L'IMPERO DEL MALE MINORE
Saggio sulla civiltà liberale
Jean-Claude Michéa
Nel XVII secolo le guerre di religione insanguinarono l'Europa. Come fuggire una guerra civile di interessi privati mascherata di fanatismo? È la domanda inaugurale della modernità, quella strana civiltà che, per prima, iniziò a basare il suo progresso sulla diffidenza sistematica, la paura della morte e la convinzione che amare e dare fossero atti impossibili. La scommessa liberale fu pensare una società libera, pacifica e prospera, che potesse sopravvivere anche nella peggiore delle ipotesi: che gli individui fossero irrimediabilmente egoisti. I liberali scelsero di abbandonare l'utopia umanista del "migliore dei mondi" e dedicarsi all'amministrazione politica del "minore dei mali". Proporzionalmente alla sua diffusione globale, il liberalismo ha però assunto uno a uno i tratti essenziali del suo vecchio nemico, fino a porsi l'obbiettivo, quanto mai lontano dalle premesse, di rappresentare il Bene e di poter instaurare il dominio dell'uomo nuovo, il consumista evoluto che vive la Fine della storia. In un saggio di non comune densità concettuale Michéa descrive tale processo di deriva riportando il liberalismo alla sua origine di prevenzione contro ogni forma di intolleranza e vettore di un principio oggi ineludibile: per definirsi liberali occorre non fare del mercato un'ideologia assoluta. Perché l’istituzione di una società decente coincide con la difesa dell'umanità stessa.
Ridurre la filosofìa morale del liberalismo a una glaciale apologia dell'egoismo potrebbe sembrare ingiusto. Di per sé tale posizione non esige altro che la privatizzazione dei valori morali, religiosi o filosofici, non la loro abolizione.
Jean-Claude Michea | Nato nel 1950, è cresciuto in una famiglia di militanti comunisti (il padre Abel combattè nella resistenza e la madre Noélle lavorò per l'Intelligence Service a Lione); iscrìtto al partito comunista fin dalla gioventù, nel 1976 lo lascerà polemicamente, accusando la sinistra di aver perso la sua volontà anticapitalista per far posto a una "religione del progresso". Tra le sue opere spiccano i saggi dedicati a Orwell (Orwell, anarchiste Tory, 1995 e Orwell éducateur, 2003], al mondo intellettuale della sinistra francese (Les Intellectuels, le peuple et le ballon rond, 1998) e al pensiero economico di Adam Smith (Impasse Adam Smith. Brèves remarques sur l'impossibilité de dépasser le capitalisme sur sa gauche, 2002).
L'IMPERO DEL MALE MINORE
Lo spunto da cui ha avuto origine L’impero del male minore è stata una conferenza tenuta nel gennaio 2007 su invito dell’amico André Perrin nell’ambito di un corso di formazione rivolto agli insegnanti di filosofìa del provveditorato di Montpellier. In forma completamente rimaneggiata, quella conferenza costituisce la trama del primo capitolo. Come ogni lavoro teorico, questo saggio contiene un’infinità di note. Per agevolare il lettore ho fatto sì che le note inserite alla fine dei vari capitoli, pur corrispondendo ciascuna a un determinato punto del testo, si possano leggere come scolii, ovvero come una serie di piccole puntualizzazioni autonome (il che vale anche per le note che le accompagnano). Di conseguenza sarà possibile leggere il presente saggio in maniera lineare senza che ciò comporti alcun inconveniente.
Winston Churchill diceva che la democrazia era il peggior regime «ad eccezione di tutti gli altri». Difficilmente si potrebbe trovare una definizione più appropriata dello spirito liberale. Tanto quest’ultimo manifesta infatti un incrollabile ottimismo riguardo alla capacità da parte degli uomini di rendersi “signori e padroni della natura”, tanto dà prova di profondo pessimismo quando si tratta di valutare l'atteggiamento morale più adatto a costruire autonomamente un mondo decente. Come vedremo in seguito, questo pessimismo affonda le radici nell’idea squisitamente moderna secondo la quale è proprio la tentazione di istituire quaggiù il regno del Bene e della Virtù a costituire la vera origine di tutti i mali che da sempre affliggono il genere umano. Questa critica della "tirannia del Bene” ha naturalmente un prezzo. Essa obbliga a considerare la politica moderna come un'arte puramente negativa, consistente nel definire quella che dopotutto è la "meno peggiore” delle società possibili. In questo senso il liberalismo dev’essere inteso, ed esso stesso si intende, come la politica del male minore.
L’UNITÀ DEL LIBERALISMO
Non v’è dubbio che se Adam Smith o Benjamin Constant ritornassero tra noi (il che consentirebbe già di risollevare notevolmente il livello del dibattito politico), stenterebbero a riconoscere la rosa del loro liberalismo nella croce del presente1. Di qui probabilmente l’incredibile confusione intellettuale che attualmente regna sovrana sull’uso di questo termine. Molti perciò ritengono che sarebbe il caso di distinguere tra un liberalismo politico e culturale “buono” e un liberalismo economico “cattivo”, e che la critica di quest’ultimo dovrebbe anch’essa tener conto di diverse sfumature, a seconda che si tratti di un “vero” liberalismo, di un “neoliberalismo” o di un “ultraliberalismo”.
La tesi che qui mi accingo a sostenere ha quanto meno il merito di semplificare la questione. Affermo infatti che il movimento storico che trasforma profondamente le società moderne va fondamentalmente inteso come larealizzazione logica (o la verità) del progetto filosofico liberale così come si è venuto progressivamente definendo a partire dal XVII secolo, e in particolare dopo la filosofia dei Lumi. Il che equivale a dire che il mondo senz’anima del capitalismo contemporaneo rappresenta l’unica forma storica in cui questa dottrina liberale originaria poteva realizzarsi nel concreto. In altre parole, si tratta delliberalismo realmente esistente. E questo, come vedremo, sia nella sua versione economica (alla quale va per tradizione la preferenza della “destra”), sia in quella culturale e politica (appoggiare la quale è diventata la specialità della “sinistra” contemporanea e soprattutto dell’“estrema sinistra”, in quanto punta più mobile dello Spettacolo moderno).
Per sostenere questa tesi, che presumo sia ben lungi dal risultare unanime, è indispensabile introdurre due precisazioni preliminari. Parlare di “logica liberale” presuppone, tanto per cominciare, un’accurata distinzione tra le intenzionidei vari autori classici e gli effetti politici e civili che il loro sistema di pensiero ha contribuito a produrre, a mio parere inevitabilmente. Faccio notare che si tratta di un esercizio che non dovrebbe disorientare i liberali, dal momento che in genere riconoscono, con Adam Ferguson, che il movimento reale delle società è innanzitutto «il risultato dell’azione umana e non quello dell’intenzione umana»2. Si tratta in ogni modo di un esercizio antico quanto la filosofia, dal momento che dopotutto è lo stesso metodo impiegato da Platone nel Gorgia per svelare la vera posta in gioco della sofistica. Come si ricorderà, la critica platonica si sviluppa in tre tempi. La prima parte del dialogo mette in scena l’assiomatica di Gorgia, che se vogliamo rappresenta l’Adam Smith della retorica. A questo primo battibecco segue l’analisi critica delle posizioni di Polo, un allievo di Gorgia che ha saputo sfruttare alcune implicazioni filosofiche dell’assiomatica iniziale dinanzi alle quali, per motivi di decenza personale, il suo maestro aveva generalmente indietreggiato. Questo secondo momento corrisponde alla “retorica realmente esistente” nell’Atene del IV secolo. Infine il dialogo si conclude con l’intervento di Callide, personaggio necessariamente immaginario poiché per Platone simboleggia tutto ciò che la sofisticapotrebbe diventare un giorno se, per disgrazia della Città, applicasse tutte le virtualità di cui il suo programma è logicamente portatore. Si tratta di un modo per concludere che, se Gorgia non potrebbe essere confuso con Callide, per un verso è tuttavia intellettualmente responsabile di tutte le conseguenze che un eventuale “Callide” potrebbe trarre dai suoi postulati.
Ma parlare di “logica liberale” presuppone anche che, al di là della molteplicità degli autori e delle numerose differenze intercorrenti tra loro sui vari aspetti, è possibile trattare il liberalismo come una corrente i cui principi non solo possono, ma in fin dei conti devono essere filosoficamente unificati. Ed è sicuramente su questo punto che molti lettori esiteranno a concordare. Perché se è così, questo complica notevolmente l’operazione consueta di chi (come gran parte della sinistra e dell estrema sinistra contemporanee) si adopera a contrastare radicalmente il liberalismo politico e culturale (definito come l’avanzata illimitata dei diritti e la liberalizzazione permanente dei costumi) e il liberalismo economico, dato che gli sviluppi emancipatori del primo sono fondamentalmente indipendenti dai fattori di disturbo del secondo.
Sono assolutamente consapevole del rischio insito in questo tipo di esercizio, come d’altra parte accade ogni volta che, nella storia delle idee, si tratta di definire un qualsiasi “ismo”; e naturalmente il rischio aumenta se la corrente in questione si sviluppa nei secoli. Evidenziare una logica filosofica comporta sempre per definizione un lavoro di ricostruzione concettuale e quindi delle semplificazioni, scelte e interpretazioni che tutto sono tranne che ideologicamente neutre. Va da sé che mi assumo interamente la responsabilità di questo mio “partito preso”. Spero solo che procedendo in questo modo non mi si rimprovererà di aver ingigantito in maniera sconsiderata l’importanza dei Callide rispetto a quella dei Polo e dei Gorgia del liberalismo.
Ma bisogna ancora superare un’ultima difficoltà, stavolta di ordine terminologico. Nel 1928 Carl Schmitt scriveva che «non esiste una politica liberale sui generis, ma solamente una critica liberale della politica». Se con “liberalismo” si intende così riferirsi a un atteggiamento politico strettamente difensivo — per esempio quello che d’abitudine sostiene le varie lotte per le libertà democratichefondamentali ovunque esse siano minacciate, stravolte o abolite - allora evidentemente non ho nulla da obiettare a un “liberalismo” di tal fatta. Quando gli capitava di interpretare la parola secondo quella particolarissima accezione, lo stesso Orwell non esitava a richiamare l’eredità dei “vecchi liberali” inglesi del XIX secolo. Ma il liberalismo di cui si discute oggi rappresenta un ideale politico molto più preciso, e di tutt’altra portata filosofica: rimanda al progetto di una trasformazione radicale dell’ordine umano, la cui attuazione necessariamente deve basarsi su politiche di governo ben precise. Da questo punto di vista è indubbiamente significativo che le stesse espressioni “idee liberali” e “liberalismo” siano apparse in francese solo dopo il Termidoro(precisamente in Des réactions polìtiques,opera fondante quant altre mai, pubblicata nel 1797 da Benjamin Constant). D’altronde questi termini entreranno definitivamente a far parte del vocabolario politico solo dopo il 1815 (ed è interessante sottolineare che per molto tempo indicheranno l'opposizione parlamentare di sinistra alle forzereazionarie della destra). Il progettopositivo di una società liberale (e di conseguenza quello di un “liberalismo di governo”) appare dunque indissolubile dal nuovo quadro ideologico definito in quella stessa epoca da Auguste Comte: a partire dal momento in cui, dopo la Rivoluzione francese, si prende atto dell’impossibilità di un ritorno non puramente immaginario alle società tradizionali dell 'ancien régime, com’è possibile istituire un ordine sociale moderno, cioè conforme alle aspirazioni fondamentali di un’umanità divenuta finalmente “maggiorenne”? Nel ricordare questo punto non dimentico certo che in Francia i primi parziali tentativi di sperimentare un liberalismo di governo si sono verificati proprio sotto la monarchia: si pensi alle politiche di deregolamentazione del commercio dei cereali condotte da Laverdy e Maynon d’Invault tra il 1764 e il 1770 (sempre molto istruttive, a proposito le critiche espresse da Diderot nella sua Apologia dell’abate Galiani3). Così come non dimentico la fase iniziale della Rivoluzione e in particolare il ruolo decisivo del decreto Allard e della legge Le Chapelier. Resta però il fatto che è innanzitutto come progetto postrivoluzionario, vale a dire reso possibile dalla distruzione definitiva delle basi dell'ancien regime, che il liberalismo filosofico è potuto diventare storicamente attivo, fino a costituire ai nostri giorni il principale (se non l’unico) principio attivo delle politiche governative e delle trasformazioni civili dell’Occidente (e per loro tramite di tutto il pianeta). E' in questa accezione, e solo in questa, che verrà impiegato qui il termine “liberalismo”.
La dottrina liberale non ha fatto irruzione nella Storia come un fulmine a ciel sereno. In realtà la logica che ne governa le risposte acquista tutto il suo significato solo una volta reinserita all’interno del progetto occidentale della modernità e delle questioni che lo definiscono. In effetti il liberalismo non è solo inseparabile da quel progetto: ne costituisce in verità l’unico sviluppo teorico coerente, perché a differenza per esempio dell’ideale repubblicano - che seguita a riservare un posto importante alle virtù antiche - o del socialismo delle origini - che serba un riferimento essenziale alle idee di morale e di comunità - esso non intende mutuare nessuna delle proprie articolazioni principali dalle tradizioni filosofiche precedenti. Contrariamente all’idea assurda, ma molto diffusa a sinistra, secondo la quale le politiche liberali sarebbero per natura “conservatrici” o “reazionarie” (classificazioni che d’altronde risalgono in gran parte, per ironia della Storia, a Benjamin Constant), è il caso di vedere nel liberalismo l’ideologia moderna per eccellenza. Volendone mettere a nudo la logica è quindi indispensabile ritornare brevemente alle fonti del progetto moderno.
Tuttavia per comprendere la natura del liberalismo è altresì necessario guardarsi da ogni illusione retrospettiva o etnocentrica (una precauzione metodologica sovente trascurata). Si tratterà dunque di evitare, nei limiti del possibile, di spiegarne la genesi rifacendosi essenzialmente agli schemi ideologici comparsi contestualmente e destinati principalmente a consentirne l’autogiustificazione. Ciò implica innanzitutto non considerare più il lavoro di modernizzazione compiuto dalle società europee come una tappa storicamente necessaria dei progressi della Ragione (o dello “sviluppo delle forze produttive”) e quindi come un movimento ineluttabile e irreversibile al tempo stesso, al quale tutte le altre civiltà esistenti non hanno (o non avevano) né il diritto né il potere di opporsi. Solo dopo che è stata disattivata questa mitologia ingenua (benché essenziale alla definizione della stessa modernità) diventa possibile trattare il problema filosofico su basi autentiche. A quel punto si smetterà di stilare l’elenco interminabile dei “blocchi” ot degli “ostacoli” che avrebbero così a lungo allontanato le varie società “premoderne” dal “normale” sviluppo della Civiltà. Al contrario, ci si chiederà quale «concorso fortuito di cause estranee» (per dirla con Rousseau) ha precipitato l’avvento dell'eccezione occidentale, contribuendo così a rendere intelligibile il percorso storicamente inedito, ancorché non necessariamente esemplare, che le società europee hanno scelto di imboccare a partire dal XVII secolo.
In questa complessa combinazione di cause contingenti (o probabilmente bisognerebbe chiamarle condizioni) - e senza dimenticare le specificità storiche precedenti (come per esempio i dati del problema teologico-politico lasciati in eredità dalla storia del conflitto tra Chiesa e Impero4) - un posto d’onore va riservato all’invenzione della scienza sperimentale della natura; invenzione caratterizzata da numerose condizioni politiche e intellettuali e che costituisce uno dei tratti più peculiari dell’Occidente moderno5. L’importanza cruciale della Scienza nuovarisiede innanzitutto nell’aver reso filosoficamente pensabile il progetto, moderno per eccellenza, di rendere gli esseri umani “signori e padroni della natura”. Tuttavia è soprattutto in quanto immagine di una nuova autorità simbolica,l’ideale della Scienza, autorità ormai contrapponibile a quella della Chiesa, che la fisica galileiana ha prodotto i suoi due effetti ideologici più importanti: da una parte fornire una base metafisica particolarmente solida alla nozione di Progresso (aspetto immediatamente colto da Pascal6); dall’altra favorire laconvinzione - di cui Hobbes e Spinoza, tra i primi, definiscono i postulati - secondo la quale l’estensione del metodo galileiano allo studio della natura umana potrebbe presto consentire di edificare una “fisica sociale” e, tramite questa, creare le condizioni per affrontare finalmente in maniera “scientifica” e “imparziale” il problema politico7. Le implicazioni di questo stupefacente paradigma sono palesemente illimitate. Basta per esempio combinare questa nuova rappresentazione di una Ragione in continuo progresso con una la scoperta dell’America (altra causa sicuramente fortuita) per ottenere una serie di effetti particolarmente degni di nota. Mentre in Strabone o in Erodoto l’incontro con le civiltà diverse fu essenzialmente pensato nel segno della coesistenza geografica, tale incontro ormai può essere letto nel quadro di una successione storica. Del resto è interessante notare che Adam Smith (come ha chiaramente dimostrato Christian Marouby) è uno dei primi pensatori a sfruttare questo nuovo modello che, partendo da dati antropologici, propone una teoria sistematica degli “stadi” dello sviluppo dell’umanità, di cui la crescita economica è la base e il motore8. Se riconosciamo che non si può parlare di “modernità” se non quando gli uomini iniziano a concepire il proprio modo di vivere come un semplice momento storicamente determinato all’interno di un’evoluzione universale9, è indiscutibile che gran parte degli strumenti filosofici indispensabili allo sviluppo dell’immaginario moderno siano stati elaborati e messi in circolazione in occasione della rivoluzione galileiana.
Se l’ideale della Scienza ha dunque svolto un ruolo fondamentale nella costituzione dell’immaginario moderno, non è tuttavia a partire da esso che le dinamiche della modernizzazione si sono messe realmente in moto. Anche il modello della rivoluzione galileiana ha potuto essere convocato così rapidamente al servizio della risoluzione del problema politico solo perché quest’ultimo si poneva, in quello stesso momento, in forme storiche totalmente inedite. In questo «concorso fortuito di cause estranee», in effetti sembra proprio che quello che ha contribuito in modo più determinante catalizzare la risposta moderna alle crisi della società europea sia stato innanzitutto lo straordinario trauma storico provocato in tutti i contemporanei dalla portata e dalla durata delle guerre del tempo.
Nella sua ormai classica antologia dedicata al problema della guerra e della pace da Machiavelli a Hobbes, Georges Livet sottolinea che «tutti gli scritti di quell’epoca anelano alla pace»10. Bisogna effettivamente riconoscere che le guerre drammatiche che hanno definito l’orizzonte quotidiano della vita umana nel XVI e XVII secolo sono caratterizzate da due tratti distintivi profondamente originali sotto tutti i punti di vista: da una parte l’introduzione delle nuove armi e le innovazioni tattiche o strategiche corrispondenti (come l’importanza ormai prevalente della fanteria) in breve hanno reso gli scontri infinitamente più sanguinosi e devastanti di prima; dall’altra, e soprattutto, nella seconda metà del XVI secolo, sì assiste alla generalizzazione di una forma di guerra interamente nuova, quanto meno per intensità11: la guerra civile ideologica, la cui forma principale è all’epoca la guerra di religione. Questo naturalmente non significa che sia possibile ridurre l’insieme dei conflitti che in quel periodo sconvolgevano l’Europa alle sole guerre civili di religione. Tuttavia queste ultime ne costituiscono di volta in volta lo sfondo, cosicché anche le guerre all’apparenza più classiche, che vedono continuamente opporsi le potenze politiche del tempo - come per esempio la terribile guerra dei trentanni nella prima metà del XVII secolo - sono sempre sovradeterminate, tanto nella loro origine quanto nei loro sviluppi concreti, dalla logica di questa nuova forma di conflitto. Come sappiamo, una guerra civile non si limita a modificare la forma dei combattimenti: essa influenza in modo ancor più radicale la natura stessa dei rapporti umani, e non è certo un caso che Pascal, dopo Hobbes, la considerasseil peggiore dei mali - formula che si ritrova in quello stesso periodo negli Essais de morale di Nicole12. Questo deriva dal fatto che a differenza delle guerre tradizionali, le quali occasionalmente possono rinsaldare i vincoli di una comunità, una guerra civile tende per definizione a introdurre le divisioni più desocializzanti che esistano: quelle che, aizzando gli uni contro gli altri, amici, parenti e vicini di casa, minacciano continuamente di sfaldare il ciclo delle solidarietà e delle lealtà tradizionali, fondate su dono e controdono; ciclo che si sa costituire l’essenza stessa della «socialità primaria» (come l’ha definita Alain Caillé) e la matrice essenziale di quei rapporti quotidiani di fiducia in assenza dei quali non vi è comunità storica duratura13. D’altronde è rivelatore il fatto che Corneille, la cui opera è peraltro una celebrazione permanente delle virtù guerresche ed eroiche, parlando di guerra civile non esiti a definirla «il regno del crimine».
E verosimilmente questa ossessione per la guerra civile a spiegare per prima le ragioni per cui i filosofi del XVII e XVIII secolo (soprattutto quelli di origine o di sensibilità protestante) descrivono quasi sempre il loro “stato di natura” come uno stato in cui regnerebbe necessariamente (in modo originale o derivato) la guerra di tutti contro tutti. Evidentemente quest’ultima costituisce innanzitutto una trasposizione filosofica delle situazioni di guerra civile dell’epoca, spinte per ipotesi - come in ogni esperienza di pensiero - fino a quel limite immaginario in cui gli individui, supposti liberi per natura da ogni vincolo gli uni verso gli altri, non avrebbero più alcun valore da difendere se non la propria sopravvivenza, in un universo definito dalla paura di morire e dalla sfida generalizzata. Ora è chiaro che questo modo iperbolico di formulare le condizioni del problema politico racchiude in se stesso il principio della propria soluzione14. Per riprendere anche qui la formulazione di Rousseau, è solo quando gli ostacoli generati dall’infinito scatenarsi delle rivalità mimetiche «superino con la loro resistenza le forze di cui ciascun individuo può disporre per mantenersi in quello stato» che quegli stessi individui possono essere in grado di comprendere che «il genere umano perirebbe se non mutasse modo di vita» (Contratto Sociale, libro I).
Il timore di una morte violenta, la diffidenza verso il prossimo, il rifiuto di ogni fanatismo ideologico e l’aspirazione a una vita tranquilla e pacifica: ecco quindi, in ultima analisi, il vero orizzonte storico di questo nuovo “modo di essere” che d ora in poi i Moderni non smetteranno più di rivendicare. Dopotutto ai loro occhi istituire una società conforme al progresso della Ragione e definire le condizioni che permetteranno all umanità di uscire dalla guerra («le condizioni della società, ovverodella pace umana», come scrive sobriamente Hobbes all’inizio del suo De cive) è la stessa identica cosa. Questa configurazione indissolubilmente polìtica e psicologica chiarisce, tra l’altro, il ruolo assolutamente centrale svolto nella cultura occidentale moderna sia dalla rimozione di tutto ciò che circonda la morte, sia dal sentimento profondamente radicato dell’orrore e dell’assurdità di tutte le guerre, ormai concepite come il peggiore dei mali. Tale sentimento, che sarà essenziale nella genesi del liberalismo, si è evidentemente configurato in maniera definitiva attraverso il prisma della guerra più terribile di tutte, quella civile ideologica, indipendentemente dal fatto che il ricordo di quest’ultima sia legato alla furia dei fanatismi religiosi o, poco più tardi, a quello del Terrore rivoluzionario. Ciò consente anche di spiegare che la sola “guerra” che rimarrà concepibile, all’interno di tale dispositivo filosofico, è laguerra dell’uomo contro la natura,condotta con le armi della scienza e della tecnologia; guerra di sostituzione, da cui i Moderni si aspettano il dirottamento versolavoro e industria della maggior parte delle energie sin lì spese nella guerra dell’uomo contro l’uomo [A], Con la sua abituale perspicacia, Christopher Lasch aveva colto perfettamente questo punto. La fiducia moderna nel progresso — scriveva - non dev’essere interpretata come una semplice «versione secolarizzata del millenarismo cristiano». Essa è fondamentalmente il segno di un’aspirazione molto prosaica a vivere finalmente in pace, lontano dagli spasmi sanguinosi della Storia, e di un desiderio legittimo degli individui (quanto meno secondo Adam Smith) di dedicare ormai l’essenziale dei propri sforzi a «migliorare le proprie condizioni», occupandosi pacificamente degli affari loro15. In questo senso l’ideale moderno del Progresso èoriginariamente radicato molto più nel desiderio di sfuggire a tutti i costiall’inferno della guerra civile ideologica, cioè di sottrarsi finalmente al “peggiore dei mali”, che nell’attrazione verso qualsiasi paradiso terrestre.
Ricollocando così la questione della pacificazione ideologica della società al centro dei problemi, diviene più facile pensare l’originalità assoluta del progetto moderno, i principi dell’antropologia che l’accompagna e soprattutto l’unità profonda delle due figure filosofiche sotto le quali il liberalismo porterà tale progetto alla sua realizzazione logica. Vediamo prima l’originalità. In un notevole saggio, Eric Desmons ha ben dimostrato come la capacità di sacrificare la propria esistenza alla comunità di appartenenza, quando le circostanze lo imponevano, ha sempre costituito la virtù proclamata delle varie società tradizionali, cioè di quelle che attribuiscono un ruolo privilegiato alle relazioni faccia a faccia e di conseguenza ai sentimenti della vergogna e dell’onore[B], Dal guerriero primitivo al cittadino dell’antica Roma (e ricordiamo, sulla scia di Skinner, che l’ideale repubblicano non dipende mai completamente dal paradigma moderno), dal martire della fede cristiana al cavaliere medievale, era questa disposizione permanente all’estremo sacrificio che, nel bene e nel male, costituiva il fondamento ufficiale dell’autostima degli individui e della garanzia della loro possibile gloria eterna, sacra o profana che fosse16.
Analogamente allo schiavo hegeliano - che nel momento decisivo ha tremato per la sua esistenza biologica preferendola all’onore di una morte eroica - la modernità occidentale appare quindi come la prima civiltà della Storia che abbia iniziato a fare dell'auto conservazione la prima (per non dire l’unica) preoccupazione dell’individuo ragionevole e l’ideale fondante della società che questi è tenuto a formare con i suoi simili. Come sottolinea con chiarezza Benjamin Constant, «scopo dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie concesse dalle istituzioni a tali godimenti»17. Non esiste formula migliore per dire che la libertà che si apprestano a celebrare i liberali (a differenza dell’ombrosa libertà repubblicana) non è che l'altro nome di una vita tranquilla (e possibilmente gradevole) e di un’aspirazione a un ben meritato riposo storico (the calm desire of wealth, come scriverà Hutcheson nel 1755).
La nuova abitudine filosofica, diffusa a partire da Hobbes, di far precedere la riflessione politica da una descrizione presumibilmente oggettiva (o “materialista”) della natura umana si può spiegare in larga parte alla luce di tale programma. La sua funzione prevalente sembra essere in effetti quella di dotarsi anticipatamente delle condizioni antropologiche della pacificazione ricercata, inserendole nel modo di porre il problema politico stesso. Ora, secondo l’interpretazione dominante dell’epoca, le due cause principali della follia guerresca sono da una parte il desiderio di gloria dei Grandi e dall’altra la pretesa degli uomini di detenere la Verità sul Bene, fonte di tutte le guerre civili, ergendosi così a giudici competenti dell’altrui salvezza. A partire da qui è facile declinare il sistema delle risposte moderne alla questione della pace civile. Da una parte bisognerà necessariamente presupporre che il desiderio di gloria e il culto delle virtù eroiche non siano in definitiva che la maschera dell’amor proprio e dell’interesse privato; è qui che interviene quello che Paul Benichou ha definito il lavoro di «demolizione dell’eroe» (nel quale, come sappiamo, La Rochefoucauld e Pont Royal hanno svolto un ruolo di primo piano). Dall’altra sarà indispensabile stabilire che le nostre convinzioni riguardanti il Vero, il Bello o il Bene non sono universalmente comunicabili e che costituiscono forse persino una semplice questione di abitudini o di gusti. Vale a dire, in termini più contemporanei, da una parte la filosofia del sospetto (o decostruzionismo) e dall’altra ilrelativismo culturale (o multiculturalismo) che tuttora rappresentano i due pilastri fondamentali del Tempio “postmoderno”. L’insistenza da parte dei Moderni, a partire dal XVII secolo, sulla necessità filosofica di considerare gli uomini non come dovrebbero essere, ma come sono(«trattandone vizi e infermità scrive Spinoza - alla maniera dei geometri») non deve trarre in inganno. Malgrado le apparenze, essa non dipende tanto da una lucidità duramente acquisita, sotto l’egida futura delle nuove “scienze umane”, quanto da un vincolo teorico interno allo stesso programma moderno. Si tratta in fin dei conti di un’antropologia della stanchezza (o se si preferisce, di una delle prime figure del mai più questo), a sua volta ansiosa di definire ciò che gli individui dovrebbero essere, perché si possa finalmente attivare il processo di svalutazione e neutralizzazione delle loro due principali passioni bellicose: la pretesa di detenere il Vero e quella di incarnare l’eroismo e la Virtù. E' evidentemente in questo preciso quadro che l’essenza dell’Uomo inizia a essere letta in maniera privilegiata attraverso il modello del “borghese”, quel commerciante amante delle comodità che l’intera epoca è ora concorde nel definire prosaico, pacifico e inoffensivo. Da questo punto di vista si può affermare che la modernità comincia veramente a manifestare i propri principali effetti ideologici solo a partire dal momento in cui (secondo il gioco di parole di Marx) la “società civile” (die burgerlische Gesellschaft) viene a essere pensata essenzialmente come “società borghese”.
È ora possibile esporre, nella sua logica costitutiva, il duplice movimento paralleloche ha portato il liberalismo filosofico a proporre l’utopia di una società nazionale, collocando il fondamento stesso della sua esistenza pacificata nell unica dinamica delle strutture impersonali del Mercato o del Diritto. A prescindere dalla soluzione cui si è approdati, di fatto l’approccio è il medesimo. Si tratta sempre di scoprire o immaginare i meccanismi (in altre parole, i sistemi di pesi e contrappesi concepiti sul modello delle teorie fisiche dell’equilibrio [C]) in grado di generare da soli tutto l’ordine e l’armonia politica necessarie,senza che sia mai più necessario appellarsi alla virtù dei soggetti. Rinuncia, questa - è vero - priva di conseguenze psicologiche di rilievo, dal momento che per uno spirito moderno la “virtù” (che essa attinga la propria ispirazione ufficiale dalla fede religiosa, dal costume, dalla morale, dall’ideale civico o dallo spirito del dono) costituisce ormai una semplice forma d’ipocrisia o di menzogna nei propri confronti, fonte incessante di dispute e di conflitti ideologici che in ogni momento minacciano di deregolamentare quelprocesso senza soggetto che è la condizione di ogni società tranquilla.
Naturalmente proporre questa tesi non vuol dire negare le differenze di accentuazione filosofica evidenti che permettono di distinguere la soluzione sostenuta dal liberalismo del Diritto (o liberalismo politico) da quella privilegiata dal liberalismo di Mercato. Dal punto di vista della storia concreta delle idee è indispensabile tenerne conto, ma dal punto di vista filosofico è altresì indispensabile stabilire che queste due versioni parallele del liberalismo non sono solo quasi semprecollegate nei fatti. Esiste una necessità strutturale che induce ognuna di esse a ricercare continuamente i propri sostegni teorici nell’altra, nel tentativo di sottrarsi così alle rispettive antinomie. E' una necessità di questo genere che Marx riassumeva nella sua celebre formula: «Libertà, uguaglianza, Bentham».
Se il liberalismo si presenta quindi sin dall’origine come un quadro filosofico “a doppia entrata”, in un certo senso è del tutto indifferente svilupparne i principi cominciando dal versante strettamente politico o da quello economico. Dal punto di vista pedagogico sembra tuttavia più logico partire dal liberalismo politico, nella misura in cui quest’ultimo, a differenza del suo doppio economico, si sforza per definizione di affrontare il problema politico moderno in maniera diretta, elaborando a questo scopo una meccanica del potere estremamente precisa (e che in partenza, come notiamo, non presuppone necessariamente una concezione particolare del Mercato e del suo ruolo metafisico).
L’assioma di base del liberalismo politico è ben noto. Se la pretesa di certi individui (o associazioni di individui, come la Chiesa) di detenere la verità sul Bene è la causa fondamentale che induce gli uomini a scontrarsi con violenza, allora i membri di una società non potranno vivere in pace gli uni con gli altri a meno che il Potere incaricato di organizzarne la coesistenza sia filosoficamente neutro, cioè si astenga per principio dall’imporre loro una qualche concezione di retta via. In una società liberale chiunque è libero di adottare lo stile di vita che ritiene più adeguato alla propria concezione del dovere (ammesso che ne abbia una) o della felicità; naturalmente con l’unica riserva che le sue scelte siano compatibili con la corrispondente libertà altrui. Quest ultima esigenza presuppone la presenza - al di sopra delle persone impegnateindividualmente nella loro ricerca della retta via e della felicità - di un’istanza incaricata di armonizzare le libertà attualmente concorrenti ed esclusivamente investita, a questo titolo, del potere di limitarne il campo d’azione definendo un certo numero di regole comuni. Tale istanza è il Diritto (e in quest’ottica allo Stato resta solo la funzione essenziale di garantirne l’effettiva applicazione). E nella terminologia liberale i principi incaricati di guidarne l’esercizio sono quelli della Giustizia. Anche qui le formule di Benjamin Constant sono di una limpidezza esemplare quando scrive: «L’autorità è pregata di rimanere all’interno dei propri confini; si limiti a essere giusta. Noi ci faremo carico di essere felici».
Questa tesi liberale del primato del Giusto sul Bene (come indicano i filosofi anglosassoni18) va tuttavia ben compresa. Se il Diritto costituisce per il liberalismo politico l’istanza di regolamentazione suprema che deve sostituirsi a tutte le altre, questo naturalmente non avviene secondo le modalità, giudicate arbitrarie e soffocanti, delle antiche sovrastrutture normative, siano esse quelle del costume, della morale, della religione o della virtù repubblicana. In verità la “teoria della giustizia” sulla quale si basa la nuova autorità del Diritto ha poco a che vedere con ciò che la filosofia tradizionale aveva fino a quel momento concepito con quel nome. In effetti essa non si preoccupa più di definire delle Idee o di afferrare delle Essenze, cioè di esprimersi in nome di una qualsiasi “Verità”, indipendentemente dallo statuto metafisico di quest’ultima. Più che di una “teoria della giustizia” converrebbe parlare di una teoria dell'aggiustaggio o dell'aggiustamento.Infatti si tratta essenzialmente solo di mettere a punto le combinazioni istituzionali più efficaci, e quindi dicalcolare nella maniera più esatta il sistema di pesi e contrappesi (checks and balances, li chiamano i filosofi anglosassoni) che consentono di mantenere in equilibrio le libertà rivali imponendo loro il minimo di esigenze o, se si preferisce, garantendo loro il tasso d’imposizione esistenziale più basso possibile. Una teoria liberale della giustizia non deve dunque comportare per principio alcuna riflessione filosofica particolare su quello che potrebbe essere il miglior modo di vivere. Al contrario, essa si limita a definire le condizioni tecniche di un semplice modus vivendi: quello che è necessario imporre a una moltitudine di particelle elementari in perenne movimento se si vuole ridurre al massimo i rischi di scontri e collisioni (il che in definitiva corrisponde ad assegnare al Diritto liberale una funzione paragonabile a quella del Codice della strada). Per quanto riguarda ciò che tali particelle considerano essere loro dovere o loro felicità, si tratta di una considerazione che ormai non fa più parte del quadro della filosofia politica. In questo senso, e per parodiare quanto scriveva Heidegger sulla scienza, si può dire che per i liberali lo Stato più giusto - quello che, su tutti piani, esige meno da noi - è lo Stato che non pensa. Uno Stato privo di idee - o, come dicono i liberali, privo di ideologia - e che, in virtù di una sorta di platonismo alla rovescia, si farebbe un punto d’onore filosofico a non interrogarsi mai su quello che è il miglior modo di condurre la propria vita o di esercitare la propria libertà “naturale”. Al limite, questo Stato senza idee né valori19 (che quindi si impedisce di esprimere giudizi su questioni che esulino da quelle tecniche) non va più neppure inteso come un “governo degli uomini”. Costituisce infatti, per riprendere la celebre distinzione di Saint-Simon, una pura “amministrazione delle cose”, e richiede un numero di vere convinzioni politiche molto inferiore rispetto a una semplice competenza da “esperto” o da amministratore oculato. Da questo punto di vista, probabilmente nessuno meglio di Immanuel Kant ha formulato questo ideale di neutralità assiologica assoluta, che è il cuore di ogni progetto liberale, quando nel suo Per la pace perpetua annota che nell’ipotesi di un lavoro legislativo perfetto la sola meccanica del Diritto sarebbe sufficiente ad assicurare la coesistenza pacificapersino di un popolo di demoni.
Tuttavia è proprio qui che cominciano i problemi del liberalismo politico. Certo, a parte il marchese de Sade (di cui Lasch, Lacan e Pasolini avevano ben capito, ciascuno a proprio modo, che non era che il versante in ombra della filosofia dei Lumi20), nessuno dei primi liberali avrebbe celebrato come termine logico della libertà l’avvento di un «popolo di demoni». Il problema è che nulla, nella logica del liberalismo politico, protegge quest’ultimo da una tale eventualità. L’autorità del Diritto liberale è in effetti legittima, come abbiamo visto, solo perché si limita ad arbitrare il movimento browniano delle libertà concorrenti, senza mai appellarsi ad altri criteri all’infuori delle esigenze della libertà stessa; le quali si riducono essenzialmente alla sola necessità di non nuocere al prossimo. Ora quest’ultimo criterio, dì importanza cruciale per i liberali, si rivela, alla prova dei fatti, molto complesso da maneggiare (come la semplice lettura di John Stuart Mill basta a dimostrare, a partire dalla metà del XIX secolo). Con che diritto infatti una società liberale potrebbe per esempio impedire a un individuo di nuocere a se stesso (ed è noto che molti liberali, come il compianto Milton Friedman o Daniel Cohn-Bendit, militano con passione a favore della depenalizzazione delle droghe)? Oppure, se ci si situa sul piano dei rapporti tra gli individui, su quale base potrebbe decidere che criticare una religione (o prendersene gioco) non nuoce all’esercizio della libertà ben compresa dei credenti? In che misura, all’opposto, i precetti di questa o quella religione sulla condizione della donna o la natura dell’omosessualità non intaccano direttamente i “diritti delle minoranze”? Dinanzi a queste domande, moltiplicabili all’infinito, il Diritto liberale è necessariamente in grave difficoltà. Se per ipotesi deve proibirsi, per motivare la propria arbitrarietà, di basarsi su concezioni metafisiche particolari (per esempio su una concezione determinata della salvezza dell’anima, della decenza comune o della dignità umana) è in effetti inevitabile, a causa dell’evoluzione perpetua dei costumi (processo che i Moderni sono unanimi nel giudicare “naturale”), che si trovi a confrontarsi con un numero crescente di “problemi sociali”, palesemente impossibili da risolvere in maniera coerente nel quadro strettamente tecnico di cui esso stesso si è dotato. Il percorso logico consiste allora nell’imboccare progressivamente la strada di una regolarizzazione in massa di tutti i comportamenti possibili e immaginabili.
