici della sua vita. Aveva evitato per un soffio la povertà e l’anonimato. Con la pubblicazione del Poeta russo e poi del Diario di un fallito era diventato una piccola star, e in un ambiente che gli piaceva: non tanto il mondo editoriale e delle riviste letterarie serie, quanto quello dei giovani alla moda, che si sono innamorati subito della sua goffaggine, del suo francese zoppicante e dei suoi discorsi tranquillamente provocatori. Battute crudeli su Solenicyn, brindisi a Stalin: proprio quello che si aveva voglia di sentire in un periodo e in un ambiente che, dopo avere sepolto contemporaneamente la passione politica e le scemenze da fricchettoni, adoravano il cinismo, il disincanto, l’algida frivolezza. Anche nell’abbigliamento lo stile sovietico incontrava il favore dei post punk, che andavano pazzi per gli occhiali dalla grossa montatura di tartaruga stile Politburo, per i distintivi del Komsomol, le foto di Brenev che baciava Honecker sulla bocca – e Limonov è rimasto esterrefatto, e poi si è commosso, quando ha visto ai piedi di una giovane stilista ipermodaiola un paio di stivaletti di plastica con bottoni automatici in tutto e per tutto uguali a quelli che portava sua madre, a Char’kov, nei primi anni Cinquanta.

 

 

Lui che tanto si era lamentato di essere abbonato alle categorie C o D ora poteva permettersi donne di classe A, e persino A+, come quella famosa bellezza parigina alla quale ha praticamente infilato la mano nelle mutande durante una cena mondana – perché ora alle cene mondane lo invitavano. Lei e Limonov sono usciti insieme, hanno fatto il giro dei bar e all’alba la donna lo ha portato nel suo elegante appartamento di Saint-Germain-des-Prés. Aveva i seni più belli che lui avesse mai visto, ma questo è stato soltanto l’inizio della fiaba, perché si è scoperto che era una contessa – una contessa vera! – e che a Parigi conosceva tutti. E per di più era divertente, beveva forte, fumava una sigaretta dopo l’altra, bestemmiava come un turco e quando si sono conosciuti era nubile. Eduard, elevato al rango di amante della stagione, ha fatto grande impressione sulla ristretta cerchia di omosessuali che la attorniava e ha interpretato con soddisfazione di tutti la sua parte di fascinoso delinquente. Questa unione lusinghiera è durata qualche mese. Un piccolo Rastignac avrebbe saputo approfittarne, ma bisogna rendere giustizia a Eduard: lui non è un piccolo Rastignac. Anche quando vorrebbe esserlo, ha il dono di fare quello che non bisogna fare per affermarsi. Nell’autunno del 1982, invitato a New York dal suo editore americano – perché ora aveva un editore americano –, ha conosciuto, in un bar dove lei cantava, una russa di venticinque anni, l’ha portata con sé a Parigi e sistemata nel suo monolocale. La contessa, se ha sofferto per la rottura, non lo ha dato a vedere. Lei e Limonov non si sono più rivisti, perché la russa era gelosa, ma sono rimasti, da lontano, buoni amici.

 

 

Nataša Medvedeva io l’ho soltanto intravista da Olivier Rubinstein, che frequentava abitualmente sia lei che Eduard. Era uno spettacolo, Nataša: alta, maestosa, le cosce possenti avvolte nelle calze a rete, truccata come un mascherone e secondo Olivier, a cui pure stava simpatica, «una incredibile rompicoglioni». Eduard ne era innamorato pazzo – della contessa non lo era mai stato. Nataša incarnava il suo ideale di aristocratica: una ragazza di strada, una spostata, nata come lui nella grigia periferia sovietica e partita alla conquista del vasto mondo potendo contare soltanto su una bellezza appariscente, una voce da contralto e lo humour brutale di chi cerca di sopravvivere. Erano amanti, e amanti appassionati, ma anche fratello e sorella, e benché Limonov si trovasse a suo agio nella parte del proletario che fa bagnare la contessa, credo che questa fantasia avesse su di lui meno presa di quella della coppia di avventurieri quasi incestuosi, venuti fuori dalla stessa miseria, uniti per la vita e per la morte nella loro lotta contro la malvagità del mondo. Limonov era smanioso di sedurre, ma essenzialmente monogamo. Credeva che ciascuno di noi fosse destinato a conoscere in vita sua un certo numero di persone, che questo numero fosse prestabilito e che, una volta esaurite le occasioni, il treno era perso. Aveva abbandonato Anna perché aveva trovato di meglio, ed era stato abbandonato da Tanja perché lei aveva creduto di trovare di meglio. Nataša sarebbe stata la donna giusta perché lui e lei erano uguali: due ragazzi perduti che si erano riconosciuti al primo sguardo e non si sarebbero lasciati mai.

 

 

Nel Libro dei morti, Limonov racconta una storia carina, quella della loro visita a Sinjavskij. Scrittore di talento, dissidente della prima ora, Andrej Sinjavskij aveva portato a spalla il feretro di Pasternak, e dopo un processo celebre quasi come quello di Brodskij aveva trascorso alcuni anni in Siberia. Era l’archetipo di quei pensatori russi con la barba lunga che, da esuli, parlavano soltanto in russo con russi e della Russia, tutte cose che Eduard disprezzava, e ciò nonostante nutriva dell’affetto per Sinjavskij, a cui ogni tanto faceva visita nella sua villetta piena di libri a Fontenay-aux-Roses. Eduard trovava commoventi Sinjavskij e la moglie, con la loro franchezza e la loro ospitalità, e benché avessero pochi anni più di lui vedeva in loro un padre e una madre. La moglie stava attenta a che Andrej Donatoviè non bevesse, perché gli faceva male, ma lui, appena era un po’ su di giri, diventava sentimentale, pur rimanendo austero, e ti abbracciava dichiarando che ti voleva bene.

Il giorno in cui Eduard ha portato Nataša a casa loro, hanno bevuto tutti insieme tè e poi vodka, mangiato aringhe e cetriolini marinati; quel posto era un caldo isolotto russo alla periferia di Parigi, e Nataša, invitata dalla coppia, ha iniziato a cantare: romanze, ballate della grande guerra patriottica che parlavano di battaglioni dispersi, soldati caduti al fronte, fidanzate in attesa. Aveva una voce magnifica, roca e profonda, e tutti quelli che l’hanno conosciuta dicono che, quando cantava, le si vedeva l’anima, né più né meno. Quando è venuto il turno di Fazzoletto blu, una canzone che nessuno, uomo o donna, nato in Unione Sovietica nel dopoguerra può ascoltare senza piangere, il momento è stato così intenso, così sconvolgente, che i tre ascoltatori non osavano più guardarsi. Sulla porta, Sinjavskij, con gli occhi ancora rossi di pianto e tirando su con il naso, ha abbracciato Eduard e gli ha detto sottovoce: «Che donna ha, Eduard Veniaminoviè! Che donna! Dev’esserne molto orgoglioso!».

 

 

Scritturata come cantante al cabaret russo Rasputin, Nataša rincasava tardi, e spesso ubriaca. Quando Eduard ha scoperto che in realtà cominciava a bere appena sveglia, è stato costretto a riconoscere che quanto aveva inizialmente scambiato per una grande resistenza all’alcol era di fatto alcolismo. Non è mai una distinzione facile da fare, tanto meno per i russi, ma Eduard la faceva. Era in grado di ingerire in una sera una quantità di alcol spaventosa e poi bere soltanto acqua per tre settimane, e anche la peggiore sbornia non gli ha mai impedito di essere al tavolo da lavoro alle sette del mattino. Dice, e io gli credo, di aver fatto tutto quello che poteva per salvare Nataša dal suo demone, l’ha controllata, le ha nascosto le bottiglie e soprattutto le ha ripetuto che quando si ha del talento è un delitto sprecarlo. Ha saputo restituirle abbastanza fiducia in se stessa da permetterle di non toccare un goccio d’alcol mentre scriveva un libro sulla propria adolescenza nella periferia di Leningrado, pubblicato da Olivier Rubinstein con il titolo Mamma, amo un teppista. La tregua è durata qualche mese, poi Nataša è ricaduta: nell’alcol, ma non solo. Spariva per due, tre giorni. Divorato dall’angoscia, Eduard vagava per Parigi alla sua ricerca, telefonava agli amici, agli ospedali, ai commissariati. Alla fine Nataša tornava a casa, stravolta, sudicia, barcollando sui tacchi alti e si buttava sul letto. Eduard doveva sollevare il suo corpo appesantito, già sfiorito, per svestirla. Quarantott’ore dopo, quando si svegliava, Eduard la accudiva come una bambina malata, le portava un vassoio con il brodo, ma la interrogava anche, e lei rispondeva di non ricordare niente. Zapoj.

Alcuni amici comuni gli hanno detto, con il maggior tatto possibile, che oltre a bere fino a crollare per strada, Nataša si scopava degli uomini, spesso sconosciuti. Si erano decisi a rivelarglielo perché la cosa poteva essere pericolosa. Nataša ha confessato fra le lacrime: lo faceva da quando aveva quattordici anni. Ogni volta, dopo, se ne vergognava, e giurava a se stessa di non ricominciare, e invece ricominciava, non poteva farne a meno. Un tempo la parola «ninfomania» provocava in Eduard associazioni piacevolmente licenziose: se tutte le ragazze fossero ninfomani, diceva, la vita sulla terra sarebbe più divertente. In realtà la cosa non era affatto divertente. La magnifica, brillante creatura che lui amava, la donna di cui andava tanto fiero e a cui aveva giurato fedeltà e aiuto era una malata, una delle tante. Ai violenti alterchi seguivano, a letto, appassionate riconciliazioni. Lei singhiozzava, lui la consolava, l’abbracciava, la cullava ripetendole che poteva contare su di lui, che lui non l’avrebbe mai abbandonata, che l’avrebbe salvata. Dopodiché tutto ricominciava come prima. Nataša si difendeva dagli sforzi di Eduard per proteggerla come chi sta affogando colpisce il suo soccorritore e cerca di trascinarlo a fondo. Si sono separati più volte, e più volte rimessi insieme, secondo il classico schema: né con te, né senza di te.

 

 

Eduard ambiva a passare dallo status di scrittore con una certa notorietà a quello di scrittore davvero famoso, e sapeva che ciò richiedeva disciplina. Si coricava di rado dopo mezzanotte, si alzava all’alba e ogni giorno dopo il suo appuntamento con flessioni e pesi si sedeva alla macchina per scrivere con davanti le sue cinque ore di lavoro. Dopo, si considerava libero di andarsene in giro, preferibilmente nei quartieri chic, Saint-Germain-des-Prés o il faubourg Saint-Honoré, quartieri verso i quali era orgoglioso di aver serbato intatto il proprio odio: finché sei cattivo non sei diventato un animale domestico. Con questo ritmo, Eduard ha scritto e pubblicato un libro all’anno per circa dieci anni. Aveva un solo argomento, la propria vita, che vendeva a rate. Dopo la trilogia «Eduard in America» (Il poeta russo preferisce i grandi negri, Diario di un fallito, Storia di un domestico), è venuto il turno di Eduard giovane delinquente a Char’kov (Eddy-Baby ti amo, Piccola canaglia), e poi dell’infanzia di Eduard sotto Stalin (L’epoca gloriosa), senza contare i racconti in cui è confluito il materiale che non aveva trovato spazio nei romanzi. Erano buoni libri: semplici, diretti, pieni di vita. Gli editori erano felici di pubblicarli, i critici di riceverli e i suoi fedeli lettori, tra cui io, di leggerli, ma con grande disappunto di Eduard la cerchia dei lettori non si allargava. Uno dei suoi editori gli ha consigliato, tanto per variare e forse vincere un premio, di scrivere un vero romanzo, meglio ancora se piccante. Eduard si è messo al lavoro con la consueta serietà, ha scodellato quattrocento pagine su un esule russo che si fa largo nell’alta società newyorkese iniziando al sadomasochismo una serie di donne ricche, ma nonostante i suoi tentativi di destare scandalo, nonostante la copertina di una rivista alla moda che lo raffigurava in smoking, con aria perversa e con due ragazze nude ai suoi piedi, il vero romanzo, che si intitolava Oscar e le donne, non ha funzionato – va detto che era decisamente brutto. Del Poeta russo erano state vendute quindicimila copie, un grande successo per un’opera prima, ma Limonov si aspettava che il successo continuasse a crescere, e invece no, si era stabilizzato e stagnava da qualche parte fra le cinque e le diecimila copie. Le entrate, anche con alcune traduzioni e il versamento sulla fiducia di anticipi superiori all’ammontare reale dei diritti, non valevano un Perù: cinquanta-sessantamila franchi all’anno, lo stipendio mensile di un dirigente d’azienda. Eduard era di nuovo costretto a passare al setaccio gli scaffali del supermercato di Saint-Paul in cerca della roba meno cara, la roba da povero che aveva mangiato tutta la vita: una gallina per fare un brodo che durasse a lungo, pasta, vino in bottiglie di plastica, e allorché, arrivato alla cassa, gli mancavano due franchi doveva restituire un articolo sotto lo sguardo sprezzante dei clienti in coda dietro di lui.

Per Eduard scrivere non era mai stato uno scopo in sé, ma l’unico mezzo di cui disponeva per raggiungere il suo vero scopo, fama e ricchezza, soprattutto fama, e dopo quattro o cinque anni a Parigi si è accorto che forse non ci sarebbe riuscito. Forse sarebbe invecchiato nel ruolo di uno scrittore di secondo piano, circondato da una piacevole aura sulfurea, guardato con invidia dai colleghi nei Saloni del libro perché attira le belle ragazze un po’ dark e perché gli attribuiscono una vita più vivace della loro, ma in realtà abita in un sottotetto con una cantante alcolizzata, rivolta le tasche dei vestiti per vedere se può permettersi una fetta di prosciutto e si chiede angustiato quali ricordi possa ancora mettere insieme per il prossimo libro, perché la verità è che è arrivato al capolinea, ha praticamente dato fondo a tutto il suo passato, non gli rimane che il presente, e il presente è quello: niente per cui stare allegri, soprattutto quando vieni a sapere che quello stronzo di Brodskij ha appena vinto il premio Nobel.

 

4

 

Un giorno Eduard si è ritrovato a un convegno internazionale di scrittori a Budapest – dato che ora lo invitavano a manifestazioni del genere – in compagnia di alcuni grandi umanisti come il polacco Mi³osz e la sudafricana Nadine Gordimer. Per la Francia erano presenti il giovane Jean Echenoz, biondo, riservato, elegante, e Alain Robbe-Grillet con la moglie: lui sardonico e gioviale, dai gesti ampi e la voce profonda, soddisfatto della sua notorietà planetaria, ma come uno studente può esserlo di uno scherzo; lei una signora minuta, vivace e allegra che si diceva organizzasse orge; entrambi, insomma, simpaticissimi. Per il resto, c’era il solito campionario di giacche di tweed, occhiali a mezzaluna, permanenti azzurrine, pettegolezzi editoriali: non molto diverso da una delegazione dell’Unione degli scrittori in gita a Soèi.

Dopo un lugubre dibattito con alcuni scrittori ungheresi, uno degli organizzatori ha manifestato il proprio compiacimento per il fatto di ospitare intellettuali tanto prestigiosi. A quel punto Eduard ha dichiarato di non essere un intellettuale ma un proletario, e un proletario diffidente, né progressista né sindacalizzato, un proletario che sa che ai proletari tocca sempre la parte dei cornuti. I Robbe-Grillet ridevano di cuore, Echenoz sorrideva come se pensasse ad altro, gli ungheresi erano molto abbattuti, e per abbatterli ancora di più Eduard ha rincarato la dose, spiegando che poiché era stato operaio disprezzava gli operai, e poiché era stato povero, e lo era ancora, disprezzava i poveri e non dava loro mai neanche un centesimo. Dopo questa uscita se n’è stato tranquillo, e nessuno più gli ha chiesto di intervenire. La sera, al bar dell’albergo, Eduard ha dato un pugno in faccia a uno scrittore inglese che aveva parlato male dell’Unione Sovietica. Altri scrittori sono intervenuti a separarli, ma invece di lasciar perdere Eduard ha cominciato a mulinare pugni come un forsennato, ed è stato il caos. Da quanto mi ha raccontato Echenoz, nel parapiglia la rispettabile Nadine Gordimer sarebbe stata colpita da uno sgabello. Ma non è questo che volevo raccontare.

Quello che volevo raccontare accade in un pulmino che riaccompagna gli scrittori in albergo dopo l’ennesima tavola rotonda. A un semaforo rosso un camion militare affianca il pulmino, all’interno del quale si diffonde un brusio di deliziato spavento: «L’Armata Rossa! L’Armata Rossa!». Sovreccitati, con il naso incollato ai finestrini, tutti i membri di quella comitiva di intellettuali borghesi sono come i bambini al teatro dei burattini quando vedono uscire da dietro le quinte il lupo cattivo. Eduard chiude gli occhi con un sorriso soddisfatto. Il suo paese sa ancora fare paura a quegli occidentali senza palle: tutto a posto.

 

 

Gli esuli russi della sua generazione – tutti tranne Solenicyn – erano convinti di non fare ritorno in patria, convinti che il regime da cui erano fuggiti sarebbe durato, se non secoli, almeno fino a dopo la loro morte. Eduard seguiva quanto stava accadendo in URSS con un certo distacco. Pensava che la sua patria fosse in ibernazione sotto la banchisa, che a lui convenisse starne lontano, ma anche che l’URSS restasse, tetra e potente, come l’aveva sempre conosciuta, e questo pensiero lo rassicurava. La televisione mostrava sfilate militari sempre uguali davanti a una schiera di vecchi fossili con il petto costellato di decorazioni. Da molto tempo ormai Brenev non faceva un passo senza qualcuno che lo sorreggesse. Quando infine è spirato, dopo diciotto anni di immobilismo e di premi Lenin per il suo inestimabile contributo teorico alla comprensione del marxismo-leninismo, al suo posto è stato messo Andropov, un èekista che negli ambienti bene informati godeva della reputazione di uomo duro ma intelligente e che in seguito è diventato oggetto di un culto minore fra i conservatori, persuasi che se fosse vissuto più a lungo avrebbe potuto riformare il comunismo invece di distruggerlo. La nomina di Andropov ha più che altro divertito Limonov, che ricordava di averne rimorchiato la figlia quindici anni prima. Ma Andropov è morto dopo poco più di un anno e al suo posto è stato messo il valetudinario Èernenko. Ricordo il titolo di «Libération»: «L’URSS vi presenta i suoi migliori anziani».1 Io e i miei amici abbiamo riso, ma non Eduard, che non sopporta le battute sul suo paese. Poi è morto anche Èernenko, e al suo posto è stato messo Gorbaèëv.

 

 

Dopo quella processione di mummie, che venivano seppellite l’una via l’altra, Gorbaèëv è piaciuto a tutti – voglio dire: tutti qui da noi – perché era giovane, camminava da solo, aveva una moglie sorridente ed era chiaro che amava l’Occidente. Con lui ci si poteva intendere. A quel tempo i cremlinologi studiavano attentamente la composizione del Politburo, al cui interno distinguevano liberali e conservatori, con grigie sfumature intermedie. Si capiva benissimo che con Gorbaèëv e i suoi consiglieri Jakovlev e Ševardnadze i liberali avevano il vento in poppa, ma anche dai più liberali fra i liberali non ci si aspettava altro che una certa distensione in politica interna ed estera: relazioni corrette con gli Stati Uniti, un po’di buona volontà nelle conferenze internazionali, un po’ meno dissidenti negli ospedali psichiatrici. Nessuno poteva immaginare che sei anni dopo la nomina di Gorbaèëv a segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica il partito stesso non sarebbe più esistito, e nemmeno l’Unione Sovietica, e soprattutto non poteva immaginarlo Gorbaèëv, apparatèik esemplare e desideroso soltanto, ma questo «soltanto» era già molto, di riprendere il discorso dal punto in cui l’aveva interrotto Chrušèëv vent’anni prima, quando era stato rimosso dall’incarico con l’accusa di «volontarismo».

 

 

Non intendo tenere una lezione sulla perestrojka, ma devo insistere su un punto: in quei sei anni, la cosa davvero straordinaria in Unione Sovietica, quella che si è tirata dietro tutto il resto, è stata la possibilità di fare storia liberamente.

Nel 1986 ho pubblicato un breve saggio, Le Détroit de Behring, il cui titolo deriva da un aneddoto che mi aveva raccontato mia madre: dopo che Berija, a capo dell’NKVD sotto Stalin, era caduto in disgrazia ed era stato giustiziato, fu data disposizione ai sottoscrittori della Grande Enciclopedia sovietica di ritagliare dalla copia di loro proprietà la voce encomiastica dedicata a quel fervido amico del proletariato per sostituirla con una voce della medesima lunghezza sullo stretto di Bering. Berija, Bering: l’ordine alfabetico era salvo, ma Berija non esisteva più. Non era mai esistito. Allo stesso modo, dopo la caduta di Chrušèëv, le biblioteche dovettero lavorare di forbice per eliminare Una giornata di Ivan Denisoviè dai vecchi numeri della rivista «Novyj Mir». Il potere sovietico si arrogava il privilegio che san Tommaso d’Aquino negava a Dio: fare che ciò che era stato non fosse stato. E non a George Orwell, ma a Pjatakov, un compagno di Lenin, si deve questa frase straordinaria: «Se il partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero sia bianco e il bianco nero».

Il totalitarismo, che sotto questo aspetto decisivo l’Unione Sovietica ha portato ben oltre la Germania nazionalsocialista, consiste nel dire alle persone che quello che vedono nero è bianco, e nel costringerle non soltanto a ripeterlo ma, a lungo andare, né più né meno a crederlo. Da questo aspetto deriva la qualità fantastica dell’esperienza sovietica, allo stesso tempo mostruosa e mostruosamente comica, messa in risalto da tutta la letteratura clandestina, da Noi di Zamjatin a Cime abissali di Zinov’ev, passando per Il villaggio della nuova vita di Platonov. È un aspetto che affascina tutti gli scrittori disposti, come Philip K. Dick, Martin Amis o come me, a sorbirsi biblioteche intere su ciò che è accaduto all’umanità in Russia nel secolo scorso, ed è stato così riassunto da uno degli storici di quel paese che più apprezzo, Martin Malia: «Il socialismo integrale non è un attacco a determinate storture del capitalismo ma alla realtà stessa. È un tentativo di sopprimere il mondo reale, un tentativo a lungo termine destinato a fallire ma che per un certo periodo riesce a creare un mondo surreale fondato su questo paradosso: l’inefficienza, la povertà e la violenza sono presentate come il bene supremo».

La soppressione della realtà passa attraverso quella della memoria. La collettivizzazione delle terre, l’assassinio o la deportazione di milioni di kulaki, la carestia pianificata da Stalin in Ucraina, le epurazioni degli anni Trenta e gli altri milioni di russi uccisi o deportati in modo assolutamente arbitrario: non era mai accaduto nulla di simile. Naturalmente un ragazzo o una ragazza che avessero avuto dieci anni nel 1937 sapevano benissimo che una notte erano venuti a portarsi via suo padre e che poi nessuno lo aveva più rivisto. Ma sapevano anche che non bisognava parlarne, che essere figli di un nemico del popolo era pericoloso, che era meglio fare come se non fosse mai successo. Così un intero popolo faceva come se non fosse mai successo e imparava la storia sul breve compendio che il compagno Stalin si era preso il disturbo di scrivere personalmente.

 

 

Solenicyn lo aveva annunciato: appena si comincerà a dire la verità verrà giù tutto. Non era certamente questo che aveva in mente Gorbaèëv, il quale pensava piuttosto a una politica di concessioni mirate, da tenere comunque sotto controllo, quando, in un discorso per il settantesimo anniversario della rivoluzione di Ottobre pronunciato davanti a tutti i dignitari del comunismo mondiale – Honecker, Jaruzelski, Castro, Ceaușescu, Daniel Ortega presidente del Nicaragua (tranne Castro, negli anni successivi sarebbero caduti tutti quanti, in gran parte a causa di quel discorso) –, aveva lanciato la parola glasnost’, che significa «trasparenza», e dichiarato l’intenzione di colmare «le lacune della storia». Certo, in quell’occasione aveva detto che le vittime dello stalinismo erano state «centinaia di migliaia», mentre si trattava di decine di milioni – ma comunque il segnale era stato dato, il vaso di Pandora aperto.

Nel 1988 è diventato accessibile a tutti ciò che prima circolava solo all’interno dell’élite intellettuale sotto forma di samizdat o di edizioni straniere importate clandestinamente, e una smania di leggere si è impossessata dei russi. Ogni settimana veniva pubblicato un nuovo libro fino allora proibito, e le tirature, altissime, andavano ben presto esaurite. Si vedeva la gente fare la fila all’alba davanti ai chioschi e poi leggere come invasata, nel metrò, in autobus o anche camminando per strada, quello che aveva acquistato facendo a gomitate con gli altri. A Mosca per una settimana tutti leggevano Il dottor ivago, e non parlavano d’altro, la settimana dopo toccava a Vita e destino di Vasilij Grossman, e quella dopo a 1984 di Orwell, o ai libri del grande pioniere inglese Robert Conquest, che già negli anni Sessanta aveva raccontato la storia della collettivizzazione e delle epurazioni venendo per questo tacciato di essere un agente della CIA da tutti i compagni di strada occidentali preoccupati di non deprimere il morale del proletariato. Un gruppo di dissidenti fondava con il patrocinio di Sacharov l’associazione Memorial che, un po’ come Yad Vashem a Gerusalemme, si è dedicata da allora in poi a realizzare il desiderio espresso da Anna Achmatova in Requiem: «Vorrei, tutti quanti siete, chiamarvi per nome». L’obiettivo era dare un nome alle vittime della repressione, che non erano state soltanto uccise ma anche cancellate dalla memoria. All’inizio Memorial esitava a usare la parola «milioni», poi ha fatto il passo e allora è stato come se tutti lo avessero sempre saputo, e aspettassero solo il diritto di dirlo a voce alta. Il paragone fra Hitler e Stalin è diventato un luogo comune. Per essere sicuri di avere successo in un dibattito bastava ricordare la teoria del cinque per cento formulata dal Piccolo padre dei popoli (in sostanza: si può considerare già un buon risultato se in tutta la massa degli arrestati anche soltanto il cinque per cento è colpevole) o citare la frase del suo commissario alla Giustizia, Krylenko: «Non bisogna eliminare soltanto i colpevoli; eliminare gli innocenti fa molta più impressione». Lo stesso Aleksandr Jakovlev, il principale consigliere di Gorbaèëv, ha ricordato in un suo discorso che era stato Lenin il primo uomo politico a usare le parole «campo di concentramento». Tale discorso è stato pronunciato in un’occasione quanto mai ufficiale, il bicentenario della Rivoluzione francese, cioè neanche due anni dopo quello con cui Gorbaèëv aveva dato il via alla glasnost’, il che rende l’idea di quanta strada era stata fatta e a quale velocità. Sempre Jakovlev, lo stesso anno, si è presentato in televisione per spiegare che il decreto con cui venivano riabilitate tutte le vittime delle repressioni dopo il 1917 non era affatto, come sostenevano i membri del partito, un provvedimento di clemenza, ma di pentimento: «Noi non li perdoniamo; noi chiediamo loro perdono. Lo scopo di questo decreto è riabilitare noi stessi, noi che siamo rimasti in silenzio e abbiamo distolto lo sguardo rendendoci complici di questi delitti». Insomma, era diventata opinione comune che il paese fosse stato per settant’anni in mano a una banda di criminali.

 

 

È stata la liberazione della storia a determinare il crollo dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Non appena è stata ammessa l’esistenza del protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop, con il quale nel 1939 la Germania nazista aveva ceduto sottobanco ai russi gli Stati baltici, questi disponevano di un argomento inoppugnabile per rivendicare l’indipendenza. Bastava dire: «L’occupazione sovietica era illegale nel 1939, e lo è ancora cinquant’anni dopo. Andatevene». Un tempo l’URSS avrebbe risposto ad argomenti simili mandando i carri armati, ma quell’epoca era finita, e così il 1989 è diventato l’anno miracoloso dell’Europa. Quello che Solidarnoœæ in Polonia aveva ottenuto in dieci anni, gli ungheresi lo hanno raggiunto in dieci mesi, i tedeschi dell’Est in dieci settimane e i cechi in dieci giorni. Tranne che in Romania, nessuna violenza: rivoluzioni di velluto che nel tripudio generale portavano al governo protagonisti della cultura come Václav Havel. La gente si abbracciava per strada. Gli editorialisti discutevano con la massima serietà la tesi di un professore americano che annunciava l’avvento della «fine della storia». Tutti i piccoli borghesi dell’Europa occidentale, me incluso, sono andati a trascorrere il Capodanno a Praga o a Berlino.

 

 

A Parigi c’erano due persone che non si univano al tripudio generale: mia madre e Limonov. Mia madre era felice per lo sgretolamento del blocco sovietico, sia perché lo avversava in quanto figlia di russi bianchi, sia perché lo aveva previsto. Ma non sopportava che il merito venisse attribuito a Gorbaèëv. Secondo lei, tutto accadeva suo malgrado (penso che mia madre avesse ragione, ma che sia proprio questo a fare di Gorbaèëv una figura storica tanto affascinante). Gorbaèëv non era un liberatore, si limitava a lasciare che gli altri lo prendessero in parola, si faceva forzare la mano, e frenava per quanto poteva un processo che aveva messo in moto per imprudenza. Era insieme un apprendista stregone, un demagogo e un bifolco che, colmo di ineleganza agli occhi di mia madre, parlava un russo spaventoso.

Su tutto ciò Eduard era d’accordo con lei. La popolarità di Gorby, come dicevano quelli che cominciavano a chiamare Mitterrand «Zio», gli aveva dato fastidio sin dall’inizio: il capo dell’Unione Sovietica non deve piacere a quegli stronzetti di giornalisti occidentali, deve fargli paura. Quando alcuni amici ingenui gli dicevano: «Che tipo formidabile. Sarai contento», Eduard li guardava come un cattolico di stretta osservanza guarderebbe chi si congratulasse con lui per l’elezione a papa di un teologo della liberazione. Non gli piaceva la glasnost’, né che il potere recitasse il mea culpa, e meno ancora che per riuscire gradito all’Occidente esso abbandonasse i territori conquistati con il sangue di venti milioni di russi. Non gli piaceva vedere Rostropoviè, ogni volta che veniva giù un muro, accorrere con il suo violoncello e suonare con aria ispirata le suite di Bach sopra le macerie. Non gli piaceva trovare in un negozio di articoli militari d’occasione un cappotto da soldato dell’Armata Rossa, e accorgersi che i bottoni di ottone della sua infanzia erano stati sostituiti da bottoni di plastica. Un particolare, ma un particolare che, secondo lui, diceva tutto. Quale immagine poteva avere di se stesso un soldato ridotto a indossare divise con bottoni di plastica? Come poteva combattere? A chi poteva fare paura? Chi aveva avuto l’idea di sostituire il lucido ottone con quella merda fabbricata in serie? Certo non l’alto comando, forse uno stronzo di civile chiuso nel suo ufficio che aveva ricevuto l’incarico di ridurre le spese, è così che si perdono le battaglie e crollano gli imperi. Un popolo i cui soldati sono infagottati in divise a buon mercato è un popolo che non ha più fiducia in se stesso e non ispira più rispetto ai vicini. È un popolo che ha già perso.

 

5

 

La sua amica Fabienne Issartel, la regina delle notti parigine, gli ha detto: «C’è uno che voglio farti conoscere: un pazzo totale, un vero bastian contrario». E ha organizzato alla brasserie Lipp un pranzo con Jean-Édern Hallier, che aveva da poco rilanciato «L’Idiot international».

 

 

Un precedente «Idiot» era stato fondato vent’anni prima con il patrocinio di Sartre. Era un foglio sessantottino, e i redattori sospettavano che il loro capo, rampollo di una famiglia bene, guercio, esuberante, con un vero talento per seminare zizzania, fosse un provocatore al soldo della polizia di Pompidou. Una delle imprese di Jean-Édern, che Fabienne ha raccontato a Eduard intuendo che lui l’avrebbe apprezzata, era stata un viaggio in Cile per consegnare alla resistenza contro Pinochet il ricavato di una raccolta di fondi negli ambienti della sinistra radical-chic. La resistenza non aveva ricevuto niente, Jean-Édern era tornato in Francia a mani vuote, e nessuno ha mai saputo che fine avesse fatto il denaro. Lo stesso Jean-Edern aveva poi provato a calarsi nelle vesti del grande scrittore, e cercato di ritagliarsi uno spazio adatto a lui da qualche parte tra il suo amico Philippe Sollers, con cui in passato aveva fondato «Tel Quel», e il più giovane Bernard-Henri Lévy, a cui invidiava la bellezza e il successo precoce. Anche Jean-Édern avrebbe potuto essere bello: era ricco, aveva una Ferrari e un appartamento in place des Vosges, ma c’era dentro di lui un pagliaccio amaro e autolesionista che boicottava l’opera delle fate buone che si erano chinate sulla sua culla. Jean-Édern aveva una venerazione per gli eremiti come Julien Gracq, che era stato suo professore, ma si dannava per comparire in televisione. Tutti quelli che lo hanno conosciuto e anche amato ne ricordano gli slanci di generoso affetto alternati a momenti in cui si spalancava il baratro della sua anima invidiosa, e allora ti sembrava di sporcarti solo a stargli vicino. Anche di lui Brodskij avrebbe potuto dire che ricordava, più che Dostoevskij, il suo terribile personaggio Svidrigajlov. Ma lui era uno Svidrigajlov pieno di grinta, che si trascinava dietro cuori, fallimenti, scandali, e che Mitterrand, così orgoglioso della propria cultura e della propria competenza in fatto di letteratura, non esitava a definire un grande scrittore, tant’è che nel 1981 Jean-Édern si era speso senza riserve per sostenerlo, confidando in una ricompensa – un ministero, un canale televisivo – che non era arrivata. Da un giorno all’altro era diventato nemico giurato del nuovo presidente, e aveva propagato dei pettegolezzi che oggi vengono liquidati con leggerezza come segreti di Pulcinella, anche se non credo che lo fossero – io, comunque, ne ero all’oscuro: gli amici collaborazionisti, il cancro, la figlia naturale. Si è saputo in seguito che gran parte del lavoro della cellula antiterrorismo dell’Eliseo consisteva nell’ascoltare le conversazioni di Jean-Édern Hallier, quelle dei suoi conoscenti e persino le chiamate in partenza dalla cabina telefonica della Closerie des Lilas, dove Jean-Édern era di casa. Sempre lui aveva messo in circolazione a Parigi un pamphlet il cui titolo originario, «Lo Zio e Mazarine», era diventato in seguito «L’onore perduto di François Mitterrand». Nessuno aveva il coraggio di pubblicarlo. A Jean-Édern serviva un giornale. Così era nato il secondo «Idiot», attorno al quale il fondatore aveva radunato un gruppo di scrittori rissosi e brillanti, a cui non si chiedeva altro che di scrivere qualsiasi cosa venisse loro in mente, purché scandalosa. Gli insulti erano benvenuti e le diffamazioni raccomandate. Se c’erano dei processi, se ne occupava personalmente il direttore. Venivano attaccati tutti i favoriti del principe, Roland Dumas, Georges Kiejman, Françoise Giroud, Bernard Tapie, i notabili della sinistra che si erano riempiti la pancia e tutto ciò che di lì a poco sarebbe stato definito «politicamente corretto» e ha rappresentato l’ideologia dominante del secondo settennato di Mitterrand: SOS Racisme, i diritti umani, la Festa della musica. Il grande spregiatore di questo mondo, Philippe Muray, è stato orgoglioso fino all’ultimo dei suoi giorni di aver subìto, a colpi di raccolte di firme e comitati di vigilanza, le denunce dei «lacchè intellettuali», come Muray chiamava Pierre Bourdieu, Jacques Derrida o il capo dei delatori Didier Daeninckx. Il merito principale dell’«Idiot», diceva questo corifeo del negativo, era stato di aver costretto i propri nemici a rinchiudersi nell’angolo del Bene. All’«Idiot» erano contro tutto ciò che era a favore, e a favore di tutto ciò che era contro, con un unico credo: noi siamo scrittori, non giornalisti; le nostre opinioni, per non parlare dei fatti, sono meno importanti del talento con cui le esprimiamo. Lo stile contro le idee: vecchia antifona risalente a Barrès, a Céline, e che trovava il suo cantore ideale in Marc-Édouard Nabe, la pestifera prima penna dell’«Idiot», capace di chiedere e ottenere il titolo: «L’abbé Pierre è una carogna» – ma poiché al mondo c’è sempre qualcuno più perverso di te, Nabe, che un giorno aveva scritto un articolo violentissimo contro Serge Gainsbourg, l’ha presa molto male quando Hallier ha ripubblicato il pezzo, senza il suo consenso e definendolo «ignobile», il giorno dopo la morte del cantante.

 

 

(Io questa avventura me la sono persa, come mi sono perso il Palace. Dopo il triste periodo dei costumi da bagno, avevo pubblicato qualche libro e trovato rifugio in una famiglia molto diversa, quella degli autori che pubblicavano per case editrici come P.O.L. o le Éditions de Minuit, di cui avevo adottato i valori, più estetici che politici, in virtù dei quali non provavo nemmeno curiosità verso quello che, da lontano e senza che avessi mai comprato una sola volta «L’Idiot» nei suoi cinque anni di vita, mi appariva come un gruppo di casinisti. Intanto loro facevano gruppo, e il mio riuniva persone per le quali il non uscire in gruppo era un punto d’onore. Noi volevamo essere solitari, appartati, incuranti della luce dei riflettori e dell’apparire. I nostri eroi erano Flaubert, il Bartleby di Melville che a qualsiasi domanda rispondeva: «I would prefer not to», Robert Walser, morto nel candore ideale della neve svizzera dopo essersi chiuso per vent’anni nel silenzio, tra i muri di un ospedale psichiatrico. Molti di noi erano in analisi. Io avevo stretto un’amicizia che dura tuttora con Echenoz, di cui ammiravo i libri e l’impeccabile atteggiamento che aveva scelto: riservatezza lievemente ironica, ironia lievemente malinconica; con lui non si correva certo il rischio di crogiolarsi nell’enfasi e nell’abuso di aggettivi. Guardavamo quelli dell’«Idiot» più o meno come nel metrò si guarda un’orda di tifosi del Paris Saint-Germain strafatti di birra e pronti alla rissa, e loro dovevano guardare noi come una setta di parnassiani esangui e supponenti. Ma anche questo è esagerato: la verità è che non ci filavamo proprio, che non esistevamo nemmeno gli uni per gli altri).

 

 

Torniamo al pranzo da Lipp. Sovreccitato, con i capelli scarmigliati, l’estremità della sciarpa bianca a mollo nel piatto, Jean-Édern ha raccontato a Eduard come ha perso l’occhio: è stato un proiettile russo a Berlino, dove il padre, il generale Hallier, prestava servizio alla fine della guerra. Pura e semplice balla: di quell’incidente esistevano varie versioni, a seconda degli interlocutori. Hallier se ne serviva per sedurre, e lui e Limonov si sono intesi a meraviglia. Ciascuno dei due aveva la propria bestia nera, che lasciava l’altro indifferente, ma Eduard ha educatamente convenuto che Mitterrand era un farabutto, e Hallier che Gorbaèëv non era da meno.

«Senti, dovresti scriverlo». Eduard non chiedeva di meglio, bastava soltanto trovare un traduttore. «Non servono traduttori. Capisco quello che dici; capirò quello che scrivi». Così Eduard ha cominciato a scrivere in francese e a partecipare alle riunioni del comitato di redazione dell’«Idiot», che si tenevano nel grande appartamento del direttore, in place des Vosges. Si cominciava a bere vodka alle dieci del mattino e si finiva all’alba del giorno dopo. Quando si faceva sentire la fame, Louisa, la governante di Jean-Édern, preparava un piatto di pasta per tutti. Oltre a quelli che scrivevano materialmente le otto pagine settimanali dell’«Idiot», c’era un viavai di tipi di ogni genere che piantavano le tende e litigavano, mentre il padrone di casa, anziché calmarli, godeva a esacerbare gli animi: era il suo divertimento, e il carburante del suo giornale. La prima volta che Eduard è andato in place des Vosges ha trovato Patrick Besson, Marc-Édouard Nabe, Philippe Sollers e Jacques Vergès. Era atteso anche Le Pen, invece alla fine è arrivato il sindacalista comunista Henri Krasucki, Sollers si è seduto al piano e tutti hanno cantato L’Internazionale. Gabriel Matzneff si è dichiarato lieto di leggere, accanto all’articolo in cui lui stesso tesseva gli elogi di «Michel Gorbatcheff» – secondo la grafia cui teneva molto –, quello in cui Limonov invocava per lo stesso Gorbaèëv la corte marziale e poi dodici pallottole in corpo. Matzneff, fedele alla sua leggenda, ha spinto l’eleganza fino a congratularsi con il giovane collega per i suoi progressi nel francese.

Eduard ha cominciato a partecipare con regolarità alle riunioni da Jean-Édern, tanto più che abitava lì accanto, qualche volta portava con sé anche Nataša, e si sentiva sempre più a suo agio. Estrema destra ed estrema sinistra si ubriacavano fianco a fianco, e la convivenza fra le opinioni più contraddittorie veniva incoraggiata senza che si ponesse mai il problema di affrontare una cosa tanto volgare come un dibattito. I collaboratori si scambiavano dritte sul modo migliore per farsi pagare da Jean-Édern («Con una mano gli dai l’articolo, con l’altra prendi le banconote»: tecnica Sollers), venivano alle mani con lui, rompevano e si riconciliavano, di notte staccavano il telefono perché Jean-Édern soffriva d’insonnia e aveva l’abitudine di chiamare alle cinque del mattino. Il tipografo non veniva pagato, e gli avvocati nemmeno, i creditori facevano anticamera, fioccavano i processi per diffamazione, nessuno sapeva cosa ci sarebbe stato nel numero successivo. Grazie anche allo sfondo di place des Vosges, Eduard poteva credere di trovarsi nei Tre moschettieri che tanto aveva amato da adolescente, e vedere in se stesso un d’Artagnan della penna elevato a membro di quella compagnia di franchi bevitori e spadaccini da uno strampalato feudatario che somigliava a Porthos per gli eccessi, ad Aramis per i fallimentari intrighi, e, a ben guardare, persino ad Athos per la malinconia di fondo – per via della quale gli veniva perdonato tutto. Nella vita, pensava Eduard, bisogna avere un gruppo, e a Parigi non ce n’era uno più vivace.

 

V
MOSCA, CHAR’KOV, DICEMBRE 1989

 

 

1

 

Sulla strada che va dall’aeroporto al centro di Mosca, Eduard si ricorda di quando ha fatto il tragitto in senso inverso. Smaltiva i postumi di una terribile sbornia disteso sul sedile posteriore dell’auto, con la testa sulle ginocchia di Tanja. Lei gli accarezzava i capelli mentre fuori del finestrino sfilavano schiere di palazzi e distese di boschi che entrambi erano sicuri di non rivedere mai più. Era il febbraio del 1974, nevicava. Nevica anche nel dicembre del 1989. Sono passati quindici anni, Eduard ha perduto Tanja, torna in patria da solo, e, se non si guarda troppo per il sottile, ci torna da vincitore. Lui e gli altri due ospiti hanno viaggiato in business class e all’aeroporto hanno ricevuto un’accoglienza da VIP. Mentre nel pulmino gli altri si sono sistemati dietro con la ragazza, piuttosto carina, addetta alle pubbliche relazioni, Eduard ha preferito sedersi accanto all’autista, un uomo imbronciato dal volto chiazzato di rosso e con il quale prova ad attaccare discorso. Per Eduard è importante mostrare a quel russo di base, il primo che incontra da quando ha rimesso piede sul suolo natio, che nonostante gli anni trascorsi all’estero, nonostante il successo, lui è rimasto un uomo del popolo e parla la sua stessa lingua. Ma l’autista rimane abbottonato, chiuso in un’indifferenza vagamente ostile, e lo stesso farà il personale dell’Hotel Ucraina dove i tre vengono portati.

 

 

L’Hotel Ucraina è uno dei sette grattacieli staliniani – che sembrano tutti un incrocio fra una banca neogotica e una prigione bizantina e rendono Mosca simile alla Gotham City di Batman – e per gli standard di Mosca è un albergo di lusso, riservato agli ospiti di riguardo e agli alti dirigenti del partito. Eduard ne varca la soglia con emozione: quand’era un giovane poeta underground non aveva mai osato. Resta sorpreso perché nella hall, ampia come una cattedrale, non regna il silenzio solenne caratteristico dei luoghi del potere, ma un baccano da mercato o da ippodromo, un andirivieni di ceffi patibolari dai capelli unti che parlano ad alta voce e addirittura appoggiano le scarpe sporche di fango sui tavolini.

La sua suite, sfarzosa secondo canoni cui non è più abituato, ha il soffitto altissimo, almeno quattro metri, è illuminata da una lampadina a bassissima tensione ed è accogliente come la cella frigorifera di una macelleria. In passato si poteva star sicuri che i muri e il telefono fossero imbottiti di microspie, ma ora non si è più sicuri di nulla. Si sapeva che se si veniva dall’estero era una pazzia telefonare a un russo, perché significava causargli problemi seri, ma ora sembra che sia possibile chiamare chiunque. Eduard ha con sé un solo numero, quello della madre di Nataša, con cui deve assolutamente parlare, ma la donna non risponde al telefono. I numeri degli amici di gioventù non se li è neanche portati dietro quando è partito, quindici anni prima, perché sembrava pacifico che non gli sarebbero mai più serviti – magari però loro potrebbero essere al corrente del suo ritorno. Forse saranno tutti là, a Izmajlovo, ad accoglierlo: Cholin, Sapgir, Vorošilov, quello che rimane degli smoghisti. Non sa se ha voglia di rivederli, ma sa che un evento organizzato da Semënov ha poche probabilità di passare inosservato.

 

 

Eduard ha conosciuto Julian Semënov a Parigi qualche mese prima, in occasione di una festa. Senza sapere niente di lui, ha percepito in quell’omino dai modi spicci e cordiali l’aura della ricchezza e del potere. Hanno parlato di Gorbaèëv: Semënov era favorevole, Eduard contrario; poi di Stalin, e qui era l’opposto. Ciò nonostante, si sono piaciuti.

«Lei è stato pubblicato in Russia?» ha chiesto Semënov, quando ha saputo che Eduard scriveva.

«No, e dubito che lo sarò ancora per un pezzo».

Semënov ha alzato le spalle: «Ora si pubblica tutto».

«Tutto, forse, ma non me» ha risposto orgogliosamente Eduard. «Sono un autore scandaloso, io».

«Ottimo» ha concluso Semënov. «Allora la pubblico».

Il giorno dopo un tirapiedi di Semënov ha chiamato Eduard da parte del capo, si è fatto consegnare da lui una campionatura della sua produzione e lo ha informato che lo stesso Semënov era un autore di romanzi di spionaggio venduti in URSS in milioni di copie, e che nel febbrile clima editoriale della perestrojka aveva fondato un settimanale dal titolo «Soveršenno sekretno», che si potrebbe tradurre con «Top secret»: un tabloid specializzato in fatti di cronaca nera. «Top secret» andava a ruba e Semënov gli aveva affiancato una casa editrice che pubblicava sia romanzi popolari sia le opere complete di George Orwell. Conclusione: L’epoca gloriosa, il libro sulla propria infanzia che Eduard aveva terminato da poco, è uscito in Russia in una tiratura di trecentomila copie, e l’autore è stato invitato a Mosca insieme ad altri due talenti scovati da Semënov tra gli esuli russi: l’attrice Fëdorova e il cantante Tokarev.

 

 

Agli inizi degli anni Novanta ho partecipato insieme con Paul Otchakovsky-Laurens, il mio editore, a un viaggio in Russia organizzato dai servizi culturali francesi. Ho conosciuto un pubblico oggi completamente scomparso: follemente entusiasta per tutto ciò che veniva dall’estero. Paul e io ci siamo ritrovati nell’aula magna dell’Università di Rostov sul Don, davanti a cinquecento persone che non avevano la più pallida idea di che cosa avessimo scritto e pubblicato, e si bevevano con fervida attenzione ogni nostra più banale parola soltanto perché eravamo francesi. Era gloria allo stato puro, indipendente da ogni motivo, da ogni merito, e ogni tanto a me e a Paul capita ancora di tirarci su di morale ripensando a quell’episodio: «Ti ricordi di Rostov?».

Questa esperienza mi aiuta a immaginare l’incontro organizzato da Semënov al Circolo culturale di Izmajlovo, e il misto di eccitazione e disagio che deve aver provato Eduard. Lui ha sempre sognato di attirare migliaia di persone, di sedurle, dominarle, ma sa benissimo che quelle migliaia di persone non sono lì per lui: sono attratte da tutto ciò che proviene dall’Occidente, di qualsiasi cosa si tratti, e anche dalla pubblicità di Semënov, dal marchio Semënov, dai suoi romanzi di spionaggio e dal suo giornale pieno di ragazze nude e di cannibali ucraini.

