mercoledì 23 giugno 2021

INDIPENDEBZA Javier Cercas

 

INDIPENDENZA

Javier Cercas 
Come smascherare coloro che esercitano il potere nell’ombra? Come vendicarsi di chi ti ha inferto le ferite più sanguinose e umilianti? Ritroviamo in questo nuovo romanzo Melchor Marín, il poliziotto appassionato di libri protagonista di Terra Alta. Ad alcuni anni di distanza dalla morte dell’amatissima moglie Olga, torna insieme alla figlia Cosette nella sua Barcellona, dove dovrà affrontare l’indagine più spinosa e difficile: qualcuno infatti tiene sotto ricatto la sindaca della città, utilizzando un video hard che risale a molto tempo prima. Ancora segnato dal profondo dolore per non aver trovato gli assassini di sua madre, ma sempre guidato dalla sua rigorosa integrità morale, Melchor dovrà capire se il ricatto faccia parte di un progetto più articolato di destabilizzazione politica. E questo lo costringerà a entrare nelle stanze del potere, dove regnano il cinismo, l’ambizione sfrenata e la corruzione. Javier Cercas racconta il nostro presente attraverso un giallo teso, avvincente, popolato da personaggi emblematici, delineando un ritratto spietato delle élite politico-economiche che governano il mondo. E soprattutto porta a una sorprendente conclusione la vicenda personale di un uomo giusto, che senza volerlo si è conquistato la fama di eroe, e che cerca di ristabilire una giustizia forse impossibile, muovendosi lungo il crinale sottile tra legge e vendetta.


INDIPENDENZA 


Melchor irruppe nel locale e, facendosi largo tra i clienti, si diresse al bancone, si sedette su uno sgabello e ordinò un whisky. Il cameriere lo guardò come se fosse un extraterrestre.

«Cosa ci fai qui?» domandò.

«Tranquillo» rispose Melchor. «Vengo in pace.»

«In pace?»

«Già. Mi versi questo whisky, sì o no?»

Il cameriere tardò a rispondere.

«Liscio o con ghiaccio?»

«Liscio.»

Erano le tre di notte passate, ma il locale era ancora abbastanza affollato. Diverse ragazze ballavano nude o seminude sulla passerella illuminata che percorreva il centro della sala principale, crivellate da luci stroboscopiche, mentre alcuni uomini le osservavano con occhi avidi; qui e là, altre ragazze, sole, a coppie o in gruppi, aspettavano l’arrivo degli ultimi clienti. O la fine della nottata. Dagli altoparlanti suonava Like a Virgin, una vecchia canzone di Madonna.

«Se non lo vedo, non ci credo» sentì Melchor alle sue spalle.

Mentre il cameriere gli serviva il whisky, l’uomo che aveva appena parlato si sedette su uno sgabello accanto al poliziotto. Era un mulatto vestito di scuro, calvo e robusto, alto non meno di due metri. Melchor bevve un lungo sorso e il mulatto indicò il bicchiere.

«Hai chiuso con la Coca-Cola?»

«Sì» rispose Melchor. «Sto festeggiando.»

Il mulatto mostrò una doppia fila di denti bianchissimi.

«Non mi dire. E cosa festeggi? Che il giudice ci ha dato ragione e ti ha lasciato con il culo all’aria?»

«Il giudice non vi ha dato ragione, stronzo» lo corresse Melchor. «Ha detto soltanto che non c’erano prove contro di voi. Ma non preoccuparti: le troverò. Dammi un altro whisky.»

Il cameriere, che non si era allontanato e aveva ancora la bottiglia in mano, lo servì di nuovo. Senza smettere di sorridere, il mulatto fece girare lo sgabello fino a dare le spalle al cameriere e, con i gomiti appoggiati al bancone, osservò le ballerine sulla passerella. Melchor bevve un altro sorso di whisky.

«Sai perché mi piace tanto questo posto?» domandò.

Il mulatto non disse nulla. Melchor si riportò il bicchiere alle labbra.

«Perché mi ricorda la mia infanzia» disse, dopo aver bevuto. «Mia madre faceva la puttana, sai? Perciò sono cresciuto in posti come questo, circondato da puttane come lei e da magnaccia come te. È questo che sto festeggiando: il ritorno a casa.»

La canzone di Madonna stava finendo e la risata del mulatto risuonò con fragore nel silenzio crescente del postribolo. Negli altoparlanti, Rosalía sostituì subito Madonna, e due o tre ragazze si mossero per ballare fra i clienti e le colleghe. Il mulatto appoggiò una manona sulla spalla di Melchor.

«Così mi piace, sbirro» disse. «Bisogna saper perdere.» Si alzò e, facendo l’occhiolino al cameriere e indicando Melchor, aggiunse: «Offre la ditta».

Melchor continuò a bere senza alzare lo sguardo dal bicchiere. Sebbene tutte le ragazze lo conoscessero, nessuna gli si avvicinò. Quando ordinò il terzo whisky, però, una di loro si sedette accanto a lui. Era spagnola, bruna, matura, bene in carne, e portava un corsetto nero con i seni al vento. Gli passò una mano sul collo e ordinò una coppa di spumante. Il cameriere avvertì Melchor:

«Le consumazioni delle ragazze non sono comprese nell’invito».

Melchor fece un cenno di assenso e il cameriere servì lo spumante. Bevvero aspettando che il ragazzo si allontanasse. Quando andò a servire all’altra estremità del bancone, Melchor domandò:

«Andiamo avanti?»

«Certo» rispose lei.

«Sicura?» insisté Melchor. «Se ci beccano, finirai nei guai.»

La donna fece una smorfia di indifferenza.

«Io non mi tiro indietro, ragazzino.»

Melchor annuì senza guardarla.

«D’accordo» disse. «Aspettiamo un po’. Quando mi vedi salire, vai dalle ragazze. Lascia la porta aperta e di’ che arrivo subito.»

«Sono molto spaventate. Vuoi che rimanga lì finché non arrivi?»

«No. Tranquillizzale. Di’ loro che non succederà niente. Di’ che arrivo subito. E poi apri le altre due porte, quelle del balcone, e te ne vai a casa o torni qui. No, meglio che te ne vai a casa.» Si fermò un momento. «Hai capito?»

«Sì.»

Melchor annuì di nuovo, ma stavolta la guardò.

«Stai attento» disse lei.

«Anche tu» disse Melchor.

La donna si alzò dallo sgabello e, lasciando sul bancone il bicchiere ancora mezzo pieno, si allontanò.

Melchor continuò a bere senza parlare con nessuno tranne che con il cameriere, senza alzarsi tranne che per orinare. Quando il locale era ormai quasi vuoto, ricomparve il mulatto, che vedendolo sorrise con fastidio.

«Sei ancora qua?» domandò.

«Si è già fatto sei whisky» rispose per lui il cameriere. «Peccato che non fossero Coca-Cola: sarebbe già morto.»

«Devo vedere il tuo capo» annunciò Melchor.

Il mulatto corrugò la fronte; il sorriso gli era sparito di colpo, inghiottito dalla carnosità violacea delle labbra.

«Non c’è.»

Melchor fece schioccare la lingua.

«Mi prendi per scemo? Certo che c’è. Non se ne va finché non chiudete: non sia mai che gli rubiate il portafoglio.»

Il mulatto lo osservò con un misto di curiosità e di diffidenza.

«Perché vuoi vedere il capo?»

«Questo a te non interessa.»

«Certo che mi interessa.»

«Dice che viene in pace» intervenne il cameriere.

Lo sguardo del mulatto saltò dal cameriere a Melchor e da Melchor al cameriere, che alla fine si strinse nelle spalle.

«Voglio chiedergli scusa» disse Melchor. «Per il processo. Per il disturbo. Insomma, hai capito.»

Il mulatto sembrò rilassarsi.

«Certo. Mi sembra una buona cosa. Però per questo non c’è bisogno che lo incontri. Glielo dico io: considerati scusato.»

«Voglio anche fargli una proposta.»

Il mulatto si mise di nuovo in guardia.

«Che proposta?»