Consideriamo per esempio il caso emblematico della prostituzione. Se il solo criterio che permette di distinguere gli atti illeciti da quelli illeciti21 è in definitiva ilconsenso degli individui, con che diritto si potrebbe allora sostenere che la prostituzione, dal momento in cui è praticata volontariamente, non sia unmestiere come gli altri, probabilmente destinato a rientrare nella categoria economicamente promettente dei “servizi alla persona”? A partire dal momento in cui ci si rifiuta di fondare il proprio giudizio su una critica della commercializzazione del corpo (giacché si tratta di una filosofia particolare e, quel che più importa, anticapitalista), è difficile non seguire il giurista liberale Daniel Borillo quando conclude:
Lo Stato non deve promuovere una morale sessuale specifica a rischio di diventare esso stesso immorale. La persona adulta è l’unica in grado di determinare ciò che più le conviene [...]. Con che diritto lo Stato proibirebbe a una persona la facoltà di avere rapporti sessuali dietro compenso e di farne la propria professione abituale?22
Questa impagabile analisi giuridica, quantomeno se si considerano sacri i dogmi fondatori del liberalismo, fornisce così una base ideologica blindata alla posizione delle “femministe” liberali, quando proclamano, attraverso la penna di Marcela Iacub e di Catherine Millet:
In quanto donne e femministe ci opponiamo a coloro i quali pretendono di dire alle donne ciò che debbono fare con i loro corpi e la loro sessualità. Ci opponiamo a coloro i quali si accaniscono a reprimere la prostituzione invece di cercare di destigmatizzarla, cosicché le donne che hanno scelto quella che considerano una vera e propria professione possano esercitarla nelle migliori condizioni possibili [D].
Questa modalità di ragionamento minimalista può naturalmente essere estesa a tutte le rivendicazioni concepibili, comprese quelle più contrarie al buon senso o alla common decency, come viene quotidianamente dimostrato dall’esempio degli Stati Uniti. E' sufficiente saper manipolare, anche in maniera molto approssimativa, quelle tecniche della “decostruzione” la cui felice semplicità concettuale le mette ormai alla portata di chiunque (anche di un lettore di «Libération») e che permettono senza troppi sforzi intellettuali di trasformare tutti gli scrupoli etici possibili in altrettantitabù arbitrari e storicamente determinati.
Tuttavia è da prevedere che vi saranno sempre altri individui - o associazioni di individui - che riterranno che ognuna di queste nuove “avanzate del Diritto” mini la loro libertà nella misura in cui si suppone che nuoccia alla loro sensibilità e “autostima” (che ormai per convinzione generale costituiscono parte integrante di tale libertà). In prospettiva è quindi inevitabile che questo processo di estensione infinita dei diritti individuali (oliberalizzazione dei costumi) finisca per scatenare, per effetto della vecchia dialettica provocazione/irrigidimento, la comparsa di una nuova guerra di tutti contro tutti. Guerra che stavolta sarà condotta dinanzi ai tribunali e per interposti avvocati23, e in cui i sostenitori del “politicamente corretto” sono diventati, come tutti sappiamo, i soldati di professione. E poiché la neutralità proclamata del Diritto liberale lo priva anticipatamente di ogni appiglio filosofico serio per decidersi tra tutte queste pretese contraddittorie, in fin dei conti non ha altra via d’uscita se non registrare passivamente la variazione incessante dei vari rapporti di forza che travagliano l’opinione pubblica e la società. Oggi la proibizione di fumare; domani forse la legalizzazione delle droghe e probabilmente, in un futuro alquanto prossimo, le due cose contemporaneamente. Certo lo strano clima che si instaura a favore di queste crociate giuridiche sempre più numerose (i sottili piaceri proibiti della delazione, la sorveglianza generalizzata degli uni sugli altri, la moltiplicazione improvvisamente ineluttabile delle censure, dei controlli e dei biglietti) sembra agli antipodi di quel mondo pacifico e tollerante che sognavano i fondatori del liberalismo: che cosa avrebbero pensato Montesquieu, Constant o Tocqueville di Act Up, delle Chiennes de garde e degli Indigènes de la République24? Tuttavia è proprio in nome della loro teoria del Diritto e della Libertà che questo bisogno forsennato di legalizzare, di escludere e di proibire si sviluppa ora senza limiti. A partire dal momento in cui lo Stato liberale, secondo l’espressione di Pierre Manent, si propone come «scetticismo divenuto istituzione», non esiste al suo livello alcun parafulmine istituzionale coerente in grado di prevenire lo smantellamento metodico di quella che Orwell definiva common decency, e tanto meno, va da sé, del semplice buon senso.
C’è dunque bisogno di ricordare che è precisamente intorno a questa questione cruciale - quella della differenza tra una società giusta una società decente25 — che all’inizio del XIX secolo si erano annodati i primi elementi della critica socialista del liberalismo? Il principio di quest’ultima (radicato nell’esperienza vissuta dalle classi popolari urbane delle prime forme di disumanizzazione generata dal nuovo ordine industriale e dell’egoismo già sconfinato dei nuovi possidenti) era che una società che nei fatti26 incoraggiasse comportamenti tanto indecenti e manifestamente contrari alla dignità umana non potesse essere moralmente accettabile e che perciò non avesse senso definirla “giusta”. Per i primi socialisti era quindi indispensabile che la collettività si organizzasse in quanto tale, per inserire nella realtà (e naturalmente i progetti concreti variavano in maniera considerevole da una corrente all’altra) le condizioni di un’esistenza decente e di una solidarietà minima, senza le quali lo Stato di Diritto, a prescindere peraltro dai suoi evidenti vantaggi, avrebbe continuato a essere privo di qualsiasi effettivo contenuto umano.
Riveste quindi particolare interesse l’analisi della risposta che Frédéric Bastiat fornì a questo problema a partire dal 184827. Nella storia del liberalismo francese Bastiat occupa in effetti un posto decisivo per almeno due ragioni. Innanzitutto è uno dei primi liberali che polemizza apertamente con quella critica socialista nascente («Abbiamo come avversari i comunisti, quelli di Fourier e quelli di Owen; Cabet, Louis Blanc, Pierre Leroux e molti altri», scrive). Inoltre, e soprattutto, è lui (insieme ai suoi amici “economisti”) uno dei primi ideologi di quel movimento a essersi assunto, senza battere ciglio28, l’unità dialettica dei due versanti. Sotto questo aspetto la sua risposta può dunque essere considerata un annuncio esemplare di tutti i futuri sviluppi filosofici del liberalismo realmente esistente.
Ciò che colpisce subito il lettore contemporaneo, in quella risposta di Bastiat, è la cura nel precisare sin da subito che, lungi dal difendere l’egoismo calcolatore denunciato dalle “scuole socialiste”, egli condivide a titolo personale il medesimo ideale di una comunità solidale e decente dei suoi avversari; scrive infatti:
Saremo dunque costretti a parlare di noi? Che si guardi alle nostre azioni, allora! Certo, concediamo pure che i numerosi uomini politici che oggigiorno vogliono soffocare nel cuore dell’uomo finanche il sentimento dell’interesse, che si dimostrano spietati nei confronti di quello che chiamano l’individualismo, la cui bocca si riempie in continuazione di parole come abnegazione, sacrificio, fratellanza, concediamo pure che essi obbediscano esclusivamente a quei sublimi moventi che consigliano agli altri [...], tuttavia ci sarà concesso affermare che da questo punto di vista non temiamo confronti.
Ai suoi occhi in questo dibattito fondamentale non è in gioco il fatto di sapere se avrebbe ancora un senso sostenere che un comportamento “fraterno” o solidale sia meglio di un comportamento egoista. Su questo punto Bastiat, contrariamente alla maggior parte dei liberali attuali29, finge di non avere alcun dubbio e di essere totalmente d’accordo con i socialisti. Perciò la sua critica del socialismo nascente è molto più sottile: essa consiste nello sviluppo dell’idea che la fratellanza non si potrebbe praticare “per imposizione” senza perdere seduta stante tutto il suo senso, e che un gesto è davvero generoso solo se viene compiuto spontaneamente e senza aspettarsi nulla in cambio30. In queste condizioni l’errore dei socialisti consisterebbe quindi nel rendere impossibile qualsiasi fratellanza reale, sollecitando l’inserimento a livello legislativo di doveri che solo gli individui hanno il potere di autoimporsi:
Da questo derivano - scrive Bastiat - i tentativi di organizzazione del lavoro; le dichiarazioni in base alle quali lo Stato sarebbe responsabile della sussistenza, del benessere e dell’istruzione di tutti i cittadini; l'affermazione che dev’essere generoso, caritatevole, onnipresente, prodigo nei confronti di tutti; che ha come missione l’allevare i fanciulli, l’istruire i giovani, l’assicurare lavoro ai forti, il garantire la pensione ai deboli; in poche parole, che deve intervenire direttamente per alleviare ogni sofferenza [...], Cospargere di balsami tutte le ferite, dare asilo a tutte le sciagure, e persino fornire soccorso e sangue francese a tutti gli oppressi sulla faccia della terra.
La volontà di applicare questo generoso programma per mezzo della legge e della tassa (secondo la formula di Bastiat) è quindi destinata a ritorcersi contro se stessa e, pur istituendo una semplice caricatura dell’autentica fratellanza, porterebbe inevitabilmente a un regime di terrore e alla miseria generalizzata.
Tuttavia il problema resta. In effetti, nell’ipotesi secondo la quale la fratellanza ha senso solamente come pratica privata basata su scelte private, e se lo Stato giusto deve proibirsi per principio di intervenire in questi ambiti, come può essere ancora possibile sperare di introdurre nella vita quotidiana dei singoli quella rettitudine morale e quello spirito di solidarietà che peraltro Bastiat sostiene di riconoscere come condizione di ogni società autenticamente umana? Che cosa insomma autorizza un liberale politico a credere che gli uomini compiranno da soli le scelte più auspicabili e che non preferiranno piuttosto adottare un comportamento egoista, se non addirittura decidere cinicamente di comportarsi da «demoni»? Se la risposta di Bastiat è ancora una volta esemplare, è proprio perché segna in maniera particolarmente netta il momento (filosofico e storico al tempo stesso) in cui l’unità in sé della filosofia liberale può finalmente diventare unità di per se stessa. In altri termini, il momento in cui il liberalismo, per fronteggiare la critica socialista, scopre di non avere a disposizione nessun’altra scelta coerente se non subappaltare ai meccanismi del Mercato l’impegno di risolvere le aporie costitutive del Diritto.
«Dopo un attento esame - scrive dunque Bastiat - bisogna riconoscere che il Signore Iddio ha agito bene, facendo sì che la miglior condizione del progresso siano la giustizia e la libertà». Questo curioso esordio, all’apparenza ben poco moderno, non deve certo preoccupare il lettore liberale. Ben presto ci accorgeremo infatti che questo deus ex machina, incaricato di risolvere definitivamente la questione morale, non conosce altra incarnazione possibile se non quella della celebre «mano invisibile» di Adam Smith. Andava quindi compreso che è laliberazione integrale degli scambi economici (nonché la soppressione quasi assoluta dell’imposta31) che, collocando la società giusta sotto la protezione tutelare delle leggi dell’offerta e della domanda, si incaricherà da sola, tramite un processo puramente meccanico, di dare vita a quella comunità al tempo stesso pacifica esolidale che si suppone costituisca l’ideale comune dei veri liberali e dei socialisti. Bastiat non ignora certo l’obiezione massiccia e già allora classica dei socialisti del tempo.
Che cosa poteva derivare - osserva infatti Victor Considérant, ampiamente citato dallo stesso Bastiat - da questa libertà industriale, sulla quale tanto si era fatto affidamento, da questo famoso principio della libera concorrenza, che si riteneva tanto dotato di un carattere di organizzazione democratica? Non ne poteva venir fuori che l’asservimento generale, l’infeudazione collettiva delle masse prive di capitali, di armi industriali, di strumenti di lavoro e infine di istruzione nei confronti della classe industrialmente rifornita e ben equipaggiata. Si dice: “La contesa è aperta, tutti sono chiamati alla lotta, le condizioni sono uguali per tutti i lottatori”. Benissimo: ma si trascura un piccolo particolare, e cioè che, su questo grande campo di battaglia, gli uni sono istruiti, agguerriti, armati fino ai denti e hanno a disposizione vettovaglie, equipaggiamento, munizioni e macchine da guerra in abbondanza, occupando tutte le posizioni, mentre gli altri sono sprovveduti, ignudi, ignoranti, affamati e per sopravvivere alla giornata e far sopravvivere mogli e figli sono costretti a implorare ai loro stessi avversari un lavoro qualsiasi e un misero salario.
Se Bastiat si scandalizza dell’utilizzo di questo vocabolario guerriero applicato al mondo fondamentalmente pacifico dell’industria e del dolce commercio (che cosa vi era infatti di più inconcepibile di una guerra economica?), riconosce tuttavia a Considérant il merito di aver correttamente identificato la posta in gioco del dibattito. Scrive:
Il profondo dissenso tra socialisti ed economisti consiste in questo: i socialisti credono all’antagonismo essenziale degli interessi; gli economisti credono all’armonia naturale, o piuttosto all’armonizzazione necessaria e progressiva degli interessi. Tutto qui.
Sennonché si dà il caso che su questa questione decisiva la Provvidenza non sia neutra e abbia già scelto da molto tempo da che parte schierarsi. «La Provvidenza - spiega Bastiat - non si è sbagliata. Ha sistemato le cose in modo tale che gli interessi, sotto la legge della giustizia,pervengano naturalmente alle combinazioni più armoniose»; «e questa è la conclusione - aggiunge trionfante - alla quale approda l'Economia politica».
Tutti gli elementi della soluzione miracolosa sono quindi finalmente riuniti. Stava proprio all’Economia politica, indissolubilmente nuova scienza newtoniana ed ermeneutica della Provvidenza, annunciare la Lieta Novella tanto attesa. Essa sola infatti ha il potere di rivelare agli uomini, teoremi alla mano,le magiche concatenazioni che fanno sì che la Concorrenza libera e non falsata generi automaticamente la Crescita illimitata, la quale a sua volta consentirà altrettanto automaticamente di «risollevare i ceti sofferenti in due modi: dapprima consentendo loro di vivere spendendo poco, e poi innalzando il tasso salariale». Bastiat perciò conclude, ed è l’estremo risvolto della sua dimostrazione, che «non è possibile che la sorte degli operai risulti migliorata così naturalmente e doppiamente, senza che si elevi e si purifichi la loro condizione morale»; tanto è vero che le capacità morali di un uomo sono direttamente proporzionali alleproprietà materiali di cui dispone, poiché queste per definizione lo tutelano dalle due fonti perenni della propensione al male: invidia e risentimento. A questo punto quindi viene meno ogni timore di un popolo di demoni. Sarà l’Economia finalmente libera di svilupparsi secondo le proprie leggi naturali - e protetta dallagiustizia dello Stato ideologicamente neutro (ogni intervento ideologico non potrebbe che deregolamentare l’ordine provvidenziale del mercato) -a incaricarsi da sola di educare moralmente gli esseri umani e di instillare progressivamente nel loro cuore la vera fratellanza, sotto l’occhio meravigliato di Dio. E questo, beninteso, senza che sia mai necessario esercitare su di essi la minima costrizione giuridica, e neppure richiamarli a un qualsiasi dovere. In questo senso la Crescita economica è proprio l’enigma risolto della Storia [E], il segreto - come dice ancora Bastiat - del «Progresso» e della «società che si perfeziona senza sosta»32. Per un liberale del tutto coerente, l’autorità deve certo rimanere entro i propri limiti e accontentarsi di essere giusta. Ma sta all’Economia renderci felici e, già che ci siamo, fraterni e buoni33.
Eravamo partiti dalle antinomie del liberalismo politico alle prese con i suoi demoni kantiani, ed eccoci qui brutalmente ricondotti nel mondo di Adam Smith e di Turgot. Questa oscillazione costitutiva tra i due momenti del liberalismo non desta evidentemente alcun motivo di stupore. Ricordiamo infatti che l’ideale del “dolce commercio” - caposaldo della filosofia dei Lumi e fondamento della nascente Economia politica - non si era formato al termine di erudite considerazioni sull’allocazione delle risorse rare o sulla combinazione ottimale dei fattori di produzione. Si inseriva anch’esso sin dalle origini in quel progetto di pacificazione sistematica della società che costituisce la vera fonte delle istituzioni moderne. Da questo punto di vista è significativo che il primo progetto di pace universale noto, Il nuovo Cinea di Emery de Lacroix (Émeric Crucé), pubblicato nel 1623, si sforzi subito di ricollegare questa questione decisiva della pace a quella, allora inedita, della libertà del commercio -come testimonia del resto il suo sottotitolo: Discorso sulle occasioni e i mezzi per stabilire una pace generale e la libertà di commercio in tutto il Mondo. In questo curioso trattato (che si ripropone di mettere d’accordo «il turco e il persiano, il francese e lo spagnolo, il cinese e il tartaro, il cristiano e l’ebreo o il maomettano») si trova una delle primissime riabilitazioni della figura sino a quel punto universalmente disprezzata del mercante, riabilitazione che appare particolarmente limpida in relazione ai suoi obiettivi politici:
Non vi è mestiere di utilità paragonabile a quella del mercante - scrive Crucé - che accresce legittimamente i propri mezzi a spese del proprio lavoro e sovente a rischio della propria vita, senza danneggiare né offendere alcuno: in questo egli è degno di maggior lode del soldato, la cui avanzata difende dalle spoliazioni e dalle rovine inflitte al prossimo.34
Basterà dunque che nel secolo seguente Boisguilbert elabori il concetto di ordine economico naturale - trasponendo nella sfera delle attività mercantili il modello della fìsica cartesiana - perché la congiunzione dei due temi moderni (ruolo pacificatore del commercio, meccanismo di autoregolazione del mercato) renda filosoficamente pensabile il progetto di Adam Smith: dimostrare in che modo il semplice gioco delle leggi del libero mercato possa generare di per se stesso - senza necessità di intervento da parte dello Stato e senza dover sollecitare l’impossibile virtù degli individui - un mondo al tempo stesso pacifico, prospero e felice quanto può esserlo un mondo di egoisti; perfetta imitazione meccanica,insomma, degli effetti che la morale e la religione si aspettavano in precedenza dalla bontà collettiva. Se il liberalismo politico finisce sempre per ritrovare nel liberalismo economico il proprio centro di gravità naturale, è innanzitutto perché quest’ultimo, nel suo progetto come nei suoi principi, costituiva già sin dall’inizio la risposta politica parallela al problema moderno.
Il movimento dialettico che riduce all’infinito il liberalismo politico, a prescindere dalle sue intenzioni iniziali, al liberalismo di mercato non deve quindi nulla al caso. A ben guardare, è addirittura l’unico mezzo filosoficamente coerente che resta a disposizione di questa dottrina ogniqualvolta essa voglia sfuggire alla propria aporia costitutiva - la compresenza di un’autorità “giusta” e di demoni in libertà - senza d’altra parte rinunciare alla propria certezza fondamentale, indotta dal trauma originale delle guerre di religione e del terrore giacobino: l’idea che lo Stato che si trattenga dal pronunciare alcun giudizio sulla morale e la vita retta è il solo di cui si può avere la certezza che non tenterà mai di imporre la salvezza o la felicità agli individui contro il loro volere.
Il socialismo delle origini ha dunque sempre gioco facile nell’obiettare che una società che non pretenda dai propri membri nient'altro che il rispetto della loro indifferenza reciproca non sarebbe più una vera società, e che là dove non regna un minimo di common decency (vale a dire un minimo di valori condivisi e di solidarietà collettiva effettivamente praticata) la massima vivi e lascia vivere di fatto finisce sempre per trasformarsi in vivi e lascia morire. Se vuole restare fedele a se stesso - e non avventurarsi sul terreno, a suoi occhi troppo scivoloso, dei valori e dellamorale - il liberalismo politico non ha quindi altra scelta se non cedere il turno. E' questo punto che la mano visibile dello Stato giusto, quella che all’inizio doveva limitarsi a definire le regole del gioco, si scopre eternamente costretta a demandare al Mercato e alla sua mano invisibile il compito di risolvere i problemi insoluti organizzando autonomamente l’andamento della partita. Naturalmente è in questo preciso momento che lo scetticismo metodico del Diritto trova la propria verità ultima nel dogmatismo arrogante dell’Economia.
Resta da appurare se questa soluzione è veramente tale, e se permette davvero di farla finita una volta per tutte con l’obiezione socialista. C’è infatti da temere che quell’“ordine morale” che tanto terrorizza tutti i nostri valorosi liberali politici sia stato cacciato dalla porta dello Stato solo per rientrare in forze dalla finestra del Mercato. Perché se l’Economia ha ormai la vocazione, in luogo e a nome delle antiche teologie, di definire la via da seguire per l’umanità - quella della Crescita illimitata, questo nuovo “balsamo per tutte le ferite” - in realtà è perché sotto la maschera intimidatoria della “necessità” essa sin dall’inizio non costituisce null’altro che un’ideologia invisibile e una religione incarnata35. Infatti non è forse il Mercato che ora monopolizza - attraverso la sua immensa industria del divertimento e la sua onnipresente propaganda pubblicitaria - il diritto di insegnare a tutti gli esseri umani,a cominciare dai bambini, ciò che possono sapere, ciò che debbono fare e ciò che è loro consentito sperare? Di predicare loro, in altre parole, il modo in cui devono vivere e le ragioni “scientifiche” in base alle quali ogni altra maniera di considerare le cose è d’ora in poi priva di senso? Insomma, c’era da aspettarselo. Se lo Stato liberale è destinato a rimanere per sempre una forma filosoficamente vuota, chi se non il Mercato potrebbe riempire le pagine lasciate bianche e assumersi finalmente il compito di fare la morale agli uomini? Il liberalismo politico di Benjamin Constant non è mai un biglietto di sola andata: comprende sempre, che lo si voglia o no, il ritorno ad Adam Smith.
1 La celebre fabbrica di spilli di Adam Smith impiega dieci soli operai. Evidentemente l’autore della Ricchezza delle nazioni non aveva la più pallida idea di che cosa potesse concretamente significare un giorno il regno planetario dei fondi pensione e delle grandi multinazionali, per non parlare delle società di copertura e dell’economia mafiosa. In uno studio dedicato agli Stati Uniti prima della grande industria, pubblicato sul numero di dicembre 2006 della rivista «Notes &Morceaux Choisis» (Editions La Lenteur),Matthieu Amiech fornisce in proposito alcuni commenti interessanti.
2 A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, London-Edinburgh, A. Miller &T. Caddel-A. Kincaid & J. Bell, 1767 (trad. it. a cura di P. Salvucci, Saggio sulla storia della società sociale, Firenze, Vallecchi, 1973).
3 L'Apologie de l’abbé Galiani è stato ripubblicato in Francia nel 1998 (Agone Editeur), preceduto da un notevole intervento di Michel Barrillon dal titolo Diderot dans la premiere bataille du libéralisme économique.
4 Cfr. P. Manent, Histoire intellectuelle du libe'ralisme, Paris, Calmann-Lévy, 1987, in particolare il primo capitolo (trad. it.Storia intellettuale del liberalismo: dieci lezioni. Da Machiavelli a Tocqueville, Roma, Ideazione, 2003).
5 Indicazioni filosofiche particolarmente stimolanti in proposito sono contenute nell’opera di O. Rey, Itinéraire de l'egarement,Paris, Seuil, 2003.
6 Di qui lo sforzo che compie nella Prefazione al Trattato sul vuoto per tracciare una linea di demarcazione preventiva tra gli «argomenti che rientrano nella sfera del senso o del ragionamento», argomenti sui quali l’autorità dei Moderni deve d’ora in poi prevalere, e l’insieme delle altre “materie” (tra cui certamente la teologia) che non possono essere pensate sotto le categorie del Progresso. Pascal è così uno dei primi filosofi moderni e antimodernisti al tempo stesso, o, se vogliamo, uno dei primi critici moderni della Modernità.
7 Come scriverà più tardi Auguste Comte, «quando la politica sarà diventata una scienza positiva, la gente dovrà concedere a chi si occupa di cosa pubblica, e per forza di cose gli concederà, la stessa fiducia per quanto riguarda la politica che concede attualmente agli astronomi per l’astronomia, ai medici per la medicina eccetera...» (Séparation générale entre les opìnìons et les désirs, 1819). Ecco il fondamento metafisico dell’autorità contemporanea degli onnipresenti “esperti”.
8 Cfr. C. Marouby, L’Économie de la nature. Essai sur Adam Smith et l'anthropologie de la croissance, Paris, Seuil,2004. Basandosi in prevalenza sul materiale antropologico fornito dagli irochesi e dagli uroni della Confederazione delle cinque nazioni, Adam Smith è stato indotto a immaginare il movimento “necessario” che porta tutte le società umane dallo “stadio dei cacciatori "allacommercial society, attraverso lo “stadio pastorale” e lo “stadio agricolo”. Marouby mette minuziosamente in risalto le innumerevoli forzature alle osservazioni empiriche e al ragionamento logico che Adam Smith è costretto a praticare per tenere in piedi quest’ipotesi, nonché i postulati antropologici sui quali poggia la Ricchezza delle nazioni (e sui quali continua a basarsi, va da sé, la “scienza” economica contemporanea).
9 Cfr. C.A. Bayly, The Birth of the Modern World, 1780-1914. Global Connections and Comparisons, Oxford, Blackwell, 2004 (trad. it. di M. Marchetti e S. Mobiglia, La nascita del mondo moderno. 1780-1914, Torino, Einaudi, 2007, p. xxxi): «In primo luogo, questo libro accoglie l’idea che parte essenziale dell’essere moderno sia pensare di esserlo. La modernità è un’aspirazione all’essere “all’altezza dei tempi”. E' stato un processo di emulazione e di plagio. Tra il 1780 e il 1914, un numero crescente di individui, sembra difficile negarlo, hanno deciso che erano moderni, o che stavano vivendo in un mondo moderno, la cosa piacesse o meno. [...] Fu anche un’età moderna perché i più poveri e subalterni, a livello mondiale, pensavano di poter migliorare la propria condizione sociale e le proprie opportunità adottando i simboli di questa mitica modernità, che fossero gli orologi da tasca, gli ombrelli o i nuovi testi religiosi».
10 G. Livet, Guerre et paix de Machiavel à Hobbes, Paris, Armand Colin, 1972, p. 50.
11 La distinzione tra stàsis (‘guerra civile’) e pólemos (‘guerra contro gli stranieri’) è già presente in Platone.
12 La formula di Pascal è un’evidente allusione a quella di Erasmo («la guerra è il peggiore dei mali», Istituzione del principe cristiano, 1516). Vero è che l’analisi di Erasmo attribuiva già un ruolo centrale alla guerra civile («Come bisogna chiamare l’azione dei cristiani che si scannano tra loro, quando invece sono uniti da tanti vincoli, che protraggono il massacro per anni e anni, per motivi ignoti, per un’animosità personale, per una stupida ambizione giovanile?»).
13 Sulla natura e la portata di questa socialità primaria nella Francia del XVI secolo fondamentale rivolgersi all’opera della storica americana Natalie Zemon Davis, The Gift in Sixteenth-Century France, Oxford, Oxford University Press, 2000 (trad. it. di M. Gregorio, Il dono: vita familiare e relazioni pubbliche nella Francia del Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 2002).
14 Come sul piano metafisico, il dubbio cartesiano dovrà assumere una forma iperbolica per fondare in anticipo la possibilità delcogito. Si noterà qui che le soluzioni moderne debbono sempre essere dedotte a partire da situazioni filosofiche non solamente negative, per non dire disperate (il dubbio assoluto, la violenza assoluta), ma anche fittizie (l’ipotesi del sogno e del genio malefico in Cartesio, lo stato di natura in Hobbes, la favola del baratto originale per gli economisti). Suscitare in questo modo i propri miti fondatori non è il solo paradosso di una società che pretende di essere (per la prima volta nella storia) completamente “realista” e “procedurale”, vale a dire fondata sui protocolli puramente meccanici del Diritto e del Mercato.
15 C. Lasch, The True and Only Heaven: Progress and Its Critics, New York, W.W. Norton & Company Inc., 1991 (trad. it. di C. Oliva, Il paradiso in terra: il progresso e la sua critica, Milano, Feltrinelli, 1992). Su questa stanchezza e questo profondo desiderio di pace troviamo alcune righe curiose per mano di Benjamin Constant all'interno di un progetto, in seguito abbandonato, di prefazione all’Adolphe: «In Adolphe ho voluto rappresentare una delle principali malattie morali del nostro secolo, quella fatica, quell’inquietudine, quella mancanza di forze, quella continua analisi che instilla una riserva in ogni sentimento, e così facendo lo fa appassire sul nascere». La malattia morale di Adolphe è palesemente la stessa sindrome liberale.
16 É. Desmons, Mourir pour la patrie?, Paris, puf, 2001. Desmons analizza così in maniera appassionante il duplice movimento che porta dapprima sant'Agostino a trasferire a vantaggio della Città di Dio l’amore che si supponeva il cittadino antico nutrisse per la propria Città e in un secondo tempo le nazioni nascenti della fine del Medioevo a reintegrare quell’ideale agostiniano di martire della fede, a beneficio del loro nuovo patriottismo.
17 B. Constant, De la liberté des Anciens comparse à celle des Modernes (1819), in Oeuvres complètes ,Tubingen, Niemeyer, 1993 (trad. it. a cura di L. Arnaudo, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Macerata, Liberilibri, 2004).
18 Si veda per esempio M.J. Sandel, Liberalism and the Limits of Justìce, Cambridge, Cambridge University Press, 1982 (trad. it. di S. D’Amico, Il liberalismo e i limiti della giustìzia, Milano, Feltrinelli, 1994).
19 Sappiamo che a questo proposito lo Stato liberale ha trovato, da trent’anni a questa parte, un ambiente politico composto da personaggi brillantemente adeguati alla loro funzione.
20 C. Lasch, The Culture ofNarcissìsm: American Life in an Age of Diminishing Expectations, New York, Norton, 1979 (trad. it. di M. Bocconcelli, La cultura del narcisismo: l'individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Milano, Bompiani, 1981); J. Lacan, Kant avec Sade (1966), ed. it. a cura di G. Contri, Kant con Sade, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974; e naturai menteSalò o le 120 giornate di Sodoma, intollerabile capolavoro cinematografico di Pier Paolo Pasolini, girato nel 1975, che mette in scena le condizioni nelle quali l’universo sadiano (che era uno dei principali riferimenti “rivoluzionari” dell’estrema sinistra dell’epoca) può trovare nel fascismo in fase terminale la sua verità più inquietante.
21 Cfr. M. Marzano, Je consens donc je suis... Ethique de l'autonomìe, Paris, puf, 2006.
22 Citato da Marzano, Je consens... cit., p. 145. Si noti che Daniel Boriilo, per effetto della propria liberalissima diffidenza verso tutte «le norme promulgate in comune» (intervista pubblicata su «Marianne» il 10 febbraio 2007), spinge la prudenza positivista sino ad affermare che poiché le differenze tra il “maschile” e il “femminile” si basano dopotutto soltanto su sapienti costruzioni metafìsiche, «il giurista non è tenuto a occuparsene» (il che, come si può notare en passant, condanna sul nascere il principio di parità). Perciò non stupisce che Jack Lang sia accorso ventre a terra per scrivere di proprio pugno la prefazione dell'ultimo opuscolo di questo Milton Friedman del diritto.
23 Insieme all’imprenditore, l'avvocato costituisce l’altra figura emblematica del sistema liberale. Qualunque serie televisiva americana non fa che ricordarcelo.
24 La “neutralità assiologica” rivendicata dal liberalismo provoca talora conseguenze curiose. In effetti nulla può logicamente proibire di utilizzare lo stesso razzismo a titolo pedagogico, se si hanno validi motivi di ritenere che sia uno strumento politico efficace per conseguire la parità dei diritti (secondo il principio di ogni affirmative action). E' così che Houria Bouteldja, portavoce degli Indìgènes de la République, ha potuto tranquillamente dichiarare, nel corso di un programma di Frédéric Taddei andato in onda su France 3 e senza suscitare - superfluo dirlo - la benché minima reazione politica o mediatica, che la prima condizione per «rieducare il resto della società occidentale» consisteva nel considerare tutti «i bianchi» alla stregua di «pezze da piedi» (cfr. «Marianne», 30 giugno 2007). Questa è l’occasione giusta per precisare qui un risvolto lessicale palesemente ignoto a gran parte dei professionisti del mondo politico e mediatico: indigeno non significa ‘selvaggio’, ‘primitivo’ o ‘colonizzato’, bensì ‘originario del luogo’ (in fondo è l’esatto sinonimo di ‘popolazione autoctona’). Il suo contrario è allogeno, che significa invece ‘di origine straniera’. Evidentemente non è necessario aver letto Orwell per indovinare ciò che sempre si nasconde dietro la decisione politica e mediatica di imporre al grande pubblico l’uso di un termine nel senso opposto a quello vero.
25 Su questa distinzione di origine orwelliana si faccia riferimento ad A. Margalit, The Decent Society, Cambridge (Mass.)-London, 1996 (trad. it. a cura di A. Villani, La società decente, Milano, Guerini, 1998).
26 Come è noto, la critica del liberalismo tra i rappresentanti del socialismo delle origini partiva sempre dalla contraddizione tra i principi formali del Diritto e la realtà dei fatti (ecco perché ad esempio distinguevano tra “libertà formale” e “libertà reale”). E' questo approccio filosofico che ha permesso di aprire - al di là dei problemi strettamente politici - lo spazio della questione sociale. Ai giorni nostri, al contrario, l’intellettuale di Sinistra è generalmente colui per il quale la realtà è ormai solo l'eccezione che conferma la regola (preferibilmente “sociologica”).
27 F. Bastiat, Justice et fraternité, in «Journal des Économistes», 15 giugno 1848.
28 Il che, come sappiamo, non era il caso di Constant, Tocqueville e neppure di Adam Smith.
29 Quando per esempio i liberali attuali affermano che tutti gli sforzi per limitare i profitti indecenti dei grandi predatori del mondo degli affari li indurrebbero necessariamente a espatriare o a delocalizzare le loro aziende, danno per scontata la propria indifferenza di principio a ogni senso civico, a ogni moralità e persino a ogni sentimento umano. Come proclama con fierezza Laurence Parisot, «una griglia salariale non ha niente a che vedere con la moralità».
30 La critica di Bastiat è più che fondata se riguarda solamente i rapporti quotidiani che gli individui stabiliscono tra loro (ossia tutto ciò che a che vedere con la «socialità primaria»). Il suo errore (o il suo sofismo) consiste nel trasporre senza discussione alcuna questa verità antropologica di base sul piano molto diverso delle politiche pubbliche e di quella che Alain Caillé definisce «socialità secondaria».
31 In Bastiat questa condizione assume i connotati di una vera e propria ossessione personale. Da questo punto di vista è sicuramente uno dei primi autori che interpreta con tanta convinzione l’eterno ritornello degli attuali liberali: I veri poveri sono i ricchi perché lo Stato li depreda di tutto. Ecco la ragione della sua grande popolarità in tutti i siti Internet affiliati al medef [Mouvement des entreprises de France, l’omologo francese della Confindustria, n.d.t.].
32 Nel suo discorso di Silver Spring del 14 febbraio 2002, George W. Bush ha formulato con la massima chiarezza il presupposto comune a tutti i liberali, di destra o di sinistra: «La crescita è la soluzione, non il problema».
33 Bastiat non pare essersi reso conto del carattere contraddittorio della soluzione da lui proposta. Se, sotto l’effetto della Crescita illimitata, «artefice di posti di lavoro e di ricchezze», gli uomini diventassero man mano onesti, generosi e solidali (il che, si noti, è anche il postulato della sociologia di Stato quando spiega i comportamenti devianti e delinquenziali per mezzo della sola miseria sociale), gli equilibri che condizionano tale Crescita sarebbero rapidamente compromessi, dal momento che si basano per definizione sul perseguimento individuale dell’interesse egoistico. Di conseguenza ci si imbatterebbe subito nel paradosso di Mandeville: un alveare può essere economicamente redditizio solo se lo si suppone popolato da api oneste e virtuose. Lo sviluppo dell’egoismo e dei “vizi privati” resta perciò, in ogni circostanza, il solo sostegno culturale possibile della Crescita economica (La favola delle api, 1714). Per inciso non si mancherà di osservare che la tesi di Bastiat (e dei sociologi dell’estrema sinistra liberale) presuppone altresì che i ricchi siano necessariamente onesti. Essendo per definizione liberi dal bisogno non potrebbero infatti sognarsi di trasgredire le leggi (per esempio frodando il fisco o sfruttando i dipendenti).
34 É. Crucé, Il nuovo Cinea, trad. it. di A.M. Lazzarino Del Grosso, Napoli, Guida, 1979.
35 A questo proposito è il caso di leggere le magnifiche analisi di Pierre Legendre in Dominium mundi. L'Empire du management, Paris, Mille et Une Nuits, 2007.
NOTE
[A]
L’idea che il lavoro e l’industria costituiscano in un certo senso la prosecuzione della guerra con altri mezzi è al centro del positivismo di Auguste Comte, che scrive:
Una società ha due soli obiettivi di azione possibili: l’azione violenta sul resto della specie umana, oconquista, e l’azione sulla natura, per modificarla a vantaggio dell’uomo, o produzione [...]. L’obiettivo militare è tipico del sistema antico, l’obiettivo industriale lo è di quello nuovo(Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, 1822).
Quindi Nietzsche aveva colto perfettamente il legame moderno tra l’ideale pacifista e la guerra contro la natura quando scriveva (Aurora, § 173) che in una società «che adora la sicurezza come divinità suprema» il lavoro costituisce necessariamente «la migliore polizia». Notiamo che a questo proposito Polanyi propone un’analisi molto interessante delle condizioni di comparsa della politica capitalista all’inizio del XIX secolo:
Il fattore completamente nuovo ci sembra essere stato l’emergere di un acuto interesse per la pace [peace interest]. Tradizionalmente un interesse del genere era considerato al di fuori della portata del sistema statuale, la pace con i suoi corollari nei mestieri e nelle arti era collocata tra gli ornamenti della vita. La Chiesa avrebbe potuto pregare per la pace, così come per un ricco raccolto, tuttavia nel campo dell’azione statuale essa avrebbe nondimeno sostenuto l’intervento armato. I governi subordinavano la pace alla sicurezza e alla sovranità, cioè fini che non potevano essere raggiunti se non attraverso il ricorso ai mezzi ultimi. Poche cose venivano considerate più nocive per una comunità dell’esistenza nel suo seno di un interesse organizzato per la pace. Ancora nella seconda metà del XVIII secolo J.J. Rousseau biasimava i commercianti per la loro mancanza di patriottismo poiché erano sospettati di preferire la pace alla libertà. Dopo il 1815 il cambiamento è improvviso e completo. La risacca della rivoluzione francese rafforzò la marea crescente della rivoluzione industriale nel fondare il pacifico commercio come un interesse universale. Metternich proclamava che ciò che il popolo europeo voleva non era la libertà ma la pace, Gentz definiva i patrioti “i nuovi barbari”. Chiesa e trono tendevano alla denazionalizzazione dell’Europa, i loro argomenti trovavano appoggio tanto nella ferocia delle recenti forme di guerra popolare quanto nel valore enormemente accresciuto della pace per le economie nascenti.1
[B]
Uno dei problemi ricorrenti (e mai veramente risolti) della filosofia moderna - da Hobbes a Constant - è quello della difesa della società pacificata in caso di aggressione da parte di nemici esterni. Come contare infatti sulla propensione all’estremo sacrificio da parte di cittadini che non si presume debbano mobilitarsi per la propria comunità, se non nella misura in cui questa li protegge in maniera assoluta contro la morte? La soluzione meno illogica consiste evidentemente nell’affidare la difesa di tale comunità a un esercito di professionisti (senza interrogarsi troppo sulle motivazioni metafisiche di coloro che lo compongono): è questo, come si sa, il senso della riforma varata nel 1997 da Jacques Chirac con il plauso pressoché unanime della sinistra. Se si esclude questa soluzione, restano tre sole possibilità filosofiche: l’apologia delladiserzione (di cui Hobbes riconosce l’assoluta coerenza); la soluzione migratoria, basata sull’idea - mutuata dal calcolo economico - che un cittadino la cui vita sia minacciata debba sempre preferire ai rischi della resistenza l’emigrazione verso un luogo più favorevole (è la tesi dell’“assoluta libertà di circolazione”, che gode dei favori dell’estrema sinistra liberale); e infine la speranza che gli incessanti progressi tecnologici permetteranno alle nazioni moderne di partecipare a guerre senza morti (quanto meno per loro): è l’ipotesi di George Bush e degli strateghi della nato. Questo ventaglio di soluzioni costituisce quella che Eric Desmons definisce argutamente, in omaggio a Céline, la sindrome di Bardamu.