Eccolo lì, Semënov, al centro del palco: tozzo, calvo, in giacca e senza cravatta. Presenta gli ospiti, dice che è importante far tornare in Unione Sovietica persone come quelle che sono accanto a lui, dinamiche, creative, pronte a rimboccarsi le maniche per ricostruire il paese. Il cantante Tokarev gonfia il petto, l’attrice Fëdorova sbatte le ciglia. Di loro si sa soltanto quanto ripete ossessivamente da due settimane «Top secret», che parla di quella divetta e di quell’oscuro crooner come se in Occidente fossero grandi celebrità, e la consapevolezza della menzogna rovina a Eduard il piacere di vedersi descritto su una doppia pagina come una specie di rockstar della letteratura. Quando tocca a lui rispondere alle domande del pubblico, fa del proprio meglio per essere all’altezza di quel ritratto. Sì, è stato barbone, poi cameriere di un miliardario americano. No, la sua ex moglie non ha battuto i marciapiedi a New York, e ora è sposata con un marchese spagnolo – è tutto vero, e notando che il marchese spagnolo piace molto Eduard si ripromette di nominarlo ogni volta che gliene capiterà l’occasione. Nessuna domanda sull’omosessualità, né sui neri: l’autore dell’articolo ha glissato sull’argomento. A Eduard viene in mente che potrebbe affrontarlo lui, tanto per mettere in imbarazzo il pubblico, ma ritiene più prudente attenersi a quella versione del suo personaggio: un piccolo proletario che ha saputo farsi strada e arrivare alla vetta del jet set senza lasciarsi intimidire da modelle e contesse, e dalla degenerazione occidentale; uno con le palle, a cui non la si dà a bere.

Pensava che dopo di lui non dovesse parlare più nessuno, ma Semënov presenta un vecchietto che è stato in un gulag, e che si lancia in un lungo discorso sulla necessità di «fare piena luce sui delitti dell’Unione Sovietica». Eduard ascolta con crescente irritazione, e quando il vecchietto spiega con voce belante che non una sola famiglia è stata risparmiata dalle epurazioni, che tutti possono fare il nome di uno zio o di un cugino che è stato prelevato di notte dagli uomini dell’NKVD e non si è più rivisto, vorrebbe intervenire, dire che bisogna fermare quel lavaggio del cervello, che nella sua famiglia e nella maggior parte delle famiglie di sua conoscenza non c’è nessuno che sia stato epurato, ma anche stavolta si trattiene e per distrarsi guarda il pubblico. Sono tutti vestiti così male! Hanno tutti un’aria così provinciale e, fatto strano, allo stesso tempo credula e diffidente… C’è qualche bella ragazza, bisogna ammetterlo; ma neanche un volto conosciuto, neanche uno dei suoi vecchi amici: probabilmente non leggono i giornali di Semënov, oppure sono morti, di tristezza e di noia…

Al termine della conferenza, Eduard firma qualche autografo, ma non una sola copia del suo libro. Semënov assicura che ne sono state tirate trecentomila, ma nessuno sembra averlo letto, e Eduard non lo vedrà in vendita da nessuna parte. Lui ne è stupito, ma posso garantirvi che non c’è nulla di cui stupirsi, viste le condizioni del sistema di distribuzione. Quando è stato pubblicato in Russia un mio romanzo, quello che giustificava il viaggio con Paul di cui ho parlato prima, l’editore mi ha condotto in un magazzino dove stavano impilando su palette di carico la tiratura completa, tutta destinata alla città di Omsk. A quell’editore sembrava un ottimo affare avere rifilato, Dio solo sa come, a un grossista di Omsk le diecimila copie del mio libro. Era contento di rendermi partecipe di quella soddisfazione professionale, che dimostrava quanto fossi in buone mani. Ha alzato le sopracciglia, stentando a capire, quando ho osservato che però era strano: perché Omsk? Perché tutta la tiratura a Omsk? C’era una ragione particolare per pensare che i potenziali lettori di Zimnij lager’ (La settimana bianca), di uno sconosciuto scrittore francese, fossero tutti concentrati a Omsk, città industriale della Siberia? Quelle domande gli sembravano assurde. Deve avere pensato che fossi uno di quegli autori maniacali e sempre insoddisfatti che all’uscita di ogni loro libro fanno il giro dei punti vendita e poi telefonano per lamentarsi di non averlo visto esposto come avrebbe meritato.

 

 

Per festeggiare il successo della conferenza, Semënov porta tutti i suoi protetti in un ristorante georgiano che somiglia, pensa Eduard, ai ristoranti da mercato nero nei film francesi ambientati durante l’Occupazione. Mentre nei negozi per i comuni cittadini non si trova niente, qui i tavoli traboccano di vivande e alcolici. Clienti e dipendenti sembrano comparse incaricate di dare vita a quello che si definisce «un ambiente equivoco». Ci sono ricchi, puttane, parassiti, tirapiedi, malviventi caucasici, stranieri già sbronzi. Tutti si ubriacano, si strusciano, e non fanno che spendere enormi somme di denaro. Eduard cerca di convincersi che luoghi del genere devono essere sempre esistiti, solo che lui, poeta squattrinato, ne era escluso – ma no, c’è qualcos’altro, qualcosa che eccita i suoi compagni di baldoria e a lui procura invece un profondo disgusto.

Ci mette un po’ a rendersene conto, ma quest’altra cosa che lo ha colpito prima ancora di entrare è lo sguardo del poliziotto appostato sul marciapiede. Non è un vigilante pagato dal ristorante, ma un poliziotto vero, vale a dire un rappresentante dello Stato. Una volta un rappresentante dello Stato, anche di grado subalterno, era rispettato. Incuteva timore. Ora il poliziotto all’ingresso non incute timore a nessuno, e lo sa. I clienti gli passano davanti senza neanche vederlo. Se hanno paura di qualcuno, non è certo di lui. Sono loro che hanno il denaro, loro che hanno il potere, e ormai quel poveraccio in divisa è al loro servizio.

A parte i tre invitati venuti dall’Occidente, attorno a Semënov ci sono una decina di giovanotti che hanno funzioni poco chiare, ma sono comunque suoi vassalli. A Eduard non piacciono, è una questione di istinto. Lui rispetta Semënov, come rispetta Jean-Édern Hallier, perché sono capibanda, ma disprezza le loro bande. Lui, Eduard, non si fa comprare, non si fa addomesticare. È un bandito di strada più che disponibile a trattare con il capo, da pari a pari, se i loro percorsi si incrociano, ma non si confonde con la marmaglia dei suoi galoppini, informatori e scagnozzi. Come quello seduto accanto a lui a tavola, per esempio: un tipo sveglio, vestito, come il capo, con una camicia bianca sbottonata sul petto e un abito nero, il quale, invitando Eduard a servirsi abbondantemente del caviale contenuto in un’insalatiera, gli strizza l’occhio dicendo «mafia». Eduard pensa «stronzo», ma attacca discorso, e il discorso è istruttivo: il giovane (non arriva ai trent’anni) racconta, compiaciuto del proprio cinismo, che le mafie sono un bene per la democrazia, un bene per il mercato, e non ha dubbi che la Russia stia andando verso il mercato, verso il capitalismo come in Occidente, e che non potrebbe esserci nulla di meglio. Naturalmente all’inizio non sarà come stare in Svizzera, piuttosto nel Far West. «Ci sarà da sparare» dice divertito, e con la bocca fa «ta-ta-tata», fingendo di stendere con la mitragliatrice un gruppo di stranieri che cenano al tavolo accanto. Uno di loro si gira, il volto gli si illumina, lui e il mitragliere si salutano come vecchi complici. «My friend» dice con orgoglio il giovane: «American».

L’amico americano è un giornalista, mentre il giovane lavora nella società di security ingaggiata dal gruppo Semënov. Cominciano a recitare entrambi intere scene di Scarface, che conoscono a memoria. Eduard beve troppo, scende con passo malfermo al piano interrato e lì prova a chiamare ancora, inutilmente, la madre di Nataša. All’ingresso dei bagni c’è un’inserviente imbronciata, che Eduard vorrebbe abbracciare proprio perché è imbronciata, sovietica, perché non somiglia ai furbetti che si abbuffano qualche metro più su ma alla gente povera e onesta in mezzo alla quale è cresciuto. Prova a parlarle, a sapere che cosa pensi di quanto sta accadendo nel paese ma, come il conducente del pulmino, la donna si rabbuia ancora di più. È terribile: la gente comune con cui Eduard vorrebbe fraternizzare non gli dà corda, e invece a quelli che si mostrano bendisposti lui vorrebbe soltanto spaccare il muso. Inizia a salire le scale, cambia idea, ridiscende, estrae dalla tasca la busta che gli è stata data per le spese extra e – lui che si vanta di non fare mai l’elemosina ai poveri – prende alcuni biglietti da cento rubli, almeno un mese di stipendio della vecchia, e glieli mette nel piattino dicendole: «Prega per noi, nonnina, prega per noi». Senza incrociare il suo sguardo, sale i gradini quattro alla volta.

Il seguito della serata è confuso. Poco prima di lasciare il locale, scoppia un diverbio tra un nuovo arrivato, unitosi tardi alla tavolata, che voleva pagare per tutti, e Semënov, che si è offeso: quelli sono amici suoi, e paga lui, è la sua regola quella di pagare per tutti, in sua presenza nessuno tira fuori il portafoglio. Il giovane incaricato della sicurezza diventa improvvisamente così nervoso che Eduard, nonostante sia ubriaco, capisce che l’eccessiva generosità del nuovo arrivato è in realtà una provocazione. I commensali si alzano spingendo rumorosamente indietro le sedie, i tirapiedi si fanno avanti, la faccenda sembra debba finire come nei film di cui il giovane recita le battute cult, poi di colpo la tensione, così com’è salita, scende, tutti escono e si ritrovano all’aperto nella neve, poi all’Hotel Ucraina, e da lì Eduard prova ancora una volta a chiamare la madre di Nataša, ma sempre senza trovarla. È stremato ma non riesce a prendere sonno. Prova a masturbarsi, e per farselo venire duro pensa a Nataša, ai suoi zigomi tatari, al luccichio dorato dei suoi occhi, alle sue spalle insieme fragili e insolitamente larghe, al suo culo dilatato dall’uso. Se la immagina in uno squallido appartamento alla periferia di Mosca, barcollante, incattivita, puzzolente di alcol, con la fica di fuori. Se la immagina mentre si fa scopare da due uomini, uno per buco, e, mentre si concentra su quest’immagine di cui sa per esperienza che lo porterà all’orgasmo – be’, insomma: a svuotarsi –, si ripete con enfasi che la sua patria si sta facendo scopare da mafiosi, inculare da rottinculo, ed è proprio questa la prima parola che gli passa per la testa al risveglio: rottinculo. Manica di rottinculo.

 

2

 

Solo pochi anni dopo, come tutti gli alberghi della sua categoria, l’Hotel Ucraina proporrà sontuose prime colazioni a base di succhi di frutta freschi, quindici varietà di tè e marmellate inglesi. Nel dicembre del 1989 esiste ancora l’Unione Sovietica, e Eduard fa la fila davanti a un buffet sovietico gestito come uno sportello postale da una grassona astiosa. È in compagnia di un francese dal bel volto austero, che molto cortesemente si presenta: si chiama Antoine Vitez, è un regista teatrale e ha riconosciuto Eduard, ha letto parecchi suoi libri e gli sono piaciuti. I due si siedono insieme a mangiare aringhe e uova sode dal tuorlo quasi bianco.

Vitez è già stato diverse volte in Unione Sovietica, parla un po’ di russo e, nonostante quelle che definisce «ottusità», a ogni visita si ritrova a pensare che qui ci sia la vita vera: seria, adulta, con tutta la sua pesantezza. I volti, dice, sono volti veri, scavati, affilati, mentre in Occidente si vedono soltanto facce da bambini. In Occidente, tutto è permesso e nulla è importante, qui invece è il contrario: nulla è permesso, tutto è importante, e Vitez ritiene che sia molto meglio così. Per questo approva senza troppa convinzione i cambiamenti in corso. Naturalmente non si può essere contrari alla libertà, e nemmeno alle comodità, ma spera che non venga snaturata l’anima russa. Eduard pensa che è un po’ troppo facile vivere nel comfort e nella libertà, e voler tenere gli altri al riparo da tutto ciò per il bene della loro anima, però è contento di incontrare un intellettuale francese che non ha perso la testa per Gorbaèëv ed è lusingato che Vitez conosca i suoi libri, e siccome non sa che pesci pigliare si confida con lui.

«Mia moglie» dice «vaga da qualche parte, qui a Mosca».

Vitez china il capo, attento. Sì, prosegue Eduard, hanno avuto una violenta discussione, a Parigi, capita spesso, così, di punto in bianco, lei è partita una settimana prima di lui, e quando è arrivata gli ha telefonato, ubriaca, ripetendo con voce alterata: «Qui è spaventoso, è tutto spaventoso». Da allora, nessuna notizia. Per ritrovarla Eduard ha soltanto il numero di telefono della madre. Ma la donna non risponde e Eduard non ha il suo indirizzo, il visto di Nataša dev’essere scaduto, e lei non è tipo da badarci. Dio solo sa dov’è, Dio solo sa cosa sta facendo. Nataša è alcolizzata e ninfomane: è un vero guaio.

«Lei la ama?» domanda Vitez con un tono da prete o da psicoanalista. Eduard si stringe nelle spalle: «È mia moglie». Vitez lo guarda con simpatia. «Sì, è un guaio,» ammette «eppure la invidio. Dopo questa colazione, io mi annoierò a una riunione di burocrati del teatro, mentre lei sprofonderà nelle viscere della città, come Orfeo alla ricerca di Euridice…».

 

 

Eduard esce fendendo il branco di malavitosi di mezza tacca che affollano fin dal mattino la hall dell’albergo, e poiché non sa da dove cominciare le ricerche procede dritto, a passo svelto perché ha freddo con il suo giaccone da marinaio e gli stivali che non sono nemmeno foderati di pelliccia. Per attraversare i viali troppo larghi scende nei sottopassaggi invasi d’acqua sporca, pieni di gente mesta in fila davanti ai chioschi che mettono in vendita povere cose – vasetti di rafano, calzini, mezzi cavoli – e dove nessuno si scusa se vi arriva in faccia la porta basculante. Non ricordava che questa città in cui aveva vissuto sette anni fosse tanto grigia, triste, inospitale. A parte le stazioni del metrò, che sono veri e propri palazzi, di gran lunga quanto di più bello ci sia a Mosca, non c’è un posto in cui fermarsi a riposare, a riprendere fiato. Niente caffè, se non sepolti in scantinati, in fondo a cortili interni che bisogna conoscere, perché non c’è nessuna indicazione, e se chiedete qualcosa a un passante questi vi guarda come se lo aveste insultato. I russi, pensa Eduard, sanno morire, ma in quanto all’arte di vivere sono sempre stati delle frane. Continua a camminare, gironzola attorno al cimitero di Novodevièij, sui luoghi del suo amore con Tanja. Passa davanti all’edificio nel quale si è tagliato le vene, una notte d’estate. Pensa all’assurdo barboncino di Tanja, il cui pelo bianco e riccio diventava nero di sporcizia quando arrivava il disgelo. Ha voglia di telefonare a Tanja, a Madrid, dove lei vive con il suo marchese spagnolo. Eduard ha il numero nell’agenda, ogni tanto si sentono, ma che cosa potrebbe dirle? «Sono qui sotto. Sono venuto a prenderti. Aprimi»? Questo dovrebbe dire, ma è troppo tardi, tutto il resto è un balbettio sentimentale.

 

 

Nel pomeriggio Eduard è atteso alla Casa degli scrittori, di cui vent’anni prima aveva fatto tanta fatica a varcare la soglia. Ha accettato l’invito solo perché sperava di gustare il dolce sapore della vendetta, ma questo sapore non è dolce. Odore di mensa, poeti di terza categoria vestiti come piccoli burocrati, al punto che la meno antipatica è l’arpia del bar, che gli versa il cognac in una tazza da caffè. Lei non lo riconosce, ma lui sì: la donna era già lì ai tempi del seminario di Arsenij Tarkovskij.

Eduard viene condotto in una saletta, dove trova un pubblico sparuto. Lui si aspettava degli apparatèik culturali e scopre invece con stupore che sono tutti vecchi militanti dell’underground. Non c’è nessuno dei suoi amici, ma Eduard riconosce dei volti intravisti in passato in occasione di qualche festa o di una lettura di poesia. Volti di comparse, volti spenti, rosi dall’odio per se stessi. E come sono diventati vecchi! Lividi o paonazzi, gonfi, sciupati. Non sono più under, certo, ora che tutto è permesso tornano alla luce, e la cosa terribile è che la loro assoluta mediocrità, misericordiosamente occultata in gioventù dalla censura e dalla clandestinità, è sotto gli occhi di tutti. Il primo a prendere la parola è anche l’unico, a quanto pare, che sia riuscito a entrare in possesso di una delle trecentomila copie dell’Epoca gloriosa, e chiede con voce severa a Eduard che cosa significhi quell’apologia del KGB da parte di un presunto dissidente. Eduard risponde ruvido che non è mai stato un dissidente, solo un delinquente. Una donna di mezz’età dice con aria accorata e malinconica di averlo conosciuto un po’, quando entrambi erano giovani, e non importa se lui non se ne ricorda più: lei invece si ricorda un giovane poeta ispirato, con i capelli lunghi, pieno di talento, ed è stupita di vedere tornare uno che somiglia a un segretario del Komsomol.

Cosa rispondere? È un dialogo fra sordi. Nel mondo da cui Eduard proviene un artista può – anzi, è consigliabile che lo faccia – portare capelli a spazzola, occhiali con la montatura di tartaruga e vestiti neri attillati. Eduard preferirebbe morire piuttosto che andare in giro con il vecchio maglione sformato sotto la giacca dal collo cosparso di forfora che è il non plus ultra dell’eleganza under. Poeta = relitto umano, questo pensa la donna che probabilmente vorrebbe che Eduard somigliasse a Venedikt Erofeev. E a proposito di Erofeev un terzo interviene per riferire che il mitico autore di Mosca sulla vodka ha saputo del ritorno del suo vecchio amico Limonov, ma poiché questi è sponsorizzato dal mercante di giornali scandalistici Julian Semënov si rifiuterà di stringergli la mano se dovesse andare a trovarlo: che ne pensa Eduard? Eduard risponde che non ne pensa nulla, che non aveva intenzione di andare a trovare Erofeev, che non sono mai stati amici. Si va avanti così ancora per mezz’ora, e al termine dell’incontro Eduard declina l’invito a bere qualcosa con i giovani dell’Unione degli scrittori («i giovani dell’Unione degli scrittori»!). Sono le quattro del pomeriggio, ed è calata la notte. Eduard se ne va sollevando il bavero del giaccone da marinaio della corazzata Potëmkin.

 

 

Quel terribile pomeriggio gli ha tolto ogni voglia di rivedere i vecchi amici. Ha fatto proprio bene a piantarli in asso quindici anni prima! E quanto lo odiano per questo! Mentre lui lottava per sopravvivere sul fronte occidentale, quelli sono rimasti ad ammuffire nel loro poco confortevole comfort, protetti dalla cappa di piombo dell’amara consapevolezza di essere dei mediocri. L’insuccesso era nobile, l’anonimato era nobile, persino il decadimento fisico era nobile. Potevano sognare che un giorno sarebbero stati liberi, e quel giorno sarebbero stati acclamati come eroi, poiché avevano custodito per le generazioni future, sotterraneamente e in clandestinità, il meglio della cultura russa. Ma, arrivata la libertà, non interessano più a nessuno. Sono nudi, rabbrividiscono nel grande freddo della concorrenza, quelli che hanno preso il sopravvento sono giovani gangster, come gli aiutanti di Semënov, e l’unico luogo in cui gli under possano trovare rifugio è l’Unione degli scrittori, dove continuano a venerare un patetico relitto umano come Venedikt Erofeev e a diffidare di un tipo pieno di vita come l’avventuroso Limonov.

A un certo punto, nel corso di quella lugubre serata, Eduard entra in una galleria che espone, quasi fossero oggetti kitsch, opere di artisti un tempo clandestini, ed è sorpreso di riconoscere una tela che ha visto dipingere al suo vecchio compagno di bohème Igor’ Vorošilov: il ritratto di una donna vestita di rosso davanti a una finestra. Lei era all’epoca la ragazza di Igor’, la finestra quella di un appartamento che Eduard ha diviso con loro due per qualche tempo. La donna era carina, ora dev’essere diventata una cicciona. Quanto a Igor’, il catalogo dice che è morto da due anni.

Eduard chiede il prezzo del quadro. È un prezzo ridicolo, e di fatto, pensa, non vale di più. Povero Igor’. Non si sbagliava la notte in cui voleva suicidarsi, per la disperazione di essere soltanto un artista di terz’ordine. Il mercato ha emesso la sentenza, il mercato ha ragione, e la sua impietosa ragione non lascia nessuna speranza alle anime gentili e ignave dei suoi amici di gioventù. A un tratto Eduard viene afferrato da una profonda tristezza e da qualcosa che somiglia alla pietà. Lui, che si vanta di disprezzare i deboli, ora prova pietà per quella debolezza. Prova pietà per l’anima gentile e ignava di Igor’, per l’inserviente dei bagni al ristorante, per tutto il suo popolo. Vorrebbe poter fare qualcosa, lui che è forte e cattivo, per difendere dai forti e dai cattivi l’anima gentile e ignava di Igor’ Vorošilov, l’inserviente dei bagni e tutto il suo popolo.

 

 

Da ogni cabina telefonica che incontra Eduard prova a chiamare la madre di Nataša, finché – miracolo – la donna risponde. Eduard si presenta, chiede dov’è Nataša, e la madre scoppia in singhiozzi: Nataša è stata a casa, si è fermata due giorni e se n’è andata senza lasciare recapito. Anche la madre è in pena. Eduard le propone di raggiungerla. La donna abita lontano; Eduard prende il metrò, e qui si calma un po’: in fin dei conti è il posto in cui si sente meno oppresso. Dopo aver vagato a lungo per i viali innevati di un complesso edilizio dell’epoca di Chrušèëv, si ritrova in un minuscolo monolocale dove regna un ordine perfetto e le collezioni dei classici rilegati sono conservate dietro una vetrinetta, come a casa dei suoi genitori. La madre di Nataša è una donnina sciupata, consunta dall’ansia, che non si fida di Eduard, ma conta su di lui per ritrovare la figlia, perché se non la ritrova lui chi la ritroverà? Il visto di Nataša dev’essere scaduto, non si può escludere il peggio, e dire che la madre pensa soltanto all’alcol, che le ha già ucciso il marito, il padre di Nataša. Non immagina nemmeno che la figlia sia ninfomane e affetta da un disturbo bipolare, e che può starsene buona e tranquilla a casa per mesi a scrivere poesie e poi, di colpo, sparire per quattro, cinque giorni, andare a scopare con il primo che passa e tornare a casa smarrita, stravolta, con le mutandine sporche di sangue e di merda. Eduard non gliene parla, non serve a niente versare benzina sul fuoco, l’angoscia della madre già trasuda dai muri troppo ravvicinati del monolocale, ma pensa che forse lui stesso vivrebbe meglio se non trovasse Nataša, se questa sparisse definitivamente dalla sua vita. «Lei la ama?» chiede improvvisamente la donna, come ha fatto Vitez, e come a Vitez Eduard risponde: «È mia moglie. Mi prendo cura di lei da sette anni e continuerò a farlo». Allora la madre comincia a baciarlo, a benedirlo, a dirgli che è un uomo buono. Eduard non è abituato a sentirselo dire ma pensa che, almeno in amore, è vero.

 

 

La madre di Nataša gli ha dato l’indirizzo di una vecchia compagna di scuola della figlia, che potrebbe sapere qualcosa. Tre quarti d’ora di metrò, mezz’ora a piedi con quindici gradi sottozero e addosso solo un giaccone leggero. È mezzanotte passata quando Eduard mette piede in una specie di appartamento occupato da artisti, dove però girano persone che più che artisti, per quanto dark, sembrano scippatori o spacciatori, e probabilmente lo sono. L’amica di Nataša, una bionda con le radici dei capelli nere, sfatta, con la voce stridula, ha visto la foto di Eduard su «Top secret» e Nataša le ha parlato di lui – certo non bene, perché è chiaro come il sole che lo detesta. Ciò nonostante lei e Eduard si siedono in cucina, bevono un bicchiere di vodka, e l’amica ci gode un mondo a raccontargli che, certo, sua moglie è stata lì, in compagnia di due uomini, è rimasta a dormire con la scusa che abitava troppo lontano per rincasare, e girava nuda per casa, fumava nuda sulla tazza del cesso masturbando uno dei due uomini mentre l’altro cercava di scoparsi lei, l’amica. Eduard pensa che l’amica di Nataša sia una donna malvagia, una di quelle troie russe la cui unica morale è che l’uomo è un nemico e farlo soffrire una vittoria. Dovrebbe alzarsi e andarsene ma è tardi, la metropolitana è chiusa, e rischia di camminare per ore prima di trovare un taxi, quanto a chiamarne uno, neanche a pensarci. Così rimane, continua a bere e ad ascoltare sempre più inebetito l’amica che gli spiega come sia tutta colpa sua, che lui tratta male Nataša, è stata lei a dirglielo. Si siedono con loro altri inquilini dell’appartamento, e tra questi un ceceno di nome Dellal che prima insiste per sapere se Eduard sia ebreo, perché è convinto che in Francia siano tutti ebrei, a partire da Mitterrand, e poi, scherzando in modo sempre più minaccioso, cerca di costringerlo a consegnargli il passaporto. Il pericolo è palpabile, le cose potrebbero mettersi male, ma Eduard resta cool, o forse è l’abbrutimento a prevalere, perché tutti stanno ormai scivolando nella fase torpida della sbornia. L’ultima cosa che Eduard ricorda è di avere pronunciato una specie di discorso sull’argomento: «Questo paese è magnifico nei grandi momenti storici, ma qui non si condurrà mai una vita normale. La vita normale non fa per noi…». Si sveglia all’alba, con la fronte appoggiata al tavolo della cucina. Attraversa senza fare rumore l’appartamento, in cui alcuni dormono per terra, controlla che non gli sia stato rubato il passaporto, si rimette le scarpe che si era tolto all’arrivo, come si fa sempre in Russia d’inverno quando si entra in casa. Nonostante il mal di testa, ha la mente lucida e un programma preciso: ripassare in albergo a prendere lo zaino, piantare in asso Semënov e la sua tournée, farsi portare alla stazione e salire sul primo treno per Char’kov.

 

3

 

Per questo viaggio di diciotto ore ha comprato, senza neanche pensarci, per un’abitudine da povero, un biglietto di terza classe, e a conti fatti non se ne pente. Si è sbarazzato della sua pelle di scrittore famoso per perdersi nella folla dei russi rozzi e pidocchiosi che invadono i sedili del treno con i loro viveri maleodoranti e la loro vodka. Nella carrozza senza scompartimenti, con le cuccette in fila e sovrapposte come in una camerata, ci sono ceffi da delinquenti, ma anche volti così innocenti, così vulnerabili, da far venire voglia di piangere. Volti veri, a ogni modo, Vitez aveva ragione: rubicondi, grigi o anche verderame, ma non rosei come i musi degli americani. Eduard guarda sfilare il paesaggio al di là dei finestrini sudici: betulle, neve bianca, cielo nero, immense distese vuote punteggiate qua e là da stazioncine con serbatoi d’acqua. Alle fermate del treno, sulle banchine, donne anziane con stivaletti di feltro litigano come lavandaie per vendere cetriolini o mirtilli. Anche se viene da lontano, Eduard non ha mai conosciuto altro che la città e si chiede come dev’essere vivere in quei paesini.

Il passeggero seduto di fronte a lui legge «Top secret». La settimana prima la rivista ha pubblicato la foto di Eduard, e il passeggero potrebbe riconoscerlo, e invece no, nel mondo in cui vive lui non si incontrano persone che hanno una foto sui giornali. Iniziano a chiacchierare. L’uomo racconta la notizia di cronaca che ha appena letto: in un paesino come quelli che stanno attraversando una donna, per dare una lezione alla figlia di dieci anni, l’ha messa in catene all’aperto, con trenta gradi sottozero, e alla bambina hanno dovuto amputare braccia e gambe, che si erano congelate. Appena ricondotto a casa ciò che ne restava, un tronco, il convivente della madre non ha perso tempo e l’ha violentata, così la ragazzina ha partorito un bambino che è stato anche lui messo in catene.

Con tali premesse, la conversazione non può brillare per ottimismo. Certo, tutto sta andando a rotoli – diagnosi che Eduard potrebbe sottoscrivere –, ma non si tratta soltanto di questo: secondo il suo compagno di viaggio, nel paese non ha mai funzionato nulla, e questa opinione è una novità. Un tempo la gente viveva male, mugugnava, ma nel complesso era comunque orgogliosa: di Gagarin, dello Sputnik, della potenza dell’esercito, della grandezza dell’impero, di una società più giusta di quella occidentale. Secondo Eduard, la sfrenata libertà d’espressione della glasnost’ ha finito per mettere in testa alla gente semplice e senza malizia come il suo interlocutore due idee: innanzitutto che quelli che hanno governato il paese a partire dal 1917 erano dei sadici e degli assassini, e poi che gli stessi lo hanno portato alla rovina. «La verità» si lamenta il compagno di viaggio «è che siamo un paese del Terzo Mondo: l’Alto Volta con i missili nucleari» – deve aver letto questa formula da qualche parte, gli piace, e la ripete con accorata soddisfazione. «Per settant’anni non hanno fatto altro che ripeterci che eravamo i migliori, mentre in realtà siamo dei perdenti. Vsë proigrali: un fiasco totale. Ecco dove siamo dopo settant’anni di sforzi e di sacrifici: nella merda fino al collo».

 

 

Scende la notte, Eduard non riesce a prendere sonno. Pensa alle poche lettere che ha ricevuto dai genitori durante la sua lunga assenza. Lettere lagnose, zeppe di stupidaggini e recriminazioni perché l’unico figlio che avevano non sarebbe tornato a chiudere loro gli occhi. Scorreva quelle lettere senza leggerle veramente, si rifiutava di compatire i genitori, ringraziava il cielo di averlo portato lontano dalle loro vite pavide e rattrappite. Un cattivo figlio? Forse, ma intelligente, e quindi senza pietà. La pietà rammollisce, la pietà avvilisce; e la cosa terribile è che da quando ha rimesso piede nel suo paese si sente invadere, oltre che dalla collera, dalla pietà. Si alza, si fa largo tra pacchi legati con lo spago, pieni delle miserabili cose che si portano dietro i poveri quando si mettono in viaggio. Al cesso, la tazza straripa di merda congelata. Nell’attraversare la carrozza di servizio per tornare al proprio posto sente gemere la controllora, che due giovinastri si stanno sbattendo a turno. In passato l’idea di soffrire per il suo paese gli sarebbe parsa grottesca, eppure ora soffre.

 

 

Il treno è arrivato alle sette del mattino, e il taxi lo ha lasciato a Saltov, davanti a quel formicaio che è il palazzo in cui ha trascorso l’adolescenza. Con la sacca da marinaio in spalla, Eduard sale le scale di cemento spoglie come quelle di una prigione. Davanti alla porta, esita un istante. L’emozione non rischierà mica di ucciderli? Non sarebbe meglio chiedere a un vicino di avvisarli? Pazienza, suona. Fruscio di pantofole, che sembra provenire dalla cucina. Prima che gli aprano, Eduard dice attraverso la porta: «Mamma, papà, sono io». Non devono aver sentito: «Chi è?». La voce della mmadre è diffidente, impaurita, da fuori non può venire niente di buono. Eduard intuisce che ha l’occhio incollato allo spioncino.

«Sono io, mamma» ripete. «Io, Edièka».

Lei toglie il chiavistello in alto, quello in basso, quello al centro, ora madre e figlio sono l’uno di fronte all’altro. Con passettini da anziano, il padre arriva alle spalle della donna. I genitori sono stupiti ma, stranamente, non più di tanto: stupiti come potrebbero esserlo della visita di un cugino che abita nella città vicina e si presenta senza preavviso, non di quella di un figlio partito quindici anni prima e che pensavano di non rivedere mai più. Lo abbracciano, tengono il suo volto fra le mani, e poi di colpo la madre lo allontana da sé per guardarlo meglio da capo a piedi, e gli chiede dove abbia messo il cappotto. Non ha un cappotto? Impossibile, non si può uscire con quel freddo senza cappotto. È troppo povero per comprarsene uno? «No, mamma. Non mi manca niente, stai tranquilla. Sto bene così». Lei dice che ce n’è uno nell’armadio, un cappotto buono che il padre non mette più, ed eccoli tutti e tre davanti all’armadio, con Eduard che prova il cappotto per accontentare i genitori e loro due che lo esaminano da ogni lato, e il padre dice che è un peccato, tutti quei begli abiti riposti nelle fodere, al riparo dalle tarme, e quell’appartamento che dopo la loro morte non lasceranno a nessuno. Non ha voglia di tornare e sistemarsi lì? Si sta bene, lì, è comodo, tranquillo. Eduard tronca sul nascere le loro illusioni, dicendo che si fermerà solo pochi giorni. Spiega che cos’è venuto a fare a Mosca: la sua tournée da VIP, il libro pubblicato in trecentomila copie. Gli piacerebbe che i genitori capissero che ha avuto successo, che ne fossero orgogliosi, ma loro non paiono interessati ai racconti del figlio. Sono cose troppo distanti dal mondo in cui vivono, non gli chiedono nemmeno se gliene ha portato una copia, del suo libro. Meglio così, perché Eduard non ce l’ha e perché, se ce l’avesse, loro non apprezzerebbero affatto il modo in cui li ha descritti. L’unica cosa che vorrebbero sapere è se ha una moglie, se possono sperare di avere un giorno dei nipotini. «Una moglie, sì,» dice Eduard senza scendere nei dettagli «ma figli no, non ancora».

«Non ancora? A quarantasei anni?». Raisa scrolla il capo, sconsolata.

La curiosità dei genitori è presto soddisfatta, e la routine quotidiana riprende il sopravvento. Veniamin, che è diventato davvero un vecchietto, se ne torna, appoggiandosi ai mobili, a stendersi in camera sua, e in cucina, davanti a una tazza di tè, Raisa spiega al figlio che l’anno precedente il padre ha avuto un ictus e da allora non ha più voglia di niente. È lei che lo veste e sveste, lui non esce quasi più di casa, e lei nemmeno, se non per fare la spesa: dove andare, del resto? Il centro la spaventa, ed è contenta di non abitarvi. «Qui è tranquillo» ripete, come se insistendo sperasse di convincere Eduard a sistemarsi in quella casa, infilarsi nel vecchio cappotto del padre, recuperare quello nuovo quando Veniamin sarà morto, e anche la sua šapka di montone rivoltato. Per evitare che il figlio pensi che non se la passano bene, la donna apre gli armadi e mostra con orgoglio le provviste messe da parte in caso di carestia: trenta chili di zucchero, sacchi di farina, e altrettante riserve in cantina.

Eduard è infastidito dalla fiamma azzurra del gas che resta sempre accesa sul fornello. Vuole spegnerla, ma la madre protesta: tiene caldo, e poi è una presenza, è come avere qualcuno con sé nella stanza. «Se facessi come te, a Parigi, spenderei migliaia di franchi» osserva Eduard, e del poco che il figlio ha raccontato della propria vita all’estero è questo il particolare che più di tutti colpisce Raisa: «Vuoi dire che là lo Stato è così attaccato ai soldi da farvi pagare il gas?». La donna non si capacita, e pensierosa continua: «Già, ma sembra che Gorbaèëv e i suoi leccapiedi vogliano fare lo stesso qui da noi…».

Tranne che nelle grandi città e negli ambienti più o meno intellettuali, parlare di Gorbaèëv è una conversazione riposante: non c’è pericolo di litigare, lo odiano tutti. Questo pensiero dà a Eduard un po’ di conforto.

 

 

Se fosse per lui, riprenderebbe il treno quella sera stessa, ma sarebbe una vera crudeltà. È la prima e probabilmente ultima volta che rivede i genitori, così decide di dedicare loro una settimana e di espiare quella settimana come un galeotto, segnando sul calendario i giorni che mancano alla liberazione. Ha ritrovato i vecchi pesi, e il mattino fa un’ora di esercizi. Rilegge senza piacere, steso sul letto di quand’era ragazzo, i suoi Jules Verne e Dumas, manda giù ogni giorno tre pasti troppo pesanti, si assoggetta a conversazioni disseminate di filo spinato con la madre, perché il padre non dice nulla. La donna racconta i minuti episodi di cui è costellata la sua giornata con una profusione di particolari quasi allucinante. Ignora l’ellissi. Per dire che ha ricevuto una lettera, descrive il percorso da casa alla posta, la fila allo sportello, lo scambio di convenevoli con l’impiegato, l’itinerario dell’autobus al ritorno. Così non ci si annoia di sicuro.

Eduard chiede che fine abbiano fatto gli amici di gioventù. Kostja, detto il Gatto, quello che era stato condannato a dodici anni di campo, è stato accoltellato in una rissa pochi giorni dopo la scarcerazione. È morto, e i suoi genitori stanno morendo lentamente di dolore. Quanto a Kadik, Kadik il dandy che sognava di diventare sassofonista, lavora ancora alla fabbrica Pistone. La sua Lidija lo ha lasciato, e lui è tornato ad abitare con la madre, e insieme a lei ha cresciuto la figlioletta. La figlioletta è diventata grande, se n’è andata, Kadik è rimasto con la madre. Beve troppo. «Sarebbe contento di rivederti» azzarda Raisa. Eduard rifiuta.

E Anna? «Anna? Santo cielo! Non hai saputo? L’hanno trovata impiccata nella topaia dove viveva, da sola, tra un ricovero e l’altro all’ospedale psichiatrico». Cercava di dipingere, era diventata enorme. Ogni tanto, Raisa andava a trovarla. Un giorno Anna le ha chiesto l’indirizzo di Eduard a Parigi: «Non ho potuto fare a meno di darglielo. Ti ha scritto?». Eduard scuote la testa. Ha ricevuto cinque o sei lettere che trasudavano una squallida follia, e non ha mai risposto.

 

 

La televisione è sempre accesa: la televisione sovietica, secondo Eduard la più masochistica del mondo, annega il suo rosario di catastrofi e geremiadi in un flusso inarrestabile di musica zuccherosa. È appena morto Sacharov, la bestia nera di un tempo, e a dar retta ai giornalisti il paese intero lo piange, unanime, fin nelle più remote campagne. «Sono diventati tutti pazzi» commenta Raisa, che sa a malapena chi fosse Sacharov. «Sembra che sia morto Stalin». Un oratore paragona il proscritto di ieri a Gandhi, un altro a Einstein, un terzo a Martin Luther King, e un mattacchione a Obi-Wan Kenobi, il saggio mentore, in Star Wars, del velleitario e irresoluto cavaliere Jedi al quale assomiglia sempre più Gorbaèëv. «E chi fa la parte di Darth Vader?» chiede l’intervistatore.

L’immancabile Evtušenko si piazza davanti alle telecamere per declamare una poesia in cui lo scomparso viene definito «tremolante lucignolo dell’epoca» – metafora che suscita l’ilarità di Eduard e diventerà un private joke, incomprensibile a tutti tranne che a lui, nei suoi articoli per «L’Idiot». Suspense: Gorbaèëv decreterà o meno una giornata di lutto nazionale? No, perché, fa notare, non è questa la prassi: per il segretario generale del partito sono previste tre giornate di lutto nazionale, per un membro del Politburo una, per un semplice accademico nessuna. I commentatori ravvisano in questa freddezza il segnale di una svolta a destra, che trova conferma il giorno dei funerali. Gorbaèëv si limita a raccogliersi brevemente davanti alla salma, invece di mettersi alla testa del corteo che attraversa Mosca seguito da centinaia di migliaia di persone che nessuno ha costretto – evento senza precedenti nella storia del paese. Un deputato di cui Eduard ha già notato la schietta e piuttosto simpatica faccia da scimmione, Boris El’cin, coglie al volo l’opportunità: si è già messo in evidenza come capo dei democratici dando scandalo con le sue dimissioni dal Politburo, adesso è lui a camminare dietro il feretro di Sacharov accanto alla vedova, Elena Bonner. Ogni volta che la telecamera la inquadra, la vecchia cornacchia sta fumando una sigaretta, o la sta spegnendo, o ne sta accendendo un’altra. Raisa nota che alcune persone attorno a El’cin e alla Bonner brandiscono cartelli con un 6 barrato da una croce, e chiede: «Che cosa significano quei 6?».

«Significano» le spiega il figlio «che vogliono abrogare l’articolo 6 della costituzione: quello sul partito unico».

«E che cosa vorrebbero, allora?».

«Be’, che ci possano essere più partiti, come in Francia».

Raisa lo guarda inorridita. Più partiti: le sembra una barbarie, come far pagare il gas.

 

VI
VUKOVAR, SARAJEVO, 1991-1992

 

 

1

 

Sono seduti, chiusi nell’angolo retto formato da due tavoli di formica bruna, con alle spalle un muro cieco. Non si vedrà altro di quel luogo, che potrebbe essere un’aula scolastica, una mensa o un ufficio. Lei indossa un cappotto chiaro con un fazzoletto da contadina, lui un soprabito scuro e una sciarpa, e ha posato la šapka di montone rivoltato sul tavolo che ha davanti. Sembrano una coppia di pensionati. La telecamera non li abbandona, l’inquadratura cambia senza motivo, brevi zoom in avanti e indietro, brevi panoramiche, ma nessun controcampo: non si vedono gli uomini seduti o in piedi di fronte a loro, non si vede il volto dell’uomo fuori campo che con voce rabbiosa e monocorde accusa quei due vecchietti di aver vissuto nel lusso sfrenato, fatto morire di fame dei bambini, compiuto un genocidio a Timișoara. Dopo ogni raffica di accuse, l’invisibile pubblico ministero li invita a rispondere, e l’uomo, senza smettere di tormentare la šapka, risponde che lui non riconosce alcuna legittimità a quel tribunale. A tratti la moglie si infervora, comincia a discutere, e allora per calmarla l’uomo appoggia la propria mano sulla sua, con un gesto familiare, commovente. A tratti, l’uomo guarda il suo orologio, e se ne è desunto che aspettasse l’arrivo delle truppe che avrebbero dovuto liberarli. Ma le truppe non arrivano e dopo mezz’ora le riprese si interrompono. Ellissi. L’inquadratura successiva mostra i loro corpi insanguinati sul selciato di una strada o di un cortile, non si sa dove.

 

 

La scena ha l’irrealtà di un incubo. Girata dalla televisione romena, è andata in onda sui canali francesi la sera del 26 dicembre 1989. Io l’ho vista, sbalordito, prima di partire per Praga a festeggiare l’ultimo dell’anno, e Limonov al suo ritorno da Mosca. Aveva ritrovato e ricondotto con sé Nataša, che era dolce e carina, come sempre dopo le sue fughe. Forse, vedendola, ha pensato alla loro relazione, al suo sogno di invecchiare e morire accanto a lei, ma in ogni caso sono sicuro che ha pensato ai suoi genitori quando, appena è finita la trasmissione, ha scritto l’articolo da cui estrapolo queste righe: «La videocassetta che doveva giustificare l’assassinio del capo di Stato romeno è la testimonianza vivida e tremenda dell’amore di una vecchia coppia, un amore che si esprime attraverso sguardi e lievi pressioni sulle mani. Sia lui che lei erano indubbiamente colpevoli di qualcosa. È impossibile che il leader di una nazione non lo sia. Anche il più innocente ha, per forza di cose, firmato un decreto ignobile o non ha graziato qualcuno, lo esige il ruolo stesso di leader. Ma, braccati, chiusi in un angolo di una stanza anonima, quei due, privati del sonno, e aiutandosi reciprocamente ad affrontare la morte, ci hanno offerto, senza averla mai provata prima, una rappresentazione degna delle tragedie di Eschilo e Sofocle. Avviandosi insieme, semplici e maestosi, sulla strada per l’eternità, Elena e Nicolae Ceauºescu hanno raggiunto le altre coppie di innamorati immortali della storia mondiale».

Non mi sarei espresso con altrettanto lirismo, e non consideravo quella coppia di grotteschi tiranni colpevole soltanto degli inevitabili errori connaturati all’esercizio del potere. Rammento tuttavia di essermi sentito anch’io orribilmente a disagio davanti a quella parodia di giustizia, a quella esecuzione sommaria, a quella messinscena che voleva essere esemplare e mancava totalmente il suo obiettivo perché, di fatto, per quanti delitti potessero aver commesso gli imputati, in quel momento la dignità era dalla loro parte – molto tempo dopo ho avvertito lo stesso disagio quando è stato catturato e poi impiccato Saddam Hussein. L’anno magico, che aveva visto in tutta Europa umanisti come Václav Havel giungere al potere sull’onda di rivoluzioni non violente, si chiudeva su una nota stridente.

 

 

Nei mesi successivi sono arrivati dalla Romania altri strani segnali. La rivoluzione che aveva deposto i Ceauºescu rivendicava migliaia di martiri, massacrati in un ultimo sussulto dal regime agonizzante. Particolare emozione hanno destato le fosse comuni scoperte a Timișoara. Quattromila morti era la stima comunemente accettata. «Libération» precisava: 4630. Settantamila, rilanciava audacemente TF1. All’ora del tacchino e del foie gras, i telegiornali mostravano cadaveri scheletrici sporchi di terra e vestiti con divise a righe, riesumati da buche scavate in tutta fretta. L’Europa tremava. Si discuteva se fosse il caso di inviare forze internazionali per porre fine al genocidio messo in atto dagli assassini, ormai alle corde, della Securitate, la polizia politica di Ceaușescu. Si è poi scoperto però che, primo, i corpi, al massimo qualche decina, erano stati dissotterrati a uso e consumo delle telecamere nel cimitero di Timișoara, dove riposavano dopo essere morti di morte naturale; secondo, gli assassini della Securitate, lungi dal perpetrare un genocidio suicida, si erano molto più saggiamente riciclati come dirigenti del Fronte di salvezza nazionale, il partito del nuovo presidente, Ion Iliescu. Messo al bando e accusato di ogni delitto, il Partito comunista si era limitato a cambiare nome e leader, ma era sempre forte, e le elezioni nel marzo del 1990 gli hanno assegnato una larga maggioranza, giustificando la crudele battuta secondo cui i romeni sono stati l’unico popolo della storia ad avere liberamente eletto un governo comunista. Tutto ciò era così appassionante che quella primavera sono andato in Romania per fare un servizio.

 

 

Freud ha elaborato la nozione di Unheimliches – che viene in genere tradotta con «il perturbante» – per indicare l’impressione che ci capita di avere in sogno, e qualche volta anche da svegli, di trovarci di fronte a qualcosa che crediamo di conoscere ma in realtà ci è del tutto estraneo. In inglese si direbbe alien. La Romania postrivoluzionaria mi è parsa un’autentica Disneyland dell’Unheimliches. Una twilight zone che voci inquietanti sostenevano fosse bucherellata come un groviera da una rete di gallerie sotterranee, scavate dalla polizia segreta, in cui la gente spariva. Una zona avvolta nella penombra, immobilizzata in una sorta di minaccioso crepuscolo – e poi decine di migliaia di cani randagi che si aggiravano per Bucarest, contendendo il cibo a decine di migliaia di bambini, anche loro randagi, e i cani sembravano meno pericolosi del lupo in cui ogni uomo si trasforma per l’altro uomo. L’odio, il sospetto e la calunnia toglievano il respiro, come un gas tossico. Tra i molti casi, ricordo quello dello scrittore, insignito in quegli ultimi vent’anni di premi e cariche ufficiali, che mi sfiniva con la sua «resistenza interiore» al vituperato regime, e quando gli ho chiesto, premettendo che non intendevo affatto puntare l’indice contro di lui e che capivo perfettamente la quasi impossibilità di un atteggiamento diverso da quello, se altri, invece, non avessero resistito un po’ meno interiormente e se poteva citarmi qualcuno di loro (pensavo ad alcuni oppositori dalla reputazione immacolata, gli omologhi locali di Sacharov), mi ha guardato gravemente prima di rispondere che preferiva tacerne i nomi, per discrezione e misericordia, poiché tutti sapevano che la Securitate reclutava i suoi più zelanti informatori fra tali presunti oppositori. Bene. Fin qui siamo al primo livello di tortuosità. Ma al secondo le cose si complicano, perché alcuni di quelli che la sanno lunga a cui ho riferito questa risposta mi hanno detto che ovviamente il mio interlocutore aveva ragione. Era noto a tutti, non era un mistero per nessuno, era un fatto di dominio pubblico.

 

 

È giunto il momento di parlare di quelli che la sanno lunga. Io li ho conosciuti in Romania, dove hanno proliferato tra le macerie del comunismo. Diplomatici, giornalisti, osservatori da tempo residenti nel paese si sono specializzati nel contraddire sistematicamente i discorsi ufficiali, gli stereotipi dei media e le illusioni dei benpensanti. Nemici giurati del «politicamente corretto», si divertono a sostenere che il KGB o la Securitate, accusati dagli ingenui di essere fucine di tenebre e di morte, erano in realtà soltanto l’equivalente della nostra ENA, o che l’opera scientifica per la quale è stata conferita a Elena Ceaușescu la laurea honoris causa da tutte le università del paese non era così mediocre com’è stato detto, e che mediocri non erano neppure le poesie di Radovan Karadiæ, che sta per fare la sua comparsa in questo libro. Quelli che la sanno lunga godevano della fiducia del nostro presidente Mitterrand, ne hanno influenzato la politica estera, e la Romania, dove ogni cosa era doppia, truccata, perfida, dove le fosse comuni che suscitavano l’indignata compassione dell’Occidente erano realmente una lugubre pagliacciata, era perfetta per diventare il loro Eldorado.