«Questo sì che non te lo dico.»

«Allora scordati di parlare con lui.»

«Come vuoi. Però la proposta è buona, gli interesserà.» Guardò il cameriere e aggiunse: «Non credo che gli farà piacere sapere che mi hai impedito di parlargliene».

Ora il mulatto parve esitare; guardò di nuovo il cameriere e, scrutando Melchor, dopo alcuni secondi si allontanò un poco, quanto bastava per parlare al telefono senza il rischio di essere ascoltato. Alla fine della chiamata, con aria svogliata fece cenno al poliziotto di seguirlo.

Attraversarono la pista deserta, salirono due piani lungo una scalinata stretta, poi, arrivati al secondo pianerottolo, il mulatto gli aprì una porta e lo invitò a entrare. Dall’altra parte lo attendeva l’ufficio del capo, che non si alzò quando vide Melchor. Non gli tese nemmeno la mano. Era seduto dietro una scrivania un po’ scalcinata, con le mani in vista e un luccichio beffardo negli occhi.

«Perché non mi hai detto che eri qui?» domandò, indicandogli una poltrona davanti a lui. «Sarei sceso a salutarti.»

Melchor non si sedette. Il capo era un uomo laboriosamente agghindato, sulla cinquantina, con i capelli imbrillantinati, la barba curata e venata di bianco, le mani ribollenti di anelli; era in maniche di camicia, portava le bretelle e gli brillava sul petto una collana d’argento, con un gran medaglione dorato. Si chiamava Eugenio Fernández, però, per ragioni che Melchor ignorava, tutti lo conoscevano come Papà Moon.

«Mi hanno detto che vuoi scusarti» aggiunse. «Mi hanno anche detto che hai annegato i dispiaceri nel whisky. Ben fatto. Comunque, ti avevo avvertito che ti stavi infilando in un casino. È il vantaggio di vivere in una democrazia, ragazzo: qui siamo tutti innocenti finché non si dimostra il contrario. Perfino io, che non leggo libri come fai tu. Però fin lì ci arrivo. Non hai intenzione di sederti?»

Melchor non rispose. Papà Moon interrogò con lo sguardo il mulatto, che era dietro al poliziotto, e che si strinse nelle spalle. Dietro di lui c’era una lampada a stelo accesa, e davanti, sulla scrivania, una lampada da tavolo; fra tutte e due, illuminavano tenuemente la stanza. Incassato nella parete di fondo, di fronte alla scrivania, un televisore al plasma trasmetteva a volume molto basso una vecchia partita di pallacanestro del campionato americano.

«Non dici niente?» chiese di nuovo Papà Moon.

«Devo farti una proposta» disse finalmente Melchor.

«È quello che mi aveva detto Samuel» replicò Papà Moon. Fece girare un po’ la sedia su cui era seduto e aprì due braccia accoglienti. «Sono tutt’orecchi.»

Melchor si voltò un istante verso il mulatto e poi di nuovo verso il capo.

«Non preoccuparti» cercò di tranquillizzarlo Papà Moon. «Puoi dire quello che vuoi: Samuel è una persona di assoluta fiducia.»

Melchor non distolse lo sguardo da Papà Moon, che dopo un paio di secondi sospirò e, muovendo leggermente la testa, fece cenno al mulatto di andarsene. Dopo un istante di esitazione, il mulatto perquisì Melchor, che lo lasciò fare: non era armato; in tasca aveva soltanto un paio di manette. Poi domandò: «È sicuro, capo?»

Papà Moon annuì.

«Comincia a chiudere» ordinò. «Io scendo subito.»

Di malavoglia, lo scagnozzo uscì e si tirò la porta dietro le spalle.

«Bene.» Il capo si abbandonò sulla poltrona. «Dimmi tutto.»

Melchor fece due passi avanti, appoggiò le nocche delle mani sulla scrivania e, allungandosi col busto, si avvicinò molto a Papà Moon, come se volesse sussurrargli qualcosa all’orecchio.

«Si tratta delle ragazzine» annunciò.

Il capo fece una faccia annoiata.

«Ancora su quello sei?»

Melchor lo fissò. Papà Moon chiese:

«Che succede con le ragazzine?» Ci fu un altro silenzio, finché sul viso dell’uomo cominciò a farsi largo un sorriso complice. «Ora ho capito» disse. «Piacciono anche a te, non è vero?»

Stava per aggiungere qualcosa, ma non ci riuscì: Melchor gli mollò una capocciata secca sulla fronte e, senza dargli il tempo di reagire, lo prese per la nuca e gli sbatté il cranio sul tavolo, facendolo scricchiolare come se si fosse rotto. Poi girò intorno alla scrivania, prendendolo per il collo lo sollevò e lo colpì di nuovo, prima con un pugno allo stomaco e poi con un calcio nei testicoli. Papà Moon cadde a terra con un urlo.

«Non gridare» lo avvertì Melchor: gli aveva afferrato la collana d’argento e la tirava tenendogliela stretta sul pomo d’Adamo, come se volesse strangolarlo. «Se gridi ancora, ti faccio a pezzi.»

Papà Moon era in ginocchio e cercava aria da respirare.

«Sei impazzito?» riuscì a gemere, rosso come un pomodoro.

Melchor tornò a sbattergli la testa, stavolta contro il fianco della scrivania, lo prese a schiaffi, con la stessa mano con cui reggeva la collana gli afferrò le braccia e gliele torse dietro la schiena mentre con l’altra mano lo perquisiva finché trovò il suo cellulare. Lo sfracellò contro il pavimento.

«Dove ce l’hai la pistola?» domandò.

«Mi spezzi il braccio.»

«Ti ho chiesto dove tieni la pistola.»

«Quale pistola?»

Ora la faccia di Papà Moon andò a stamparsi sul pavimento. Quando Melchor gliela risollevò, una scia di sangue gli colava lungo il naso e gli bagnava la barba. Melchor ripeté la domanda. Il capo rispose e, senza mollarlo, Melchor aprì un cassetto, prese la pistola e si assicurò che il caricatore fosse pieno. Poi costrinse Papà Moon ad alzarsi.

«Stavolta sei andato fuori di testa, sbirro» bofonchiò a fatica. «Qui finisce la tua carriera.»

Melchor gli torse con più forza il braccio e gli mise la canna della pistola sulla mandibola.

«Poi ne parliamo, capo» disse. «Adesso usciamo da qui e tu ti comporti per benino.» Poi lo avvertì, premendogli contro la pistola: «Se gridi, questa spara. Se fai una qualunque stupidaggine, questa spara. È chiaro?» Papà Moon rimase in silenzio. Melchor gli torse ancora il braccio e l’uomo annuì. «Molto bene» disse Melchor. «Forza, cammina.»

Incollati l’uno all’altro, uscirono dall’ufficio di Papà Moon, scesero le scale che prima Melchor aveva salito e, sul primo pianerottolo, il poliziotto socchiuse una porta e si affacciò dall’altro lato. C’era una specie di balcone, in realtà un corridoio esterno che percorreva la facciata del postribolo e da cui si vedevano l’entrata e il parcheggio, dove c’erano ancora diverse auto. Lo percorsero in tutta fretta, si lasciarono alle spalle una scala che scendeva al parcheggio e, giunti in fondo, Melchor socchiuse un’altra porta e si assicurò ancora che non ci fosse nessuno dall’altra parte. Poi la aprì del tutto e si inoltrarono in un nuovo corridoio, stavolta interno e illuminato da una luce cruda, su cui si affacciava una serie di porte, da alcune delle quali provenivano voci, rumori, qualche risata. Melchor aprì l’ultima. Dentro c’erano tre ragazze: due erano rannicchiate su un letto e la terza in piedi in mezzo alla stanza; tutte e tre erano nere come il carbone e guardavano i nuovi arrivati con occhi di attesa e di panico. Melchor chiuse la porta, le guardò e chiese se erano pronte.