[C]
Nella sua notevole tesi, dal titolo La Balance et l’Horloge: La genèse de la pensée libérale en France au XVIII’ siècle,Paris, Les Editions de la Passion, 1989, Simone Meyssonnier evidenzia il ruolo decisivo svolto dai lavori scientifici di Bernoulli nella costruzione dell’immaginario economico moderno. In linea generale va sottolineato che il modello dell’equilibrio autoregolato (o del «processo senza soggetto», secondo l’espressione di Althusser) si colloca al centro di tutte le costruzioni filosofiche del liberalismo. In un’opera appassionante Céline Lafontaine dimostra così come, l’indomani della seconda guerra mondiale, il programma cibernetico sia stato concepito da Norbert Wiener, con il sostegno delle autorità americane, nella speranza ufficiale di affrancare l’umanità dall’influenza letale delle “ideologie” garantendo un’epoca di pace universale fondata su una modalità di governo “scientifico” delle società (L’Empire cybernétique: des machines à penser à la pensée machine, Paris, Seuil, 2004). L’autrice ricostituisce anche in maniera estremamente convincente il complesso percorso che ha portato - attraverso una politica volontarista di congressi e di think tank — da questo programma cibernetico iniziale alla sua trasformazione instrutturalismo (confermando così sul piano storico tutte le intuizioni la loro tempo avevano avuto Henri Lefebvre e l’Internazionale situazionista). Come un fulmine a ciel sereno, quest’opera getta una luce inedita sul retroscena filosofico reale che negli anni Sessanta ha reso possibile l’emergere della nuova estrema sinistra.
[D]
È noto che in Germania, dove grazie alla sinistra la prostituzione è già diventata un “mestiere come un altro”, alcune operaie licenziate dal Capitale si sono viste logicamente proporre dal locale Centro per l’impiego un posto di lavoro come entrai-neuse nei nuovi Eros Center a titolo di riconversione professionale. Questo modo di risolvere il problema della disoccupazione giovanile, destinato a ulteriori sviluppi, costituisce tuttavia solo uno degli aspetti del problema. Se, come sostengono i borillisti e gli iacubisti, la prostituzione è davvero un mestiere come un altro, e se una delle funzioni della Scuola seguita a consistere nel preparare i giovani alle professioni che svolgeranno da adulti, è logicamente inevitabile che il Ministero dell’istruzione si faccia carico sin dalla scuola media della formazione di alunni che desiderano orientarsi verso questa professione del futuro (istituzione di diplomi, corsi di studio e indirizzi appropriati; definizione dei programmi, nonché della natura teorica e pratica delle prove d’esame destinate a convalidare le competenze acquisite; costituzione infine di un corpo docente e di organismi ispettivi indispensabili per dar vita a questo progetto squisitamente moderno). Attendiamo con impazienza la prefazione di Jack Lang e gli articoli di fondo entusiastici di «Libération».
[E]
Una questione centrale nella filosofia liberale è quella dell’articolazione tra il determinismo (gli individui devono inchinarsi dinanzi alle leggi di mercato) e il libero arbitrio (la felicità è nelle nostre mani). La soluzione proposta da Benjamin Constant si limita in realtà a prendere atto del problema: «Negli individui tutto è morale - scrive - ma nelle masse tutto è fisico. A livello individuale ciascuno è libero, perché individualmente ha a che vedere solo con se stesso, o con forze uguali alle proprie. Ma dal momento in cui entra a far parte di un insieme, cessa di essere libero» (Letteratura del XVIII secolo, citato da Tzvetan Todorov nel suoBenjamin Constant, Paris, Hachette, 1997; trad. it. di A. Merlino, Benjamin Constant: la passione democratica, Roma, Donzelli, 2003). All’interno del paradigma liberale esistono diverse maniere per risolvere questo problema. La più semplice consiste nel sostenere che se gli individui sono effettivamente determinati ad agire per interesse (il che giustifica la necessità del Mercato come sola forma di socializzazione realmente appropriata alla natura umana), ognuno resta tuttaviaresponsabile dell’utilizzo personale che fa liberamente della propria ragione, vale a dire della propria facoltà di comprenderedove si situa il suo vero interesse. Per questo motivo, in quel gioco del Monopoliche è la concorrenza economica liberale, gli individui sono finalmente autorizzati ad attribuirsi tutti i meriti del loro successo (è il fondamento della mitologia del self-made-man e di tutte le success stories).Viceversa, non hanno che da prendersela con se stessi per tutte le loro disgrazie e i loro fallimenti. Questa soluzione rappresenta una maniera poco dispendiosa di riciclare, semplificandola notevolmente, l’idea spinoziana (e stoica) secondo la quale la vera libertà sta nell' intelligenza della necessità: quella che abitualmente privilegiano i telepredicatori del Capitale nella loro propaganda quotidiana.
1 K. Polanyi, The Great Transformation,New York, Rinehart and Co., 1944, trad. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974, pp. 9-10.
QUESTIONI DI METODO
Come molti lettori avranno probabilmente notato, la spiegazione della genesi del liberalismo proposta nel capitolo precedente non rientra nel quadro del “materialismo storico” [A], Con questo mi riferisco alla convinzione, diffusissima ai nostri giorni, secondo la quale la chiave che determinerebbe il senso definitivo di tutti i processi storici sarebbe da ricercarsi, in ultima analisi, nel movimento necessario dell’Economia, a sua volta condizionato dalla tendenza ineluttabile della Tecnica a progredire secondo le proprie leggi («Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale - scriveva Marx - e il mulino a vapore la società col capitalista industriale» [B]). Se si adotta quest’ottica, quelle che Marx chiama «le formule liberali» diventano necessariamente una semplice «espressione idealistica degli interessi reali della borghesia»1. E l’ascesa storica di quest’ultima deve a sua volta essere intesa come un’espansione irresistibile determinata dallo sviluppo continuo delle «forze produttive», destinato inesorabilmente a frantumare, «da un certo punto in poi», i rapporti di proprietà feudali che ne costituivano provvisoriamente la copertura politica.
Dietro queste apparenze radicali, questo modo “materialista” di considerare le cose non rappresenta tuttavia nient altro se non una sistematizzazione rigorosa dei postulati essenziali dell’immaginario moderno (del resto già in parte realizzata da Adam Smith2). E non è certo un caso che i vari discorsi che celebrano attualmente la globalizzazione del capitalismo (cioè il processo, ritenuto ineluttabile, che abolisce tutte le frontiere immaginabili a vantaggio di un mercato mondiale unificato) si basino tutti sull’idea che il futuro dell’umanità sia leggibile solo ed esclusivamente a partire dai vincoli della crescita economica, che a sua volta dipende dal progresso incessante delle “nuove tecnologie”3.
Dopo le opere fondanti di Karl Polanyi è oggi diventato difficile ignorare che questa rappresentazione dell’Economia come di una sfera separata e autonoma dell’esistenza sociale costituisce una costruzione storica recentissima, la cui proiezione retrospettiva sulle società del passato definisce precisamente l’illusione moderna per eccellenza [C]. Di fatto, se l’esistenza di attività mercantili estremamente complesse e sviluppate è attestata ben prima della comparsa della modernità occidentale, è altrettanto chiaro che tali attività non sono mai riuscite a dare origine, in virtù del loro esclusivo dinamismo interno, al minimo sistema capitalista. Questo perché nelle società “premoderne” tali attività mercantili si trovano sempre (per dirla con Polanyi) «embedded» [‘inserite’, ‘incorporate’] in tutta una serie di condizioni indissolubilmente politiche, religiose e culturali, che ne organizzano al tempo stesso i limiti e il senso [D]. Certo, una volta che il sistema capitalista si è storicamente costituito, cioè una volta che è venuto a dotarsi dei propri presupposti pratici (per esempio la dissoluzione generalizzata dei vincoli dell’uomo con la terra e con gli strumenti di lavoro), gli è stato possibile svilupparsi sulla base delle proprie leggi. Resta tuttavia irrisolto il problema di spiegare attraverso quale concorso di circostanze, in gran parte imprevedibile, questi vari presupposti pratici abbiano potuto trovarsi riuniti in un momento preciso della storia europea. In altri termini questo significa aggiornare la configurazione storica originale che ha reso possibile l’emergere di un mondo effettivamente dominato adessodall’immaginario della crescita economica (e quindi dall’insieme dei fenomeni che costituiscono la forma di esistenza materiale di tale immaginario), senza peraltro trasformare, sotto l’effetto di un’illusione retrospettiva, questo dato essenzialmente moderno in una condizione atemporale e astratta dell evoluzione umana, esercitando ovunque i suoi effetti invariabili sin dalle prime tribù di cacciatori dell’epoca paleolitica4.
Nella misura in cui uno dei dispositivi fondamentali di tale configurazione storica contingente è l’ideale della Scienza,disponiamo qui anche dì una base esplicativa decisiva per rendere conto del ruolo, singolare a tutti gli effetti, che l'ideologia [E] non ha smesso di esercitare, dal XVII secolo, nella definizione e nell’attuazione delle politiche occidentali di modernizzazione. Come nota in proposito Pierre Manent, la politica moderna (diversamente da quanto si verificava nelle civiltà precedenti) «è stata pensata e vo-luta prima di essere attuata», cosicché «si fa strada il sospetto che nella politica liberale vi sia qualcosa di essenzialmente deliberato e sperimentale, che essa presupponga un progetto consapevole e costruito»5. Se nonostante questo ci si ostinasse a considerare questa forma interpretativa come “idealista”, in virtù del ruolo importante che essa affida alle logiche intellettuali nell’istituzione del mondo moderno, sarebbe sufficiente riflettere un momento sullo statuto di queste strane società “comuniste”, la cui influenza letale si è conservata per decenni in una parte considerevole del globo. Ora che questa terribile parentesi è sostanzialmente chiusa, sarebbe certamente assurdo vedervi un effetto storicamente ineluttabile dello sviluppo delle forze produttive, che dalla Russia a Cuba ha dato vita alle proprie “sovrastrutture” politiche e poliziesche adeguate, e consentito all’umanità di spiccare un grande salto in avanti verso una forma di organizzazione “superiore”. In realtà, come Orwell non si stancava di sottolineare, è evidente che la comparsa e lo sviluppo concreto di questi diversi totalitarismi (indipendentemente d’altronde dal ruolo indiscutibile ascrivibile alle condizioni locali e ai fattori “materiali” in senso stretto) restano del tutto incomprensibili fintanto che se ci si rifiuta di riconoscere un ruolo centrale al progetto ideologico tipicamente moderno, di cui si fanno portatori determinati settori dell’ intellighenzia contemporanea, diorganizzare scientificamente l’umanità. Va da sé che questa osservazione si applica anche all’ideologia liberale, di cui le élite politiche occidentali (sotto forme certo molto diverse, ma pur sempre dipendenti dallo stesso immaginario) hanno iniziato ormai da più di due secoli a materializzare i dogmi su scala mondiale.
1 K. Marx, F. Engels, Die deutsche Ideologie: Krìtik der neuesten deutschen Philosophie in ìhren Repràsentanten, Feuerbach, B. Bauer und Stirner, und des deutschen Sozialismus in seinen Verschiedenen Phropheten (1845-1846), trad. it. di F. Codino,L'ideologia tedesca. Critica della più recentefilosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 181.
2 Nel suo celebre volumetto Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, pubblicato nel 1913, Lenin non esita d’altronde a collocare Marx nella linea di continuità intellettuale di Smith e di Ricardo. Vero è che quel testo non fa che plagiare le tesi di Kautsky, il quale, in una conferenza pronunciata nel 1907 (Le tre fonti del marxismo) faceva già di Marx l’erede diretto della “scienza economica inglese”, vale a dire del liberalismo originale.
3 Ai nostri giorni è nell’opera di Toni Negri che il recupero definitivo delle affermazioni marxiste attraverso le loro implicazioni liberali trova il proprio compimento più chiaro e meccanico. La conclusione inevitabile è nota: bisogna sostenere ogni passo avanti del capitalismo (per esempio in occasione del referendum sulla Costituzione europea), perché si tratta della strada più corta per giungere al comuniSmo mondiale. In questa curiosa costruzione ideologica sono evidenti i tipici danni collaterali di una formazione filosofica althusseriana (e deleuziana).
4 Al di là dell’opera di Polanyi è il caso di ricordare, tra le critiche più feconde del “materialismo storico" liberale, i lavori di Pierre Clastres, Marshall Sahlins e Cornelius Castoriadis. Senza naturalmente dimenticare il lavoro monumentale che svolgono ormai da oltre un quarto di secolo i ricercatori del mauss [Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali], né i numerosi collettivi che oggi riflettono sulla decrescita, o ancora gli eredi dell’Internazionale situazionista, come Jaime Semprun e i collaboratori della rivista «L’Encyclopédie des nuisances».
5 Manent, Histoire intellectuelle du libéralisme, cit.
NOTE
[A]
Come è noto, Marx non ha mai impiegato l’espressione “materialismo storico” (né del resto “materialismo dialettico”, coniata nel 1886 da Joseph Dietzgen). Sappiamo anche che nell’opera di Marx sono presenti numerosi passi in cui l’autore è indotto a sfumare notevolmente la propria “teoria degli stadi” (il più noto è la bozza di risposta redatta l’8 marzo 1881, da indirizzare a Vera Zasulic, una delle figure più interessanti del populismo russo). Resta il fatto che Marx, contrariamente a numerosi rappresentanti del socialismo delle origini, non è mai arrivato veramente alla rottura con i principali aspetti del mito moderno della Crescita. Sotto questo aspetto l'“affaire Podolinskij” risulta molto significativo. Questo socialista ucraino (1850-1891) è infatti uno dei primi ricercatori a sottolineare - basandosi tra l’altro sul secondo principio della termodinamica - i limiti ecologici contro i quali è immancabilmente destinato a scontrarsi ogni progetto di crescita economica illimitata (da questo punto di vista è innegabilmente uno dei principali precursori di Nicholas Georgescu-Roegen). Nel 1882 Podolinskij tentò quindi di attirare l’attenzione di Marx ed Engels su questo problema effettivamente cruciale per il futuro del socialismo e più in generale per ogni società moderna. Ma poiché Engels si rivelò incapace di cogliere nelle sue opere null' altro se non una nuova variante delle idee di Malthus (una delle sue bestie nere), lo scambio epistolare è giunto rapidamente a conclusione. L’ultimo libro di Serge Latouche, Le pari de la décroissance,Paris, Fayard, 2006 (trad. it. di M. Schianchi, La scommessa della decrescita, Milano, Feltrinelli, 2007), contiene una breve allusione a questo appuntamento mancato tra Marx e l’ecologia.
[B]
Si noterà che i due esempi riportati da Marx in Miseria della filosofia sono particolarmente infelici: il mulino ad acqua (evidente perfezionamento del mulino a braccia) fu infatti inventato in Asia Minore nel I secolo a.C., e già a partire dal IV secolo il complesso romano di Barbegai, vicino ad Arles, era in grado di servirsi di questa forza idraulica per macinare il grano destinato all’alimentazione di ottantamila persone. Quanto alla macchina a vapore, è noto che è stata concepita e messa a punto da Erone di Alessandria con il nome di eolipila intorno all’inizio del II secolo. Eppure queste due scoperte non hanno mai avviato le società antiche lungo la strada del feudalesimo o del capitalismo. Il che conferma, contrariamente alla tesi sostenuta da Marx e dai liberali, che un’innovazione tecnica - quand’anche si tratti di Internet o delle manipolazioni genetiche - non ha mai la capacità di mettere in moto da sola effetti storici determinanti (economici o di altro genere), a meno che non sia già in atto un certo numero di condizioni culturali e politiche ben precise. Perciò l’idea di “determinismo tecnologico” ha un qualche senso solo all’interno di società che hanno scelto la modalità di sviluppo capitalista, e sempre che gli individui si rassegnino in massa a interiorizzare le conseguenze di tale scelta. A questo proposito è utile consultare il recente studio di Aldo Schiavone {La storia spezzata: Roma antica e l’Occidente moderno, Roma-Bari, Laterza, 1996), che stabilisce con grande chiarezza che a partire dalla fine del II secolo le principali condizioni tecnologiche del decollo capitalista erano già tutte presenti all’interno dell’impero romano. Naturalmente mancavano però le condizioni politiche e culturali.
[C]
È degno di nota il fatto che Engels, nel tentativo di conservare l’illusione di una estrema determinazione da parte dell’economia, persino nelle comunità “primitive”, finisca per trarsi d’impaccio ricorrendo a un gioco di parole che lascia alquanto a desiderare. Le strutture elementari della parentela, di cui è obbligato a constatare la funzione decisiva in questo tipo di società, si vedono così trasformate in «rapporti economici di produzione», che determinano «sovrastrutture» culturali corrispondenti, con la scusa che dopotutto costituiscono solo dei rapporti dì riproduzione (cfr.L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884). Gli effetti di tale illusione retrospettiva sono naturalmente inesauribili. Ecco che Hervé Delfavard è riuscito a dimostrare che le traduzioni moderne della Politica di Aristotele tendono sistematicamente a economicizzare i concetti utilizzati dal filosofo greco (la nozione fondamentale dimetàdosis, per esempio, viene sempre resa con il termine ‘baratto’, mentre in Aristotele essa acquisisce il proprio significato solo in riferimento a un’antropologia del dono). Cfr. Essai sur le marchi, Paris, Syros, 1995.
[D]
Sull’importanza delle attività mercantili nell’antichità rimando all’opera fondamentale di Jean Baechler, Le Capitalisme, Paris, Gallimard, 1971 (trad. it. di M. Pizzorno, Le origini del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 1977). Per limitarsi a riprendere un solo esempio, Baechler ricorda che nel IV secolo a.C. a Nippur e a Babilonia ci sono già delle “aziende” che «ricevono denaro in deposito, emettono assegni, offrono prestiti a interesse e, soprattutto, partecipano direttamente al movimento economico investendo in varie imprese agricole e industriali» (Baechler, Le origini del capitalismo, cit., p. 46). Tuttavia è evidente che il sistema capitalista non è comparso storicamente in Mesopotamia.
Analogamente Jéróme Baschet, nella sua tesi sulla civiltà medievale, evidenzia bene il ruolo e la portata delle attività mercantili anche all’interno della cornice feudale. Aggiunge però che queste inizieranno ad assumere il senso strettamente economico che possiedono i nostri giorni solo alla fine del XVIII secolo, «quando l’economia politica proclama l’instaurazione del libero mercato, che si suppone autoregolato e tendenzialmente omogeneo» (J. Baschet, La civilisation féodale de l’an mil à la colonisation de l’Amérique, Paris, Aubier, 2004; trad. it. La civiltàfeudale. Sei secoli di storia, dall'anno Mille alla colonizzazione dell’America, Roma, Newton & Compton, 2005).
[E]
Naturalmente nulla vieta di servirsi del concetto di ideologia per riferirsi alle idee politiche di Platone o a quelle dei letterati confuciani. Ma a partire dal momento in cui il modello di scienza sperimentale della natura è storicamente costituito, è necessario prendere atto della comparsa di un tipo di discorso completamente nuovo: quello che pretende di annunciare la verità sul buon “governo” degli uomini,mimando il metodo delle scienze naturali e le modalità dell’azione tecnica che essa consente di convalidare (a prescindere dal fatto che tale discorso assuma la forma di una “scienza economica”, di una biologia “razziale”, di un “socialismo scientifico” o di una cibernetica). Infatti è sempre nel nome di un sapere presentato come “scientifico” che le ideologie moderne si autorizzano a esercitare i loro effetti. Propongo quindi di riservare, nei limiti del possibile, il termine ideologia a questo discorso mimetico, sconosciuto alle società precedenti, e il cui garante umano è la figura ormai proliferante dell’“esperto”.
“SOCIETÀ APERTA” E POLITICA DELLA NECESSITÀ
Ricondotto ai suoi principi essenziali, il liberalismo si presenta quindi come il progetto di una società minima di cui il Diritto definirebbe la forma e l’Economia il contenuto [A], Tuttavia questa convinzione, secondo la quale una comunità umana potrebbe funzionare in maniera coerente ed efficace senza poggiare minimamente (se non dal punto di vista retorico) su valori morali e culturali condivisi, è talmente strana - rispetto a quanto ci insegnano la storia e l’antropologia - che i difensori di tale dottrina hanno in genere previsto una posizione di ripiego più presentabile. Esiste perciò una clausola annessa che invita a vedere nello “spirito di tolleranza” e nel “rifiuto dell’altrui rifiuto” una sorta di etica di sostituzione, che si dovrebbe considerare alla stregua di una condizione del sistema liberale1, o quanto meno di una conseguenza felice del suo funzionamento quotidiano. E' proprio questo in genere il significato delle apologie moderne della “società aperta” (o, come si deve dire oggigiorno in Francia, métissée, ‘meticcia’), nella quale molti hanno finito per trovare il solo segno certo di un progresso morale dell’umanità, e di conseguenza l’unico riferimento accettabile, per uno spirito moderno, alla parola “morale”, che tanto intimorisce.
Tutto sta evidentemente nel sapere a che cosa si riferisce un concetto tanto ambiguo come quello della tolleranza. Se si tratta di designare la capacità, storicamente acquisita, di estendere alla totalità degli esseri umani quegli atteggiamenti di rispetto, benevolenza o addirittura empatia che ogni comunità comincia in linea di principio con il riservare ai propri membri più prossimi2, non si stenterà a riconoscere che lo spirito di tolleranza e d’apertura nei confronti degli altri costituisce il grado più elevato di ogni perfezionamento morale; o, se si preferisce, di quell’opera incessante che gli uomini debbono compiere su se stessi per mantenere, e per quanto possibile sviluppare, le condizioni della loro umanità. E' altrettanto indiscutibile che quest’opera di universalizzazione delle virtù umane fondamentali (vale a dire delle strutture elementari della reciprocità) ha conosciuto alcuni dei suoi più notevoli progressi nell’Europa del Rinascimento, in particolare a partire dalla scoperta dell’America3. Tuttavia sembra difficile ricondurre i principi fondatori della soluzione moderna (e quindi del liberalismo) alla semplice continuità filosofica di quell’Umanesimo della Rinascimento e dei suoi riferimenti costitutivi alla cultura antica.
La maggioranza dei dispositivi di pacificazione effettiva dell’Europa moderna trova infatti il suo vero punto di partenza nel XVI secolo, nell’azione degli intellettuali e degli uomini di potere (o delle donne, come Caterina de’ Medici) che sono stati immediatamente raggruppati sotto il nome di Politici.Questa definizione fu generalmente riservata a chi, a differenza degli umanisti classici, ritenesse che il solo modo per ottenere la fine delle guerre di religione e garantire un nuovo e durevole equilibrio tra le potenze europee fosse attenersi alle rigide regole del “realismo politico”. Tale posizione, che costituisce il vero e proprio punto di partenza della modernità, aveva naturalmente implicazioni molto radicali. Presupponeva per esempio che tutte le parti in causa accettassero ormai diastrarsi4 dalle loro certezze personali sull’essenza della vera religione o su quella della “vita retta”. Quando per esempio i sostenitori della “soluzione politica” facevano pressione sui vari poteri affinché tollerassero la pratica del culto riformato, non era certo per i motivi di tipo ecumenico e umanistico (che si sarebbero potuti facilmente riscontrare per esempio in un Pico della Mirandola). Se questa “soluzione politica” appariva loro come l’ultima possibilità di salvezza, è invece perché Yesperienza aveva sufficientemente dimostrato che ogni altro modo di procedere avrebbe riprodotto all’infinito quelle guerre civili spossanti e le “miserie del tempo” che ne derivavano. L’esigenza di un compromesso storico generalizzato non era quindi assolutamente una risoluzione trionfale dei problemi; quella cioè che sarebbe stata conforme alla grandezza dell’uomo, alla sua dignità e ai progressi della sua Ragione. Nello spirito dei Politici si trattava soltanto di una strategia del male minore, imposta dalla natura delle cose, e alla quale ciascuno da allora in poi avrebbe dovuto imparare a sottomettersi, a causa della condizione miserevole dell’uomo («incapace di vero e di bene», secondo le parole di Pascal) e del carattere distruttivo delle sue passioni5.
E' solo nel quadro di quest’antropologia disillusa che è possibile comprendere il ricorso costante, a partire dal XVI secolo, all’idea di metafisica della “necessità”, idea destinata a divenire ben presto la chiave di volta filosofica di tutte le costruzioni politiche moderne, compresa la forma, attualmente dominante, delle idee di “Crescita” e di “Progresso” [B]. Come spiega Michel de l’Hospital, il più noto rappresentante di questa corrente storica, se il compromesso e la transazione sono le sole basi possibili di una politica realista, è perché «bisogna piegarsi alla necessitàdavanti alla quale nessun altra ragioneprevale». Il ricorso al concetto di necessità presuppone quindi che esistano situazioni storiche nelle quali gli uomini sono giunti a un tale livello di violenza mimetica che la questione della loro sopravvivenza collettiva non può più dipendere dal loro libero arbitrio, e quindi da un qualsiasi appello alla loro coscienza morale o religiosa. L’unico problema da risolvere in questo approccio pessimistico non può che essere quello dei mezzi pratici perneutralizzare l’azione delle varie morali, filosofie e religioni, alle quali gli individui avevano attinto finora le loro varie ragioni per vivere, ma anche soprattutto per affrontare la morte [C]. Salta immediatamente agli occhi il carattere paradossale di questa politica della necessità, che è diventata a poco a poco il principio di tutte le disposizioni istituzionali della modernità, e in particolare di quelle liberali. Essa infatti non giunge a presentarsi come la forma compiuta della saggezza politica (quella che il suo “realismo” proteggerebbe dalle fantasticherie utopiche dell’Umanesimo) se non nel momento stesso in cui sceglie di abolirsi in una gestione puramente tecnica della “necessità”. Non vi è dunque di che meravigliarsi se il vocabolario politico e diplomatico dell’epoca, come hanno fatto notare numerosi commentatori, viene a poco a poco invaso da «parole come bilanciamento delle forze, equilibrio e contrappeso», cosicché le metafore tecniche vengono a sostituirsi alle retoriche del Bene e della Salvezza6. Questa rivoluzione delle parole non fa che prendere atto della rivoluzione intellettuale che stava contemporaneamente trasformando l’antica filosofia politica (quella che si interrogava ancora sulla natura del migliore governo, sulla Città ideale o sulla politica derivata dalle Sacre Scritture) nell’arte di gestire in maniera puramente strumentale l’insieme dei problemi in cui ci si imbatteva. Non vi è dubbio che questo nuovo lessico (che l’ideale della Scienza permetterà presto di affinare) costituisca una delle fonti ideologiche più immediate della risposta liberale al problema politico moderno, sia nella sua versione direttamente politica (il riflesso sui meccanismi del Diritto e dell’equilibrio dei poteri), sia nella sua versione economica (la riflessione sui meccanismi del Mercato autoregolato).
La bella leggenda delle fonti umanistiche dell’Occidente non può quindi far dimenticare la vera origine del compromesso moderno. Quest’ultimo non si è mai basato sulla politica del riconoscimento reciproco. Alcune delle parti in causa non pensavano davvero di vedere nel nemico che accettava di deporre le armi un essere interessante di per se stesso. Si trattava soltanto di accettarne l’esistenza all’interno del quadro puramente tecnico di un modus vivendi stabilito, per motivi puramente pratici, sulla messa tra parentesi delle varie ideologie (o, se vogliamo, sullaprivatizzazione delle convinzioni morali e religiose). Sarebbe quindi alquanto stupefacente che la magnifica “tolleranza” sulla quale si seguita a supporre che si basi la “società aperta” (e che procura a buon mercato la coscienza a posto caratteristica dei suoi privilegiati)corrispondesse davvero a quella che un Erasmo o un Montaigne intendevano ancora con quel termine. Nulla consente di apparentarla al lavoro lungo e complesso che ciascuno deve eseguire su se stesso per disfarsi del proprio egoismo e imparare a guardare il mondo con gli occhi dell’altro. Di fatto quasi sempre essa designa solo un modalità minima di coesistenza con i pro-pri contemporanei: quella che prevale, ci dice Adam Ferguson, «una volta che sono stati recisi i vincoli affettivi». Ancora una volta è Milton Friedman a descrivere con maggior esattezza (o con maggior cinismo) la vera natura di quella tolleranza liberale, quando celebra nel Mercato il meccanismo magico che consente di unire quotidianamente «milioni di individui senza che siano costretti ad amarsi e neppure a parlarsi». E sfortunatamente vi è ogni motivo di temere che quello che lo Spettacolo ufficiale ci invita continuamente ad applaudire oggi dietro le spoglie seducenti del métissage altro non sia che il secondo nome di quella semplice unificazione giuridica e mercantile dell’umanità. Un mondo completamente uniformato, in cui l’Altro è inteso molto più come puro oggetto di consumo turistico e di varie strumentalizzazioni che come possibile partner di un incontro sempre singolare7.
1 Una delle prime formulazioni di quest’idea si deve a Spinoza, che a proposito di Amsterdam scrive: «In questo Stato assai fiorente e in questa città notevolissima tutti gli uomini, di qualunque nazione o setta essi siano, vivono in grande concordia. E peraffidare i loro beni a qualcuno si preoccupano soltanto di sapere se è ricco o povero, e se sia solito agire con lealtà o con inganno. Per il resto non si curano affatto né di religione né di setta, poiché questo non giova in nulla a vincere o a perdere una causa davanti al giudice» (Trattato teologico-politico, in Opere, a cura di F. Mignini, Milano, Mondadori, 2007, cap. xx, p. 733). Notiamo en passant che l'antirazzismo mercantile non garantisce quindi assolutamente che la nuova tolleranza vada applicata ai poveri.
2 Lévi-Strauss osserva che «per vaste frazioni della specie umana e per decine di millenni [...] l’umanità cessa ai confini della tribù, del gruppo linguistico, talvolta perfino del villaggio»: Race et histoire (1952), trad. it. di P. Caruso, Razza e storia. Razza e cultura, Torino, Einaudi, 2002, cap. III “L’etnocentrismo”, p. 11. Per completare questa osservazione bisogna tuttavia aggiungere che da una parte le frontiere della tribù non proteggono automaticamente dal venir meno alla reciprocità (è noto il ruolo svolto dal fratricida nei miti religiosi), e dall’altra che le leggi dell'ospìtalità (e la figura positiva dello Straniero che presuppongono) costituiscono altresì un elemento centrale del funzionamento di quelle società tradizionali: elemento che Lévi-Strauss tende talvolta a sottovalutare.
3 Senza neppure ricordare la tradizione cristiana o lo stoicismo antico, non si può trascurare il ruolo svolto dalla cultura cinese in quest’opera di universaliz-zazione, anche attraverso il confucianesimo.
4 Quest’opera di astrazione è una delle principali origini pratiche del movimento storico che ha reso possibile, nel bene e nel male, l’individualizzazione moderna dei soggetti. Come sottolinea Pierre Manent, «una delle “idee” principali del liberalismo, come si sa, è quella dell’“individuo”: non dell’individuo in quanto essere in carne e ossa, non come Pierre diverso da Paul, ma come essere che, in quanto uomo, è naturalmente titolare di “diritti” dei quali si può stilare un elenco, diritti che gli sono conferiti indipendentemente dalla sua funzione o posto nella società e che lo rendono uguale a ogni altro uomo» (Histoire intellectuelle du libéralisme, cit., prefazione). E' noto viceversa il ruolo che la critica di questo individuo astratto ha svolto in tutti i casi in cui è stata messa in discussione la modernità.
5 Per difendere davanti al papa l’editto del gennaio 1562, l’ambasciatore di Francia dirà che quella soluzione «non è quella che avrebbe auspicato il re, ma quella che giudicava fattibile». Da buon umanista, La Boétie risponderà invece, nella sua Relazione sull'editto di gennaio, che «è dovere del re non solo mantenere i sudditi in pace e in armonia ma anche, e soprattutto, assicurare che procedano sulla retta via e non smarriscano la strada della salvezza». Su questo punto rimando all’articolo di Sergio Cardoso,La Crise de la raison politique dans la France des guerres de religion, in Les Aventures de la raison politique, a cura di A. Novaes, Paris, Métailié, 2006.
6 Livet, Guerre et paix... cit., p. 78. Le politiche di checks and balances (che hanno la pretesa di risolvere tutti i problemi mettendo in atto meccanismi e «processi senza soggetti») non riguardano solo la questione della pace civile. Sono anche alla base di tutte le riflessioni dell’epoca sui rapporti internazionali: da questo punto di vista i dibattiti che hanno portato al trattato di Westfalia segnano l’ingresso definitivo dell’Europa nell’era moderna. Sappiamo d’altronde che il concetto di “interesse”, pietra miliare del dispositivo economico liberale, è stato inizialmente elaborato - da Francesco Guicciardini a Enrico II di Rohan - nel quadro di considerazioni sulla Ragion di Stato e sull’equilibrio delle potenze europee. Si leggano in proposito A. O. Hirschman, The Passions and the Interest: Political Arguments for Capitalism Before Its Triumph, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1977 (trad. it. di S. Gorresio, Le passioni egli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano, Feltrinelli, 1990) ePolitiques de l’intérêt, a cura di C. Lazzeri e D. Reynié, Besançon, Presses universitaires franc-comtoises, 1998.
7 Su quest’idea che l’incontro, diversissimo in questo dal semplice scambio, costituisca una strada per accedere all’universalepurgato da ogni eurocentrismo, si legga l’appassionante saggio di Kenta Ohji e Michail Xifaras, Eprouver l’universel, essai de géophilosophie, Paris, Kimé, 1999. Oltre al principale interesse filosofico di una critica dei presupposti dell’universalismo occidentale alla luce della visione giapponese della questione, si apprezzerà in modo particolare la critica delle teorie liberali di Habermas, che gli autori dimostrano essere ancora fortemente dipendenti dal paradigma dello scambio. Quanto ai fondamenti psicologici reali dell’“antirazzismo” perennemente ostentato dalle star dello showbìz o dai professionisti dei media, Rousseau aveva già detto tutto nell’'Emile: «Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano nei loro libri i doveri che trascurano di svolgere nel loro ambiente. Quel tale filosofo ama i tartari per non essere costretto ad amare i suoi vicini», scriveva. Chiunque abbia frequentato da vicino questo tipo di persone non può nutrire alcun dubbio in proposito.
NOTE
[A]
Nella rivista «Figaro magazine» del 6 gennaio 2007 Alain-Gérard Slama scrive che «i due valori cardinali sui quali si fonda la democrazia sono la libertà e la crescita». E una definizione perfetta del liberalismo. A parte il fatto, naturalmente, che l’autore si premura di chiamare “democrazia” quello che in realtà non è altro che il sistema liberale, per piegarsi alle necessità definite dalle “officine semantiche” moderne (è noto che negli Stati Uniti si chiamano in questo modo gli enti incaricati di imporre all’opinione pubblica, attraverso il controllo dei media, l’impiego delle parole più conforme alle necessità delle classi dirigenti). Questo gioco di prestigio, divenuto ormai abituale, autorizza naturalmente tutta una serie di utilissime digressioni. Se infatti la parola “democrazia” dev’essere attualmente riservata alla sola definizione del liberalismo, ci vuole per forza un’altra parola per indicare quel “governo del Popolo, attraverso il Popolo e per il Popolo” in cui fino a poco tempo fa identificavamo tutti l’essenza stessa della democrazia. Questa nuova parola, scelta dalle officine semantiche, sarà “populismo”. Basterà allora assimilare il populismo (in barba a ogni conoscenza storica elementare) (a) a una variante perversa del fascismo classico, perché tutti gli effetti desiderati si susseguano con facilità sconcertante. Se per esempio vi viene in mente che si dovrebbe consultare il Popolo su questo o quel problema che ne compromette il destino, o se ritenete che i redditi dei grandi predatori del mondo degli affari siano veramente indecenti, una vocina dentro di voi dovrà avvertirvi immediatamente che state per scivolare nel più bieco “populismo”, e quindi che la “Bestia immonda” vi si sta approssimando a grandi passi. Da “cittadini" beneducati (dall’industria mediatica), saprete subito che cosa vi resta da pensare e da fare. E' evidente che da qui derivano i vari Charles Bering e Philippe Torreton.
(a) Engels considerava i populisti russi come «i soli che finora abbiano fatto qualche cosa in Russia» (lettera a Vera Zasulic del 23 aprile 1885); e sappiamo che Christopher Lasch giudicava la tradizione populista americana, da William Cobbett a Martin Luther King, come la componente più preziosa dello spirito democratico radicale. Per misurare la portata della disinformazione imposta dalle officine semantiche e dai loro “politologi” basta immaginare quello che accadrebbe se da un giorno all’altro i musei nazionali decidessero di riservare il termine “impressionismo” soltanto alla pittura sovietica di epoca staliniana, e cominciassero a esporre sotto questo nome solamente i quadri di Aleksandr Gerasimov e di Boris Kustodiev. Una cosa è certa: i nostri brillanti professionisti dei media non si accorgerebbero di nulla.
[B]
Quest’idea di “necessità”, nel nome della quale i liberali continuano a giustificare le loro scelte politiche fondamentali (basti pensare al discorso contemporaneo sulla “necessità di adeguarsi alla realtà del mondo moderno”), si inserisce in verità all’interno di una configurazione storica più complessa, che non consente di ridurla esclusivamente alle sue origini politiche e diplomatiche. Nella sua forma sviluppata essa costituisce infatti il punto di cristallizzazione di numerose tradizioni intellettuali, che l’avevano elaborata in maniera relativamente indipendente e generalmente senza rapporto immediatocon il problema politico della pace. E' così possibile distinguere tre correnti principali, le cui combinazioni ulteriori daranno al liberalismo occidentale la sua colorazione specifica. In primo luogo una critica religiosa, nata dalla crisi delle indulgenze, che spingerà a poco a poco Lutero a elaborare l’immagine di una creatura umana la cui salvezza non dipende dalle opere («Il libero arbitrio è una finzione delle cose o una parola senza oggetto. Poiché nessuno ha il diritto di pensare o di fare alcunché di bene o di male, ma tutto obbedisce a una necessità assoluta», Assertio omnium articulorum,1520). Poi un movimento filosofico che, per sottrarre gli uomini all’influenza colpevolizzante delle Chiese costituite, si sforza anch’esso, seguendo l’esempio di Spinoza, di negare il libero arbitrio e di inserire la loro esistenza in un’economia della necessità naturale in cui i concetti di Bene e Male sarebbero privi di senso. Infine naturalmente la comparsa della scienza sperimentale che, formando il concetto di “determinismo”, renderà immediatamente possibile la sua applicazione alla sfera delle questioni umane. E' là dove convergono queste tre grandi metafisiche della necessità che i teorici liberali attingeranno (coscientemente o meno) gran parte degli strumenti necessari alla loro impresa filosofica. Ciò è particolarmente evidente nel caso della sociologia dominante (da Pierre Bourdieu a Laurent Mucchielli), il cui immaginario è chiaramente strutturato da un duplice fascino per l'ideale della Scienza e uno spinozismo semplificato, e da un’influenza sotterranea delle sensibilità luteriane e gianseniste (si pensi per esempio al modo in cui Bourdieu critica il concetto di “merito” nelle sue analisi della Scuola) (a). Di qui deriva naturalmente la facilità con la quale le conclusioni di tale sociologia (per esempio sulla natura della Scuola o sulle cause presunte della delinquenza) sono sempre riuscite a farsi accettare da gran parte del mondo mediatico e a farsi efficacemente riciclare a vantaggio del Capitale e della sua eterna modernizzazione.