Dopo aver passato due settimane ad affondare in quel pantano di menzogne e di calunnie incrociate, ero pronto ad ascoltare il punto di vista di un vecchio romeno, tornato di recente nel suo paese dopo trent’anni di esilio in Francia, il quale non pretendeva affatto di saperla lunga, e non era nemmeno politicamente corretto: «Ha visto le loro facce, per strada? Ha visto le loro facce? La povertà, la sporcizia, d’accordo, ma quella diffidenza ostinata, quella meschinità, quel terrore cattivo dipinto sui volti? Il mio popolo non era così, glielo garantisco. Questo non è il mio popolo. Non capisco. Chi è questa gente?». E nel tremito della sua voce si sentiva lo stesso orrore del protagonista dell’Invasione degli ultracorpi, il vecchio film di fantascienza degli anni Cinquanta, quando scopre che gli uomini sono stati progressivamente sostituiti da extraterrestri e che tutti i suoi cari, in apparenza gli stessi di sempre, sono in realtà dei malefici mutanti.

 

 

Verso la fine del mio soggiorno, il presidente Iliescu e il primo ministro Petre Roman hanno chiamato i lavoratori a mobilitarsi per difendere la «democrazia» (uso qui le virgolette, ma bisognerebbe usarle quasi per ogni parola) da un complotto neofascista non meno immaginario del genocidio perpetrato a Timișoara dalla Securitate. Non era affatto immaginario invece l’uso massiccio di autocarri e treni appositamente noleggiati dal Fronte di salvezza nazionale per far convergere su Bucarest, il 14 giugno 1990, ventimila minatori infiammati da un ossessivo lavaggio del cervello e armati di sbarre di ferro, i quali per due giorni hanno seminato il terrore in città, aggredendo dapprima ogni persona sospetta di essere un oppositore, poi, siccome gli oppositori scarseggiavano, chiunque capitasse a tiro, alla cieca, tanto per far vedere che non scherzavano. Quel giorno io ero nei Carpazi, dove stavo completando il mio servizio, e quando sono tornato a Bucarest lo spettacolo volgeva ormai al termine. I minatori cominciavano ad abbandonare la città dopo aver ricevuto le congratulazioni del presidente Iliescu, e i giornalisti ad arrivare, prendendo d’assalto l’Hotel Intercontinental, dove, rinviata la partenza, sono rimasto tre giorni ad aspettare che succedesse qualcosa, a spiare il formarsi di assembramenti che subito si disperdevano, ad ascoltare le varie voci di cui il nostro albergo era il ricettore, a chiedermi se era meglio partire, rischiando di bucare di nuovo la notizia, o trattenermi, rischiando di non trovare più un buon motivo per partire.

In quei tre giorni ho parlato a lungo con un giornalista americano che era stato pestato abbastanza seriamente ed era come me un appassionato delle storie di fantascienza paranoiche di cui L’invasione degli ultracorpi è il prototipo. Facevamo a gara a chi sapeva più titoli di racconti e di film, e nomi di scrittori, finché, arrivati a Philip K. Dick, ci siamo trovati d’accordo: i suoi romanzi, che descrivono con spaventosa lucidità la disgregazione della realtà e delle coscienze che la percepiscono, erano le uniche guide attendibili per un viaggio nella twilight zone romena.

In un libro di Dick, La penultima verità, dopo una guerra batteriologica gli uomini si sono rifugiati in villaggi sotterranei in cui conducono da anni un’esistenza atroce. Sanno dalla televisione che in superficie infuria la guerra, che ogni settimana vengono distrutte delle città e l’atmosfera diventa sempre più tossica. Ma un giorno comincia a spargersi una voce: la guerra è finita da un pezzo, e un manipolo di potenti, padroni del sistema televisivo, ha organizzato quella messinscena solo per fare rimanere nell’oscurità una popolazione troppo numerosa e poter vivere da soli e in pace sotto la volta stellata. La voce si diffonde – e il peggio è, naturalmente, che è vera. Non è difficile immaginare da quale odio, ignobile e giustificato, siano animati gli uomini del sottosuolo quando muovono alla conquista della superficie. Lo stesso odio l’avevamo visto, il giornalista americano e io, brillare negli occhi dei minatori arrivati a Bucarest per «salvare la democrazia», e confesso che al bar dell’Intercontinental abbiamo formulato l’empio augurio che un giorno potesse rivoltarsi contro quelli che lo avevano fomentato.

 

2

 

Sono tornato dalla Romania molto scosso, e convinto che il modo migliore per dar voce a quello stato d’animo fosse scrivere la biografia di Philip K. Dick. Mi ci sono voluti due anni per venirne a capo, e in quel periodo mi sono limitato a seguire da lontano quanto accadeva nel mondo, in particolare in quella che allora si è cominciata a chiamare «ex Iugoslavia». All’inizio, quando a battersi erano i serbi e i croati, a me facevano l’effetto dei sildavi e dei borduri di Tintin: contadini baffuti, con la tagelmust arrotolata sulla testa e gilè ricamati, inclini, dopo aver bevuto, ad agguantare il fucile per ammazzarsi fra loro in nome di dispute antichissime – come il possesso di un campo che i serbi, per ragioni comprensibili soltanto a loro, considerano il luogo più sacro della propria storia poiché è stato teatro della sconfitta più cocente che abbiano mai subito. Vista da lontano, la vicenda sembrava non meno sconfortante di quella romena, ce n’era abbastanza per concludere che l’euforia del 1989 era ormai tramontata, ma non avendo un’opinione precisa seguivo le discussioni senza intervenire.

Sulla scia di Alain Finkielkraut, la maggior parte dei miei amici si era schierata per l’indipendenza dei croati in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione. All’epoca l’argomento sembrava non ammettere replica: quando uno vuole andarsene, se ne va, non si tiene una nazione prigioniera di un’altra con la forza. Alcuni, tuttavia, osavano replicare che, in primo luogo, se si imboccava quella strada si sarebbe dovuto riconoscere lo stesso diritto a chiunque lo avesse reclamato – corsi, baschi, fiamminghi, italiani della Lega Nord –, e sarebbe stato un bel casino. In secondo luogo, che la Francia era storicamente amica dei serbi, i quali avevano fatto la resistenza contro la Germania nazista, mentre i croati non soltanto erano stati filonazisti ma filonazisti particolarmente zelanti e sanguinari. Spesso e volentieri chi ricorreva a questo argomento ricordava la memorabile scena di Kaputt in cui Malaparte, in visita al leader croato Ante Paveliæ, nota un paniere con dentro della roba grigia e vischiosa, domanda se siano ostriche della Dalmazia e si sente rispondere di no: sono venti chili di occhi serbi offerti in dono al loro capo dai suoi coraggiosi ustascia – così si chiamavano i partigiani croati, mentre i «cetnici» erano quelli serbi.

Per finire, c’era l’ultimo argomento, che a me sembrava il più convincente: anche a voler giudicare legittima l’aspirazione croata all’indipendenza, bisognava tener presente che il destino dei serbi da lungo tempo stanziati in Croazia si preannunciava tutt’altro che invidiabile. Se in Iugoslavia erano la maggioranza dominante, in Croazia sarebbero stati una minoranza subalterna. La loro preoccupazione era comprensibile, dato che i primi provvedimenti adottati dalla democrazia croata presieduta da Franjo Tudjman erano stati la cancellazione delle scritte in cirillico dai luoghi pubblici, l’estromissione dei serbi dagli incarichi amministrativi e la sostituzione della bandiera recante la stella rossa della Federazione iugoslava con quella a scacchi bianchi e rossi dello Stato indipendente di Croazia, che era stata introdotta nel 1941 dai tedeschi e, in quanti avevano vissuto la seconda guerra mondiale, risvegliava gli stessi pensieri della croce uncinata. Dico tutto questo per ricordare che nei primi mesi dell’implosione della Iugoslavia la divisione fra buoni e cattivi non era netta e, anche se c’era, in questo modo di vedere le cose, una buona dose di propaganda, non era poi un’assurdità considerare i serbi di Croazia alla stregua di ebrei destinati alla persecuzione. Le cose si sono cominciate a chiarire soltanto con la spettacolare distruzione di Vukovar, ed è appunto lì che ritroviamo Limonov.

 

 

Nel novembre del 1991, in occasione dell’uscita di uno dei suoi libri, Eduard viene invitato a Belgrado, e durante una seduta di autografi riceve la visita di uomini in divisa che gli chiedono cosa sappia della Repubblica serba di Slavonia. Non molto, per la verità. Si tratta, gli spiegano quelli, di una enclave abitata da serbi sulla punta orientale della Croazia. Questi serbi non vogliono seguire i croati nella secessione, e hanno compiuto a loro volta una secessione, i croati non sono d’accordo, così è scoppiata una guerra, e un luogo chiave di questa guerra, Vukovar, è appena stato conquistato dai serbi: gli va di dare un’occhiata?

Eduard aveva altri progetti, quanto sta avvenendo nel suo paese lo interessa molto più di quelle liti fra contadini balcanici, ma pensa che sta per compiere cinquant’anni e non è mai stato in guerra, e la guerra è un’esperienza che un uomo prima o poi deve fare, così accetta. È talmente eccitato che quella notte non riesce a chiudere occhio. All’alba passano a prenderlo in albergo due ufficiali, e i tre prendono l’autostrada che collega Belgrado, capitale della Serbia, a Zagabria, capitale della Croazia. Dopo lo scoppio delle ostilità l’autostrada è stata abbandonata dalle macchine dei turisti, ma in compenso è costellata di posti di blocco e checkpoint. Mentre alcuni soldati controllano i documenti dei passeggeri, altri li tengono sotto tiro, e tutti si fanno sospettosi quando si accorgono che, benché russo e per questa ragione presunto filoserbo, Eduard ha un passaporto francese, il che significa cattolico e presunto filocroato. La questione viene risolta con alcuni veementi improperi all’indirizzo di Tudjman e di Genscher, il ministro degli Esteri tedesco che ha perorato presso i suoi omologhi europei il riconoscimento dell’indipendenza della Croazia ed è quindi considerato a Belgrado il teorico di un Quarto Reich. Ci si giura a vicenda di impiccare l’uno con le budella dell’altro, si beve un bicchiere per sigillare il patto e si riparte.

C’è un particolare, nella versione dei fatti che gli viene presentata, che dovrebbe far suonare un campanello d’allarme: tutti quei militari acquisiti alla causa serba indossano la divisa dell’esercito federale iugoslavo, che esiste ancora, e che in teoria si astiene dal partecipare al conflitto ma in realtà, composto com’è da una schiacciante maggioranza serba, ha appena bombardato a tappeto Vukovar e tutte le posizioni croate limitrofe. Questo particolare toglie credibilità al parallelo cui ho accennato – e che l’ufficiale incaricato di accompagnare Eduard non si perita di ribadire – tra il destino dei serbi e quello degli ebrei durante la seconda guerra mondiale: sarebbe come dire che per difendersi dai nazisti gli ebrei potevano contare sull’indefettibile sostegno della Wehrmacht. Ma Eduard se ne frega. Quel che gli piace sono i soldati armati, i mezzi corazzati, i sacchi di sabbia, le divise verderame che spiccano sulla neve, i lanci di mortaio che si cominciano a sentire in lontananza. È attraversare, di lì a poco, le rovine ancora fumanti dei villaggi. È poter credere, in quell’angolo gelido dei Balcani, di essere nel 1941 e non nel 1991. È la guerra, la guerra vera, quella che suo padre non ha fatto, e lui ci è dentro.

 

 

Vukovar è stata liberata dalle truppe serbe due giorni prima. Non gli fa suonare un campanello d’allarme neanche il fatto che dai suoi compagni la distruzione totale della città venga definita, senza nessuna ironia, «liberazione». Anche Berlino era ridotta in macerie quando è stata liberata dall’Armata Rossa, e Vukovar, in passato una bella città asburgica, ricorda in piccolo la Berlino del 1945. Allorché, una volta tornato a Belgrado, si sentirà chiedere ingenuamente da uno scrittore cui sta raccontando la propria avventura in quale albergo abbia alloggiato, Eduard, misurando tutta la distanza che separa da un civile come il suo interlocutore un uomo che, come lui, ha visto la guerra da vicino, rinuncerà a spiegargli che a Vukovar alberghi non ce ne sono più, case ancora in piedi pochissime, e abitabili nessuna. Della città rimane solo una distesa di calcinacci, ferraglia contorta e vetri in frantumi che i bulldozer cominciano a sgomberare. A causa delle mine, è vietato allontanarsi di un passo anche solo per pisciare. Non si vede volare neanche un uccello. Pochi i morti, li hanno già portati via, ma Eduard ne avrà a bizzeffe quando gli faranno visitare il Centro di identificazione dei corpi.

Cadaveri torturati, violacei, carbonizzati. Gole tagliate, odore di carne in decomposizione. Sacchi contenenti resti umani che soldati scaricano dai camion. Chi erano quegli uomini? Serbi? Croati? «Serbi, ovviamente» risponde il suo ufficiale guida, sorpreso dalla domanda: per lui le vittime della guerra sono serbe per definizione e i carnefici croati. Forse è vero a cinquanta chilometri da lì, ma è più difficile da sostenere nei pressi di una città croata letteralmente rasa al suolo dall’artiglieria serba (insomma, federale…) e dove manca all’appello un quarto della popolazione. Non importa. Eduard certo immagina che su entrambi i fronti ci siano contadini ingiustamente cacciati dalle proprie case, vittime innocenti e guerrieri valorosi. Non crede che una parte abbia completamente ragione e l’altra completamente torto, ma non crede nemmeno nella neutralità. Neutralità fa rima con viltà, Eduard non è un vile e sente che il destino lo ha posto al fianco dei serbi.

Con loro si sente a suo agio. Si sente a suo agio, la sera, vicino ai bracieri su cui uomini mal rasati si scaldano le mani gonfie dalle unghie nere. Si sente a suo agio, la notte, nella baracca in cui aleggia un pesante odore di stufa a carbone, di acquavite di prugne e di piedi. Quei bivacchi e quella fraternità tra guerrieri li ha sognati da bambino, ma il destino glieli aveva negati, ed ecco che ora, senza preavviso, lo restituisce a tutto ciò per cui era nato. In due ore di guerra, pensa Eduard, si impara sulla vita e sugli uomini più che in quattro decenni di pace. La guerra è sporca, è vero, la guerra non ha senso, ma, cazzo!, neanche la vita civile ha senso, per quanto è tetra e ragionevole a forza di frenare gli istinti. La verità che nessuno osa dire è che la guerra è un piacere, il più grande dei piaceri, altrimenti finirebbe subito. La guerra è come l’eroina: provata una volta, non si può più farne a meno. Parliamo di una guerra vera, naturalmente, non di «bombardamenti chirurgici» e porcate simili, buone per gli americani che vogliono fare i gendarmi in casa altrui senza rischiare i loro preziosi soldatini in combattimenti «di terra». Il piacere della guerra, della guerra vera, è innato negli uomini come quello della pace, ed è un’idiozia volerli mutilare di questo piacere ripetendo virtuosamente: la pace è buona, la guerra è cattiva. In realtà, pace e guerra sono come l’uomo e la donna, lo yin e lo yang: sono necessarie entrambe.

 

 

Nell’ex Iugoslavia le guerre non sono state mai, o quasi mai, combattute da eserciti regolari, bensì da milizie, e arrivati a questo punto vorrei chiamare al banco dei testimoni due giornalisti che hanno seguito sul campo tutta la vicenda e hanno scritto due libri sull’argomento. Sono Jean Rolin e Jean Hatzfeld. Il primo è amico mio, il secondo lo conosco un po’ e li ammiro entrambi. Rolin e Hatzfeld sono molto amici e i loro resoconti combaciano. Quello di Jean Rolin si intitola Campagnes, quello di Jean Hatzfeld L’Air de la guerre.

Nella prima pagina di Campagnes Jean Rolin descrive, cito: «un posto di blocco sorvegliato da miliziani di cui non è facile capire l’appartenenza. La guerra era all’inizio, il tempo era bello, le perdite erano ancora limitate da entrambe le parti, c’era ancora il piacere da poco scoperto di portare armi, usarle per imporre la propria legge, terrorizzare i civili, violentare le ragazze, insomma godere gratuitamente di tutte quelle cose così difficili e costose da ottenere in tempo di pace, quando, se va bene, bisogna lavorare per procurarsele». A quelle torme di giovani contadini felici di ubriacarsi sparando in aria si sono presto aggiunti tifosi di calcio di ogni genere, piccoli e grandi delinquenti, veri e propri psicopatici, mercenari stranieri, slavofili russi venuti a difendere l’ortodossia (fra i serbi), neonazisti nostalgici degli ustascia (fra i croati) e jihadisti (fra i musulmani bosniaci, che tra non molto usciranno da dietro le quinte). Quel piccolo mondo aveva in comune una cultura paramilitare i cui elementi erano, scrive ancora Jean Rolin: «Tute mimetiche, berretti verdi e Ray-Ban; kalashnikov, fucili a pompa o mitragliatrici Uzi decorate con una sfilza di adesivi dei puffi; alcolismo sfrenato; 4x4 non immatricolati stracarichi di cetnici ilari, tatuati, con capelli lunghi e barbe al vento, i quali, di ritorno dal “fronte” o da una qualsiasi operazione di pulizia, sbraitano, tengono la musica a tutto volume, sgommano e sparano, in aria nel migliore dei casi, sulla gente negli altri; puttanelle che ridacchiano in cucina mentre in bagno gli uomini incidono con una sega le costole di un sospetto; e su un muro questa scritta: We want war, peace is death».

 

 

Jean Hatzfeld mostra in azione la più famosa delle milizie serbe, le Tigri, capeggiata da un certo Zeljko Ranatoviæ, stimato rappresentante del prossenetismo belgradese che si è conquistato i galloni di criminale di guerra con il nome di Arkan. La scena, a cui Eduard avrebbe potuto assistere, si svolge all’indomani della resa di Vukovar, in un magazzino dove sono stati radunati i prigionieri croati scovati durante le ultime offensive nelle cantine in cui si erano rifugiati. In teoria questi croati sarebbero sotto la protezione dell’esercito federale, ma l’esercito si fa cortesemente da parte per consentire ai miliziani di Arkan di effettuare la loro scelta tra i prigionieri. Il criterio della scelta è il più delle volte il rancore personale, perché vincitori e vinti si conoscevano benissimo ai tempi, non così lontani, in cui nessuno si preoccupava di chi fosse serbo o croato. Abitavano negli stessi paesi, negli stessi quartieri. Ieri quei prigionieri grigi, terrorizzati, erano i vicini di casa, i compagni di bevute di coloro che oggi li fanno salire spingendoli con il calcio del fucile su camion militari in partenza per una destinazione ignota.

Hatzfeld descrive Arkan, che sovrintende all’operazione, come una specie di Rambo. Quanto ai suoi uomini, il giorno seguente Hatzfeld ne raccoglie uno che fa l’autostop. È un giovanotto simpatico, sportivo; è in licenza, va a trovare la madre, e racconta tutto allegro quello che lui e i suoi colleghi fanno agli ustascia – leggi: ai croati – che cadono nelle loro mani: «La prova iniziatica consiste nel tagliare lentamente l’arteria giugulare di un prigioniero inginocchiato. Il ragazzo precisa che chi è troppo nervoso è costretto a ricominciare, che quelli che si sono rifiutati – pochi – hanno gettato la spugna. Dice che la prima volta fa uno strano effetto, naturalmente, ma che dopo si va a far baldoria tutti contenti».

Ci tenevo a riportare questa testimonianza prima di far sentire la campana di Eduard, che quando ha incontrato Arkan nel suo quartier generale di Erdut, vicino a Vukovar, lo ha giudicato «acuto e prudente», ed è orgoglioso del fatto che Arkan abbia capito di non avere di fronte uno dei soliti giornalisti. Arkan e lui hanno bevuto un bicchiere di slivoviz insieme, e si sono trovati d’accordo su tutto: Gorbaèëv ed El’cin meritavano di essere fucilati insieme a Tudjman e Genscher, in Russia bisognava fare la rivoluzione, gli intellettuali francesi che sostenevano i croati erano degli irresponsabili, eccetera. Eduard ha chiesto ad Arkan se avrebbe accolto lui e altri volontari russi. «Sono tutti benvenuti» ha risposto Arkan con un gesto largo. Quel giorno è nata una bella amicizia, e qualche mese dopo, quando ha letto sul «Monde» che in Bosnia uno scontro fra serbi e musulmani si era concluso con la vittoria dei miliziani di Arkan, a Eduard sono venute le lacrime agli occhi. È andato a prendere la foto in cui lui e Arkan posano insieme al cucciolo di lince, la mascotte del battaglione, e guardandola si è sentito afferrare da una intensa nostalgia. «Come vorrei, Arkan, fratello mio, essere di nuovo al tuo fianco! Non vedo l’ora di tornare a far la guerra sulle montagne dei Balcani!».

 

3

 

Si è cominciato a capirci qualcosa di più, almeno negli ambienti che frequentavo io, solo nella primavera del 1992, quando si sono temporaneamente interrotti i combattimenti tra serbi e croati e sono iniziati quelli in Bosnia. I serbi, fanaticamente aizzati a Belgrado dall’orrendo presidente Miloševiæ e in Bosnia dal losco Radovan Karadiæ, erano senza ombra di dubbio i cattivi della situazione, mentre i musulmani bosniaci, rappresentati da un uomo di una certa età dal bel volto di umanista, Alija Izetbegoviæ, erano vittime di un’odiosa aggressione – e questa parola non era ancora abbastanza forte, presto le sarebbe stata preferita «genocidio». Quei musulmani biondi con gli occhi azzurri che ascoltavano musica classica in appartamenti zeppi di libri erano musulmani ideali, ci sarebbe tanto piaciuto averne di simili da noi, e se Sarajevo con la sua armoniosa società multietnica era diventata il simbolo dell’Europa che avremmo voluto, il merito era soprattutto loro. Ansiosi di difendere questa Europa e infiammati dal ricordo della guerra di Spagna, parecchi dei miei conoscenti hanno cominciato a recarsi con regolarità a Sarajevo assediata, dormendo senza potersi lavare in case bombardate, percorrendo a zigzag, sotto il tiro dei cecchini, strade dai marciapiedi sventrati, ubriacandosi con il recondito pensiero che fosse arrivato il loro ultimo giorno, e spesso – il luogo si prestava – innamorandosi.

A posteriori mi chiedo per quale motivo non mi sono concesso quello sfizio – che, oltre a essere romanzesco, accresceva il tuo prestigio. Un po’ per paura: probabilmente sarei andato a Sarajevo se, proprio quando mi veniva rivolta la proposta, non fossi venuto a sapere che a Jean Hatzfeld era appena stata amputata una gamba dopo essere stato colpito, laggiù, da una raffica di kalashnikov. Ma non voglio buttarmi troppo giù: è stato anche per prudenza. Diffidavo, e ancora diffido, delle unioni sacre – anche quelle che non oltrepassano la cerchia limitata delle persone che frequento. Se mi considero incapace di ogni violenza gratuita, riesco pure a immaginare facilmente – forse troppo – le ragioni o le concatenazioni di eventi che in altre epoche avrebbero potuto spingermi al collaborazionismo, allo stalinismo o alla rivoluzione culturale. Forse tendo anche troppo a chiedermi se fra i valori accettati senza discutere dal mio ambiente – i valori che le persone del mio tempo, del mio paese e della mia classe sociale giudicano irrinunciabili, eterni e universali – non possa essercene qualcuno che un giorno risulterà grottesco, scandaloso o semplicemente sbagliato. Quando individui poco raccomandabili come Limonov o suoi simili sostengono che al giorno d’oggi l’ideologia democratica e dei diritti umani è l’esatto equivalente di ciò che è stato il colonialismo cattolico – le stesse buone intenzioni, la stessa buonafede, la stessa incrollabile certezza di portare ai selvaggi il vero, il bello, il bene –, non mi incantano con la loro argomentazione relativistica, però non ho niente di concreto da contrapporvi. E siccome nelle discussioni di politica mi trovo spesso d’accordo con chi ha preso la parola per ultimo, ascoltavo con molta attenzione quelli che la sapevano lunga allorché spiegavano che Izetbegoviæ, presentato come un apostolo della tolleranza, era in realtà un musulmano fondamentalista, circondato da mujaheddin, deciso a instaurare a Sarajevo una Repubblica islamica, e che, al contrario di Miloševiæ, aveva tutto l’interesse a prolungare il più possibile l’assedio e la guerra; che i serbi, nella loro storia, erano stati sotto il giogo ottomano quanto bastava perché nessuno si sorprendesse se non avevano voglia di ripiombarvi; infine che, se si guardavano bene tutte le fotografie pubblicate dalla stampa raffiguranti vittime dei serbi, una su due in realtà mostrava una vittima serba. Annuivo: sì, la faccenda era più complicata.

Poi ascoltavo Bernard-Henri Lévy scagliarsi proprio contro queste affermazioni e dire che così si giustificava ogni viltà diplomatica, ogni cedimento, ogni dilazione. Rispondere a coloro che denunciano la pulizia etnica di Miloševiæ e la sua cricca dicendo: «È una faccenda più complicata» è proprio come dire che, certo, probabilmente, i nazisti hanno sterminato gli ebrei in Europa, ma se ci si riflette attentamente la faccenda è più complicata. No, si infuriava Bernard-Henri Lévy, la faccenda non è più complicata, anzi, è tragicamente semplice – e io annuivo anche questa volta.

 

 

Ricordo di avere sfogliato in quel periodo un libretto intitolato, senza ambiguità, Avec les Serbes, cofirmato da una decina di scrittori francesi, Besson, Matzneff, Dutourd, molti di quelli che scrivevano sull’«Idiot», per rispondere alla demonizzazione di un intero popolo, «trasformato in capro espiatorio dai signori del nuovo ordine mondiale (leggi: gli americani) allo scopo di consolidare il loro dominio terroristico». L’iniziativa mi sembrava, se non altro, coraggiosa, perché gli autori non avevano nulla da guadagnarci. Il che non depone affatto a favore delle loro tesi, lo so. Non c’è nulla da guadagnare a essere negazionisti, e non c’era nulla da guadagnare neanche a dichiararsi fascisti nel 1945, come fece, dopo l’esecuzione del cognato Robert Brasillach, Maurice Bardèche, che durante l’Occupazione se n’era rimasto più o meno tranquillo e poteva sperare di passarla liscia al momento della Liberazione. Questo coraggio non ha nulla a che vedere con la lucidità, io lo considero stupido, ma è comunque coraggio. Poiché mi riusciva molto difficile affrontare questa parte del mio libro, e per cautelarmi accumulavo letture, ricerche e lavoro di documentazione, mi sono spinto fino a rileggere quel libello, che mi ha fatto la stessa impressione di quindici anni fa. Vi ho trovato un fondo di tradizionale serbofilia francese, del resto la stessa di Mitterrand (Jean Dutourd: «Che cosa ci guadagnerà la Francia a guastare i suoi rapporti con vecchi amici – i serbi – a vantaggio di popoli che per lei non significano nulla e non le saranno affatto riconoscenti – bosniaci e kosovari?»), e argomenti che, per i più giovani, si possono riassumere così: sono stato a Belgrado, le ragazze sono belle, lo slivoviz scorre a fiumi, si canta fino a tarda notte, gli abitanti non sono per nulla barbari ma orgogliosi, pudichi, offesi dall’essere malvisti da tutti, a cominciare dai francesi, che hanno sempre considerato loro amici. D’accordo, avevo pensato, ma non è questo il punto, e quanto all’argomento «io ci sono stato», a me, che non c’ero stato, non faceva nessuna impressione, e lo trovo più convincente in bocca a chi al fronte c’è stato davvero (in due dei campi o in tutti e tre), e non solo nelle retrovie di una parte – e per parecchi mesi, non per qualche giorno. In sostanza, i testimoni di cui mi fidavo e di cui, rileggendoli oggi, penso che facevo bene a fidarmi, erano i due Jean: Rolin e Hatzfeld.

 

 

A nessuno dei due, penso, piacerebbe assumere il ruolo dell’eroe positivo in queste pagine. Pazienza. Ammiro il loro coraggio, il loro talento, e soprattutto il fatto che, come il loro modello George Orwell, antepongano la verità a ciò che vorrebbero fosse la verità. Anche loro, come Limonov, non fingono di ignorare che la guerra è eccitante e che, potendo scegliere, ci si va non per virtù ma per piacere. Amano l’adrenalina e l’accozzaglia di spostati che si incontrano sulle linee di ogni fronte. Non sono indifferenti alle sofferenze delle vittime, a qualsiasi campo esse appartengano, e riescono a capire, fino a un certo punto, anche le ragioni dei carnefici. Curiosi del mondo nella sua complessità, se si trovano di fronte un evento che contraddice il loro punto di vista non solo non lo occultano ma lo mettono in risalto. È il caso di Jean Hatzfeld, il quale, per una sorta di manicheismo condizionato, credeva di essere finito in un’imboscata di cecchini serbi decisi a colpire un giornalista, e dopo un anno di ospedale è tornato a Sarajevo per indagare giungendo alla conclusione che i proiettili che gli erano costata la gamba provenivano, per colmo di sfortuna, da miliziani bosniaci. Questa onestà mi colpisce ancor più perché non sfocia nel «sono tutti uguali» che è la tentazione di quelli che la sanno lunga. Giacché arriva infatti il momento in cui bisogna scegliere da che parte stare, o comunque da quale posizione osservare gli eventi. Superata la prima fase dell’assedio di Sarajevo quando, con l’acceleratore a tavoletta e a prezzo di enormi spaventi, era ancora possibile bordeggiare da un fronte all’altro, si doveva scegliere se raccontare gli eventi dall’interno della città assediata o dalle postazioni degli assedianti. Anche per uomini come i due Jean, restii a unirsi al coro delle anime belle, la scelta è stata naturale: quando uno è più debole e l’altro più forte, si continua, per onestà, a sottolineare che il più debole non è tutto bianco e il più forte non è tutto nero, ma ci si schiera con il più debole. Si va dove cadono le granate, non dove partono. Quando la situazione si capovolge, per un istante si resta sorpresi di provare, come Jean Rolin, «una innegabile soddisfazione al pensiero che una volta tanto erano i serbi a beccarsi tutta quella roba». Ma è un istante che non dura a lungo, la ruota gira e, se si è quel genere di uomo, ci si ritrova a denunciare la parzialità del Tribunale internazionale dell’Aia che persegue con inflessibilità i criminali di guerra serbi ma lascia gli omologhi croati e bosniaci alla prevedibile clemenza dei loro tribunali nazionali. Oppure si fanno dei servizi sull’orribile condizione in cui vivono oggi nelle loro enclave del Kosovo i serbi sconfitti. Una regola, atroce ma raramente smentita, vuole che carnefici e vittime finiscano per scambiarsi i ruoli. Bisogna adattarsi in fretta, e non avere lo stomaco delicato, per restare sempre dalla parte di queste ultime.

 

4

 

Pawel Pawlikowski è un regista inglese di origine polacca. Ho in comune con lui parecchie curiosità e ho incrociato più volte la sua strada durante la stesura di questo libro. Pawel ha dedicato un toccante documentario a Venedikt Erofeev, l’autore di Mosca sulla vodka, l’eroe dell’underground ai tempi di Brenev, che era andato a cercare quando era ormai ai suoi ultimi mesi di vita, povero, alcolizzato, divorato dal cancro, in uno stato di completo abbandono che Limonov probabilmente avrebbe guardato senza alcuna compassione, ma che a me ha fatto venire le lacrime agli occhi. Nel 1992 Pawel era rimasto perplesso di fronte all’infuocata retorica che, a Londra non meno che a Parigi, presentava i serbi come gli eredi dei nazisti. Al pari dei miei, anche i suoi amici giornalisti, scrittori e registi erano di stanza a Sarajevo assediata. Così Pawel ha voluto andare a vedere che cosa passava per la testa di quelli che stavano dall’altra parte.

Si è trovato a riprendere musicisti che, accompagnandosi con la ghironda, cantavano davanti a bivacchi di soldati melopee antiche quasi come la nostra Chanson de Roland, nelle quali si parlava di sconfitta in terra, vittoria in cielo e di appiccare il fuoco alle case dei turchi. Ha seguito l’eco di queste canzoni ai matrimoni di campagna, nei girotondi dei bambini a scuola – bambini, comunque, armati di kalashnikov. I nomi dei prodi di sei secoli prima erano stati sostituiti da quelli dei prodi contemporanei: Radovan (Karadiæ) e Ratko (Mladiæ, il capo militare dei serbi). Ha ripreso un consiglio di guerra in cui si vedono Radovan e Ratko chini su carte geografiche che ridisegnano con un pennarello, spostando confini e con essi intere popolazioni, cercando di mettersi d’accordo su quello che si può concedere e quello che non si può concedere in nessun caso – lo stesso identico esercizio in cui si sono sfiancati eserciti di diplomatici a Lisbona, Ginevra e Dayton, con la differenza che in queste riprese ci sono solo loro due ed è una scena affascinante da osservare. Pawel ha filmato anche Pale, la stazione sciistica costruita nel 1980 in occasione dei Giochi olimpici di Sarajevo, facente funzione di capitale della «Repubblica serba di Bosnia», una specie di Vichy dei Balcani con chalet e piste da bob al posto delle terme.

E proprio a Pale, alla mensa ufficiali, Pawel ha notato un tipetto buffo con un gran paio di occhiali, capelli a spazzola e un cappotto dell’esercito federale infilato sopra la giacca di cuoio, il quale, pur senza essere uno di loro, sembrava in ottimi rapporti con un gruppo di cetnici dall’aria particolarmente minacciosa. La pistola calibro 7,65 che gli pendeva sulla coscia dava in lui, secondo Pawel, l’impressione di un travestimento. L’uomo la esibiva come a Tahiti i turisti esibiscono le ghirlande di fiori offerte loro in segno di benvenuto quando scendono dall’aereo.

In mensa stavano pranzando i membri di una troupe di Antenne 2. Quando ha sentito che parlavano francese, quello si è avvicinato, e si è presentato nel modo diretto che è di prammatica in guerra: Eduard Limonov, scrittore, interessato ai punti caldi del pianeta. Presente a Vukovar in dicembre, in Transnistria in luglio. «Una specie di Bernard-Henri Lévy» ha aggiunto con un risolino «ma di tutt’altro orientamento». Quelli di Antenne 2 lo hanno squadrato, all’inizio perplessi, poi disgustati. «Le sembra normale per un giornalista portare armi?» gli ha chiesto uno di loro. Un altro, senza tanti giri di parole, gli ha dato della carogna. Il russo probabilmente non si aspettava quella reazione ma non si è perso d’animo. «Potrei farvi fuori» ha detto, e indicando i cetnici: «I miei amici non sarebbero contenti, ma penso che mi coprirebbero. Permettetemi soltanto di dirvi che io non sono un giornalista. Sono un soldato. Un gruppo di intellettuali musulmani persegue con ferocia il sogno di instaurare qui uno Stato musulmano, e i serbi non ne vogliono sapere. Io sono un amico dei serbi e voi potete andare a fare in culo con la vostra neutralità che è sempre e soltanto vigliaccheria. Buon appetito».

Quindi ha girato i tacchi e raggiunto la sua tavolata di cetnici. Il pasto è proseguito in un silenzio di tomba. Quando sono usciti dalla mensa, il fonico della troupe ha detto a Pawel che lui sapeva chi era quel Limonov. Aveva letto un suo libro: un libro fantastico, tra l’altro, in cui quello raccontava gli anni di New York, anni in cui viveva come un cane rabbioso e si faceva inculare dai neri. Pawel è scoppiato a ridere: «Inculare dai neri? Credi che i suoi amici cetnici lo sappiano?».

 

 

Nell’altro schieramento di scrittori stranieri ce n’erano a iosa. In quello serbo erano molto più rari. A Pawel è venuto in mente di chiedere al rottinculo russo se avrebbe accettato di intervistare Karadiæ per il suo documentario. Era una soluzione che gli tornava utile perché Pawel non voleva che si sentisse la voce off né che si vedesse il microfono, difetti dei documentari senza troppe pretese. Ed è così che in Serbian Epics, prodotto dalla BBC e poi ricoperto di premi e trasmesso un po’ ovunque, si vede «the famous Russian writer Edward Limonov» parlare con il «Dr Radovan Karadiæ, psychiatrist and poet, leader of the Bosnian Serbs». La scena si svolge sulle colline dalle quali le batterie serbe bombardano Sarajevo – che, situata sul fondo di una conca, è nella posizione ideale per fare da bersaglio. Si sentono quasi ininterrottamente gli scoppi dei mortai. Limonov e Karadiæ sono attorniati da alcuni soldati. Alto, con un ampio soprabito, la zazzera sale e pepe mossa dal vento come il fogliame di una quercia, Karadiæ incute soggezione, e mi dispiace ammettere che al suo confronto Limonov, così gracile nella sua giacchettina di pelle nera, sembra un anonimo teppistello di quartiere che cerca di entrare nelle grazie del padrino. Annuisce rispettosamente quando Karadiæ gli spiega che lui e i suoi non sono aggressori ma vogliono soltanto riprendersi le terre che appartengono ai serbi da sempre. A nome dei connazionali russi e di tutti gli uomini liberi del mondo, Limonov risponde, con una sincerità che non metto in dubbio ma che non gli impedisce di avere l’aria di un leccapiedi, che lui ammira l’eroismo di cui danno prova i serbi tenendo spavaldamente testa a quindici paesi alleati contro di loro. Dopodiché, tra poeti, parlano di poesia. Karadiæ recita pensoso alcuni versi di un’ode che ha composto vent’anni prima e che descrive una Sarajevo in fiamme. Segue un attimo di silenzio, grave di quei misteri che sono le premonizioni, interrotto da qualcuno che vuole il presidente al telefono. È sua moglie. Per rispondere, Karadiæ si apparta nella carcassa semicarbonizzata di una cabina di teleferica dove è stato sistemato il telefono da campo. Dice «sì, sì», e si intuisce che è irritato. Intanto un soldato gioca con un cagnolino (descrivo le scene del documentario) e Limonov, lasciato solo, gira attorno a un altro soldato che sta lubrificando la mitragliatrice. Questi, vedendo che Limonov è affascinato dall’arma, ed essendo probabilmente desideroso di compiacere un ospite di riguardo, gli propone di provare, se ne ha voglia. Come un bambino, Eduard si sistema dietro la mitragliatrice. Segue docilmente le indicazioni del soldato che gli mostra quale posizione assumere. Infine, sempre come un bambino incoraggiato dalle risate e dalle pacche sulle spalle degli adulti, perde ogni inibizione e, ta-tata-ta-ta, svuota il caricatore in direzione della città assediata.

 

 

Non ho visto il documentario quando è stato trasmesso dalla televisione francese, ma subito si è sparsa la voce che Limonov era stato ripreso nell’atto di uccidere dei passanti nelle strade di Sarajevo. Interrogato al riguardo quindici anni dopo, Limonov alza le spalle e dice di no, di non avere mirato ai passanti: sparava in direzione della città, sì, ma nel vuoto, o in aria.

Guardando le immagini attentamente si deve dare in sostanza ragione a Limonov. All’inizio della sequenza un piano lungo rivela che la scena si svolge su certe colline piuttosto lontane da Sarajevo, dalle quali i serbi sparano colpi di mortaio sui palazzi della città, e non più in basso, dove si appostano invece i cecchini che tirano sui passanti. Ma all’inquadratura di Limonov che se la spassa con la mitragliatrice segue un’inquadratura molto ravvicinata della città, e questo cambiamento di scala presentato come un controcampo è un po’ capzioso. Resta da chiedersi se Limonov avrebbe avuto degli scrupoli a sparare sulla gente, e se l’abbia fatto in altre occasioni. Certo è però che, per via di queste immagini e dei racconti che ne sono nati, Limonov è passato tra i suoi amici parigini dallo statuto di affascinante avventuriero a quello di semicriminale di guerra. Ed è anche certo che, dopo avere contattato Pawel Pawlikowski ed essermi fatto mandare il DVD, Serbian Epics mi ha raggelato al punto che ho abbandonato questo libro per più di un anno. Non tanto perché vi si veda il mio personaggio compiere un delitto – in effetti, non si vede nulla del genere –, ma perché Eduard vi fa una figura ridicola. Un ragazzino che si atteggia a duro in una sagra di paese. Quello che, nella sua tipologia di invasati attratti dalla guerra, Jean Hatzfeld definisce un Topolino.

 

 

Sul soggiorno di Limonov a Sarajevo circola un’altra storia sgradevole. In un ristorante di Pale che si chiama Kon-Tiki, Limonov sta partecipando a un ricevimento di ufficiali che bevono e brindano come ussari di Lermontov. Su una pedana c’è un violinista che tiene allegra la compagnia: è un prigioniero musulmano. A un certo punto, per divertirsi, i serbi lo costringono ad accompagnare uno di quei canti cetnici che si sentono nel film di Pawel e che esortano a dare alle fiamme le case dei turchi. Limonov – almeno questa è la sua versione – trova l’idea di cattivo gusto e per rincuorare il violinista gli si avvicina offrendogli un bicchiere di rakija, il torcibudella locale. Quello risponde brusco che l’alcol è vietato dalla sua religione. Imbarazzato per la gaffe, Limonov vorrebbe ritirarsi in buon ordine, ma un serbo che ha sentito il dialogo rincara la dose: «Fa’ quel che ti ha detto il mio amico russo! Bevi! Vuoi bere, cane di un turco?».

Mi immagino la scena: orribile.

Per tutto il resto della serata, Limonov sente pesare su di sé lo sguardo torvo del violinista, che ha interpretato la sua gaffe ben intenzionata come un deliberato proposito di umiliarlo, e se una cosa del genere può, al limite, capirla da parte dei serbi, che sono suoi nemici e che a ruoli invertiti lui tratterebbe con pari crudeltà, gli sembra molto più imperdonabile da parte di uno straniero. Eduard ci resta così male che più tardi ritorna dal violinista per spiegarsi, per giustificarsi, ma l’altro gli dice freddamente: «Ti odio. Hai capito? Ti odio». Al che Eduard risponde: «Ok. Tu sei prigioniero, io sono libero. Non posso battermi con te. Non mi resta che incassare. Hai vinto tu».

Che cosa pensare di questa storia? A prima vista, che dev’essere vera, e che dev’essere come la racconta Limonov, poiché nulla lo costringeva a raccontarla. Ma la faccenda è più complicata. In effetti, il primo a raccontarla, come un atto di ignobile crudeltà da parte di Limonov, è stato un testimone, un fotografo ungherese. E così è circolata. Se si digita «Limonov» su Google, si finisce per trovarla. Limonov era dunque costretto a fornire la propria versione, e può anche darsi che la gaffe dalla quale nasce un tremendo malinteso sia stata la soluzione più credibile che gli è venuta in mente per coprire un’autentica bassezza, compiuta nel pieno del suo fervore cetnico, e di cui lui stesso si vergogna, e a ragione. Personalmente non ci credo, perché non credo che Eduard sia né un vigliacco né un bugiardo – ma chi può dirlo?

 

VII
MOSCA, PARIGI, REPUBBLICA SERBA DI KRAJINA, 1990-1993

 

 

1

 

Nei suoi ultimi mesi di vita Sacharov, ormai stremato, non smetteva di ripetere a Gorbaèëv: «La scelta è semplice, Michail Sergeeviè. O si schiera con i democratici, sapendo perfettamente che hanno ragione, o si schiera con i conservatori, sapendo perfettamente che non soltanto hanno torto ma anche che la tradiranno. Non serve a niente prendere tempo».

«Sì, sì, Andrej Dmitrieviè» sospirava Gorbaèëv un po’ infastidito: non riusciva a mandar giù che secondo i sondaggi Sacharov fosse l’uomo più popolare del paese. «Giustissimo. Prima, però, bisogna riformare il partito».

«Niente affatto» rispondeva Andrej Dmitrieviè con la sua voce chiara. «Non bisogna affatto riformare il partito, ma liquidarlo. Questa è la prima, necessaria condizione per una vita politica normale».

Quando cominciavano con questi discorsi, Gorbaèëv non li ascoltava più. Il partito era il partito… Così, da buon politico, si barcamenava nel tentativo di non scontentare nessuno, prendendosi un giorno per il papa, il giorno dopo per Lutero, con il risultato di farsi odiare sia dai democratici sia dai conservatori.

Le nostre categorie politiche mal si adattano alla situazione russa, dove «destra» e «sinistra» non significano granché. Tuttavia, queste due parole non mi sembrano del tutto fuori luogo. Alla fine, i democratici volevano la democrazia, e i conservatori conservare il potere. I primi, gente di città, piuttosto giovani e acculturati, da principio stravedevano per Gorbaèëv, ma ora erano delusi dalla sua mancanza di coraggio nel proseguire sulla strada intrapresa, e alla parata del 1° maggio 1990 sulla Piazza Rossa lo hanno apertamente contestato. Ormai era permesso, ed è una sofferenza pensare che l’uomo a cui il suo popolo doveva, nonostante tutto, la liberazione abbia dovuto subire gli insulti che la gente aveva sognato di rivolgere, senza averne il coraggio, a Brenev e alla sua cricca: al diavolo il partito, e al diavolo pure Gorbaèëv!

A ogni modo non erano quelli gli scontenti più pericolosi. Quando al funerale di Sacharov un giovane aveva paragonato il defunto a Obi-Wan Kenobi e Gorbaèëv a un impacciato Jedi, il giornalista gli aveva chiesto chi fosse secondo lui Darth Vader, e il ragazzo aveva risposto che purtroppo i candidati non mancavano. Infatti, nel Politburo e nel complesso militar-industriale c’era solo l’imbarazzo della scelta in tema di hard-liners, come gli anglosassoni chiamano i conservatori veramente tosti. Ma, in linea con la grande tradizione sovietica, erano quanto mai anonimi e privi di carisma, il che ha garantito un certo successo mediatico a un personaggio minore oggi caduto nell’oblio: il colonnello Viktor Alksnis.

Eduard lo ha conosciuto durante un breve soggiorno a Mosca, in uno studio televisivo. Erano stati entrambi invitati ad assumere il ruolo di anti Gorbaèëv di turno, in un dibattito con alcuni democratici, ex dissidenti e membri di Memorial. Vestito di pelle nera, con un ghigno feroce stampato in faccia, Alksnis sembrava un attorucolo che ce la mette tutta per ottenere la parte del cattivo che getta i nemici in pasto ai coccodrilli. Rappresentante in Parlamento dei militari sovietici di stanza in Lettonia, denunciava i separatisti baltici, caldeggiava l’introduzione della legge marziale e invocava l’unione sacra di «marxisti-leninisti, stalinisti, neofascisti, ortodossi, monarchici e pagani» per salvare il paese dallo sfacelo a cui lo stava conducendo della gente che non lo amava e voleva asservirlo allo straniero. Poiché stiamo cominciando a conoscere il discernimento politico del nostro, non ci stupisce che lui e Alksnis siano andati subito d’amore e d’accordo. Dopo la trasmissione, «il colonnello nero» – come veniva chiamato Alksnis – ha presentato Eduard ai suoi fratelli d’armi. Ne risparmio i nomi al lettore, basti dire che si trattava di un’allegra brigata di militari e èekisti, lettori del Mein Kampf e dei Protocolli dei Savi di Sion, editori di fogli ultranazionalisti come «Den’» («Il giorno»), che si autoproclamava «il giornale dell’opposizione spirituale» e il cui caporedattore veniva chiamato dai democratici «usignolo dello Stato Maggiore». Lì Eduard ha esordito come giornalista russo, e quando è tornato a Parigi, lui e Alksnis si sono mantenuti in contatto, si telefonavano, si spedivano fax, si gasavano a vicenda con l’idea di un colpo di stato che sembrava imminente.

 

 

Gorbaèëv era in una posizione sempre più difficile, ma era anche, bisogna pur dirlo, sempre più cieco. Nel gennaio del 1991, approfittando del fatto che tutto il mondo stava seguendo alla televisione la prima guerra del Golfo, i carri armati russi sono entrati a Vilnius, ma poi, avendo incontrato resistenza, si sono ritirati, lasciando sul terreno una quindicina di morti. Questa «domenica nera» ha definitivamente screditato Gorbaèëv agli occhi dei democratici: chi avrebbe voluto, d’ora in avanti, sentir parlare ancora di socialismo dal volto umano? Per scaricarsi da ogni responsabilità del tentativo di invasione e del suo insuccesso, Gorbaèëv ha sostenuto di non saperne niente, e ci si chiedeva che cosa fosse peggio: essere un bugiardo o essere completamente fuori dai giochi? Senza preoccuparsi di informarlo l’esercito intensificava i movimenti di truppe e gli incidenti lungo i confini, preferibilmente in occasione dei vertici internazionali per metterlo in imbarazzo davanti alla sua cara opinione pubblica occidentale, ma, fatto curioso, Gorbaèëv non sembrava affatto in imbarazzo. Al contrario, nelle fotografie appariva ancora più sorridente. In quanto segretario generale del partito, aveva ricevuto il mandato soltanto dal partito, e guardava dall’alto in basso quel «cosiddetto democratico» di Boris El’cin che era appena stato eletto presidente della Russia a suffragio universale: il che accresceva il prestigio di El’cin, ma Gorbaèëv non sembrava rendersene conto. Il fedele Ševardnadze rassegnava le dimissioni da ministro degli Esteri dichiarando pubblicamente che si era prossimi a una dittatura, e Gorbaèëv ignorava l’avvertimento. L’ancor più fedele Jakovlev non dava le dimissioni, ma ogni volta che si congedava da un giornalista gli diceva: «Arrivederci alla prossima – sempre che non finisca in Siberia». Con la forza della disperazione Jakovlev cercava di mettere in guardia il suo capo contro l’ostilità, sempre più aperta, del Politburo, ma Gorbaèëv faceva spallucce e rispondeva: «Non si preoccupi, lei ha la tendenza a esagerare. Li conosco bene, sono bravi ragazzi un po’ testoni. È tutto sotto controllo».