Soltanto quella che era già in piedi annuì, ma le altre due si alzarono immediatamente. Melchor le conosceva. Erano nate a Lagos, in Nigeria, e le loro storie non erano sostanzialmente diverse. Erano arrivate tutte e tre a Madrid anni prima, fuggendo dalla miseria e con la promessa che in Spagna avrebbero potuto studiare. Lì erano state private di passaporto e cellulare, avevano proibito loro di mettersi in contatto con le famiglie e di uscire in strada, avevano preteso che pagassero sessantamila euro per le spese del viaggio e, per terrorizzarle, le avevano sottoposte a un rituale che prevedeva taglio di unghie e capelli, rasatura del sesso e delle ascelle e la somministrazione forzata di un beverone allucinogeno. A partire da quel momento le avevano costrette a prostituirsi. Ed era stato così che avevano iniziato un periplo per i bordelli di mezza Spagna, in cui lavoravano dalle cinque del pomeriggio alle quattro di notte per pagare il debito che, in teoria, avevano contratto con l’organizzazione che in pratica le teneva sequestrate. Un periplo che Melchor aveva deciso di interrompere lì, quella notte.

Costrinse Papà Moon a sedersi a terra, contro il letto delle ragazze, tirò fuori le manette e con una gli imprigionò il polso destro a una gamba del letto e con l’altra il polso sinistro all’altra gamba.

«Sei impazzito, sbirro.» Papà Moon parlò con tutta la rabbia sorda che quella vagonata di botte gli aveva insufflato. «Questa me la paghi.»

Fu l’ultima cosa che disse: Melchor gli tappò la bocca con un fazzoletto e glielo infilò fino in gola. Le tre ragazze osservavano l’operazione dalla porta della stanza, tremando di paura.

«Adesso ascoltami con attenzione, pezzo di merda» disse Melchor, accovacciato davanti a Papà Moon. «Non si è potuto fare con le buone, lo si farà con le cattive. Queste ragazzine me le porto via. Che non ti passi per la testa di farne arrivare altre. E che non ti passi per la testa neanche di denunciarmi. Sai che succederà se mi denunci? Ascolta bene, perché te lo dirò soltanto una volta. Se mi denunci brucerò questa topaia. Ucciderò i tuoi figli e tua moglie. Ucciderò tutta la tua famiglia. E poi ucciderò te. È questo che succederà. Hai capito, vero?» Negli occhi di Papà Moon la rabbia si era trasformata in una paura animalesca, incontrollata. Melchor avvicinò ancora di più la faccia per aggiungere: «Dimmelo, hai capito, sì o no?» Papà Moon mosse in su e in giù la testa; Melchor gli diede un buffetto soddisfatto sulla guancia e disse: «Fantastico».

Si alzò e si rivolse alle ragazze. L’effetto del whisky gli era passato; aveva la mente limpida, e si sentiva leggero e felice.

«Pronte?» domandò.

Tutte e tre annuirono. Si chiamavano Alika, Joy e Doris. Alika e Joy avevano diciassette anni; Doris, diciotto. Sembravano essersi messe in divisa per partecipare a una corsa campestre o a una manifestazione politica: maglietta scura, jeans da pochi soldi e scarpette da ginnastica. Lo guardavano con occhi grandi, imploranti e spaventati, come se un meteorite fosse sul punto di cadere sul postribolo e soltanto lui potesse salvarle dalla catastrofe. Melchor socchiuse la porta, si assicurò che non ci fosse nessuno in corridoio, si infilò la pistola nella cintura e prese per mano Alika e Joy, che erano le più piccole.

«Tranquille» disse. «Non separatevi da me e andrà tutto bene.» Finì di aprire la porta e aggiunse: «Andiamo».

1

Melchor cambia l’acqua nel vaso, sostituisce un mazzo di fiori appassiti con uno di fiori freschi e pulisce con un panno la lapide su cui si legge: «Olga Ribera, Gandesa, 1978-2021». Poi, come ogni sabato mattina da quattro anni (tranne quando è di guardia), passa un po’ di tempo lì, davanti alla tomba di sua moglie, parlandole di Cosette e commentando gli scarsi avvenimenti della settimana.

Il cimitero è adagiato sul fianco di una collina, alla periferia di Gandesa, e Melchor sente soltanto il pigolio dei passeri e, di tanto in tanto, il motore lontano di un’auto che serpeggia in direzione di Vilalba dels Arcs e della sierra di La Fatarella, la cui cresta si staglia alla sua sinistra, contro il cielo di un azzurro immacolato, irta di bianchi mulini a vento che girano con lentezza nel calore immobile della mattina di luglio.

Passata mezz’ora, Melchor si mette a tracolla la sua borsa di cuoio e si incammina. Passa accanto al pantheon della famiglia Adell, un sontuoso cenotafio di marmo nero venato di bianco, e sale per una stradina stretta, ombreggiata dai cipressi e fiancheggiata dai tumuli. Uscendo dal cimitero imbocca un sentiero sterrato e, poco dopo, sbuca sulla rotonda che porta verso Gandesa. Al centro della rotonda, seduta su dei gradini sotto una croce di pietra, riconosce senza sorpresa Rosa Adell.

«Stavo pensando che non vado mai al cimitero» lo saluta la donna.

Melchor le si avvicina. Rosa indossa una camicetta blu scuro, senza maniche, pantaloni marroni molto fini e sandali che lasciano allo scoperto dei piedi piccoli, con le unghie dipinte di rosso. Melchor non può vederle gli occhi: sono nascosti da un paio di occhiali neri.

«Eppure lì è sepolta tutta la mia famiglia» aggiunge Rosa. «Dovrei sentirmi male?»

Ricordando il mausoleo degli Adell, Melchor risponde:

«Malissimo».

«Dici sul serio?»

«No. Quello che c’è lì dentro non ha niente a che vedere con i tuoi genitori.»

«E con Olga?»

«Nemmeno.»

«E allora tu perché ci vai?»

Melchor si stringe nelle spalle. Rosa Adell rimane a guardarlo per un istante, poi fa una smorfia perplessa e, scuotendosi la polvere dai pantaloni, si alza in piedi.

«Dov’è Cosette?» chiede.

«In piscina.» Melchor indica vagamente un edificio a una cinquantina di metri di distanza, tra la caserma dei pompieri e lo stadio. «Esce a mezzogiorno.»

Rosa consulta l’orologio.

«Giusto il tempo di prendere un caffè.»

Si dirigono all’Hotel Piqué scendendo per avenida Joan Perucho. Camminano in silenzio, come se la canicola li dissuadesse dal parlare, e in silenzio passano davanti all’Istituto scolastico Terra Alta e al falso neoclassicismo della facciata del Tribunale di zona.

Negli ultimi mesi si sono visti spesso, a volte per puro caso, altre volte per casi non così puri, sempre o quasi provocati da Rosa, che ha preso l’abitudine di aspettarlo ogni sabato mattina all’uscita dal cimitero. Come tutti, Rosa ignora il vero ruolo svolto da Melchor nella soluzione del caso Adell, che quattro anni prima ha scosso l’eterna sonnolenza della Terra Alta e da allora tiene in carcere Albert Ferrer, il suo ex marito, ed Ernest Salom, ex caporale della polizia, amico intimo di Ferrer e collega di Melchor al commissariato di Gandesa, il primo condannato per istigazione all’omicidio degli Adell e della loro domestica romena, il secondo per complicità nell’omicidio e occultamento delle prove. E, sebbene Rosa avesse intuito quasi subito che la versione ufficiale dei fatti non si adattava del tutto alla realtà, e che Melchor nascondeva qualcosa (o forse è questo che a sua volta intuiva lo stesso Melchor), la verità è che non ha mai trovato il coraggio di interrogarlo in proposito. Di solito, infatti, non ne parlano, nonostante si siano conosciuti grazie a quella faccenda, e quasi nulla di ciò che Melchor sa delle reazioni e delle conseguenze che ha provocato in Rosa lo sa da lei. Ciò che Melchor sa, in realtà, è poco e frammentario: che, per esempio, Rosa non ha più rivisto l’ex marito dal processo contro di lui; o che le sue quattro figlie, consapevoli che è stato il padre a commissionare l’omicidio dei loro nonni materni, lo hanno ripudiato. Per il resto, Rosa Adell continua a vivere nella masseria vicino a Corbera d’Ebre che quattro anni prima condivideva con Albert Ferrer – le quattro figlie adesso lavorano o studiano a Barcellona – e ha tentato o tenta ancora di superare l’omicidio dei genitori e la condanna del marito dedicandosi anima e corpo a guidare l’impero imprenditoriale costruito da suo padre, con le Gráficas Adell in testa. Lavora molto, viaggia molto e passa qualche fine settimana a Barcellona, con le figlie, però da qualche tempo, quando rimane nella Terra Alta, finisce per telefonare a Melchor o, ultimamente, per andare ad aspettarlo all’uscita dal cimitero.