(a) A rischio di scioccare dirò che più conosco le determinazioni di cui il mio interlocutore è il prodotto, più lo capisco. Più raccolgo informazioni sulla genealogia, la posizione, la traiettoria di un individuo, più le sue scelte, le sue preferenze, le sue affermazioni divengono evidenti. Sembra spinoziano: quando si riesce a cogliere la persona con la quale si ha a che fare come necessaria, è quasi un’esperienza estetica, diventa bello (P. Bourdieu, «Libération», 11 febbraio 1993).
[C]
Ci si potrebbe divertire a descrivere alla luce delle teorie di René Girard la catena di decisioni storiche che hanno portato a istituire la società moderna. Si sosterrebbe così l’idea che la Modernità è la soluzione religiosa che l’Europa è giunta a mettere in atto per contenere la straordinaria crisi mimetica delle società del XVI secolo («la più grande crisi conosciuta dalla storia della nazione», scrive Sergio Cardoso). Il sacrificio fondatore che ha permesso agli individui (divenuti per ciò stesso “moderni”) di ristabilire la pace civile è evidentemente quello della coscienza morale (indipendentemente dal fatto che il suo rivestimento culturale fosse religioso o di altro tipo). Appare allora del tutto logico che il Mercato autoregolato e il Diritto astratto, vale a dire le due istituzioni nate da questo sacrificio (e il cui funzionamento rituale deve situarsi al di là del bene e del male), siano stati a loro volta rapidamente promossi al rango di idoli e divinità, dinanzi ai quali l’umanità riconciliata era chiamata a prosternarsi. Se a partire da questo punto accadesse che questi nuovi dèi della Modernità si mostrassero, per ragioni legate alla natura stessa delle società umane, incapaci di mantenere le loro promesse di redenzione (e d’altronde era proprio questa la convinzione fondamentale dei primi socialisti), questo implicherebbe, dal punto di vista girardiano, che l’umanità moderna non è ancora uscita dall 'epoca delle guerre, e che la fuga in avanti del sistema liberale (che altro senso ha l’idea di una crescita indefinita?) potrebbe presto logicamente esigere il sacrificio successivo: quello della natura e dell’umanità stesse.
TRACTATUS JURIDICO-ECONOMICUS
Come Hobbes aveva chiaramente intuito, l’istituzione immaginaria delle società moderne deriva innanzitutto da una diffidenza radicale verso le capacità morali degli esseri umani e di conseguenza verso la loro attitudine a vivere insieme senza nuocersi reciprocamente1. Da questo punto di vista le pie narrazioni fondatrici del mito progressista si basano in gran parte su un’illusione retrospettiva. La genesi del progetto moderno (proprio come quella del liberalismo, che di tale progetto rappresenta la declinazione più coerente) può difficilmente essere inserita nella linea di continuità diretta dell’Umanesimo del Rinascimento, o del repubblicanesimo fiorentino e del suo vivere civile libero2. Le varie strutturazioni politiche, economiche e culturali che configurano la realtà effettiva del mondo contemporaneo sembrano invece pienamente intelligibili solo alla luce del loro antiumanesimooriginario. Infatti è nella misura in cui esse presupponevano l’uomo “incapace di vero e di bene” - nonché infinitamente più nocivo a causa delle sue pretese chimeriche verso la virtù più che a causa del tranquillo esercizio dei suoi vizi [A] - che le politiche moderniste (rompendo su questo punto con lo spirito delle civiltà precedenti) si sono trovate logicamente indotte a limitare le proprie ambizioni filosofiche alla ricerca della meno peggiore delle società possibili3,. Un programma all’inizio intenzionalmente realista e moderato che, a differenza dell’entusiasmo che animava i primi utopisti, si rassegnava a considerare gli uomini “così come sono” e poteva quindi non solo accettarne i vizi, ma soprattutto cercare di convertire questi ultimi in energia utilizzabile per il proprio funzionamento. In ultima analisi i vari modi nei quali l’ideale di pacificazione liberale della vita ha man mano dispiegato la gamma delle proprie implicazioni di incivilimento rappresentano dunque solo uno sviluppo dialettico di tale antropologia pessimista, quando essa si è trovata a confrontarsi con le varie situazioni inedite che la Storia non cessa di presentare.
I concetti di checks and balances e di meccanismo autoregolatore, che organizzano tutte le costruzioni ideologiche del liberalismo, vanno innanzitutto compresi come la materializzazione filosofica dì quella diffidenza originale verso le capacità morali dell’umanità. Se il desiderio di subordinare il comportamento degli uomini a un ideale etico considerato come universalizzabile è davvero il crimine che racchiude tutti i crimini, è effettivamente impossibile pretendere di istituire la tranquillità e la pace civili senza aver precedentemente neutralizzato tutte le forme concepibili della tentazione morale, siano esse forme religiose o meno. In questo senso essere “moderni” significa fondamentalmente essere convinti che le nuove risorse della Ragione (di cui la Scienza fornisce il modello privilegiato) sono ormai in grado di risolvere tale problema, indicando le linee di una duplice strategia: da una parte la destituzione di tutte le figure tradizionali dell’autorità politica e dall’altra la collocazione progressiva dell’esistenza collettiva degli individui sotto il controllo di meccanismi impersonali e ideologicamente “neutri”, meccanismi il cui libero gioco potrà produrre automaticamente tutto l’ordine politico auspicabile, senza che questi individui debbano mai venire convocati a titolo di soggetti4. Come è noto, per i liberali esistono due meccanismi, e due soltanto [B], dotati di questa proprietà provvidenziale: si tratta dei congegni a orologeria paralleli e complementari del Mercato e del Diritto. A partire dal momento in cui questo trapasso storico massiccio sarà stato completato, la libertà moderna potrà quindi venire riconosciuta nella sua doppia dimensione costitutiva, giuridica ed economica al tempo stesso. La si potrà definire da una parte come il diritto di fare tutto ciò che non è proibito dalla legge (secondo la formula di Montesquieu) e dall’altra, in maniera più discreta, come quello di fare tutto ciò che non contravviene alle leggi del mercato.
Quest’ultimo punto necessita di alcune precisazioni. Affinché questa società-macchina possa raggiungere il suo rendimento ottimale - cioè affinché i dispositivi del Mercato e del Diritto siano realmente in grado di generare da soli tutti gli equilibri che la teoria si aspetta da loro — è indispensabile che le condizioni del loro libero funzionamento siano protette contro tutti gli interventi arbitrari che potrebbero turbarne la logica. Nella sua forma ideale lo Stato liberale deve quindi adoperarsi in continuazione per separare accuratamente l’esercizio del potere politico da ogni considerazione morale o religiosa [C]. Infatti nella misura in cui queste ultime sono percepite come semplici preferenze ideologiche arbitrarie (che in quanto tali sono accettabili solo a titolo di scelte private), la tendenza a prenderne atto porterebbe inevitabilmente lo Stato liberale a reintrodurre nell’amministrazione moderna delle cose tutte le fonti di dispute legate all’antico governo degli uomini. Ne discende un certo paradosso per questo Stato che si vuole minimo. Infatti se segue la sua propensione naturale, esso deve riservarsi anche il diritto di intervenire sulla società civile ogni volta che si tratta di difendere le condizioni del laissez faire, e cioè di quella che ai suoi occhi è la libertà stessa. Questo lo porta quindi abbastanza spesso a dover forzare le resistenze culturali al “cambiamento”, che trovano generalmente il loro fondamento negli “arcaismi” sempre pericolosi della tradizione, o ancora nei vantaggi ingiustamente acquisiti in occasione di lotte precedenti (e non meno arcaiche) condotte dalla classe operaia e dai suoi vari alleati. Ma questa prerogativa regia di “far evolvere le mentalità” non turba i liberali, dal momento che è teoricamente giustificata dalla necessità continua di garantire a ciascuno l’effettiva possibilità di godere pacificamente dei propri diritti e della propria di indipendenza privata. In questo senso una società liberale coerente - quella in definitiva i cui membri dovrebbero avere il minimo di cose da fare in comune - può perseverare nel suo esistere soltanto a condizione che tutti i processi automatici ai quali essi hanno deciso di affidare il proprio destino politico siano e restino davvero dei processi senza soggetti.
A causa della diffidenza costitutiva dei liberali verso l’eterna propensione degli uomini a pretendere di agire moralmente, quest ultima affermazione deve intendersi nel suo significato più radicale. Essa implica che la società del male minore non è solo quella che per funzionare efficacemente non ha alcun bisogno di esigere dai propri membri qualsiasi intervento su se stessi (esortandoli per esempio a conformarsi a un determinato ideale di perfezionamento morale o religioso). In verità, come Adam Smith (dopo Mandeville) non rinuncia mai a sottolineare, si tratta di una società i cui ingranaggi funzionano tanto meglio in quanto ogni individuo rinuncia spontaneamente a compiere tale intervento (peraltro fortemente sospetto) e preferisce a quell’esistenza “sacrificale” il perseguimento più tranquillo dei propri giusti interessi e della realizzazione dei propri desideri personali.
È solo a partire da questa necessità preventiva di dissuadere gli individui dal cedere alla tentazione morale - fonte,, come è noto, di tutte le utopie e di tutti i mali - che si possono comprendere nella loro logica profonda le due evoluzioniparallele del Diritto del Mercato moderni. Prendendo a prestito il vocabolario spinoziano si potrà quindi formulare la seguente tesi: in un sistema liberale puro (ovvero completamente conforme al suo concetto) l’ordine e la connessione del Diritto sono gli stessi dell’ordine e la connessione del Mercato. Si tratta di due attributi certamente diversi, ma ciascuno dei quali esprime, nel proprio ordine e a proprio modo, la sostanza unitaria del liberalismo reale.
Abbiamo visto che per i liberali la prima funzione del Diritto consiste nel garantire un “ordine giusto”, ovvero nell’assicurare la coesistenza pacifica delle libertà inevitabilmente rivali, poiché votate ciascuna, per ipotesi, a perseguire il loro esclusivo interesse particolare. Di qui la sua neutralità assiologica fondamentale. Mentre i vari Diritti tradizionali avevano sempre cura di articolare la propria opera normativa a un riferimento morale fondatore (che dipendesse dal verbo divino, dalla dedizione al bene comune, dalle usanze popolari o dall’ordine naturale), il Diritto liberale intende invece a formulare le proprie decisioni senza mai basarsi sul minimo giudizio di valore. Se pretendesse di affermare ciò che è “bene” o “male”, cioè se pretendesse di giudicarenel senso tradizionale del termine5, tale Diritto reintrodurrebbe nell’esistenza collettiva gli schieramenti ideologici che hanno sempre indotto individui e gruppi allo scontro violento. La razionalità di cui si vanta il Diritto liberale è quindi essenzialmente calcolatrice e procedurale. Non ha altro scopo se non il mantenimento delle condizioni della pace civile (dell’“ordine pubblico”), riconducendo continuamente all’equilibrio il movimento disordinato delle libertà opposte; senza mai doversi interrogare all’improvviso sul fondamento metafisico delle rivendicazioni in causa. Il carattere strettamente positivista di tale programma è sufficiente da solo a spiegare la crescente tecnicizzazione dell’industria giuridica moderna e il modo caratteristico in cui tende ormai a elaborare le proprie norme. Come constata Jacques Commaille, il Diritto contemporaneo oscilla continua-mente tra un modello “dogmatico-finalista” (quello del Diritto tradizionale) e un modello “pragmatico-gestionale”, di cui la gestione aziendale offre l’immagine più appropriata6.
Ma la logica liberale spinge al tempo stesso il Diritto moderno lungo chine molto più ripide. Se esso deve mirare soprattutto a garantire il funzionamento efficace della macchina sociale (quella che i radicali chiamano giustamente il Sistema), è infatti indispensabile assicurarsi sempre che l’ideale di neutralità assiologica, che dovrebbe sostenere i sapienti equilibrismi dei tecnici del Diritto, sia davvero al riparo da ogni contaminazione ideologica. Ora, sembra proprio che soltanto l’evoluzione dei costumi - cioè la continua variazione dei rapporti di forza culturali tra le libertà concorrenti - sia in grado dì apportare le informazioni necessarie, chiarendo, a ogni tappa della Storia, i presupposti rimasti fino a quel momento inconsci del Diritto costituito. E' sostanzialmente in questo modo che nuovi motivi di indignazione possono continuare a emergere e a formularsi, dando così fondamento alle esortazioni liberali a nuove “avanzate del Diritto”. Per limitarsi a un esempio elementare, è solo nella nostra epoca che diventa possibile prendere coscienza del fatto che, più di due secoli dopo la Rivoluzione francese, siamo tuttora privi, con stupore del giurista liberale Daniel Boriilo, del diritto elementare di «fustigare il nostro partner se ci viene richiesto,anche se questo ci procura piacere»,mentre si tratta di una pratica «che non fa torto a nessuno e non nuoce alla salute»7. Come spiegare tuttavia che una tale negazione di giustizia possa ancora sussistere all’epoca di Internet e del Mercato globale? Da bravo praticante della French theory (e da bravo allievo di Bentham), Boriilo evidentemente non ha alcuna difficoltà a smascherare il presupposto moralizzatore occulto che sta alla base di questo intollerabile attentato alla libertà individuale. I giudici, sottolinea, «non invocano più il riferimento religioso, ma non ci siamo liberati dei valori trascendenti». Basta infatti sottoporre la loro pratica alle procedure rodate della “decostruzione” per scoprire immediatamente che questi giudici talvolta si basano ancora sullo strano «concetto di dignità umana». Ora, a ben guardare, quest ultima veicola una «certa idea dell umano» che non è meno fantasiosa e arbitraria, sotto questo aspetto, di qualunque altra costruzione ideologica [D]. In tali condizioni rendere giustizia a un concetto così torbido e scientificamente poco fondato costituisce per forza di cose un procedimento “paternalista”, che facilmente s’immagina capace di ricondurre insensibilmente le nostre fragili società liberali, se non si facesse attenzione, ai giorni più bui dell’eraprecapitalista.
Il problema naturalmente è che questa pratica sistematica della decostruzione (che grazie alla sua grande semplicità è sufficiente a far decollare brillanti carriere mediatiche e universitarie oppure, in mancanza di meglio, associative) apre per definizione un abisso filosofico infinito (altrettanto infinito quanto deve esserlo lo sviluppo della merce, nell’ordine parallelo dell’Economia). Infatti quale limite gli si potrebbe attribuire se non un limite arbitrario, basato cioè in ultima analisi su pregiudizi moralizzatori? Il programma di epurazione liberale del Diritto (o, come preferiscono dire i liberali di sinistra e di estrema sinistra, la “lotta contro tutte le discriminazioni e contro tutte le esclusioni”) si scopre quindi anch’esso votato per natura a un movimento senza fine. In verità il suo solo termine logico non potrebbe che essere il riconoscimento ufficiale di quello che Hobbes, un secolo prima di Sade, aveva definito il diritto di tutti su tutto. Bisogna tuttavia sottolineare che elaborando questo concetto singolare (che riassume abbastanza bene lasensibilità di sinistra moderna), l’autore del Leviatano ambiva solamente a descrivere il grado zero della Società, cioè la condizione antropologica principale della guerra di tutti contro tutti.
Il vincolo liberale di neutralità assiologica assoluta produce ovviamente effetti identici nell’ordine parallelo del Mercato, il cui libero sviluppo assume il nome di Crescita. Questa costituisce per i liberali l’unico fondamento reale del legame sociale moderno, di cui il Diritto, da parte sua, garantisce le indispensabili condizioni formali. In quest’ottica (che riadatta alcuni dogmi del marxismo ortodosso), l’insieme della meccanica sociale si fonda quindi in ultima analisi su quella Crescita8. Se il suo tasso diminuisce o crolla (fenomeni la cui causa specifica, per la setta degli “economisti”, è sempre, indipendentemente dalle circostanze, un livello insufficiente di libertà capitalista), la pacificazione del legame sociale ne risulterà minacciata nelle sue stesse fondamenta.
Se la Crescita rappresenta così l’alfa e l’omega della salvezza politica degli uomini (solo il Mercato, insistono i liberali, può permettere a individui che si presuppongono mossi dal loro solo interesse egoistico di fare come i ladri di Pisa, che di giorno litigavano e di notte andavano a rubare insieme), è tuttavia necessaria la compresenza di un certo numero di condizioni. Bisogna che da una parte la concorrenza sia “libera e non falsata” e dall’altra che ogni agente che opera su questo mercato ideale (al titolo di produttore di consumatori) accetti di stare al gioco, vale a dire di comportarsi “razionalmente”, sforzandosi in ogni situazione di massimizzare il proprio utile.Questo implica naturalmente che nelle loro decisioni quotidiane tali agenti non si lascino mai condizionare da dubbie considerazioni morali o “ideologiche”, come quelle per esempio che riguarderebbero l’effetto che tali decisioni “razionali” possono avere alla lunga sugli equilibri della natura o sull’umanità degli agenti stessi9. Si sa che per gli economisti questi effetti collaterali della Crescita rappresentano semplici “fattori esterni” negativi, che la loro scienza deve apprendere a lasciare senza rimpianti al di fuori del proprio ambito. Innanzitutto perché essi appaiono difficilmente misurabili (e nella “scienza” del Mercato quello che non si può misurare non esiste); poi perché, comunque, la maggior parte di questi “fattori esterni” non potrebbe essere apprezzata se non in funzione di criteri essenzialmente “ideologici”. Per esempio, come si potrebbe sostenere l’idea che le quote di giovani logotomizzati tanto efficacemente dall’industria del divertimento e dalla manipolazione pubblicitaria si ritrovino in questo modo già spossessatati di una parte importante della loro umanità, dal momento in cui un Daniel Boriilo ci dice che questo concetto di “umanità” (e la sulfurea teoria dell’alienazione che l’accompagna) va considerato un semplice flatus vocis, una parola priva di significato?
Di conseguenza è con assoluta coerenza filosofica che i vari propagandisti del Sistema si adoperano per escludere dai loro calcoli economici tutto ciò che potrebbe apparentarsi a un giudizio di valore, come fanno per esempio quando cercano di valutare quel PIL (prodotto interno lordo) che agli occhi dei liberali dovrebbe misurare “scientificamente” la Crescita e quindi il grado di coesione oggettiva di una determinata società. Questa metodologia positivista costituisce infatti semplicemente il prezzo intellettuale da pagare per mantenere la finzione che la Crescita sia un processo al tempo stesso necessario e assiologicamente neutro (e quindi potrebbe essere contestato solo su basi faziose o utopiche) e soddisfare così la condizione trascendentale di tutti gli equilibri politici liberali. Da questo deriva, com’è stato spesso sottolineato, la curiosa abitudine di stilare inventari alla Prévert che caratterizza le numerose relazioni ufficiali dedicate alla misurazione del pil.Nella definizione statistica della felicità liberale è infatti pienamente sensato tener conto non solo della produzione delle merci più inutili e assurde (quelle il cui consumo è imposto quotidianamente dalla propaganda pubblicitaria e dalle sue camaleontiche definizioni di “esclusività” e di “distinzione”), ma anche alcuni degli elementi della modalità di distruzione capitalistica della natura e dell’umanità la cui nocività è stata più accertata. E così, senza battere ciglio, la saggezza degli “esperti” include nei propri calcoli surrealisti [E] sia gli effetti dell’inquinamento industriale che gli incidenti stradali o sul lavoro, sia la propagazione delle epidemie che l’aumento dei reati (nonché delle precauzioni prese per difendersene), per non parlare delle conseguenze delle catastrofi cosiddette “naturali” o di quelle che sono provocate più direttamente dall’intervento umano (come tutti sanno, non c’è niente di meglio di una bella guerra per dinamizzare una crescita anemica) [F],
Questa maniera panglossiana di considerare una parte dei mali che affliggono l’umanità come strumento metafisico di una perfezione maggiore (nel caso specifico quella del tasso di crescita)potrà certo sembrare indecente a chi, in qualsiasi punto del globo, veda la logica capitalista smantellare giorno dopo giorno la dignità delle condizioni ecologiche, sociali e culturali. In questo senso già nel 1849 Thomas Carlyle non esitava a definire l’economia politica come la scienza triste per eccellenza («the dismal science»). Tuttavia bisogna comprendere che per i liberali questa esclusione metodologica della common decency resta l’unica condizione razionale che consente ancora all’impero del male minore di proteggere gli individui contro quei mali infinitamente peggiori che volteggiano eternamente sulla povera e ingenua umanità: quelli di cui si diletta, acquattata in ciascuno di noi e sempre pronta a spiccare il balzo, la Bestia immonda e i suoi tentacoli in perenne ricrescita.
Se il processo del Diritto e del Mercato possono dunque svilupparsi secondo un parallelismo storico perfetto, è quindi perché le ragioni che governano questo duplice sviluppo sono, da una parte e dall’altra, strutturalmente identiche [G]. L'epurazione etica sempre più spinta alla quale ciascuno di questi apparati è tenuto a dedicarsi è solo la controparte pratica di quella rinuncia a «pensare alla vita umana secondo il suo bene o il suo fine»10 che organizza filosoficamente l’insieme del dispositivo liberale. Ma questo processo, essendo ufficialmente senza soggetto, dev’essere anche senza fine. Con la configurazione liberale del mondo, e a prescindere da quelle che possono essere state in origine le intenzioni moderatrici dei suoi fondatori, è quindi l’idea stessa dilimite che diventa (per la prima volta nella storia delle civiltà) filosoficamente impensabile. Per legittimarne il principio bisognerebbe in effetti potersi basare su valori morali, vale a dire, secondo l’ideologia liberale, su allestimenti normativi arbitrari, di natura tale da aizzare nuovamente gli uomini gli uni contro gli altri, sul modello per sempre esecrabile delle guerre di religione11. E quindi in ultima analisi sotto l’effetto della propria logica che una società liberale si trova costretta, come Marx aveva perfettamente inteso nel Manifesto del partito comunista, a «rivoluzionare continuamente tutti i rapporti sociali» e calpestare tutti i «rapporti patriarcali e idilliaci». «Questa rivoluzione continua dei sistemi di produzione, questo movimento costante di tutto il sistema sociale, questa agitazione, questa poca sicurezza eterne,distìnguono l’epoca borghese da tutte le precedenti». Ecco perché l’“epoca borghese”, o epoca moderna,ontologicamente ordinata all’idea che «il movimento è tutto, il fine è nulla»12, una volta che essa è storicamente giunta riprodursi sulle proprie basi non conosce che una sola parola d’ordine filosofica:accelerate tutti processi, riformulazione definitivamente moderna del vecchio principio dell’economista Gournay, laissez passer, laissez faire [H].
1 «E' cosa ormai appurata che l’origine delle società più grandi e durature non deriva da una reciproca benevolenza che avrebbero gli uomini gli uni verso gli altri, bensì dal loro reciproco timore» (T. Hobbes, De cive, sezione I, cap. 1). Si potrà così agevolmente valutare la stranezza filosofica (o la pura retorica, o la deliberata menzogna, o la semplice stupidità) insita nella pretesa di Dominique Strauss-Kahn di presentare la propria versione personale del liberalismo come quella di una «società di fiducia» (cfr. «Le Monde», 3 novembre 2006).
2 Oltre agli ormai classici studi di Quentin Skinner (in particolare La libertà prima del liberalismo, Torino, Einaudi, 2001 e gli scritti su Ambrogio Lorenzetti raccolti in Virtù rinascimentali, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 53-153), sulle origini della modernità politica si veda l’opera decisiva di Maurizio Viroli (Dalla politica alla ragion di Stato. La scienza del governo tra XIII e XVII secolo,Roma, Donzelli, 1994), che evidenzia la rottura filosofica radicale con l’Umanesimo del Rinascimento e il repubblicanesimo fiorentino introdotta nel XVI secolo dalla corrente “politica”. D’altronde è degno di nota il fatto che la relazione della Commissione trilaterale dedicata alla “governabilità” delle società moderne ( The Crisis of Democracy, 1975), relazione che ha rappresentato la matrice ideologica del “nuovo ordine mondiale”, sin dal capitolo introduttivo opponga intellettuali che si identificano in funzione di valori(«value-oriented intellectuals»), e la cui attività critica di conseguenza mette a repentaglio gli equilibri fondatori della società liberale, a coloro che si limitano a un approccio puramente tecnico e politico ai problemi della «società industriale avanzata» («technocratic and policy-oriented intellectuals»); il cui numero, come si la relazione si compiace di rilevare, aumenta di pari passo con quest’ultima. Tale distinzione riproduce in un certo senso, e con una diversa terminologia, il divario fondatore della modernità, quello tra gli Umanisti e i Politici.
3 Una società che si presenta come “la meno peggior possibile” tende logicamente a fondare l’essenza della sua propaganda sull’idea che essa esiste per proteggerci da mali infinitamente peggiori. Ecco perché, come fa notare Guy Debord nei suoiCommentaires sur la société du spectacle, Paris, Editions Gérard Lebovici, 1988 (trad. it. di F. Vasarri, Commentari sulla società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 2001), una società liberale fa generalmente in modo di «essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati» (trad, it., p. 204). Di conseguenza vive sempre un dramma ideologico vedendo scomparire con il tempo questa o quella figura storica del Male assoluto (come per esempio in occasione della caduta del Muro di Berlino). E poiché il posto del peggiore non deve mai rimanere vacante troppo a lungo, la propaganda liberale si trova perennemente obbligata a scoprirne nuove incarnazioni, e naturalmente, se necessario, a fabbricarne ex novo.
4 L’idea che gli equilibri necessari alla salvezza politica di una comunità possano dipendere solo dall’azione di meccanismi indipendenti dalla volontà degli individui (e a maggior ragione dal loro merito) costituisce evidentemente una trasposizione delle teologie della grazia elaborate dalle varie correnti dell’agosti -nismo moderno. In definitiva è solo attraverso la grazia delle leggi del Mercato e del Diritto che gli uomini, che per natura «sono liberi solo per il male» (Lutero, Tesi del 1517), giungono finalmente a vivere nella pace e nella prosperità, mentre, se lasciati a se stessi, non potranno che tendere alla guerra di tutti contro tutti. E' chiaro che qui ci troviamo di fronte a uno dei numerosi schemi religiosi inconsci (e tuttora operanti) che hanno preparato lo spirito dei moderni ad accettare la sacralizzazione simultanea della Crescita e del Diritto.
5 Già il Vangelo esortava: «Non giudicate, e non sarete giudicati» (Luca 6,37). In questo senso si può comprendere la formula di Chesterton: «Il mondo moderno è pieno di idee cristiane impazzite».
6 J. Commaille, L'Esprit sociologique des lois, Paris, puf, 1994, p. 247.
7 «Philosophie magazine», marzo 2007, p. 50. Per lodevole che possa essere la mentalità aperta di un Daniel Borillo (o del suo mentore Jack Lang), mi pare tuttavia ancora un po’ limitata, quanto meno a paragone di quella che caratterizza i dibattiti giuridici in altri Paesi europei. In Germania per esempio i difensori del liberalismo stanno già discutendo sul diritto ad avere rapporti cannibali tra adulti consenzienti (caso Bernd-Jurgen Brandes, primavera 2001), o ancora del diritto al matrimonio tra fratello e sorella (l’avvocato liberale Endrik Wilhelm sostiene l’abolizione dell’articolo 173 del Codice penale tedesco, che punisce l’incesto, sostenendo che tale divieto sia solo «un residuo folcloristico della Storia»). A quanto pare quindi i liberali francesi hanno ancora un bel po’ di strada da percorrere se vogliono essere davvero competitivi sul mercato internazionale delle idee.
8 È noto che negli anni Trenta uno dei principali rimproveri mossi da numerosi movimenti trotzkisti al sistema capitalista era che quest’ultimo conduceva inesorabilmente alla “stagnazione delle forze produttive". Di qui quell’invito permanente a rilanciare la Crescita (“creatrice di posti di lavoro” e sinonimo di Progresso storico) che da Arlette a Olivier rimane l’asse fondamentale dei programmi politici dei loro eredi contemporanei.
9 Un esempio chimicamente puro della necessaria “neutralità assiologica” del Mercato liberale (la cui sola legge è business is business) è la recente creazione, in Germania, della società Erento.com, il cui obiettivo consiste nell'offrire a tutti partiti politici, sindacati o associazioni interessati, un servizio di manifestanti professionisti, pagati a ora o a giornata, ed eventualmente provvisti di megafoni o tamburi (chiaramente previo supplemento). Monica, una delle dipendenti di questa nuova impresa, dichiara: “Per me è un lavoro come un altro. Manifestare per organizzazioni nelle quali non mi riconosco non mi crea alcun problema”.
10 Manent, Histoire intellectuelle du libéralisme, cit., p. 244.
11 Sarebbe interessante studiare il modo in cui la storia dell’avanguardia artistica (soprattutto nel suo rapporto costitutivo con il problema del limite) si è costruita da sola parallelamente a questo parallelismo. Bisognerebbe allora interrogarsi sul ruolo decisivo svolto dalla mitologìa moderna dell'artista” nello sviluppo dell’immaginario liberale.
12 Secondo la celebre formula (che Lenin chiamava «la parola alata») di Eduard Bernstein (1850-1932), prima grande figura del “revisionismo” (per riprendere il termine che in passato designava quella che oggi è divenuta ovunque la Sinistra moderna) nella storia del movimento operaio marxista.
NOTE
[A]
Nel suo bellissimo libro Le XVII siècle, une révolution dans la condition humaine, Paris, Seuil, 2002, Jean Rohou dimostra con precisione come il capovolgimento dell’antropologia giansenista in apologia della soluzione liberale si compia in maniera privilegiata nell’opera di Pierre Nicole (Sulla grandezza, 1671).
Gli uomini, privi di carità a causa della sregolatezza indotta dal peccato - scrive questi - permangono tuttavia pieni di bisogni e sono dipendenti gli uni dagli altri in un’infinità di cose.
La cupidigia si è quindi sostituita alla carità per soddisfare tali bisogni, e lo fa in maniera tale che l'ammirazione che le riserviamo non è sufficiente.
Nel 1675 (La carità e l'amor proprio)Nicole arriva persino a sostenere che negli Stati in cui non esiste un’autentica carità
perché la vera religione è bandita, nondimeno non si rinuncia a vivere con altrettanta pace, sicurezza e comodità che in una repubblica di santi [...]. Per corrotta che possa essere qualsiasi società al suo interno e agli occhi di Dio, al suo esterno non potrebbe esservi nulla di più regolato, dì più civile, di più giusto, di più pacifico, di più onesto, di più generoso; e ciò che vi è di più ammirevole è che pur essendo mossa e animata solamente dall’amor proprio, l’amor proprio non vi figura neppure, e che pur essendo totalmente priva di carità, ovunque si vedono la forma e i caratteri della carità.
In modo tale che, conclude il filosofo di Port Royal,
per riformare interamente il mondo, cioè per sradicarne tutti i vizi e tutti i più grossolani disordini, rendendo gli uomini felici già in questa vita, in mancanza della carità sarebbe sufficiente elargire a tutti un amor proprio illuminato che sappia discernere i propri autentici interessi.
Dopo aver sottolineato che «per passare da queste righe a un manifesto morale della società liberale sarebbe sufficiente sopprimervi i riferimenti a Dio», Rohou osserva con ragione che «quarant'anni prima della morte di Luigi XVI un cristiano eminente si propone così come il cantore del liberalismo, in termini che preannunciano quelli di Adam Smith, il quale s’ispirerà alle sue analisi per il tramite di vari intermediari, in particolare Boisguilbert, ex allievo di Nicole a Port Royal» (Le XVII siècle... cit., p. 481). Notiamo en passant che basta leggere l’ultima opera di Frédéric Lordon (L’Intérêt souverain: essai d’anthropologie spinoziste, Paris, La Découverte, 2006) per valutare fino a quel punto la sociologia che si ispira ai lavori di Pierre Bourdieu resti profondamente debitrice nei confronti dei dibatti antropologici del XVII secolo, e in modo particolare dei presupposti ideologici di La Rochefoucauld e del giansenismo di Port Royal. Probabilmente questa è una delle chiavi essenziali dell’inettitudine costituzionale dell’estrema sinistra francese contemporanea a costruire una critica radicale e unificata del sistema liberale.
[B]
Che cosa è necessario dal punto dì vista liberale per costruire una comunità moderna? Se ci si limita a considerare l’esempio della Comunità Europea (ma questo vale evidentemente per ogni altra comunità, comprese quelle nazionali) la risposta sembra semplice. Ci vuole da una parte un mercato comune, cioè uno spazio in cui le monadi umane possano scambiare liberamente i propri beni e servizi, secondo le regole di una concorrenza libera e non falsata. Dall’altro è necessarioun insieme di regolamentazioni giuridiche(o spazio di Diritto) che consentano da una parte di proteggere tale concorrenza e dall’altra di garantire a ogni monade (o a ogni libera associazione di monadi) il diritto di vivere secondo la propria definizione privata di vita retta. In altre parole una società liberale coerente si definisce come un’aggregazione pacifica di individui astratti che, a partire dal momento in cui rispettano globalmente le leggi, si suppone non abbiano null’altro in comune (né lingua, né cultura, né storia)oltre al desiderio di partecipare alla Crescita, in quanto produttori e/o consumatori.
Poiché d’altronde tali condizioni molto minime di appartenenza sono ormai in fase di mondializzazione (in conseguenza di quello che Guy Debord definiva il degrado spettacolare-mondiale [americano] di ogni cultura1), una società liberale sviluppata deve quindi logicamente finire per considerarsi un semplice luogo di transito,che non implica alcuna lealtà morale particolare da parte di coloro che hanno provvisoriamente scelto di risiedervi, e che ognuno deve essere libero di poter abbandonare a vantaggio di un altro luogo, a partire dal momento in cui un qualsiasi calcolo gliene dimostra il vantaggio. Esempio (nel caso in cui tale calcolo fosse di tipo fiscale): sarebbe per me più vantaggioso diventare un cittadino belga, svizzero o monegasco? È questo principio di libertà integrale di circolare in tutti i luoghi del pianeta (e quello complementare di una regolarizzazione automatica di tutti gli insediamenti transitori che ne conseguono) di cui i sostenitori di sinistra del capitalismo (che sono di gran lunga i più coerenti) pretendono di proibire ogni critica filosofica, con la scusa che è destinata inevitabilmente a portare a conclusioni “razziste” o “xenofobe” (ricordiamo il ruolo svolto dalla figura ormai celebre dell’”idraulico polacco” nelle forme di legittimazione dette “antirazziste” del progetto liberale di Costituzione europea) (a).
(a) Sul sito Internet di Bertrand Lemennicier (uno dei quattro componenti della setta liberale del Mont Pèlerin, imposta personalmente da Luc Ferry alla commissione per il concorso a cattedre in scienze economiche per l’insegnamento nelle scuole secondarie superiori nel 2003) si legge questa analisi esemplare di Gérard Bramoullé (a sua volta membro della setta e della commissione): «L’immigratoclandestino abbatte i costi monetari e non monetari della manodopera. Rafforza la competitività dell’apparato produttivo e frena il processo di delocalizzazione delle imprese che trovano in loco quello che sono spinte a cercare altrove.Facilita gli adeguamenti dell’impiego alle variazioni congiunturali e aumenta la flessibilità del processo produttivo». Perciò, insiste l’universo padronale, è politicamente indispensabile assicurarsi che per xenofobia non si finisca per fare dell’immigrato clandestino «il capro espiatorio di un problema complesso». Questa analisi racchiude il definitivo fondamento ideologico (conscio oinconscio) di tutte le lotte attuali dell’estrema sinistra liberale (come per esempio quelle del mediaticissimo Réseau Education Sans Frontières) per legittimare l’abolizione di tutti gli ostacoli all’unificazione giuridico-mercantile dell’umanità.
[C]
Se per definizione la gestione liberale del politico deve sottrarsi a ogni considerazione morale e religiosa (essendo incaricata solo di assumere le decisioni imposte dalla “necessità”) (a), essa tuttavia comprende, come ogni gestione degna di questo nome, una strategia di immagine e di comunicazione. E poiché le classi popolari sembrano essere rimaste esageratamente sensibili all’idea premoderna secondo la quale la politica dovrebbe rispettare un certo numero di valori, i politici liberali si trovano quindi regolarmente costretti a ricoprire la razionalità matematica del loro programma con il dubbio manto dell’antica morale. Di qui lo spettacolo, sempre insolito (soprattutto in occasione delle commedie elettorali), che vede quegli intransigenti difensori del Mercato obbligati a mettersi la mano sul cuore e a tessere gli elogi più incongrui del vincolo familiare, della solidarietà verso i più bisognosi, della responsabilità ecologica o del senso civico, quando sono i primi a sapere che quello stesso Mercato, all’estensione del cui impero essi sono instancabilmente impegnati, può funzionare efficacemente solo scalzando continuamente tutte queste disposizioni (b). Queste buffonate necessarie non desteranno alcuna meraviglia nei lettori di Machiavelli.
(a) Da questo punto di vista una decisione politica liberale deve sempre presentarsi come una decisione che non comporti nessunPiano B.
(b) Degna di particolare ammirazione è la carica lanciata da Nicolas Sarkozy nel corso della campagna elettorale del 2007 contro quegli “eredi del Maggio ’68” che «avevano proclamato che tutto era permesso, che l’autorità non esisteva più, che la gentilezza non esisteva più, che il rispetto non esisteva più, che non cera più niente di grande, più niente di sacro, più niente di ammirevole, che non cerano più regole, che non cerano più norme, che non cerano più divieti». Soprattutto se la si rapporta alle confidenze da lui rilasciate nel quadro, effettivamente molto più intimo, di un incontro con Michel Onfray: «L’aspetto interessante della regola, del limite, della norma è che consentono la trasgressione. Senza regole non c’è la trasgressione. E quindi non c’è libertà. Perché libertà è trasgredire» («Philosophie magazine», 8, aprile 2007).
[D]
Dietro al desiderio da parte di un numero sempre crescente di ideologi contemporanei di rimettere in discussione tutte le differenze che ancora separano l’essere umano dall’animale, e secondo alcuni anche dalle cybermachines (si tratterebbe a sentir loro di discriminazionipoliticamente inaccettabili), vi è evidentemente una posta in gioco ideologica che va ben al di là della semplice questione scientifica. Lo si nota chiaramente nelle opere di Dominique Lestel (cfr. L’Animal singulier, Paris, Seuil, 2004) che, nel constatare con giubilo che «è arrivata l’era dei mutanti» (p. 133), ne deduce che tutte le critiche delladecostruzione liberale dell’idea di umanitànon possono che derivare da una «contrazione identitaria», per non dire «ontologica» (pp. 125-127). Scrive Lestel:
Tutti quelli che si lagnano dei tempi attuali e delle nuove tecnologie emergenti lo dicono all’unisono: l’uomo moderno è l’uomo inautentico [...]. Tutta una parte della filosofia di Adorno può essere letta come un catalogo, talora triste, talora esilarante, dei modi concepiti dall’essere umano per non essere più autentico. Ma l’autenticità è per l’essere umano ciò che la normalità è per la malattia: un fantasma culturale (p. 132).
Ecco quindi una bellissima notizia per tutti i lavoratori del mondo intero (soprattutto in Africa, in Asia e in America Latina) che, non padroneggiando laFrench theory, vivono ancora nella convinzione illusoria che le condizioni di sfruttamento imposte loro dalle grandi aziende internazionali siano “anormali” e “disumane”, e forse anche “alienanti”. Grazie agli scimpanzè bonobo, ai mammiferi marini e alle macchine cibernetiche di ultima generazione avranno ormai capito che il modo in cui «si lagnano dei tempi attuali» è solo l’effetto ideologico di un «fantasma culturale».
[E]
Per dare un’idea dell’universo mentale nel quale sguazzano gli economisti ufficiali ci si può rifare all’esempio elementare immaginato da Jean Gadrey e Florence Jany-Catrice in Les Nou-veaux Indicateurs de richesse, Paris, La Découverte, 2005 (trad, it. di A. Lombardo, No pil! Contro la dittatura della ricchezza, Roma, Castelvecchi, 2007, p. 23):
Se un paese impiegasse il dieci per cento delle persone per distruggere i beni (fare buche nelle strade, danneggiare veicoli, ecc.) e un altro dieci per cento per ripararli (chiudere i buchi, ecc.) avrebbe lo stesso pil di un paese in cui quel venti per cento di posti di lavoro (i cui effetti sul benessere si annullano) fossero destinati a migliorare la speranza di vita in buona salute, il livello d’istruzione e la partecipazione ad attività culturali e ricreative.