 

 

Con tale fiducioso stato d’animo Gorbaèëv lascia Mosca per andare a godersi una meritata vacanza in Crimea, nella sontuosa villa che si è fatto costruire. Ed è qui che all’improvviso gli tagliano il telefono, lo isolano completamente e circondano la proprietà. Intanto un gruppetto di generali – di cui stavolta cito i nomi perché nonostante tutto appartengono alla storia: Krjuèkov, Jazov, Pugo e Janaev – proclama lo stato d’emergenza e comincia subito a fare pasticci affidando il potere al più inetto di loro, il vicepresidente Janaev. Il malcapitato trascorrerà i quattro giorni successivi nel panico più totale, al punto che dovranno farlo uscire a forza dall’ufficio in cui si è barricato per convincerlo a tenere una conferenza stampa alla televisione. Nonostante il tentativo di imbavagliare i media come in passato, si vedrà Janaev con le mani tremanti e lo sguardo smarrito, presentato come un vincitore eppure già sconfitto. La cosa più strana del golpe avvenuto nell’agosto del 1991 è proprio la sensazione che sia tutta una farsa, e questo è dovuto alla personalità dei cospiratori, che erano non solo dei mediocri ma soprattutto delle vere spugne. I quattro si sono ritrovati ben presto ebbri. Non ebbri di potere, no: sbronzi. Ubriachi fradici. In preda a una scuffia colossale. E siccome gli era presa la sbornia triste, hanno capito subito che la cosa non avrebbe funzionato, che stavano per fare un’enorme cazzata ma che era troppo tardi per tornare indietro. Ormai era stato dato il via, i carri armati stavano entrando a Mosca e loro dovevano andare avanti anche se non se la sentivano più. Avrebbero preferito infilarsi a letto con un’aspirina e un barattolo di cetriolini, tirarsi le coperte fin sopra la testa e aspettare che passasse la buriana.

Sul momento, però, i democratici hanno creduto quello che da qualche anno avevano smesso di credere: che dopo un secondo disgelo la banchisa si sarebbe richiusa, e che erano stati dei pazzi a fidarsi invece di scappare finché erano in tempo. Il golpe avrebbe potuto avere successo. Dipendeva tutto dall’esercito. I giovani chiamati alle armi, che avevano ricevuto l’ordine di puntare su Mosca ed erano terrorizzati di dover fare quello che avevano fatto i loro padri a Praga nel 1968, hanno mostrato grande coraggio nell’obbedire, anziché ai propri superiori, a El’cin, che li esortava a restare dalla parte della legge e dello Stato.

Dimostrando di saper sfruttare i simboli, El’cin ha organizzato la resistenza davanti alla sede del Parlamento, che a Mosca viene chiamato Casa Bianca, e in quei giorni passati alla storia il mondo intero ha conosciuto una Casa Bianca che non era quella di Washington. Questa Casa Bianca è divenuta il teatro della lotta russa per la democrazia. L’immagine gloriosa dell’agosto del 1991, degna del giuramento del Terzo Stato nella sala della pallacorda o di Napoleone al ponte di Arcole, è la fotografia di El’cin sopra un carro armato dinanzi alla Casa Bianca. È Rostropoviè accorso a montare la guardia davanti alla porta dell’ufficio di El’cin alla Casa Bianca. Sono i moscoviti venuti in massa a difendere la Casa Bianca, innalzando barricate e facendo scudo alla libertà con i propri corpi. Sono i carri armati che fanno marcia indietro, le ragazze che baciano i soldati e infilano fiori nelle canne dei loro fucili. È l’immenso sospiro di sollievo del quarto giorno, perché l’incubo non è divenuto realtà e i russi continueranno a vivere liberi.

Vent’anni dopo i giovani delle città, quelli che raccontavano la storia del proprio paese richiamandosi a Star Wars, ricordano l’agosto del 1991 come uno dei momenti più intensi della propria vita, un film dell’orrore che fa morire di spavento ma ha un finale da urlo. L’URSS che ritorna: roba da flippare di brutto. L’URSS che sprofonda nel ridicolo: roba da sballo. Perché era anche bello, bello e giusto, che gli eredi di settant’anni di oppressione non uscissero di scena con un finale da crepuscolo degli dèi wagneriano ma tagliassero la corda coperti di ridicolo. Dei pagliacci, che ormai non facevano più paura a nessuno. Che in tutto il mondo avevano ricevuto soltanto il sostegno di Castro, Gheddafi e Saddam Hussein, gli unici superstiti della «setta dei poeti estinti» – ma anche del nostro presidente Mitterrand, il quale, convinto com’era di saperla più lunga di chiunque altro, aveva spinto il machiavellismo fino alla stupidità, e quando gli rimproverarono l’eccesso di fretta mostrato nel congratularsi con quelli che pensava fossero i nuovi padroni dell’URSS aveva risposto altezzoso che i generali sarebbero stati giudicati sulla base delle loro azioni – come se un golpe non fosse già di per sé un’azione, e pure di un certo peso.

 

 

La storia continua con Gorbaèëv che torna dalla Crimea assurdamente abbronzato, senza aver capito nulla dell’accaduto, serbando della vicenda soltanto il ricordo dei disagi sopportati da lui e dai familiari, isolati dal mondo nella loro villa da emiri arabi. Con il suicidio di tre golpisti, e per fortuna che c’è Eduard a piangerli – perché, qualsiasi cosa si possa pensare delle sue scelte, lui almeno è fedele e onora gli sconfitti. E con quell’incredibile gag del 23 agosto, trasmessa dalle televisioni di tutto il mondo: la seduta del Parlamento in cui El’cin, dopo avere costretto Gorbaèëv a leggere con voce malferma i verbali del consiglio in cui i suoi ministri hanno deciso di tradirlo, si gira verso il segretario con aria golosa:

«Ah, dimenticavo, c’è anche questo piccolo decreto da firmare…».

«Un piccolo decreto?» chiede Gorbaèëv, confuso.

«Sì, quello che sospende l’attività del Partito comunista di Russia».

«Come? Cosa?» farfuglia Gorbaèëv. «Ma io non l’ho letto… non ne abbiamo discusso…».

«Non importa» dice El’cin. «Forza, Michail Sergeeviè, firmi».

E Gorbaèëv firma.

 

 

La storia continua con l’abbattimento, subito dopo, della statua di Dzerinskij in piazza della Lubjanka, sede del KGB. Con la sostituzione della bandiera rossa con quella tricolore del governo provvisorio del 1917. E soprattutto, di lì a pochi mesi, con un’altra sbronza storica, quella che vede riuniti in gran segreto, in un padiglione di caccia nella foresta di Bia³owie¿a, il presidente russo El’cin, il presidente ucraino Kravèuk e il presidente bielorusso Šuškeviè. El’cin è partito da Mosca senza rivelare niente del proprio piano a Gorbaèëv. Non è stato preparato nulla e nessuno dei cospiratori ha la minima idea di che cosa sia una federazione o una confederazione. Tutti e tre, nella sauna del padiglione di caccia, tracannando una vodka dopo l’altra, non fanno che ripetere che l’Unione l’hanno creata le loro repubbliche nel 1922 e perciò hanno il diritto di scioglierla. El’cin è talmente ubriaco che per portarlo a letto gli altri due devono sollevarlo di peso, e poco prima di sprofondare nel sonno il presidente russo chiama George Bush (senior) per dargli la notizia in anteprima: «George, io e i miei amici ci siamo messi d’accordo. L’Unione Sovietica non esiste più». Per rendere completa l’umiliazione, l’incarico di avvertire Gorbaèëv viene affidato al più insignificante dei tre, Šuškeviè, il quale racconterà poi che Gorbaèëv, attonito, gli ha risposto: «E io che fine faccio in tutto questo?».

 

 

Che fine farà? Diventerà un facoltoso pensionato, a cui saranno concesse una dacia, una fondazione e la possibilità di tenere conferenze lautamente retribuite fino alla fine dei suoi giorni. Considerata la prassi in vigore in Russia dal Medioevo in poi, per uno zar deposto è un trattamento di eccezionale clemenza.

 

2

 

Nello scontro fra gladiatori che ha opposto Gorbaèëv ed El’cin, sin dall’inizio i francesi si sono schierati dalla parte del primo e quasi mi sorprende che gli siano rimasti tanto fedeli sul piano sentimentale. El’cin veniva considerato – e le cose non sono migliorate durante il suo regno – un rozzo soldataccio che dopo il golpe dell’agosto del 1991 aveva assunto un ruolo poco chiaro. Il nostro eroe era Gorbaèëv, che i cattivi avevano voluto rovesciare. El’cin aveva tirato Gorbaèëv fuori dei guai, ma poi non aveva fatto altro che procurargliene altri, sicché non si capiva molto bene se stesse fra i buoni o i cattivi. I suoi discorsi rasentavano il populismo, e a qualcuno sembrava persino che avesse una faccia da dittatore.

In Francia soltanto mia madre – ma la stragrande maggioranza dei russi la pensava come lei – parlava di Gorbaèëv come di un apparatèik sopraffatto dalle forze che lui stesso aveva involontariamente messo in moto, e di El’cin come dell’uomo che incarnava l’aspirazione del suo popolo alla libertà. El’cin aveva avuto il coraggio di rompere con il comunismo, nel cui grembo era cresciuto. Aveva seguito accanto a Elena Bonner il feretro di Sacharov. Era il primo presidente eletto che la Russia avesse mai avuto. Aveva difeso la Casa Bianca come Lafayette aveva preso la Bastiglia, dichiarato fuori legge il partito che soffocava le coscienze e sciolto l’Unione che teneva prigioniere le nazioni. In due anni era incontestabilmente diventato un personaggio storico di primissimo piano. Sarebbe riuscito, sfruttando quello slancio, a creare una democrazia, un’economia di mercato, una società nuova in un paese sino allora condannato all’arretratezza e all’infelicità?

 

 

Consapevole della propria ignoranza in campo economico, El’cin ha tirato fuori dal cilindro un giovane prodigio che si chiamava Egor Gajdar, una specie di Jacques Attali russo, un po’ grassoccio, proveniente dall’alta nomenklatura comunista e dotato di una fede assoluta nel liberalismo. Nessun teorico della scuola di Chicago, nessun consigliere di Ronald Reagan o di Margaret Thatcher credeva con lo stesso fervore di Egor Gajdar nelle virtù del mercato. Si trattava di una sfida colossale perché la Russia non aveva mai conosciuto qualcosa che somigliasse anche solo lontanamente al mercato. El’cin e Gajdar hanno pensato che fosse necessario agire in fretta, molto in fretta, procedere con fermezza per battere sul tempo la reazione che aveva avuto la meglio su tutti i riformatori russi dai tempi di Pietro il Grande. La pillola che bisognava far ingoiare, l’hanno chiamata «terapia shock», e uno shock lo è stato davvero.

Tanto per cominciare, sono stati liberalizzati i prezzi, con il risultato che l’inflazione è schizzata al 2600% ed è fallita l’iniziativa, adottata in parallelo, della «privatizzazione con il sistema dei buoni». Il 1° settembre 1992 erano stati spediti per posta a ogni russo con più di un anno di età buoni per il valore di diecimila rubli, il che corrispondeva alla quota di ogni cittadino nell’economia del paese. Dopo settant’anni in cui in teoria nessuno aveva avuto il diritto di lavorare per sé ma soltanto per la collettività, l’idea era quella di stimolare l’interesse personale e favorire la nascita di imprese e proprietà private, insomma del mercato. Purtroppo però, a causa dell’inflazione, appena recapitati i buoni non valevano più niente. I beneficiari hanno scoperto che ci si poteva comprare tutt’al più una bottiglia di vodka. Così li hanno rivenduti in massa ad alcuni furbetti, che in cambio hanno offerto loro l’equivalente, diciamo, di una bottiglia e mezzo.

Questi furbetti, che nel giro di qualche mese sono diventati i re del petrolio, si chiamavano Boris Berezovskij, Vladimir Gusinskij, Michail Chodorkovskij. Ce n’erano altri, ma per non tediare il lettore gli chiedo di tenere a mente solo questi tre nomi: Berezovskij, Gusinskij, Chodorkovskij. Timmi, Tommi e Gimmi, i tre porcellini che, come nelle compagnie teatrali squattrinate dove ogni attore recita più ruoli, incarneranno nelle prossime pagine tutti quelli che sono stati chiamati «oligarchi». Erano giovani, intelligenti, pieni di energia, non disonesti per vocazione – soltanto, erano cresciuti in un mondo in cui era vietato fare affari, attività per la quale avevano un vero talento, e da un giorno all’altro si erano sentiti dire: «Fatevi sotto». Senza regole del gioco, senza leggi, senza sistema bancario e fiscale. Del resto, lo aveva già detto il giovane ed entusiasta gorilla di Julian Semënov: era il Far West.

 

 

Chi tornava in Russia ogni due o tre mesi, come faceva Eduard tra una puntata e l’altra nei Balcani, restava sgomento di fronte alla rapidità con cui Mosca stava cambiando. La gente aveva creduto che il grigiore sovietico sarebbe durato per l’eternità, e adesso, lungo le strade che avevano portato i nomi di grandi bolscevichi e che si chiamavano di nuovo con i loro nomi prerivoluzionari, si accavallavano insegne luminose fitte come a Las Vegas. C’erano ingorghi e, accanto alle vecchie iguli, Mercedes nere con i vetri oscurati. Si trovava senza difficoltà tutto quello che un tempo i turisti stranieri infilavano in valigia per far contenti gli amici russi: jeans, CD, cosmetici, carta da cesso. Non si faceva in tempo ad abituarsi alla comparsa di un McDonald’s in piazza Puškin che subito accanto apriva un locale alla moda. Prima i ristoranti erano enormi, tetri, i maître sembravano impiegati di malumore e vi portavano dei menu di quindici pagine, ma qualsiasi piatto aveste scelto potevate star certi che era terminato – di fatto ce n’era soltanto uno, di solito immangiabile. Adesso le luci erano soffuse, le cameriere carine e sorridenti, si ordinava manzo di Kobe o ostriche arrivate in giornata da Quiberon. Il personaggio del «nuovo russo», con i suoi rotoli di banconote e uno stuolo di ragazze appariscenti al seguito, con la sua brutalità e la sua cafonaggine, entrava nella mitologia contemporanea. Barzelletta d’epoca: due giovani uomini d’affari si accorgono di avere lo stesso abito. «Io l’ho pagato cinquemila dollari in avenue Montaigne» dice l’uno. E l’altro, trionfante: «Ah sì? Io l’ho avuto per diecimila».

 

 

Per un milione di dritti che hanno iniziato ad accumulare freneticamente quattrini grazie alla «terapia shock», centocinquanta milioni di fessi sono caduti in miseria. I prezzi continuavano a salire, ma gli stipendi restavano fermi. Con la sua pensione, un ex ufficiale del KGB come il padre di Limonov poteva a stento comprarsi un chilo di salame. Un ufficiale di grado più elevato, che aveva mosso i primi passi nel settore informazioni a Dresda ed era stato rimpatriato d’urgenza perché la Germania dell’Est non esisteva più, si ritrovava senza lavoro, senza alloggio di servizio, ridotto a fare il tassista abusivo nella sua città natale, Leningrado, maledicendo i «nuovi russi» con la stessa veemenza di Limonov. Questo ufficiale non è un’astrazione statistica. Si chiama Vladimir Putin, ha quarant’anni, pensa, come Limonov, che la fine dell’impero sovietico sia la più grande tragedia del ventesimo secolo, ed è destinato (insieme ad altri) a svolgere un ruolo non trascurabile nell’ultima parte di questo libro.

L’aspettativa di vita del maschio russo è passata dai sessantacinque anni del 1987 ai cinquantotto del 1993. Il triste spettacolo delle file in attesa davanti ai negozi vuoti, caratteristico dell’èra sovietica, è stato sostituito da quello dei vecchietti che tremano di freddo nei sottopassaggi dove cercano di vendere le poche cose che gli sono rimaste. Tutto quello che può essere venduto per sopravvivere viene venduto. Un povero pensionato venderà un chilo di cetriolini, un copriteiera, o dei numeri malridotti di «Krokodil», il pietoso foglio «satirico» degli anni di Brenev; un generale venderà carri armati o aerei – alcuni non si sono fatti scrupolo e hanno aperto compagnie private con gli aerei dell’esercito, intascando i profitti; un giudice metterà in vendita le sue sentenze, un poliziotto il silenzio, un impiegato venderà un timbro su un documento, un veterano dell’Afghanistan le sue competenze di killer – la cifra richiesta per un omicidio è compresa tra i diecimila e i quindicimila dollari. Nel 1994 a Mosca sono stati assassinati cinquanta banchieri, e della banda di uno squalo come Semënov soltanto la metà era ancora viva — e Semënov stesso è finito al cimitero.

 

 

Mio cugino Paul Klebnikov è arrivato in Russia in quel momento. Anche i suoi nonni erano scappati dalla rivoluzione del 1917, ma a differenza dei miei si erano trasferiti negli Stati Uniti, sicché Paul era americano come io sono francese – lui però parlava il russo meglio di me. Avevamo la stessa età e benché fossimo separati dall’Atlantico ci conoscevamo fin da piccoli. Gli ero molto affezionato, e i miei figli lo adoravano. Paul era il loro modello, l’immagine che può avere un ragazzino del grande reporter. Bello, ben piantato, sorriso aperto, stretta di mano decisa, in pratica il Mel Gibson di Un anno vissuto pericolosamente. Lavorava per «Forbes» e nel 1994 la rivista lo ha inviato a Mosca per fare un’inchiesta sulla criminalità economica. Al suo arrivo, Paul ha riempito l’agenda di appuntamenti, ma parecchi dei suoi contatti sono stati uccisi prima che li potesse incontrare. Si è fatto coinvolgere dalla situazione così tanto che ha deciso di rimanere. È diventato il corrispondente da Mosca di «Forbes», e da quel grande giornalista investigativo che era ha portato avanti la sua inchiesta, e ne ha tratto un libro che, partendo dal caso di Boris Berezovskij, spiega nei particolari come sotto El’cin sono stati costruiti i più grandi patrimoni russi. Poi anche lui è stato abbattuto da una raffica di mitra all’ingresso del palazzo in cui abitava, proprio come Anna Politkovskaja. Finora le indagini sul suo assassinio, come su quello della Politkovskaja, non hanno dato alcun risultato.

 

 

I pesci grossi si uccidevano tra loro per dei combinat industriali o dei giacimenti di materie prime, quelli piccoli per un chiosco o un posto al mercato, e il più misero chiosco, il più infimo posto al mercato doveva avere un «tetto»: così venivano chiamati gli innumerevoli servizi di vigilanza, che erano tutti più o meno delle imprese criminali, dato che chi ne rifiutava le prestazioni finiva con una pallottola in corpo. Le holding di oligarchi come Gusinskij o Berezovskij avevano alle proprie dipendenze veri e propri eserciti, al comando di alti ufficiali del KGB che avevano messo le loro competenze al soldo di privati. A un livello più artigianale, la protezione indispensabile per fare affari veniva assicurata per metà dalla mafia georgiana, cecena o azera, e per metà dalla polizia, che era diventata una mafia come le altre.

Al riguardo ho una storia interessante. Il protagonista è il mio amico Jean-Michel, un francese che, dopo avere perso la moglie nell’incidente aereo della TWA nel 1995, è andato a Mosca per rifarsi una vita, come altri si arruolerebbero nella Legione straniera. Lì ha aperto ristoranti, bar, locali notturni che sono in realtà bordelli per nuovi russi e ricchi espatriati. Se ne può pensare quel che si vuole sul piano morale, ma costruire un simile impero partendo dal nulla, senza quasi parlare russo, in un’epoca in cui bastava una parola sbagliata per ritrovarsi sul fondo della Moscova con i piedi nel cemento, richiede nervi talmente saldi da fare invidia anche al nostro esigente Eduard. Ci vorrebbe Scorsese per descrivere un’avventura del genere, e non intendo provarci io. Racconterò soltanto un episodio: una sera, in uno dei locali di Jean-Michel, fanno irruzione truppe scelte in tenuta da combattimento con i volti coperti da passamontagna, terrorizzando le ragazze, il personale e i clienti, che vengono fatti sdraiare a terra sotto la minaccia dei kalashnikov. Una volta creata l’atmosfera, il capo si toglie il passamontagna, si siede, ordina da bere e spiega tranquillamente a Jean-Michel che il suo tetto non è sicuro e va cambiato. Ormai la polizia – perché quel commando è la polizia – si occupa di tutto. Jean-Michel dovrà pagare un po’ di più, ma sarà più sicuro, e il passaggio avverrà senza problemi. Il capo si prende l’impegno di spiegare la situazione ai protettori precedenti, e garantisce che tutto filerà liscio. Prima di andarsene regala a Jean-Michel il CD del gruppo rock formato da alcuni dei suoi uomini. Tutto andrà come promesso, Jean-Michel non si è pentito di aver cambiato tetto e non gli dispiace far ascoltare il CD ai suoi amici, tanto per divertirsi. È stato fortunato: in altri casi questo tipo di incidente si è trasformato in un massacro di San Valentino.

 

 

Poco prima di morire, non molto tempo fa, l’ex primo ministro Egor Gajdar ha confidato a un giornalista: «Deve capire che la scelta che avevamo di fronte non era fra una transizione ideale all’economia di mercato e una transizione con infiltrazioni criminali. La scelta era fra quest’ultima e la guerra civile».

 

3

 

Per giustificare la collettivizzazione, la carestia, le epurazioni e, in generale, la tendenza a considerare «nemici del popolo» il popolo stesso, i bolscevichi amavano ripetere che non si abbatte un albero senza che volino le schegge, versione russa del nostro proverbio sulla frittata, che non si può fare senza rompere le uova. Ora che l’orizzonte del radioso futuro non è più la dittatura del proletariato ma il libero mercato, lo stesso proverbio torna utile agli ideatori della «terapia shock» e a chi è abbastanza vicino al potere da avere la sua parte di frittata. C’è però una differenza rispetto al tempo dei bolscevichi: quelli che si accorgono di trovarsi nella parte delle uova rotte non hanno più paura di finire in Siberia e allora alzano la voce. Per le strade di Mosca si vedono sfilare cortei eterogenei di pensionati ridotti in miseria, militari che non riscuotono più la paga, nazionalisti infuriati per la dissoluzione dell’impero, comunisti che rimpiangono i tempi dell’uguaglianza nella povertà, gente frastornata perché non ci capisce più niente: come sapere, infatti, dov’è il bene e dov’è il male, chi sono gli eroi e chi i traditori, se ogni anno si commemora la Festa della rivoluzione continuando a ripetere che quella stessa rivoluzione è stata un delitto e una tragedia?

Quando è a Mosca, Eduard non si perde nessuna di queste manifestazioni. Viene riconosciuto dai lettori dei suoi articoli sul «Den’», i quali spesso si congratulano con lui, lo baciano, lo benedicono: finché ci sono uomini simili, non tutto è perduto per la Russia. Una volta, invitato dall’amico Alksnis, monta sul palco dove si alternano i leader dell’opposizione e prende il megafono. Dice che i presunti «democratici» sono opportunisti che hanno tradito il sangue versato dai padri nella grande guerra patriottica. Che il popolo ha sofferto di più in un anno di presunta «democrazia» che in settant’anni di comunismo, che la rabbia sta per esplodere e bisogna prepararsi alla guerra civile. Il suo discorso non è molto diverso da quello degli altri oratori ma a ogni frase la folla, una folla immensa, lo applaude. Le parole gli vengono alle labbra naturalmente ed esprimono ciò che tutti pensano. Eduard sente salire verso di sé ondate di approvazione, di riconoscenza, di amore. È quello che aveva sognato quand’era povero e disperatamente solo nella sua stanza dell’Hotel Embassy a New York, e il sogno ora si realizza. Eduard si sente a suo agio, come nei Balcani. Calmo, forte, sostenuto dai suoi: al suo posto.

 

 

«Cerco un gruppo» è il titolo di uno dei suoi articoli. Non ne ha formato subito uno suo, all’inizio ha cercato di aggregarsi ad altri. Forse il nome Vladimir irinovskij ricorda vagamente qualcosa al lettore. irinovskij veniva presentato – viene ancora presentato, perché è sempre lì – come il Le Pen russo, e non è un accostamento sbagliato. Di Le Pen ha la facondia, la faccia tosta, il linguaggio diretto. Probabilmente è più fuori di testa di lui, ma ci può stare: irinovskij è russo. Ho già accennato ad Alksnis, pittoresco personaggio di secondo piano; degli altri – Zjuganov, Anpilov, Makašov, Prochanov – ho l’impressione di essere rimasto l’unico a sapere chi fossero, e soltanto perché sto scrivendo questo libro e mi sono immerso nella loro epoca. Nel rileggere le pagine di appunti che ho preso sui loro percorsi contorti, le loro idee semplicistiche, i loro programmi fumosi, le loro alleanze effimere e le loro scissioni al veleno, mi sento un po’ come uno storico russo che cerchi di spiegare ai propri concittadini le sfumature che separano, all’interno dell’estrema destra francese, Roland Gaucher da Bruno Mégret. Va detto che Limonov, invece, non si tira mai indietro di fronte a questo tipo di spiegazione pedagogica. Nei suoi articoli destinati alle più remote province russe ho spesso trovato dettagliate spiegazioni su «Jann-Edern Alliè», «Patric Bésson», «Alènne dé Bénoua» o sul «Kanar annchéné» che mi hanno fatto molto ridere. In poche parole, a Mosca Limonov frequenta questo pantano di comunisti nostalgici e nazionalisti esagitati, cercando di convincersi che lì si annidano le forze vive della nazione. E a una cena organizzata da Prochanov, caporedattore di «Den’», Limonov conosce Aleksandr Dugin.

 

 

Quella sera Eduard è triste. E ha una buona ragione per esserlo: ha appena saputo che nel baule di un’auto è stato ritrovato il torace segato di un suo amico e, accanto, la sua testa semicarbonizzata. Quest’amico, il comandante Kostenko, Limonov lo ha conosciuto in Transnistria, nel corso di un reportage per «Den’».

Non ci dilungheremo sulla Repubblica moldava di Transnistria, la cui storia è uguale a quella delle altre repubbliche serbe della ex Iugoslavia. La Moldavia era un lembo orientale della Romania, poi incorporato nell’Unione Sovietica. I moldavi erano talmente poveri che sognavano di ridiventare romeni, il che è tutto dire. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica si sono dichiarati Stato indipendente, a scapito dei russi stabiliti in Moldavia. Questi russi, sorta di coloni che occupavano i gradini più alti della scala sociale, ora si ritrovano esposti alle vessazioni e alle ritorsioni da parte del nuovo Stato a maggioranza romena. Sicché hanno creato a loro volta una Repubblica autonoma (la Transnistria, appunto) e imbracciato le armi per difenderla. Eduard, che ha preso senza riserve le loro difese e non vuole perdersi nessuna delle guerre che divampano l’una dopo l’altra sulle macerie dell’impero, si è trovato benissimo in Transnistria. Ha preso parte a una spedizione punitiva contro i romeni, attraversato sotto il tiro di un cecchino un blocco di case in rovina, corso fra campi disseminati di mine. Ma, soprattutto, ha conosciuto il comandante Kostenko di cui ora racconta la storia al proprio vicino, un uomo barbuto che gli è stato presentato come Aleksandr Dugin.

Ex comandante di una unità di paracadutisti in Afghanistan poi riciclatosi come meccanico in Moldavia, nel caos seguito al crollo del comunismo Kostenko era diventato un signore della guerra e il padrone assoluto della sua cittadina. Ucraino come Eduard, ma nato in Estremo Oriente dove il padre era di guarnigione, Kostenko aveva una faccia da cinese ed era noto per la sua crudeltà asiatica. La sua figura era avvolta da un’aura di terrore. Amministrava la giustizia nella sua officina, attorniato da guardie del corpo armate fino ai denti e da una bionda in minigonna e occhiali scuri. Eduard lo ha visto condannare a morte un ciccione sudato, sospettato di essere un traditore al soldo dei romeni, e ha approvato la sua intransigenza, come l’approva ora il suo interlocutore, Dugin.

Eduard e Kostenko hanno trascorso parecchie notti a parlare. Il comandante gli ha raccontato la sua vita avventurosa e ha preannunciato la sua morte imminente: prima o poi i nemici lo avrebbero trovato, non c’era posto al mondo dove si sarebbe sentito al sicuro. Del resto, perché fuggire? Non si torna a fare il meccanico dopo avere regnato su una città. Dugin ascolta, sempre più interessato a mano a mano che la storia assume una piega cupa. «Sapeva che sarebbe morto. Per questo si è confidato con lei,» dice Dugin a Eduard «perché restasse traccia del suo destino oscuro e violento». Eduard annuisce, gli piace il ruolo da Régis Debray di questo Che Guevara di frontiera, e lo sorprende un po’ che il suo interlocutore sappia chi è Régis Debray.

In generale, Dugin sembra sapere tutto. È filosofo, autore (pur avendo solo trentacinque anni) di sei o sette libri, ed è un vero piacere discutere con lui. Eduard e Dugin si capiscono al volo, ciascuno potrebbe completare le frasi dell’altro. Brindano con solennità alla memoria di Kostenko, e al giro successivo Dugin propone di brindare alla memoria del barone von Ungern-Sternberg. Eduard non ha nulla in contrario, ma non sa chi sia il barone von Ungern-Sternberg. «Non sa chi è?» finge di stupirsi Dugin, che in realtà è contento, come si è contenti quando si incontra qualcuno che non ha ancora letto Guerra e pace. È contento anche perché stavolta tocca a lui parlare, e va bene Kostenko, ma lui ha in serbo un super Kostenko, una storia con i fiocchi, dal successo garantito.

Nel 1918 il barone von Ungern-Sternberg, aristocratico lettone e feroce antibolscevico, si spinse fino in Mongolia con la sua divisione per combattere a fianco dell’Armata Bianca. Laggiù si distinse per l’ascendente sui suoi uomini, il coraggio e la crudeltà. Diceva di seguire il buddhismo, un buddhismo in cui era compreso il gusto per le torture più raffinate. Aveva un volto smunto, baffi lunghi e sottili, occhi chiarissimi. I cavalieri mongoli lo consideravano un essere sovrannaturale, e cominciarono a temerlo anche i suoi alleati bianchi. Il barone li abbandonò per addentrarsi nella steppa alla guida del suo squadrone, che, isolato da tutto, divenne una setta di visionari, obbediente soltanto alla sua legge. Ebbro di potere e violenza, cadde alla fine nelle mani dei rossi, che lo impiccarono. Io ho riassunto, ma Dugin non riassume. Quel personaggio, paragonabile all’Aguirre di Werner Herzog o al Kurtz di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Dugin lo riporta in vita con arte consumata. È uno dei suoi più riusciti pezzi di bravura, e Dugin centellina la storia senza fretta, preparando con cura i colpi di scena, sfruttando tutte le sfumature di una voce vellutata. Perché quel professore universitario, quell’uomo di studio che vive di libri e teoria, è anche un affabulatore orientale, capace di incantare il suo pubblico, e Eduard, che di solito agli intellettuali riserva solo disprezzo, ne è stregato. Gli piacerebbe che, un giorno, qualcuno raccontasse la sua vita a quel modo.

 

 

Da quella sera Eduard e Dugin non si lasciano più, e per vari giorni parlano ininterrottamente. Dugin dichiara senza remore di essere fascista, ma Eduard non ha mai conosciuto un fascista come lui. Quelli che ha conosciuto erano dandy parigini che avevano leggiucchiato Drieu la Rochelle ed erano fascisti perché la consideravano una cosa elegante e decadente, o individui grossolani come l’organizzatore di quella cena, Prochanov, i cui discorsi sono così pieni di paranoia e barzellette antisemite che bisogna veramente fare uno sforzo per starlo a sentire. Eduard ignorava che fra i piccoli stronzi affettati e i grandi stronzi scurrili ci fosse una terza categoria, una varietà di fascisti di cui in gioventù io ho conosciuto alcuni esemplari: i fascisti intellettuali, ragazzi di solito fervidi, esangui, imbranati, molto colti, che con le loro grosse cartelle sottobraccio frequentano piccole librerie esoteriche e sviluppano fumose teorie sui templari, l’Eurasia o i rosacroce, e non di rado finiscono per convertirsi all’islam. Dugin appartiene a tale categoria, con la differenza che non è un ragazzo gracile e imbranato, ma un orco. Alto, con barba e capelli lunghi, cammina a passettini leggeri, come un ballerino, e ha uno strano modo di rimanere in equilibrio su una gamba sola, tenendo l’altra sollevata all’indietro. Parla quindici lingue, ha letto tutto, sa bere e spassarsela, è una montagna di scienza e di fascino. Dio solo sa se Eduard è portato all’ammirazione, ma ammira quell’uomo di quindici anni più giovane di lui, e diventa suo discepolo.

Il pensiero politico di Eduard era confuso, approssimativo. Sotto l’influenza di Dugin diventa ancora più confuso, ma un po’ meno approssimativo. Si arricchisce di riferimenti. Ben lungi dal contrapporre fascismo e comunismo, Dugin venera entrambi in egual misura, e accoglie alla rinfusa nel suo pantheon Lenin, Mussolini, Hitler, Leni Riefenstahl, Majakovskij, Julius Evola, Jung, Mishima, Groddeck, Jünger, Meister Eckhart, Andreas Baader, Wagner, Lao-tzu, Che Guevara, Œrῑ Aurobindo, Rosa Luxemburg, Georges Dumézil e Guy Debord. Se, tanto per vedere fin dove può spingersi, Eduard propone di accogliere anche Charles Manson, nessun problema, c’è posto anche per lui. I tuoi amici sono miei amici. Rossi, bianchi, neri, non fa differenza: quel che conta – ha ragione Nietzsche – è lo slancio vitale. Eduard e Dugin si trovano presto d’accordo sul fatto che i loro colleghi dell’opposizione volano basso. Certo, Alksnis gli piace, ma gli altri… E soprattutto, Eduard e Dugin scoprono di essere complementari. L’uomo di pensiero e l’uomo d’azione. Il brahmano e il guerriero. Il mago Merlino e re Artù. Insieme faranno grandi cose.

 

 

Chi dei due ha trovato il nome Partito nazionalbolscevico? In seguito, quando si separeranno, ciascuno dei due lo rivendicherà come farina del proprio sacco. E dopo ancora, quando cercheranno di rendersi presentabili, ciascuno dei due ne addosserà la responsabilità all’altro. Per ora, il nome piace a entrambi. E piace a entrambi anche il nome che Eduard – e nessuno gli contesta la paternità – ha trovato per il loro futuro giornale: «Limonka», granata. Nel senso di bomba a mano. E gli piace pure la bandiera disegnata sul tavolo di cucina da un loro amico pittore, un tipo buono come il pane, la cui specialità sono le vedute dell’Umbria e della Toscana. Quella bandiera, un cerchio bianco in campo rosso, ricorda la bandiera nazista, con la differenza che invece della croce uncinata il disegno in nero nel cerchio bianco riproduce la falce e il martello.

 

4

 

Eduard e Dugin hanno una bandiera, una testata per il giornale e un nome per il partito. Hanno anche un iscritto: uno studente ucraino di nome Taras Rabko. È un inizio. La scalata al potere dei bolscevichi, dei fascisti e dei nazisti – i loro modelli – non è iniziata meglio. Quel che manca è il denaro. Eduard torna a Parigi nella speranza di trovarne.

Trascorre a Parigi tutta l’estate del 1993, ed è uno strano soggiorno. Preso fra la politica a Mosca e la guerra ovunque divampi, da quasi due anni Eduard passa da casa solo di sfuggita. Nel monolocale che divide con Nataša si sente un estraneo. Lui non ci è più abituato, mentre lei si è abituata a viverci senza di lui, e certamente a dormirci con altri uomini. Le relazioni che Eduard aveva nel piccolo mondo parigino si sono raffreddate per via delle sue prodezze in Bosnia, e gli amici gli hanno voltato le spalle. Una campagna di stampa denuncia la collusione fra estrema destra ed estrema sinistra, e se si traccia l’identikit di quello che comincia a essere chiamato «rossonero», viene fuori proprio il ritratto di Eduard. Le sue quotazioni toccano il fondo. I suoi editori abituali gli si negano al telefono. Non importa: Eduard non si considera più un uomo di lettere ma un combattente e un rivoluzionario di professione, e non gli dispiace essere un oggetto di obbrobrio in quell’ambiente di piccoli borghesi tremebondi. Il problema è che i suoi unici guadagni provengono dalla letteratura, che a malapena è riuscito a vendere i suoi reportage di guerra a una casa editrice, L’Âge d’Homme, diretta da un patriota serbo, e che la sua ricerca di fondi non dà risultati. Dugin, che ha rapporti con tutta l’estrema destra europea, era molto ottimista quando ha girato i suoi contatti a Eduard, il quale però passa da riviste di nicchia a grigie conventicole ottenendo dai pavidi negazionisti che le tengono in vita soltanto belle parole, perché fanno tutti già abbastanza fatica a mandare avanti i loro affarucci. Quanto alle sue conoscenze personali, Eduard sa che quando tutti gli avranno sbattuto la porta in faccia gli resterà sempre aperta quella di un uomo che non si scandalizza di nulla e che non si spaventa di fronte a una pessima reputazione. Purtroppo però Jean-Édern Hallier non abita più in place des Vosges. Condannato a versare quattro milioni di risarcimento danni per aver scritto che Bernard Tapie era disonesto, è stato costretto a vendere all’asta il grande appartamento in cui si svolgevano le riunioni dell’«Idiot». Sommerso dai processi e prosciugato dai debiti, con il giornale in crisi, Jean-Édern non ha un soldo da dare a Eduard. Però lo invita ad andarlo a trovare nel suo castello in Bretagna.

 

 

Eduard ci va con Nataša. È da parecchi anni che nessuno dei due si prende quella che le persone normali chiamano una «vacanza». Il maniero li colpisce per la sua grandeur decaduta e l’assenza di comodità. Nelle stanze piove, e anche il padrone di casa è piuttosto malconcio. Quasi cieco, ha bisogno di una lente di ingrandimento per vedere le cifre sul disco del telefono, il che non gli impedisce di guidare la sua vecchia Golf sulle stradine secondarie con l’acceleratore a tavoletta, dimenticandosi però di togliere il freno a mano. Il primo giorno vanno a fare la spesa perché è atteso Le Pen, che si fermerà per una cena alla buona. Jean-Édern adora scioccare i suoi interlocutori annunciando loro che avrà a cena Le Pen, con Eduard questo numero l’ha già fatto, ma Eduard non è scioccato per niente, e anche stavolta aspetteranno l’ospite invano. Al vivaio, Jean-Édern scatena un putiferio perché non lo lasciano parcheggiare nel posto riservato ai pescatori. Si sbraccia, urla che stanno insultando la letteratura francese, la Repubblica, Victor Hugo. Eduard ha l’impressione, un po’ triste, che si sforzi di essere all’altezza del suo personaggio. Se smette per un attimo di dare spettacolo, Jean-Édern muore. A cena però è in gran forma, e fa crepare dalle risate la sua corte di bretoni marinati nello Chouchen raccontando la sua partecipazione a Trenta milioni di amici. Per farsi invitare a quella trasmissione televisiva dedicata agli animali ha detto di avere un cane, di adorarlo, di aver scritto tutti i suoi libri con l’animale steso ai suoi piedi. Non è vero, Jean-Édern non ha mai avuto un cane, ma è disposto a tutto pur di comparire in tv, e così se n’è fatto prestare uno. Lo tiene sulle ginocchia, lo accarezza, recita la parte del padrone affettuoso, ma il cane, che non lo conosce, si agita, e più Jean-Édern si commuove parlando del suo fedele amico a quattro zampe, più l’altro ringhia, si dimena, si contorce cercando di liberarsi, e alla fine lo morde. Jean-Édern recita la parte di se stesso, quella del cane e infine mima la zuffa fra i due: il numero gli riesce alla perfezione.

Il giorno dopo c’è una schiarita e i tre vanno in spiaggia. Eduard fa il bagno. Nonostante la sua vista più che debole, Jean-Édern dice ammirato a Nataša: «Però, è proprio ben fatto il tuo uomo». E quando Eduard, uscito dall’acqua, li raggiunge, gli chiede: «Che cosa fai di preciso in Russia?».

«In Russia?» risponde Eduard scuotendo l’asciugamano coperto di sabbia. «Mi preparo a prendere il potere. Credo che sia il momento giusto».

 

5

 

Quando si dice che ormai a Mosca trovi qualsiasi cosa, non è vero. Trovi tutto il foie gras che vuoi, certo, e anche lo Château d’Yquem per innaffiarlo, ma nessuno si sogna di importare dadi per brodo e cioccolato da cucina, cibi che non attirano il nuovo russo ma sono alla base dell’alimentazione di Eduard, il quale in ogni viaggio se ne porta dietro una provvista. In quel giorno di settembre del 1993 Eduard è seduto davanti alla televisione con in mano una scodella di brodo fatto con il dado: serio in volto, El’cin sta annunciando al paese che scioglie la Duma e indice nuove elezioni.

C’era da aspettarselo. In politica è un classico: quando il Parlamento è ostile, come in questo caso, si punta tutto sul suo scioglimento. O la va o la spacca. Se va male ci si mangia le mani, ma poi in democrazia si finisce per rassegnarsi. Quel che non è dato sapere è se il democratico El’cin veda le cose in questo modo e abbia preso in considerazione l’ipotesi di rassegnarsi nel caso in cui dalle nuove elezioni non esca un’assemblea a lui più favorevole. Comunque, El’cin non ha ancora finito di parlare che già squilla il telefono in casa degli amici che ospitano Eduard. È Alksnis, «il colonnello nero», e sta dicendo a Eduard che le cose si mettono male. I patrioti si sono dati appuntamento alla Casa Bianca. Eduard ingoia la sua scodella di brodo ed esce di corsa.

 

 

Qualche migliaio di patrioti si sono già radunati davanti all’edificio che due anni prima è stato nel mondo intero il simbolo del trionfo di El’cin e dei «democratici». Chi sono i «patrioti»? Grosso modo quelli che poche pagine fa abbiamo visto urlare la propria rabbia per le strade di Mosca. Alcuni, non tutti, sono quelli che noi definiremmo «fascisti», ma questi fascisti ora si presentano come paladini dell’ordine costituito, e non si può dire che abbiano torto quando accusano i democratici di essere pronti a instaurare la dittatura per difendere una democrazia che nessuno vuole. Per completare il quadro aggiungiamo che i due uomini a capo della rivolta contro El’cin erano, due anni prima e in quello stesso luogo, al suo fianco. Si tratta del presidente della Duma, il ceceno Chasbulatov, e del vicepresidente della Repubblica, il generale Ruckoj, un reduce dell’Afghanistan che, pur facendo parte del gruppo al potere, se la prende in continuazione con quel «povero stronzo in bermuda rosa» – come chiama il primo ministro Gajdar da quando questi ha avuto l’infelice idea di farsi fotografare mentre giocava a golf conciato in quel modo.

La stessa sera Ruckoj e Chasbulatov convocano una riunione straordinaria della disciolta assemblea, la quale, primo, dichiara incostituzionale il proprio scioglimento; secondo, destituisce El’cin; terzo, nomina Ruckoj presidente al suo posto; quarto, occupa la Casa Bianca proclamando che l’assemblea vi si trova per volontà del popolo e ne uscirà soltanto con la forza delle baionette. L’edificio è pieno, oltre che di deputati ribelli, di patrioti determinati a difenderlo, e tra questi Eduard, che passa la notte a saltare come un grillo da una sala riunioni all’altra in preda all’eccitazione, fendendo la densa nube di fumo delle sigarette. I ribelli discutono, altercano, bevono, redigono comunicati, formano il nuovo governo. Eduard è spazientito da quelle chiacchiere: ci sarà sempre tempo, pensa, per dividersi i ministeri. La vera urgenza è prepararsi a quello che si profila ormai come un vero assedio.

 

 

Eduard riesce a raggiungere l’ufficio all’ultimo piano in cui si è chiuso Ruckoj. Davanti alla porta montano di guardia alcuni soldati, ma a forza di insistere Eduard ottiene udienza. Il generale lo riceve in tuta mimetica, con aria smaniosa. Non sa bene chi sia il visitatore ma sono le tre del mattino ed è talmente sotto pressione che parlerebbe con chiunque. Inoltre, Eduard lo chiama «compagno presidente»: Ruckoj non ci è abituato, e gli fa piacere.

È tutta la sera che il compagno presidente sta chiamando le basi militari della Russia per sondare il terreno. «Come si presenta la situazione?» si informa Eduard. Il generale risponde con una smorfia: «Normal’no», espressione dal significato estremamente ampio che va da «benissimo, grazie» a «così così». Il problema è tutto qui: nella prova di forza in atto, da quale parte si schiererà l’esercito? Anche nell’ipotesi che resti come due anni prima dalla parte della legalità, da che parte sta la legalità? Chi è il presidente legittimo, El’cin o Ruckoj? Gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Germania e la Francia hanno appena espresso il loro sostegno a El’cin contro i nuovi golpisti, e la notizia sembra far vacillare il generale.

Per risollevarlo, Eduard gli fa notare che la posizione dei paesi occidentali non è affatto una sorpresa. «Quelli vogliono soltanto una cosa: una Russia in ginocchio, per questo sosterranno sempre traditori come Gorbaèëv ed El’cin. Ma ciò che sta avvenendo ora non è un golpe. È il Parlamento democraticamente eletto che rifiuta la dittatura, e l’Occidente dovrà accettarlo, in nome dei suoi stessi valori».

«È vero» annuisce il generale, corrugando la fronte come se non ci avesse pensato e volesse tenere a mente l’argomentazione per riutilizzarla in un discorso.

«L’importante» prosegue Eduard, sfruttando il vantaggio «non è quello che succede nelle cancellerie, e nemmeno nelle caserme. È quello che accade qui, nella Casa Bianca. È qui che si è deciso tutto l’ultima volta, ed è qui che si deciderà tutto stavolta. El’cin non farà un passo indietro, e noi nemmeno. Dovremo combattere. Abbiamo armi?».

«Sì» dice il generale, come ipnotizzato.

«A sufficienza?».

«Sì».

«E che cosa aspetta a distribuirle?».

«Non adesso» dice il generale. «È prematuro».

Eduard aggrotta le sopracciglia: «Prematuro? È quello che dicevano i socialdemocratici nel 1917. Che in Russia la situazione non era matura per la rivoluzione, che in Russia non c’era una classe operaia, eccetera eccetera… Per fortuna Lenin la pensava diversamente. L’uomo davvero grande è colui che sa cogliere il momento propizio, quello che i greci chiamavano kairós (Eduard adora questa parola, gliel’ha insegnata Dugin), e adesso è proprio il momento propizio. Gli uomini più coraggiosi della Russia sono qui, pronti a battersi. Sta a lei scegliere, compagno presidente: vuole passare alla storia come un grand’uomo o come un vigliacco?».

Eduard ha passato il segno, e Ruckoj si innervosisce: «Ma insomma, chi è lei? Uno scrittore, giusto? Un intellettuale? Lasci le decisioni militari ai professionisti».

Eduard sente mancargli il respiro: un intellettuale, lui? Ruckoj ne ha abbastanza e lo congeda.

 

 

Il giorno dopo Eduard commette un errore: esce dalla Casa Bianca. All’edificio si accede quasi liberamente, e lui pensa di tornarci presto. Così va a casa degli amici per farsi una doccia e cambiarsi, poi da Dugin, per esortarlo a unirsi ai patrioti – ma Dugin preferisce seguire la vicenda alla televisione, e per la prima volta Eduard ha il sospetto che sia un po’ fifone. Quando torna alla Casa Bianca, l’assedio è già iniziato. El’cin ha fatto tagliare la corrente elettrica e le linee telefoniche, schierare gli squadroni degli OMON, e ora naturalmente non si passa più. Eduard ci prova comunque, per tutta la notte. Si infila tra i camion militari e i cordoni dei soldati con la mitraglietta a tracolla, sentendosi un po’ come un partigiano durante l’occupazione nazista. Gli altoparlanti diffondono senza sosta la propaganda del governo, invitando gli insorti ad arrendersi. Dietro le finestre si scorgono luci fioche e ombre spettrali: all’interno, per vederci, stanno usando le candele.