Si lasciano sulla destra la stazione degli autobus, attraversano la nazionale e lo spiazzo di terra che si apre davanti all’Hotel Piqué ed entrano nel bar, a quell’ora occupato da un gruppo di turisti che fanno bisboccia al bancone, da una coppia di ciclisti e da un’altra di anziani. Rosa si siede a un tavolo, accanto a un finestrone che dà sul parcheggio, mentre Melchor aspetta al bancone il suo turno; quando finalmente riesce a farsi servire, porta i due caffè al tavolo.

«Mi hanno detto che le cose vi vanno bene» commenta Melchor, sedendosi di fronte a Rosa.

Nell’animazione del bar inondato di sole, la donna si è tolta gli occhiali scuri e guarda il poliziotto con i suoi occhi marroni, sereni e ovali, mentre gira il caffè.

«Le notizie volano nella Terra Alta» constata. «Hai già saputo di Medellín?»

Melchor annuisce.

«L’idea è stata del signor Grau» dice Rosa, cercando di non darsi importanza: un’ombra di rossetto brilla sulle sue labbra carnose. «La Colombia è un paese che funziona alla grande, ideale per investire, e aprire una fabbrica lì ci va a meraviglia. E poi, Medellín è una città stupenda.»

«Come se la passa?»

«Medellín?»

«Il signor Grau. È un sacco che non lo vedo.»

Rosa Adell socchiude gli occhi, abbozza un mezzo sorriso e beve un sorso di caffè.

«Vecchio» dice senza malinconia. «Ma è sempre là, in servizio permanente effettivo. La verità è che non so cosa farei senza di lui.»

Melchor annuisce di nuovo. Gli è appena passata per la mente l’immagine del sempiterno amministratore delle Gráficas Adell: un anziano ferreo, pallido, colto e miope, con un corpo macilento, i capelli radi e una sagacia comprovata negli affari, che, a novant’anni, sempre impeccabilmente vestito e ogni volta con le spalle più curve, continua ad andare tutti i giorni nel suo ufficio della zona industriale di La Plana, alla periferia di Gandesa, e a reggere il timone della nave ammiraglia dell’impero Adell. Per un istante ricorda anche, con stupore, che quel modello di onestà imprenditoriale e di lealtà personale nei confronti dell’uomo per il quale aveva lavorato tutta la vita era stato anche, mentre lui e Salom indagavano sul caso Adell agli ordini del viceispettore Gomà, il primo sospettato dell’omicidio dei genitori di Rosa.

«Be’, dovresti cominciare a pensarci» le consiglia Melchor.

«Lo so» ammette Rosa, guardando fuori dalla finestra. Nel parcheggio dell’albergo, protette dal sole da una tettoia di canne, sono parcheggiate appena un paio di macchine e un furgoncino delle consegne; il traffico all’entrata di Gandesa è minimo. «A proposito», si volta all’improvviso verso Melchor, «oggi il signor Grau viene a pranzo da me. Perché non venite anche tu e Cosette? Sono sicura che gli farà molto piacere.»

«Grazie, ma non posso. Abbiamo in programma di vedere un film a casa. E poi» aggiunge, dando una pacca alla sua borsa, che ha appeso a un bracciolo quando si è seduto, «oggi ho da lavorare.» Rosa guarda la borsa e poi Melchor, che spiega: «Sono manoscritti del concorso letterario».

La donna sorride apertamente: un sorriso ampio, beffardo, luminoso.

«Così alla fine ti hanno convinto a fare il giurato.»

Melchor distoglie lo sguardo, ma non trova un punto su cui posarlo.

«A quanto pare non c’era alternativa e...» Imbarazzato, consapevole che la frase si sta incamminando nella direzione sbagliata, ne inizia un’altra. «E questa non è la cosa peggiore.»

«Ah, no?»

«No. La cosa peggiore è che devo fare un discorso alla cerimonia di consegna dei premi. Mi hanno chiesto di dire qualche parola sulla lettura. O sulla letteratura. O sui romanzi che mi piacciono. Qualcosa del genere.»

«È un’idea carina.»

«Bellissima. Solo che io non ho mai fatto un discorso in tutta la mia vita.»

«Non dirmi che hai paura.»

Melchor si volta di nuovo verso Rosa.

«Paura no» confessa. «Panico.»

Lei ride di gusto.

«Non essere scemo, sbirro» dice. «Farai un figurone.»

«Certo.»

«Dico sul serio. Vuoi che ti aiuti a prepararlo?»

Negli occhi di Melchor brilla per un istante una scintilla di speranza, che si spegne appena crede di capire che, nonostante le sue assicurazioni di serietà, l’amica sta scherzando.

Prima che Rosa possa garantirgli che non scherza, Melchor si alza per ordinare altri due caffè. Dopo un po’ torna con le tazzine e, sebbene si rifiuti decisamente di ritornare sulla questione del discorso, per un po’ parlano del concorso letterario. Lo organizzano la biblioteca e la scuola, e nella giuria ci sono due professori, un poeta locale, la direttrice della biblioteca e Melchor; la consegna dei premi è prevista per l’inizio di settembre, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico. Melchor commenta un racconto di fantascienza che ha appena letto e che gli è piaciuto molto; lo riassume a Rosa, che – sebbene non sia un’amante della fantascienza, e nemmeno troppo amante della lettura – si mostra d’accordo con lui. Parlano anche di una proposta che ha fatto a Rosa il sindaco di Gandesa, quella di ampliare la fabbrica principale delle Gráficas Adell a La Plana, e di un viaggio di lavoro in programma alla filiale di Timişoara, in Romania. Discutono anche dei progetti per le vacanze: Rosa pensa di portare le quattro figlie in viaggio negli Stati Uniti per due settimane, mentre in agosto Melchor ha intenzione di fare la stessa cosa dell’estate precedente, quando ha trascorso alcuni giorni con Cosette a Molina de Segura, nella Murcia, a casa dell’ultima amica di sua madre, Carmen Lucas, e di suo marito Pepe.

«Morirete di caldo» predice Rosa.

«L’anno scorso siamo stati benissimo» replica Melchor. «Sai cosa è piaciuto di più a Cosette? Che tutte le sue amiche la chiamavano Cosé, come José.»

Rosa sta ancora ridendo quando squilla il telefono di Melchor, che controlla chi è e lo lascia squillare.

«Non rispondi?» chiede Rosa.

«È Vivales. Lo chiamo dopo.» Ora è Melchor che consulta l’orologio. «Cosette deve avere quasi finito. Andiamo?»

Su Domingo Vivales, Rosa Adell non sa molto più di ciò che sa su Carmen e Pepe. Melchor glielo ha presentato tempo prima, durante una delle sue visite a Gandesa, ma lei non riesce a capire quale sia il rapporto che unisce quei due uomini di età così diverse che potrebbero benissimo essere padre e figlio. In realtà, una delle poche cose che sa sull’avvocato è che, come Carmen Lucas, era amico di sua madre, e che Melchor ha ereditato quell’amicizia come si eredita un immobile. Il poliziotto non le ha raccontato altro; lei, da parte sua, non chiede, perché la prima regola non scritta della loro amicizia è di amministrare con estrema cura le reciproche intimità.