Un esempio del genere permette tra l’altro di comprendere il grande interesse economico insito dal punto di vista liberale (e come Mandeville è stato il primo a sottolineare, già all’inizio del XVIII secolo) nel mantenimento di un elevato tasso di criminalità. Infatti non solo le attività criminali sono in genere molto produttive (incendiare alcune migliaia di automobili ogni anno, per esempio, comporta un impiego di materie prime e di risorse umane molto limitato, e assolutamente sproporzionato rispetto ai vantaggi che ne derivano per l’industria automobilistica), ma inoltre non richiedono nessun particolare investimento formativo (con l’eccezione forse dei reati informatici), cosicché la partecipazione del delinquente alla crescita del pil è immediatamente redditizio, anche se comincia giovanissimo(naturalmente qui non sussiste alcun limite legale al lavoro infantile). Ovvio che, essendo tale pratica assai poco apprezzata dalle classi popolari, con il pretesto egoistico che ne sono le prime vittime, è indispensabile migliorarne l’immagine, mettendo in atto tutta una industria della scusa, per non dire della legittimazione politica. Questo incarico viene generalmente affidato ai rapper, ai cineasti “impegnati” e agli utili idioti della sociologia di Stato2.
[F]
Il 18 marzo 1968, poche settimane prima di essere assassinato, Bob Kennedy, pronunciava il seguente discorso all’Università del Kansas:
Il calcolo del nostro PIL tiene conto dell’inquinamento atmosferico, della pubblicità delle sigarette e delle corse in ambulanza per soccorrere i feriti sulle strade. Conteggia i sistemi di sicurezza che acquistiamo per proteggere le nostre case e il costo delle prigioni in cui rinchiudiamo coloro i quali riescono a penetrarvi. Integra la distruzione delle nostre foreste di sequoie e la loro sostituzione con un’urbanizzazione tentacolare e caotica. Comprende la produzione del napalm, delle armi nucleari e delle automobili blindate della polizia destinate a reprimere i disordini nelle nostre città. Conteggia la fabbricazione del fucile Whitman e del coltello Speck, insieme ai programmi televisivi che glorificano la violenza allo scopo di vendere i giocattoli corrispondenti ai nostri bambini. In compenso il pilnon tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione né dell’allegria dei loro giochi. Non misura la bellezza della nostra poesia o la solidità dei nostri matrimoni. Non pensa a valutare la qualità dei nostri dibattiti politici o l’integrità dei nostri rappresentanti. Non tiene conto del nostro coraggio, della nostra saggezza o della nostra cultura. Non dice nulla della nostra pietà o dell’attaccamento al nostro Paese.In breve, il pil misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta.
A quarantanni di distanza è palese che sarebbe difficilissimo trovare in Francia un o una esponente della sinistra o dell’estrema sinistra capace di formulare una critica tanto radicale dell’ideologia della Crescita.
[G]
La logica liberale definisce un quadro “a doppia entrata’’, in cui la destramoderna (quella che dopo la Liberazione ha definitivamente rinunciato a ristabilire l’alleanza tra trono e altare) rappresenta la modalità di accesso privilegiata da parte del Mercato e la sua continua espansione. La sinistra moderna (quella che dopo il Maggio ’68 studentesco ha definitivamente rinunciato al compromesso storico stabilito con il movimento operaio socialista all’epoca dell’affaire Dreyfus) rappresenta la modalità di accesso privilegiato da parte del Diritto e la sua cultura trasgressiva3. La prima tende a muoversi tra Turgot e Adam Smith, l’altra tra Benjamin Constant e John Stuart Mill (talvolta rivestiti, è vero, con il mantello di cuoio di Trockij, per vaghe ragioni storiche ancora parzialmente attive). Ecco perché il divario destra/sinistra, così come si è venuto a creare ai nostri giorni, è la chiave politica definitiva dei progressi costanti dell’ordine capitalista (a). Permette infatti di continuare a prospettare ai ceti popolari un’alternativa impossibile (b): o essi aspirano innanzitutto a essere protetti dagli effetti economici e sociali immediatidel liberalismo (licenziamenti, delocalizzazioni, riforme pensionistiche, smantellamento del servizio pubblico, eccetera), e in questo caso devono rassegnarsi a convalidare tutte le condizioni culturali del sistema che genera tali effetti, cercando provvisoriamente riparo dietro alla sinistra e l’estrema sinistra; oppure al contrario si ribellano a questa eterna apologia della trasgressione,ma rifugiandosi dietro la destra e l’estrema destra si espongono a convalidare lo smantellamento sistematico delle proprie condizioni esistenziali materiali, che quella cultura della trasgressione illimitata rende precisamente no possibile. Nessuna scelta politica (o elettorale) dei ceti popolari può quindi fornire loro alcuno strumento efficace per opporsi al sistema che distrugge metodicamente la loro vita.
Supponendo che si abbia un interesse particolare a mantenere la finzione di un antiliberalismo di sinistra, ci si ritrova quindi inevitabilmente indotti a sostenere l’idea che la società moderna sia la sede di una dialettica strana e paradossale. Di fatto si deve necessariamente ammettere che più il Mercato diventa autonomo e mostra le proprie conseguenze inumane, più il Diritto astratto e la cultura che l’accompagna autorizzano invece a un’emancipazione senza precedenti del genere umano. Tradotto nel vecchio linguaggio marxista questo nuovo teorema fondatore della sinistra moderna finisce quindi per enunciare che, in ogni società liberale moderna, le “sovrastrutture” giuridiche e culturali variano in senso opposto al movimento ineluttabile dell’“infrastruttura” economica (c).
E' all’interno di questa precisa cornice intellettuale che vale la pena apprezzare l’opera che Jacques Rancière ha dedicato all’odio per la democrazia4. Il principale interesse di questo saggio sta nel fatto di conferire a questo singolare capovolgimento del materialismo storico una formulazione concettuale particolarmente brillante. Da questo punto divista questo piccolo libro costituisce certamente il manifesto filosofico più intelligente che la sinistra moderna abbia prodotto per legittimare il suo nuovo corso. Ecco perché è necessario soffermarvisi brevemente.
Il punto di partenza del testo è una radicale messa in dubbio delle tesi sostenute da Jean-Claude Milner nel suo notevole saggio Les Penchants criminels de l’Europe démocratique, Lagrasse, Verdier, 2003. Contro la pretesa di Milner di evidenziare «la legge di illimitazione propria della società moderna» (p. 16), Rancière obietta che tale analisi porterebbe a trasformare la società capitalista contemporanea in una «configurazione antropologica omogenea»5. Secondo lui bisogna invece distinguere due figure di illimitazione, che è impossibile sovrapporre o far derivare una dall’altra. Avremo quindi da una parte un cattivo infinito - quello dell’accumulo capitalista in senso stretto - e dall’altra unbuon infinito - quello dell’evoluzione dei costumi e delle forme contemporanee di consumo e divertimento. Dietro la critica radicale del modo di vita capitalista e del suo individualismo narcisista (come quella che emerge per esempio, fa notare Rancière, dalle analisi di Daniel Bell e Christopher Lasch), sarebbe quindi il caso di comprendere tutto un altro discorso: quello dell’odio per la democrazia.
Per rafforzare questa dialettica di sapore proudhoniano (il capitalismo avrebbe lati positivi e lati negativi), Rancière ricorre a un’argomentazione unica ma essenziale. A suo parere i tratti fondamentali di questa denuncia falsamente “moderna” della società dei consumi sarebbero in realtà già integralmente presenti nella celebre critica della democrazia ateniese formulata da Platone nell’ottavo libro dellaRepubblica:
Non manca niente [...] - scrive dunque Rancière - al catalogo dei mali che all’alba del terzo millennio ci procura il trionfo dell’uguaglianza democratica: regno del bazar e delle sue merci variopinte, uguaglianza tra maestro e scolaro, rinuncia all’autorità, culto della giovinezza, parità uomini-donne, diritti delle minoranze, dei bambini e degli animali. La lunga condanna dei misfatti dell’individualismo di massa nell’epoca della grande distribuzione e della telefonia mobile non fa che aggiungere qualche accessorio moderno alla favola platonica dell’indomabile asino democratico (pp. 46-47) (d).
A questo punto la conclusione sembra imporsi da sola: se da una parte il capitalismo non esisteva ancora ad Atene (come non sarà un problema ammettere), e se Platone era un accanito avversario della democrazia (cosa altrettanto ammissibile), com’è possibile non dedurne che la critica «della grande distribuzione e della telefonia mobile», dietro una maschera di anticapitalismo, non derivi innanzitutto da un odio per la democrazia? Questa argomentazione esige tuttavia due osservazioni.
La prima è puramente formale e riguarda i limiti dell’utilizzo comparativo dei testi antichi. Applicando il metodo di Rancière si potrebbe dimostrare altrettanto bene che la critica ecologista della civiltà dell’automobile (e dell’urbanizzazione delirante che ne è la conseguenza) non ha assolutamente nulla a che vedere con quella del capitalismo moderno, dal momento che già Giovenale nelle Satire denunciava il problema insolubile del traffico a Roma (e). La seconda osservazione è di tipo filosofico e si basa sull’interpretazione della politica platonica proposta da Rancière. Questi infatti trascura due punti importanti. Da una parte la critica della Città democratica elaborata da Platone acquisisce tutto il suo senso solo se ricondotta all’interno della teoria della decadenza della Città ideale, di cui non rappresenta che una tappa (dopo quella della timocrazia e dell’oligarchia, e prima di quella della tirannia). Dall’altra, e soprattutto, il principio di questa dialettica discendente è proprio il ruolo crescente che la logica mercantile è indotta progressivamente a svolgere nella storia ciclica del mondo, logica di cui Platone aveva perfettamente compreso l’essenza (nello scambio mercantile - scrive nel secondo libro dellaRepubblica - ognuno cerca innanzitutto di «soddisfare il proprio interesse»). Il fatto che il capitalismo, in quanto progetto ideologico di fondare la società sulla generalizzazione della logica mercantile, sia effettivamente inconcepibile prima della comparsa dell’economia politica (come dell’ideale della scienza newtoniana) nel XVIII secolo non significa evidentemente che i rapporti mercantili non fossero presenti sin dalla più remota antichità; e quindi neppure che fosse impossibile cogliere sin da allora alcune delle implicazioni antropologiche fondamentali. Di fatto è innanzitutto in questa critica dello scambio mercantile e del corrispondente desiderio di ricchezza che vanno ricercate le fonti primarie di quella condanna della pleonexia (la volontà di possedere sempre di più) che sta al centro della filosofia politica platonica (f). Soltanto in un secondo momento «l’uomo dai desideri illimitati» potrà trovare nella Città democratica una forma particolarmente adeguata alla sua essenza (ma ricordiamo che il tiranno, e non il dèmos, a rappresentare per Platone la figura ultima dell’uomo “pleonettico”). In altri termini, e al contrario di Rancière, Platone nelle sue analisi politiche si guardava bene dal dimenticare che l’Agorà non era solo il luogo in cui si teneva l’assemblea del Popolo. Come tutti sanno, per gli ateniesi era anche la piazza del Mercato. Certo, la critica platonica della democrazia mercantile è innanzitutto quella di un aristocratico ostile ai ceti popolari, che considera il dèmos come il depositario privilegiato (ma non esclusivo) della pleonexia mercantile. Sotto questo aspetto sarebbe del tutto assurdo arruolare Platone sotto il vessillo di un qualunque socialismo (è noto che tentativi del genere sono stati compiuti, in particolare nel XIX secolo). Ma non bisogna neppure stupirsi che questa critica aristocratica della logica mercantile abbia consentito a Platone di descrivere correttamente alcune conseguenze umane, già percepibili all’epoca, del desiderio smodato di accumulare ricchezze e del perseguimento dell’interesse egoistico (e questo naturalmente si applicherebbe anche all’analisi aristotelica della crematistica, particolarmente ammirata da Marx).
Non avendo capito (o non avendo voluto capire) questa natura complessa della posizione platonica (indissolubilmente antipopolare e antimercantile), Rancière si complica oltremodo il compito di pensare il liberalismo nella sua effettiva unità dialettica.
È probabilmente il motivo per il quale si trova inevitabilmente condotto a riprendere a modo suo (in forma molto più seducente, questo è vero) il vecchio ritornello dei liberali moderni secondo il quale ogni critica radicale del modo di vita capitalista («della grande distribuzione e della telefonia mobile») sarebbe segretamente animata da un profondo odio per la democrazia e dall’aspirazione a un mondo elitario, per non dire totalitario. A questo punto non meraviglierà il successivo destino del saggio in questione, che durante la campagna presidenziale del 2007 ha finito per diventare la bibbiaufficiale di Ségolène Royal e il principale riferimento ideologico di tutti i suoi blog elettorali. Alla luce della sua opera passata, degna della massima stima, questo è un destino che Rancière non meritava certamente.
(a) In virtù della complementarietà costitutiva dei due momenti filosofici del liberalismo, la loro opposizione dialettica tende sempre ad attenuarsi nelle politiche governative concrete.
La sinistra moderna, una volta salita al potere, finisce quindi in genere per allearsi con l’economia di mercato, mentre la destra, quando ritorna, si rassegna il più delle volte a inscrivere nel marmo della legge le varie tappe, giudicate ineluttabili, dell’“evoluzione dei costumi”. In L’ideologia tedesca si trova una descrizione profetica di questa divisione contemporanea del lavoro tra le frazioni di sinistra della classe dominante (quelle che controllano le sfere “culturali” del Capitale) e le frazioni di destra (quelli che ne controllano le sfere economiche). «La divisione del lavoro [...] si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che meta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe»6.
(b) Come chiunque può constatare, laddove le società totalitarie si attenevano al principio semplicistico, e costoso in termini di vite umane, del partito unico, il capitalismo contemporaneo gli ha sostituito, con molta più eleganza (ed efficacia) quello dell’alternanza unica.
(c) Conosciamo tutti il vantaggio che la sociologia di Stato continua a trarre da questo curioso teorema della nuova Sinistra. Su questo piano l’opera più completa resta incontestabilmente quella di Baudelot ed Establet, Le niveau monte, Paris, Seuil, 1989. La loro tesi fondamentale è facile da rammentare, come tutte quelle della Sinistra moderna: più il capitalismo trasforma la Scuola in funzione dei propri esclusivi criteri economici, più l’intelligenza critica degli alunni tende ad aumentare (rendendoli per esempio man mano impermeabili alla propaganda pubblicitaria, all’industria del divertimento e alla manipolazione mediatica). Questo schema aprioristico può naturalmente venir applicato a tutti i settori, senza che vi sia necessità di imbarcarsi in grandi indagini empìriche.
(d) Come Rancière sa benissimo, la critica dell’egoismo liberale e dell’atomizzazione della società costituì del nucleo delle prime rivolte socialiste. Per aggirare questo ostacolo, cioè per rimanere su posizioni di sinistra,l’autore è quindi costretto a presentare il socialismo delle origini come un semplice passaggio tra i tanti della politica controrivoluzionaria. La critica dell’individualismo liberale - scrive infatti - è «cominciata con i teorici della controrivoluzione all’indomani della Rivoluzione francese [e]ripresa dai socialisti utopistici nella prima metà del XIX secolo» (p. 21). Poco più avanti, inforcando il cavallo alato di Nicolas Baverez, Rancière si spinge sino a riconoscere in quella critica «la denuncia molto francese della rivoluzione individualista che lacera il corpo sociale» (p. 23). Non dimostra grande considerazione nei confronti di Marx.
(e) Un esempio particolarmente simpatico e spassoso di questo vecchio procedimento retorico è presente nell’ultimo libro di Lucien Jerphagnon, Laudator temporis acti: c était mieux avant, Paris, Taillandier, 2007, destinato a dimostrare al grande pubblico che le deplorazioni nei confronti di come è diventato il mondo sono una costante della psicologia umana. E' il caso di rilevare qui la sbalorditiva schizofrenia ideologica degli spin doctors del progressismo. Da una parte infatti esortano instancabilmente le classi popolari ad adattare le loro mentalità “arcaiche” a un mondo che si presume in perenne cambiamento (in cui “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”). Dall’altra, però, ogni volta che si trovano a dover affrontare la minima critica puntuale su questo o quell’aspetto dello sviluppo capitalista (il riscaldamento del clima, l’avanzata dell’egoismo, l’aumento della criminalità, l’invadenza crescente della pubblicità, eccetera) riesumano la posizione del saggio tradizionale e rispondono con un sorriso indulgente che non vi è nulla di nuovo sotto il sole, che le cose sono sempre state uguali a se stesse e che tutte quelle critiche sono infondate dal momento che, insomma, sono vecchie quanto l’umanità. E' quello che Orwell in1984 chiamava il bipensiero.
(f) Nell’opera di Platone la figura che incarna in maniera emblematica l’uomo della pleonexìaè quella di Gige, la cui invisibilità gli rende impossibile soddisfare i propri limitati desideri. La scelta di Platone (che si ispira a un mito di Erodoto) non è certo innocente. Gige era infatti il presunto antenato di quel leggendario re di Lidia che tutta la tradizione greca era concorde nel considerarel’inventore del denaro. E' questo un dettaglio che stona un po’ con la tesi di Rancière in base alla quale la denuncia platonica della pleonexìasarebbe innanzitutto connessa alla critica delle regole democratiche. Per quanto mi riguarda continuo a ritenere che l’invenzione della moneta sia più connessa allo scambio economico che al potere del dèmos.
[H]
Ma quale via rivoluzionaria, ce n’è forse una? Ritirarsi dal mercato mondiale, come consiglia Samir Amin ai Paesi del Terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della “soluzione economica” fascista? Oppure andare in senso contrario? Cioè andare ancor più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora abbastanza deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano,“accelerare il processo”, come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla (a).
Queste righe profetiche di Deleuze e Guattari (che legittimano anticipatamente tutti i capovolgimenti teorici e pratici che ben presto sarebbero stati quelli della nuova sinistra al potere) (b) costituiscono probabilmente la formulazione filosofica più coerente del programma liberale contemporaneo (come appare evidente nell’impiego pratico che seguita ostinatamente a farne un Toni Negri): quella che insomma corrisponde al momento storico in cui, dopo aver finalmente evitato i principali ostacoli politici e culturali al suo illimitato sviluppo, il liberalismo può finalmente funzionare sulle proprie basi e in funzione della propria esclusiva logica, diventando così il liberalismo realmente esistente.«Un giorno il secolo sarà deleuziano», scriveva Foucault. Non poteva sapere quanto aveva ragione.
(a) G. Deleuze e F. Guattari,L’Anti-Œdipe, Paris, Éditions de Minuit, 1972 (trad. it. di A. Fontana,L’antiedipo, Torino, Einudi, 1975). Un marxista un po’ meccanicista potrebbe far notare che quest’opera avrebbe avuto il successo che sappiamo nel momento stesso in cui la Commissione trilaterale iniziava a riflettere sul nuovi problemi in cui si imbatteva la “governabilità” del capitalismo contemporaneo. Si tratta di un aspetto che Michel Clouscard ha colto, a modo suo, sin dal 1973 (Néo-fascisme et idéologie du désir, trad. it. di F. Tannino, I tartufi della rivoluzione: neofascismo e ideologia del desiderio, Roma, Editori Riuniti, 1975). Su questo problema del recupero dell’ideologia deleuziana da parte del “nuovo spirito del capitalismo” si consulteranno anche le decisive analisi di Luc Boltanski ed Eve Chiapello (Le Nouvel Esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999).
(b) Si noti che questo testo contiene anche uno dei primissimi esempi di utilizzo contemporaneo del concetto di “fascismo” per indicare le nuove strategie socialiste di rottura con le leggi del Mercato mondiale. Se Deleuze e Guattari non parlano di “populismo” (come oggi farebbe qualsiasi intellettuale di sinistra) è semplicemente perché all’epoca la parola apparteneva ancora al vocabolario rivoluzionario (cfr. La causa del popolo di Jean-Paul Sartre, battezzato così in omaggio alla rivista populista di George Sand).
1 G. Debord, Lettre à Mezioud Ouldamer de décembre 1985 sur la “question des immigrés”, inCorrespondance, vol. vi, Paris, Librairie Arthème Fayard, 2007, p. 363. Sulla questione dell’appartenenza a una comunità, osservazioni interessanti sono contenute nell'opera più recente di Pierre Manent, La Raison des nations, Paris, Gallimard, 2006 (trad. it. di F. Anghelé, In difesa della nazione. Riflessioni sulla democrazia in Europa, Catanzaro, Rubbettino, 2008).
2 Gli estimatori dello humour involontario si affretteranno a leggereApologie du casseur, di Serge Roure, Paris, Michalon, 2006, opera di una semplicità intellettuale rinfrancante, scritta all’apparenza da un sostenitore del servo arbitrio luterano e della sociologia di Laurent Mucchielli.
3 Uno dei migliori studi dedicati alle trasformazioni culturali che hanno preparato il trionfo della rivoluzione liberale in Francia (e quindi la nascita della nuova sinistra) è quello di Kristin Ross, Fast Cars, Clean Bodies: Decolonization and the Reordering of French Culture, Cambridge (Mass.), mitPress, 1995. L’autrice sottolìnea tra l’altro il ruolo decisivo svolto in questo processo storico dall’esperienza con Pierre Mendès France, dallo sviluppo della pubblicità e dell’automobile e dalla comparsa di una nuova stampa femminile (in particolare della rivista «Elle»).
4 J. Rancière, La Haine de la démocratie, Paris, La Fabrique, 2005 (trad. it. di A. Moscati, L'odio per la democrazia,Napoli, Cronopio, 2007).
5 Ivi, p. 39.
6 Marx, Engels, L'ideologia tedesca...cit., p. 36.
EGOISMO E COMMON DECENCY
La scommessa liberale, come abbiamo visto, è di una semplicità biblica. Si basa sulla convinzione che resta sempre possibile scongiurare la guerra di tutti contro tutti e dar vita a una società libera, pacifica e prospera, anche nell’ipotesi in cui gli individui agiscano solo in funzione del loro interesse personale. Per questo è sufficiente incanalare l’energia dei “vizi privati” a vantaggio della comunità, delegando l’armonizzazione dei comportamenti individuali ai meccanismi neutri e impersonali del Diritto e del Mercato. Questa soluzione implica in compenso che i valori morali — dai quali le varie civiltà del passato avevano attinto parte della loro ragion d’essere - siano ormai cacciati via dallo spazio pubblico. Come ognuno potrà constatare, ai giorni nostri la maggior parte dei liberali si è completamente adeguata a questa esclusione costitutiva. Persuasi in genere, sulla scia di Lysander Spooner, che sia impossibile «che qualcuno - tranne ogni individuo per sé — tracci un qualsiasi confine netto, o qualcosa di simile a un confine netto, tra virtù e vizio» [A], hanno visto piuttosto in quel sacrificio fondatorel’occasione ideale per congedare finalmente la morale «dei vecchi filosofi morali»1. Da questo punto di vista (e con l’eccezione degli economisti in senso stretto, la cui attività principale consiste proprio nel matematicizzare l’ipotesi egoistica), Ayn Rand è probabilmente la persona che nel XX secolo ha saputo farsi carico con la maggior fermezza delle estreme implicazioni morali del paradigma liberale. Un’etica capitalista coerente - scrive — «propugna e sostieneorgogliosamente l’egoismo razionale» [B]. L’imperturbabile tranquillità di coscienza con la quale i prìncipi dell’economia moderna sfruttano e licenziano i dipendenti precari, accumulano profitti surreali, delocalizzano le imprese, commerciano con le dittature, saccheggiano l’ambiente, falsificano la contabilità o, quando tutto è finito, aprono con disinvoltura i loro paracadute dorati, trova certamente in questo “egoismo razionale” il suo più prezioso supporto psicologico.
Ridurre la filosofia morale del liberalismo a questa glaciale apologia dell’egoismo individuale d’altro canto potrebbe sembrare ingiusto (anche se le sue principali condizioni intellettuali si trovano già nell’utilitarismo benthamiano2). La preoccupazione iniziale dei liberali non era forse innanzitutto bandire dalla vita politica anche solo i riferimenti a una concezione comune della morale e della vita retta [C]? Di per sé tale posizione non esigeva nient’altro che laprivatizzazione dei valori morali, religiosi o filosofici, e assolutamente non la loro abolizione. In teoria ciascuno restava quindi libero (come abbiamo visto nell’esempio di Bastiat) di preferire a titolo personale un comportamento generoso a uno egoista, sempre che questo tipo di distinzione mantenesse un senso per lui. E' però il caso di domandarsi in che misura si tratta di una soluzione autenticamente coerente. Nell’ottica liberale, infatti, un individuo altruista e preoccupato del bene comune rappresenta per definizioneun’eccezione alla natura umana3. Tale scelta privata — partendo dal presupposto che non mascheri a sua volta interesse o amor proprio - è quindi già destinata a restare il privilegio (del resto assai misterioso) di una ristretta élite. Ma soprattutto, sarebbe una scelta poco coerente. Se il perseguimento da parte di ognuno del proprio giusto interesse rappresenta il modo migliore di servire la propria comunità di appartenenza (il che costituisce il credo fondamentale del liberalismo dai tempi di Adam Smith), un liberale preoccupato del bene comune dovrebbe, secondo la logica, obbligarsi ad agire da egoista per dare un contenuto reale ai propri convincimenti morali. I liberali dal volto umano sono quindi comunque condannati a rientrare nei ranghi4.
Tuttavia queste difficoltà interne non sono le più preoccupanti. L’ideale di “neutralità assiologica”, che sostiene filosoficamente le costruzioni del liberalismo, solleva problemi ben più fondamentali. Se infatti i liberali si rassegnano così tranquillamente all’idea di un’abolizione definitiva dei valori tradizionali (il liberalismo si presenta sempre come una macchina da guerra contro i vari “conservatorismi”), lo fanno in quanto persuasi che i meccanismi riequilibranti del Mercato è del Diritto moderno siano sufficienti da soli a generare tutte le disposizioni culturali indispensabili all’integrazione comunitaria degli individui. Tale intimo convincimento si basa su due postulati ideologici che non sono sempre chiaramente esplicitati (eccetto beninteso nell’opera degli economisti). Esso presuppone innanzitutto che la condizione necessaria e sufficienteper istituire un ordine umano efficace stia nell’attitudine degli individui a sottoporsi alle logiche del Mercato e del Diritto; e cioè essenzialmente a fare affari e rispettare contratti. Presuppone inoltre che tale atteggiamento salutare sia per forza di cose “naturale”, dal momento che all’apparenza non richiede nient’altro se non la facoltà (a sua volta ritenuta naturale) di agire secondo il proprio giusto interesse. Ora, questa assiomatica dell’interesse, venutasi a creare nelle condizioni specifiche del XVII secolo europeo, è di per se stessa tutt’altro che scontata. Se la si esamina alla luce dei capisaldi fondamentali dell’antropologia moderna, può persino sconcertare per la sua ingenuità psicologica, e ancor più per il suo conclamato etnocentrismo.
Il Mercato, il Diritto (e lo Stato stesso) costituiscono in effetti forme di socializzazione necessariamentesecondarie; e non solo nel senso che sono comparsi in epoca relativamente tarda nella storia dell’umanità, ma soprattutto perché possono funzionare e riprodursi solo a partire da condizioni antropologiche già date, di cui sono di per se stessi strutturalmente incapaci di offrire il minimo equivalente moderno. La semplice possibilità pratica di stabilire scambi economici e contratti giuridici (le due grandi modalità della logica del do ut des)presuppone così che tra gli individui che decidono di privilegiare questi rapporti particolari sussista un certo grado difiducia preliminare e di conseguenza l’esistenza minima, presso le varie parti, dipredisposizioni psicologiche e culturali alla lealtà. Ora, come conferma ampiamente la vasta letteratura dedicata al “dilemma del prigioniero” [D] (e come a dire il vero sappiamo sin da Hobbes), nessun calcolo razionale, cioè nessun calcolo radicato solo nell’assiomatica dell’interesse, potrà mai consentire a individui che si suppone egoisti di penetrare spontaneamente nel cerchio magico della fiducia e quindi di concordare la soluzione migliore per loro (il famoso scambio “vincente-vincente”). Come riconosce l’economista Ian O. Williamson, «una fiducia basata sul calcolo costituisce una contraddizione in termini»5. La fiducia - che svolge invece un ruolo centrale nella vita delle comunità tradizionali, come si osserva per esempio attraverso la pratica del giuramento o l’importanza attribuita alla parola data -trova in realtà le proprie autentiche condizioni di possibilità psicologiche e culturali solo all’interno dei giochi infinitamente complessi e variati della socialità primaria (secondo l’espressione di Alain Caillé), giochi che come è noto sono essenzialmente basati sul triplice “obbligo” tradizionale (che non è né economico né giuridico) di dare, ricevere e ricambiare. Questa logica del dono, che Mauss è il primo ad aver collocato nel cuore dell’approccio sociologico, suscita indubbiamente interpretazioni molteplici (ed eventualmente contraddittorie6). Ma in ogni caso essa implica il primato del cicloo della relazione sugli individui (indipendentemente dal fatto che tale primato sia conscio o inconscio), vincolando così a inscrivere nel cuore del soggetto umano stesso quella dimensione di indebitamento simbolico che costituisce uno dei fondamenti essenziali della sua incompletezza costitutiva [E].
Questo ciclo del dono, che in un certo senso definisce il “momento fondatore della società”, non va naturalmente confuso con una manifestazione della morale nel senso stretto del termine. In un certo modo però, come osserva Jacques T. Godbout, si può considerare che ne «riveli il momento fondatore»7. Quella che George Orwell chiama common decency8acquista perciò la propria vera coerenza filosofica solo una volta posta in questa particolare luce antropologica. I numerosi esempi concreti riportati da Orwell ben dimostrano infatti che questo concetto politicamente cruciale non rimanda mai a una qualsiasi metafisica (o teologia) del Bene; in altri termini, a un' ideologia morale tra le altre. La sua preoccupazione costante, attraverso l’impiego di quel concetto intenzionalmente vago e impreciso, è al contrario quella di radicare il più profondamente possibile all’interno della pratica socialista le virtù umane di base, la cui dimenticanza, rifiuto o disprezzo hanno sempre costituito il segno distintivo delle ideologie e degli uomini di potere. Tali virtù o predisposizioni psicologiche culturali alla generosità e alla lealtà (e che in fin dei conti si riducono alla nostra capacità personale di dare, di ricevere e di ricambiare) ammettono naturalmente un numero illimitato di traduzioni particolari e variano a seconda delle diverse civiltà e dei diversi contesti storici9. Ma è proprio questa traducibilitàpermanente che fonda in ultima analisi il loro carattere universalizzabile, in contrasto con le semplici ideologie del Bene che possono espandere il loro impero singolare (per non dire mondializzarsi) solo secondo la modalità privilegiata della crociata e della conversione. In compenso la negazione di tali virtù elementari si manifesta sempre in forma identica: quella dell’egoismo e del calcolo, condizioni storicamente immutabili della volontà di potenza e quindi di tutti i tradimenti che invariabilmente l’accompagnano [F],
Non è difficile a questo punto prevedere il tipo di impasse di civiltà nel quale ogni programma di modernizzazione integraledella vita proietta necessariamente l’umanità futura. Estendendo all’insieme dei comportamenti umani la logica del do ut des (quella che per evitare il peggio deve sempre scegliere il male minore), di fatto questo programma non può che invitare allo smantellamento metodico di tutte le condizioni antropologiche che,entro certi limiti ben precisi, avrebbero potuto permettere ai meccanismi del Mercato e del Diritto moderno di funzionare (quanto meno parzialmente) secondo le aspettative della teoria liberale. Del resto è proprio questo fenomeno che permette di spiegare come il sistema capitalista sia stato in grado di operare, fino a un’epoca relativamente recente, con una certa efficacia, mostrandosi ancora capace per esempio di produrre merci di qualità e talvolta anche realmente utili al genere umano. Come scriveva Castoriadis, questo si deve semplicemente al fatto che tale sistema «aveva ereditato una serie di tipi antropologici che non aveva creato e non avrebbe potuto creare da solo: giudici incorruttibili, funzionari integri e weberiani, educatori che si dedicano alla propria vocazione, operai con un minimo di coscienza professionale, eccetera. Questi tipi non emergono e non possono emergere da soli, sono stati creati in periodi storici precedenti, in riferimento a valori allora sacri e incontestabili: l’onestà, il servizio allo Stato, la trasmissione del sapere, l’opera degna, eccetera. Noi oggi viviamo in società in cui tali valori sono, com’è palese, diventati ridicoli, e in cui contano soltanto le quantità di denaro intascato, poco importa come, o il numero di comparse televisive accumulate. L’unico tipo antropologico creato dal capitalismo (inizialmente indispensabile per favorirne l’instaurazione) è stato l’imprenditore schumpeteriano: persona appassionata alla creazione di quella nuova istituzione storica, l'impresa, e al suo ampliamento costante tramite l’introduzione di nuovi complessi tecnici e nuove metodologie di penetrazione del mercato. Ebbene, anche questo tipo è stato distrutto dall’evoluzione attuale; per quanto riguarda la produzione, l’imprenditore è stato sostituito da una burocrazia manageriale; per quanto riguarda il denaro, le speculazioni in borsa, le opa, le intermediazioni finanziarie fruttano molto di più delle attività “imprenditoriali”. Perciò mentre assistiamo, attraverso la privatizzazione, al disfacimento crescente dello spazio pubblico, constatiamo la distruzione dei tipi antropologici che hanno condizionato l’esistenza stessa del sistema»10. Esortando continuamente gli uomini a diventare “attori razionali”, le cui scelte esistenziali dovrebbero trovare tutte il proprio modello nell’assiomatica dell’interesse e nel calcolo strategico [G] (dal momento che in fin dei conti è proprio questo il significato ultimo di tutti quegli appelli incessanti al “necessario adattamento delle mentalità alle evoluzioni del mondo moderno”), la logica liberale finisce quindi non solo per distruggere gradualmente le condizioni di ogni civiltà e di ogni decenza comune [H], ma induce paradossalmente a mettere a repentaglio il funzionamento efficace dei propri circuiti fondatori, a rischio di reintrodurre a tutti i livelli dell’esistenza sociale quella guerra di tutti contro tutti (sotto la duplice forma,per cominciare, della guerra economica della guerra giuridica) il cui definitivo superamento era stato teoricamente la sua ragion d’essere iniziale.
Tuttavia, dal momento che una società priva di ogni dispositivo normativo resta, fino a prova contraria, un’impossibilità antropologica, la vecchia “macchina per fabbricare gli dèi” è destinata per forza a rientrare in servizio. Esiste un solo modo, compatibile con la logica liberale, per ripristinare un minimo di riferimenti comuni senza compromettere la neutralità assiologica del Mercato e del Diritto, né il loro ruolo direttivo: è la deriva su quegli stessi meccanismi della domanda umana di senso e di dispositivi normativi. In una società liberale sviluppata è quindi inevitabile che la Crescita (l’altro nome del riscaldamento del clima) finisca per accedere allo statuto di imperativo categorico moderno (“agisci sempre in modo tale da poter consumare infinitamente di più e lavorare infinitamente di più”). Di contro, in parallelo, gli algidi meccanismi del Diritto astratto tendono necessariamente a diventare la base d’appoggio privilegiata di un nuovo moralismo particolarmente soffocante (quello dell’individuo “politicamente corretto” o “dotato di senso civico”), nel quale la figura sempre singolare dell’Altro è destinata a cedere il posto a quella dell'uomo senza qualità, irrisorio residuo metafisico della lotta “contro tutte le discriminazioni”.
Ma questa doppia mistica, inesorabilmente richiamata dalla fredda meccanica liberale, offre davvero quelsupplemento d’anima che manca per definizione a un sistema la cui ambizione negativa, sin dalle origini, è solo la ricerca del male minore? Vi sono tutte le ragioni per dubitarne. La conversione del Mercato e del Diritto in oggetti di cultonon possono che generare co-mandamenti ideologici di debolissimo interesse culturale (fate a gara nei consumi! Fate la comunione con la coscienza pulita!). Si tratta palesemente di una base “antropologica” troppo limitata per poter soppiantare completamente le dialettiche creatrici della socialità primaria e le norme di umanità radicate in esse. Tutti gli sforzi consentiti per mantenere larimozione di queste ultime avranno quindi alla lunga una sola conseguenza: il ritorno del rimosso antropologico sotto forma disofferenza psicologica permanente degli individui, sofferenza destinata ad aumentare al ritmo stesso della globalizzazione capitalista. Questa figura propriamente liberale del malessere nella civiltà non va certo confusa con le forme, peraltro inedite, di miseria sociale. Ma certo costituisce per ampiezza un fenomeno storico nuovo11, da cui, a giudicare dalla povertà umana della loro vita, le classi dirigenti e i loro pateticipeople (surrogato moderno degli antichi cortigiani) sono sicuramente gli ultimi a poter sperare di difendersi. Qui è probabilmente il caso di ricordare la lezione socialista di George Sand: non vi è vera felicità nell’egoismo.
1 «Non si dà infatti in questa vita né un finis ultimus (scopo ultimo) né il summum bonum (il massimo bene) di cui si parla nei libri dei vecchi filosofi morali»: T. Hobbes, Leviatano, trad. it. di A. Lupoli, M.V. Predaval e R. Rebecchi, Roma-Bari, Laterza, 1992, libro I, capitolo 11, p. 78.
2 II liberalismo di Adam Smith appare in un primo tempo difficile da dissolvere interamente nelle teorie radicali dell’egoismo razionale. Formatosi alla scuola di Hutcheson, Smith si è infatti sforzato per tutta la vita di riservare un posto alla “sympathy”, ocomprensione, nella formazione del legame sociale e della moralità individuale. E' questa, come si sa, l’origine di quello che i commentatori tedeschi hanno chiamato das Adam Smith Problem, cioè la questione dell’articolazione filosofica tra la Teoria dei sentimenti morali (1759) e la Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). Si noti tuttavia che quest’equilibrio necessariamente instabile tra il paradigma dell’egoismo e quello della comprensione finisce sempre per risolversi a vantaggio del primo. E' quanto meno la tesi che Serge Latouche presenta in maniera molto convincente (e a mio avviso definitiva) inL’invention de l’économie, Paris, Albin Michel, 2005 (ed. it. a cura di P. Montanari, L’invenzione dell’economia. L’artificio culturale della naturalità del mercato, Casalecchio, Arianna Editrice, 2005, pp. 79-125).
3 Tradotto nei termini dell’analisi economica liberale diremo, con Kenneth Arrow, che la «motivazione altruista» è una «risorsa rara».
4 Di qui le contraddizioni psicologiche apparentemente insolubili di tutti coloro che, sull’esempio di un Constant o di un Tocqueville, si rassegnano al trionfo della società mercantile, pur restando profondamente estranei al suo spirito. Nel caso di Benjamin Constant la letteratura sarà il mezzo privilegiato per farsi carico dì tali contraddizioni. Una soluzione molto più semplice consiste evidentemente nell’adottare la posizione schizofrenica dei sostenitori della destra tradizionale i quali, come dice il critico americano Russell Jacoby, «venerano il Mercato pur maledicendo la cultura che esso genera» (e il cui esatto contraltare ideologico è quella sinistra contemporanea che afferma di combattere la logica del Mercato - anche se effettivamente sempre più di rado - soltanto per prosternarsi con entusiasmo dinanzi alla cultura che esso genera).Tutti conosciamo da decenni gli effetti politici di questa alternativa truccata e l’interesse insito dal punto di vista del sistema capitalista a presentarla come “insuperabile” e necessaria alla “chiarezza del dibattito democratico”.
5 Citato da André Orléan nel suo articolo Sur le rôle respectif de la confiance et de l’intérêt dans la constitution de l’ordre marchand pubblicato sulla rivista del mauss nel 1994.