L’assedio si protrarrà per dieci giorni, e saranno i giorni più crudeli della vita di Eduard, che darebbe dieci anni, un braccio, qualsiasi cosa per tornare indietro e non fare la cazzata di uscire, per essere ancora dentro la Casa Bianca con gli intrepidi che, ne è certo, fra poco venderanno cara la pelle. Che cosa fare? Starsene lì impalato ad aspettare dietro i cordoni di polizia, nella speranza che si apra un varco, o tornare a casa a guardare i notiziari? Ovunque si trovi, Eduard si sente al posto sbagliato. La televisione lo fa impazzire di rabbia. Dio solo sa se sotto El’cin la stampa è stata libera, ma ora siamo in stato d’assedio, non si scherza più. Giornalisti e commentatori si danno il cambio ventiquattr’ore su ventiquattro per presentare i «costituzionalisti» (così si autodefiniscono gli insorti) come fascisti e squilibrati. Vengono mostrati a ciclo continuo la manifestazione di sostegno a El’cin sulla Piazza Rossa e il concerto tenuto dall’immancabile Rostropoviè. Invece non si vede niente di ciò che succede all’interno della Casa Bianca assediata. Lì dentro non ci sono telecamere, si può soltanto usare l’immaginazione.

 

 

Quelli che c’erano e ne sono usciti vivi descrivono tutti la stessa cosa: il Titanic. Niente luce, niente telefono, nemmeno acqua e riscaldamento. Tutti muoiono di freddo e puzzano, da mangiare e da bere ci sono soltanto le scorte della caffetteria, che si esauriscono presto. Vengono bruciati i mobili degli uffici, e gli assediati si raccolgono attorno a bracieri improvvisati per intonare inni ortodossi, canti della grande guerra patriottica e spronarsi reciprocamente al martirio. «Gli assediati» sono cosacchi dai lunghi baffi, vecchi stalinisti, giovani neonazisti, deputati legalitari, sacerdoti con barbe fluenti. Vista la gravità della situazione, i sacerdoti non restano con le mani in mano: gli uffici dei deputati vengono trasformati in confessionali e battisteri davanti ai quali le persone si mettono in coda. La poca acqua rimasta viene benedetta. Ci sono icone e immagini della Madonna accanto ai ritratti di Lenin e di Nicola II, bandiere rosse accanto a fasce da braccio con la croce uncinata. Ancora non esistono i telefoni cellulari, e l’unico collegamento con l’esterno è assicurato dal radiotelefono di un giornalista inglese, un’enorme valigia che ricorda gli apparecchi di trasmissione usati in guerra. Circolano voci, alcune semplicemente assurde – Clinton è stato messo agli arresti dal Congresso americano perché ha tradito la democrazia dando il proprio appoggio a El’cin –, altre pericolosamente verosimili: l’esercito sta per attaccare. In realtà, lo sanno tutti che l’esercito sta per attaccare, e che la vicenda si concluderà con un bagno di sangue, a meno di una resa, ma l’adrenalina sta salendo, e nessuno è disposto a cedere. I due leader, Ruckoj in tuta mimetica e Chasbulatov in camicia nera e giubbotto antiproiettile, cominciano a parlare di suicidio collettivo. Nessuno dorme.

 

 

Eduard si è perso tutto questo e non si dà pace. In compenso non si perde la grandiosa manifestazione del 3 ottobre davanti alla Casa Bianca: centinaia di migliaia di persone che sostengono gli insorti sventolando bandiere rosse. Con lui c’è il giovane Rabko, lo studente ucraino che, insieme a lui e a Dugin, è il terzo membro del Partito nazionalbolscevico. I dimostranti urlano: «Unione Sovietica! Unione Sovietica! El’cin fascista!». Urlano anche: «Morte agli ebrei! Morte ai culi neri!» (i culi neri sono i caucasici) e questo Eduard lo disapprova: prima di tutto perché è una stronzata, e poi perché è a tali slogan che i media occidentali daranno rilievo. I dimostranti provocano gli OMON: avranno il coraggio di sparare sul popolo russo? Ce l’hanno. Iniziano gli spargimenti di sangue, qualcuno viene ferito. La folla rumoreggia, resiste, sfonda un cordone. Presi dal panico, gli OMON sparano ancora, trascinano dei manifestanti nelle camionette per pestarli. Alcuni giovani riconoscono Eduard, lo circondano, gli fanno scudo con i propri corpi. Da un balcone della Casa Bianca, Ruckoj con il megafono in mano arringa la folla. Siamo pronti a uscire! A marciare sul Cremlino! Ad arrestare El’cin! A prendere Ostankino!

Ostankino è la torre della televisione, dunque un obiettivo fondamentale. Se gli insorti assumono il controllo dell’informazione, tutto può cambiare e l’assedio a Fort Chabrol trasformarsi nella presa della Bastiglia. Autobus e automobili cominciano a riempirsi di uomini armati che urlano: «A Ostankino! A Ostankino!». Eduard e il giovane Rabko salgono su uno degli autobus. Attraversano la città, deserta: la gente ha paura e si è chiusa in casa. Al passaggio del corteo, qualche raro curioso che si è spinto fuori fa la V di vittoria. Sull’autobus, Eduard concede un’intervista a un giornalista irlandese. Non è ancora fatta, dice, ma il suo popolo sta rialzando la testa.

«Vi piace l’espressione: “guerra civile”?» scriveva quindici anni prima in Diario di un fallito. «A me molto».

 

 

Sono partiti dalla Casa Bianca in qualche centinaio, quando raggiungono la collina di Ostankino sono alcune migliaia. Ma solo un uomo su dieci è armato e gli squadroni degli OMON sono già schierati. Aspettano l’arrivo degli autobus, poi aprono il fuoco e caricano gli insorti a manganellate. Avanzano colpendo e sparando contemporaneamente. È un massacro. Eduard, che si trova per caso un po’ a lato della linea di sfondamento degli OMON, si butta a terra. Un corpo gli cade addosso. È il giornalista irlandese, non si muove più: dalla bocca cola un rivolo di sangue. Eduard lo tasta, scruta i suoi occhi vitrei, gli sente il polso. È morto. Io sono l’ultima persona che ha ripreso, pensa fugacemente: qualcuno un giorno vedrà quella cassetta?

Attorno a lui crepitano le mitragliatrici. Eduard si alza, viene colpito da un proiettile, barcolla, si porta la mano alla spalla. Il giovane Rabko riesce a trascinarlo al riparo, sotto gli alberi del parco. Gli strappa la camicia per curare la ferita, che sanguina molto ma non è profonda – e comunque una ferita alla spalla ci sta: nei film il protagonista viene sempre ferito alla spalla. A qualche centinaio di metri continua il combattimento, si sentono le mitragliate e le urla. Poi tutto si placa. Scende la notte. Gli OMON rastrellano i manifestanti nascosti nel parco, li portano via con la forza, ma Eduard e Rabko riescono a mettersi in salvo. Siccome gli ingressi sono sorvegliati, i due restano tutta la notte acquattati fra i cespugli a crepare di freddo. Eduard pensa che la prossima volta dovrà prendere in mano lui la situazione, non un generale parolaio e vile che gli ha dato dell’intellettuale.

 

 

All’alba Eduard e Rabko si avventurano fuori del parco, raggiungono una stazione del metrò, e vengono a sapere che la Casa Bianca è circondata dai mezzi corazzati. Qualche ora prima sembrava che la vittoria fosse a portata di mano, adesso è chiaro che tutto è perduto. Durante l’attacco, cresce il fervore delle litanie ortodosse e dei canti patriottici. Il generale Ruckoj dice che si suiciderà, come Hitler nel suo bunker – in realtà si arrenderà, ma soltanto nel pomeriggio: il tempo di far morire centocinquanta persone che sarebbero ancora a questo mondo se lui avesse fatto meno lo sbruffone. Si spara per tutta la giornata: davanti alla Casa Bianca, dove si sono raccolte migliaia di curiosi che seguono l’assalto quasi fosse un evento sportivo; dentro il palazzo, dove una volta entrati gli OMON rincorrono gli assediati nei corridoi, negli uffici e nei bagni, nel migliore dei casi per gonfiarli di botte, nel peggiore per ucciderli. Si sguazza nel sangue. Fra le centinaia di morti e le migliaia di feriti delle stime ufficiali, ci sono molti insorti ma anche eccentrici, passanti, vecchi e ragazzini curiosi: molti ragazzini. Nel timore di un’ondata di arresti fra i nazionalisti, Eduard e Rabko decidono di cambiare aria e se ne vanno in campagna.

Prendono il treno per Tver’, località a trecento chilometri da Mosca, dove abita la madre di Rabko, e restano due settimane chiusi nell’appartamentino della donna a guardare la televisione. La versione ufficiale dell’accaduto, imposta ai media sin dall’inizio della crisi, comincia a mostrare qualche crepa. La democrazia forse è salva, ma quella parola si è ormai svuotata di significato. Si traccia un parallelo fra quanto è appena successo e la Comune di Parigi, però con i fascisti nella parte dei comunardi e i democratici in quella dei soldati agli ordini di Versailles. Nessuno sa più chi siano i buoni e chi i cattivi, chi i progressisti e chi i reazionari. A un certo punto, un giornalista si rivolge ad Andrej Sinjavskij, che abbiamo visto commuoversi fino alle lacrime ascoltando Nataša cantare Fazzoletto blu nella sua villetta di intellettuale esiliato a Fontenay-aux-Roses. E Sinjavskij, dissidente storico, profondamente democratico, uomo onesto e perbene, è sul punto di piangere ancora, ma stavolta di rabbia e disperazione. Dice: «La cosa terribile è che ora la verità mi sembra stare dalla parte di coloro che ho sempre considerato miei nemici».

 

6

 

Poiché la Duma non solo è stata sciolta ma anche annegata nel sangue, sono necessarie nuove elezioni, alle quali Eduard decide di presentarsi. Il giovane Rabko, studente di Legge, lo aiuta a registrare la propria candidatura nel distretto di Tver’. È una cosa semplice: gli anni di El’cin sono anni di caos ma anche di libertà, e di lì a poco non mancherà l’occasione di rimpiangerli. Chiunque può candidarsi a qualsiasi carica ed esprimere qualsiasi opinione. Dugin ha assicurato il proprio aiuto, ma non abbandonerà l’ufficio ben riscaldato di Mosca, sicché la mobilitazione del Partito nazionalbolscevico sul territorio si riduce a Eduard e al fedele Rabko. Per tutto il mese di dicembre i due batteranno la regione alla guida di un vecchio catorcio immatricolato in Moldavia prestato loro da un amico ufficiale, e poi, quando l’amico si sarà ripreso il prezioso mezzo, a bordo di pullman e treni – in terza classe, naturalmente.

Nato in una grande città e vissuto per lungo tempo all’estero, Eduard si rammaricava di non conoscere meglio la Russia profonda, quella che viene chiamata glubinka. Scopre Rev, Starica, Nelidovo, e tutta una serie di altri paesini dimenticati da Dio e distrutti dalla «terapia shock» i quali – se si gratta via la crosta di infelicità contemporanea — si rivelano ancora fermi al tempo delle deprimenti descrizioni di Èechov. Conosco bene un posto del genere, Kotel’niè, e non faccio nessuna fatica a immaginare, per ognuno di quei paesini, l’unico albergo fatiscente, senza acqua calda perché il gelo ha fatto scoppiare le condutture, le mense sudicie, le piccole fabbriche in stato di abbandono, lo spelacchiato giardinetto pubblico con al centro un busto di Lenin dove, in mancanza di denaro per i manifesti, Rabko attira i passanti alla maniera di un saltimbanco, cercando di invogliarli ad assistere al comizio di Eduard. Nel distretto ci sono settecentomila elettori da convincere. Eduard li affronta a gruppi di quindici o venti, soprattutto anziani, pensionati poveri e impauriti che lo ascoltano recitare il suo catechismo di nazionalista russo, scuotono la testa e alla fine gli chiedono: «D’accordo, ma lei con chi sta? Con El’cin o con irinovskij?».

Eduard sospira, sconfortato. Non con El’cin, questo è poco ma sicuro. «Avete visto in televisione lo spot del suo partito, con quella faccia da schiaffi di Gajdar?». È uno spot incredibile. Si vede una famiglia agiata, con un bambino, un cane e una casa in uno di quei quartieri residenziali di periferia che in Russia semplicemente non esistono, al massimo si vedono in qualche telefilm americano. I genitori, sempre sorridenti, si recano al seggio elettorale per dare il loro voto a Gajdar. Quando escono, il bambino si rivolge al cane con una strizzatina d’occhio: «Peccato che non possiamo votare anche noi, eh Fido?». Questa propaganda destinata a una classe media del tutto immaginaria è un insulto per il novantanove per cento dei russi, sostiene Eduard. I suoi ascoltatori sono d’accordo, il che però non impedirà loro di votare per il partito al potere perché in Russia si vota, quando si ha il diritto di votare, per il partito al potere: funziona così.

I rari ribelli sono i clienti di irinovskij. Pawel Pawlikowski, il regista che abbiamo già incontrato a Sarajevo, ha girato per la BBC un documentario sulla sua campagna elettorale. Si vede irinovskij promettere spavaldo a quanti sono stati fregati dalle riforme che renderà gratuita la vodka, riconquisterà l’impero, correrà in aiuto dei serbi, sgancerà bombe sulla Germania, il Giappone e gli Stati Uniti, riaprirà i gulag per mandarci i nuovi russi, quelli di Memorial e gli altri traditori al soldo della CIA. Questo repertorio non è molto diverso da quello di Eduard, che ha molta difficoltà a spiegare perché la sua proposta sia migliore e, quando dice che lui è indipendente, nessuno lo capisce.

Le elezioni le vinceranno El’cin e Gajdar, ma irinovskij otterrà comunque un quarto dei voti. Se Eduard si fosse candidato nella sua lista ora sarebbe deputato. Avrebbe potuto farlo, irinovskij lo avrebbe accolto a braccia aperte, ma non ha voluto, per il solito motivo: preferisce essere capo di un partito di tre persone che seguace di uno che ne raccoglie milioni. Lo scrutinio lascia così poche speranze che Eduard non aspetta neanche la proclamazione dei risultati e se ne torna, furibondo e umiliato, a Parigi.

 

 

Eduard ha cercato di avvisare Nataša, ma al telefono non risponde nessuno. Arriva presto, bussa alla porta, aspetta un istante – a suo modo è una persona educata –, poi apre con la propria chiave. Nataša è stesa di traverso sul letto, e tutt’intorno ci sono bottiglie vuote e portacenere pieni. Russa pesantemente, ubriaca fradicia. Devono essere parecchi giorni che la stanza non prende aria: c’è una puzza terribile. Eduard posa lo zaino e comincia a rimettere in ordine senza fare rumore. Nataša apre un occhio, si appoggia su un gomito, lo guarda. Con voce impastata gli dice: «Mi sgriderai dopo, adesso scopami». Eduard la raggiunge sul letto, sprofonda dentro di lei. Si aggrappano l’uno all’altra come naufraghi. Dopo l’amore, Nataša gli dice che è stata tre giorni chiusa in casa a farsi chiavare da due sconosciuti, se lui fosse arrivato un po’ prima li avrebbe incontrati, avrebbero potuto fare una partita a carte insieme. Scoppia in una risata stridula. Eduard si riveste senza dire una parola, raccoglie lo zaino senza neanche prendere un cambio di vestiti, richiude la porta dietro di sé senza sbatterla e riprende il metrò, poi la RER fino all’aeroporto Charles de Gaulle, dove compra un biglietto per Budapest.

 

7

 

Da Budapest il pullman, quasi vuoto, ci mette tutta la notte a raggiungere Belgrado. È l’unico mezzo per arrivarci, ora. Da quando è stato dichiarato l’embargo nella capitale serba non atterrano più aerei. L’aeroporto è chiuso. Il paese, messo al bando dall’Europa, è scivolato nell’isolamento e nella paranoia. I serbi ragionevoli soffrono per la folle crociata in cui li ha trascinati Miloševiæ e cercano di resistere al lavaggio del cervello, ma questi serbi ragionevoli Eduard non li conosce e non desidera conoscerli. Lui vuole la guerra. Ha bisogno di buttarcisi dentro ed è pronto a perdercisi. In questo momento della sua vita la guerra gli sembra l’unica salvezza. Il suo piano è lasciare lo zaino all’Hotel Majestic, dove è già stato in passato, e andare alla rappresentanza della Repubblica serba di Krajina.

Già: perché non solo continua a infuriare il conflitto tra serbi e bosniaci, ma si è riacceso anche quello tra serbi e croati per il controllo dell’enclave serba di Krajina, non lontana dall’Adriatico. Le forze in campo ora sono tre – senza contare quelle che cercano di separarle –, e sembra di trovarsi nella guerra dei Trent’anni, quando il vostro peggiore nemico poteva diventare da un momento all’altro vostro alleato, perché era nemico del vostro nemico. Diplomatici e giornalisti si mettono le mani nei capelli. Eduard non vuole più fare il giornalista, stavolta vuole fare il soldato. Soldato semplice, proprio così, spiega ai rappresentanti della Repubblica serba di Krajina – entità autoproclamata che, naturalmente, è riconosciuta soltanto dai serbi. I serbi sono un po’ spiazzati dalla sua richiesta: non è che i volontari stranieri facciano la coda per arruolarsi. Gli dicono che è difficile raggiungere la Krajina, che deve aspettare, che gli faranno sapere. Eduard torna all’Hotel Majestic.

 

 

Dalla sua descrizione, mi immagino un luogo simile all’Hôtel Lutetia, a Parigi, durante l’Occupazione. C’è un pianobar, ci sono trafficanti di valuta, puttane, gangster, giornalisti corrotti e politici che fanno a gara per il titolo di nazionalista più intransigente. Molti di loro, favorevoli come Vojislav Šešelj a «sgozzare i croati e i musulmani non con un coltello ma con un cucchiaio arrugginito», moriranno presto di morte violenta o saranno processati per crimini di guerra. Quell’atmosfera piace a Eduard, che viene abbordato da una ragazza di diciassette anni, molto carina. Non è una puttana, ma un’ammiratrice. Ha letto tutti i suoi libri, tutti gli articoli che Eduard ha pubblicato sui giornali serbi, e anche sua madre li ha letti. Adulato da quelle due fan, Eduard scrive alcune dediche per la madre che chiude un occhio e lascia che si porti a letto la figlia. Eduard non è abituato alle ragazze così giovani e scopre che non sono niente male. Inoltre, è risoluto ad andare incontro alla morte, e si eccita al pensiero che quella potrebbe essere la sua ultima notte d’amore. Ce l’ha sempre duro. Trascorrono così tre giorni, al termine dei quali il barista, servendogli un bicchierino di vodka, gli sussurra che Arkan ha saputo della sua presenza e lo aspetta. Arkan! Il suo caro amico Arkan! Ascensore per l’ultimo piano, al quale hanno accesso soltanto gli ospiti del signore della guerra. Perquisizione, gorilla: eccolo nella suite in cui Arkan, in uniforme cachi e berretto verde, gozzoviglia con una decina di sgherri.

«Allora, Limonov, non hai ancora fatto la rivoluzione in Russia?».

Punto nel vivo, Eduard farfuglia che ci ha provato. È stato tra gli eroi che hanno difeso la Casa Bianca dai carri armati di El’cin. È stato ferito nell’assalto a Ostankino. E ora vuole andare a combattere in Krajina. Non è facile, assicura Arkan. Il corridoio che collega la Krajina a Belgrado viene interrotto di continuo, un giorno dai croati, un altro dai musulmani, per non parlare della UNPROFOR. Ma l’indomani c’è una partenza. «Vuoi aggregarti?».

«Altro che!».

 

 

Le cinque di mattina. Un pulmino con i vetri appannati è in attesa sul terrapieno coperto di neve davanti all’albergo. All’inizio Eduard è l’unico passeggero. Il pulmino fa lentamente il giro di tutti i quartieri come uno scuolabus e carica tipi insonnoliti che sembrano contadini. All’alba lasciano Belgrado. Si viaggia per tutto il giorno su strade fiancheggiate da carcasse di camion e villaggi incendiati, i passeggeri bevono caffè dai thermos e slivoviz direttamente dalla bottiglia. Il pulmino attraversa l’Erzegovina, altopiano arido e roccioso, battuto dai venti, in cui sono stati girati molti spaghetti western e dove si dice crescano soltanto pietre, serpenti e ustascia. In teoria i settori serbi, bosniaci e croati si distinguono bene, ma sul terreno è più complicato. Le linee del fronte tagliano in due i villaggi, e di punto in bianco, lungo la stessa strada, cambiano l’alfabeto, la lingua ufficiale, il sistema monetario, la religione e il fanatismo nazionale. E finché non ci si arriva davanti è difficile anche capire se i posti di blocco sono sorvegliati da milizie serbe, croate o bosniache. Stranamente però il pulmino li supera senza difficoltà. Dico «stranamente» perché i compagni di Eduard, mimetizzati da contadini diretti al mercato del bestiame, sono in realtà miliziani di Arkan che tornano al fronte dopo un permesso a Belgrado, e perché il baule del pulmino è zeppo di armi.

A tre quarti del viaggio la radio trasmette una notizia allarmante: nella notte c’è stato una specie di colpo di stato nella Repubblica serba di Krajina, e sembra che il ministro della Difesa, a cui Arkan raccomandava Eduard, sia ora in prigione. Poco dopo si cominciano a vedere sui tronchi degli alberi manifesti incollati di fresco che annunciano una taglia sulla testa di Arkan. È come nella San Teodoro di Tintin: non si sa mai chi fra Alcazar e Tapioca riuscirà a far fucilare l’altro. Quanto sta accadendo (Eduard comincia a intuirlo, e il futuro lo confermerà) è che Miloševiæ, descritto da un diplomatico americano come «un boss mafioso stanco del traffico di droga nel Bronx e intenzionato a riciclarsi nei casinò di Miami», ha cominciato a giocarsi le sue carte in previsione di futuri negoziati. D’intesa con Tudjman, il suo migliore nemico, si prepara a lasciare la Krajina ai croati in cambio dei territori serbi di Bosnia e della revoca dell’embargo. In questa nuova fase della partita, un estremista come Arkan costituisce un peso ingombrante di cui è necessario sbarazzarsi, e si potrebbe anche pensare che quella dozzina di combattenti sballottati dal pulmino stia finendo dritta in una trappola. Sarebbe logico, ma la logica dei Balcani è strana. A causa di alcuni cortocircuiti e ritardi nella comunicazione, Eduard, abbandonato in città dai compagni, deve vedersela da solo con le autorità che, pur non riservandogli una cattiva accoglienza, lo fanno girare da un ufficio all’altro per spedirlo alla fine in una caserma austroungarica in aperta campagna.

 

 

Qui gli danno una divisa – impossibile stabilire di quale esercito, tanto sono eterogenei gli elementi che la compongono –, il grado di capitano e una stanza tutta per lui. Il grado va di pari passo con la stanza: l’inquilino precedente, saltato in aria su una mina, era capitano, e quindi anche il successivo sarà un capitano – così è più semplice. Al mattino il suo equipaggiamento viene completato da un kalashnikov e da un angelo custode, un ufficiale serbo scontroso e brutale che durante una visita in casa di uno dei suoi sottoposti comincia a insultare e poi minacciare la moglie del soldato perché è croata. Eduard è sconcertato, ma gli dicono che bisogna capire: l’anno prima tutta la famiglia dell’ufficiale è stata sgozzata dai croati. Alcuni giorni dopo sarà il sottoposto a sgozzare l’ufficiale.

Quel posto è un vero cul-de-sac della guerra: nessuno arriva, nessuno parte, nessuno capisce bene chi combatte contro chi. Le perdite sono pesanti su entrambi i fronti, e i contadini serbi sono sempre più diffidenti, perché si sentono traditi da tutti, non soltanto dall’Occidente ma anche dalla madrepatria che si appresta ad abbandonarli – infatti, un anno dopo, la Repubblica serba di Krajina non esisterà più e i suoi abitanti saranno morti o in prigione, o, i più fortunati, rifugiati in Serbia.

Eduard resterà due mesi in quella regione montagnosa e selvaggia. Prenderà parte – lo racconta lui stesso, e io gli credo – a parecchie azioni di guerriglia: incursioni nei paesi, imboscate, scaramucce. Rischierà la vita. Una domanda che mi sono posto spesso scrivendo questo libro è se abbia mai ucciso. Per molto tempo non ho osato chiederglielo, e quando alla fine mi sono deciso lui ha alzato le spalle e ha risposto che era proprio una domanda da civile. «Ho sparato, spesso. Ho visto uomini cadere. Li ho colpiti io? Difficile saperlo. È confusa, la guerra». Di rado mi viene il sospetto che menta, in questo caso un po’ sì. Sa che sto scrivendo un libro su di lui per il pubblico francese, vale a dire un pubblico virtuoso e che si indigna facilmente, e forse ha preferito non vantarsi di quella che molto probabilmente considera un’esperienza formativa. Credo che nella sua filosofia uccidere un uomo in un corpo a corpo sia come farsi inculare: qualcosa che almeno una volta nella vita devi provare. Se l’ha fatto, cosa che ignoro, è molto probabile che lo abbia fatto durante quei due mesi in Krajina, praticamente senza testimoni.

Alla fine torna a Belgrado in auto con un giornalista giapponese. A ogni posto di blocco giura di non avere armi, mentre ha conservato la sua 7,65 in ricordo delle scorribande balcaniche, perché sa che quella è stata l’ultima. Durante tutto il tempo passato in Krajina ha rimuginato senza sosta le parole di Arkan: «Allora, Limonov, non hai ancora fatto la rivoluzione in Russia?». Ha capito che per lui è finito il tempo delle battaglie periferiche. È venuta l’ora di combattere sul fronte vero, di tornare a Mosca, a vincere o morire.

 

VIII
MOSCA, ALTAJ, 1994-2001

 

 

1

 

Vite parallele di uomini illustri, continuazione: Eduard e Solenicyn hanno lasciato il paese nello stesso momento, la primavera del 1974, e vi fanno ritorno nello stesso momento, esattamente vent’anni dopo. Quei vent’anni, Solenicyn li ha trascorsi dietro il filo spinato con cui aveva circondato la sua proprietà nel Vermont per tenere lontani i curiosi – usciva soltanto per scagliare quegli anatemi contro l’Occidente che gli hanno valso la solida reputazione di avere un brutto carattere –, scrivendo sedici ore al giorno per trecentosessantacinque giorni all’anno un ciclo di romanzi sulle origini della rivoluzione del 1917 al cui confronto Guerra e pace è un esile racconto psicologico sul genere dell’Adolphe. Non lo ha mai abbandonato la certezza di tornare un giorno, da vivo, in patria, e di trovare tutto cambiato. Ed ecco che l’Unione Sovietica non esiste più, e lui ha terminato La ruota rossa: quel giorno è arrivato.

Consapevole della rilevanza storica dell’evento, Solenicyn non vuole che il suo ritorno sia quello di un esule qualunque. No: viaggia in aereo fino a Vladivostok, dove prende il treno per Mosca. Un treno speciale, un mese di viaggio, durante il quale si ferma nei paesi e ascolta le lamentele del popolo – il tutto ripreso dalla BBC. È Victor Hugo che ritorna da Guernsey. È anche, va detto, Louis de Funès nel Nonno surgelato, e a Mosca questo grandioso ritorno viene accolto con indifferenza o ironia: l’eterna e immancabile ironia dei mediocri verso il genio, ma anche quella dei tempi nuovi verso l’anacronismo che è diventato Solenicyn, davanti al quale le folle si sarebbero prostrate cinque anni prima, quando Arcipelago Gulag era appena stato pubblicato e non pareva vero di poterlo leggere liberamente. Ma lo scrittore fa ritorno in un mondo in cui, dopo qualche anno di bulimia, la letteratura, e soprattutto la sua, non interessa più a nessuno: i russi ne hanno abbastanza dei campi di concentramento, le librerie vendono soltanto best seller internazionali e quei manuali che gli anglosassoni chiamano how-to: come dimagrire, come fare quattrini, come realizzarsi al meglio. Le chiacchiere nelle cucine, il culto dei poeti, il prestigio dell’obiezione di coscienza sono cose passate. I nostalgici del comunismo – Solenicyn non ha idea di quanto siano numerosi – lo considerano un criminale, i democratici un ayatollah, gli appassionati di letteratura parlano della Ruota rossa sghignazzando (non l’hanno letto, nessuno l’ha letto), e agli occhi dei giovani, nel cimitero delle icone dell’Unione Sovietica, la figura di Solenicyn quasi si confonde con quella di Brenev.

 

 

Più Solenicyn viene deriso, più Eduard se la gode. I capitani Levitin che gli hanno avvelenato la gioventù sono fuori dai giochi: il barbuto è sepolto sotto le sue stesse prediche e Brodskij è venerato dagli accademici e continua a rimasticare odi a Venezia. Gli fa quasi pena: Venezia, che trovata da vecchio rincoglionito! Sia per Brodskij che per Solenicyn la gloria è ormai alle spalle. Invece, pensa Eduard, per lui sta arrivando ora. Infatti, congedatosi dal suo passato in Francia, Eduard si è stabilito definitivamente a Mosca, dove si è reso conto di essere famoso. Dopo che Semënov ha pubblicato L’epoca gloriosa, sono usciti altri suoi libri, i più scandalosi: Il poeta russo preferisce i grandi negri, Storia di un domestico, Diario di un fallito. È stata la scelta giusta. In Russia non avevano mai letto niente del genere, e se ne vendono centinaia di migliaia di copie. I giornali, abbagliati dalla loro stessa audacia, moltiplicano i servizi su di lui e Eduard non delude le attese. Abita con Nataša in una specie di appartamento occupato in un palazzo evacuato e non ancora ristrutturato, senza illuminazione nelle parti comuni e senza ringhiera lungo le scale. Lui e Nataša posano vestiti di pelle nera e con gli occhiali scuri in quello scenario dark che affascina i fotografi. In Francia, una simile immagine da rockstar sarebbe difficilmente conciliabile con quella di agitatore ultranazionalista, in Russia no: qui si può scrivere su un giornale che periodicamente rispolvera I protocolli dei Savi di Sion ed essere anche un idolo dei giovani. Un’altra differenza tra la Russia e la Francia è che in Russia si possono vendere duecento o trecentomila copie di un libro e restare poveri. La «terapia shock» e la disorganizzazione della rete distributiva riducono i diritti d’autore di Eduard al minimo vitale, ma lui in fondo se ne sbatte. Tra il denaro e la gloria sceglie la gloria, e anche se da giovane ha sognato di avere entrambi ora sa che non è quello il suo destino. Eduard è frugale, spartano, disprezza gli agi, non si sente umiliato dalla povertà che è stata la sua compagna per tutta la vita – anzi, ne trae motivo di aristocratico orgoglio. Eppure, in mancanza di altri finanziamenti, sarà proprio con i suoi magri diritti d’autore che riuscirà a stampare il primo numero del giornale dei suoi sogni.

 

 

In un testo assolutamente megalomane, scritto alcuni anni dopo, Eduard immagina come gli storici del futuro descriveranno quel momento cruciale nella storia della Russia: la fondazione di «Limonka» nell’autunno del 1994. Tutti, scrive, sosterranno di aver preso parte all’avventura, ma in realtà nel piccolo ufficio occupato da Dugin al giornale «Sovetskaja Rossija» c’erano soltanto «il più grande scrittore e il più grande filosofo russi della seconda metà del ventesimo secolo», Nataša che scriveva articoli firmandosi con lo pseudonimo Margot Führer, qualche punk siberiano e alcuni studenti di Dugin che sbevazzavano discutendo di ortodossia, oltre al fedele Rabko che si occupava degli aspetti organizzativi. Il tipografo lo hanno trovato a Tver’, città natale di Rabko. Lui e Eduard sono andati fin laggiù con il vecchio catorcio moldavo per ritirare le cinquemila copie del primo numero e si sono arrangiati alla bell’e meglio per distribuirlo. «Distribuirlo» significava venderlo abusivamente e fare il giro delle stazioni di Mosca per lasciarne alcune copie sui treni che collegavano le grandi città di provincia. La speranza non era che qualcuno lo comprasse, ma che almeno lo aprisse, come si apre una bottiglia affidata al mare. Eduard racconta gli esordi del Partito nazionalbolscevico e di «Limonka» come un’epopea entusiasmante, il cui secondo atto consiste nel riattare un insalubre scantinato dove il gruppo si trasferisce dopo essere stato cacciato dalla «Sovetskaja Rossija». Tutti si rimboccano le maniche («tutti» sarebbero i cinque o sei fondatori storici, escluso Dugin, che come al solito si limita a incoraggiarli e ispezionare i lavori una volta terminati), sgomberano montagne di detriti, preparano il gesso per l’intonaco, riparano le perdite. Per quanto facciano, il luogo rimarrà umido e infestato da topi – ma presto il partito avrà una sede, che verrà chiamata «il bunker».

 

 

Il bunker, Margot Führer… Arrivato a questo punto, dubito che il lettore abbia davvero voglia di sentirsi raccontare gli esordi di un giornaletto e di un partito neofascista come un’epopea entusiasmante. E dubito anch’io di averne voglia.

Tuttavia la faccenda è più complicata.

Chiedo scusa, non mi piace questa frase. Non mi piace l’uso che ne fanno quelli che la sanno lunga. Ma purtroppo spesso è vera. In questo caso lo è. La faccenda è più complicata.

 

2

 

Oggi Zachar Prilepin si avvicina ai quaranta. Vive con la moglie e i figli a Ninij Novgorod, dove dirige l’edizione locale di «Novaja Gazeta», il giornale indipendente su cui scriveva Anna Politkovskaja. Autore di tre romanzi, si trova nella fase di passaggio dal rango di giovane speranza a quello di autore affermato, sia nel proprio paese che all’estero. Il primo dei suoi romanzi parla della Cecenia, dove è stato soldato, il secondo dei dubbi e delle indecisioni di un ragazzo di provincia che crede di dare un senso alla propria vita impantanata diventando un nazbol, vale a dire un militante del Partito nazionalbolscevico. Questo libro è nato dall’esperienza dell’autore e di amici suoi coetanei, perché da più di quindici anni Zachar Prilepin è un nazbol convinto. Del nazbol ha i tratti tipici: è robusto, rasato a zero, indossa vestiti neri, porta Doc Martens, e, con tutto questo, è la dolcezza fatta persona. Bisogna stare attenti, lo so, ma dopo avere trascorso qualche ora con lui sono disposto a giurare che Zachar Prilepin è un uomo formidabile. Onesto, coraggioso, tollerante, uno che guarda la vita come guarda le persone, dritto negli occhi, non per sfida ma per capire e, fin dove possibile, amare. Il contrario del rozzo fascista, e anche il contrario del dandy decadente che si fa sedurre dall’iconografia nazista o staliniana. Nei suoi libri, che sono tradotti e che consiglio vivamente, Prilepin parla della vita quotidiana nella provincia russa, dei lavoretti saltuari, delle sbronze con gli amici, dei seni della donna che ama, del suo amore apprensivo e pieno di meraviglia per i figli. Racconta la crudeltà dell’epoca ma anche i momenti di pura grazia che può riservare una giornata quando non si è distratti. È uno scrittore eccellente, serio e delicato, che si potrebbe, tanto per farsi un’idea, accostare al Philippe Djian degli inizi – ma un Philippe Djian che sia stato in guerra.

Ebbene, ecco che cosa racconta Zachar Prilepin.

 

 

Aveva vent’anni e si rompeva terribilmente le palle nella sua cittadina della regione di Rjazan’, quando un amico gli prestò uno strano giornale arrivato con il treno da Mosca. Né Zachar, né l’amico avevano mai visto niente di simile. Nessuno in Russia conosceva «L’Idiot international», «Actuel», «Hara-Kiri» o le riviste underground americane – tutte influenze rivendicate da Eduard –, e c’era da restare a bocca aperta di fronte a quella grafica chiassosa, a quei disegni ributtanti, a quei titoli provocatori. Sebbene fosse un organo di partito, più che di politica «Limonka» si occupava di rock, di letteratura e soprattutto di stile. Che stile? Quello fuck you, bullshit e gesto dell’ombrello. Il punk in tutto il suo splendore.

Ora, dice Zachar Prilepin, bisogna cercare d’immaginarsi che cosa sia una città russa di provincia. La lugubre vita dei giovani, il loro futuro senza sbocchi e la disperazione che assale chi sia appena un po’ sensibile e ambizioso. Bastava che un solo numero di «Limonka» arrivasse in uno di questi posti e capitasse in mano a uno dei ragazzi sfaccendati, imbronciati, tatuati, che strimpellavano la chitarra e bevevano birra sotto i loro preziosi poster dei Cure o di Che Guevara, ed era fatta. Ben presto furono in dieci, venti, tutta la compagnia di poco rassicuranti sfaticati che ciondolavano nei giardinetti pubblici, pallidi, con i jeans neri strappati: gli usual suspects, i clienti abituali della stazione di polizia. Adesso avevano una nuova parola d’ordine, e si passavano «Limonka» di mano in mano. Era una cosa loro, si rivolgeva proprio a loro. E dietro tutti gli articoli c’era quel tipo, Limonov, e Zachar e gli amici cominciarono a leggere avidamente i suoi libri, e Limonov divenne insieme il loro autore preferito e il loro eroe nella vita reale. Aveva l’età per essere loro padre ma non somigliava a nessuno dei padri che conoscevano. Non aveva paura di niente, aveva avuto la vita avventurosa che fa sognare tutti i ventenni, ai quali diceva (cito): «Sei giovane, non ti piace vivere in questo paese di merda. Non vuoi diventare un anonimo compagno Popov, né un figlio di puttana che pensa soltanto al denaro, né un èekista. Sei uno spirito ribelle. I tuoi eroi sono Jim Morrison, Lenin, Mishima, Baader. Ecco: sei già un nazbol».

  

Bisogna capire, dice ancora Zachar Prilepin, che «Limonka» e i nazbol hanno rappresentato la controcultura della Russia. L’unica: tutto il resto era menzogna, irreggimentazione e compagnia bella. Quindi è chiaro che potevano esserci tipi violenti, altri che il servizio militare aveva reso nervosi o skin che andavano in giro con cani lupo e si divertivano a fare il saluto nazista per mandare in bestia le persone priliènyj, perbene. Ma c’era anche quanto di meglio potessero dare le cittadine della Russia profonda in fatto di fumettisti autodidatti, bassisti rock alla ricerca di compagni per formare un gruppo, gente che ci sapeva fare con i video, timidi che scrivevano poesie di nascosto struggendosi per ragazze troppo belle e sognavano cupamente di compiere una strage a scuola e poi farsi saltare le cervella, come succede in America. I satanisti di Irkutsk, gli Hell’s Angels di Vjatka, i sandinisti di Magadan. «I miei amici» dice piano Zachar Prilepin, e si capisce che anche se ottenesse un successo planetario, con premi letterari, traduzioni e conferenze negli Stati Uniti, la cosa cui tiene di più è rimanere fedele ai suoi amici, gli sbandati della provincia russa.

Questi ragazzi – all’inizio c’erano soltanto ragazzi – erano poveri. Quelli che avevano un lavoro caricavano e scaricavano merci, spazzavano cortili, facevano i muratori o i custodi di posteggi dove uomini appena più vecchi di loro, più furbi di loro, e che loro disprezzavano di tutto cuore, parcheggiavano, schizzandoli di neve sporca, 4x4 che costavano cinquant’anni di stipendio delle loro madri e dai quali scendevano berciando nei cellulari. Quando è crollato il comunismo, Zachar e i suoi amici avevano circa quindici anni. La loro infanzia era trascorsa in Unione Sovietica ed era stata più bella dell’adolescenza e della prima età adulta. Quei giovani ricordavano con tenerezza e nostalgia il tempo in cui le cose avevano un senso, il denaro non era molto ma non c’erano nemmeno molte cose da comprare, le case erano ben tenute e un ragazzino poteva guardare con ammirazione il nonno perché era stato il migliore trattorista del suo kolchoz. Avevano vissuto la sconfitta e l’umiliazione dei genitori – gente modesta ma orgogliosa di essere ciò che era –, ridotti in miseria e privati anche dell’orgoglio. Credo che fosse soprattutto questo a riuscire insopportabile a Zachar e a quelli come lui.

 

 

In breve tempo vennero aperte sezioni del Partito nazionalbolscevico a Krasnojarsk, Ufa, Ninij Novgorod. Un giorno arrivava Limonov, accompagnato da tre o quattro dei suoi. Andavano a prenderlo tutti insieme alla stazione e poi dormivano una volta a casa di uno, una volta dell’altro, e passavano nottate intere a discutere e soprattutto ad ascoltare. Limonov parlava in modo semplice e immaginoso, con l’autorevolezza di chi sa che non verrà interrotto e una predilezione per gli aggettivi «magnifico» e «mostruoso». Tutto era o magnifico o mostruoso, Limonov non conosceva vie di mezzo, e la prima volta che lo vide Zachar pensò: «È un individuo magnifico, capace di atti mostruosi».

Aveva letto tutto di Limonov, perfino i versi giovanili che esprimono, dice Zachar, la freschezza primitiva di un bambino. Adesso però di un bambino Limonov non aveva più niente, la lunga corsa attraverso il mondo gli aveva tolto ogni illusione. «Ciascuno deve impostare la propria strategia di vita» diceva Limonov «sul presupposto dell’ostilità altrui». È l’unica maniera realistica di vedere le cose, e la migliore difesa dall’ostilità altrui è essere coraggiosi, vigili e pronti a uccidere. Bastava passare pochi minuti con lui, sentire l’energia che il suo corpo asciutto e muscoloso, sempre in tensione, emanava nella stanza per essere sicuri che quelle doti Limonov le possedeva tutte. In compenso, non c’era in lui la minima traccia di bontà. Interesse per gli altri, sì, e una curiosità sempre desta, ma non bontà, non dolcezza, non un momento di abbandono. Per questo Zachar, che ammirava Limonov e per nulla al mondo avrebbe ceduto il proprio posto nella cerchia dei discepoli che lo attorniava, non si sentiva del tutto a suo agio con lui, mentre lo era con gli altri nazbol, dei quali si fidava ciecamente. Questi ragazzi, che avevano soprannomi come Negativo, Sciamano, Saldatrice o Cosmonauta, erano ai suoi occhi le migliori creature del mondo: tanto leali e fidate quanto sfrontate e violente. Disposte a dare la vita per salvare quella di un compagno e a finire in prigione per le proprie idee. La morale dei nazbol era l’esatto contrario di quella che imperava tutt’intorno, nel mondo corrotto e senza punti di riferimento che aveva preso il posto dell’Unione Sovietica della loro infanzia. Dopo averli conosciuti, per parecchi anni Zachar frequentò soltanto loro. Tutti gli altri gli sembravano superficiali e noiosi.

«Sono stato fortunato» pensava. «Ho incontrato persone con cui sarebbe un onore morire. Avrei potuto passare tutta la vita senza conoscerle, e invece le ho conosciute. Sono contento».

 

 

Zachar ha incominciato ad andare a Mosca, che dopotutto dista solo quattrocento chilometri da Ninij Novgorod. Le prime volte non c’erano problemi, ma nel corso degli anni la repressione si è inasprita e i nazbol di provincia hanno avuto la consegna di evitare i treni espressi, perché era necessario mostrare la carta d’identità allo sportello con il rischio di venire registrati nei database dell’FSB – come si chiamava ormai il KGB. La soluzione erano i treni locali, gli omnibus che permettevano di spezzare la corsa facendo tappa nelle varie città e sfuggire così ai controlli. Il viaggio durava due giorni, e i nazbol li passavano a ubriacarsi e dormire. Si muovevano in gruppi di tre o quattro, ragazzi foruncolosi con la carnagione pallida e le mani arrossate, in jeans, giubbotto e berretto nero, che la gente guardava di traverso. Mosca li intimoriva. Si sentivano poveri e provinciali. Avevano paura che la polizia li arrestasse nel metrò, paura delle ragazze belle e ben vestite alle quali non osavano nemmeno avvicinarsi, così si affrettavano a raggiungere la fermata Frunzenskaja, nei cui pressi si trovava il bunker. Suonavano alla porta blindata, più volte cambiata perché più volte gli uomini delle forze speciali l’avevano rimossa con la fiamma ossidrica prima di mettere a sacco il locale e portare via con la forza chi si trovava all’interno. La porta si apriva, i ragazzi scendevano la scala che li conduceva allo scantinato. Qui finalmente tiravano un sospiro di sollievo. Erano a casa.

 

 

Nella descrizione di Zachar il bunker è una via di mezzo tra un laboratorio occupato da un collettivo di artisti, un riformatorio, un dojo di arti marziali e un ostello improvvisato per ospitare il pubblico di un festival rock. I manifesti e i dipinti che coprivano le pareti corrose dall’umidità raffiguravano Stalin, Fantomas, Bruce Lee, Nico e i Velvet Underground, Limonov in divisa da ufficiale dell’Armata Rossa. C’erano un grande tavolo che veniva usato per i pasti e per preparare la maquette di «Limonka», un impianto di amplificazione per i concerti, sul pavimento tappeti lisi su cui i giovani sbarcati dalla provincia potevano stendere i sacchi a pelo e buttarsi a dormire dove capitava, tra posacenere pieni e bottiglie vuote, in un penetrante odore di uomini misto a odore di cani. Con l’andare del tempo, sono cominciate ad arrivare alcune ragazze, e Zachar osserva che erano o bruttissime o bellissime, vestite perlopiù in stile punk o gotico. Tra i ragazzi dominavano i crani rasati, ma ce n’erano anche con i capelli lunghi e le basette, e persino alcuni con impeccabili acconciature da venditore di elettrodomestici. Nessuno si stupiva di nulla. Tutti erano ammessi e accettati così com’erano, l’unico requisito era non avere paura né delle botte né della prigione.

In fondo alla grande sala c’erano due uffici. Quello di Dugin, confortevole, dotato di radiatore elettrico, arredato con tappeti e librerie che arrivavano al soffitto, e fornito persino di samovar, benché il filosofo vi si trattenesse, al massimo, qualche ora al giorno. E quello di Eduard, decisamente più spartano, benché spesso facesse anche funzione di alloggio. Scrittore famoso, oggetto di culto negli ambienti trendy di Mosca e San Pietroburgo, Eduard conosceva una quantità di artisti e di gente alla moda, e tutti hanno frequentato per qualche tempo il bunker come a New York avrebbero frequentato la Factory di Andy Warhol. I militanti di base erano un po’ intimiditi di fronte ai famosi musicisti rock, alle cantanti e alle modelle che si facevano strada fra i sacchi a pelo e i cani lupo per raggiungere il grande tavolo al quale il mio amico editore Saša Ivanov ricorda di aver trascorso le serate più eccitanti degli anni Novanta. Lì si trovavano, racconta, persone che non si incontravano da nessun’altra parte: giovani, originali, prive di cinismo, con gli occhi che brillavano di entusiasmo. Era un luogo incredibilmente vivo.

I seguaci di Dugin, studenti fascisti con grosse cartelle o preti ortodossi antisemiti, non erano altrettanto glamour, anzi, ma se Dugin era in vena e fiutava il pubblico giusto allora «il più grande filosofo russo della seconda metà del ventesimo secolo» si univa alla compagnia e ammaliava l’uditorio di artisti alla moda e rudi adolescenti di provincia con le belle storie del suo repertorio: l’eroico sacrificio dei kamikaze giapponesi, il suicidio di Mishima, la setta di paramilitari buddhisti creata in Mongolia dal barone von Ungern-Sternberg. Con la sua barba nera, le sopracciglia folte, la voce calda, Dugin tornava a essere l’affabulatore ispirato da cui Eduard era stato stregato. Purtroppo il fascino così convincente che sprigionava dalle sue parole non si trasmetteva alla pagina scritta. Eduard, che si occupava praticamente da solo di «Limonka», non osava rifiutare gli articoli aridi, astratti e noiosi che ogni mese il cofondatore e ideologo del partito gli passava con fare solenne, quasi gli stesse consegnando il Sacro Graal. Dugin sembrava realmente convinto che quelle sue dissertazioni teoriche fossero la punta di diamante del giornale, il motivo per cui i lettori correvano a leggerlo. Non gli piacevano né il tono né la veste grafica di «Limonka», avrebbe preferito una di quelle grigie riviste di nicchia cui era abbonato: i bollettini parrocchiali dell’estrema destra europea.

Più passava il tempo più il solco tra i proseliti dei due uffici si approfondiva. Come i brahmani guardano dall’alto in basso i paria, così i discepoli di Dugin guardavano l’orda di proletari reclutati da Eduard, amanti del rock e delle risse, poco toccati dalla gloriosa storia del fascismo, che anzi infastidiva i più sensibili tra loro. Era questo il caso di Zachar, che odiava tutti quei riferimenti ai corpi franchi e alle squadre d’assalto, e non trovava molto divertente che Eduard chiamasse amichevolmente Dugin «dottor Goebbels». Zachar si è sentito piuttosto sollevato quando, a seguito di contrasti sempre più aspri, Dugin ha finito per lasciare il partito e fondare un centro di studi geostrategici, oggi florido e finanziato dal Cremlino. Basta brahmani: d’ora in poi si era fra paria, e Zachar preferiva così.