Mentre Rosa paga le quattro consumazioni – ecco un’altra regola non scritta della loro amicizia: sempre o quasi, è lei a pagare – un WhatsApp tintinna nel cellulare di Melchor. È il sergente Blai, che non è più sergente ma ispettore e non è in servizio nella Terra Alta ma alla centrale del corpo dei Mossos d’Esquadra, nel complesso Egara, alla periferia di Sabadell. «Come va, Spagna?» scrive Blai. «Dove sei?» «All’Hotel Piqué» risponde Melchor. «A scoparti una gnocca?» scrive ancora Blai. «Eh, eh, scherzo. Sono a casa dei miei suoceri, dovremmo vederci il prima possibile. Questo pomeriggio.»

«Tranquillo» dice Rosa Adell, raggiungendo Melchor sulla porta dell’hotel mentre si mette gli occhiali da sole. «Rispondi a chi devi rispondere.»

Percorrono lo spiazzo di terra e, mentre aspettano di attraversare la strada, Melchor scrive al cellulare: «Non posso». «Non rompere, dai, non vuoi più frequentare gli amici?» risponde immediatamente Blai, che subito dopo aggiunge: «È una cosa seria. Dobbiamo parlare. È urgente». Stanno ripercorrendo avenida Joan Perucho sotto il sole cocente di mezzogiorno.

«Cose di lavoro?» indaga Rosa Adell.

Melchor risponde di sì.

«Io nei fine settimana lascio il cellulare in ufficio» ammette Rosa. «È importante?»

«Sicuramente no, però lo sembra.»

Arrivati all’altezza del tribunale, Melchor scrive di nuovo: «Ti chiamo dopo». «Sbrigati» replica Blai. «Alle sette ho una grande festa di famiglia. Dobbiamo vederci prima.» La risposta di Melchor è un’emoji con un pugno giallo con il pollice in alto.

Quando alza lo sguardo dal cellulare, Rosa Adell ha appena aperto la portiera della sua macchina.

«Sei sicuro che non volete venire a pranzo a casa?» insiste.

«Sicuro. Saluta il signor Grau da parte mia.»

Si accomiatano con due baci sulle guance.

 

 

Cambio di programma. Uscendo dalla piscina municipale, Cosette chiede a Melchor il permesso di andare a pranzo dalla sua amica Elisa Climent e di passare il pomeriggio con lei; dopo aver parlato con la madre dell’amica e aver negoziato con Cosette, Melchor finisce per acconsentire. «Alle sei vengo a prenderti» la avverte. Appena rimane da solo, pensa che può chiamare Rosa Adell e pranzare con lei e con il signor Grau, ma subito scarta l’idea e si incammina verso la piazza. Trascorre lì il resto della mattinata, seduto nel dehors del bar, a bere Coca-Cola e leggere i racconti presentati al concorso letterario: marca con un segno  quelli che gli piacciono poco o non gli piacciono, con un segno + quelli che gli piacciono e con due segni + quelli che gli piacciono di più, per rileggerli alla fine e scegliere tra quelli i vincitori.

Verso le due se ne va a casa. Quando arriva, si prepara un’insalata con formaggio e frutta secca e una bistecca alla griglia e le mangia seduto in cucina, buttandole giù con la terza Coca- Cola del sabato mentre di tanto in tanto spia il posto vuoto dall’altra parte del tavolo, dove di solito si sedeva Olga.

Quattro anni sono passati dal pomeriggio in cui è morta investita da un’automobile affittata il giorno prima a Tortosa da Albert Ferrer. Quest’ultimo, come ha assicurato durante gli interrogatori della polizia e nel corso del processo, non aveva intenzione di ucciderla ma soltanto di intimorire Melchor, di costringerlo ad abbandonare una buona volta le indagini sull’omicidio dei suoi suoceri, che si era impegnato a portare avanti per suo conto malgrado il caso fosse stato già ufficialmente chiuso. In ogni caso, non è quasi passato un solo giorno dalla morte di Olga senza che Melchor abbia pensato a lei. Quando accade, quando dimentica per un po’ la moglie, si sente male, anche se non sa perché. Ha cercato di ricostruire nei particolari, nevroticamente, settimana per settimana, giorno per giorno, minuto per minuto, i tre anni e mezzo vissuti con lei, ma non ci è riuscito, e a tratti prova un sentimento contraddittorio rispetto a quel periodo felice in cui, dopo essere arrivato nella Terra Alta, aver conosciuto Olga ed essersi innamorato di lei, si erano sposati e avevano avuto Cosette: da una parte, gli sembra qualcosa di completamente irreale, come se, più che averlo vissuto, l’avesse visto in un film o lo avesse sognato; dall’altra, gli pare l’unica cosa reale che gli sia mai successa, che nella vita non gli sia accaduto mai nulla di così reale come la sua vita con Olga. All’inizio, dopo la morte della moglie, si domandava in continuazione cosa avrebbe detto lei di questo o di quello, ma dopo un po’ era riuscito a evadere da quella tortura irrazionale. In compenso, non riesce ancora a parlare di lei con nessuno, nemmeno con Cosette, e quando la bambina chiede della madre, di cui a stento conserva qualche ricordo, non sa cosa dirle e risponde con frasi evasive.

I primi tempi senza Olga erano stati molto duri. Non riusciva a togliersi dalla testa la sua morte; e nemmeno a smettere di sentire di aver mancato in qualcosa nei confronti di sua moglie: da qualche parte aveva letto che, finché dura il rimorso, dura anche la colpa, e a lui i rimorsi continuavano a tormentarlo da dentro. Le due cose spiegano come mai, dopo alcuni mesi, avesse preso la decisione di allontanarsi dalla Terra Alta, con la speranza che abbandonare quel luogo, che grazie a Olga era diventato la sua casa, lo aiutasse a superare la sua morte. A quel punto erano ormai trascorsi cinque anni dagli attentati di matrice islamica del 2017, molti dei suoi colleghi sapevano che era stato lui ad abbattere quattro terroristi a Cambrils e i suoi capi erano consapevoli che, se non altro all’interno del corpo, era diventato un simbolo; così, avvalendosi per la prima volta della sua posizione privilegiata, aveva chiamato il commissario Fuster e gli aveva chiesto il trasferimento.

La reazione di Fuster era stata quella sperata. Il commissario non gli aveva chiesto perché volesse cambiare destinazione; soltanto dove voleva andare. Melchor, prevedibilmente, aveva risposto Barcellona. Prevedibilmente perché, nonostante fosse lontano da tanto tempo, sapeva che quella continuava a essere la sua città: non aveva mai vissuto altrove fino a quando, dopo gli attentati, l’avevano destinato alla Terra Alta allo scopo di proteggerlo da possibili rappresaglie islamiste. A Barcellona, inoltre, aveva Vivales, che era stato un sostegno costante dalla morte di sua madre e che, ne era sicuro, l’avrebbe aiutato a crescere Cosette. «Vuoi continuare come investigatore criminale?» gli aveva chiesto Fuster, sollecito come sempre. «Non so fare altro» aveva risposto Melchor. «Allora sei fortunato» si era complimentato il commissario. «Ho appena parlato con il capo della DIC e mi ha detto che alla Sequestri ed Estorsioni sono a ranghi ridotti. Che te ne pare dell’idea di venire qui, a Egara?» «Fantastico» aveva detto Melchor, tanto impaziente di andarsene dalla Terra Alta che avrebbe accettato il peggior lavoro nella peggiore topaia del peggior commissariato. «Occhio» lo aveva avvertito Fuster. «Non aspettarti una pacchia. L’unità è molto esigente. Non ti annoierai, imparerai molto; però lavorerai come un negro.» «Perfetto» aveva detto lui.

Diceva sul serio: Melchor pensava che la relativa inattività e la quiete rurale del commissariato della Terra Alta, che così bene gli avevano fatto anni prima, quando Olga era viva, adesso lo stavano uccidendo; pensava anche che, quanto più coinvolgente fosse stato il suo lavoro, tanto meglio sarebbe stato per lui. Melchor, d’altra parte, sapeva che Cosette era una bambina piena di curiosità e di energia, però capace di adattarsi, e che la morte di Olga, lungi dal renderla fragile, le aveva indurito il carattere. Così, anche se il radicamento di Cosette nella Terra Alta era profondo come il suo e forse all’inizio non le sarebbe piaciuto lasciarla, era convinto che avrebbe vissuto come un’avventura il cambio di casa e di scuola, la novità della grande città e la sfida di farsi nuove amiche; era anche sicuro che sarebbe stata contenta di avere vicino Vivales.