6 Il nucleo comune di tutte queste interpretazioni è l’idea che vi può essere dono soltanto ove la reciprocità non costituisca mai un obbligo giuridico o economico. La libertà di ricambiare o meno (a prescindere dalle modalità e delle motivazioni) è quindi il cuore del ciclo, il che ne rende impensabile la struttura in termini puramente deterministici. Aggiungiamo che “lo spirito” con il quale viene donata qualche cosa va anch’esso tenuto in considerazione (il che di nuovo esclude qualsiasi approccio meccanicistico alla questione) e che il dono esiste naturalmente anche in forme agonistiche (dalla vendetta al potlatch passando per il dono di prestigio e il “regalo avvelenato”). A questo proposito consiglio la lettura della critica di Godbout e Caillé alle teorie, molto ambigue a dir poco, di Alain Testart, apparsa sulla rivista del mauss del secondo semestre 2002.
7 J.T. Godbout, Ce qui circule entre nous. Donner, recevoir, rendre, Paris, Seuil, 2007 (trad. it. di P. Gomarasca, Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare, Milano, Vita e Pensiero, 2008, p. 235). Uno dei grandi meriti di tutte le opere di questo studioso è che la sua critica dell’egoismo liberale è sempre basata su indagini e sperimentazioni precise. Riassumendo gli innumerevoli esperimenti realizzati dai ricercatori intorno al dilemma del prigioniero, Godbout osserva che essi contraddicono in massa il postulato ideologico liberale di Robert Axelrod «che vuole che la generosità sia molto rara e porti quasi sempre allo sfruttamento. Tocchiamo forse la vera contraddizione di questo approccio: fondate all’inizio sull’interesse egoista in nome del realismo, queste esperienze mostrano che, nella realtà, questo postulato rende scarsamente conto del comportamento degli attori» (Godbout, Quello che circola tra noi... cit., p. 274). Il metodo seguito da Godbout è anche quello di Joseph Henrich, il cui gruppo di ricerca ha avuto la brillante idea di sottoporre a una quindicina di società di cacciatori-raccoglitori una batteria di test paragonabili al dilemma del prigioniero. La loro conclusione è netta: «L’assioma dell’egoismo non è accertato in nessuna delle società studiate» (citato da Godbout, Quello che circola tra noi... cit., p. 276).
8 Un ottimo riassunto della questione è contenuto nell’articolo di Bruce Bégout, Vie ordinaire et vie politique. George Orwell et la common decency, pubblicato nella raccolta L’Ordinaire et le Politique, Paris, puf, 2006, pp. 99-119.
9 Ciò che differenzia il comportamento morale in senso stretto dai comportamenti tradizionali fondati sul senso dell’onore o sulle usanze è l' interiorizzazione degli obblighi del dare, ricevere e ricambiare: in altre parole, l’acquisizione della capacità di agire “secondo cuore e coscienza”, e non più soltanto in funzione dello sguardo altrui e della reputazione sociale. In questo senso la disposizione etica presuppone un certo grado di sviluppo storico del processo di individualizzazione e di “attenzione a se stessi”. Questa riappropriazione individuale dello spirito del dono (che costituisce l’essenza della morale, nel senso contemporaneo del termine) instilla nel soggetto autonomo possibilità di resistenza e di rivolta indubbiamente molto superiori a quelle di cui disponevano gli individui delle società tradizionali. Di qui la necessità liberale di decostruire costantemente tutte le figure del soggetto per neutralizzare gli effetti di questa “coscienza morale” che la modernità ha reso possibile con tutta se stessa.
10 C. Castoriadis, La Montée de l’insignifiance, Paris, Seuil, 1996, p. 68.
11 A questo proposito si potranno consultare le numerose opere ispirate alla psicanalisi — come per esempio quelle di Jean-Pierre Lebrun, Charles Melman o Dany-Robert Dufour - che tentano in diversi modi di esplorare la “nuova economia psichica” generata dal modo di vita liberale generalizzato. E' chiaro infatti che la rimozione della relazionalità primaria non può che produrre effetti specifici nell’inconscio dei soggetti. Sappiamo per esempio che quelli che nel nome della loro preziosa differenza rifiutano sistematicamente di piegarsi alla minima usanza (vale a dire a ogni modo di vivere condiviso) tendono generalmente a sviluppare in compenso un gran numero di manìe individuali (che altro non sono che usanze e cerimonie private) e soprattutto un grande potenziale di odio e di collera (auto)distruttiva. Ecco che nel suo La Perversion ordinaire. Vivre ensemble sans autrui, Paris, Denoël, 2007, Jean-Pierre Lebrun analizza in maniera illuminante il caso di Richard Durn, figura esemplare di quell 'uomo senza qualità che le società liberali fabbricano ormai su grande scala. Molte indicazioni preziose si trovano anche nel saggio di Èva Illouz,Les Sentiments du capitalisme, Paris, Seuil, 2006, che si sforza per l’appunto di descrivere la nuova configurazione emotiva indotta dalla generalizzazione del paradigma liberale (analizzando tra l’altro le nuove forme di rapporto con gli altri strutturalmente imposte da Internet). Sotto questo aspetto sarebbe interessante studiare il modo in cui la rimozione della socialità primaria (in cui predominano i rapporti faccia a faccia) spinge un numero crescente di individui a ricercare in un universo virtuale la possibilità compensatoria di una second life, il cui prezzo è la scomparsa del soggetto reale a vantaggio del suo avatar.Su tutte queste tematiche l’opera di riferimento resta naturalmente quella di Lasch, La cultura del narcisismo... cit.
NOTE
[A]
L. Spooner, Vices Are Not Crimes(1875), trad. it. di C. Ruffini, I vizi non sono crimini, Macerata, Liberilibri, 1998, p. 5. Secondo Spooner i vizi sono «quelle azioni attraverso le quali un uomo danneggia se stesso o i propri averi», mentre i crimini sono «azioni con le quali un uomo danneggia la persona o gli averi di un altro». Una società liberale quindi dovrebbe limitarsi a perseguire questi ultimi, disinteressandosi totalmente della questione puramente soggettiva dei “vizi”. Tuttavia, poiché il fatto di “nuocere ad altri” costituisce, come abbiamo visto, un criterio estremamente difficile da maneggiare (pensiamo per esempio al diritto di sciopero nei servizi pubblici, dove bisogna tener conto nel medesimo tempo dei punti di vista del lavoratore, dell’impresa e dell’utente), è inevitabile che in linea di principio il concetto di “crimine” o reato finisca per poter essere applicato a qualsiasi affermazione (pubblica o privata) o a qualsiasi comportamento (per esempio accendere una sigaretta per la strada o esortare la gente a seguire un’alimentazione equilibrata) (a). Quello che evidentemente Spooner non aveva previsto è che una società libera da tutti i “pregiudizi” morali sarebbe improvvisamente condannata a vedere reati ovunque.
(a) Sappiamo che in Francia varie associazioni di persone obese esigono per questo l’abolizione delle campagne di informazione sulla necessità di un’alimentazione equilibrata, sostenendo che nuocciono gravemente all’immagine che hanno di se stesse e alla loroautostima. All’opposto, i militanti diVeggie Pride denunciano lo “specismo” (ossia la discriminazione verso gli animali, la cui l’alimentazione carnivora rappresenta ai loro occhi una forma particolarmente rivoltante e fascista) ed esigono che la “vegetofobia” venga riconosciuta come un reato vero e proprio.
[B]
A. Rand, The Virtue of Selfishness, New York, New American Library, 1964 (trad. it. di N. Iannello, La virtù dell’egoismo, Macerata, Liberilibri, 1999, p. 34). Ayn Rand (1905-1982) è un personaggio fuori dal comune sotto tutti i punti di vista. Non solo naturalmente per la radicalità delle sue posizioni liberali (a), ma anche perché questa instancabile pasionaria del capitalismo (ancor oggi una degli autori più letti negli Stati Uniti) ha esercitato uno strano fascino su una parte dell’estrema sinistra, in particolare grazie all’adattamento cinematografico di King Vidor del suo bestseller, La fonte meravigliosa1. Questo romanzo, pubblicato nel 1943, celebra infatti al tempo stesso (e con grande coerenza) le virtù del capitalismo e quelle dello spirito ribelle.Se appena si identifica il liberalismo con un’ideologia “conservatrice” e “patriarcale” (secondo la contraddizione abituale degli intellettuali di sinistra), si è dunque tentati di serbarne solo il secondo elemento. Pubblicato a puntate su «Combat», La Source vive2 eserciterà allora un’influenza decisiva su Ivan Sceglov e i suoi amici dell''Internationale lettriste, e quindi indirettamente sulle posizioni iniziali di Guy Debord e del movimento situazionista3. Bisogna anche sottolineare le convergenze filosofiche importanti (e molto rivelatrici) tra l’“etica oggettivista” sostenuta dalla Rand e il “nietzschismo di sinistra” di Michel Onfray.
(a) «Il metodo più giusto per valutare se e quando sia il caso di aiutare un’altra persona consiste nel fare riferimento al proprio interesse razionale e alla propria gerarchia di valori: il tempo, il denaro, il lavoro che si concedono o il rischio che ci si assume dovrebbero essere proporzionati al valore della persona soccorsa in relazione alla propria felicità.Usiamo l’esempio preferito dagli altruisti, ossia la questione del soccorrere una persona in procinto di annegare, per illustrare il concetto appena esposto. Se la persona da salvare è un perfetto estraneo, è moralmente corretto soccorrerla solo se il pericolo per la propria vita è minimo. Se il pericolo è grande, tentare il soccorso sarebbe immorale: solo una completa mancanza di stima di sépuò permettere di valutare la propria vita quanto quella di un qualsiasi estraneo (e, d’altra parte, se stiamo annegando, non possiamo aspettarci che un estraneo rischi la vita per il nostro bene, in quanto la nostra vita non può essere, ai suoi occhi, importante quanto la sua)» (Rand, La virtù dell'egoismo, cit., pp. 44-45). La filosofìa di Ayn Rand non permetterà forse di capire le motivazioni di Jean Moulin, ma se non altro adesso conosciamo almeno il contenuto delle letture serali di Laurence Parisot.
[C]
La repulsione dei liberali per tutte le «norme promulgate in comune» (secondo l’espressione di Daniel Boriilo) va ben al di là delle sole norme morali, filosofiche e religiose (a). Per esempio, la semplice esigenza di un’ortografia comune, le cui regole dovrebbero essere padroneggiate da tutti, viene per forza di cose vissuta da un “educatore” liberale come un intervento arbitrario dello Stato, incompatibile con il genio creativo spontaneo degli alunni(b). Ma non basta. In un’ottica liberale, è l’atto educativo in sé che tende a diventare problematico. La pretesa di insegnare qualche cosa qualcuno (al di fuori delle leggi del Mercato, dei diritti dell’individuo e dei saperi strettamente tecnici, sole forme dell’ideale di universalità oggettivamente fondate) (c) è per definizione sempre sospetta. Infatti è più facile vedervi un modo mascherato di imporre al prossimoquella che non è altro che un’opinione privata, di diritto sempre smontabile. Ecco perché la maggioranza dei sociologi liberali (e sul loro esempio molti genitori della fcpe4) sono da tempo concordi nel presentare la Scuola (o quanto meno ciò che ne resta) come il terreno privilegiato di una “violenza simbolica” costantemente esercitata sul bambino, in nome della pretesa “elitaria” di alcuni adulti di detenere un sapere, un’esperienza e una cultura la cui trasmissione sarebbe necessaria alla sua umanizzazione. E evidente che queste osservazioni sono trasferibili a maggior ragioneall’educazione familiare stessa (d).
(a) È noto che la sopravvivenza (molto provvisoria) di usanze e ritmi sociali collettivi rappresenta agli occhi dei liberali una grave minaccia per la libertà individuale. E il caso per esempio dell’istituzione del riposo domenicale, come Marx aveva già sottolineato nel suo capitolo sulla «lotta per la giornata di lavoro normale» (Il capitale, libro i, capitolo 10).
(b) Sulla necessità politica di una corretta padronanza della lingua comune si leggerà con interesse il saggio che Jacques Dewit-te ha dedicato alle teorie di George Orwell, Victor Klemperer, Aleksander Wat e Dolf Sternberger (Le Pouvoir de la langue et la Liberté de l'esprit. Essai sur la résistanceau langage totalitaire,Paris, Michalon, 2007). Quanto a quelli che si ostinano a sostenere che la difficoltà incontrata oggi dai bambini dei nuovi ceti popolari a impadronirsi dell’ortografia sta nella sua intrinseca complessità (e di conseguenza quelli che sognano una Neolingua a uso esclusivo dei poveri, di cui il linguaggio degli smspotrebbe probabilmente costituire il punto di partenza ideale), sarà sufficiente far osservare che la concordanza del participio passato è molto meno difficile da capire della regola del fuorigioco nel calcio, peraltro sport popolare per eccellenza. Il problema risiede quindi necessariamente altrove, e le “scienze” dell’educazione sono nella posizione ideale per mascherare questa verità.
(c) Perciò in una Scuola liberale pubblica (per quanto possa essere non completamente privatizzata) di norma ci si dovrebbe limitare insegnare unicamente i saperi utili all’homo economicus (cioè le competenzenecessarie per integrarsi nel mondo dell’impresa e del Mercato) e i riflessi ideologici indispensabili all’homo aequalis (vale a dire la formazione dei futuri consumatori dallo spirito “civico”). Tutto il resto è solo letteratura.
(d) Nella monadologia liberale il legame familiare si può pensare soltanto come una modalità particolare della logica contrattuale. «L’espressione estrema di questa mobilitazione giuridica basata sul modello del contratto è rappresentata dalle concezioni del movimento libertario negli Stati Uniti. Questo infatti ribadisce fortemente il primato dei diritti individuali concepiti come diritti assoluti, che non potrebbero venir contestati in nome di una visione olistica della vita privata basata su una famiglia di cui l’individuo sarebbe solo un elemento. La difesa dei diritti individuali diventa il primo principio che lo Stato ha il compito di difendere anche contro la famiglia» (Commaille, L’Esprit sociologique des lois, cit., p. 163). A questo punto risulta più comprensibile l’osservazione profonda di Christopher Lasch: «.Considerare il mondo moderno dal punto di vista di un genitore significa farlo nella peggior luce possibile».
[D]
Sul dilemma del prigioniero, pezzo forte della teoria dei giochi (e quindi dell’economia politica), si legga la critica dettagliata della soluzione proposta da Robert Axelrod (che rappresenta il tentativo più serio dal punto di vista liberale per aggirare le difficoltà dell’assiomatica egoista) nell’ultima opera di Jacques T. Godbout, Quello che circola tra noi... cit., pp. 263-280. Vale la pena sottolineare che questo dilemma, proposto per la prima volta da Melvin Dresher e Merrill Flood nel 1950, costituisce probabilmente la migliore modellizzazione della logica liberale. Permette infatti di stabilire che, proprio per evitare il peggio,i partner egoisti sono sempre costretti ad accettare la soluzione “subottima”, e cioè quella che corrisponde a un male minore, tenuto conto della natura miserabile dell'uomo. Per ottenere la soluzione ottima basterebbe evidentemente reintrodurre tra le premesse del problema la possibilità di un minimo di fiducia e di generosità reciproche, ma questo è escluso dall’ipotesi liberale5.
[E]
«Le concezioni dell’essere umano che occupano il terreno filosofico nella tradizione europea non collocano la verità di sé nella relazione, ma nell’individuo o nell’ordine trascendente al quale questi è ricollegato»6. Il primato ontologico della relazione sul soggetto individuale (che invita a pensare quest’ultimo non più come una “sostanza” ma come un “polo” la cui identità, sempre complessa, è innanzitutto “narrativa”7) resta infatti impensabile fìntanto che si permanga all’interno del quadro essenzialmente monadologico della filosofia occidentale moderna (con quelle che Marx chiamava le sue «robinsonate»). In questa problematica l' indebitamento originario del soggetto umano (biologico, culturale e psicologico al tempo stesso) e la mancanza strutturale che ne costituisce il complemento si possono infatti afferrare solo nella loro esclusiva «dimensione morbosa», fonte di tutte le «malattie della colpa» e di tutte le forme di dipendenza8. Il problema invece cambia natura nel momento in cui la genesi degli affetti e dei valori inizia essere pensata partire dall ’intersoggettività (dal «tra di noi», come lo chiama François Jullien), cioè a partire dai sistemi di rapporti che precedono (e rendono possibile) ogni processo di “soggettivizzazione”. Il debito simbolico può allora venirla compreso e vissuto nella sua dimensione positiva, quella che permette anche la costruzione di legami autenticamente umani (come l’amore o un’amicizia), come hanno già ampiamente dimostrato Jacques T. Godbout e François Flahault. Segnaliamo infine che il primato del rapporto sull’individuo è uno dei «principali capisaldi della filosofia cinese»9, il che per esempio le permette di concepire la “compassione” (o la comprensione) senza cadere nelle difficoltà proprie di Rousseau o dei teorici del moral sense come Shaftesbury o Hutcheson: «Concependo il processo delle cose partire da un regime di interazione, che a sua volta deriva da una polarità (il Cielo-la Terra, lo Yin-lo Yang, eccetera), i cinesi pensano quindi in maniera del tutto naturale che la reazione di insopportabile - quella che noi chiamiamo “compassione” — non è che un caso particolare ed evidente di quella relazionalità radicale, da esistenza a esistenza, che si vede instancabilmente intenta a tessere la vita: relazionalità dalla quale io discendo e che “collega” il vivente che io sono a tutti gli altri» (a). All’interno di questo modo di vedere “relazionale” o “intersoggettivo”, l’Altro rappresenta tanto un orizzonte positivo della mia libertà che un suo limite negativo, mentre per definizione il paradigma moderno può integrare solo quest’ultima dimensione.
(a) La difficoltà di capire lo spirito del dono non deriva solo dagli ostacoli culturali eretti dal capitalismo moderno. Una psicologia egoista vi si oppone nello stesso modo. Sappiamo infatti che il dramma dell’egoista è che non riesce mai a pensarsi come tale. La sua patetica incapacità a dare, evidente agli occhi degli altri, ai suoi non può che costituire un’espressione normale della natura umana; il che lo porta, con coscienza assolutamente tranquilla, a considerare ingenua (oppure ipocrita) l’idea che po-trebberò veramente esistere in questo mondo dei comportamenti generosi e degli esseri umani diversi da lui. Già in questo egli va innanzitutto compatito.
[F]
La common decency è il frutto di un lavoro storico continuo compiuto dall’umanità su se stessa per radicalizzare, interiorizzare e universalizzare quelle virtù umane di base che rappresentano la propensione a dare, ricevere e ricambiare10. Tale lavoro non ha evidentemente aspettato la modernità per conoscere i suoi primi, grandi sviluppi. Secondo Jan Assmann, infatti, nell’antico Egitto esiste un’idea popolare di giustizia già assai elaborata, che palesemente si radica nelle disposizioni culturali e psicologiche preparate dalle pratiche del dono. Assmann scrive:
Dobbiamo distinguere tra una “giustizia dall’alto” e una “giustizia dal basso”. La giustizia dall’alto è un organo dello Stato, istituito per proteggere i governanti dalla ribellione, i proprietari dal furto e lordine dai disordini di ogni tipo. Nel caso della Maat egizia si tratta di una giustizia dal basso, una giustizia liberatrice che viene in soccorso dei poveri e dei deboli, degli indigenti e degli indifesi, delle vedove e degli orfani. Questa giustizia non viene instaurata dall’alto, ma reclamata dal basso,11
Ma Assmann non si limita a questo. Per lui è un errore pensare, con Nietzsche, che quest’idea popolare di giustizia trarrebbe origine dal monoteismo «dal momento che la giustizia esisteva da lungo tempo in questo mondo; senza di essa gli uomini non avrebbero potuto vivere insieme. Tuttavia nel mondo egizio essa trova la propria origine presso gli uomini e non presso gli dèi. Gli uomini hanno sete di diritto, gli dèi di sacrifìci. In origine la giustizia è cosa abbastanza profana o secolare. La religione e l’etica hanno radici diverse e nelle religioni primarie costituiscono due sfere distinte, benché comunicanti luna con l’altra in vari modi. Bisogna aspettare il monoteismo per vederle fondersi in un’unità indissolubile»12.
A questo punto è facile capire che le forme di moralità più elaborate e più universaliste non possono mai costruirsi in completa rottura con questa tradizione morale. Al contrario, esse assumono tutto il loro significato solo nella misura in cui si sforzano di mantenere l’afflato emancipatore di questa «giustizia dal basso» e attingono da quest’ultima le risorse necessarie alla loro attuazione (a). Se invece vengono tagliate fuori da questo indispensabile radicamento, esse sono inevitabilmente condotte a funzionare in modo puramente astratto, cioè come semplici ideologie morali, facilmente ribaltabili contro le virtù umane di base, pur continuando a fornire ai loro numerosi fedeli quella coscienza pulita adamantina che è diventata uno dei segni decisivi del nostro tempo. In queste condizioni è più facile spiegarsi l’origine dell’errore filosofico dei liberali. Per soddisfare i dogmi della sua antropologia utilitarista (e per scongiurare lo spettro delle guerre di religione) il liberalismo è infatti strutturalmente costretto a negare l’esistenza di quel fondo storico comune divirtù universalizzabili, che da millenni hanno saputo invitare gli uomini a dare il meglio di se stessi (b). In tali condizioni il concetto di “morale” può avere unicamente un significato: quello di unaideologia del Bene, in nome della quale - lo si conceda i liberali - tutti i reati possibili sono in linea di principio giustificabili (c).
Se quindi si tratta solo di intendere con il termine “Bene” questa costruzione ideologica squisitamente opprimente, si potrà riconoscere senza difficoltà un valore reale al principio liberale del «primato del giusto sul Bene» (dopotutto era questo il senso della lotta orwelliana contro il totalitarismo). Ma se con questo termine si intende l’insieme dei riferimenti possibili all’idea di decenza e di virtù morale (per esempio l’idea che la generosità e l’onestà valgano infinitamente di più dell’egoismo e dello spirito di calcolo), allora è indispensabile riaffermare il primato socialista del decente sul giusto, in altri termini il primato della «giustizia dal basso» (matrice di ogni common decency) su quell’ideale di “neutralità assiologica” che in fin dei conti costituisce il paravento ideologico ideale per tutte le «giustizie dall’alto».
(a) Questa dialettica dell’universale e del particolare corrisponde in parte a quello che Hegel si sforzava di pensare con il concetto di Sittlichkeit (o ‘morale concreta’) in opposizione alla moralità astratta dell’Anima Bella. A questo proposito si ricorderà la bella formula del filosofo americano Josiah Royce (1855-1916), che enuncia la precondizione di ogni teoria dell'universale concreto'.«Solo chi ha delle usanze può capire le usanze di un altro».
(b) Il Libro dei morti degli antichi egizi racchiude i seguenti precetti: «Non denunciare qualcuno a un suo superiore, non far soffrire, né morire di fame, né provocare le lacrime del prossimo, non torturare gli animali, non aumentare la quantità di lavoro richiesta all’inizio di ogni giornata, non bestemmiare e non litigare, non ammiccare, non essere collerici o violenti, non scaldarsi o essere sordi alle parole di verità» (Asselmann, Die Mosaische Unterscheidung... cit.). A parte forse ammiccare, questa lista non contiene niente che uno spirito decente non possa ancora approvare ai giorni nostri.
(c) Da questo punto di vista il pamphlet di Trockij, La loro morale e la nostra, scritto nel 1938, costituisce una delle più terribili illustrazioni del disprezzo degli uomini comuni e della loro common decency, dispensato con la coscienza perfettamente tranquilla nel nome di un’ideologia del Benesorda a ogni parola di bontà (per riprendere l’opposizione di Zygmunt Bauman tra pratica effettiva della bontà e culto ideologico del Bene). Probabilmente qui ci troviamo davanti a una delle principali fonti culturali di quell’inettitudine patetica dell’estrema sinistra francese a comprendere le rivendicazioni morali delle classi popolari (e soprattutto il loro tradizionale rifiuto a idealizzare la delinquenza e i comportamenti trasgressivi); a costo di offrirle sul piatto d’argento alle vecchie volpi esperte della destra liberale.
[G]
Tra le migliaia di pagine dedicate dalla letteratura liberale contemporanea al problema della razionalizzazione delle scelte individuali mi limiterò a citare un testo, ancorché particolarmente emblematico, di Bertrand Lemennicier. Le analisi di quest’ideologo liberale hanno infatti entusiasmato con tanta evidenza il ministro Luc Ferry (che probabilmente vi ha ritrovato le proprievere idee sulla famiglia), che questi ha assolutamente voluto affidargli, insieme ad altri componenti della sua corrente (come Pascal Salin e Gérard Bramoullé) la direzione effettiva della commissione del concorso a cattedre in scienze economiche per la scuola superiore, cosicché questi studiosi potessero preparare idealmente le generazioni future alla nuova vita razionale che le attende. Lemennicier scrive:
Consideriamo la situazione di un individuo che esiti tra due donne: una è molto istruita, l’altra no. Per beneficiare dei favori della donna istruita è costretto a ridistribuire una parte sufficiente dei profitti del matrimonio per convincerla a sposarlo, assicurandole un tenore di vita per lo meno equivalente a quello che avrebbe avuto restando nubile. In compenso con la donna meno istruita la parte sacrificata sarà inferiore. Il costo di opportunità di un matrimonio dipende quindi dal salario al quale può aspirare la donna sul mercato del lavoro. Ma non dipende solo da questo.
La donna poco istruita è forse più graziosa, sensuale e affettuosa, oppure la probabilità che lo sia è maggiore. Supponiamo tuttavia un’identità di attributi al di là del livello d’istruzione. Il costo di opportunità di una donna istruita si misura attraverso il suo salario. E più alto che con un’altra donna, perché per tenere gli stessi servizi bisognerà pagare di più. Alcuni servizi, come la qualità dei figli, non sono indipendenti dal livello d’istruzione della moglie e questo influenza il comportamento dell’uomo, che desidera una produzione domestica di qualità. A parte tale restrizione, gli uomini dovrebbero sposare donne meno istruite, o comunque meno istruite di loro.13
Risparmio al lettore la trasposizione in equazioni matematiche di queste nuove avventure liberali di Giulietta e Romeo.
[H]
Uno dei principi della logica del dono è che la restituzione, ammesso che vi sia, deve sempre essere differita (il pagamento in moneta è infatti l’invenzione economica che consente di interrompere il ciclo del dono saldando i debiti senza indugio). Iltempo appare dunque come l’elemento primario nel quale si possono costruire i rapporti umani veri (e da questo punto di vista il denaro si può definire come il mezzo per acquistare il tempo che ci dispensa dall’entrare in relazione con il prossimo). A partire ai momenti in cui la mobilità perpetua degli individui diviene il primo imperativo antropologico di una società (quella che Bauman definisce «vita liquida»), scompare di conseguenza la possibilità stessa di stabilire legami solidi e duraturi; nonché, come ha spesso sottolineato Richard Sennett, quella di costruire dei “racconti di vita” coerenti (e in grado quindi di offrire agli individui una base psicologica soddisfacente). Segnaliamo infine che Engels è uno dei primi ad aver evidenziato gli effetti umani di quel movimento browniano generato dalla logica liberale. Già nel 1845 scriveva infatti:
[...] si rileva che questi londinesi hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la loro città è piena, che centinaia di forze latenti in essi sono rimaste inattive e sono state soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi più compiutamente e moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri. Già il traffico delle strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti che si urtano tra loro non sono tutti quanti uomini con le stesse qualità e capacità, e con lo stesso desiderio di essere felici? E non devono forse tutti quanti, alla fine, ricercare la felicità per le stesse vie e con gli stessi mezzi? Eppure si passano davanti in fretta come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare l’uno con l’altro, e tra loro vi è solo il tacito accordo per cui ciascuno si tiene sulla parte del marciapiede alla sua destra, affinché le due correnti della calca, che si precipitano in direzioni opposte, non si ostacolino a vicenda il cammino; eppure nessuno pensa di degnare gli altri di uno sguardo. La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che questo isolamento del singolo, questo angusto egoismo è dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in modo così sfrontato e aperto, così consapevole come qui, nella calca della grande città. La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare ed uno scopo particolare, il mondo degli atomi, sono stati portati qui alle sue estreme conseguenze. È per questo che la guerra sociale, la guerra di tutti contro tutti, è dichiarata qui apertamente. Come l'amico Stirner, gli uomini considerano gli altri soltanto come oggetti utilizzabili; ognuno sfrutta l’altro, e ne deriva che il più forte si mette sotto i piedi il più debole, e che i pochi forti, cioè i capitalisti, usurpano ogni cosa, mentre ai molti deboli, ai poveri, a malapena resta la nuda vita.14
1 The Fountainhead, Philadelphia, The Blackiston Company, 1943 (trad. it. di G. Colombo Taccani e M. Silvi, La fonte meravigliosa, Milano, Accademia, 1975).
2 Così venne intitolata la traduzione francese di The Fountainhead [n.d.t.].
3 Su Ivan Sceglov (alias Gilles Ivain) e il fascino da lui esercitato a lungo su Guy Debord rimando al libro che gli hanno dedicato Jean-Marie Apostolidès e Boris Donné, Ivan Chtcheglov, profil perdu,Paris, Allia, 2006.
4 La FCPE, o Fédération des conseils de parents d'élèves des écoles publiques[Federazione dei consigli dei genitori degli alunni delle scuole pubbliche, n.d.t.], tradizionalmente vicina ai partiti di sinistra, è da decenni una delle più attive sostenitrici del processo di trasformazione liberale della scuola.
5 Da buon liberale, Axelrod è quindi costretto a partire dall’idea secondo la quale «la generosità è un invito a farsi sfruttare». Su tutti questi problemi si consulti anche il numero del secondo semestre 1994 della rivista del mauss {A qui se fier? Confiance, interaction et théorie des jeux).
6 F. Flahault, «Be Yourself.» Au-delà de la conception occidentale de l'individu,Paris, Mille et Une Nuits, 2006, p. 104.
7 A proposito rimando alle analisi sviluppate da Paul Ricoeur in Temps et récit, Paris, Seuil, 1985 (trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, Milano, Jaca Book, 1986) e a quelle di Judith Butler inGiving an Account of Oneself, New York, Fordham University Press, 2005. Il tema comune a queste due opere stimolanti (benché molto diverse) è che il fondamento della nostra identità individuale sta innanzitutto nella nostra capacità di costruire un racconto di vita (di raccontarci a noi stessi o agli altri). Naturalmente questa analisi è trasponibile a tutte le forme di identità collettiva: l’uomo è innanzitutto un essere che (si) racconta storie.
8 N. Sarthou-Lajus, L'Ethique de la dette, Paris, PUF, 1997, p. 3.
9 F. Jullien, Penser d’un dehors (la Chine), Paris, Seuil, 2000, p. 308.
10 Si veda l’articolo di Alain Caillé Y a-t-il des valeurs naturelles pubblicato nel numero 19 della rivista del mauss, anno 2002.
11 J. Assmann, Dìe Mosaische Unterscheidung oder Der Preis des Monotheismus, München, Hanser, 2003.
12 Ivi.
13 B. Lemmenicier, Le Marché du mariage et de la famille, Paris, puf, 1988, capitolo iv: Le prix de la femme dans nos société contemporaines.
14 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra. In base a osservazioni dirette e fonti autentiche, trad. it. di R. Panzieri, Roma, Edizioni Rinascita, 1955, pp. 51-52.
L’INCONSCIO DELLE SOCIETÀ MODERNE
Nella sua lettera a Humphry House dell'11 aprile 1940 George Orwell riassume così la propria posizione sul socialismo: gli intellettuali inglesi, scrive, «sono stati contaminati dalla concezione marxista, fondamentalmente meccanicista, secondo cui una volta compiuto il progresso tecnico necessario, il progresso morale subentra da solo. Non ho mai accettato questa tesi [...]. Un anno fa mi trovavo sulle montagne dell’Atlante e guardando i villaggi berberi mi venne in mente che noi avevamo forse mille anni di anticipo su quelle popolazioni, ma che non eravamo messi meglio, e anzi tutto sommato eravamo messi peggio. Dal punto di vista fìsico siamo inferiori a loro ed è evidente che siamo anche meno felici. Siamo semplicemente giunti a un punto in cui sarebbe possibile attuare un autentico miglioramento della vita umana, ma non ci arriveremo se non riconosceremo la necessità dei valori morali (common decency) dell’uomo comune. Il mio principale motivo di speranza nel futuro dipende dal fatto che la gente comune è sempre rimasta fedele al proprio codice morale»1.
La dimensione “conservatrice” del socialismo orwelliano appare qui in tutta la sua chiarezza2. Il suo vero principio non è tanto la nostalgia per un mondo scomparso, quanto un’opposizione risoluta al pessimismo morale dei Moderni. E' questo costante rifiuto di affogare l’uomo comune (il common man) nelle gelide acque del calcolo egoista che consente a Orwell di criticare sia il liberalismo che il totalitarismo. Sotto questo aspetto non è stato sufficientemente sottolineato che queste due ideologie rivali poggiavano su una stessa visione negativa dell’uomo, che come abbiamo visto si è venuta a creare in seguito alle condizioni del XVII secolo in Europa. È solo facendo riferimento questo punto di partenza comune che diventa filosoficamente possibile valutare le loro vere differenze. A partire dal momento in cui si postula che gli uomini sono mossi soltanto dall’«amore di se stessi e l’oblio degli altri»3 esistono infatti due sole soluzioni coerenti al problema politico moderno: o ci si decide ad accettare gli uomini “così come sono”, e in tal caso bisogna rassegnarsi ad approfittare del loro egoismo per costruire l' impero del male minore; oppure ci si attiene al progetto di un impero del bene (in altre parole l’utopia di un mondo perfetto), ma il suo avvento trionfale viene a essere necessariamente subordinato alla creazione di un uomo nuovo. Se l’idea orwelliana di una società decente sfugge in larga parte a queste contraddizioni è perché essa si radica invece in una comprensione dell’uomo molto più sfumata ed evidentemente molto più realista. Il lavoro di autoistituzione [A] proprio di questa società implica infatti l’appoggiarsi continuamente su possibilità morali già esistenti [B], possibilità che si tratta innanzitutto di radicalizzare, interiorizzare e universalizzare, e non di eliminare in nome della lotta “progressista” controtutte le figure della tradizione, considerateugualmente repressive. Solo sotto questa condizione “conservatrice” le varie invenzioni del genio umano (a cominciare dalle conquiste scientifiche e tecnologiche) possono assumere un senso umano ed eventualmente contribuire, nei limiti che sono loro propri, al miglioramento reale dell’esistenza collettiva.
Ma questa definizione orwelliana del socialismo invita anche a precisarne la dimensione “anarchica”. Orwell infatti ha sempre considerato il desiderio di potere(cioè la convinzione che un individuo non potrebbe realizzare la propria essenza se non attraverso l'influenza che esercita sugli altri) come l’ostacolo psicologico principale allo sviluppo di una società decente e la vera fonte di tutte le perversioni politiche autorizzate dall’ideologia4. Questo aspetto decisivo merita di essere esplicitato in quanto consente di mettere in luce alcuni aspetti fondamentali dell’ inconscio delle società moderne.
È noto che Stendhal era un grande estimatore dell’opera di Fourier, quel «sognatore sublime, creatore d una grande parola: Associazione». Tuttavia nelle sueMemorie di un turista solleva contro l’idea del falansterio un’obiezione fondamentale, tale da compromettere secondo lui tutti tentativi di “associazione” proposti dalle varie correnti del socialismo allora nascente. Stendhal scrive che Fourier «non ha pensato che in ogni villaggio un furfante attivo e di facile parola (un Robert Macaire) si metterà a capo dell’associazione e pervertirà tutte le sue belle conseguenze»5. Contrariamente alle apparenze questa critica differisce alquanto da quella dei liberali. Stendhal non sostiene (quanto meno non in questo specifico testo) che è la natura stessa dell’uomo a rendere utopistico il progetto di una società solidale e fraterna. Si limita a sottolineare che i socialisti, forse per eccesso di ottimismo, hanno sistematicamente dimenticato che la volontà di potenza che caratterizza alcuni individui porterebbe sempre al fallimento delle iniziative politiche meglio intenzionate. Se per anarchia s’intende il progetto di un mondo in cui i “Robert Macaire” sarebbero, se non impossibili in quanto tali, almeno praticamente impossibilitati a impadronirsi del potere e a raggiungere i propri obiettivi, è dunque molto più esatto dire che Stendhal solleva qui la questione anarchica per eccellenza.
Vero è che in genere il concetto di “desiderio di potere” (o di volontà di potenza) desta un entusiasmo alquanto tiepido tra i critici moderni della società liberale. Quelli che si sono formati abituandosi a un approccio puramente sociologico dei fatti (e sono ormai la maggioranza) tendono generalmente a negare ogni valore a questo genere di spiegazione, che relegano volentieri nell’inferno dello «psicologismo»6. Tale rimprovero contiene naturalmente una parte di verità. Si ammetterà senza problemi che il desiderio di potere si articola innanzitutto a partire da condizioni sociali e storiche specifiche. A questo proposito si è tentati di considerarlo con un semplice effetto psicologico secondario dei rapporti di classe e delle varie forme istituzionali improntate al dominio dell’uomo sull’uomo. Tuttavia è impossibile liquidare completamente l’idea di volontà di potenza in questi rapporti e in queste forme. Da una parte infatti il problema del potere (o dell influenza esercitata sugli altri) attraversa l’intero campo delle relazioni umane, compreso di conseguenza quello della vita quotidiana e dei rapporti privati. D’altra parte, come Pierre Clastres ha ampiamente dimostrato7, la necessità di imporre ai propri simili le leggi del proprio ego (trattandoli così come semplici mezzi o specchi) può insorgere in qualsiasi momento, anche nelle società più paritarie(e tutti sanno - tranne forse i militanti stessi - che l’universo dei partiti, dei sindacati e delle associazioni non è più tutelato di un altro, e forse lo è anche meno, contro le lotte di potere e i conflitti dell’ego8). Perciò su questo punto è il caso di dare atto agli anarchici della loro lucidità filosofica fondamentale, accettando così di reintrodurre nel campo del politico alcuni effetti determinanti della storia individuale dei soggetti e del loro rapporto con l'inconscio.
I dati del problema sono abbastanza semplici da formulare. Si tratta insomma di pensare insieme due fatti apparentemente contraddittori: da una parte sappiamo che nulla autorizza a inscrivere il desiderio di potere (come forma superiore dell’egoismo e della negazione dell’altro) nella natura umana stessa, salvo ripiombare nel cinismo ingenuo dei moralisti del XVII secolo; dall’altra siamo costretti ad ammettere che tale desiderio è caratterizzato da una certa universalità, dal momento che in linea di principio può manifestarsi in qualsiasi contesto sociale e culturale, compreso il più paritario (anche se è evidente che taluni contesti e sono molto più favorevoli di altri). In altre parole, se è chiaro che la maggior parte degli esseri umani non si comporta come Robert Macaire9, resta però il fatto - e sotto questo aspetto Stendhal aveva evidentemente ragione - che là ove vi siano degli esseri umani, bisogna generalmente aspettarsi di incontrare dei Robert Macaire. Da parte mia non vedo che un modo, al tempo stesso logico ed empiricamente verificabile, per risolvere questa evidente contraddizione: si tratta di distinguere filosoficamente l’egoismo dell’adulto, che è sempre contingente, da quello del bambino, che al contrario appare inevitabile non perché sarebbe “naturale” ma perché è iniziale, il che è ben diverso.