 

3

 

In San’kja, il suo romanzo sui nazbol, Zachar racconta una conversazione fra il protagonista e un vecchio insegnante, che gli vuole bene e cerca di capirlo. L’insegnante ha sfogliato con curiosità alcuni numeri di «Limonka». Il nome del partito, la bandiera e gli slogan lo mettono a disagio, ma acconsente a interpretarli come provocazioni, sulla scia dei surrealisti francesi, da lui venerati. Le azioni dei militanti – disegnare graffiti sui treni, srotolare striscioni sul frontone di monumenti difficili da scalare o, in occasione di cerimonie ufficiali, lanciare pomodori sulla giacca del governatore – gli sembrano al contempo immature, simpatiche e coraggiose. Simpatiche perché coraggiose: in Russia non si scherza con l’ordine pubblico, e quelle bravate goliardiche, che in Europa occidentale si concluderebbero con una multa, costano ai loro autori pene detentive che essi scontano con orgoglio. Il protagonista del romanzo (e, immagino, Zachar stesso dieci anni prima) parla della patria, delle sofferenze della patria, dell’essenza della patria con fervida e ombrosa serietà. L’insegnante è preoccupato da questi discorsi e dice al suo studente di un tempo che quando i russi cominciano a montarsi la testa con la loro patria, a parlare della grandezza del loro impero o della santità della loro missione, e a dire cose come «la Russia non bisogna cercare di capirla, bisogna crederci», allora i guai sono dietro l’angolo. «Sarebbe molto meglio» continua il professore «se per una volta si lasciasse i russi vivere, o cercare di vivere, una vita normale. Per ora è difficile, ma ci si arriverà. Per ora ci sono pochi ricchi e molti poveri, ma sta crescendo una classe media che aspira soltanto al benessere e a vivere al riparo dagli scossoni della storia, e per il nostro paese non c’è nulla di meglio».

No, il protagonista di Zachar non la pensa così. Lui vuole di più, vuole altro. «Ma cosa? Più cosa?» si altera il professore. «Più ordine? Più disordine? A leggere il vostro giornale non si capisce che cosa avete in testa. Sbraitate: “Unione Sovietica! Unione Sovietica!”. È questo che volete? Tornare indietro? Restaurare il comunismo?».

 

 

Non è una domanda retorica: è quella che si pone alle elezioni presidenziali del 1996. Dire che le elezioni partono con il piede sbagliato per El’cin e i democratici è un eufemismo. La «terapia shock» e la prima ondata di privatizzazioni hanno avuto conseguenze devastanti: il paese è piombato nel caos e la maggior parte della popolazione considera quello che è successo dopo il 1989 né più né meno una catastrofe storica. El’cin, in cui erano state riposte tante speranze, sembra non avere più il controllo di niente. Barricatosi nel Cremlino, ha rapporti soltanto con i familiari e il responsabile della sicurezza, una specie di tonton macoute di nome Korjakov, e cura quelli che chiama i suoi «pensieri neri» (chiaramente una grave depressione) bevendo oltre ogni ragionevole limite. Per quanto comprensivi siano i russi nei riguardi dell’alcolismo, non trovano più molto divertente che il loro presidente si presenti ubriaco fradicio a ogni vertice internazionale in cui li rappresenta. E si vergognano profondamente quando, sul palco destinato alle autorità convenute a Berlino per la commemorazione solenne della vittoria del 1945, lo vedono prima ciondolare il capo, poi mettersi a scandire il tempo con un’espressione sempre più allegra, e infine alzarsi barcollante sotto lo sguardo attonito degli altri capi di Stato e cercare di dirigere lui stesso la banda militare. L’alternarsi di momenti di euforia etilica e di cadute nei buchi neri della depressione è un terreno favorevole – come si vede nel caso del capitano Haddock – alle spinte bellicistiche dei falchi dello Stato maggiore, i quali si fanno suggerire dal venale Korjakov il momento psicologicamente più adatto per convincere El’cin che una guerricciola ben condotta contro i «culi neri» taglierebbe l’erba sotto i piedi ai nazionalisti e restituirebbe al presidente la popolarità svanita.

Prima di venire assassinato, mio cugino Paul Klebnikov che, vi garantisco, era quanto di più lontano vi fosse da un complottista, spiegava l’azione dei falchi con questa tesi: la Cecenia, indipendente dal 1991 e governata da un ex apparatèik sovietico convertitosi in men che non si dica all’islam, era senza alcun dubbio una zona franca per la criminalità organizzata, un crocevia del traffico di droga e di valuta falsa; ciò nonostante la Russia, benché la fetta di torta destinatale si fosse rimpicciolita, continuava a trarne il proprio utile e non aveva nessuna fretta di intervenire. Aveva fretta, invece, di nascondere la massiccia corruzione degli alti comandi militari. I generali avevano venduto al mercato nero enormi quantità di armi, di munizioni e soprattutto di mezzi corazzati, e avevano bisogno di un grande conflitto in un luogo qualsiasi per far passare come ufficialmente distrutto in guerra il materiale sottratto.

Non so se questo motivo sia stato determinante come pensava Paul, sta di fatto che l’esercito russo non ha badato a spese. Nella fase culminante dell’assedio di Sarajevo si contavano tremilacinquecento esplosioni al giorno, mentre già all’inizio dell’assedio di Groznyj, nel dicembre del 1994, le esplosioni erano quattromila all’ora. La città è stata rasa al suolo come Vukovar. Ma i ceceni, fedeli alla fama di coraggio e crudeltà di cui godono da due secoli nella letteratura russa, hanno reagito con una guerriglia senza quartiere, bruciando i soldati russi nei loro carri armati e compiendo sanguinari attentati in territorio nemico. I quarantamila giovani – tra i quali Zachar Prilepin - richiamati sotto le armi con la promessa di una guerra lampo vittoriosa e di un trionfale ritorno a casa si sono così ritrovati impantanati in una situazione non meno orribile di quanto lo era stato l’Afghanistan per i loro padri o i loro fratelli maggiori. Dal ritiro delle truppe dall’Afghanistan, ordinato da Gorbaèëv nel 1988, sono trascorsi solo sei anni di pace prima dell’inizio di un’altra sporca guerra da cui ancora una volta i giovani russi tornano, quando tornano, storpi, umiliati, stravolti. El’cin, così amato all’inizio, è ora più odiato del suo predecessore, e le elezioni presidenziali sembrano mettersi così male per lui che pensa seriamente di annullarle. Come gli ripete, nella sauna, il tonton macoute Korjakov: «Boris Nikolaeviè, la democrazia è una bella cosa, ma senza elezioni si è più sicuri».

 

 

Stavolta l’alternativa non è rappresentata da un istrione come irinovskij, ma né più né meno dai comunisti. Cinque anni prima El’cin ha dichiarato fuori legge il partito. Sembrava si fosse chiuso per sempre il terribile e grandioso esperimento condotto sul genere umano in Unione Sovietica. Ora, dopo appena cinque anni di vita democratica, tutti i sondaggi sono concordi, e bisogna arrendersi alla sconcertante evidenza: la gente non ne può più della democrazia, del mercato e dell’ingiustizia che si portano dietro, e si appresta a votare in massa per il Partito comunista.

Il suo leader, Zjuganov, non propone di riaprire i gulag o ricostruire il Muro di Berlino. Con l’etichetta «comunista», questo politico scialbo e prudente non vende tanto la dittatura del proletariato quanto la lotta contro la corruzione, un po’ di orgoglio nazionale e la missione spirituale della Russia ortodossa di fronte al nuovo ordine mondiale. Zjuganov dichiara che Gesù è stato il primo comunista, promette che, se diventerà presidente, i ricchi saranno meno ricchi, i poveri meno poveri, e almeno sul secondo punto del programma avrebbero dovuto essere tutti d’accordo: chi vuole davvero che i vecchi muoiano di fame e di freddo?

Ma l’idea che ci si proponga di renderli meno ricchi spaventa gli oligarchi, tanto più che questi hanno appena escogitato un’incredibile frode in cui hanno coinvolto El’cin e che permetterà loro di diventare ancora più ricchi: i «prestiti in cambio di azioni». L’idea è semplice: le banche degli oligarchi prestano denaro allo Stato, che ha le casse vuote, e in cambio lo Stato dà in pegno i gioielli non ancora privatizzati dell’economia russa – gas e petrolio, le vere ricchezze del paese –, e se i prestiti non vengono rimborsati entro un anno, gli oligarchi passeranno all’incasso e diventeranno proprietari dei beni dello Stato. Il termine scade dopo le elezioni presidenziali, e dunque per gli oligarchi è di cruciale importanza che a quella data il presidente sia ancora El’cin, e non Zjuganov, che per dare prova della propria integrità potrebbe invalidare l’accordo.

La cronaca vuole che gli oligarchi si siano accorti del pericolo al vertice di Davos, dove si riuniscono gli ultraricchi e gli ultrapotenti del pianeta. Nel 1995 infatti, Zjuganov, che gli oligarchi considerano un ridicolo politico da strapazzo, ha avuto l’impudenza di presentarsi a Davos, dove gli ronza attorno uno sciame di giornalisti e di consiglieri di capi di Stato che raccolgono le sue parole, per altro moderate, con il rispetto dovuto al futuro padrone della Russia. «Cazzo» pensa Berezovskij, il più rappresentativo degli oligarchi, l’uomo che tutti adorano odiare perché è ebreo, geniale e privo di scrupoli. Berezovskij va a farsi un goccetto con George Soros, il grande finanziere americano che in Russia ha messo in piedi fondazioni e programmi filantropici di ogni genere.

«Insomma,» dice Soros «pare che si preparino a riprendervi la torta prima che abbiate finito di spartirvela».

«Già» sospira Berezovskij.

«Può anche darsi» aggiunge soavemente Soros «che vi spediscano in Siberia. Ragazzi, fossi in voi starei attento».

Questo dialogo mette in agitazione Berezovskij, che seduta stante chiama sui loro cellulari gli altri sei oligarchi più potenti di Russia, proponendo loro di accantonare per il momento le divergenze (la più spettacolare è quella che oppone lo stesso Berezovskij a Gusinskij: i loro eserciti si ammazzano senza ritegno) e di unire le risorse per fare rieleggere il vecchio zar. I sette riversano nella campagna elettorale tutta la loro forza finanziaria e mediatica – e la loro forza mediatica significa tutti i media. Tutti i giornali, tutte le radio, tutti i canali televisivi ripetono ossessivamente questo messaggio: o El’cin o il caos. O El’cin o il grande salto all’indietro. E perché nessuno si scordi o idealizzi quel che è stato il comunismo, vengono diffusi ventiquattr’ore su ventiquattro terrificanti documentari sui gulag, sulla carestia pianificata da Stalin in Ucraina, sul massacro di Katyñ. Vengono prodotti grandi film sentimentali sulle epurazioni, come Sole ingannatore di Nikita Michalkov. A me questo film piace molto, ma posso immaginare quanto debba essersi incazzato Limonov, se lo ha visto, lui che ha sempre avuto il dente avvelenato contro Michalkov, discendente di una grande famiglia della nomenklatura culturale, amico dei dissidenti purché non vi fossero pericoli da correre, benvoluto da tutti i regimi e diventato, logicamente, il bardo della controrivoluzione. Quelle dacie sotto il sole estivo, quelle famiglie numerose e contente che trascorrono giorni sereni, e il subdolo commissario politico che per invidia e fanatismo manda in frantumi tutta quella felicità: Sole ingannatore è un film staliniano alla rovescia, e allora, staliniani per staliniani, Eduard preferisce gli originali, che erano meno furbi, e avevano l’autenticità di ciò che si è visto da piccoli.

 

 

Anche i nazbol dell’età di Zachar sono disgustati da quell’ondata di propaganda che nega quanto gli è stato insegnato ad amare e mette l’ideale per il quale hanno combattuto i loro padri sullo stesso piano del nazismo. Che fare di quel disgusto, come tradurlo in una posizione politica? I nazbol vorrebbero che il loro capo glielo dicesse, ma per lui El’cin e Zjuganov sono uno peggio dell’altro, e Eduard non trova niente di meglio che allearsi con il «blocco staliniano», un gruppuscolo ancora più ininfluente del suo, per poi cedere il posto di candidato di quell’assurda coalizione a un certo Viktor Dugašvili, che non è soltanto il pronipote di Stalin ma anche il suo sosia, con tanto di baffi e pipa.

Al secondo turno (dopo il primo, El’cin ha avuto un infarto che è stato tenuto il più possibile nascosto) Limonov deve pur dire ai suoi nazbol per chi votare, e allora li sorprende con la teoria secondo cui più si precipita nel caos meglio è per la rivoluzione. Quindi: El’cin. Questa finezza non gli sarà perdonata, e sarà all’origine della voce che fa di Limonov, sotto le sue arie da provocatore, un agente al soldo del Cremlino. Lui stesso trarrà dall’episodio la conclusione che in politica bisogna diffidare dei paradossi. Le masse non li capiscono, il Mein Kampf è chiarissimo al riguardo.

In realtà, in questo momento hanno tutti l’impressione che Limonov sia fuori di testa, ed è vero: è fuori di testa perché Nataša lo ha appena lasciato.

 

 

Non so granché circa i motivi e le circostanze che hanno spinto Nataša ad andarsene. Le opere di Limonov di questo periodo sono molto meno personali di quelle giovanili, ma sembra che abbia reagito in modo non meno parossistico di quando era stato piantato da Tanja. Un testo piuttosto delirante, scritto a caldo, fornisce della fine dei loro tredici anni di vita in comune un’interpretazione «filosofica e mistica» in cui si riconosce l’influenza di Dugin, che non ha ancora abbandonato la nave. Eduard racconta di coincidenze inquietanti, sogni premonitori, vagabondaggi allucinati, e persino, lui così prosaico e insofferente verso Il maestro e Margherita, di un assai poco credibile incontro con il diavolo per le strade di Mosca. Consulta un’indovina, e questa gli dice che in una vita precedente lui era un cavaliere teutonico e Nataša una prostituta da lui protetta. L’interpretazione gli sembra illuminante. Sì, lui l’ha protetta come un prode cavaliere. Le è stato leale, fedele, come lo è stato nei confronti di Tanja, e Nataša, come Tanja, lo ha tradito. Eduard cerca di convincersi che Nataša è indegna di lui, che merita solo il suo disprezzo, ma mentre cammina sino allo sfinimento nella soffocante estate moscovita non può fare a meno di ripetere tra sé, come una litania, la descrizione del corpo di lei: le grandi mani tanto agili da parere disarticolate, i candidi seni un po’ cascanti, la fica sempre umida, sempre pronta per il suo cazzo e, purtroppo, per quello di altri uomini. Lei lo arrapava come nessun’altra donna in vita sua, a parte Tanja. Eduard pensa al modo in cui Nataša si masturbava, nuda sulla tazza del cesso nel loro monolocale di rue de Turenne, sognante, senza smettere di fumare. Steso sul materasso, lui la guardava dalla porta aperta. Ricorda il giorno in cui, tornato dalla sua catastrofica campagna elettorale, l’ha trovata gettata di traverso sul letto, ubriaca, e Nataša quando si è accorta di lui gli ha detto: «Mi sgriderai dopo; prima scopami». Sebbene Dugin gli ripeta con solennità la frase di Nietzsche che gli amici colti tirano sempre fuori in occasioni simili – «tutto quel che non mi uccide mi rende più forte» –, Eduard soffre come un cane. Darebbe la vita per affondare ancora una volta nel ventre di quella cantante sublime e fallita, di quell’alcolizzata, di quella ninfomane, di quella creatura degli abissi e dell’eccesso che ha avuto l’incredibile fortuna, pensa lui, di essere la donna di Eduard Limonov e che adesso ha l’impudenza, ancora più incredibile, di non volerlo essere più.

 

 

Questo periodo di semidelirio termina subito dopo le elezioni ampiamente truccate che danno la vittoria a El’cin. Una sera, mentre Eduard sta tornando a casa da solo per una strada deserta, gli piombano addosso tre tizi che lo scaraventano a terra e lo riempiono di calci alle costole e al volto. Non vogliono ucciderlo – se avessero voluto avrebbero benissimo potuto farlo –, ma l’avvertimento è serio: Eduard resta in ospedale otto giorni e per poco non perde un occhio.

Si è chiesto spesso chi gli abbia mandato quell’avvertimento, e perché. L’indiziato principale è il generale Lebed’, ex paracadutista, eroe della guerra in Afghanistan, che sembra una versione Arnold Schwarzenegger lievemente più massiccia e ha fama di ruvida onestà. È arrivato terzo alle presidenziali, e molti in Russia, ma anche in Occidente, lo considerano una specie di de Gaulle siberiano. Alain Delon, rivelando un inaspettato interesse per la politica interna russa, gli ha espresso il proprio appoggio dalle pagine di «Paris Match». Eduard invece lo odia, primo perché odia, più che i suoi avversari naturali, quelli che occupano la sua stessa nicchia di mercato ma con più successo di lui – e questo è il caso di Lebed’ per la categoria: «uomini veri» –, poi perché, nonostante sia un generale, Lebed’ si è opposto con coraggio alla guerra in Cecenia e non si risparmia nel tentativo di trovare una via d’uscita onorevole. Il giornale di Eduard conduce una violenta campagna contro di lui e, sebbene «Limonka» sia soltanto una fanzine stampata in cinquemila copie e letta da punk di provincia, non si può escludere dopotutto che l’onesto generale, o qualcuno dei suoi, abbia manifestato la propria irritazione come si è soliti manifestarla in Russia, anche nei migliori ambienti.

Da quel giorno, comunque, Eduard non farà più un passo in strada senza la scorta di tre nazbol la cui stazza è un chiaro deterrente. Non è l’unico: in Russia tantissima gente ha le sue guardie del corpo private. Una volta, a Mosca, ho rimorchiato una ragazza che ne aveva una. Al ristorante, mentre le facevo gli occhi dolci, da sopra la spalla della ragazza vedevo il suo gorilla: cenava al tavolo vicino, con il volto assolutamente inespressivo. Nel prosieguo della serata è rimasto di guardia davanti alla porta. All’inizio è un po’ sconcertante, ma poi ci si fa l’abitudine.

 

4

 

Gli stranieri arrivati in Russia in cerca di fortuna – uomini d’affari, giornalisti e avventurieri – parlano con nostalgia del secondo mandato di El’cin. Gli anni 1996-2000 sono stati il periodo più rock’n’roll della loro vita. In quegli anni Mosca è il centro del mondo. Da nessun’altra parte le notti sono tanto folli, le ragazze tanto belle, i conti tanto salati. Tutto questo, naturalmente, per quelli che possono permetterselo. Ma quelli che non possono, nessuno più li sente. Non scendono in piazza nemmeno quando il crac del 1998 manda in fumo per la seconda volta in dieci anni tutti i loro poveri risparmi. Se ne stanno nei loro squallidi bar, intontiti, ipnotizzati dalla televisione che mostra soltanto il mondo da favola dei ricchi che abitano nelle metropoli, le splendide ragazze che pagano distrattamente con una carta Gold un piatto di sushi che costa come lo stipendio annuale di una maestra, e i giovanotti arroganti, circondati da un esercito di guardie del corpo con auricolare, che vanno in aereo privato a Courchevel per fare il bagno nelle loro Jacuzzi riempite di Veuve Clicquot. La rapina dei «prestiti in cambio di azioni» ha funzionato al di là di ogni aspettativa: Chodorkovskij, per esempio, ha acquistato per centosessantotto milioni di dollari la compagnia petrolifera Yukos, che guadagna tre miliardi all’anno. Ora gli oligarchi hanno tutto, assolutamente tutto: patrimoni immensi, costruiti sulle materie prime e non sulla tecnologia, patrimoni che non creano ricchezza pubblica e svaniscono in un opaco intreccio di società offshore, a Vaduz o alle isole Cayman. Ci si può scandalizzare, ma si può anche dire, come mia madre: «Sono dei banditi, ovviamente, ma questa è soltanto la prima generazione di capitalisti russi. In America all’inizio è stato lo stesso. Gli oligarchi non sono onesti, ma fanno crescere i loro figli in ottimi collegi in Svizzera perché possano, loro sì, concedersi il lusso di esserlo. Vedrai. Aspetta la prossima generazione».

 

 

Anche la politica viene privatizzata. Il libro che il mio coraggioso cugino Paul Klebnikov ha tratto dalle sue inchieste su Berezovskij si intitola Godfather of the Kremlin – perché Berezovskij è esattamente questo, un padrino. Nel momento del trionfo non si distingue per riservatezza e non perde occasione per ricordare che in Russia il potere è lui, che se il vecchio zar è ancora sul trono lo deve a lui e che in cambio El’cin farà tutto quello che vorrà lui. L’opposizione è allo sbando, il popolo catatonico, e Eduard, in assenza di un obiettivo verso cui dirigere la propria strabocchevole energia, freme di rabbia. Il pestaggio subìto non lo ha affatto calmato. Nataša è stata sostituita da Liza, una incantevole e longilinea punk di ventidue anni, che somiglia ad Anne Parillaud in Nikita ed è pazza di Eduard. Ma, per via delle aspettative che ha sul proprio destino, a lui non bastano né questo nuovo amore né la direzione di un giornale underground né la letteratura. «Se un artista» scrive «non capisce per tempo che deve dedicarsi a qualcosa di più elevato di se stesso, come un partito o una religione, allora lo attende un miserabile destino fatto di sbronze, trasmissioni televisive, pettegolezzi, meschine rivalità, e per finire un infarto o un cancro alla prostata». La religione la tiene da parte per il futuro. Il partito ce l’ha, e anche se non sa bene che farne è comunque qualcosa, una forza, e per misurare questa forza decide di organizzare un congresso.

 

 

Sono arrivati, ci sono tutti. No, non tutti – in Russia sono settemila –, ma parecchie centinaia sì, sbarcati da ogni parte del paese, come per un festival rock. I delegati più impazienti, giunti con qualche giorno di anticipo, si sono sistemati nel bunker, per gli altri sono stati allestiti dei dormitori in un alloggio per lavoratori. Non è stato facile. Non è stato facile nemmeno trovare una sala. Ogni qual volta un proprietario accettava, tornava il giorno dopo per dire che, a pensarci bene, no – nel frattempo la polizia doveva avergli spiegato che non si trattava di una buona idea. Fino all’ultimo Eduard e i suoi hanno temuto il peggio: un allarme bomba, delle provocazioni, un divieto puro e semplice. Ma il peggio non accade e il congresso si apre, Eduard è sul palco, sotto l’immenso poster di Fantomas, ed è raggiante. Sono tre anni che lui e pochissimi altri si sbattono per portare nelle stazioni le copie del giornale che poi viaggiano verso remoti paesini, e oggi vedono il risultato: delle persone concrete, dei fratelli.

Non sono i Siegfried che sognava Dugin, ma cupi e foruncolosi adolescenti di provincia, dalla pallida carnagione chiazzata di rosso, che camminano per strada in colonne, e se per caso entrano in un bar si mettono a contare imbarazzati i soldi, si guardano i grossi scarponi e ordinano una consumazione per quattro: clienti poveri, i nazbol, che temono di essere ridicoli e mostrano i denti per paura di essere presi in giro. Senza Eduard, sarebbero alcolizzati o delinquenti. Lui ha dato un senso alle loro vite, uno stile, un ideale, e per questo i nazbol sono pronti a morire per lui. Eduard è fiero di loro, fiero che ora ci siano tra loro delle ragazze, che – come ha osservato Zachar Prilepin – sono o bellissime o bruttissime, non c’è via di mezzo, ma anche le brutte sono benvenute, e la più bella di tutte è la sua, quella lunga Liza dal cranio rasato che lo guarda amorevolmente mentre lui parla, parla, avvolto dall’adorazione di tutti.

Eduard dice che la Russia è governata da gente vecchia, straricca e corrotta, e che sono loro, i nazbol, l’avvenire del paese. Il solito ritornello. Ma dice anche altro, su cui ha molto riflettuto, e cioè che la situazione politica non è matura. L’uomo davvero grande, come ha ripetuto invano a quell’imbecille del generale Ruckoj dentro la Casa Bianca assediata, sa capire quando la situazione è matura, e in quel momento no, non lo è. Le coalizioni alla cazzo di cane con ortodossi antisemiti o pronipoti di Stalin è meglio lasciarle perdere. Per ora i nazbol non prenderanno il potere in Russia. Un giorno sì, ma non ora. Tuttavia non dovranno accontentarsi di leggere «Limonka» e strimpellare le loro chitarre in un cantuccio. C’è qualcosa da fare. Non nel paese stesso, ma alla sua periferia, nei territori abbandonati dal traditore Gorbaèëv, il quale oltre ai territori ha abbandonato venticinque milioni di russi che erano i quadri dell’Unione Sovietica e che da quando l’Unione ha smesso di esistere non sono più nulla. Quei russi prima portavano la civiltà, ora sono accerchiati dall’islam o dall’ideologia democratica – e non si sa quale dei due sia peggio. Prima dominavano, ora sono umiliati, ostracizzati, nel migliore dei casi tollerati in paesi che a loro devono tutto e sono stati irrigati dal loro sangue: proprio come i serbi nell’ex Iugoslavia. Il traditore El’cin non è voluto correre in aiuto dei serbi, e non correrà in aiuto nemmeno dei novecentomila russi in Lettonia, degli undici milioni di russi in Ucraina, dei cinque milioni di russi in Kazakistan. La nuova battaglia consisterà dunque nell’accendere focolai d’insurrezione in questi territori e incoraggiare la creazione di repubbliche separatiste. Due sono gli obiettivi: i paesi baltici e l’Asia centrale. Nei paesi baltici il partito è già ben radicato, con un centinaio abbondante di nazbol a Riga. Per quanto riguarda l’Asia centrale, Eduard è in grado di annunciare che compirà lui stesso una spedizione per sondare il terreno. Partirà presto e conta sulla compagnia di una decina di coraggiosi. Tutte le candidature sono ben accette.

Cento mani si alzano. Esplode l’entusiasmo generale, si scatena un uragano di applausi. Per i più arditi fra i nazbol si apre una nuova frontiera. È un momento storico: proprio come quando, pensa Eduard, Gabriele D’Annunzio ha arruolato un battaglione di eroi per riprendere Fiume. Da dietro le quinte Liza gli manda baci.

 

 

La spedizione dei nazionalbolscevichi in Kazakistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan dura due mesi. In otto hanno accompagnato il capo, otto ragazzi tipo parà che una serie di fotografie pubblicate in Anatomia dell’eroe mostra davanti ai carri armati insieme a componenti delle truppe russe di stanza laggiù. Durante una serata molto alcolica ho fatto vedere queste foto a uno dei miei amici, e lui ne ha riso a crepapelle. «Ma fammi il piacere,» mi ha detto «è soltanto una combriccola di froci. Sono andati laggiù per metterselo nel di dietro in santa pace». Ho riso anch’io, non ci avevo pensato. Sinceramente non credo, ma chi può dirlo?

Certo è che Liza e le donne degli altri, se ne avevano, sono rimaste da brave a casa. Sembra però che Eduard non fosse tanto dispiaciuto per l’assenza della sua compagna, quanto per quella del mercenario francese Bob Denard, che aveva incontrato a Parigi e che aveva cercato di coinvolgere nell’avventura. Quel grande esperto di golpe nonché di losche imprese in Africa avrebbe potuto essere un aiuto prezioso per capire se c’erano i presupposti per operazioni di destabilizzazione. Purtroppo Bob Denard aveva altre gatte da pelare. Di sicuro Eduard, anche se non ha potuto destabilizzare granché, ha scoperto paesaggi che l’hanno incantato. Ha adorato l’Asia centrale, e non tanto, a dire la verità, i russi dell’Asia centrale, in teoria oggetto della sua attenzione, quanto gli uzbeki, i kazaki, i tagiki e i turkmeni, a proposito dei quali snocciola tutta una serie di stereotipi che sono, credo, altrettante verità: popolazioni fiere, ombrose, povere, ospitali, depositarie di tradizioni di violenza e vendetta, a cui va tutta la sua simpatia. Partito sotto il segno di Gabriele D’Annunzio, Limonov torna sotto quello di Lawrence d’Arabia: si sente un liberatore, non più di russi ottusi ma di montanari uzbeki o kazaki che dopotutto hanno, anche loro, motivo di avercela con i dittatori locali. Lui che, influenzato dagli amici serbi, era tanto ostile all’islam, ora stravede per i musulmani, e allarga questa improvvisa infatuazione persino ai ceceni, di cui esalta la frugalità, il talento per la guerriglia e una certa eleganza nella crudeltà. Bisogna dare atto di una cosa, a questo fascista: gli piacciono e gli sono sempre piaciuti soltanto quelli che sono in posizione di inferiorità. I magri contro i grassi, i poveri contro i ricchi, le carogne dichiarate, che sono rare, contro le legioni di virtuosi, e il suo percorso, per quanto ondivago possa sembrare, ha una sua coerenza, perché Eduard si è schierato sempre, senza eccezioni, dalla loro parte.

 

5

 

Quando il secondo mandato di El’cin volge al termine gli oligarchi si mettono alla ricerca di un successore altrettanto accondiscendente. Il più astuto di loro, Berezovskij, ha un’idea: un èekista completamente sconosciuto alle masse, Vladimir Putin. Ex ufficiale dei servizi segreti in Germania dell’Est, ha vissuto un brutto periodo di crisi all’indomani della caduta del Muro, e poi si è rifatto una posizione all’interno dell’FSB, che dirige da un anno, senza infamia e senza lode. Durante i vari incarichi ricoperti ha dato prova di assoluta lealtà verso i superiori, ed è su questa preziosa qualità che Berezovskij richiama l’attenzione dei colleghi: «Non un’aquila,» dice «ma ci mangerà in mano». Delegato dalla gang degli oligarchi, Berezovskij prende il suo aereo privato e atterra all’aerodromo di Biarritz, dove Putin sta trascorrendo le vacanze con moglie e figli in un albergo di media categoria. Quando l’oligarca gli propone l’affare, Putin risponde con modestia che non è sicuro di essere all’altezza.

«Via via, Vladimir Vladimiroviè. Volere è potere. E poi non si preoccupi: ci saremo noi ad aiutarla».

 

 

Anticipiamo il seguito: Berezovskij, tanto fiero del proprio machiavellismo, ha appena fatto la peggiore mossa della sua carriera. Come in un film di Mankiewicz, l’ufficiale scialbo e ossequioso si rivelerà un’implacabile macchina da guerra che eliminerà l’uno dopo l’altro quanti lo hanno fatto re. Tre anni dopo l’abboccamento di Biarritz, Berezovskij e Gusinskij saranno costretti all’esilio. Chodorkovskij, l’unico ad aver cercato di ravvedersi provando a moralizzare la gestione del proprio impero petrolifero, verrà arrestato e, dopo un processo scandaloso, spedito come nel buon tempo antico in Siberia, dove, nel momento in cui scrivo, sta ancora marcendo. Gli altri si mettono in riga: hanno capito chi comanda.

Intanto però il pudico e modesto Vladimir Vladimiroviè viene presentato al popolo da El’cin, che sei mesi prima del voto lo designa suo successore. Le elezioni sembrano ormai una pura formalità, ma per essere sicuri che il nuovo arrivato vi prenda parte nelle vesti di salvatore della patria non c’è niente di meglio che una bella guerricciola, anche stavolta in Cecenia. Il pretesto è una serie di attentati che nell’autunno del 1999 colpiscono alcuni edifici alla periferia di Mosca provocando più di trecento vittime fra i civili. Circola il sospetto che gli attentati, attribuiti senza alcuna prova a terroristi ceceni, siano stati in realtà compiuti dall’FSB. Questa tesi è stata sostenuta pubblicamente dal generale Lebed’, dal giornalista Artëm Borovik, dall’ex ufficiale degli organi Aleksandr Litvinenko e da mio cugino Paul Klebnikov. Tutti e quattro sono morti di morte violenta: Lebed’ e Borovik in incidenti sospetti, Litvinenko avvelenato con il polonio, Paul ucciso da una raffica di kalashnikov. Paranoica ma allo stesso tempo non inverosimile, la tesi sugli attentati del 1999 è ancora ampiamente diffusa tra i russi, i quali – ed è questa la cosa più strana – non ne sono più di tanto turbati e votano e rivotano in massa Putin, pur ritenendolo colpevole, o almeno capace, di un simile delitto.

A ogni modo, qualche mese dopo il suo lancio in orbita, Putin non è più né pudico né modesto. Quando dichiara di volere «inseguire i terroristi fin dentro i cessi» conferisce alla sua presidenza lo stesso tocco di classe che Nicolas Sarkozy ha dato alla propria con il famoso «Togliti dai piedi, stronzo». La frase di Putin diventa subito una battuta di rito fra i nazbol: «Dai, passami la vodka, se no ti inseguo fin dentro il cesso». Come Berezovskij, neanche Limonov e i suoi sospettano ciò che li attende.

 

 

Le cose vanno in fretta, molto in fretta. Poco prima delle elezioni presidenziali il ministero della Giustizia fa approvare una legge con cui vengono messi al bando l’estremismo e il fascismo – che il ministero si riserva di definire – e comunica al Partito nazionalbolscevico che il provvedimento lo riguarda direttamente. Eduard chiede udienza al ministro in persona, la ottiene, si mette giacca e cravatta, sostiene le proprie ragioni: estremista lui? Fascista? Neanche per sogno. Il ministro lo ascolta, esprime grande stima per il suo talento, si mostra molto disponibile. Tre mesi dopo, però, scaduto il termine oltre il quale non verrà concessa più alcuna autorizzazione, cala la mannaia: la risposta è no. No, il Partito nazionalbolscevico non ha più diritto di esistere. Frastornato, Eduard chiede un’altra udienza, e con sua grande sorpresa la ottiene, si rimette giacca e cravatta e stavolta non la tira tanto per le lunghe. In Russia, spiega al ministro, i partiti ammessi e registrati sono centotrenta, fra i quali molti partiti fantasma, che non hanno nessun iscritto. Non è questo il caso del suo, che ne conta settemila. La situazione è semplice: se viene messo fuori legge, il Partito nazionalbolscevico sarà costretto a entrare in clandestinità, e allora lui, Limonov, non potrà fare più nulla se giovani preoccupati per l’avvenire del proprio paese saranno spinti a diventare estremisti o terroristi.

Il ministro alza un sopracciglio: «Mi sta dicendo che se il suo partito verrà messo fuori legge ricorrerete alle bombe?».

«Quello che le sto dicendo» risponde Eduard «è che se voi ci sbarrate la strada della legalità, noi ne prenderemo un’altra».

 

 

Poco tempo dopo Limonov viene convocato alla Lubjanka da un ufficiale che gli dice senza tanti giri di parole di essere stato incaricato di occuparsi di lui e del suo partito. L’ufficiale non gioca a fare il protettore delle lettere ma non è antipatico, ulteriore conferma per Eduard che i èekisti sono meglio dei funzionari civili. «Cos’è questa granata?» domanda l’ufficiale mostrando il logo di «Limonka». «Istigazione all’omicidio?». Eduard risponde che il modello è stato creato da fabbriche di armi russe e che riprodurne l’immagine non è, per quanto gli risulti, proibito dalla legge. L’ufficiale ride bonariamente, lascia a Limonov il proprio numero di cellulare e lo invita a contattarlo se gli dovesse capitare di notare, tra i giovani che gli girano intorno, elementi sensibili al fascino del terrorismo.

«Non mancherò» risponde educatamente Eduard.

 

 

Quanto al terrorismo, sembra proprio che in tutta la sua storia, legale e illegale, il Partito nazionalbolscevico non si sia segnalato che per azioni non violente. Non lo dicono soltanto i nazbol e Eduard, ma il potere stesso, che li ha processati e incarcerati per reati di poco conto come aver berciato: «Stalin! Berija! Gulag!» durante un comizio dell’ex primo ministro Gajdar, o avere schiaffeggiato Gorbaèëv con un mazzo di fiori – senza spine, precisa Limonov –, o distribuito un volantino intitolato «Il nostro amico carnefice» al termine della prima del film di Nikita Michalkov, Il barbiere di Siberia. Il carnefice in questione era il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, mecenate del film, e il volantino che denunciava il destino poco invidiabile degli oppositori nel suo paese sembrava più un’iniziativa umanitaria che fascista – con la differenza che le organizzazioni umanitarie avrebbero prudentemente evitato di indisporre una figura così potente e unanimemente rispettata come Michalkov, che è ormai per il cinema russo ciò che Putin è per il potere: il chozjain, in altri termini il boss. La risposta al volantinaggio non si è fatta attendere: una molotov nel bunker, gli OMON che fanno irruzione, portano via, picchiano e incarcerano i nazbol presenti – il tutto, Limonov non ha dubbi, su richiesta di Michalkov. A un’altra proiezione, due nazbol lanciano per rappresaglia uova marce in faccia al regista, dopodiché vengono subito arrestati e condannati a sei mesi di prigione ciascuno.

 

 

Sei mesi non sono pochi per qualche uovo marcio. Ma lo sono se paragonati alle pene inflitte nei paesi baltici – che Eduard, lo ricordiamo, ha individuato come zona di intervento prioritaria. La vicenda lettone è un tale groviglio di paradossi postcomunisti che secondo me merita di essere raccontata. Tutto ha inizio quando in Lettonia, un tempo satellite dell’URSS e ora Stato democratico indipendente, viene condannato e incarcerato un vecchio partigiano sovietico, eroe della grande guerra patriottica e poi, fino alla caduta del Muro, èekista noto per la sua ferocia. Guardando le cose da casa nostra, attraverso «Le Monde» o «Libération», sembrerebbe un’igienica terapia storica: la società coltiva il dovere della memoria e chiede il conto al carnefice. Dal punto di vista dei nazbol è un’ignominia, un insulto a venti milioni di caduti in guerra e alle centinaia di milioni che hanno creduto nel comunismo. Per questi giovani romantici, quella vecchia carogna del KGB è un eroe, un martire, e per manifestargli il loro appoggio tre nazbol danno l’assalto alla chiesa di San Pietro a Riga, tirano una finta bomba a mano per allontanare i turisti e si barricano nel campanile da cui lanciano volantini. Così facendo, sanno benissimo che cosa li aspetta: un esercito di poliziotti con megafono che li esorta ad arrendersi, trattative, richieste che non hanno nessuna speranza di essere accolte (la liberazione del vecchio èekista, la rinuncia della Lettonia a entrare nella NATO), e altre più realistiche (la presenza dell’ambasciatore russo nel momento in cui si consegneranno). Alla fine i tre si arrendono, l’ambasciatore è sul posto ma non fa nulla per tutelarli: i giovani sovversivi vengono malmenati come se avessero aperto il fuoco sulla folla, processati non per «hooliganismo» ma per terrorismo e condannati a quindici anni, con il beneplacito delle autorità russe.

Avete letto bene: quindici anni. La vicenda diventa ancora più ingarbugliata se si tiene presente che ormai anche il potere russo, contro cui si scagliano i nazbol, non è più disposto a tollerare oltraggi al proprio glorioso passato: Putin dichiarerà praticamente guerra all’Estonia quando questa deciderà di sbarazzarsi di un monumento eretto in onore dell’Armata Rossa. In fondo, Putin e i nazbol sono d’accordo – anche se naturalmente i nazbol si suiciderebbero in blocco piuttosto che ammetterlo. Ma quando si tratta di «lottare contro il terrorismo», per quanto innocuo esso sia, i èekisti russi lavorano gomito a gomito con i servizi lettoni e danno la caccia ai romantici difensori dei loro vecchi colleghi, ora perseguitati, senza farsi il benché minimo scrupolo.

 

 

È una faccenda complicata, lo so: scrivo questo libro proprio per sciogliere nodi del genere. Persino Eduard, per il quale Dio sa se è mai stato un problema navigare in acque torbide, comincia ad averne abbastanza e a sognare aria pura e grandi spazi. Mosca è lugubre, e lui comincia a pensare che forse si troverebbe meglio in Asia centrale. Ha voglia di organizzare un altro viaggio per studiare le possibilità di destabilizzare il Kazakistan e lì tenere un corso di sopravvivenza, stile Rambo, sulle catene montuose dell’Altaj. È l’idea che si fa delle vacanze quest’uomo che non ne ha mai fatte, e mi tornano in mente le fotografie che ho visto di Stalin in vacanza in Abchazija: sempre in stivali e giacca militare, circondato da uomini baffuti e vestiti come lui, i quali, se pur sapevano apprezzare la sedia a sdraio o un bagno in mare, lo nascondevano bene.

Date un’occhiata alla carta geografica: vedrete che la Repubblica dell’Altaj, confinante con il Kazakistan (si tratta di territori cinque volte più grandi della Francia), è la zona più continentale del mondo, posta com’è alla stessa considerevole distanza dall’Oceano Atlantico, Pacifico, Indiano e Artico. Come la Mongolia in cui il barone von Ungern-Sternberg aveva fondato il suo ordine di legionari buddhisti, l’Altaj è una regione famosa per i paesaggi mozzafiato – elevati pianori, con l’erba alta piegata dal vento – e per la scarsa densità di popolazione. Lo spazio, il cielo, e nessuno sotto il cielo: alla fine dell’estate del 2000, pigiato con quattro dei suoi in una jeep che sobbalza su strade sconnesse, Eduard si avventura in questo universo elementare, quasi astratto. La loro guida, un tipo taciturno e impenetrabile che si chiama Zolotarëv, ha localizzato fra le montagne del Sud qualcosa che sembra corrispondere a quanto sta cercando Eduard: una specie di eremo di difficile accesso, lontano da tutto, e che potrebbe servire da campo di addestramento. Fra i nazbol il campo di addestramento è un mito. Molti di loro sono fermamente convinti che Eduard ne abbia già creati parecchi, ultrasegreti, sul modello di quelli dei jihadisti in Pakistan. Lui non conferma né smentisce, ma non è vero: per il momento non esiste nessun campo.

Al termine di una pista, a dieci chilometri dalla frazione più vicina – e per coprire quei dieci chilometri ci vuole quasi un’ora –, i viaggiatori scoprono un capanno di legno con il tetto mezzo sfondato e teli di plastica al posto delle finestre: due stanze, quattro letti e una stufa che sembra funzionare. Tirano fuori il materiale, sacchi a pelo e vettovaglie, e si sistemano. La sera mangiano al sacco, sotto le stelle. L’incantesimo ha inizio.

 

 

Il lirismo panteista non è il mio forte: benché ami i paesaggi alpini, non sono a mio agio nel descrivere i fuochi a legna, i torrenti, le mille varietà di erbe, funghi e tracce di animali selvatici. Non mi dilungo dunque sulla vita da survival che dura, per quanto riguarda Eduard, tre settimane, durante le quali i ragazzi, oltre a praticare la caccia e la raccolta, si dedicano a esercitazioni di tiro e di close combat. Nessuno li disturba. Figlio del cemento, Eduard scopre un mondo nuovo, e la guida Zolotarëv, immersa nel suo elemento, si rivela un personaggio affascinante. In città Zolotarëv gli era sembrato un vecchio hippy di provincia, con capelli unti e bandana, che usciva dal suo mutismo soltanto per mormorare vaghe idiozie new age in cui comparivano regolarmente parole come «energia» e «karma». Il primo giorno, uscendo dal capanno, Eduard trova Zolotarëv in meditazione nella posizione del loto, rivolto verso il sole che sta sorgendo. All’inizio sorride, ma bastano meno di tre giorni perché avverta realmente le onde calme e positive che emana quell’uomo. Zolotarëv lo porta a pescare nei torrenti, gli insegna ad asportare le branchie dei pesci, a cucinarli, a scegliere le erbe e le bacche con cui condirli. Conosce la natura come nessun altro: ne fa parte, è quello il suo posto. Eduard è quasi intimidito: accanto a lui si sente come il viaggiatore troppo civilizzato di fronte al trapper mongolo Dersu Uzala nel film di Kurosawa, che in passato ha visto e amato. Di Dersu Uzala, Zolotarëv ha la statura bassa, gli occhi a mandorla, la laconicità. La sua forza e la sua malizia non si scorgono di primo acchito, ma una volta che le si è notate non si vede altro, e si capisce di aver corso il rischio di perdersi una persona straordinaria. Una specie di maestro, a suo modo.

Accanto al capanno c’è una banja, una di quelle saune rudimentali che servono da bagno in tutta la Russia di campagna. Si resta chiusi a sudare fra quattro pareti di tronchi sigillati con il muschio, immersi nel vapore sprigionato da un focolare di braci e pietre roventi su cui si getta di tanto in tanto un ramaiolo di acqua fredda. Non è che Eduard vada pazzo per la banja. Può resisterci a lungo perché ha il cuore forte, e se fuori c’è la neve non ha paura di uscire e rotolarsi a terra completamente nudo tra una sudata e l’altra, ma a starsene seduto senza far niente si annoia subito e gli sembra di perdere tempo. Per Zolotarëv, invece, la banja è quasi un rituale religioso, e la guida riesce nell’impresa di convertire l’impaziente Eduard. La sera, dopo lunghe corse sulle montagne, ubriachi di fatica e di vento, passano entrambi un paio d’ore a bere vodka in una nube di vapore, a lasciar distendere i muscoli, in silenzio, sereni e fiduciosi, e quando Zolotarëv ogni tanto pronuncia come un oracolo qualche frase sibillina di Lao-tzu, il suo autore prediletto, Eduard non viene neanche più sfiorato dall’idea che si tratti di una stupidaggine, e si trova d’accordo con lui. «Chi sa non parla, chi parla non sa». Il vecchio hippy parla poco ma sa. Vive in armonia con qualcosa di più grande di lui, e con cui anche Eduard, quando è in sua compagnia, si sente in contatto. Eduard è calmo, sta bene.

Siamo ai primi di settembre, comincia a fare freddo. All’alba salgono dalla vallata gelide brume. I sei eremiti cominciano a tagliare e immagazzinare legna per l’inverno. Perché, fin dalla partenza, l’idea è che tre nazbol affrontino l’esperienza di un inverno su quelle montagne, completamente isolati dal mondo appena la neve avrà reso la pista impraticabile. Sarà dura, ma entusiasmante, pensa Eduard con invidia: resterebbe volentieri con loro se a Mosca non avesse un partito di cui occuparsi. L’accordo è che tornerà a prenderli in aprile, allo sciogliersi delle nevi. Controllano che vi sia una quantità sufficiente delle poche derrate indispensabili che non si trovano in natura: zucchero, candele, chiodi… In un romanzo di Jules Verne sarebbe l’occasione per una di quelle liste lunghe tre pagine che il mio protagonista e io da piccoli leggevamo con il batticuore. Si salutano con abbracci virili, poi Eduard e gli altri due riprendono la via per Barnaul, il capoluogo dell’Altaj, dove abita Zolotarëv, da cui si separano commossi. Eduard confessa al trapper che nel loro primo incontro non gli aveva fatto una grande impressione ma che ha imparato a conoscerlo e che è orgoglioso di essere suo amico. Zolotarëv resta impassibile, gli occhi a mandorla immobili. «Ti ho osservato» dice a Eduard. «Tu hai un’anima. Io non faccio politica, ma anche i tuoi ragazzi mi piacciono».

«Se vuoi,» dice Eduard «quando torno ti porto una tessera del partito: mi farebbe piacere».

 

6

 

Per tutto l’inverno, da ottobre ad aprile, Eduard non fa che sognare l’Altaj. Quell’inverno a Mosca è tremendo. Dopo la condanna del commando lettone, l’atmosfera nel bunker si è fatta plumbea. Un manipolo di nazbol moscoviti, degli autentici kamikaze se si considera ciò che rischiano, decide di raggiungere Riga ma viene arrestato alla stazione per possesso di droga – almeno secondo la polizia – e finisce a sua volta in prigione. I genitori dei condannati pensano che sia colpa di Eduard se i figli sono finiti male, così vanno al bunker per insultarlo e minacciano di trascinarlo in tribunale. Un nazbol della vecchia guardia, uno degli otto che ha preso parte alla grande spedizione in Asia centrale, viene pestato a morte nei dintorni di Mosca: le indagini concluderanno che si è trattato di una rissa tra ubriachi, e forse è vero, ma forse no. Un giorno Taras Rabko, il fedelissimo tra i fedeli, il terzo membro storico del partito, va da Eduard e gli annuncia tra le lacrime che molla tutto. Ha resistito più che ha potuto, ma la famiglia, la carriera in magistratura… non può continuare così. È l’inevitabile destino di un partito di giovani: non appena gli iscritti cominciano a costruirsi una vita loro, se ne vanno. Anche Liza, quella che somigliava ad Anne Parillaud in Nikita, ha lasciato Eduard per sposarsi con un informatico suo coetaneo e avere dei figli. Eduard l’ha sostituita con Nastja, una ragazza ancora più giovane – a dirla tutta Nastja è minorenne, cosa che da un lato lo lusinga, dall’altro è un ulteriore motivo di paranoia.

Nastja è scappata di casa per andare a vivere con Eduard. Una sera, rientrando tardi, i due si accorgono che da loro c’è la luce accesa. Salgono le scale di corsa, aprono la porta: la luce è spenta. Tutto sembra in ordine, e questo preoccupa ancora di più Eduard, il quale non teme tanto quelli che entrano per portarsi via qualcosa, ma piuttosto quelli che qualcosa ce la lasciano. Lui e Nastja frugano dappertutto, l’appartamento è così piccolo che se gli intrusi avessero nascosto delle armi le avrebbero sicuramente trovate. Ma un grammo di eroina è anch’esso molto piccolo. Per coprirsi le spalle, Eduard decide di avvertire il suo contatto all’FSB, quello che gli ha lasciato il proprio numero di cellulare. L’ufficiale non gli dà appuntamento nel suo ufficio alla Lubjanka, dove pure Eduard è già stato due volte, ma su una banchina della stazione del metrò, quasi fossero due cospiratori. Eduard, come ho già detto, non lo trova antipatico e gli parla con franchezza: gli dice della visita notturna a casa sua, delle telefonate anonime che riceve, dell’impressione che una morsa si stia stringendo attorno a lui. L’ufficiale scuote il capo, impensierito, come se fosse al corrente di quanto sta avvenendo e ciò non dipendesse da lui ma da un altro servizio con il quale è in rotta. «Sinceramente,» azzarda Eduard «che cosa ne pensa lei di questa storia di Riga? Le sembra normale che la Russia abbandoni i suoi cittadini?». L’ufficiale sospira: «La pensiamo allo stesso modo, ma non spetta né a me né a lei decidere. È un affare di Stato».