L’Unità centrale Sequestri ed Estorsioni faceva parte della Sezione centrale Indagini sulle persone, che dipendeva a sua volta dalla Divisione indagini criminali (DIC), e quando Melchor vi prese servizio capì che il commissario Fuster non parlava meno seriamente di lui. Quello di cui Fuster non lo aveva avvisato, invece, era che, oltre a essere un’unità esigente, la Sequestri ed Estorsioni era un’unità singolare. In quel periodo era formata da dodici persone, nove uomini e tre donne che lavoravano agli ordini del sergente Vàzquez, un quarantenne rapato, muscoloso e iperattivo, con un’aria da bulldog e una fama da poliziotto severo e attaccabrighe. Era vero che Vàzquez si lamentava in continuazione con i superiori dell’insufficienza di effettivi nella sua unità, ma se ne lamentava a ragione: non per nulla la Sequestri ed Estorsioni lavorava ventiquattro ore al giorno, per tutto l’anno e in tutto il territorio catalano. Tuttavia, a renderla singolare – e a imporle di non operare come nessun’altra, di non assomigliare a nessun’altra – era l’obbligo di essere l’unità più discreta del corpo; la riservatezza era in effetti la chiave della sua efficacia: la prima cosa che Melchor imparò quando prese servizio alla Sequestri ed Estorsioni fu che, quanto meno si sapeva in giro che stavano cercando di risolvere un caso, più possibilità avevano di risolverlo. Rendeva singolare l’unità anche l’alto livello di specializzazione dei suoi membri, cosa che costrinse Melchor a specializzarsi a tappe forzate. Nei primi mesi seguì quattro corsi: uno da negoziatore, uno sui sequestri, un altro sul crimine organizzato e un altro ancora di investigazione avanzata. Erano corsi esclusivi, ai quali poteva iscriversi soltanto personale molto selezionato (membri di quella stessa unità o di unità simili della Guardia Civil, della Polizia nazionale o della Ertzainza basca), in cui si richiedeva di mantenere il segreto su ciò che veniva spiegato e in cui, per evitare fughe di notizie, non veniva nemmeno distribuito materiale scritto. «Se i criminali scoprono come li combattiamo, è andata a quel paese la trovata» ripeteva sempre Vàzquez a chi si preparava a seguire un corso. «Per cui, fuori da qui, neanche una parola su quello che imparate. Come ha detto non so quale saggio, il silenzio è invincibile.»

Per mesi, Melchor si godette la nuova destinazione. Lavorava molto e, quando non lavorava, si occupava di Cosette, leggeva e parlava con Vivales (che lo aiutava a badare a Cosette). Continuava a essere un lettore accanito, ma adesso divideva le letture tra i romanzi suoi e quelli che, prima di dormire, leggeva alla figlia. La quale, per il resto, si acclimatò alla capitale con l’entusiastica facilità che lui aveva previsto. Naturalmente, Melchor sapeva che alla bambina mancava la Terra Alta, ma non glielo sentì mai dire; anche a lui, a volte, mancava. Nel giro di poco tempo, inoltre, capì che, per quanto lavorasse, per quanto lontana fosse la Terra Alta, non sarebbe riuscito a togliersi dalla mente la morte di Olga, e finì per accettare di dover convivere per tutta la vita con quel ricordo avvelenato.

Con sua sorpresa, il ritorno a Barcellona risvegliò anche un altro ricordo, non meno velenoso, che era rimasto in letargo per anni: il ricordo dell’assassinio di sua madre. Quando viveva nella Terra Alta pensava di tanto in tanto a lei, però mai o quasi mai alla sua morte; il motivo di quella benedetta omissione era probabilmente che, dopo aver passato anni a cercare in maniera ossessiva di risolvere il delitto a modo suo, nei momenti liberi e violando alcune delle regole più elementari delle indagini di polizia, proprio prima di trasferirsi nella zona aveva scoperto per caso che la donna che si trovava con sua madre quell’ultima notte si chiamava Carmen Lucas, l’aveva localizzata in una frazione della campagna di Murcia, c’era andato e l’aveva interrogata per due giorni senza ricavarne una sola traccia che potesse portare agli assassini, il che aveva finito per convincerlo che sul delitto non sarebbe mai stata fatta chiarezza. Adesso, invece, il suo ricordo era di nuovo lì, igneo e tenace, come se tornare a Barcellona significasse imbattersi in quello e in tutti gli altri atroci ricordi in prestito che vi associava: il ricordo di sua madre che si prostituiva nei dintorni del Camp Nou, insieme a Carmen Lucas e alle loro colleghe di sventura; il ricordo di una BMW marrone o di una Volkswagen scura o di una Skoda nera, a seconda del testimone consultato, su cui sua madre all’inizio si era rifiutata di salire dopo una trattativa fallita con i suoi occupanti («Una banda di ragazzini bene che sono usciti a divertirsi con la macchina di papà» gli aveva detto Carmen) e sulla quale più tardi, spinta dalla disperazione di una nottata senza clienti, aveva accettato di montare; il ricordo del cadavere di sua madre trovato all’alba del giorno dopo in uno spiazzo di La Sagrera, a Sant Andreu, con il cranio fracassato a pietrate. Tutti quei ricordi parziali configuravano un unico ricordo lacerante che allora tornò con forza, come se un cantuccio inespugnabile di Melchor non avesse ancora potuto accettare che quel remoto omicidio rimanesse impunito. Riassumendo: era scappato dalla Terra Alta per fuggire a un delitto risolto, e a Barcellona l’avevano acciuffato in due, uno risolto e l’altro irrisolto.

Quando comprese che, per quanto volesse disfarsi dei suoi peggiori ricordi, i suoi peggiori ricordi non volevano disfarsi di lui, decise di tornare nella Terra Alta. Aspettò a chiedere il trasferimento fino alla fine dell’anno scolastico, che coincise con un evento che, in pratica, disintegrò l’Unità Sequestri ed Estorsioni.

Fu il rapimento della figlia di un narcotrafficante venezuelano che risiedeva con la famiglia in una villetta di Ampuriabrava, un paesino di mare vicino alla frontiera francese. La vittima era stata sequestrata da una banda rivale, che il venezuelano aveva tentato di truffare, e che richiedeva per la sua liberazione una somma di denaro che lui non era in nessun modo in grado di mettere insieme. Per mesi l’unità al completo lavorò sul caso, con Vàzquez come negoziatore principale tra le due bande. Furono trattative aspre, complesse e nervose, nel corso delle quali il trafficante venezuelano ricevette a casa, uno dopo l’altro, tre ditini tagliati della figlia, che aveva appena compiuto cinque anni. Finalmente, Vàzquez credette di aver localizzato la bambina in un magazzino nella periferia di Molins de Rei e organizzò un dispositivo per la sua liberazione formato da ottanta persone, compresi membri della Guardia Civil e della Polizia nazionale. L’operazione fallì. Ci furono tre arrestati e un morto, però non riuscirono a salvare la figlia del venezuelano, e il ricordo più vivido che Melchor conservava di quel giorno era l’immagine di Vàzquez seduto in una pozza di sangue sul pavimento di cemento del magazzino, con la testa tagliata della bambina in grembo e gli occhi fuori dalle orbite, che tremava e urlava come un indemoniato.