Mi asterrò qui dal citare la vasta letteratura che la psicanalisi dedica a questo tema, in particolare nei suoi molteplici approcci al narcisismo. Basta il minimo spirito di osservazione (purché non accecato dalle forme più possessive di amore parentale) a dimostrare in misura più che sufficiente il fatto che il desiderio di onnipotenza costituisce una delle prime figure del divenire dello spirito individuale10. Per esempio è proprio questo desiderio originario che, come scrive Christopher Lasch, sta alla base della «rabbia che prova il bambino contro quelli che non soddisfano immediatamente i suoi bisogni»11. Se l'educazione ha un senso, è proprio quello di dare al bambino i mezzi per superare questo iniziale egocentrismo e acquisire progressivamente quel senso degli altriche rappresenta al tempo stesso il segno e la condizione di ogni vera autonomia (o di ogni maturità psicologica, il che è lo stesso) [C]. Solo allora un essere umano diventa capace di mantenere il proprio posto nell’ordine umano, di entrare a sua volta nelle catene socializzanti del dono e della reciprocità. Se quindi, per un motivo o per l’altro, il fallimento delle funzioni “paterne” o “materne” non ha permesso a questo lavoro di autonomizzazione di compiersi efficacemente (con tutte le rinunce necessarie che esso implica per definizione), il soggetto si ritroverà inesorabilmente inchiodato, a meno che non subentrino ulteriori incontri emancipatori, al suo iniziale desiderio di onnipotenza, e quindi privato del suo potere di “crescere”12. Resterà perciò una monade egoista, incapace di dare, riceveree ricambiare, se non in maniera puramente formale (cioè secondo la modalità dei semplici “convenevoli” indispensabili a ogni commedia sociale, e la cui acquisizione richiede un semplice addestramento, e non una vera e propria educazione). Da questo punto di vista le varie patologie dell’ego - che si tratti della volontà di potenza manifestata in quanto tale, o delle sue molteplici forme derivate, come per esempio il patetico bisogno di diventare “ricchi” o “famosi” - debbono apparire per quello che sono: l’effetto di una dipendenza irrisolta da vicende infantili, dipendenza che conduce invariabilmente un soggetto a considerare la propria vita come l’occasione di unarivincita personale che si deve prendere (un’ottica mutilante, dal momento che trasforma automatica-mente questa vita in “carriera”, patologicamente strutturata dal desiderio di arrivare, o semplicemente dalla necessità di vivere in una perpetua rappresentazione13). Ecco perché la volontà di potenza appare sempre come una passione triste. Come Platone aveva perfettamente inteso, non vi è tiranno felice, quale che sia il settore o il livello in cui il suo bisogno di dominare gli altri si trova a esercitarsi. Da un punto di vista anarchico le classi dominanti vanno innanzitutto compatite [D].
L’importanza tradizionalmente riservata dagli anarchici al problema dell educazione degli individui (tanto familiare che scolastica) - nonché la loro costante sensibilità alle dimensioni morali e psicologiche dell’attività politica - non deve dunque stupire. Se la rimozione di queste fondamentali questioni è all’origine di tutte le disavventure del movimento rivoluzionario, dall’inevitabile burocratizzazione delle sue organizzazioni fino alle sue derive totalitarie più prevedibili, allora l’anarchia non appare tanto come una corrente politica tra le altre, quanto come una propedeutica morale a ogni rivoluzione possibile (o se si vuole una “metapolitica”); quanto meno se per rivoluzione si intende non la conquista del potere da parte dei vari Robert Macaire, sempre intercambiabili, ma l’istituzione, da parte delle classi finora dominate di una società libera, paritaria e decente14.
In queste condizioni resta però da dissipare un mistero. Dal momento che l’immenso merito della tradizione anarchica consi-ste nell’aver portato alla luce il problema delle radici individuali del desiderio di potere (quelle che implicanopersonalmente un soggetto nelle sue azioni, mettendo così in gioco il suo valore morale), come spiegare il fatto che il prezioso lavoro di analisi intrapresa nel quadro di questa tradizione nella maggior parte si sia dei casi fermato a metà stradaiDal XIX secolo tutte le forme “patriarcali” del dominio sono state abbondantemente descritte e ricusate, fino a diventare un luogo comune trito e ritrito della critica sociale e dei gender studies. Viceversa non si potrebbe dire altrettanto di quelle forme di assoggettamento e manipolazione del prossimo che trovano il loro modello inconscio nell' influenza materna. Questa “dimenticanza” è particolarmente strana. Infatti, proprio nel preciso istante in cui la dinamica delle società moderne cominciava a minare il fondamento culturale degli antichi dispositivi patriarcali15 -screditando tutti i riferimenti alla legge simbolica a vantaggio dei meccanismi del Diritto e del Mercato - l’attenzione della critica sociale è giunta focalizzarsi quasi esclusivamente su quell unica modalità di dominio16.
Ciò che contribuisce a infittire questo mistero moderno è l’evidente negazione che esso implica. Chiunque infatti ha occasione di verificare quotidianamente che la cancellazione della Legge simbolica non porta mai di per sé al trionfo di una libertà gioiosa e conquistatrice. Come giustamente ricorda Slavoj Zizek, «il riflusso dell’autorità patriarcale tradizionale (la Legge simbolica) è accompagnato dal suo doppio inquietante, il Super-io»17. Dal nostro punto di vista quest’ultimo concetto, il cui utilizzo da parte di Zizek deve più a Lacan che a Freud, è particolarmente interessante. Scrive infatti Zizek:
Il Super-io deve essere rigidamente opposto alla Legge simbolica. Questa tra le righe tollera in silenzio, incitando persino a fare ciò che il suo testo esplicito proibisce (come nel caso dell’adulterio), mentre l’ingiunzione del Super-io che ordina il godimento - proprio a causa della chiarezza stessa di questo ordine - impedisce al soggetto di accedervi molto più efficacemente di qualsiasi divieto.
Per illustrare questa distinzione fondamentale Zizek porta l’esempio seguente:
Una figura parentale che sia semplicemente “repressiva” secondo la modalità dell’autorità simbolica dirà a suo figlio: “Devi andare al compleanno della nonna e comportati bene anche se ti annoi a morte: non m’interessa se ne hai voglia o meno, ci devi andare!”. Invece la figura superegoica dirà allo stesso bambino: “Anche se sai benissimo quanta voglia di vederti ha la nonna, devi andarci solo se ne hai veramente voglia: altrimenti tanto vale che tu resti a casa!”. L’astuzia del Super-io consiste dunque nel far credere in quella falsa parvenza di libero arbitrio che, come sanno tutti bambini, è in realtà una scelta forzata che implica un ordine ancor più potente: non solo “devi andare a trovare la nonna indipendentemente dal tuo desiderio”, ma “devi farlo ed essere anche contento di farlo!". Il Super-io ordina di godere nel fare ciò che bisogna fare. Prova ne sia quel che accadrebbe se il povero bambino, convinto che gli si proponga davvero una libera scelta, rispondesse di no. La risposta dei genitori la conosciamo già: “Ma come puoi rifiutare? Perché sei così cattivo? Che cosa ha fatto la tua povera nonna perché tu non le voglia bene?”.18
E' quindi abbastanza sorprendente, dopo tutte queste descrizioni cosìeloquenti, che Zizek si limiti in questo testo a evocare una «figura parentale» in generale, mentre la modalità di funzionamento della «figura superegoica» che descrive trova evidentemente la sua personificazione privilegiata in una figura ben più 164 precisa: quella della “cattiva madre” possessiva e castrante. Laddove la deriva “patriarcale” dell’autorità paterna comanda essenzialmente l'obbedienza del soggetto alla legge che il “padre” tirannico pretende di impersonare, il desiderio di potenza “matriarcale” si presenta in effetti in forme molto diverse, e ben più soffocanti. Esso impone come un dovere l’amore incondizionato del soggetto e perciò è impostato innanzitutto sulla colpevolizzazione e il ricatto affettivo, secondo le modalità declinabili all’infinito della lamentela, del rimprovero e dell’accusa. La prima forma di influenza istituisce un ordine principalmentedisciplinare, esigendo la sottomissione totale del soggetto nel suo comportamento esteriore. La seconda istituisce uncontrollo infinitamente più radicale, in quanto privo di qualsiasi limite; esige infatti che il soggetto ceda al suo desiderioe aderisca con tutto se stesso alla sottomissione richiesta, dietro la minaccia di vedersi distrutto nella propria autostima, poiché il suo rifiuto di accettare quell'influenza totale sulla sua vita significherebbe solo un’inettitudine colpevole a ricambiare adeguatamente i “sacrifici” compiuti per lui. Questa differenza basta da sola a spiegare l’immensa difficoltà insita nel riconoscerein quanto tale un dominio subito, quando esso si eserciti nella modalità “materna”. Mentre lordine disciplinare è per definizione sempre frontale (il che rende possibile sia la consapevolezza dell’oppressione subita che la rivolta contro tale ordine), il controllo “matriarcale” esercitato su un soggetto “per il suo bene” e in nome dell’“amore” che gli si dedica tende a funzionare in forme molto più avvolgenti e insidiose, in modo che il soggetto è quasi inevitabilmente spinto a prendersela con se stesso per la propria ingratitudine e indegnità morale [E]. Ne deriva una conseguenza politica fondamentale sul piano dell’analisi delle società moderne. I meccanismi di influenza “patriarcali” (quelli che mimano l’autorità paterna nella sua funzione di terzo separatore) possono in genere venir percepiti senza difficoltà dall’insieme dei protagonisti. Colui o colei [F] che funziona secondo la modalità “patriarcale” sa perfettamente che godedel proprio potere. Ma coloro sui quali si esercita tale potere non sono meno ignari di questo godimento che devono affrontare. Invece le forme di influenza “matriarcali” (in cui molti uomini sono ormai divenuti maestri) sono invece incomparabilmente più difficili da percepire e da chiamare con il loro nome, tanto per quelle e quelli che le subiscono che per quelle e quelli che le esercitano.Come l’esperienza continua a dimostrare, è psicologicamente impossibile per una madre possessiva (o comunque funzionante secondo queste modalità) vivere la sua folle volontà di potenza se non come una forma esemplare di amore e di abnegazione sacrificale19. E' quindi inevitabile che la mano visibile del dominio patriarcale finisca per lasciare nell’ombra la mano invisibile del dominio matriarcale, affidando a lei ogni critica del potere coercitivo [G]. È probabilmente in questa differenza fondamentale che vanno rintracciate le ragioni ultime dell’immemorabile rimozione politica dell'impero delle madri20.
Queste brevi osservazioni consentono di sollevare un lembo del velo ideologico che occulta il continente nero delle società moderne. La logica liberale implica infattioggettivamente la destituzione di tutti i meccanismi normativi costruiti in esplicito riferimento alla legge simbolica, a vantaggio dei soli dispositivi “assiologicamente neutri” del Mercato e del Diritto. Di conseguenza è condannata a determinare in cambio lo svilupposelvaggio di nuovi meccanismi normativi, questa volta ancorati in via prioritaria all’immaginario dei soggetti, cioèdirettamente governati dall’inconscio stesso (e più particolarmente da quello che Zizek definisce, dopo Melanie Klein e Christopher Lasch, le «figure superegoiche feroci»). Ecco perché il lento smantellamento storico delle società disciplinari, che costituisce l’opera principale della modernità avanzata, non si traduce mai nell’accesso della collettività alla bella autonomia promessa. In mancanza di una critica integrale dei meccanismi di dominio, che il materialismo liberale vieta per principio [H], questo smantellamento metodico porta al contrario alla progressiva installazione di società di controllo,sottoposte all’autorità crescente degli “esperti”21 e immerse in uno strano clima di autocensura, di pentimento e di colpa generalizzati. Il che in definitiva corrisponde alla guerra di tutti contro tutti, alla quale ormai si aggiunge la nuova guerra di ciascuno contro se stesso22. In ultima analisi sembra proprio questa la base antropologica inconscia di questa civiltà regressiva del “Progresso” che Christopher Lasch era stato tra i primi a saper riconoscere come la civiltà del narcisismo.
1 G. Orwell, The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell, a cura di S. Orwell e I. Angus, London, Penguin, 1970.
2 Come noto, per provocare la pudica intellighenzia di sinistra Orwell talvolta si presentava come un anarchico tory. Lo stesso atteggiamento si ritrova in Paul Goodman, importante figura del movimento anarchico americano e uno dei fondatori del movimento per i diritti degli omosessuali, che si definiva conservatore neolitico. «In quanto anarchico conservatore - scriveva - penso che correre dietro al Potere sia ozioso [...]. Non vedo l’ora di ritirarmi non appena le condizioni saranno tollerabili e consentiranno alla gente di ritornare a ciò che è importante, al loro lavoro, ai loro sport e alle loro amicizie. In teoria non dovrei occuparmi di politica» (P. Goodman, New Reformation: Notes of a Neolithic Conservative, New York, Random House, 1970). Orwell avrebbe sottoscritto queste righe senza alcuna esitazione.
3 «Non scagliamoci contro gli uomini, constatandone la durezza, l’ingratitudine, l’ingiustizia, la fierezza, l’amore di se stessi e l’oblio degli altri: sono fatti così, è questa la loro indole: sarebbe come non tollerare che la pietra cada o il fuoco si innalzi»: J. de La Bruyère, Les Caractères. De l’homme (1688), trad. it. di E. Timbaldi Abruzzese, I caratteri, Torino, Einaudi, 1981, p. 199.
4 «L’ascesa del “realismo” è stato il grande avvenimento intellettuale della nostra epoca. A prescindere dalle cause, ecco una domanda alla quale non è facile rispondere. Le interrelazioni tra sadismo, masochismo, culto della riuscita, culto del potere, nazionalismo e totalitarismo costituiscono un grosso problema, che si è appena iniziato a districare e che è persino considerato inappropriato affrontare»: Orwell, The Collected Essays... cit.
5 Robert Macaire è il protagonista di L'Auberge des adrets, opera teatrale di successo, composta nel 1823 da Benjamin Antier, nella quale il suo ruolo era affidato a uno dei più grandi attori dell’epoca, Frédérick Lemaitre. Reso popolare dalle caricature di Daumier, per tutto il XIX secolo il personaggio di Robert Macaire simboleggerà la la figura dell'affarista imbroglione e privo di scrupoli, personificazione perfetta, come scriverà James Rousseau, «della nostra epoca positivista, egoista, avara, bugiarda e spaccona».
6 Lasch scrive: «Troppo spesso la sinistra ha rappresentato un rifugio per chi cercava di sfuggire allo sgomento della propria vita interiore. Paul Zweig, un altro ex radicale, ha ammesso di essere diventato comunista verso la fine degli anni Cinquanta perché il comuniSmo “era una liberazione... dal vuoto e dai cocci rotti di una vita che si esauriva nella dimensione privata”. Fin tanto che i movimenti politici continueranno ad attrarre chi cerca di soffocare il senso del proprio fallimento personale immergendosi nell’azione collettiva - come se questa escludesse in qualche modo una rigorosa attenzione per la qualità della vita privata - i movimenti politici avranno ben poco da dire sulla dimensione personale della crisi sociale» (Lasch, La cultura del narcisismo... cit., p. 27). Il bisogno di ricercare a ogni costo una spiegazione puramente sociologica alla totalità dei comportamenti umani (che si tratti di delinquenza, di rapporto con la scuola o della propria vita privata) trova probabilmente in questa analisi gran parte delle sue vere ragioni.
7 Pierre Clastres ha studiato a lungo, soprattutto attraverso l’esempio degli indiani del Sudamerica, le strategie politiche utilizzate dalle società “primitive”per impedire che il desiderio di prestigio che talora anima alcuni membri della tribù si tramuti in potere coercitivo. Di solito è sufficiente trasformare questi ultimi in “capi” simbolici, tenuti a un obbligo di generosità illimitata nei confronti della comunità. «Che cosa ottiene il Big Man in cambio della sua generosità? Non la realizzazione del suo desiderio di potere, bensì la fragile soddisfazione del suo punto d’onore; non la facoltà di comandare, bensì il piacere innocente di una gloria che si sfinisce per mantenere. Lo fa per la gloria, nel vero senso della parola: e la società gliela concede volentieri, occupata come ad assaporare i frutti delle fatiche del suo capo. Ogni adulatore vive alle spese di chi lo ascolta»: P. Clastres, Recherches d’anthropologie politique, Paris, Seuil, 1990, p. 139. Su questa bella lezione di anarchia si legga anche La société contre l'Etat, Paris, Editions de Minuit, 1974 (trad. it. di L. Derla, ha società contro lo Stato. Ricerche di antropologia polìtica, Milano, Feltrinelli, 1977), nonché il volume collettivo (diretto da Miguel Abensour) dedicato all’opera di Pierre Clastres, L’Esprit des lois sauvages, Paris, Seuil, 1987.
8 Claude Alzon non ha certo mancato di sottolineare questo punto sin dal 1974, analizzando con la sua abituale asprezza il fenomeno allora fiorente delle comunità: «Conosco fin troppo bene alcuni di quei piccoli mascalzoni che non fanno che sproloquiare su Marcuse e su Deleuze senza sognarsi di averli mai letti. Esperti come sono nel colpevolizzare i più deboli, non sono capaci di pronunciare tre parole senza brandire lo spettro della repressione, argomento alquanto comodo che permette loro, con la scusa che attentano alla loro libertà, di spremere come limoni tutti quelli che li circondano. Senza parlare poi dello sfruttamento sessuale di cui sono vittime le ragazze della comunità e dei rimproveri che scagliano addosso agli altri, ritenuti i soli responsabili di un fallimento che sono i primi a provocare» (C. Alzon, La Mort de Pygmalion, Paris, Maspero, 1974, p. 154). A trent’anni di distanza ciascuno potrà misurare la strada percorsa da quei «piccoli mascalzoni», molti dei quali hanno saputo trovare nel mondo scintillante della politica, degli affari o della comunicazione una soddisfazione di gran lunga più redditizia per il loro immutato desiderio di potere.
9 «Di conseguenza è giusta la massima politica secondo la quale bisogna presumere che ogni uomo sia una canaglia» (D. Hume, Sull’indipendenza del parlamento, 1741). Vero è che l’empirismo di Hume lo induce ben presto a correggere il proprio apostolato liberale. Infatti scrive: «Nel contempo pare abbastanza strano che una massima sia vera in politica mentre è falsa nei fatti», D. Hume, Essays: Moral, Political and Literary, Oxford, Oxford University Press, 1971 (trad. it. Operefilosofiche, vol. III: Saggi morali,politici e letterari. Saggi ritirati. L’immortalità dell'anima. Sul suicidio, Roma-Bari, Laterza, 1987). Su questo punto si legga l’opera di Didier Deleule, Hume et la naissance du libéralisme économique, Paris, Aubier, 1979 (trad. it. di M. Conti, Hume e la nascita del liberalismo economico, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1987).
10 Nel commentare i lavori di Susan Isaacs, Lévi-Strauss fa osservare che l’atteggiamento inizialmente possessivo del bambino «vale non soltanto nei confronti degli oggetti materiali, ma riguarda anche i diritti immateriali, quale quello di sentire o di cantare una canzone. Così per i bambini al di sotto dei cinque anni la lezione più difficile da imparare è quella di aspettare il proprio turno [...]. Si può dunque dire che l’attitudine a condividere, e ad “attendere il proprio turno,” è funzione di un sentimento progressivo di reciprocità, che risulta a sua volta da una esperienza realmente vissuta del fatto collettivo, e da un più profondo meccanismo di identificazione con gli altri»: C. Lévi-Strauss, Les Structures élémentaires de la parenté, Paris-La Haye, Mouton et Cie, 1967 (trad. it. di A.M. Cirese e L. Serafini, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 140-141).
11 Lasch, La cultura del narcisismo... cit.
12 L’idealizzazione del bambino, che è al centro della cultura liberale moderna (non così in Hobbes), è innanzitutto il segno di una ammirazione affascinata per il suo egocentrismo iniziale. Ecco perché il principio di ogni educazione liberale non è quello di aiutare il bambino a crescere, bensì lasciare che la sua “natura” si esprima liberamente. Sul piano romanzesco la critica più radicale di questa illusione è certamente Lord of the Flies di William Golding, London, Faber &Faber, 1954 (trad. it. di F. Donini, Il signore delle mosche, Milano, Mondadori, 1966). E' interessante sottolineare che Peter Brook nel suo notevole adattamento cinematografico del romanzo (1963) ha pensato bene di modificarne con discrezione la scena finale, in modo da suggerire che l’egoismo iniziale del bambino potesse forse essere quello della stessa natura umana. Probabilmente la sua sensibilità di sinistra non gli permetteva di ammettere una critica così radicale del liberalismo.
13 II “rifiuto di arrivare” era una delle principali parole d’ordine degli intellettuali che si richiamavano all’anarcosindacalismo, come Albert Thierry o Marcel Martinet. Questa massima derivava logicamente dal loro attaccamento naturale alla common decency.L’esperienza in effetti conferma sempre che quelli che hanno dedicato la propria “vita” ad arrampicarsi lungo i vari gradini di una gerarchia (qualsiasi essa sia) non hanno mai fatto altro che «strisciare in direzione verticale», secondo la bella formula di Georges Elgozy.
14 Sottolineare la dimensione “metapolitica” dell’anarchia consente di risolvere un certo numero di difficoltà filosofiche. E' quindi possibile riconoscere la presenza di una critica “anarchica” nella Cina del III secolo (come quella di Pao King Yen o di Hsi K’ang), mentre quella civiltà, come ha dimostrato François Jullien, non aveva sviluppato una tipologia di regimi politici paragonabile a quelle della Grecia antica (e questo naturalmente vale anche per l’“anarchia” degli indiani del Sudamerica così come è stata analizzata da Pierre Clastres). Cfr. Eloge de l'anarchie par deux excentriques chinois, a cura di J. Lévi, Paris, Editions de l’Encyclopédie des Nuisances, 2004.
15 Nel Manifesto del partito comunista Marx ricorda che «dove ha raggiunto il dominio» la borghesia ha «calpestato i rapportipatriarcali». Continuiamo a domandarci come certi “marxisti” siano riusciti a vedere nel “patriarcato" la condizione del funzionamento quotidiano dai rapporti capitalisti.
16 E d’obbligo citare a proposito le coraggiose analisi di Michel Schneider, anche se la sua definizione inadeguata di liberalismo lo induce curiosamente vedere nel trionfo della Big mother un compimento del “socialismo” invece che della stessa modernità liberale; come invece ricorda Zizek nella sua feroce analisi del liberalismo di Bill Gates, «la figura del dominio con cui abbiamo a che fare non è più quella del buon vecchio padrone patriarcale edipico» (S. Zizek, The Spectre Is Still Roaming Around: An Introduction to the 150th Anniversary Edition of the Communist Manifesto, Zagreb, Arkzin, 1998).
17 Ivi.
18 Ivi.
19 Come sempre la letteratura ha saputo svelare con le sue armi specifiche ciò che la filosofia politica moderna non è generalmente riuscita a vedere. Infatti non esiste probabilmente descrizione più esatta (e più disturbante) della volontà di potenza inconscia di una donna-madre del magistrale romanzo di Ludwig Lewisohn, The Case of Mr. Crump, Paris, E.W.Titus, 1931 (trad. it. di P. Pace, II caso Crump, Milano, Bompiani, 1980), che Freud considerava «un incomparabile capolavoro». Scritto verso la metà degli anni Venti, questo romanzo fulminante è stato immediatamente rifiutato da tutte le case editrici americane e il suo autore è stato trascinato nel fango con la scusa che attentava alla coppia e alle virtù nazionali. Pubblicato finalmente in Francia nel 1931 con una prefazione di Thomas Mann, il libro si vedrà autorizzare la pubblicazione negli Stati Uniti solo nel 1947 (e comunque in versione purgata). Il modo in cui il suo tempo ha accolto il romanzo (e la riservatezza che lo avvolge tuttora) forniscono evidentemente tutte le conferme cliniche possibili e immaginabili.
20 Cfr. F. Vigouroux, L’Empire des mères, Paris, puf, 1998.
21 «Ciò che l’espressione “essere adulti”può significare per le generazioni recenti - scrive George Trow - non ha nulla a che vedere con ciò che significava per quelle precedenti. “Essere adulti”è stato ridefinito così: “essere ai comandi in un mondo infantile”. Avendo compreso questo, gli americani più ambiziosi hanno scelto con il passar del tempo di restare adolescenti» (G.W.S.Trow,Within the Context of No Context, New York, Atlantic Monthly Press, 1997). Ecco perché, conclude, «in assenza di adulti ci si mette a fidarsi degli esperti». Quest’ultima osservazione permette tra l’altro di chiarire il destino liberale della Scuola e la proliferazione contemporanea dei coach.
22 Da questo punto di vista Fight Club di David Flincher (dal romanzo di Palahniuk) rappresenta uno dei film più emblematici dei nostri tempi liberali, come hanno ben dimostrato sia Slavoj Zizek (La Subjectivité à venir, Paris, Climats, 2004) sia Stanko Cerovic (Comment maigrissent les ombres, Paris, Climats, 2003).
NOTE
[A]
Se vi è un aspetto per cui alcuni rappresentanti del socialismo delle origini, a cominciare dallo stesso Fourier, possono effettivamente essere considerati utopisti, è la loro pretesa di descrivere l’organizzazione della società futura nel mìnimo dettaglio. Il concetto di “autoistituzione” (preso in prestito da Castoriadis) ha il vantaggio di indicare un’altra direzione filosofica, più compatibile con l’intervento democratico degli individui. Questo naturalmente non significa che una società decente possa fare a meno di misure politiche dirette e frontali, né di conseguenza dell’attuazione di istituzioni precise e di programmi determinati (se non altro per esempio per farla finita con l’esercizio della politica come “professione”, con il controllo dell’informazione da parte dei potentati del denaro o ancora con la possibilità di percepire e corrispondere redditiindecenti). Ma dal momento che la società si basa su possibilità morali e culturali preesistenti, la sua prima ambizione in quanto decente non può essere lamoltiplicazione illimitata delle leggi e dei divieti (secondo la logica inesorabile che presiede allo sviluppo delle società liberali) (a). Essa deve consistere innanzitutto nella creazione continua di uncontesto politico e culturale in grado di favorire e incoraggiare la common decency, oppure, il che è lo stesso, nel neutralizzare e scoraggiare nei fatti (senza però proibirli formalmente) i comportamenti egoisti e predatori. Anche qui le analisi di Jacques Godbout si rivelano preziosissime dal punto di vista politico. Nello studiare attentamente il comportamento degli individui che si sono trovati realmente ad affrontare le situazioni descritte da Axelrod (sul modello del “dilemma del prigioniero”), il sociologo canadese è infatti indotto a constatare che il numero dei soggetti che,a prescìndere dalle condizioni, scelgono spontaneamente di cooperare (invece di privilegiare il calcolo egoista) scende di rado al di sotto del 30%. Constata altresì (basandosi in particolare sugli esperimenti di Fehr e Gâchter) che il comportamento cooperativo si manifesta addirittura nell’85% dei casi «se i ricercatori autorizzano lo scambio tra i giocatori, o altre procedure che consentono di accrescere il sentimento di identificazione al gruppo». Godbout conclude logicamente che «in un contesto egoista, l’individuo tende ad assumere un atteggiamento egoistico, ma, in un contesto generoso, avrà la tendenza ad assumere un atteggiamento generoso»1. Se ne può dedurre che una società decente procederà non tanto applicando la modalità della forzatura, sia essa di tipo giuridico o altro (niente è più estraneo a uno spirito decente dell’universo glauco e sinistro del “politicamente corretto”), quanto in maniera obliqua e indiretta,adoperandosi per istituire un contesto umano che inviti continuamente gli individui a dare il meglio di sé, cioè a sviluppare, nei limiti del possibile, le proprie disposizioni psicologiche e culturali all’aiuto reciproco e all’umanità. Non si mancherà di notare che la forma di mentalità governativa che implica un socialismo di questo genere è molto vicina, per vari aspetti, a quelle tradizioni culturali cinesi che inducono a privilegiarel’azione indiretta sulle condizioni di un processo politico invece della forzatura sistematica del processo stesso (b). Tuttavia questa necessaria presa di distanze dall eurocentrismo delle ideologie moderne non dovrebbe costituire un vero e proprio ostacolo all’edificazione di società decenti su scala planetaria.
(a) Il socialismo non implica l’abolizione del Diritto astratto. Implica solo che non si confondano le regole istituite da quest’ultimo con i principi sui quali deve basarsi una politica decente. Perciò dal punto di vista socialista non vi è alcuna contraddizione nell'autorizzare giuridicamente ciò che peraltro ci si sforza di combattere moralmente o politicamente. Il fatto che un comportamento sia legale non significa infatti tuttavia che lo sidebba considerare moralmente desiderabile o politicamente giusto.Come ricordava Lenin, non è perché è giusto difendere il diritto al divorzio che esso va necessariamente considerato una soluzione ideale o invidiabile in sé e che bisogna quindi conferirgli lo statuto di una nuova norma.Nell’ottica liberale, invece, il Diritto essendo per definizione l’unico riferimento ideologico comune degli individui (dal momento che la morale è tutt’al più una questione privata), tale distinzione è priva di senso e tende quindi a diventare impraticabile. Ecco perché l’inclinazione naturale delle società liberali non è solo quella di ricorrere al Diritto per risolvere tutti i problemi in cui ci si imbatte, ma essa implica anche, in un modo o nell’altro, la progressivaproibizione di tutto ciò che si suppone “nocivo ad altri”, secondo i canoni definiti dai rapporti di forza del momento. E poiché qualsiasi presa di posizione politica, religiosa o morale presuppone, se è coerente, la critica delle posizioni avverse, in linea di principio sarà sempre sospettata di nutrire una “fobia” (conscia o inconscia) nei loro confronti. Perciò la fobofobialiberale (cioè la “fobia” di qualsiasi affermazione suscettibile di “nuocere ad altri” osando contraddire il loro punto di vista o criticare i loro modi di essere) non può che approdare - attraverso la moltiplicazione delle leggi che istituiscono il “reato d’opinione” e sotto la minaccia permanente del processo per diffamazione - alla progressiva scomparsa di ogni dibattito politico serio e a lungo termine all’estinzione graduale della stessa libertà d’espressione, indipendentemente da quella che era inizialmente l’intenzione dei poteri liberali.
(b) La “politica” confuciana colloca la figura del giardiniere, attento alle condizioni più remote di una fioritura riuscita, ben al di sopra di quella del pastore che conduce il suo gregge o del nocchiero che manovra il timone della nave (quando invece queste due figure costituiscono le metafore tradizionali dell’arte di governare nella cultura occidentale). In generale si può considerare la filosofia occidentale moderna (nelle sue correnti dominanti) come un interminabile Discorso sul Metodo,per cui basterebbe ogni volta disporre razionalmente i mezzi tecnici appropriati per raggiungere direttamente l’obiettivo auspicato (l’idea che la politica sia una scienza costituisce solo un caso particolare di questo approccio). Questo spirito volontaristico e “metodologico”, che prende in prestito i propri principi dall’ideale della Scienza del XVII secolo, appare dunque molto lontano dalla cultura cinese classica (o anche semplicemente dal concetto aristotelico di “prudenza”). Le teorie asiatiche del “non agire” (ilwu wei) invitano infatti a privilegiare in tutti i settori di attività le “strategie” basate sull'azione indiretta e la “dimenticanza” provvisoria del fine perseguito (e quindi sull’assenza di strategia in senso stretto), a costo di valorizzare l’intuito e la spontaneità a spese del “calcolo razionale” e della riflessione. Su questo punto si potrà consultare il libro di François Jullien Le Détour et l’Accès. Stratégies du sens en Chine, en Grèce, Paris, Grasset, 1995 (trad. it. di M. Porro, Strategie del senso in Cina e in Grecia, Roma, Meltemi, 2004).
[B]
A partire dal momento in cui ci si rifiuta di basarsi su virtù già (o ancora) presenti nella vita delle classi popolari (a), non diventano incomprensibili solo i motivi della loro rivolta: bisogna anche riconoscere che l’invito a rimanere umaninon ha alcun senso, che il capitalismo sarà definitivamente sconfitto solo da uomini che non esistono ancora e che soltanto una élite misteriosamente protetta contro i vizi intrinseci della natura umana («uomini fatti di un’altra stoffa», diceva Stalin) potrà dirigere il processo di fabbricazione industriale dell’ “uomo nuovo”. Questo, in ultima analisi, il fondamento mistico invariabile di tutte le teorie che invitano ad affidare il destino dei popoli all’avanguardia illuminata del genere umano2.
(a) In Francia il film Dupont Lajoie (Yves Boisset, 1974) illustra in modo emblematico e caricaturale al tempo stesso l’atto di nascita di una nuova sinistra, il cui disprezzo per le classi popolari, fino a quel momento tenuto a bada, può ormai venir ostentato senza il minimo complesso. E' infatti all’indomani della sconfitta sanguinosa del popolo cileno, il cui impatto traumatico è oggi dimenticato, che questa nuova sinistra si è man mano decisa ad abbandonare la causa del popolo (la cui difesa comportava rischi fisici ormai sotto gli occhi di tutti) a vantaggio di una riconciliazione entusiastica con la modernità capitalista e le sue élite infinitamente più frequentabili. È allora, e solo allora, che l’“antirazzismo” (già presentato nel film di Boisset come una soluzione sostitutiva ideale) potrà essere metodicamente sostituito alla vecchia lotta di classe; solo allora il populismo potrà essere considerato un reato di pensiero e il mondo dello showbiz e dei media potrà diventare la base d’appoggio privilegiata di tutte le nuove lotte politiche, al posto dell’antica classe operaia.
[C]
Scrive Lasch:
La nostra speranza migliore di maturità emotiva dipende dal fatto che riconosciamo gli altri non come proiezione dei nostri desideri, ma come esseri indipendenti provvisti di desideri propri. In maniera più generale essa dipende dall’accettazione dei nostri limiti. Il mondo non esiste solo per la soddisfazione dei nostri desideri; è un mondo nel quale possiamo provare piacere e al quale possiamo attribuire un senso una volta che avremo compreso che anche gli altri vi hanno lo stesso diritto.3
Questo concetto di maturità psicologica (che è la base tradizionale di ogni saggezza) presuppone quindi che siapossibile, con il tempo e l’esperienza, superare l’egoismo iniziale della gioventù e, come scrive ancora Lasch, «identificarsi man mano con la felicità e la riuscita altrui». Esso è dunque incompatibile per definizione con i postulati filosofici dell’antropologia liberale. Ecco perché, dopo l’opera fondatrice di Georges Lapassade (a), la critica dell’idea di maturità è diventata un classico dei difensori del modernismo. L’eccezionale interesse dell’opera di Claude Alzon4consiste nell’aver saputo denunciare questa iniziativa ideologica sin dal 1974, anticipando così tutte le trasformazioni culturali che sono diventate comuni ai nostri giorni. Una simile lucidità politica e intellettuale spiega da sola il fatto che un libro così importante non sia mai più stato pubblicato, scomparendo addirittura dalle bibliografie universitarie5.
(a) G. Lapassade, L’Entrée dans la vie, Editions de Minuit, 1963 (trad. it. di S. De La Pierre, Il mito dell’adulto. Saggio sull’incompiutezza dell’uomo,Bologna, Guaraldi, 1971). In quest’opera di un’ingenuità toccante (che conobbe il suo quarto d’ora di celebrità) si ritrova l’insieme dei luoghi comuni ideologici che a partire dagli anni Settanta permetteranno al capitalismo di legittimare le proprie rivoluzioni culturali (in particolare in ambito scolastico). Ma sul momento solo i situazionisti seppero giudicare l’esatto valore intellettuale dell’opera e del personaggio (cfr. M. Georges Lapassade est un con, in «Internationale situationniste», agosto 1964, p. 29). A quanto pare da allora questo eminente sociologo sembra essersi dedicato principalmente allo studio del rap.
[D]
Dal momento che la lotta socialista deve basarsi sulla common decency degli “uomini comuni” essa presuppone, come aveva sottolineato Camus, quella capacità di amare la vita (e quindi quella maturità psicologica) senza la quale non è possibile nessuna azione veramente generosa. Non appena viene a mancare questa base psicologica e morale, le “rivolte” contro l’ordine costituito - indipendentemente dalla loro “radicalità” apparente - possono attingere le proprie motivazioni solamente dalla rabbia, dall'odio, dall' invìdia e dalrisentimento (e quindi in definitiva dalle forme più infantili del desiderio di potere) (a). Diventa allora difficile sfuggire alle critiche crudeli che Nietzsche rivolge all’anarchico che «rivendica, con bella indignazione, “diritto”, “giustizia”, “uguaglianza di diritti” [...] Gli fa bene, altresì, la sua stessa “bella indignazione”, imprecare è un piacere per ogni povero diavolo - c’è una piccola ebbrezza di potenza. Già la lamentazione, il lamentarsi può dare alla vita un’attrattiva per amore della quale la si sopporta: una sottile dose di vendetta è in ogni lamentazione, si rimprovera come un torto, come un indebito privilegio, il proprio trovarsi male, talora persino la propria malvagità, a coloro che sono diversi. “Se io sono unacanaglia, dovresti esserlo anche tu”: su questa logica si fanno le rivoluzioni»6. Perciò se si vuole evitare di confondere, come qui fa Nietzsche, quelli che difendono davvero la causa del Popolo e gli innumerevoli Richard Durn7 che ne costituiscono la contraffazione narcisistica disperata (ma che la sinistra militante ha evidentemente il dono di attirare in quantità industriali), è perciò filosoficamente indispensabile distinguere la vera rivolta - che presuppone sempre l’adesione preventiva ai valori affermativi della common decency - da quelle pose “ribelli”, arroganti e altezzose il cui fondo psicologico reale è sempre la tristezza, la gelosia o l’odio edipico di sé. Le memorie di Rudolf Rocker, una delle figure più toccanti del movimento anarchico, contengono alcune indicazioni preziose per avviare una riflessione di questo tipo. Rocker racconta come, da giovane militante anarchico, spinto da una curiosità morbosa avesse voluto assistere a tutti i costi all’esecuzione di Auguste Vaillant, autore dell’attentato dinamitardo del dicembre 1893 contro la Camera dei deputati. Anni dopo, ritornando a quel terribile episodio, scrisse queste parole mirabili:
Se oggi mi domando perché ho assistito a quella scena che ripugnava tutto me stesso, vedo una sola spiegazione: noi giovani di allora ci sentivamo tutti trasportati dal culto dei martiri, com’era comune a quei tempi. Forse è positivo venire a contatto con atmosfere del genere; tuttaviacredo che l’accettazione gioiosa della vita sia più propizia al pieno sviluppo dello spirito umano di quanto non lo sia quel bagliore dì gloria che aleggia sulle tombe. I movimenti di contestazione sociale avranno sempre i loro martiri, ma non bisogna farne un culto (b).
È evidentemente alla luce di testimonianze e analisi come queste che converrà riflettere sulle due forme eternamente antagoniste della rivolta e pertanto sulle due fonti della morale e della rivoluzione.
(a) Da questo punto di vista l’immaginario che sostiene le correnti del rap ufficiale è particolarmente rivelatore. Di qui il ruolo centrale che l’industria del divertimento attribuisce a questa nuova forma di predicazione nel processo di sottomissione intellettuale della gioventù moderna.
(b) Come ogni vero anarchico, Rocker evidentemente non condivideva nessuna delle illusioni dell’estrema sinistra attuale (e della sociologia di Stato) sul carattere “politico” e “ribelle” dell’attività criminosa. «In quel periodo agitato - scriveva nelle sue memorie -in cui si credeva fermamente che la rivoluzione fosse prossima, vi furono alcuni piccoli malfattori che, per rendersi interessanti o per altri motivi, giustificavano le proprie pratiche in nome degli ideali libertari. Fiorì così il genere dei cosiddetti anarchici scassinatori, che fecero molto parlare di sé. Tuttavia il loro numero fu inversamente proporzionale alla notorietà di cui godevano». Sull’opera principale di Rudolf Rocker si veda il numero speciale che gli ha dedicato «À contretemps» (27, luglio 2007), una delle riviste anarchiche più notevoli della nostra epoca.