«La verità» continua Eduard «è che noi facciamo il lavoro che dovreste fare voi. Invece di perseguitarci, dovreste servirvi di noi. Lasciarci fare quello che non potete fare voi».

Eduard è sincero: non ha nulla contro gli organi, tutt’altro. Accetterebbe volentieri di lavorare, insieme con il suo partito, al loro fianco, come fanno Bob Denard e il suo squadrone di mercenari con le autorità della Françafrique. Ma l’ufficiale evita di rispondere, guarda l’orologio e si congeda.

 

7

 

Nell’Altaj Eduard sperava di tirare un po’ il fiato. Ma non è così. Per tutto il viaggio – tre giorni in treno da Mosca a Novosibirsk, e poi un giorno da Novosibirsk a Barnaul, come sempre in terza classe – si è sentito osservato, sorvegliato. Non devi diventare paranoico, ripete a se stesso come un mantra. Ma non devi nemmeno dimenticare che spesso si fa bene a essere paranoici. Difficile in questi casi seguire la «via di mezzo» raccomandata da Lao-tzu, che con l’influenza di Zolotarëv è diventato il suo autore preferito. Andrà meglio, pensa Eduard, quando sarò laggiù. È contento di ritrovare il trapper a Barnaul, di fare la strada insieme a lui. Nel corso di quell’inverno spaventoso ha pensato spesso a Zolotarëv, ed è stato un pensiero rasserenante, come la lettura di Lao-tzu: una vibrazione calma, silenziosa, la promessa di un possibile raccoglimento nel vortice dei marosi, in mezzo al baccano e alla furia del mondo.

 

 

Quando Eduard arriva a casa di Zolotarëv, scopre che il trapper è stato sepolto il giorno prima. Una donna che usciva per portare a spasso il cane lo ha trovato morto, all’alba, ai piedi del palazzo in cui abitava. Una finestra del suo appartamento al quarto piano era aperta. Suicidio? Incidente? Omicidio? I nazbol con cui l’uomo ha trascorso la sua ultima serata garantiscono che non era depresso e che quando se n’è andato non era ubriaco.

Eduard sgualcisce nervosamente nella tasca la tessera del partito che voleva regalare a Zolotarëv. Si sente mancare il terreno sotto i piedi.

 

 

La notte successiva accade qualcosa di strano. Come stabilito, Eduard si è messo in viaggio assieme a due nazbol silenziosi quanto lui, frastornati dall’accaduto. È immerso in pensieri cupi e non bada a nulla di ciò che lo aveva incantato durante il viaggio precedente: né al cielo sconfinato, né ai paesaggi ridotti, sotto quel cielo sconfinato, alla loro dimensione più elementare, né al caravanserraglio in cui fanno una sosta per il tè, né ai volti nobili e ascetici dei montanari che gli danno ospitalità. I tre trascorrono la notte nello stesso luogo in cui si erano fermati l’ultima volta. Sarebbe esagerato chiamarlo «villaggio»: qualche iurta e un capanno di legno, nel quale Eduard si ritira subito a dormire, senza cenare e senza dire una parola. Per fortuna i nazbol hanno la loro tenda: Eduard è solo.

Steso sulla branda, pensa ai morti. A tutti quelli che ha conosciuto nel corso della sua vita e che sono morti. Cominciano a essere un bel po’. Pensa che se facesse il conto i morti supererebbero i vivi, ma non ha il coraggio di farlo. Non ha nemmeno voglia di dormire, soltanto di starsene lì e non muoversi più. Pensa che morirà anche lui, e stranamente è come se fino a quella sera non ci avesse mai pensato. Ha spesso fantasticato su come gli sarebbe piaciuto morire: in combattimento, oppure fucilato, giustiziato per ordine di un tiranno che avrebbe sfidato fino all’ultimo respiro, ma adesso si rende conto che tutte quelle fantasie non hanno nulla a che vedere con la certezza che si è impadronita di lui: sta per morire.

Pensa alla propria vita, alla strada percorsa dalla sua infanzia a Saltov fino al capanno nell’Altaj in cui, a quasi sessant’anni, è disteso quella sera. Una strada lunga, piena di insidie, ma lui ha tenuto botta. Ha voluto vivere da eroe, ha vissuto da eroe, e non si è mai tirato indietro, qualunque fosse il prezzo da pagare.

Pensa a una cosa che gli ha detto il trapper, l’autunno precedente: quel posto, secondo la tradizione buddhista, è il centro del mondo, il punto in cui comunicano il mondo dei morti e quello dei vivi. È il luogo che cercava il barone von Ungern-Sternberg, e ora lui lo ha trovato.

Dalla finestra Eduard vede brillare la luna piena sopra le colline scure. Sente una musica, prima lontana, poi sempre più vicina. Gong, trombe, canti intonati da voci cavernose. Sembra quasi la colonna sonora del Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti, che ha scoperto anni prima grazie a Dugin. Quel bastardo di Dugin, pensa Eduard con indulgenza. Nonostante tutto, sarebbe contento di ritrovarlo nel paradiso dei guerrieri – sempre che vi accolgano un fifone come lui…

Eduard si chiede se sta scivolando nel sonno o nella morte. Gli sembra che lì fuori si stia svolgendo una cerimonia, forse un rito di iniziazione sciamanico. In un altro momento nulla gli sarebbe interessato quanto assistervi, ma ora, un po’ per discrezione nei riguardi degli ospiti, e parecchio perché non ha voglia di muoversi, resta sdraiato, avviluppato in quella musica dell’aldilà che si confonde con i suoni provenienti dal suo corpo: il sangue che pulsa alle tempie, che viene pompato dal cuore, che circola nelle vene. Eduard non dorme, non si muove. È come se fosse morto o avesse avuto accesso a un’altra forma di vita.

 

 

Il mattino dopo chiede ai nazbol se abbiano assistito alla cerimonia. Quale cerimonia? Non ci sono stati né feste, né concerti, né riti sciamanici, niente di niente, dopo cena sono andati tutti a dormire. Se si cerca la vita notturna, scherzano i suoi compagni, non è certo nell’Altaj che bisogna venire.

Eduard non insiste. Per il resto del viaggio continua a riflettere, ma non si sente prostrato come il giorno prima. Pensa che quella musica celeste e quell’esperienza dell’aldilà siano state un dono di Zolotarëv e l’annuncio di qualcosa. Forse la sua ascesa al trono d’Eurasia, che conquisterà insieme a quella manciata di nazbol dopo il ritiro sulle montagne, riuscendo là dove ha fallito il barone von Ungern-Sternberg. Forse il suo imminente ingresso nel Walhalla, cioè la morte, ma lui non ha paura della morte, non ne avrà mai più paura. È passato dall’altra parte.

 

 

I tre nazbol rimasti sulle montagne sono ben contenti di vederli arrivare. Hanno una buona cera: abbronzati, ascetici, dei veri monaci guerrieri. Dal loro portamento, dalla loro voce, si capisce che sono maturati. La serata, su cui aleggia l’ombra di Zolotarëv, è insieme grave e allegra, meravigliosamente distesa. I ragazzi raccontano il loro inverno: i momenti di sconforto, quelli di entusiasmo, il giorno in cui uno di loro si è trovato faccia a faccia con un orso. Su lunghi bastoni di legno sono stati cotti gli šašlyki, gli spiedini di pecora che si mangiano nel Caucaso e nell’Asia centrale. Bevono un po’ di vino, portato da Barnaul nel bagagliaio, ma non si ubriacano. Raccolti sotto la lampada a petrolio, i sette uomini si godono quell’atmosfera pacata, amichevole. Eduard, così poco sentimentale, vorrebbe dire a quei ragazzi, così giovani da poter essere suoi figli, che sono le creature più nobili e coraggiose del mondo. Si sente insieme lontanissimo e vicinissimo. In vita sua non è mai stato così espansivo. Tempo dopo, penserà che l’Ultima Cena dev’essere stata qualcosa di simile.

Allo spuntare del giorno viene svegliato da un abbaiare di cani. I nazbol non hanno cani con loro, ma Eduard non ha il tempo di stupirsi. Tutto avviene con estrema rapidità: gli uomini delle forze speciali irrompono nel capanno, strappano i dormienti dai loro sacchi a pelo, li costringono a uscire e a inginocchiarsi nella neve che al mattino, su quelle cime, non si è ancora sciolta. Gli agenti sono una trentina, con passamontagna e mitra al fianco, e tengono al guinzaglio i cani lupo che fanno un baccano infernale. Eduard ha perso gli occhiali e si muove a tentoni. È in mutandoni di lana, a piedi nudi: siccome è il capo, gli viene concesso di vestirsi per primo. Il soldato che ha il compito di scortarlo nel capanno ne approfitta per sussurrargli che adora i suoi libri e che è fiero di arrestarlo. Lo dice senza la minima ironia, sembra davvero fiero e contento, manca poco che gli chieda l’autografo.

Poi si passa alle cose serie. «Dove sono le armi?».

«Quali armi?».

«Non faccia il finto tonto».

La perquisizione è meticolosa: hanno i cani e un metal detector, ma a parte i due fucili da caccia non viene trovato nulla – e qui confesso il mio stupore: sarebbe stato così facile imboscare nel capanno qualche arma. Diamo atto all’FSB di questo scrupolo legalitario.

 

 

Con le mani sulla testa, i cinque nazbol vengono fatti salire senza tanti complimenti su un furgone militare. Eduard invece si accomoda nella berlina del colonnello Kuznecov, un colosso con Ray-Ban a specchio, che non si toglie mai. Appena scompare dal retrovisore l’eremo devastato, questi estrae dal frigo portatile vodka e zakuski. Ora ci si può rilassare, ci sono otto ore di strada fino al comando dell’FSB a Gorno-Altajsk, dove i prigionieri sono attesi da un aereo speciale. «Trattamento da VIP» commenta il colonnello. Entusiasta per il successo dell’operazione, Kuznecov manda giù un bicchierino dopo l’altro, e insiste perché Eduard gli tenga compagnia – e il prigioniero beve, ma con molta più moderazione. Alla seconda bottiglia il colonnello spinge la cordialità fino a dire che, da quando ha cominciato a occuparsene, i nazbol sono diventati un po’ come la sua famiglia. Eduard è sorpreso: pensava di conoscere l’ufficiale che si occupa di loro. «Oh no,» dice il colonnello «quello è uno senza palle. Il caso gli è stato tolto due anni fa, al tempo della vicenda Michalkov». È stato lui, Kuznecov, a darsi da fare su richiesta del regista. Ed è stato sempre lui, due mesi prima, a incastrare i nazbol in partenza per Riga.

«Una provocazione» dice Eduard. «Non ce l’avevano la droga».

Il colonnello scoppia a ridere e con aria complice ribatte: «Certo che no. Un bello scherzo!».

Eduard allora si innervosisce, e quando si innervosisce la sua voce si fa brusca e spezzata. «Non avete avuto scrupoli» gli dice «a inchiodare dei ragazzi che lottavano per tirare fuori di prigione uno dei vostri? Se vi vedesse Feliks Dzerinskij, il vostro fondatore, si rivolterebbe nella tomba. Lui sì che era un grand’uomo, mentre voi, sapete che cosa siete, voi? Dei pezzi di merda, indegni di essere chiamati èekisti!».

Il colonnello potrebbe approfittare della propria posizione di forza per rispondere all’insulto, ma d’un tratto è diventato mogio. Sembra sul punto di piangere.

«Perché non ci vuoi bene, Veniaminoviè?» sospira l’ufficiale. «Perché uno come te non sta con noi? Potremmo fare cose eccezionali insieme…».

«Vuole reclutarmi?».

Kuznecov gli porge la mano. Ha bevuto, ma sembra sincero. Eduard alza le spalle.

«Va’ a farti fottere».

 

IX
LEFORTOVO, SARATOV, ENGEL’S, 2001-2003

 

 

1

 

Eduard lo ha sognato per tutta la vita. Quando da piccolo leggeva Il conte di Montecristo. Quando una notte ha sentito suo padre, all’epoca in cui faceva lo sbirro, raccontare alla madre la storia di quel condannato a morte così coraggioso, così calmo, così composto che è diventato l’eroe della sua adolescenza. Per un uomo che vede se stesso come l’eroe di un romanzo, la prigione è un capitolo imprescindibile, e sono sicuro che, lungi dall’essere afflitto, Eduard si è goduto ogni istante, stavo per dire «ogni inquadratura», di questo film visto cento volte: la consegna degli abiti civili e dei pochi effetti personali, orologio, chiavi, portafoglio; la divisa ricevuta in cambio, simile a un pigiama; la visita medica, con ispezione anale; il percorso attraverso lo sterminato labirinto dei corridoi, con due guardie al fianco; la successione delle sbarre e dei portoni; infine la pesante porta di metallo che si apre e poi gli si richiude alle spalle – ecco, ci siamo, è in questi otto metri quadrati che dovrà vivere per alcuni mesi o per alcuni anni e, come in guerra, dimostrare quel che vale davvero.

 

 

A Eduard non è stato riservato un trattamento da pesce piccolo: l’hanno rinchiuso a Lefortovo, dove vengono mandati i più pericolosi nemici dello Stato. I grandi prigionieri politici dell’Unione Sovietica, e poi della Russia, i terroristi di grosso calibro sono tutti passati di lì, e non è difficile prendersi per la Maschera di Ferro. Ancora oggi questa fortezza del KGB situata nei dintorni di Mosca non è riportata su nessuna pianta della città e il segreto che regna su di essa è tale che all’inizio Eduard ignora totalmente di che cosa siano accusati lui e i compagni. Non ha visto nessun avvocato, non ha diritto a visite. Non sa nemmeno quando comincerà la fase istruttoria, né che cosa si dice all’esterno del suo arresto, se qualcuno ne parla, e neanche se le persone a lui vicine ne sono state informate.

A differenza della maggior parte degli stabilimenti penitenziari russi, Lefortovo non è sporco, non è sovraffollato, non ci sono stupri né pestaggi; in compenso, si è sottoposti a un rigido isolamento. Non soltanto non si è costretti a lavorare, ma, anche volendo, non è permesso farlo. Le celle – singole, bianche, asettiche – sono tutte fornite di televisione, così i detenuti possono guardarla da mattina a sera, e questa soffice dipendenza li fa sprofondare presto o tardi nell’apatia, e poi nella depressione. La passeggiata quotidiana si svolge all’alba sul tetto della prigione, ma a ciascuno è riservato un recinto di pochi metri quadrati interamente circondato da una rete metallica, e per evitare che i prigionieri possano scambiarsi qualche parola da una gabbia all’altra, gli altoparlanti diffondono musica a un volume così assordante che anche urlando a squarciagola non si riuscirebbe a sentire la propria voce. Ma nemmeno questa sgradevole passeggiata è obbligatoria, e molti finiscono per farne a meno: restano a letto, si girano contro il muro, non respirano mai più all’aria aperta. D’inverno, quando all’alba è ancora buio e il freddo è tremendo, non esce più nessuno, e le guardie si sono abituate a tornare a bere tranquillamente il loro tè dopo aver dato la sveglia. Così resteranno di stucco quando il detenuto Limonov pretenderà di fare la passeggiata a cui gli dà diritto il regolamento. «Ma fuori ci sono venticinque gradi sottozero» ribattono. Non importa. Per tutta la sua permanenza a Lefortovo, Eduard non rinuncerà neanche un giorno a uscire sul tetto, dove per una mezz’ora correrà avanti e indietro come un pazzo sul suo scampolo di cemento, farà flessioni e addominali, tirerà pugni all’aria gelida. Le guardie sono un po’ seccate di dover lasciare il cucinino ben riscaldato per quell’unico cliente, però ne sono anche impressionate. Inoltre Eduard è cortese, non ha sbalzi di umore, si vede che è un uomo educato: presto le guardie cominciano a chiamarlo «professore».

 

 

Se c’è una cosa al mondo che Eduard odia è perdere tempo. Ebbene, la prigione è il regno del tempo perduto, del tempo che si trascina senza forma né direzione, e lo è soprattutto una prigione come Lefortovo, in cui i detenuti possono contare unicamente sulle proprie risorse. Sicché, mentre gli altri poltriranno a letto, Eduard si alzerà alle cinque del mattino e sfrutterà al massimo ogni istante, fino all’ora di coricarsi. Si imporrà la regola di guardare la televisione soltanto per i notiziari, mai per un film o un varietà, che per lui sono l’inizio del rammollimento. In biblioteca snobberà i romanzi facili, quelli che fanno, come si dice, «passare il tempo», e chiederà in prestito l’uno dopo l’altro gli aridi volumi della corrispondenza di Lenin, che leggerà seduto al tavolo con la schiena dritta, prendendo appunti su un quaderno. Sono questi gli unici favori che chiederà: un tavolo, una lampada che illumini a dovere e un quaderno – le guardie, sempre più ammirate, glieli concederanno volentieri. Con questo sistema, scriverà in un anno quattro libri, tra cui un’autobiografia politica e un testo inclassificabile, secondo me il suo libro più bello dopo il memorabile Diario di un fallito: il Libro dell’acqua.

 

 

L’estate precedente, prima del viaggio nell’Altaj, impellenti necessità economiche lo avevano spinto a scrivere in un mese quel Libro dei morti a cui ho largamente attinto. Lasciandosi portare dall’onda dei ricordi, Eduard vi tracciava il ritratto delle persone, celebri e sconosciute, che aveva incontrato e nel frattempo erano morte, e benché per rispettare le scadenze fosse costretto a scrivere più di venti pagine al giorno, l’esercizio gli era piaciuto a tal punto che in prigione gli è venuta voglia di rifare qualcosa del genere. Avrebbe potuto stilare l’elenco dei letti in cui aveva dormito, come Georges Perec, o quello delle donne che aveva conquistato, come Don Giovanni, oppure, da buon dandy, raccontare la storia di qualcuno dei suoi abiti. Ha scelto l’acqua: mari, oceani, fiumi, laghi, vasche e piscine. Non necessariamente acque in cui avesse fatto il bagno – pur essendosi ripromesso, da quando ha imparato a nuotare, di fare il bagno ovunque sia umanamente possibile, e per come lo conosciamo non è difficile pensare che raramente sia stato frenato dal freddo, dalla sporcizia, dall’altezza delle onde o da correnti pericolose. Il libro non segue uno schema, né cronologico né geografico, ma passa in base all’umore del momento da una spiaggia della Costa Azzurra, dove Eduard guarda Nataša nuotare, a un bagno nel fiume Kuban’ in compagnia di irinovskij. Eduard ricorda le passeggiate lungo la Senna, quando viveva a Parigi; le sirene delle imbarcazioni che vedeva incrociarsi sullo Hudson dalla sua stanza in casa del miliardario Steven; una fontana di New York, nella quale ha fatto il bagno ubriaco e ha perso le lenti a contatto; la costa bretone con Jean-Édern Hallier e la spiaggia di Ostia, vicino a Roma, dove è stato con Tanja qualche mese prima che vi venisse assassinato Pasolini; il Mar Nero, durante la guerra di Transnistria; i torrenti dell’Altaj in cui il trapper Zolotarëv gli ha insegnato a pescare; e la grande vasca del giardino del Luxembourg in cui, all’inizio del suo soggiorno parigino, aveva meditato di catturare le carpe, tanto era affamato. In tutto una quarantina di brevi capitoli, precisi e luminosi, che intrecciano i luoghi e le epoche, ma nel loro disordine si dispongono malgrado tutto attorno alle donne della sua vita.

Anna, Tanja e Nataša le conosciamo già. Eduard ha raccontato in lungo e in largo quanto le abbia amate, tutte e tre, come abbia lasciato la prima e sia stato lasciato dalle altre due, come queste lo abbiano fatto impazzire di dolore e come, almeno stando a quel che dice, lo abbiano entrambe amaramente rimpianto perché lui era la loro speranza di una vita fuori del comune. Invece abbiamo soltanto intravisto Liza, e poi Nastja, e so con quanta veemenza lo spirito del tempo disapprovi il debole degli uomini maturi per la carne fresca; io stesso, a dire il vero, trovo patetico che un sessantenne vada a letto soltanto con ragazzine, l’una più giovane dell’altra. Ma non importa, perché così stanno le cose, e il Libro dell’acqua è un inno alla piccola Nastja, che quando ha conosciuto Eduard aveva sedici anni e ne dimostrava dodici. Lui le comprava il gelato, controllava che facesse i compiti. Quando passeggiavano mano nella mano lungo la Neva a San Pietroburgo o lungo l’Enisej a Krasnojarsk, nessuno si stupiva perché tutti credevano che fossero padre e figlia. Nastja non era una bellezza spettacolare come Tanja, Nataša o Liza, ma una piccola punk alta un metro e cinquantotto, timida, introversa, ai limiti dell’autismo, che sul suo altare di semidei trasgressivi aveva collocato lo scandaloso scrittore Limonov tra lo scandaloso rocker Marilyn Manson e il serial killer Èikatilo – lo Hannibal Lecter ucraino. Nastja aveva una venerazione per Eduard, e questi, in prigione, ha iniziato ad avere una venerazione per lei. Nel suo libro Eduard incastona come fossero gemme preziose i ricordi dei due anni vissuti con Nastja. Lei ora ha diciannove anni, e Eduard si chiede preoccupato quale sia la sua vita al di là di quelle mura, se la ragazza si stia dimenticando di lui, se lo tradisca. Eduard si vanta di essere, in linea di massima, un uomo lucido e realista. Pur ritenendosi personalmente capace di fedeltà, non si fa illusioni su quella altrui. Non pensa neanche per un secondo che in una situazione simile Tanja, Nataša o Liza lo avrebbero aspettato. Invece Nastja sì. Eduard spera che lo aspetti, crede che lo aspetterà, cadrebbe nella disperazione se venisse a sapere che non l’ha aspettato.

Ma fino a quando? Il giorno in cui ha varcato la soglia del carcere Eduard era un uomo di cinquantotto anni che non pesava un grammo di più che a venti, un uomo all’apice delle sue possibilità e del suo fascino, ma nessuno sa quando ne uscirà, e se nonostante la sua volontà e la sua resistenza non sarà diventato anche lui, come la schiacciante maggioranza dei detenuti, un uomo distrutto.

 

 

A Lefortovo non c’è l’obbligo di radersi, né di tagliarsi i capelli, e Eduard se li lascia crescere, per sfida. Quando scrive arrivano a toccare il tavolo. Se continua così, finiranno per spazzare il pavimento. Non somiglierà più all’Edmond Dantès del Conte di Montecristo, ma al suo vecchio compagno di prigionia nel Castello d’If, l’abate Faria.

 

2

 

Eduard resterà a Lefortovo in regime di stretto isolamento per quindici mesi. Poi, a bordo di un Antonov del governo e scortato da un nutrito contingente di polizia neanche si trattasse di Carlos o dell’intera banda Baader-Meinhof, viene trasferito a Saratov, sul Volga, città in cui avrà luogo il processo. Perché Saratov? Perché è la circoscrizione giudiziaria russa geograficamente più vicina al Kazakistan, dove si ritiene siano stati compiuti i reati di cui Eduard è accusato. Quali sono di preciso questi reati? Impossibile non saperlo a Saratov, dove i detenuti devono continuamente declinare non soltanto le proprie generalità – cognome, nome e patronimico –, ma anche gli articoli in base ai quali sono stati incarcerati. Così, appena arrivato, Eduard impara a sparare a raffica quel mantra che ancora oggi gli sale alle labbra quando viene svegliato di soprassalto: «Savenko, Eduard Veniaminoviè, articoli 205, 208, 222 comma 3, 280!».

 

 

Diamo qualche spiegazione. L’articolo 205 indica il reato di terrorismo, il 208 l’organizzazione o partecipazione a banda armata, il 222 comma 3 l’acquisto, trasporto, vendita o detenzione illegale di armi da fuoco. E infine il 280: istigazione ad attività sovversive.

Quando incontra per la prima volta il giudice istruttore e questi gli notifica i capi d’imputazione e le pesanti pene che essi comportano, Eduard è combattuto fra l’orgoglio che gli procurano accuse tanto gravi e l’interesse vitale a dimostrare la propria innocenza. Da un lato, gli costa ammettere che una mezza dozzina di nerboruti nullafacenti, chiusi in un capanno dell’Altaj a cento chilometri dal confine kazako, armati in tutto e per tutto di un paio di fucili da caccia, aveva altrettante possibilità di destabilizzare il Kazakistan quanto di scatenare da sola un conflitto nucleare. Dall’altro, se non vuole farsi vent’anni dentro per terrorismo, non gli resta che passare per un buffone. Il giudice, tuttavia, non sembra molto propenso ad ascoltare le sue ragioni e non si discosta dalla versione sostenuta dall’FSB, secondo cui Eduard e i suoi cinque complici costituiscono una seria minaccia alla sicurezza dello Stato.

Ciliegina sulla torta, questa versione viene illustrata da un film per la televisione trasmesso sul primo canale russo proprio quando Eduard arriva a Saratov. Dopo il suo arresto c’è stato l’11 settembre, e si sente: nel film il Partito nazionalbolscevico viene presentato come una costola di al-Qaeda, l’izba dell’Altaj come quel campo di addestramento segreto – meta di centinaia di fanatici combattenti – che Eduard ha effettivamente sognato ma al quale la realtà, lui lo sa bene, somigliava così poco. In prigione tutti hanno visto Caccia al fantasma (così si chiama il film), tutti sanno che il protagonista è Eduard e cominciano a chiamarlo Bin Laden – fatto naturalmente lusinghiero, ma anche pericoloso.

 

 

Saratov è il contrario di Lefortovo: in quelle condizioni di estrema promiscuità non si corre certo il rischio di soffrire la solitudine. Nelle celle progettate per quattro persone spesso ne vengono ammassate sette o otto. Quando è entrato in quella che gli hanno assegnato Eduard ha trovato tutti i letti occupati, e senza protestare ha srotolato il suo materasso sul pavimento, ritenendo normale che l’ultimo arrivato stia peggio degli altri. Questa umiltà ha fatto buona impressione. Eduard ha fama di intellettuale, prigioniero politico e celebrità, tre motivi per essere giudicato un rompicoglioni supponente, tre motivi perché le cose si mettano male. Ma Eduard si dimostra fin dal primo istante un tipo semplice e diretto, che cerca soltanto di sidet’ spokojno, di scontare la sua pena in tranquillità, senza piantare grane, senza tirarsela, senza creare problemi né a se stesso né agli altri. Tutti apprezzano questa saggezza da prigioniero esperto, e allo stesso tempo avvertono che, sotto i suoi modi pacati, è un vero duro. Se vede qualcuno sbrigare una faccenda o preparare un pasto, Eduard non è tipo da chiedere stupidamente: «Posso aiutarti?», intuisce quel che c’è da fare e lo fa. Evita le parole e i gesti di troppo, non si tira indietro quando ci sono le corvée, divide i pacchi che riceve, rispetta senza che sia necessario spiegargliele le regole non scritte che governano la vita della prigione. Non esagera, però, e fa valere con calma autorità il proprio modo di vedere e fare le cose. All’inizio i compagni restano sorpresi perché non accetta mai una partita a carte o a scacchi – Eduard li considera una perdita di tempo, lui le sue giornate le passa a leggere o a scrivere steso sulla cuccetta –, ma è presto chiaro che non si tratta di snobismo: è fatto così, punto e basta, e questo non gli impedisce di essere sempre disponibile a dare una mano a chi deve scrivere una lettera alla sua ragazza o anche solo risolvere un cruciverba. Una settimana dopo il suo arrivo, sono tutti d’accordo: Eduard è un tipo a posto.

 

 

Mentre lavoravo a questo libro che racconta la sua vita, ci sono stati momenti in cui ho odiato Limonov e ho temuto di sbagliarmi sul suo conto. In uno di questi periodi ero a San Francisco, e ho parlato di ciò che stavo facendo con il mio amico Tom Luddy, e lui, che è la persona più dotata al mondo per stabilire questo tipo di collegamenti (qualunque sia il problema che vi assilla, avrà sempre una dritta da darvi o qualcuno di prezioso da presentarvi), ha subito risposto: «Limonov? Ho un’amica che lo conosce benissimo. Domani, se ti va, ceniamo con lei». Così ho incontrato Olga Matich, una russa bianca di una sessantina d’anni che insegna letteratura russa a Berkeley e ha conosciuto Eduard quando questi viveva negli Stati Uniti. Alla pubblicazione di Il poeta russo preferisce i grandi negri gli slavisti – americani o francesi che fossero – non sapevano bene che cosa pensare del suo autore, e molto presto hanno scelto in blocco di odiarlo. Olga è l’eccezione. Non ha mai rotto con Limonov, tiene lezioni sulla sua opera, quando è a Mosca va a trovarlo, da trent’anni ha per lui un affetto e una stima incrollabili, e costituisce un’eccezione tanto più significativa in quanto mi ha fatto l’impressione di una donna non soltanto intelligente e civile, ma profondamente buona. Lo so, è solo un’impressione, ma vale per lei quello che ho già detto di Zachar Prilepin: mi fido di loro.

Ebbene, ecco quello che mi ha detto Olga: «Ne ho conosciuti, di scrittori, sa, soprattutto russi. Li ho conosciuti tutti. E fra loro l’unico tipo a posto, veramente a posto, era Limonov. Really, he is one of the most decent men I have met in my life».

Sulle sue labbra la parola decent aveva lo stesso significato che le dava George Orwell quando parlava di common decency: quella mirabile virtù diffusa, diceva lui, più nel popolino che nelle classi elevate, ed estremamente rara negli intellettuali, che è un misto di onestà e di buon senso, di diffidenza verso i paroloni e di fedeltà alla parola data, di valutazione realistica della realtà e di riguardo nei confronti degli altri. Naturalmente, per quanto mi fidi di Olga, faccio un po’ fatica a vedere il volto di Eduard incorniciato da un’aureola di decency quando spara su Sarajevo o cospira con biechi figli di puttana come il colonnello Alksnis (rassicuratevi: anche Olga fa fatica). Ma considerando altri momenti capisco quello che vuol dire Olga, sì – e la prigionia è uno di questi momenti. Forse il momento più mirabile della vita di Eduard, quello in cui è stato più vicino a essere ciò che sempre, strenuamente, con la cocciutaggine di un bambino, ha cercato di essere: un eroe, un uomo davvero grande.

 

 

I suoi compagni sono detenuti comuni, condannati a pene gravi per reati gravi. La maggior parte di loro ha violato l’articolo 162 – omicidio con circostanze aggravanti –, e lui che ha sempre rispettato i delinquenti è orgoglioso di aver guadagnato il loro rispetto. Orgoglioso che quei criminali vedano il suo partito non come un’accozzaglia di giovani idealisti ma come una banda («Hai settemila uomini? Cazzo!»); orgoglioso di essere chiamato, oltre che Bin Laden, «Limon il boss»; e orgoglioso soprattutto che un giorno un padrino gli abbia chiesto, con discrezione, nel modo in cui si fa sapere a qualcuno che dipende soltanto da lui essere ammesso o meno all’Académie française, se gli farebbe piacere entrare nella confraternita dei vory õ zakone, «i ladri che obbediscono alla legge», quell’aristocrazia della mala che tanto lo faceva sognare da adolescente. Tutto questo mi colpisce ma non mi sorprende: è il ritratto sputato di Eduard. Mi sorprende maggiormente, e conferma l’opinione di Olga, che nei tre libri in cui ha raccontato la propria permanenza in carcere Eduard parli molto più degli altri che di se stesso. Eduard il narciso, l’egotista, dimentica se stesso, dimentica le sue pose e si interessa sinceramente alle vicende che hanno condotto i suoi compagni lì dove si trovano.

Alcuni gli dicono: «Sei uno scrittore. Dovresti scrivere la mia storia». Allora, senza farsi pregare, lui la scrive e ne vengono fuori decine di microromanzi. C’è la saga della banda di Engel’s: otto mafiosi che hanno sistematicamente spolpato questa città industriale, fatto fuori rivali e poliziotti in quantità, e si sono beccati dai ventidue anni all’ergastolo. C’è la triste, tristissima vicenda del detenuto in attesa dell’imminente scarcerazione il quale da settimane assillava i compagni descrivendo la strada che, passo dopo passo, lo avrebbe condotto dalla fidanzata, ma alla vigilia del gran giorno riceve una lettera in cui lei gli confessa di essere andata a vivere con un altro uomo – e, pur facendo tutto quel che può per consolare il poveretto, Eduard naturalmente pensa a Nastja. C’è l’atroce storia dei due cugini che hanno violentato e ucciso una ragazzina di undici anni. Eduard ha vissuto a fianco di questi due adolescenti di provincia, uno dei quali è ritardato mentale. Ha sentito aleggiare intorno a loro l’aura di miseria e vergogna che avvolge i colpevoli di reati sessuali. Ha ricostruito, rimanendone affascinato, il percorso attraverso cui «due giovanissimi maschi solitari arrivano a rompere una raffinata e graziosa bambola perché non sanno come adoperarla». E quando, prima di lasciare Saratov, uno di quei due ragazzi che passeranno il resto della vita a farsi martirizzare in un campo dove vige un regime durissimo gli sussurra: «Buona fortuna, Edik», Eduard ne è turbato, addirittura sconvolto: quel viatico gli è caro.

 

 

«Ne ho incontrati molti» scrive «di questi uomini forti e malvagi che hanno ucciso e ora sono torturati dallo Stato. Sono miei fratelli, io sono un piccolo muik come loro in balìa del vento ostile delle prigioni. Voi me l’avete chiesto, e io scrivo per voi, ragazzi, ospiti delle segrete. Non vi giudico. Sono uno di voi».

È vero, Eduard non giudica. Non si illude, non compiange, ma è attento, curioso, all’occorrenza servizievole. Alla mano. Presente. Mi viene in mente il mio amico, il giudice Étienne Rigal, per il quale il più grande complimento che si possa rivolgere a una persona è dirle che sa stare al proprio posto. Se c’è qualcuno al mondo di cui non avrei mai pensato di dirlo, quel qualcuno è Limonov, che con tutto il suo coraggio e la sua energia vitale mi sembra il più delle volte incapace di stare al suo posto. Ma non in prigione. In prigione Eduard sa stare al suo posto.

Un’altra citazione, che mi piace molto: «Appartengo a quella categoria di persone che non si sentono perdute in nessun luogo. Vado verso gli altri, gli altri vengono verso di me. Le cose si aggiustano naturalmente».

 

 

Uno di quelli con cui Eduard va più d’accordo è un certo Paša Rybkin. A trent’anni, questo gigante dal cranio rasato ne ha già passati dieci in carcere e, come dice a Eduard con un’immagine efficace, «vive in mezzo ai delitti come gli abitanti di un bosco in mezzo agli alberi». Ciò non toglie che sia un uomo pacifico, sempre di buon umore, che riunisce in sé i tratti dello Stolto in Cristo russo e dell’asceta orientale. Porta pantaloni corti e ciabatte infradito sia d’estate che d’inverno, anche quando il termometro in cella scende sottozero, non mangia carne, non beve tè ma acqua calda e si dedica a esercizi di yoga stupefacenti. È una cosa che quasi nessuno sa, ma in Russia moltissima gente pratica lo yoga: ancora più che in California, ed è un’attività diffusa in ogni ambiente. Paša riconosce ben presto in «Eduard Veniaminoviè» un uomo saggio. «Non se ne fanno più di persone come lei» gli assicura «o, almeno, io non ne ho conosciute». E gli insegna a meditare.

Se uno non ha mai provato sembra un’impresa ardua, ma in realtà è una cosa semplicissima, che si può imparare in cinque minuti. Ci si siede a gambe incrociate, cercando di stare il più dritti possibile, si tende la colonna vertebrale dal coccige all’occipite, si chiudono gli occhi e ci si concentra sul proprio respiro. Inspirazione, espirazione. Tutto qui. La difficoltà sta proprio nel fare che sia tutto qui. La difficoltà sta nel limitarsi a questo. All’inizio ci si dà troppo da fare, si cerca di scacciare i pensieri. Presto ci si rende conto che non è semplice scacciarli; allora si resta a guardarli girare in tondo, e piano piano gli si va dietro sempre di meno. A poco a poco il respiro rallenta: l’idea è quella di osservarlo senza modificarlo, e anche questo è molto difficile, quasi impossibile, ma con la pratica si migliora un po’, e un po’ è già tantissimo. Si intravede un’isola di pace. Se per una ragione o per l’altra non si è tranquilli, se si è agitati, non è grave: si osserva la propria agitazione, o il proprio fastidio, o la propria voglia di muoversi, e osservandoli li si pone a distanza, liberandosene un poco. Per quanto mi riguarda, sono anni che mi dedico alla meditazione. Non ne parlo perché mi mette a disagio il suo lato new age, «siate zen» e tutte quelle menate, ma è così efficace e salutare che fatico a capire perché non la pratichino tutti. Poco tempo fa un mio amico diceva scherzando che David Lynch, il regista, si era rimbambito perché non faceva altro che parlare di meditazione e voleva convincere i governi a inserirla nei programmi delle scuole elementari. Io non ho detto niente, ma mi sembrava chiaro che in quella storia il rimbambito fosse il mio amico e non Lynch, il quale aveva assolutamente ragione.

Comunque, appena Paša Rybkin, delinquente buono e saggio, gli illustra la faccenda, Eduard, con il suo consueto piglio pragmatico, ne afferra l’utilità e introduce nella sua rigorosa tabella di marcia alcune oasi di meditazione. All’inizio si siede sul suo giaciglio a occhi chiusi nella posizione del loto, ma una volta preso il via scopre che può praticare la meditazione ovunque, in forma discreta, senza dover assumere quella posizione un po’ esibizionista di cui abusano le campagne pubblicitarie, che si tratti di acque minerali o di polizze assicurative. Nel tragitto attraverso le varie gabbie, i bugigattoli metallici e i furgoni che dalla sua cella porta all’ufficio del giudice istruttore, fra l’abbaiare dei cani lupo, il puzzo soffocante di piscio e le imprecazioni mattutine della sua scorta, Eduard impara a ritirarsi in se stesso e a raggiungere uno stato mentale in cui si sente tranquillo, irraggiungibile. Ripeto: se c’è uno che non avrei mai immaginato capace di dedicarsi a un esercizio simile, questo è proprio lui, e penso che tale pratica abbia avuto un ruolo importante nell’equilibrio di cui Eduard ha dato prova in prigione. Penso anche che l’incontro con Zolotarëv e la strana esperienza vissuta nell’Altaj dopo avere saputo della sua morte lo abbiano predisposto a ricevere quel dono, e basterebbe insistere appena un po’ per farmi dire che è stato il trapper, da dove si trova ora, a mandarglielo.

 

3

 

La sera del 23 ottobre 2002 i suoi compagni di cella stanno guardando alla televisione uno di quei film polizieschi per cui vanno pazzi, sebbene Eduard cerchi di fargli capire che quelle storie sono offensive nei loro riguardi: gli sbirri sono raffigurati come eroi, i delinquenti come mostri. I detenuti sanno benissimo che quella non è la verità – ma non ha importanza, non si stancano mai di guardarli. Improvvisamente il programma viene interrotto da un annuncio, accompagnato da una musica drammatica: a Mosca gli attori e il pubblico di un teatro sono stati presi in ostaggio da un commando di terroristi ceceni. I compagni di Eduard se ne fregano, la realtà li interessa meno delle loro stupide fiction e spegnerebbero volentieri il televisore se lui non si opponesse. Un notiziario dopo l’altro, Eduard non si perderà nulla di quanto avviene nelle cinquantasette ore successive, fino all’attacco con i gas sferrato all’alba del 26 ottobre contro le ottocento persone chiuse dentro il teatro, senza distinzioni fra terroristi e ostaggi.

La vicenda lo appassiona e lo preoccupa così tanto innanzitutto perché anche lui è accusato di terrorismo, il suo processo si avvicina e la paranoia che si sta abbattendo sul paese non migliorerà la sua posizione. Poi c’è il fatto che di fronte alla montagna di morti gasati dalle forze speciali i reati dei suoi compagni di prigionia impallidiscono, e in futuro a Eduard capiterà spesso di paragonare i delitti commessi in un impeto passionale o sotto l’effetto dell’alcol, che i responsabili pagheranno per il resto della loro vita, e i delitti di Stato, per i quali invece si ricevono le stellette. Ma quello che colpisce di più negli appunti presi da Eduard nei giorni in cui si consuma la tragedia della Dubrovka è l’esatta coincidenza fra la sua analisi a caldo, basata esclusivamente sull’informazione televisiva, e quella di una donna che Eduard non conosce – e, se la conoscesse, probabilmente non gli piacerebbe –, la quale ha potuto invece seguire gli eventi da molto più vicino: Anna Politkovskaja. Come lei, Eduard teme sin dall’inizio un bagno di sangue, e quando il bagno di sangue avviene, come lei Eduard intuisce, rinchiuso nella sua cella a Saratov, che le autorità mentono, che il numero delle vittime è molto più alto di quello comunicato e che non si è fatto nulla per cercare di salvarle. Quando Putin dichiara, con un virile cenno del mento, che «contro la minaccia terroristica, poco importano le perdite, non cederemo mai, lo tengano bene a mente!», come lei Eduard ricorda la voce che circolava con insistenza secondo la quale i terribili attentati del 1999 non erano stati opera dei ceceni ma dell’FSB con l’avallo del presidente, e come lei finisce per dare a Putin del «fascista». È la prima volta, per quanto ne so, che Eduard usa questa parola in senso spregiativo.

 

 

La piccola Nastja giunge da Mosca per un colloquio: mezz’ora, separati da un vetro. Nastja ha vent’anni, è deliziosa con il suo abito cinese e la lunga treccia nera. Parla a Eduard del suo primo anno alla facoltà di Giornalismo e dei lavoretti che fa per mantenersi agli studi: vende gelati, si occupa dei cani in un canile. Gli chiede se è d’accordo che lei si compri un pitbull, da tenere in casa. Eduard acconsente ridendo: «Preferisco che ti porti in casa un cane piuttosto che un uomo».

Ha il diritto di risponderle così? È tormentato dal dubbio. A volte pensa che sarebbe saggio, e anche nobile, dirle: «Non aspettarmi. Vattene. Devi vivere la tua vita e non puoi farlo con me. Tra noi ci sono quarant’anni di differenza, e Dio solo sa quando uscirò di qui. Trovati un ragazzo della tua età, pensa a me qualche volta, avrai la mia benedizione». Ma non riesce a dirglielo. Non soltanto perché tiene a lei, e perché nessun detenuto di nessun carcere al mondo respingerà mai l’amore di una donna, ma anche, e soprattutto – questo è almeno ciò che pensa Eduard –, perché quelle parole sarebbero un insulto per Nastja. Pronunciarle significherebbe trattare quella intrepida ragazzina da persona ordinaria, sottomessa alle regole comuni, mentre lei vuole con tutte le sue forze essere una persona straordinaria, un’eroina, l’unica donna degna dell’eroe che è Eduard, l’unica che terrà duro nella cattiva sorte e gli resterà fedele laddove tutte le altre lo hanno tradito.

«Sai,» dice Nastja «la moglie più giovane del profeta Maometto giocava ancora con le bambole quando lo ha conosciuto».

«Con le bambole? Davvero? Ma dimmi: per quanto tempo pensi di potermi aspettare?».

Lei lo guarda, con candore, stupita. Nessuno l’ha mai guardato così. Nessuno l’ha mai amato così.

«Ti aspetterò sempre».

Il 31 gennaio 2003 il pubblico ministero della procura generale della Federazione russa, un certo Verbin, di cui Eduard rileva la somiglianza con una motosega in posizione verticale, chiede per l’imputato Savenko una condanna a dieci anni di reclusione ai sensi dell’articolo 205, a quattro anni ai sensi dell’articolo 208, a otto anni ai sensi dell’articolo 222 comma 3, e a tre anni ai sensi dell’articolo 280 – in totale fanno venticinque. Nella sua grande clemenza, il pubblico ministero propone la riduzione della pena a quattordici anni. L’imputato Savenko, che si è dichiarato innocente dall’inizio alla fine del processo, si impone di ascoltare l’arringa senza battere ciglio, ma dentro di sé è distrutto. Non ha scontato nemmeno due anni e, se il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero, uscirà quando ne avrà settantacinque. Coraggio e volontà non servono a niente, Eduard sa che cos’è un uomo di settantacinque anni che esce dopo quattordici anni di galera in Russia: un morto che cammina.

 

 

Tre giorni dopo arriva una seconda mazzata. Sul canale NTV il telegiornale comunica la morte di Nataša Medvedeva, ex moglie di Eduard Limonov e figura di spicco del rock alternativo (il giornalista ne parla come di una specie di Nico russa). Non si dice esplicitamente che è morta per overdose ma lo si lascia intendere. Una volta, molto tempo prima, quando vivevano ancora insieme, Eduard e Nataša avevano confrontato i diversi modi di suicidarsi ed erano arrivati alla conclusione che il migliore fosse quello di uccidersi con l’eroina: un grande abbaglio estatico, poi la pace. Dopo Anna, Nataša… È lui che si innamora di donne destinate a una fine tragica, o sono loro a finire tragicamente perché lo hanno conosciuto, amato e perduto? Eduard pensa che Nataša – come Anna, e anche come Tanja, con tutto che è diventata una marchesa spagnola – non abbia mai smesso di amarlo, e forse abbia addirittura deciso di farla finita quando è venuta a sapere della terribile pena che è stata chiesta per lui. Eduard ricorda il corpo di Nataša, le sue gambe aperte, il loro modo selvaggio e quasi incestuoso di fare l’amore. Pensa che forse non farà mai più l’amore. Prostrato sulla sua cuccetta, non più nella posizione del loto ma rannicchiato come un feto, culla la propria disperazione mormorando, pianissimo, questa piccola ballata che ha appena composto:

Ora la mia Natašen’ka
sotto una pioggerella tiepida
passeggia da qualche parte a piedi nudi.
Lassù, sopra una nuvola,
il buon Dio maneggia un coltellaccio
che disegna riflessi sul suo viso.
Ba-da-da-da! Bum-bum-bum-bum!
canta Nataša tutta nuda.
Sporge le labbra tumide,
agita le grandi mani morte,
socchiude le lunghe gambe morte
cammina svelta verso il paradiso,
tutta nuda e gocciolante.

4

 

Con le sue palizzate dai colori squillanti al posto delle reti metalliche, con le siepi di roseti e i lavelli simil Philippe Starck, il penitenziario numero 13, a Engel’s, è il campo di lavoro modello (di cui ho già parlato all’inizio del libro) che viene mostrato ai difensori dei diritti umani affinché se ne ripartano convinti che la situazione carceraria in Russia ha fatto progressi. Così nel 1932, al culmine di una carestia che aveva ridotto allo stremo i contadini, arrivati al punto di uccidere i propri figli, H.G. Wells concludeva, sulla base dell’eccellente pranzo offertogli a Kiev, che in Ucraina si mangiava proprio bene. In realtà, fra i detenuti russi Engel’s gode di una fama terribile, tanto che alcuni di loro si sono automutilati nella speranza di evitarlo. Ciò nonostante, Eduard si ritiene fortunato. Va detto che l’ha scampata bella: due mesi dopo che il pubblico ministero Verbin aveva chiesto per lui quattordici anni, il giudice lo ha condannato a quattro, dei quali Eduard ha già scontato la metà. Solo due anni mentre se ne aspettava dodici, è un miracolo, e Eduard è più che mai deciso a rigare dritto, e a non abboccare alle provocazioni di ufficiali e secondini infastiditi dalla sua celebrità. Sa che in ogni momento un tipo con la luna storta può mettergli i bastoni fra le ruote e con una scusa qualsiasi rifilargli una settimana in cella d’isolamento, o anche peggio. Fra le storie spaventose che girano a Engel’s c’è quella di un carcerato che il giorno prima di uscire ha avuto la sfortuna di imbattersi in un sottufficiale ubriaco. Il sottufficiale ubriaco ha giudicato il prigioniero mal rasato e per capriccio, per fargli vedere chi comandava, gli ha allungato la pena di un anno. Di punto in bianco, nell’arbitrio più totale, in virtù di una procedura interna al campo. Dopodiché, anche volendo rivolgersi al giudice, prima che la decisione venga annullata uno fa in tempo a beccarsi altri dieci anni. Per questo, a Engel’s, Eduard cerca di rendersi invisibile, e poiché ha il grande talento di saper trarre vantaggio da qualsiasi cosa gli capiti, ci mette poco a trovare interessante anche quel posto.

 

 

Lefortovo e Saratov hanno fatto di lui un esperto della vita carceraria, ma del campo di lavoro è un novellino. A Engel’s scopre che la condizione dello zek non è cambiata molto dalla descrizione che ne ha dato Solenicyn. Come quella di Ivan Denisoviè, la giornata di Eduard Veniaminoviè comincia alle cinque e mezzo, quando suona la sirena. In realtà comincia un po’ prima, perché Eduard si sveglia da sé alle cinque. Mentre nella baracca gli altri russano ancora, lui solo, immobile come una mummia sotto le coperte, ascolta il proprio respiro. Quel momento è tutto suo, gli piace, lo assapora. Eduard non porta l’orologio, ma non ha bisogno di guardare l’ora per sapere con precisione, quasi al minuto, quanto tempo gli resta prima che si scateni la baraonda. A mano a mano che si avvicina il momento, Eduard si sente come un motore in attesa che venga girata la chiave di avviamento. Ed ecco che urla la sirena, urlano e imprecano i secondini, gli occupanti delle cuccette di sopra ruzzolano su quelli di sotto, i cazziatoni si sprecano – e comincia la giornata.