Dovettero strappargli la testa dalle mani, e quel giorno stesso Vàzquez venne ricoverato in un ospedale da cui uscì soltanto dopo una settimana, ma non per tornare alla Sequestri ed Estorsioni, bensì per essere destinato, dietro sua richiesta, a un commissariato della Seu d’Urgell, sui Pirenei di Lérida, di dove era originario. Tutto questo Melchor lo venne a sapere a poco a poco, quando era già tornato nella Terra Alta. Non si era più mosso da lì negli anni successivi, durante i quali si era dedicato a sua figlia e al suo lavoro al commissariato. Occupava il suo abbondante tempo libero dando una mano nella biblioteca dove aveva lavorato Olga e studiando alla facoltà di Informazione e Comunicazione dell’Universitat Oberta de Catalunya; e, ovviamente, leggendo romanzi, sebbene dopo la morte di Olga avesse evitato di rileggere I miserabili, che fino ad allora era stato, oltre che il suo romanzo preferito, lo specchio in cui si guardava e l’arma con cui si difendeva dalle offese della vita. Non era stato in grado, invece, di togliersi un altro vizio, più o meno segreto. Non perdeva un colpo: individuo denunciato per aver picchiato una donna nella Terra Alta, individuo che riceveva una manica di botte di cui, almeno in commissariato, tutti sapevano chi era l’autore, e sulla quale tutti erano costretti a chiudere un occhio.

 

 

Quando finisce di pranzare, lava i piatti, si prepara un caffè e continua a leggere manoscritti seduto sul divano del salotto. Alle cinque, con puntualità professionale, arriva l’ispettore Blai.

«Queste donne della Terra Alta sono il colmo» è la prima cosa che dice, accalorato, quando fa irruzione in casa di Melchor. «Non c’è verso di sradicarle da qui.»

Si tratta della stessa lamentazione che Melchor ha sentito mille volte dalle labbra dell’ex comandante dell’Unità investigativa della Terra Alta da quando se n’è andato a Barcellona: che sua moglie non si adatta a vivere lontano da lì e che, per quella ragione, ogni fine settimana la famiglia torna a casa dei suoi genitori, a La Pobla de Massaluca. Melchor offre un caffè all’amico. Blai lo accetta e, mentre Melchor comincia a prepararlo, continua a lagnarsi, con il peso del suo corpaccione appoggiato alla cornice della porta della cucina.

«Passo la settimana a lavorare come un negro e, appena arriva il venerdì, via in macchina a rischiare la pelle su queste strade abbandonate da Dio e dagli uomini per raggiungere il prima possibile la Terra Alta, come se stesse per finire il mondo. E quindi, invece di riposare come la gente normale, eccomi di nuovo il sabato e la domenica a fare su e giù per le montagne, così i ragazzi conoscono la terra della madre e non perdono le radici. ’Fanculo le cazzo di radici: quando vivevamo qui, ce ne fottevamo tutti delle radici, a cominciare da mia moglie. Senza contare che mi sto ciucciando i suoceri da fare schifo, è chiaro. E i ragazzi, non te lo dico nemmeno: insopportabili. A proposito, dov’è Cosette?»

«Da un’amica.»

«Sta bene?»

«Benissimo.»

«E tu?»

«Anch’io.»

«Su, dammi una buona notizia, dai. Dimmi che ti sei trovato una fidanzata. Rallegrami la giornata, ché ne ho proprio bisogno. Ma lascia che ti dia un consiglio: se ti fai una fidanzata, che non sia della Terra Alta. Poi non c’è verso di tirarle fuori da qui.»

«Quello che dovresti fare è tornare» gli consiglia Melchor. «A proposito, saprai che siamo senza capo da maggio, no?»

«Se lo so?»

La macchinetta ha appena macinato il caffè con uno scricchiolio di ghiaietto triturato e, prima di premere un bottone lampeggiante perché il liquido inizi a sgorgare da due tubicini di acciaio inossidabile, Melchor si volta verso Blai, che gli si è avvicinato.

«Sai mantenere un segreto?» domanda l’ispettore.

Melchor ha da poco letto un romanzo di G.K. Chesterton in cui un personaggio rivolge a un altro quella stessa domanda e l’altro risponde: «Se tu non sei capace di mantenere un segreto, come vuoi che lo mantenga io?» Ma non vuole irritare l’amico, perciò dice:

«Certo».

«Hanno offerto l’incarico a me.»

«Di capo del commissariato?»

Blai annuisce con aria afflitta. Melchor domanda:

«E cosa hai risposto?»

«Cosa volevi che rispondessi?» sbuffa l’altro, gesticolando. «Con la fatica che mi è costata uscire da questo buco...»

È vero. Due anni e mezzo prima, quando era ancora sergente e comandante dell’Unità investigativa della Terra Alta, Blai aveva vinto un concorso per ispettore al quale si era presentato su consiglio dei superiori. Ritenevano che il corpo potesse trarre vantaggio dall’aura di asso delle indagini criminali che lo circondava, grazie ai suoi numerosi interventi in radio e nei talk show televisivi, dopo la risoluzione del caso Adell, di cui l’opinione pubblica gli attribuiva il merito; il fatto era che né Blai né nessun altro al commissariato avevano avuto il minimo interesse a smontare la versione ufficiale del caso, secondo cui era stato lui e non Melchor a scoprire la verità. All’inizio, quell’equivoco aveva messo un po’ a disagio Melchor, perché pensava che dentro di sé Blai si sarebbe considerato un impostore; ma smise di preoccuparsi appena comprese che, dopo aver raccontato innumerevoli volte in pubblico, in ogni minimo particolare, come aveva risolto il caso Adell, il suo ex capo aveva completamente dimenticato la realtà e, tranne quando rievocava gli eventi a tu per tu con Melchor, sembrava convinto di essere stato effettivamente lui e non Melchor a identificare i responsabili del triplice omicidio.

Blai insiste perché l’amico mantenga il segreto che gli ha appena confidato («Fammi ’sto favore, eh, Spagna? Tu non sai com’è mia moglie: se scopre che ho rifiutato l’incarico, mi taglia le palle») e continua a inveire contro la sua vita a cavallo tra Barcellona e la Terra Alta. Finché, quando Melchor gli dà la sua tazza di caffè e gli indica la sedia di Olga, si siede e domanda:

«Sai qual è l’unica cosa che mi ricompensa un poco di tutta questa merda?»

Melchor intuisce la risposta perché conosce il suo ex capo quanto il suo ex capo conosce lui. E tuttavia, chiede:

«Cosa?»

Ciò che lenisce il peso dei contrattempi famigliari di Blai non è, a quanto ne sa Melchor, che i capoccia che l’hanno incoraggiato a presentarsi al concorso e gli hanno promesso tra i denti il loro aiuto abbiano mantenuto la parola e l’abbiano promosso ispettore; nemmeno il fatto di avere ottenuto quella promozione saltando un gradino della gerarchia e senza passare per il grado intermedio di viceispettore; e neanche che, nonostante quella raccomandazione scandalosa, lui non ci abbia messo molto a dimostrare che, quali che fossero i suoi autentici meriti, è un professionista competente e meritava la promozione, al punto che non molto tempo dopo ha ricevuto l’incarico di dirigere la Sezione centrale Indagini sulle persone e che è stato destinato alla centrale di Egara, dove aveva sempre sognato di lavorare, perché è il posto in cui si dispone di tutte le risorse e si prendono tutte le decisioni rilevanti.

No: la ricompensa di Blai è un’altra.

«Incrociare ogni giorno Gomà» proclama in effetti l’ispettore, portandosi la tazza alle labbra, meno attento ad assaporare il caffè che alla frase appena pronunciata. I due poliziotti sono seduti uno di fronte all’altro, alle estremità di un tavolo dove sono rimasti diversi ingredienti dell’abituale colazione di Cosette: una scatola di Kellogg’s e un pacchetto di biscottini di mais al cioccolato pubblicizzati da un cuoco televisivo. Ancora con la tazza in mano, Blai fa una faccia di felicità: «Sfiorarlo nei corridoi, trovarlo alle riunioni, prendere un caffè vicino a lui» enumera. «Dio, che piacere. Chi glielo avrebbe detto quattro anni fa a quel buffone, eh? Chi glielo avrebbe detto che lo stesso sergente che aveva allontanato in malo modo dal caso Adell, per godersi da solo la gloria del successo, sarebbe stato adesso il suo superiore a Egara mentre lui sarebbe stato ancora un fottuto viceispettore, perché è stato bocciato allo stesso concorso che ho vinto io? E chi glielo avrebbe detto che tutto questo sarebbe successo proprio per avermi tolto il caso Adell, perché lui non è stato in grado di risolverlo e ho dovuto togliergli io le castagne dal fuoco? Certo, certo, so che dirai che non sono stato promosso soltanto perché ho risolto il caso Adell, che prima del caso Adell avevo già accumulato abbastanza meriti per essere ispettore, però... Che scherzi che fa la vita, eh, Spagna? E, a proposito, hai saputo di Salom?»