[E]
È chiaro che il controllo politico esercitato dalle società totalitarie (a differenza di quello delle dittature classiche) è fondamental-mente di tipo materno: di qui il ruolo centrale che vi svolgono l'autocritica e l’autoaccusa, insieme all’obbligo permanente, che Orwell ha così ben descritto in 1984, di amare il capo supremo. Conviene tuttavia precisare che le due modalità di dominio possono perfettamente coesistere in seno allo stesso sistema. Il “patriottismo” delle società patriarcali tradizionali è quindi il più delle volte un semplice matriottismo.Come scrive Eric Desmons «la questione del sesso della città - la “madrepatria”, autentico luogo comune dell’ideologia delpro patria mori - non è oziosa. Poiché morire per la città è presentato con un atto d’amore, esso può ragionevolmente mettere in relazione solamente la patria - e non lo Stato come figura paterna - e i suoi figli. Naturalmente la psicanalisi fornisce in proposito un’utile chiave di interpretazione: il transfert sulla madrepatria della cura di far applicare la legge paterna (quella dello Stato) attua di fatto l’esclusione del padre, il cui ruolo è precisamente di impedire l’incesto. Una volta che l’ostacolo “statal-paternalista” è stato così rimosso dal discorso patriottico, diventa concepibile l’atto d’amore tra madre e figlio che si compie durante la morte in battaglia. Di fatto si instaura così un rapporto masochista - che esclude il padre - tra la patria e i suoi figli, che li induce a desiderare come prova d’amore la morte eroica e il suo corteo di sofferenze»8.
[F]
Onde evitare ogni controsenso bisogna precisare qui due aspetti: in primo luogo la madre possessiva non domina i propri giocattoli umani in quanto donna, ma precisamente in quanto “madre”. In secondo luogo la sua influenza castrante si esercita evidentemente sui due sessi. Se ne deduce quindi che per dominare il prossimo secondo la modalità materna non è assolutamente necessario essere una donna e che il fatto di essere una donna non implica in alcun modo che si diventi una madre possessiva. E non si tratta neppure per questo di negare tutto ciò chesussiste del “dominio maschile” effettivo nelle nostre società liberali (da questo punto di vista la lotta femminista non ha mai perso legittimità). Tuttavia ridurre la dialettica dei rapporti concreti tra uomini e donne moderne a quest unica dimensione (rimuovendo dunque l’idea stessa della possibilità di una tirannia materna) costituisce molto più di un semplice errore intellettuale: coincide quasi sempre con la confessione personaleinconscia di una sottomissione dolorosa alla propria madre (e in maniera correlata, della scarsa efficacia del proprio padre — sempre che sia esistito - nello svolgimento delle funzioni separataci che gli erano proprie). Su questa questione si troveranno intuizioni molto pertinenti nell’articolo di Jean-Pierre Lebrun, Richard Durn, les morts pour le dire, in «Psychologie clinique», 17 (2004), come pure nel suo già citato ha Perversion ordinaire.
[G]
In una società liberale la manoinvisibile del Mercato è per definizione sempre più difficile da percepire della mano visibile dello Stato, per quanto il potere che la prima esercita sulla vita degli individui sia ben più sviluppato di quello della seconda. Notare la presenza di controlli di polizia permanenti non richiede infatti nessuna agilità intellettuale particolare. Di conseguenza è decisamente alla portata di un uomo di sinistra. Riconoscere invece l’influenza che Google esercita sugli individui moderni costituì-sce un’operazione infinitamente più complicata per un soggetto sottoposto da sempre alle tecniche del controllo materno: “Google come il Grande fratello?”. Secondo Olivier Andrieu, specialista in motori di ricerca, il sospetto esiste. «Google raccoglie una massa inimmaginabile di dati. Mi conosce meglio di quanto non mi conosca io - spiega lo studioso. Di fatto, se si fa uso di tutti i suoi servizi, Google analizza le ricerche degli utenti, ma anche il contenuto delle loro e-mail (Gmail), i video che guardano (YouTube), il contenuto del loro computer (Google Desktop), quello che acquistano (tramite il comparatore di prezzi Froogle), e così via. Questi dati vengono utilizzati per offrire agli inserzionisti pubblicità sempre più mirate. Per il futuro Google prevede persino di basarsi sull’ubicazione geografica dell’internauta e ha appena depositato un brevetto su una tecnologia nascente che analizza il comportamento dei giocatori on-line per trasmettere pubblicità corrispondenti al loro profilo psicologico durante i videogiochi» («Le Journal du Dimanche», 27 maggio 2007). Con tutto questo, non è facile immaginare la sinistra e l’estrema sinistra moderne (sempre pronte a indignarsi per il minimo controllo di polizia condotto in una stazione della periferia di Parigi) che un giorno chiamano alla rivolta le classi popolari contro questo tipo di controllo, o anche solo contro quella onnipresentepropaganda pubblicitaria senza la quale l’addestramento capitalista degli esseri umani resterebbe una parola vana.
[H]
Esistono due modi diversi di definire il materialismo filosofico: o vi si vede, con Engels, una semplice concezione della natura «senza interventi esterni» - in questo caso si tratta di un altro nome dellateìsmo o del razionalismo —, oppure, con Auguste Comte, vi si vede la dottrina che si propone di «spiegare il superiore attraverso l’inferiore». È evidentemente quest’ultima definizione che permette di parlare di un materialismo liberale. Il programma costitutivo di quest’ultimo consiste infatti, da Hobbes ed Helvétius in avanti, nel ridurre l’insieme dei “valori” tradizionali a una semplice meccanica di forze elementari (come l’interesse o l’amor proprio) di cui esse rappresenterebbero solo la maschera o l’effetto. Il materialismo così inteso appare quindi chiaramente come una macchina da guerra destinata a delegittimare, conformemente alla logica liberale, ogni forma di riferimento a una qualsiasi legge simbolica. A questo punto non è troppo difficile ridurre a sua volta questo desiderio di riduzione ad alcune sue condizioni inconsce: palesemente il materialismo moderno non è spesso nulla più di un puro e semplice mater-ia-lismo. Numerose apologie attuali di questa dottrina ci insegnano molto più sulla storia personale dei loro autori che su quell’ordine del mondo che avrebbero la pretesa di spiegare.
1 Godbout, Quello che circola tra noi...cit., pp. 274-275. Dello stesso autore si leggano anche Le Don, la dette et l'identité, Paris, La Découverte, 2000 eL’Esprit du don, Paris, La Découverte, 1992 (trad. it. di A. Saisano, Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1993), in collaborazione con Alain Caillé.
2 Per una valutazione più completa della questione rimando al bel libro di Michel Terestchenko, Un sifragile vernis d’humanité. Banalité du mal, banalité du bien, Paris, La Découverte-MAuss, 2005.
3 Lasch, La cultura del narcisismo... cit.
4 Alzon, La Mort de Pygmalion, cit.
5 Ecco che il libro di Eric Deschavanne e Henri Tavoillot(Philosophies des âges de la vie, Paris, Grasset, 2007), che ha il grande merito di affrontare questa questione della maturità, non contiene una sola allusione al saggio fondamentale di Claude Alzon.
6 F. Nietzsche, Gôtzen-Dàmmerung(1889), trad. it. di F. Masini, Crepuscolo degli idoli ovvero Come si filosofa col martello, Milano, Adelphi, 1983, p. 105.
7 Richard Durn è l'autore della sparatoria che ebbe luogo il 27 marzo 2002 durante una seduta del consiglio comunale di Nanterre. Quell’atto di follia costò la vita a otto membri del consiglio e provocò quattordici feriti gravi. Il responsabile si suicidò il giorno dopo lanciandosi fuori da un vasistas della stanza del commissariato di Parigi in cui veniva interrogato. Dopo aver lavorato nel settore umanitario e partecipato a manifestazioni terzomondiste, dal 2001 Durn era tesoriere della Ligue des droits de l’homme di Nanterre.
8 Desmons, Mourir pour la patrie?, cit., p. 10
DALL’IMPERO DEL MALE MINORE AL MIGLIORE DEI MONDI
Se la virtù non è che la maschera dell’amor proprio, se non ci si può fidare di nessuno e bisogna contare soltanto su se stessi, come sfuggire alla guerra di tutti contro tutti? E' questa in definitiva la domanda inaugurale della modernità, quella strana civiltà che, per prima nella Storia, ha iniziato a basare il suo progresso sulla diffidenza sistematica, la paura della morte e la convinzione che amare e dare fossero atti impossibili. La forza dei liberali sta nel proporre l’unica soluzione politica compatibile con questa antropologia disperata. Per fare questo si avvalgono di fatto dell’unico principio che non potrebbe mentire né imbrogliare:l’interesse degli individui. L’egoismo “naturale” dell’uomo che, dai moralisti del XVII secolo in poi, è stata la croce di tutte le filosofie moderne diventa così, con il trionfo del liberalismo, il principio di tutte le soluzioni concepibili2.
Il liberale quindi si proponeva inizialmente come un uomo realista e privo di illusioni. Certo, poteva oscillare tra il cinismo di un Mandeville, lo scetticismo sorridente di uno Hume o la malinconia di un Constant. Ma indipendentemente dalla sua equazione personale, rivendicava fieramente il proprio empirismo e la propria moderazione. La società ragionevole che ospitava non era assolutamente destinata a sollevare unentusiasmo, né era suscettibile di scatenare nuove passioni assassine. Equidistante dai fanatismi religiosi e da sogni utopici, né Città di Dio, né Città del sole, essa si presentava invece come la meno peggiore delle società possibili: l’unica, in ogni caso, in grado di proteggere l’umanità dai suoi demoni ideologici, fornendo a quegli incorreggibili egoisti che sono gli uomini il mezzo per vivere finalmente in pace e dedicarsi tranquillamente alle loro prosaiche occupazioni. Il liberalismo delle origini intendeva essere un pessimismo dell’intelligenza.
Perché allora il clima in cui si sviluppa il liberalismo contemporaneo è tanto diverso? Perché evidentemente i pacifici Lumi liberali hanno finito per suscitare il proprio Schwarmerei3. A giudicare infatti dalle forme presenti dell’immaginario delle società moderne (come quello di cui si legge quotidianamente nella propaganda pubblicitaria, nelle celebrazioni mediatiche continue della globalizzazione e delle “nuove tecnologie” o nelle incessanti crociate ideologiche a favore della trasgressione degli “ultimi tabù”), è diventato difficile ignorare che è cambiato qualcosa di essenziale. L’impero del male minore, man mano che la sua ombra si allunga su tutto il pianeta, sembra deciso ad assumere, uno dopo l’altro, tutti i tratti del suo più antico nemico. Ormai vuol essere adorato come il migliore dei mondi.
Questa estrema metamorfosi è molto meno sorprendente di quanto non sembri, e questo per almeno due ragioni. La prima è che il pessimismo liberale ha sempre riguardato unicamente la capacità degli uomini di dimostrarsi degni di fiducia e di agire con decenza: non aveva a che fare invece con la loro attitudine a rendersi “signori e padroni della natura” grazie al lavoro e all’ingegnosità tecnica. Nella misura in cui l’industria (cioè lo sfruttamento razionale e illimitato della natura) costituiva in tutti dispositivi filosofici liberali la forma ideale del dirottamento delle energie guerresche verso fini reputati utili a tutti, esisteva quindi nel cuore del liberalismo un elemento originario di ottimismo e di entusiasmo. Naturalmente è questo elemento che ha permesso di giustificare ilculto religioso della Crescita e del Progresso materiale che è all’origine della civiltà moderna.
La seconda ragione è più complessa. Sin dalle origini l’antropologia liberale è infatti segnata da una curiosa contraddizione: da una parte proclama che gli uomini sono per natura preoccupati solamente del loro interesse e della loro immagine; dall’altra però l'esperienza non cessa di insegnare ai governi liberali che bisogna continuamente incitare questi uomini a “cambiare radicalmente abitudini e mentalità” per potersi adattare al mondo che la loro politica si impegna instancabilmente a edificare. E dal momento che il Mercato e il Diritto astratto sono considerati i soli meccanismi storici conformi alla natura reale degli uomini, se vogliono mantenere i ritmi infernali imposti dallo sviluppo continuo di queste due istituzioni, questi ultimi devono continuamente essere esortati ad abbandonare i modi di vita che stanno loro maggiormente a cuore. Ogni politica liberale appare dunque sorretta da un imperativo metafisicamente contraddittorio: è costretta a mobilitare perennemente grandi riserve di energia per costringere gli individui a comportarsi nella realtà quotidiana come già si suppone che facciano per natura e spontaneamente4.
Per risolvere questa contraddizione basterebbe naturalmente rinunciare alla dogmatica dell’egoismo e riconoscere che gli uomini sono altrettanto capaci di dare e di amare che di prendere, di accumulare e di depredare i propri simili. Niente tuttavia autorizza per definizione a integrare questo fatto dell’esperienza, peraltro banale, all’interno della logicaliberale. E' quindi inevitabile che quest’ultima finisca per riattivare nella forma che le corrisponde (in modo il più delle volte inconscio, questo è vero) il progetto utopistico per eccellenza, quello della fabbricazione dell'uomo nuovonecessario al funzionamento ottimale del Mercato e del Diritto: il lavoratore pronto a sacrificare la propria vita - e quella dei suoi cari — all’impresa competitiva; il consumatore dal desiderio sollecitabile all’infinito; il cittadino politicamente corretto e rispettoso delle procedure, chiuso a ogni generosità reale, genitore assente o superato, in grado di trasmettere nelle migliori condizioni possibili quell’insieme di virtù indispensabili alla riproduzione del Sistema5.
Dopo Hegel sappiamo che una logica si sviluppa sotto l’effetto delle sue contraddizioni. Quando questa logica corrisponde alla realtà effettiva, le sue contraddizioni tendono generalmente a risolversi in maniera positiva, rendendo possibile così, per riprendere la formula di George Orwell, «un autentico miglioramento della vita umana». Quando si basa su fondamenti essenzialmente ideologici (come nel caso dell’assiomatica dell egoismo), la modalità di risoluzione di tali contraddizioni configura invece unafuga in avanti, con il suo inevitabile corollario di catastrofi e di regressioni umane. Le forme storiche che tale fuga in avanti è destinata ad assumere sono facilmente prevedibili nel caso della logica liberale. La contraddizione permanente tra la necessità di costruire l’uomo nuovo adatto al funzionamento globalizzato del capitalismo e la seccante ostinazione delle persone comuni a voler rimanere umane(cosa che i liberali, da bravi progressisti, chiamano “conservatorismo”) si può superare solo puntando su quell ottimismo tecnologico che costituisce il pendantlirico del pessimismo morale dei liberali. Da quando ci si è persuasi che «la democrazia liberale e l’economia di mercato sono le uniche possibilità praticabili per le nostre società moderne»6e che il trionfo definitivo del capitalismo si confonde con la fine della Storia, sembra impossibile sfuggire alle conclusioni implacabili di Francis Fukuyama, che scrive: «La Storia non può finire fin tanto che le scienze della natura contemporanee non siano giunte al termine. E siamo alla vigilia di nuove scoperte scientifiche che, per la loro stessa essenza, aboliranno l’umanità in quanto tale»7. Questo modo completamente materialista di risolvere la contraddizione liberale trasforma immediatamente tutti dati tradizionali del problema8. L’antico confine tra l'impero del male minore e il migliore dei monditrovava finora il proprio senso nell’opposizione filosofica tra gli uomini “così come sono” e gli uomini “come dovrebbero essere”. A partire dal momento in cui l’ideologia liberale è costretta a farsi carico a sua volta dell’ideale dell’uomo nuovo (quello la cui anima sarebbe stata interamente “modernizzata” dal Mercato planetario), questo confine perde evidentemente la propria principale ragion d’essere. Un liberale coerente (vale a dire un liberale preoccupato di sviluppare fino al suo termine logico l’assiomatica iniziale) non può quindi accontentarsi più, come faceva un tempo, di addossare il fallimento delle imprese totalitarie alla natura utopistica degli scopi perseguiti. Al contrario, è la sola natura inadeguata deimezzi impiegati per raggiungere tali scopi, ormai legittimi di per se stessi, che deve ora caratterizzare l’aspetto utopistico di tali imprese e spiegarne perciò l’inevitabile caduta.
Il periodo inaugurato dalla Rivoluzione francese - scrive Fukuyama - ha visto lo sviluppo di diverse dottrine che si riproponevano di vincere i limiti della natura umana creando un nuovo tipo di essere non sottomesso ai pregiudizi e alle limitazioni del passato. Il fallimento di queste esperienze alla fine del XX secolo ci ha dimostrato i limiti del costruttivismo sociale confermando all’opposto un ordine liberale fondato sul mercato, stabilito su verità manifeste che si richiamano “alla Natura e al dio della Natura”. Ma potrebbe darsi che gli strumenti dei costruzionisti sociali del secolo, dalla socializzazione in tenera età fino all’agit-prop e ai campi di lavoro passando per la psicanalisi, siano stati troppo grossolani per modificare nel profondo il substrato naturale del comportamento umano?
Questa evidente rusticità dei mezzi messi in atto dalle società totalitarie non deve quindi più indurre i liberali a contestare la razionalità del progetto “costruttivista” in sé. Nella nuova ottica l’unico problema che si pone è sapere in che misura il liberalismo completamentesviluppato potrebbe riprendere in mano questo progetto storico su basi finalmente realistiche ed efficienti. Su questo punto l’ottimismo di Fukuyama è palesemente assoluto:
Il carattere aperto delle scienze contemporanee della natura ci consente di supporre che, da qui alle prossime due generazioni, le biotecnologie ci forniranno gli strumenti che ci consentiranno di compiere ciò che gli specialisti di ingegneria sociale non sono riusciti a fare.A quello stadio avremo definitivamente concluso con la storia umana perché avremo abolito gli esseri umani in quanto tali. Inizierà allora una nuova storia, al di là dell’umano.10
E' possibile che questa precipitazione liberale a liquidare l’uomo comune urti tutti coloro che si sentono ancora legati alla vecchia umanità da un attaccamento irrazionale. Ma se la mutazione antropologica auspicata da Fukuyama è davvero ineluttabile e imminente (e a sentir lui dovrebbe esserlo, dal momento che «è la scienza che conduce il processo storico» e «siamo solo all’inizio di una nuova esplosione dell’innovazione tecnologica nelle scienze della vita e nelle biotecnologie»), allora dobbiamo riconoscere che il liberalismo costituisce l’enigma risolto della Storia e che è ormai in grado di fornire agli uomini (o perlomeno a quelli che vivranno dopo di loro) le condizioni di una sintesi inattesa tra il Futuro radioso e i calcoli glaciali del “realismo politico”. È dunque in questo punto preciso che la Storia finisce e che l’umanità deve scendere. Lo sviluppo logico dell' impero del male minore trova la propria verità ultima nel Brave New World, attualmente cantato all’unisono dall’industria della pubblicità, del divertimento e dell’“informazione quotidiana”.
Non è difficile immaginare lo sbalordimento di un Adam Smith o di un Benjamin Constant dinanzi a una tale conclusione filosofica. Ma dopotutto tale sbalordimento non è molto diverso da quello che avrebbe sicuramente provato Gorgia nell’incon-trare Callide, il suo figlio spirituale più ingegnoso11. Con la sola differenza che Callide doveva la propria esistenza filosofica unicamente al potere logico di Platone, mentre Fukuyama e le sue migliaia di cloni ideologici sono attualmente al comando del mondo in cui viviamo.
A chi abbia afferrato la logica liberale nello spiegamento necessario della suaunità originale - e quindi al di là dellecontraddizioni secondarie che consentono ai suoi rappresentanti di “destra” e di “sinistra” di dare un minimo di animazione allo spettacolo elettorale - dovrebbe essere ormai chiaro che la necessità di istituire una società decente coincide con la difesa dell’umanità stessa. Nella misura in cui le virtù umane di base sono ancora largamente diffuse tra le classi popolari, è altrettanto chiaro che le condizioni pratiche di tale impresa esistono tuttora, quanto meno in maniera potenziale (e d’altronde sta solo a noi contribuire a ravvivare quelle virtù indispensabili,iniziando col metterle in atto nel nostro comportamento quotidiano). Da questo punto di vista resta possibile riconoscere, con il giovane Marx, che «il mondo possiede da molto tempo il sogno di una cosa di cui gli manca solo la consapevolezza per possederla realmente»12. Ma Marx sapeva anche che gli uomini «che non si sentono uomini toccano in sorte ai loro padroni come una razza di schiavi o di cavalli»13. A questo punto bisogna constatare che la spettacolare espansione del liberalismo contemporaneo ha notevolmente spostato i termini del problema. Il nuovo ordine umano che le élite liberali sono ormai decise a imporre su scala planetaria esige infatti che gli uomini cessino proprio di “sentirsi uomini” per rassegnarsi finalmente a diventare delle povere monadi egoiste, condannate a produrre e a consumare sempre di più, ciascuna impegnata in una lotta spietata contro tutte le altre, nell’attesa del suo ipotetico “quarto d’ora di celebrità”. Hannah Arendt aveva quindi tutte le ragioni per sottolineare, in La condizione umana, che «il brutto delle teorie moderne non è che sono false, ma che possono diventare vere». Perciò, se continua a essere vero che l’uomo non è egoista per natura, è altrettanto vero che l’addestramento giuridico e mercantile dell’umanità crea, giorno dopo giorno, il contesto culturale ideale che consentirà all’egoismo di diventare la forma abituale del comportamento umano. I sostenitori dell’umanità dovrebbero quindi fare molta attenzione prima di sottovalutare questa realtà nuova. Al contrario essi debbono a tutti i costi prendere coscienza che la corsa è già cominciata e che adesso il tempo gioca contro di loro. Il trionfo universale del capitalismo non ha certo ancora nulla di ineluttabile, ma è diventato assolutamente plausibile. Ciò significa quindi che la scomparsa dell umanità (nel senso in cui si adoperano attivamente Fukuyama e i suoi maestri), così come la distruzione parallela della natura, costituiscono ormai delle vere e proprieipotesi di lavoro, e non più solamente degli scenari da intrattenimento da fantascienza hollywoodiana14.
Molti lettori penseranno forse che è profondamente demotivante terminare una critica del liberalismo con un simileoffìcium tenebrarum. Cominceremo con il rispondere loro, con Jean-Pierre Dupuy, che «quando si annuncia, allo scopo di evitarla, che una catastrofe si sta per verificare, l’annuncio non ha lo statuto di una pre-visione, nel senso stretto del termine: non pretende di dire come sarà il futuro, ma semplicemente come sarebbe stato se non si fossero prese delle precauzioni»15. Se però si verificasse malgrado tutto che l’umanità perdesse la sua ultima battaglia e fosse così costretta a cedere il passo alle macchine post-umane, nel mondo devastato dal liberalismo vittorioso, resterebbe ancora una verità incancellabile. La ricchezza suprema di un essere umano - nonché la chiave della sua felicità — è sempre statal’armonia con se stesso. È un lusso che tutti quelli che dedicano il proprio breve passaggio sulla terra a dominare e a sfruttare i propri simili non conosceranno mai. Quand’anche il futuro appartenesse a loro.
1 Cfr. J.A.W. Gunn, L’intérêt ne ment jamais. Une maxime politique du XVII’ siècle, in Politiques de l'intérêt, cit., pp. 193-207. Questa massima, ispirata agli scritti del duca di Rohan, verrà diffusa in Europa dall’opera del suo discepolo inglese Merchamont Needham, Interest Will Not Lie, pubblicata nel 1659. Si leggano in proposito le analisi di Christian Lavai in L'Homme économique, Paris, Gallimard, 2007.
2 La critica dell’egoismo e dell’atomizzazione liberale della società era al centro di tutte le manifestazioni politiche del socialismo delle origini. Oggigiorno sarebbe alquanto difficile rinvenirne la minima traccia nei programmi della sinistra e dell’estrema sinistra (al pari di ogni «critica della vita quotidiana», come aveva già osservato a suo tempo Henri Lefebvre). Su questo punto preciso rinvio alla presentazione scritta da Philippe Chanial del libro di Benoît Malon (figura chiave del socialismo francese) La Morale sociale, Lormont, Le bord de l’eau, 2007.
3 Nella sua critica di Swedenborg (I sogni di un visionario, 1766) Kant introduce questo concetto filosofico per indicare l’entusiasmo visionario e i deliri di una Ragione tagliata fuori dalla realtà empirica.
4 Le strategie messe in atto dal liberalismo nascente per sottomettere le popolazioni provenienti dal mondo rurale e dagli imperi coloniali alla dura disciplina del lavoro salariato (e alla nuova concezione del tempo che esso implicava) sono generalmente ben note. Lo stesso non si può dire (e ce da chiedersene il motivo) degli sforzi paralleli che il Capitale ha dovuto ammettere per costringere gli individui a comportarsi da consumatori docili e da fashion victims. Nella sociologia americana questa forma di addestramento ideologico è abitualmente indicata con il nome di “sloanismo”, in omaggio alla grande rivoluzione culturale liberale avviata negli anni Trenta da Alfred Sloan, presidente della General Motors e grande rivale di Ford.
5 Conviene sottolineare che la figura liberale dell’uomo nuovo è a sua volta profondamente contraddittoria. L’“istituzionalizzazione dell’invidia” (D. Bell, The Cultural Contradictions of Capitalism, New York, Basic Books, 1976, ed. it. Le contraddizioni culturali del capitalismo,'Torino, Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, 1978), indispensabile per imporre quelle abitudini d’acquisto compulsivo irrazionale senza le quali l’accumulo del Capitale (o Crescita) collasserebbe immediatamente, si oppone infatti puntualmente alla metafisica dello sforzo del sacrificio richiamata peraltro dall’obbligo di “lavorare di più per guadagnare di più”. L’uomo delle società liberali è quindi sempre invitato auccidersi di lavoro e contemporaneamente a volere “tutto, subito e senza far niente",secondo il celebre motto di Canal+. Poiché il tempo disponibile per il consumo è inversamente proporzionale a quello dedicato al lavoro, questa è una vera è propria “contraddizione culturale del capitalismo”. Una delle soluzioni più classiche per attenuarla consiste evidentemente nel prelevare il tempo da quello necessario alla vita familiare e al lavoro educativo che essa presuppone. In questo modo il liberalismo riesce a vincere su tutti tavoli.
6 F. Fukuyama, La fin de l’Histoire dix ans après, in «Le Monde», 17 giugno 1999.
7 Ibidem.
8 Il progetto moderno di una riconfigurazione “razionale” della natura umana per mezzo delle nuove tecnologie si poteva costruire filosoficamente solo sulla base di un materialismo integrale (di qui le celebri lotte del XIX secolo tra la Sorbona, a lungo bastione dell'Umanesimo e dello spiritualismo, e il Collège de France, base d’appoggio privilegiata del materialismo militante dei liberali). Su questo punto preciso l’opera più completa è attualmente quella di Anson Rabinbach, The Human Motor: Energy, Fatigue, and the Origins of Modernity, Berkeley Los Angeles, University of California Press, 1990. «Argomento di questo libro - annuncia Rabinbach - è il motore umano, metafora del lavoro e dell’energia, che ha fornito ai teorici del XIX secolo una nuova cornice scientifica e culturale. Per mezzo di questa metafora scienziati e riformatori hanno potuto esprimere il loro fervido materialismo, accomunare la natura, l’industria e l’attività umana in un concetto unico e globalizzante: la forza lavoro». «La metafora del motore umano - aggiunge - rendeva credibili gli ideali del liberalismo sociale, che poteva essere presentato come coerente con le leggi universali della conservazione dell’energia: l’aumento della produttività e le riforme sociali erano vincolate dalle stesse leggi naturali. Il linguaggio dinamico dell’energia era anche messo al centro di molte utopie sociali e politiche dell’inizio del XX secolo: taylorismo, bolscevismo e fascismo. Tutti questi movimenti, nonostante le loro differenze, consideravano il lavoratore come una macchina capace di produttività illimitata e, se era veramente conscio, come resistente alla fatica. Concepivano il corpo umano sia come forza produttiva che come strumento politico, la cui energia poteva essere sottoposta a sistemi scientifici di organizzazione». Questo «materialismo trascendentale della rivoluzione industriale», come lo chiama ancora l'autore, costituisce naturalmente il fondamento metafisico reale del programma di Fukuyama. Sottolineiamoen passant che l’“avanguardia artistica” svolgerà come sempre un ruolo decisivo nella diffusione sociale del nuovo immaginario progressista (cfr. E. Michaud,Fabrique de l’homme nouveau: de Léger à Mondrian, Paris, Editions Carré, 1997).
9 Fukuyama, La Fin de l’Histoire dix ans après, cit.
10 Ibidem.
11 È anche lo stesso sbalordimento del professor Rupert Cadell (Nodo alla gola,Hitchcock, 1948) quando scopre attraverso il delitto compiuto dai suoi allievi il significato ultimo del proprio insegnamento. Questo capolavoro di Hitchcock costituisce senza dubbio una delle introduzioni più efficaci al concetto di logica filosofica.
12 K. Marx, Lettera a Ruge (settembre 1843).
13 Ibidem.
14 Il libro di Jared Diamond, Collapse: How Societies Choose to Fail or to Succeed, New York, Viking, 2005 (trad. it. di F. Leardini, Collasso. Come le società umane scelgono di morire o di vivere,Torino, Einaudi, 2007) propone un approccio appassionante al problema posto dello sviluppo suicida di alcune civiltà. Numerose osservazioni interessanti su questo tema sono contenute anche nello studio ormai classico di S.N. Eisenstadt,The Political Systems of Empires. The Rise and Fall of the Historical Bureaucratic Societies, New York, The Free Press, 1969. Basta solo aggiungere che l’impero liberale mondializzato dispone di mezzi per far coincidere il proprio crollo con quello dell'intero pianeta. Questo non si verificava negli imperi precedenti.
15 J.P. Dupuy, Petite métaphysique des tsunamis, Paris, Seuil, 2005 (trad. it. di M. Guerra, Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo, Roma, Donzelli, 2006, p. 17).
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INDICE DEI NOMI
Abensour (Miguel), 156 Adorno (Theodor Ludwig Wiesengrund), 106
Agostino (santo), 30 Allard (Joseph Antoine Guy),20
Althusser (Louis), 57 Alzon (Claude), 157,174
Amiech (Matthieu), 15 Amin (Samir), 118
Andrieu (Olivier), 180 Antier (Benjamin), 154
Apostolidès (Jean-Marie), 135 Arendt (Hannah), 193 Aristotele, 68
Arrow (Kenneth), 123 Assmann (Jan), 142,143
Axelrod (Robert), 127,139,169 Baechler (Jean), 68
Barrillon (Michel), 20 Baschet (Jérôme),69
Bastiat (Frédéric),43-50,123 Baudelot (Christian), 116 Bauman (Zygmunt), 145,147
Baverez (Nicolas), 117 Bégout (Bruce), 128
Bell (Daniel), 112.
Benichou (Paul),31 Bentham (Jeremy), 33,93
Bering (Charles), 80 Bernoulli (Jakob), 57
Bernstein (Eduard), 99 Besancenot (Olivier), 95 Blanc (Louis),43
Boisguilbert (Pierre Le Pesant de), 51,101
Boisset (Yves), 172,173
Boltanski (Luc), 120
Boriilo (Daniel), 39,93,96,136
Bourdieu (Pierre), 81,101
Bouteldja (Houria),41
Bramoullé (Gérard), 103,146
Brandes (Bernd-Jürgen),93
Brook (Peter), 160
Bush (George Walker), 49,56
Buder (Judith), 140
Cabet (Étienne),43
Caillé (Alain), 26,45,126,127,142,169
Callide, 17,18,192 Camus (Albert), 175
Cardoso (Sergio),75,82 Carlyle (Thomas), 98 Cartesio (René Descartes), 27
Castoriadis (Cornelius), 64,129,168
Caterina de’ Medici, 73 Céline (Louis-Ferdinand),56
Cerovic (Stanko),167 Chanial (Philippe), 184
Chesterton (Gilbert Keith), 91 Chiapello (Eve), 120
Chirac (Jacques), 56 Clastres (Pierre), 64,156,161 Clouscard (Michel), 120
Cobbett (William), 80 Cohn-Bendit (Daniel), 37
Commaille (Jacques), 92
Comte (Auguste) ,19,23,54,181
Considérant ( V ictor), 47,48
Constant (Benjamin), 15,19,20,29, 30,34,41,43,54,56,59,110,124, 184,192 Corneille (Pierre), 26
Crucé (Émeric), 50,51 Daumier (Honoré), 154
Davis (Natalie Zemon),26
Debord (Guy), 87,102,135 Deleule (Didier), 158 Deleuze (Gilles), 119,120,157 Delfavard (Hervé), 68
Deschavanne (Eric), 174
Desmons (Éric),29,30,56,178
Dewitte (Jacques), 137 Diamond (Jared), 194 Diderot (Denis), 20 Dietzgen (Joseph), 65
Donné (Boris), 135
Dresher (Melvin), 139 Dreyfus (Alfred), 109 Dufour (Dany-Robert), 132 Dupuy (Jean-Pierre), 194
Durn (Richard), 132,175,176
Elgozy (Georges), 160 Engels (Friedrich), 66,67,80,147,180
Enrico II (duca di Rohan), 76,183
Erasmo da Rotterdam, 26,77
Erodoto, 23,118 Erone di Alessandria, 67
Establet (Roger), 116 Fehr (Ernst), 169 Ferguson (Adam), 17,78
Ferry (Lue), 103,146 Flahault (François), 141
Flincher (David), 167
Flood (Merrill), 139
Ford (Henry), 186
Foucault (Michel) ,119
Fourier (Charles), 43,154,168
Freud (Sigmund), 163,166
Friedman (Milton),37,39,78
Fukuyama (Francis), 188-192,194
Gàchter (Simon), 169
Gadrey (Jean), 106
Gates (Bill), 162
Gentz (Friedrich von),55
Georgescu-Roegen (Nicholas), 66
Gerasimov (Aleksandr Michajlovic), 80
Gige, 118 -
Giovenale (Decimo Giunio), 113
Girard (René), 82
Godbout (Jacques T.), 127,139,141, 168,169
Golding (William), 160 Goodman (Paul), 152 Gorgia, 17,18,192
Gournay ( Vincent de), 99 Guattari (Félix), 119,120
Guicciardini (Francesco), 76
Habermas (Jürgen), 78 Hegel (Georg Wilhelm Friedrich), 144,187
Heidegger (Martin), 36
Helvétius (Claude-Adrien), 181
Henrich (Joseph), 127 Hitchock (Alfred), 192
Hobbes (Thomas),22,25-28,31,56,85, 94,126,159,181
House (Humphry), 151 Hsi K’ang,161
Hume (David), 158,184
Hutcheson (Francis), 31,123,141
Iacub (Marcela), 39
Illouz (Èva), 132
Isaacs (Susan), 158
Ivain (Gilles), vedi Sceglov (Ivan)
Jacoby (Russell), 124
Jany-Catrice (Florence), 106 Jerphagnon (Lucien), 117
Jullien (François), 140,161,172 Kant (Immanuel), 36,185 Kautsky (Karl), 62
Kennedy (Robert detto Bob), 108 Klein (Melanie), 167
Klemperer (Victor), 137 King (Martin Luther), 80 Kustodiev (Boris Michajlovic), 80
L’Hopital (Michel de), 75
La Boétie (Etienne), 75 La Rochefoucauld (François de),31,101
Lacan (Jacques), 37,163
Lafontaine (Céline), 57
Laguiller (Arlette), 95 Lang(Jack),39,58,93
Lapassade (Georges), 174 Lasch (Christopher), 28,37,80,112,133, 138,155,159,167,173
Latouche (Serge), 66,123 Lavai (Christian), 183
Laverdy (Clément Charles François de), 19
Le Chapelier (Isaac René Guy),20
Lebrun ( Jean-Pierre), 132,179 Lefebvre (Henri), 57,184 Legendre (Pierre),53 Lemaìtre (Frédérick), 154
Lemennicier (Bertrand), 103,146
Lenin (Vladimir Il’ic Uljanov), 62,99,170
Leroux (Pierre), 43 Lestel (Dominique), 105,106
Lévi-Strauss (Claude), 72,73,158 Lewisohn (Ludwig), 166
Livet (Georges),25 Lordon (Frédéric), 101
Lorenzetti (Ambrogio), 86 Luigi XVI (re di Francia), 101 Lutero (Martin) ,81,88
Machiavelli (Niccolò),25,104 Malon (Benoît), 184
Malthus (Thomas Robert), 66 Mandeville (Bernard de), 50,90,107,184
Manent (Pierre), 42,64,74,102 Mann (Thomas), 166
Marcuse (Herbert), 157 Marouby (Christian), 23 Martinet (Marcel), 160
Marx (Karl), 32,33,61,62,65-67,99,114, 117,137,140,162,193
Mauss (Marcel), 126 Maynon d’Invault (Etienne), 19 Melman (Charles), 132
Mendès France (Pierre), 109 Metternich (Klemens von),55
Meyssonnier (Simone), 57 Mill (John Stuart), 37,110 Millet (Catherine), 39
Milner (Jean-Claude), 111 Montaigne (Michel de), 77
Montesquieu,41,89 Moulin (Jean), 136 Mucchielli (Laurent), 81,108
Needham (Merchamont),183 Negri (Toni),62,119
Nicole (Pierre), 26,100,101 Nietzsche (Friedrich),54,119,143,175
Ohji (Kenta),78 Onfray (Michel), 105,135 Orléan (André), 126
Orwell (George), 19,42,65,118,128,137, 151-153,178,188 Owen (Robert),43
Palahniuk (Chuck), 167 Pao King Yen, 161 Parisot (Laurence), 44,136 Pascal (Blaise), 22,26,75
Pasolini (Pier Paolo), 37 Pico della Mirandola (Giovanni), 74
Platone, 17,25,69,112-114,118,160,192
Podolinskij (Sergej Andreevic), 66 Polanyi (Karl),54,63,64
Polo, 17,18 Prévert (Jacques), 97 Rabinbach (Anson), 189
Rancière (Jacques), 111-115,117,118 Rand (Ayn), 122,134-136
Ricardo (David), 62 Ricoeur (Paul), 140 Rocker (Rudolf), 176,177
Rohou (Jean), 100,101 Roure (Serge), 108 Rousseau (James), 154
Rousseau (Jean-Jacques),21,27,55, 78,141 Ross (Kristin), 109
Royal (Ségolène), 115 Royce (Josiah), 144
Sade (Donatien Alphonse François de), 37,94 Sahlins (Marshall), 64
Saint-Simon (Henri de), 36
Salin (Pascal), 146
Sand (George), 120 Sarkozy (Nicolas), 105
Sartre ( Jean-Paul), 120 Sceglov (Ivan), 135 Schiavone (Aldo), 67 Schmitt (Carl), 18
Schneider (Michel), 162 Semprun ( Jaime), 64
Sennett (Richard), 147 Shaftesbury (Anthony), 141
Skinner (Quentin), 30,86
Slama (Alain-Gérard), 79 Sloan (Alfred), 186
Smith (Adam), 15,17,23,29,43,46, 50,51,54,62,90,101,110,123, 124,192
Spinoza (Baruch),22,32,72,81 Spooner (Lysander), 122,133,134
Stalin (Iosif Vissarionovic Dzugasvili), 172
Stendhal (Henri Beyle), 154,155,158 Sternberger (Dolf ), 137
Stirner (Max), 149
Strabone,23
Strauss-Kahn (Dominique), 85
Swedenborg (Emanuel), 185
Taddei (Frédéric), 41
Tavoiilot (Henri), 174
Terestchenko (Michel), 172
Testart (Alain), 127
Thierry (Albert), 160
Tocqueville (Alexis de),41,43,124
Todorov (Tzvetan), 59
Torreton (Philippe), 80
Trockij (Lev), 110,145
Trow (George W.S.), 167
Turgot (Anne Robert Jacques), 50,110
Vaillant (Auguste), 176
Vidor (King), 135
Viroli (Maurizio), 86
Wat (Aleksander), 137
Wiener (Norbert), 57
Wilhelm (Endrik), 93
Williamson (Ian O.)» 126
Xifaras (Michail), 78
Zasulic (Vera), 66,80
Zizek (Slavoj), 162-164,167
Zweig (Paul), 155