Prima c’è l’assalto ai bagni, con pausa sigaretta in cortile. Eduard, che è uno dei pochi a non fumare, ne approfitta per andare subito a cacare. Va di corpo con regolarità esemplare, però ha osservato che la sua merda puzza più di quando era in libertà, e anche più di quando stava in prigione. Ha anche notato che se la merda degli zek puzza, le loro pattumiere invece non hanno nessun odore. Infatti non contengono nulla di organico tranne i mozziconi di sigaretta, perché tutto ciò che è organico è più o meno commestibile e tutto ciò che è commestibile viene mangiato: questa è la legge del campo.

Alle sei e mezzo c’è il primo appello, sul terrapieno centrale. Cognome, nome, patronimico, articoli della condanna. Ci sono tre appelli al giorno, e poiché i detenuti sono ottocento ogni appello dura un’ora abbondante. In estate non c’è problema, ci si abbronza – d’inverno è più dura. Eduard ha avuto la fortuna di essere arrivato al campo di Engel’s in maggio, così è riuscito ad abituarsi a poco a poco. Dopo l’appello tocca alla zarjadka, la mezz’ora di ginnastica collettiva, poi – finalmente! – la colazione. Ottocento zek dal cranio rasato entrano nell’immenso refettorio a infornate successive. Tintinnio di cucchiai, bocche che lappano, liti subito sedate, e sopra tutto questo una musica indefinibile, tra l’hard rock e il pot-pourri sinfonico, la cui cadenza marziale dovrebbe, pensa Eduard, incitare alla ribellione, a spaccare tutto, a infilzare le teste sulla punta delle picche, e invece no: con la schiena curva, il braccio a proteggere la scodella di latta come se qualcuno volesse rubar loro la sbobba, gli zek ingoiano in silenzio kaša e minestra allungata, con un po’ di pane nero. È quest’alimentazione senza vitamine che li rende grigi, che dà alla loro merda l’odore malsano notato da Eduard e che, senza farli morire di fame, li priva di ogni energia. È una cosa certamente intenzionale.

 

 

A differenza delle prigioni in cui è stato, Engel’s è un campo di lavoro, anzi di rieducazione tramite il lavoro. Si comincia dopo colazione. La caratteristica di questo lavoro è che di norma non serve a niente. Subito dopo l’arrivo di Eduard sono cadute piogge abbondanti e da allora il campo è perennemente allagato. L’amministrazione ha stabilito che al momento dei tre appelli quotidiani il terreno dev’essere asciutto, pena il divieto per tutti di guardare la televisione – Eduard personalmente se ne infischia, ma per gli altri sarebbe un dramma. Il risultato è uno spettacolo da film comico: dalla mattina alla sera, file di detenuti svuotano con bicchieri pozzanghere che tornano a riempirsi di continuo. All’inizio Eduard aveva pensato che sarebbe stato più razionale pavimentare il campo per favorire il deflusso dell’acqua. Aveva anche pensato di farlo notare, ma per fortuna si è trattenuto: ha capito in tempo che l’amministrazione penitenziaria non si comporta come un datore di lavoro razionale, e questo perché la fatica di Sisifo è una vecchia tradizione dei campi: nulla è più deprimente – hanno osservato tutti i reduci del gulag - che spaccarsi la schiena con un lavoro inutile e assurdo, come scavare una buca, poi scavarne un’altra da riempire con la terra della prima, e così via. Il bravo zek è uno zek abbattuto, incapace di reagire: anche questo è intenzionale.

A sessant’anni, Eduard è ritenuto un pensionato, e come tale è esentato dai lavori pesanti, ma non per questo è libero di scrivere, leggere o meditare come poteva fare a Lefortovo e Saratov. Finché non viene sera gli è proibito tornare nella baracca ai libri e ai quaderni, ma deve dedicarsi a operazioni di pulizia, anch’esse assurde. Pulire bene, ma veramente bene, una fila di latrine richiede al massimo un’ora. A Eduard ne danno quattro. E lui ce ne metterà quattro. Quattro volte egli percorrerà la faticosa tela, non ci saranno al mondo cessi più splendenti, e nessuno lo vedrà un solo secondo con le mani in mano.

Non si tratta soltanto di zelo esteriore. Eduard non batte la fiacca nemmeno interiormente. Le incombenze moleste e ripetitive invitano alle fantasticherie, e san Paša Rybkin, lo yogin di Saratov, lo ha messo in guardia: la fantasticheria è l’esatto opposto della meditazione. È un leggero rumore di fondo mentale di cui i più nemmeno si accorgono, ma è proprio il modo peggiore di sprecare tempo ed energia. Per evitare questo rischio, Eduard conta i respiri, li prolunga, si concentra sul percorso dell’aria, dalle narici al basso ventre e ritorno, oppure recita a se stesso, prestando attenzione a ogni verso, alcune poesie che sa a memoria ma, perlopiù, scrive. Mentalmente, ovvio, come faceva Solenicyn cinquant’anni prima di lui: componendo una frase alla volta, un paragrafo alla volta, poi un capitolo alla volta, memorizzandoli via via, migliorando giorno dopo giorno le prestazioni di un disco rigido già di per sé stupefacente.

In teoria il regolamento del campo non proibisce di scrivere, ma da un lato Eduard ha poco tempo a disposizione (al massimo un’ora alla sera) per salvare il lavoro della giornata, dall’altro, se scrive, risveglia la curiosità dei secondini, una curiosità meno rispettosa che nelle prigioni precedenti. Un giorno uno di quei tizi torvi e sospettosi ha preteso di vedere il suo quaderno, lo ha sfogliato in un silenzio carico di minacce, e alla fine gli ha chiesto: «Parli di me qui dentro?». Eduard se l’è vista brutta, e da allora prende soltanto appunti diplomaticamente edulcorati. Conta sulla memoria per integrarli quando sarà fuori.

Fa bene. Poco prima della sua scarcerazione i quaderni spariranno misteriosamente, e Eduard sarà costretto a riscrivere dall’inizio alla fine, senza l’aiuto di nessun appunto, il libro composto a Engel’s. Il quale libro ci ha soltanto guadagnato, pensa lui.

 

5

 

Come raccontare quel che mi tocca raccontare adesso? È un’esperienza che non si può raccontare. Mancano le parole. Se uno non l’ha vissuta non ne ha la più pallida idea – e io non l’ho vissuta. A parte Eduard, conosco una sola persona che l’abbia vissuta. È il mio migliore amico, Hervé Clerc, il quale ne ha parlato in un libro che è anche un saggio sul buddhismo e s’intitola Les Choses comme elles sont. Preferisco le sue parole a quelle di Eduard, ma a me tocca raccontare l’esperienza di Eduard. Ci provo.

 

 

Lui ricorda benissimo l’attimo precedente. Un attimo normale, di quelli che tessono la tela del tempo normale. Sta pulendo l’acquario che si trova nell’ufficio di un ufficiale superiore. Nell’amministrazione penitenziaria tutti gli uffici degli ufficiali superiori sono forniti di acquario. A tutti quanti piacciono i pesci? E se a uno di loro non dovessero piacere, può chiedere di far portare via l’acquario? Più probabilmente non ci fanno nemmeno caso. A Eduard comunque piace pulire gli acquari, è un lavoro meno sporco e più divertente che pulire i cessi. Ha preso i pesci con un guadino e li ha messi in una tinozza, poi con un secchiello ha svuotato l’acquario, che ora è asciutto, e ne sta lucidando le pareti con una spugna. Pur impegnato in questo compito, Eduard controlla il proprio respiro. È calmo, concentrato, attento a ciò che fa e a ciò che sente. Non si aspetta niente di particolare.

E poi, senza preavviso, tutto si ferma. Il tempo, lo spazio: eppure non è la morte. Nulla di quanto lo circonda ha mutato aspetto, né l’acquario, né i pesci nella tinozza, né l’ufficio, né il cielo oltre la finestra dell’ufficio, ma è come se tutto ciò fosse stato fino a quel momento soltanto un sogno e d’un tratto diventasse pienamente reale: elevato al quadrato, svelato e insieme annullato. Eduard viene risucchiato da un vuoto più pieno di tutto ciò che è pieno al mondo, da un’assenza più presente di tutto ciò che riempie il mondo della propria presenza. Non è più da nessuna parte ed è interamente lì. Non esiste più e non è mai stato così vivo. Non c’è più nulla, c’è tutto.

La si può chiamare «trance», «estasi», «esperienza mistica». Il mio amico Hervé dice che è un rapimento.

 

 

Vorrei essere più diffuso, più preciso, più convincente, ma so bene che non posso far altro che accumulare ossimori: oscura chiarezza, pienezza del vuoto, vibrazione immobile, e potrei proseguire a lungo senza che né io né il lettore facciamo un passo avanti. Confrontando le loro esperienze e le loro parole, posso soltanto dire che Hervé e Eduard sanno con assoluta certezza di aver avuto accesso – il primo trent’anni fa in un appartamento parigino, il secondo mentre puliva un acquario nell’ufficio di un ufficiale nel penitenziario numero 13 di Engel’s – a ciò che i buddhisti chiamano «nirvana». Il reale puro, senza filtri. Dall’esterno si può certo obiettare: d’accordo, ma cosa ci garantisce che non fosse un’allucinazione? Un’illusione? Un’impostura? Nulla, tranne l’essenziale: quando uno giunge al nirvana lo sa e basta, e sa che quell’annullamento e quella luce non si possono imitare.

Hervé e Eduard dicono anche un’altra cosa: quando si è ghermiti, travolti, sollevati fin là, si sente – ammesso che ci sia ancora qualcuno che senta – qualcosa di simile a un immenso sollievo. Il desiderio e l’angoscia che sono alla base della vita umana si dissolvono. Ritorneranno, naturalmente, perché se non si è un «risvegliato», uno di quelli che, dicono gli indù, nascono una volta ogni cento anni, non si può rimanere per sempre in tale condizione. Ma si è assaporata la vita senza desiderio e senza angoscia, si sa per esperienza diretta che cosa significhi tirarsi fuori.

 

 

Poi si ridiscende. Dopo avere vissuto in un lampo tutta la durata del mondo e il suo annullamento, si ricade nel tempo. Si ritrova il vecchio binomio: desiderio e angoscia. Ci si chiede: «Che ci faccio qui?». Allora si può, come Hervé, trascorrere i trent’anni successivi a riflettere e assimilare questa esperienza ineguagliabile. Oppure si può, come Eduard, tornare nella propria baracca, sdraiarsi sul materasso, prendere il quaderno e scrivere: «Questo mi aspettavo da me. Ora nessun castigo può toccarmi, perché saprò trasformarlo in felicità. Uno come me può trarre gioia anche dalla morte. Non tornerò alle emozioni dell’uomo comune».

 

 

Ho scritto queste pagine delicate a casa di Hervé, in Svizzera, nello chalet in cui lui e io ci incontriamo due volte all’anno per andare a camminare sulle montagne del Vallese. E, nella biblioteca dello chalet, ho trovato una raccolta di articoli dedicata a Julius Evola. Evola, per farla breve, era un fascista italiano di notevole levatura intellettuale, insieme nietzschiano e buddhista, il che lo rende un mito per i fascisti colti come Dugin. Nell’accozzaglia di erudizione tradizionalista disseminata in questa raccolta spicca un bel testo di Marguerite Yourcenar. Mi sono annotato queste parole, che mi hanno colpito e che non ho potuto fare a meno di collegare a Eduard:

«Quando la forza acquisita tramite le discipline mentali viene deviata a vantaggio dell’avidità, dell’orgoglio e della volontà di potenza, essa non si annulla, ma precipita ipso facto in un mondo in cui ogni azione si concatena a un’altra e ogni eccesso di forza ricade su chi lo esercita … È evidente che il barone Julius Evola, cui nulla della grande tradizione tantrica era ignoto, non si è mai preoccupato di procurarsi l’arma segreta dei lama tibetani: il pugnale-che-uccide-l’Io».

 

6

 

Eduard viene convocato nell’ufficio del direttore. Per uno zek una simile convocazione è a priori un brutto segno. Il direttore Eduard l’ha visto soltanto una volta, il giorno del suo arrivo, e gli è bastata. Oggi invece quell’uomo noto per la sua freddezza accoglie Eduard con cortesia e gli comunica che è attesa la visita di una di quelle delegazioni a cui le autorità si compiacciono tanto di mostrare il campo. Uno dei componenti della delegazione, il consigliere-del-presidente-per-i-diritti-umani Pristavkin, ha espresso il desiderio di incontrare il detenuto Savenko. Il detenuto Savenko ha nulla in contrario?

Il detenuto Savenko non ci si raccapezza. Innanzitutto perché gli viene chiesto il suo parere, mentre uno zek non è tenuto a essere o meno d’accordo, deve soltanto rigare dritto; in secondo luogo per l’interesse che manifesta nei suoi riguardi Pristavkin. Questi è un apparatèik della cultura, un gorbaèëviano convinto, che Eduard conosce per esserselo trovato di fronte in un dibattito sui crimini del comunismo. In quell’occasione i due hanno avuto un violento litigio, Eduard ha accusato Pristavkin di essere un traditore e un venduto, e a sua volta, in seguito, Pristavkin non ha perso occasione per attaccare Eduard, il fascista, tanto da scrivere sulla «Literaturnaja gazeta»: «Che rimanga in prigione. È quello il posto in cui sta meglio».

Perciò Eduard non si fida di Pristavkin, e teme che quell’onore gli attiri dei sospetti. Comunque accetta, e il giorno stabilito si ritrova in una sala d’attesa attigua all’ufficio del direttore in compagnia di un’altra decina di detenuti ripuliti e ben sbarbati, evidentemente scelti con cura per fare buona impressione sui delegati. Aspettano tutti senza aprire bocca, senza osare guardarsi, imbarazzati di trovarsi lì. Alla fine i delegati arrivano: dal colorito vermiglio si capisce che a pranzo hanno alzato un po’ il gomito. Passano una mezz’ora a chiedere ai detenuti come vanno le cose, se sono trattati bene – e Eduard dentro di sé sghignazza: sono così idioti da credere che uno zek, in presenza del direttore e sapendo cosa lo aspetta appena i visitatori se ne saranno andati, avrà il coraggio di rispondere che no, le cose non vanno affatto bene? Che sono trattati male? Di sottecchi Eduard osserva Pristavkin, il quale, di sottecchi, osserva Eduard. Dall’ultima volta che si sono visti, Pristavkin ha perduto un po’ di capelli, si è appesantito e gli è venuta la couperose: la vita di avventuriero conserva meglio di quella di apparatèik, pensa il tonico Eduard. Alla fine Pristavkin chiede al direttore, ma a voce abbastanza alta perché tutti possano sentirlo, il permesso di parlare a quattr’occhi con il detenuto Limonov.

«Savenko» rettifica l’interessato.

«Ma certo» si affretta a rispondere il direttore. «Vada pure nel mio ufficio».

 

 

I due si appartano nell’ufficio, sotto lo sguardo stupefatto degli altri. Un istante di indecisione: dove sedersi? Eduard, dipendesse da lui, rimarrebbe in piedi lasciando all’altro la poltrona del direttore – è questa la realtà delle loro situazioni, e se gli proponessero uno scambio Eduard non lo accetterebbe –, ma Pristavkin lo prende per un braccio e si accomodano entrambi sul divanetto, davanti al tavolino, come vecchi amici.

«Sigaro?» propone Pristavkin. Eduard risponde che non fuma. «Allora,» riprende Pristavkin, il cui alito sa di cognac «lo scherzo è durato abbastanza. Eduard Veniaminoviè, lei è un grande scrittore russo. Il suo Libro dell’acqua è un capolavoro. Sì sì, se lo lasci dire: un capolavoro. Del resto, gli esperti non sbagliano. Ha visto che è entrato nella shortlist del Booker Prize? Il PEN club è preoccupato per la sua sorte; gli organi non lo ammetteranno mai ufficialmente, è ovvio, ma l’accusa di terrorismo non regge. I tempi cambiano, non bisogna sbagliare bersaglio. La vera criminalità, oggi, è quella economica: uno come Michail Chodorkovskij, che si mette in tasca miliardi di dollari, lui sì che è un criminale, e della peggior specie, ed è stato mille volte giusto schiaffarlo in prigione. Ma un artista come lei, Eduard Veniaminoviè, un maestro della prosa russa… Il suo posto non è fra gli assassini».

«Alcuni sono ottime persone» replica Eduard.

«Ah sì? Lei trova che gli assassini siano brave persone?» scoppia a ridere Pristavkin bonario. «Questa è un’opinione da scrittore. Lo diceva anche Dostoevskij… Comunque, con lei sono stati troppo severi. Ma non si preoccupi, Eduard Veniaminoviè, sistemeremo la faccenda».

«Non mi dispiacerebbe» dice prudentemente Eduard.

«Eh, immagino! Ora, tutto diventerebbe più semplice se lei si riconoscesse colpevole. Non la prenda a quel modo, lo so che al processo si è rifiutato di farlo, ma mi dia retta: sarebbe una pura formalità, giusto per non far perdere la faccia ai nostri amici dell’FSB, lei sa quanto sono permalosi. Potrebbe anche non saperlo nessuno. Sarà nel suo dossier, ecco tutto. Lei si dichiara colpevole, e nel giro di un mese, due al massimo, è fuori».

Eduard lo guarda, cercando di intuire dal suo volto se gli stanno tendendo una trappola. Poi scuote la testa: più che la libertà, gli preme la sua reputazione di duro che non si cala le brache.

«Ci pensi» conclude Pristavkin.

 

 

Dopo questa visita il suo destino è incerto, e il fatto che esso venga deciso ai piani alti suscita strane reazioni intorno a lui: rispetto, invidia, e anche la convinzione che sia meglio stargli alla larga. Quando gliene parlano, Eduard minimizza: quel Pristavkin doveva essere ubriaco, è una cosa che non avrà seguito.

Si sbaglia, e il suo avvocato viene apposta da Mosca per confermarglielo. Il vento è cambiato, stavolta in suo favore. Eduard non è più considerato un terrorista ma una specie di Dostoevskij, proprio così, che scrive grandi libri dalle profondità del sottosuolo, e quell’opportunista di Pristavkin deve aver pensato che si trattava di un’occasione imperdibile per darsi arie da liberale. Eduard, però, si ostina a rifiutare la condizione che gli è stata posta: ne va del suo onore. L’avvocato propone una soluzione da casista: eludere la questione della colpevolezza e insistere invece sul fatto che il condannato non ha mai contestato la sentenza.

Così va bene, accondiscende Eduard.

 

 

Dopo va tutto molto in fretta. Anche troppo. Eduard si era adattato ai ritmi di una condanna lunga, alla quale aveva adeguato i suoi pensieri, i suoi progetti, perfino il suo metabolismo, e ora gli comunicano che di lì a dieci giorni, otto, tre, sarà tutto finito, la scenografia verrà smontata, le comparse licenziate, si passa a un altro film. Il direttore non convoca Eduard ma lo invita a recarsi nel suo ufficio e gli riserva un trattamento da VIP – come se fosse stato tutto uno scherzo, un gioco di ruoli che una volta concluso si può commentare fra uomini di mondo. Il direttore si fa autografare la sua copia del Libro dell’acqua, si informa di quale ricordo l’ex detenuto di riguardo conserverà del suo istituto. «Lo raccomanderò senz’altro ai miei amici» risponde Eduard, e il direttore è deliziato dal suo umorismo: «Lo raccomanderà ai suoi amici! Ah! Ah! Che burlone che è lei, Eduard Veniaminoviè!».

A Engel’s le scarcerazioni anticipate sono rare, e quella di Eduard puzza così tanto di raccomandazione da metterlo a disagio con i compagni. Dopo aver fatto di tutto, con assoluta sincerità, per mostrare agli altri detenuti di essere un piccolo muik come loro, in balìa del vento ostile delle prigioni, ora Eduard rischia di apparire come uno di quei giornalisti che per il tempo di un reportage fingono di essere un senzatetto o un galeotto e, terminato il safari, se ne vanno dicendo: «Ciao, ragazzi, è stato fantastico, penserò a voi, vi manderò del foie gras a Natale» – promessa di cui in genere si dimenticano. Per uno così, Eduard proverebbe solo disgusto, ed è insieme sollevato e sorpreso quando si accorge che a Engel’s nessuno ce l’ha con lui – anzi, il suo prestigio è salito alle stelle. A quanto pare sono tutti contenti di conoscere una persona importante il cui caso viene sistemato con qualche intrallazzo nelle alte sfere e di poter raccontare che loro lo hanno conosciuto, e alla fine è quell’eccessiva ingenuità a disgustare un po’ Eduard.

 

 

Il giorno prima della scarcerazione riceve il permesso di riprendersi la valigia lasciata al deposito. Questa valigia è uno dei suoi feticci. Eduard l’ha fregata a Steven quando ha lasciato New York diretto a Parigi, e poi se l’è portata dietro ovunque, in guerra, nell’Altaj, nelle varie prigioni in cui è stato. Dentro ci sono due camicie, una nera e una bianca. La sera nella baracca c’è una festicciola d’addio, abbracci, pacche sulle spalle, e si discute a lungo su quale delle due camicie sia la più adatta per la sua uscita dal carcere. Non è una questione di secondaria importanza, perché l’evento sarà filmato dietro richiesta della televisione. Eduard era titubante, ma il direttore ha insistito molto, e i detenuti sono eccitati dall’idea come bambini che aspettano di essere portati al circo.

«Devi mettere quella bianca, è più elegante» dice Anton, un simpatico ragazzo, condannato a trent’anni per omicidio con l’aggravante della crudeltà.

«Ma, Anton,» ribatte Eduard «esco di prigione, non da un night».

«In ogni caso, devi essere elegante: sei uno scrittore famoso».

«Qui non ci sono scrittori famosi, soltanto zek» risponde Eduard, e prima ancora di terminare la frase si vergogna per quanto essa è falsa e demagogica. Certo che lui è uno scrittore famoso. Certo che il suo destino non ha nulla da spartire con quello di Anton.

 

 

Fin dalla sveglia la colonia è sottosopra per la presenza della troupe televisiva, composta da una mezza dozzina di persone: un giornalista, un regista, un cineoperatore, un tecnico del suono e qualche assistente, fra cui tre ragazze. Ragazze giovani, le quali, poiché siamo in estate, portano gonne corte e canotte attillate, ragazze che sanno di profumo e sotto il profumo sanno di femmina, di ascelle, di fica, ragazze che fanno perdere la trebisonda al branco di zek che loro stesse stanno mettendo in posa per l’appello del mattino, sul terrapieno centrale. L’ora dell’appello è passata da un pezzo, ma la troupe non è arrivata abbastanza presto per assistere a quello vero, e a ogni modo il regista ha la sua idea di come debba essere un vero appello. Il direttore si aspettava che nelle prime file venissero schierati i detenuti più presentabili, come lui stesso esige quando arriva in visita una delegazione, mentre con il procedere delle riprese diventa sempre più chiaro che il regista non ha intenzione di mettere in risalto le attrattive del luogo e la buona cera dei suoi ospiti, bensì di mostrare che l’avventuroso scrittore Limonov viene fuori dall’inferno. Nonostante le proteste del direttore, le graziose assistenti hanno il compito di riunire i ceffi più repellenti, e il cameraman di staccare sulle crepe dei muri, sulle pozzanghere fangose, sui cumuli d’immondizia – cosa piuttosto difficile in una colonia penale tutto sommato molto ben tenuta. Non voglio puntare l’indice contro di loro: io ho fatto esattamente lo stesso quando ho girato una sequenza del mio documentario nel carcere minorile di Kotel’niè, dove speravo di trovare uno spettacolo da girone dantesco e a malincuore mi sono dovuto rassegnare al fatto che così non fosse.

In mezzo a tutto quel trambusto, Eduard esegue coscienziosamente ciò che gli è stato chiesto. Recita la parte di se stesso. Nella scena dell’appello, incorniciato da due comparse dotate di perfette facce patibolari, urla a pieni polmoni cognome, nome, patronimico e gli articoli in base ai quali è stato condannato. È l’ultima volta che lo fa, ma saranno necessari tre ciak, perché il regista non è soddisfatto né del primo né del secondo. Poi, nel refettorio, si spazzola la sua sbobba, continuando a parlare «in modo naturale» con gli altri. «Ragazzi, fate come se noi non ci fossimo» ripete il regista. «Fate come se fosse un giorno qualsiasi».

Nel complesso i detenuti si divertono, e si contendono l’onore di essere inquadrati accanto al protagonista. «Mi si vede così? Mi si vede?» chiedono sgomitando. E Eduard, pur continuando con loro quella conversazione falsamente naturale, falsamente qualsiasi, di cui non resteranno che le sue battute perché soltanto lui è stato microfonato, pensa che ha fatto una stronzata ad accettare che ci fosse la televisione. Pensa che sia un vero peccato andarsene così. Forse pensa addirittura che, molto semplicemente, sia un peccato andarsene. Certo, non vede l’ora di ritrovare la libertà, la piccola Nastja e i ragazzi del partito. Ma non sarà mai più l’uomo che è stato lì dentro. Si può ben dire che il campo è l’inferno, ma Eduard, con la sola forza dello spirito, ha saputo farne un paradiso. Quel luogo per lui è diventato accogliente come il convento per un monaco. I tre appelli quotidiani erano le sue funzioni, la meditazione la sua preghiera, e il cielo, una volta, si è aperto per lui. Ogni notte, nella baracca, circondato dai compagni che russavano, si è segretamente inebriato della propria forza, del duro metallo di cui è fatta la sua anima sovrumana, nella quale si stava ultimando un processo misterioso, iniziato nell’Altaj accanto al trapper Zolotarëv: una liberazione autentica, eterna – e all’improvviso Eduard si chiede se la liberazione temporale non rischi di privarlo di quell’altra. Ha sempre pensato che la sua vocazione fosse immergersi il più a fondo possibile nella realtà, e la realtà era lì. Ora è tutto finito. Si sta lasciando alle spalle il miglior capitolo della sua vita.

 

EPILOGO
MOSCA, DICEMBRE 2009

 

 

1

 

Eccoci tornati all’inizio di questo libro. Quando ho fatto il mio articolo su di lui, Limonov era uscito di prigione da quattro anni. Di tutto quello che ho appena raccontato non sapevo niente, mi ci sono voluti quasi altri quattro anni per mettere insieme il materiale, ma ho sempre avuto la sensazione che qualcosa non andasse. Sembrava che Eduard fosse costantemente microfonato, come se recitasse la parte di se stesso davanti alla telecamera di un reality. Nel proprio paese era diventato la star che aveva sempre sognato di essere: scrittore osannato, guerrigliero mondano, habitué dei giornali scandalistici. Appena rimesso in libertà, aveva scaricato la valorosa piccola Nastja per buttarsi su una di quelle donne di categoria A alle quali non ha mai saputo resistere: un’incantevole attrice diventata famosa con un telefilm intitolato KGB in smoking. I suoi trascorsi carcerari ne facevano un idolo dei giovani, l’alleanza con Kasparov un uomo politico presentabile, e non escludo che Eduard abbia immaginato veramente di arrivare al potere sull’onda di una rivoluzione di velluto, com’era accaduto in passato a Václav Havel.

Alla fine – forse il lettore se lo ricorderà – le elezioni del 2008 sono andate esattamente come aveva previsto il giornalista inglese che avevo conosciuto alla conferenza stampa del tandem Limonov-Kasparov. Putin ha rispettato la costituzione rinunciando al terzo mandato, ma ha escogitato un sistema ingegnoso, simile a quello delle automobili con i doppi comandi che si usano nelle scuole guida: il nuovo presidente, Medvedev, occupa il posto dell’allievo, e Putin, nelle vesti di primo ministro, quello dell’istruttore. Questi lascia guidare l’allievo – che deve pur imparare – e quando se la cava bene si congratula rivolgendogli un paterno cenno del capo. È comunque rassicurante sapere che in caso di grane accanto all’allievo c’è un uomo d’esperienza. Ma la domanda che tutti si fanno è: nel 2012, Putin riprenderà in mano il volante, come gli consente la costituzione che vieta tre mandati solo se consecutivi? Oppure il docile Medvedev ci avrà preso gusto, sfiderà il suo mentore e forse lo annienterà, come Putin stesso ha annientato quelli che lo hanno fatto re?

 

 

A Putin penso parecchio, mentre si avvicina la fine di questo libro. E più ci penso, più ritengo che il dramma di Eduard sia stato credere di essersi sbarazzato dei vari capitani Levitin che gli avevano avvelenato la giovinezza e vedersi invece parare davanti, tanti anni dopo e quando credeva di avere ormai la strada spianata, un super capitano Levitin: il tenente colonnello Vladimir Vladimiroviè.

In occasione della campagna presidenziale del 2000 è stato pubblicato un libro di colloqui con Putin il cui titolo, in originale, è «In prima persona». Sarà stato probabilmente trovato da un qualche addetto alla comunicazione, ma è un titolo azzeccato, che potrebbe andar bene per tutta l’opera di Limonov e per una parte della mia. E in realtà va bene anche per Putin. Dicono che Putin parli in politichese: non è vero. Putin fa quello che dice, dice quello che fa, e quando mente è così spudorato che non ci casca nessuno. Se si esamina la sua vita, si ha l’inquietante sensazione di trovarsi davanti a un doppio di Eduard. Putin è nato in una famiglia dello stesso tipo di quella di Eduard, soltanto dieci anni dopo: padre sottufficiale, madre donna delle pulizie, tutti accalcati dentro la stanza di una kommunalka. Ragazzino gracile e introverso, è cresciuto nel culto della patria, della grande guerra patriottica, del KGB e della fifa che esso incuteva a quei senza palle di occidentali. Da adolescente è stato, per usare le sue stesse parole, un teppistello, e se non è diventato un delinquente lo deve soltanto al judo, a cui si è dedicato con tanta intensità che i suoi compagni ricordano ancora le terribili urla provenienti dalla palestra dove si allenava, da solo, la domenica. È entrato negli organi per romanticismo, perché essi annoveravano uomini eccezionali che difendevano la patria, e lui era orgoglioso di diventare uno di loro. Ha diffidato della perestrojka, non ha mai sopportato che masochisti o agenti della CIA facessero tante storie per i gulag e i crimini di Stalin, la fine dell’impero è stata per lui la più grande catastrofe del ventesimo secolo, e ancora oggi la pensa così. Nel caos dei primi anni Novanta si è ritrovato dalla parte dei perdenti, dei beffati, ridotto a fare il tassista. Adesso che è al potere, adora, come Eduard, farsi fotografare a petto nudo, i muscoli in evidenza, con addosso i pantaloni della tuta mimetica e un coltello da commando alla cintura. Come Eduard è freddo e astuto, sa che l’uomo è un lupo per gli altri uomini, crede solo nel diritto del più forte, nell’assoluto relativismo dei valori e preferisce fare paura piuttosto che averla. Come Eduard disprezza i frignoni che considerano sacra la vita umana. L’equipaggio del sottomarino Kursk può impiegare otto giorni a morire asfissiato sul fondo del Mare di Barents, le forze speciali russe possono gasare centocinquanta ostaggi nel teatro della Dubrovka e trecentocinquanta bambini possono essere massacrati nella scuola di Beslan, ma Vladimir Vladimiroviè dà al popolo notizie della sua cagnolina che ha partorito. La cucciolata sta bene, poppa di gusto: bisogna vedere le cose in maniera positiva.

La differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l’ha fatta. Putin è il capo. Può ordinare che i testi scolastici cessino di sparlare di Stalin, richiamare all’ordine le ONG e le anime belle dell’opposizione liberale. Si inchina pro forma davanti alla tomba di Sacharov, ma tiene sulla scrivania, ben visibile a tutti, il busto di Dzerinskij. Se l’Europa lo provoca riconoscendo l’indipendenza del Kosovo, dice: «D’accordo, ma allora avranno l’indipendenza anche l’Ossezia del Sud e l’Abchazija, e manderemo i carri armati in Georgia, e se non siete carini con noi vi chiuderemo il rubinetto del gas».

Modi tanto virili dovrebbero fare colpo su Eduard, se questi fosse in buona fede. Invece Eduard scrive, come Anna Politkovskaja, dei pamphlet in cui spiega che Putin non solo è un tiranno, ma un tiranno scialbo e mediocre, a cui è toccato in sorte un destino troppo grande per lui. La falsità di questo giudizio mi sembra lampante. Ritengo che Putin sia uno statista di grande levatura e che la sua popolarità non dipenda soltanto dal fatto che la gente è decerebrata dai media a lui asserviti. C’è dell’altro. Putin ripete in tutte le salse una cosa che i russi hanno assolutamente bisogno di sentirsi confermare e che si può riassumere così: «Nessuno ha il diritto di dire a centocinquanta milioni di persone che settant’anni della loro vita, della vita dei loro genitori e dei loro nonni, che ciò in cui hanno creduto, per cui hanno lottato e si sono sacrificati, l’aria stessa che respiravano, nessuno ha il diritto di dire che tutto questo è stato una merda. Il comunismo ha fatto delle cose orribili, d’accordo, ma non era uguale al nazismo. L’equivalenza tra i due, che gli intellettuali occidentali danno ormai per scontata, è un’infamia. Il comunismo è stato qualcosa di grande, di eroico, di bello, qualcosa che credeva nell’uomo e gli dava fiducia. Il comunismo aveva in sé una parte di innocenza, e nel mondo spietato che è venuto dopo tutti lo associano confusamente alla propria infanzia, a ciò che commuove quando riaffiorano i ricordi dell’infanzia».

Sono sicuro che Putin fosse assolutamente sincero quando ha pronunciato la frase che ho riportato in esergo a questo libro. Sono sicuro che essa gli sia sgorgata dal profondo del cuore, perché tutti hanno un cuore. Ed è una frase che in Russia parla al cuore di tutti, a partire da Limonov, il quale, se si trovasse al posto di Putin, certamente direbbe e farebbe tutto quello che Putin dice e fa. Ma Limonov non è al posto di Putin, e non gli resta che occupare quello, così incongruo per lui, di oppositore virtuoso, difensore di valori in cui non crede (democrazia, diritti umani e stronzate del genere) al fianco di persone oneste che incarnano tutto quello che lui ha sempre disprezzato. Non esattamente uno scacco matto, ma certo, in queste condizioni, non è semplice saper stare al proprio posto.

 

2

 

La procedura non è cambiata, tranne che stavolta a guidarmi dal capo non sono più due nazbol ma uno solo, e che questi non viene a prendermi in auto ma mi dà appuntamento a un’uscita del metrò. Mi ricordo di lui: Mitija. L’ho conosciuto due anni prima, anche lui si ricorda di me, e così, nel quarto d’ora di strada a piedi fino al nuovo appartamento di Eduard, chiacchieriamo un po’. Non è giovanissimo, ha una trentina d’anni e – come tutti i membri del partito che ho conosciuto – ha una bella faccia: aperta, intelligente, cordiale. È vestito di nero, ma non porta più jeans e giubbotto: il cappotto di buon taglio, sopra una giacca a spina di pesce, dà l’idea di uno che se la passa bene. È sposato, mi dice, ha una bambina, e uno di quei lavori legati a internet che non capisco mai in che cosa consistano di preciso ma che permettono di vivere più che discretamente. Ho l’impressione che per lui dedicare qualche ora alla settimana alla protezione di Eduard Limonov sia un modo per restare fedele agli ideali di gioventù, come altri continuano a suonare in un gruppo rock dilettante, pur sapendo benissimo che non sfonderanno mai, solo per il piacere di ritrovarsi con gli amici. Quando gli chiedo come vanno le cose, la politica e il resto, mi sorride e risponde: «Normal’no» con lo stesso tono in cui il proprietario di un ristorante direbbe: «Non c’è gran movimento».

L’ascensore è guasto, ci tocca salire a piedi fino al nono piano di un palazzo modesto. Mitija mi fa entrare con le consuete precauzioni nel piccolo bilocale dove mi aspetta Eduard, sempre in jeans e maglione nero, sempre asciutto, sempre con il pizzetto. Cerco un posto dove appoggiare il cappotto: nella stanza ci sono soltanto un tavolo, una sedia e un letto singolo. Eduard mi spiega che è stato condannato a pagare cinquecentomila rubli per avere detto in un’intervista che i giudici di Mosca sono agli ordini del sindaco Lukov, fatto di dominio pubblico. Gli hanno pignorato tutto il pignorabile, ma i suoi beni sono serviti a pagare appena un decimo dell’ammenda: deve ancora saldare il conto.

Lasciamo Mitija a leggere il giornale seduto sull’unica sedia della camera da letto, e andiamo in cucina, dove di sedie ce ne sono due. Eduard prepara il caffè, io apro il taccuino. Gli ho comunicato per e-mail la mia intenzione di scrivere non più un articolo ma un intero libro su di lui. La sua risposta è stata neutra: né entusiasta, né riluttante; è a mia disposizione, se credo. Le mie ricerche sono già a buon punto, e ho buttato giù una specie di abbozzo. Penso che mi servirebbe fargli una lunga intervista, con calma: parecchie ore, forse parecchi giorni. Ma non ne sono sicuro e per prudenza non gliel’ho ancora chiesto.

 

 

«Allora, che cos’è successo in questi due anni?».

È successo innanzitutto che la moglie, la bella attrice, lo ha lasciato. Eduard non ha capito bene perché. Non gli passa neanche per la mente che possano aver contato i trent’anni di differenza, nonché l’impossibilità di fare un passo senza la scorta di due teste rasate: all’inizio sarà pure romanzesco, poi diventa pesante. Eduard dice di aver sofferto per qualche mese, dopodiché ha pensato che fosse una donna fredda, falsa, poco affettuosa: lo ha deluso. Nel caso mi preoccupassi per lui, mi assicura che ha parecchie amanti, tutte giovanissime, e non dorme ogni notte nel letto singolo della camera accanto. Continua a vedere i figli, e questa è la cosa più importante. I figli, sì: Eduard ha anche una bambina, Aleksandra. Il bambino si chiama Bogdan, in ricordo degli anni serbi. Secondo me gli è andata bene: avrebbe potuto chiamarsi Radovan o Ratko. Fine del capitolo vita privata.

Passiamo alla vita pubblica. Non lo dice chiaramente, ma si capisce che gli gira male. L’occasione storica, sempre ammesso che ce ne sia stata davvero una, è passata. Kasparov, esasperato da mille vessazioni, non ha nemmeno provato a candidarsi e, dopo quello che non può neanche essere definito un insuccesso alle presidenziali, il movimento Drugaja Rossija ha cessato di esistere. Ma Eduard non molla. Ha fondato un nuovo movimento che si chiama Strategia 31, dal numero dell’articolo della costituzione che garantisce il diritto di manifestare. Per avvalersi di questo diritto, gli aderenti al movimento si riuniscono tutti i 31 del mese, quando c’è un 31 del mese, in piazza Triumfal’naja. In genere ci sono un centinaio di manifestanti e un numero cinque volte maggiore di poliziotti, e i secondi arrestano qualche decina dei primi. Così Eduard passa periodicamente alcuni giorni in prigione. I corrispondenti esteri inviano pro forma un’agenzia sull’accaduto. A parte questo, Eduard cerca di organizzare e dirigere un’«assemblea nazionale delle forze di opposizione», progetto che riscuote il plauso di alcuni vecchi democratici e difensori dei diritti umani e che Kasparov ha fatto del suo meglio per ostacolare lanciando una sua piattaforma. Quindi adesso i due sono rivali, ma anche la loro rivalità mi sembra un po’ fiacca. Eduard è contento che il proprio sito internet abbia più contatti di quello di Kasparov.

Che altro? L’attività letteraria. Dal nostro ultimo incontro ha pubblicato tre libri: uno di poesie, una raccolta di articoli e uno di ricordi delle guerre serbe. Ma scrivere non gli interessa più di tanto, ormai. Oggi rende troppo poco, le tirature arrivano al massimo a cinque o seimila copie, non si fanno ristampe: Eduard preferisce guadagnarsi da vivere con articoli per riviste patinate o settimanali gossippari.

 

 E così abbiamo esaurito l’ordine del giorno. Sono le quattro, si è fatto buio, si sente il ronzio del frigorifero. Eduard si guarda gli anelli alle dita, si accarezza il pizzetto da moschettiere: non siamo più in Vent’anni dopo, ma nel Visconte di Bragelonne. Io ho finito le domande e a lui non viene neanche in mente di rivolgermene una. Che so: su di me. Che cosa faccio, come vivo, se sono sposato, se ho figli. Se preferisco i paesi caldi o quelli freddi. Stendhal o Flaubert. Gli yogurt naturali o quelli alla frutta. Che tipo di libri scrivo, visto che sono uno scrittore. Eduard sostiene che l’interesse per gli altri fa parte del suo programma di vita e probabilmente si interesserebbe a me se mi avesse conosciuto in prigione, reo di un bel delitto con grande spargimento di sangue, ma non è questo il caso. In questo caso, sono il suo biografo: io lo interrogo, lui risponde; quando ha finito di rispondere, Eduard resta in silenzio guardandosi gli anelli e aspetta la domanda successiva. Penso che non ho nessuna voglia di sorbirmi svariate ore di una conversazione del genere, che me la caverò benissimo con quello che ho. Mi alzo, lo ringrazio per il caffè e per il tempo che mi ha dedicato, e alla fine, quando sono ormai sulla porta, una domanda me la fa:

«È strano, però. Perché vuole scrivere un libro su di me?».

Sono colto di sorpresa ma rispondo, con sincerità: perché ha – o ha avuto, non ricordo più il tempo che ho usato – una vita appassionante. Una vita romanzesca, pericolosa, una vita che ha accettato il rischio di calarsi nella storia.

E a questo punto Eduard dice qualcosa che mi lascia di sasso. Con la sua risatina brusca, senza guardarmi:

«Già, una vita di merda».

 

3

 

Non mi piace questo finale, e penso che non piacerebbe nemmeno a lui. Penso anche che chiunque si arrischi a formulare un giudizio sul karma altrui, e perfino sul proprio, può essere sicuro di sbagliarsi. Una sera metto a parte di questi dubbi il mio figlio più grande, Gabriel. Gabriel è un montatore, abbiamo appena scritto insieme due sceneggiature per la televisione e mi piace molto fare con lui le classiche discussioni da sceneggiatori: questa scena funziona, quell’altra no.

«In fondo,» mi dice «ti secca mostrarlo come un loser».

Concordo.

«E perché ti secca? Hai paura che ci rimanga male?».

«Non proprio. Insomma, un po’ sì, ma penso soprattutto che non sia un buon finale. Che il lettore resterà deluso».

«Questo è un altro discorso» osserva Gabriel, e mi cita una quantità di grandi libri o grandi film in cui il protagonista finisce con il culo per terra. Toro scatenato, per esempio. Nell’ultima scena si vede il pugile interpretato da De Niro ormai alla frutta, sconfitto su tutti i fronti. Non ha più niente, né moglie, né amici, né casa, si è lasciato andare, è grasso, si guadagna da vivere facendo un numero comico in uno squallido night. Seduto davanti allo specchio del suo camerino, aspetta che lo chiamino in scena. Quando lo chiamano, si alza pesantemente dalla sedia. Poco prima di uscire dall’inquadratura, si guarda allo specchio, saltella da un piede all’altro, mima qualche colpo di boxe e lo si sente mormorare, piano piano, soltanto per se stesso: «Sono il più forte, il più forte, il più forte».

È patetico, è magnifico.

«Mille volte meglio» dice Gabriel «che vederlo in trionfo sul podio. No, davvero, finire con Limonov che, dopo tutto quello che ha vissuto, conta se ha più amici di Kasparov su Facebook, può funzionare».

È vero. E tuttavia c’è qualcosa che continua a disturbarmi.

«Va bene. Consideriamo il problema da un altro punto di vista. Quale sarebbe per te il finale ideale? Voglio dire: se dovessi decidere tu. Che prenda il potere?».

Scuoto la testa: troppo inverosimile. Invece, nel suo programma di vita c’è qualcosa che non ha fatto: fondare una religione. Dovrebbe mettere da parte la politica – visto che, diciamocelo, in politica non cava un ragno dal buco –, ritornare nell’Altaj e diventare il guru di una comunità di fanatici, come il barone von Ungern-Sternberg, o, meglio ancora, un vero saggio. Una specie di santone, insomma.

Questa volta è Gabriel ad arricciare il naso.

«Credo di sapere» dice «quale finale ti piacerebbe davvero: che lo facessero fuori. Dal suo punto di vista, sarebbe del tutto coerente con il resto della sua vita, una fine eroica che gli risparmierebbe di morire di cancro alla prostata come uno qualsiasi. Dal tuo, il libro venderebbe dieci volte di più. E se poi lo avvelenassero con il polonio, come Litvinenko, venderebbe non dieci, ma cento volte di più, in tutto il mondo. Dovresti dire a tua madre di parlarne a Putin».

 

 

E lui, Limonov, che ne pensa?

 

 

Un giorno di settembre del 2007 siamo andati insieme in campagna. Credevo fosse per un comizio, e invece no, era per vedere una dacia a due ore da Mosca che la moglie di quel periodo, la bella attrice, aveva appena comprato. In realtà era molto più di una dacia: era quella che viene chiamata una usad’ba, ossia una vera e propria tenuta. C’erano uno stagno, dei prati, un bosco di betulle. La vecchia casa di legno, abbandonata e devastata dai vandali, era immensa. Doveva essere stata magnifica, e lo poteva ridiventare, se ristrutturata, Limonov era lì per questo. Appena arrivato, ha cominciato a discutere con un artigiano del posto come uno che, avendo esperienza di lavori manuali, sa discutere con un capomastro senza farsi fregare. Mentre i due parlavano, sono andato a fare un giro nel parco invaso dall’erba alta, e quando, sbucando da un sentiero per passeggiate a cavallo, ho rivisto da lontano, in una pozza di luce, la minuta figura di Eduard vestita di nero, battagliera, il pizzetto scomposto, ho pensato: ha sessantacinque anni, una moglie adorabile, un figlio di otto mesi. Forse ne ha le scatole piene della guerra, dei bivacchi, del coltello nello stivale, della polizia che picchia alla porta all’alba, delle brande delle prigioni. Forse ha finalmente voglia di disfare la valigia. Di sistemarsi qui, in campagna, in questa bella casa, come un proprietario terriero al tempo degli zar. Al posto suo, io ne avrei voglia. Ne ho voglia. È proprio la vecchiaia che mi auguro per noi, per me e Hélène. Immagino grandi librerie, comodi divani, grida di nipotini in giardino, marmellate di frutti di bosco, lunghe conversazioni sulle sdraio. Le ombre che si allungano, la morte che si avvicina piano piano. La vita è stata bella perché ci siamo amati. Forse non finirà così, ma, dipendesse solo da me, così mi piacerebbe che finisse.

 

 

Sulla via del ritorno gli domando: «Potrebbe invecchiare in quella casa, Eduard? Finire come un eroe di Turgenev?».

Si mette a ridere, stavolta non con un risolino secco ma di cuore. No, non ci si vede. Proprio no. La pensione, la vita tranquilla, non sono cose per lui. Lui per la sua vecchiaia ha un’altra idea.

«Conosce l’Asia centrale?».

No, non la conosco, non ci sono mai stato. Ma già da bambino ho visto delle fotografie: quelle scattate da mia madre nel lungo viaggio durante il quale mio padre si è occupato di me con affetto maldestro – all’epoca i padri non avevano l’abitudine di occuparsi dei figli piccoli. Erano foto che mi angosciavano e mi facevano sognare. Rappresentavano per me l’assoluta lontananza.

Di tutti i luoghi del mondo, continua Eduard, l’Asia centrale è quello in cui si trova meglio. In città come Samarcanda o Barnaul. Città schiantate dal sole, polverose, lente, violente. Laggiù, all’ombra delle moschee, sotto le alte mura merlate, ci sono dei mendicanti. Un sacco di mendicanti. Sono vecchi emaciati, con i volti cotti dal sole, senza denti, spesso senza occhi. Portano una tunica e un turbante anneriti dalla sporcizia, ai loro piedi è steso un pezzo di velluto su cui aspettano che qualcuno getti qualche monetina, e quando qualche monetina cade non ringraziano. Non si sa quale sia stata la loro vita, ma si sa che finiranno nella fossa comune. Sono senza età, senza beni, ammesso che ne abbiano mai avuti – è già tanto se hanno ancora un nome. Hanno mollato tutti gli ormeggi. Sono dei relitti. Sono dei re.

 

 

Questo sì che gli piace.

 

 

 

 

 

 

1

«L’URSS vous présente ses meilleurs vieux» è un calembour ottenuto a partire da una frase fatta, poiché «je vous présente mes meilleurs voeux» significa: «Le faccio i miei migliori auguri» [N.d.T.].

 

Indice

PROLOGO
MOSCA, OTTOBRE 2006-SETTEMBRE 2007 1

I
UCRAINA, 1943-1967 12

II
MOSCA, 1967-1974 41

III
NEW YORK, 1975-1980 57

IV
PARIGI, 1980-1989 89

V
MOSCA, CHAR’KOV, DICEMBRE 1989 109

VI
VUKOVAR, SARAJEVO, 1991-1992 123

VII
MOSCA, PARIGI, REPUBBLICA SERBA DI KRAJINA, 1990-1993 137

VIII
MOSCA, ALTAJ, 1994-2001 161

IX
LEFORTOVO, SARATOV, ENGEL’S, 2001-2003 185

EPILOGO
MOSCA, DICEMBRE 2009 204