Melchor alza lo sguardo dal tavolo, coperto da una cerata a quadri, e scruta Blai.

«Non so niente di Salom» riconosce.

Blai non sembra sorprendersi; beve il caffè tutto d’un sorso e lascia la tazza sul piattino. Sta per compiere cinquant’anni e, sebbene non sfoggi neanche un capello sul cranio, il suo corpo privo di grasso e la sua muscolatura da habitué della palestra fanno sì che ne dimostri dieci o quindici in meno; è alto un metro e novanta, indossa indumenti sportivi molto attillati e i suoi occhi azzurri si fissano senza riguardi sull’interlocutore.

«Alla fine non sei andato a trovarlo a Quatre Camins, vero?» domanda.

Melchor nega scuotendo la testa.

«Non dovresti portare rancore. Dopo tutto, era il tuo migliore amico.»

«Non porto rancore. Semplicemente non ho niente da dirgli.»

«Invece lui aveva qualcosa da dire a te. Perciò mi aveva chiesto di farti andare da lui. Credo che volesse scusarsi.»

«Si è già scusato.»

«Voleva scusarsi davvero. È pentito.» Blai fa una pausa un po’ teatrale. «Tutti commettiamo errori, no?»

Melchor sorride.

«Adesso mi fai la predica?»

«Vaffanculo, Spagna.»

Melchor lascia che il sorriso gli aleggi sulle labbra mentre lui e Blai si osservano per un secondo. Voci acute di bambini arrivano in quel momento da calle Costumà, e Melchor si chiede se Blai abbia voluto incontrarlo con quell’urgenza soltanto per parlare dell’ex caporale.

«Che è successo con Salom?» domanda.

«Niente» risponde l’ispettore. «L’altro giorno ho visto la giudice di sorveglianza che si occupa di lui e mi ha detto che gli hanno di nuovo ridotto la pena. Tra un paio d’anni sarà fuori. Forse prima.»

Le voci dei bambini si sono spente e un silenzio imbarazzante si impossessa della cucina.

«Sono contento per lui» dice Melchor. «E per le figlie.»

«Le vedi?»

«Ogni tanto, soprattutto Claudia. Insegna all’istituto.» Dopo una pausa, aggiunge: «Però nessuna delle due mi saluta».

Blai sospira, scuote la testa da una parte all’altra, fa schioccare la lingua.

«Normale, non credi?» riflette. Di colpo, le voci dei bambini animano di nuovo il sopore del pomeriggio. «La madre morta, il padre in carcere e tutti i loro sogni nel secchio della spazzatura. A vent’anni e poco più. È la storia di sempre nella Terra Alta, perciò ho voluto svignarmela da qui... Gli hanno rovinato la vita.»

«Gliela abbiamo rovinata noi. O abbiamo finito di rovinargliela.»

«Stronzate. Chi gliel’ha rovinata è stato il padre, facendo quello che non doveva.»

«Può darsi, ma a metterlo sotto inchiesta siamo stati noi. E poi, quello che ha fatto lo ha fatto per loro. E noi due lo sappiamo.»

«Cosa? Aiutare quel decerebrato di Ferrer a uccidere gli Adell? L’ha fatto per le figlie? Ma dai! L’ha fatto perché gli è venuto così, perché chi troppo vuole nulla stringe, o come si dice.»

«Un minuto fa lo stavi difendendo.»

«Una cosa è difenderlo e un’altra dire che non è responsabile delle sue azioni. Senti, io non so perché ha fatto quello che ha fatto, però l’ha fatto. Mi sembra una buona cosa che si penta, però l’ha fatto. Punto e basta.» Un po’ arrabbiato, Blai distoglie lo sguardo da Melchor; ma subito dopo lo fissa di nuovo, all’improvviso curioso: «Ehi, non ti sarai mica pentito di averlo fatto finire in carcere, vero?»

Con aria scoraggiata, Melchor sposta contro il muro la scatola di Kellogg’s e si alza.

«Smettila con questa storia del pentimento» lo prega. «Vuoi un altro caffè?»

Blai annuisce e Melchor avvia di nuovo la macchinetta. Mentre la cucina si riempie un’altra volta di un crepitio di chicchi macinati, Melchor si domanda se Blai sia preoccupato per l’uscita dal carcere di Salom.

«Era questo che avevi tanta fretta di dirmi?» chiede.

«No» risponde con una voce diversa l’ispettore, alzandosi di nuovo e facendo qualche passo per la cucina. «Sono venuto perché ho un problema.»

Melchor aspetta che la macchinetta finisca di macinare il caffè, mette una tazza sotto i due tubicini di acciaio, preme il pulsante luminoso e dai tubicini escono fiotti di liquido scuro.

«Che problema?» chiede senza voltarsi.

«Te lo dico se prometti di darmi una mano.»

I tubicini smettono di sgorgare, Melchor toglie la tazza piena a metà di caffè, ne mette al suo posto una vuota e preme di nuovo il pulsante.

«Vuoi che ti dia una mano con un caso?»

«Già.»

«Vuoi che torni alla Sequestri ed Estorsioni?»

«Sì. Solo per pochi giorni, il tempo sufficiente a risolvere la faccenda.»

Nella cucina cala di nuovo il silenzio, stavolta popolato dal ronzio elettronico della macchinetta, che continua a dispensare caffè. È da un po’ che non si sentono le voci dei bambini.

«Non ti aiuterò» dice Melchor. «Sto per ritirarmi. E poi, lì non conosco più nessuno.»

«Ti sbagli. Vàzquez è tornato.»

Melchor si volta verso di lui inarcando un sopracciglio indagatore.

«Da quasi un anno» spiega Blai. «Il nuovo commissario delle Indagini criminali l’ha convinto. Non è stato tanto difficile: pare che alla Seu d’Urgell si annoiasse a morte.»

«Non me lo avevi detto.»

«Non me lo avevi chiesto.»

Melchor fa un gesto vago di approvazione e dà di nuovo le spalle all’ispettore.

«Bene, sono contento, perché questo significa che non hai bisogno di me» ragiona. «Vàzquez è bravissimo.»

«Lo so, ma è cocciuto come una capra. Lo conosci: vuole fare sempre di testa sua. Non posso fidarmi di lui, almeno in questo caso. Perciò ho bisogno di te.»

«Scordatelo.»

«Sarà per poco tempo, con un po’ di fortuna in una settimana liquidiamo la faccenda. E poi, ho già detto a Vàzquez che verrai. È contentissimo.»

«Cioè, gli hai mentito.»

«Non rompere, Spagna.»

«Non rompo. Ma non insistere: cercati qualcun altro.»

Blai protesta, impreca, sbuffa. Il caffè ha smesso di nuovo di uscire e da qualche secondo Melchor sta offrendo la tazza al collega, che non sembra disposto a prenderla, come se quel rifiuto fosse l’emblema di un altro: il rifiuto di dare per persa la discussione. Finalmente sembra arrendersi, prende la tazza, beve un sorso, poi un altro; alla fine domanda:

«Cos’è la storia che stai per ritirarti?» Il suo tono disinvolto non inganna Melchor: Blai non si è arreso; ha soltanto cambiato strategia. «Pensi di andartene in pensione o cosa?»

Anche lui con la sua tazza in mano, Melchor replica:

«Più o meno. Appena mettono a concorso un posto in biblioteca, mi presento e lascio il commissariato».

Blai guarda Melchor come se gli avesse appena comunicato che si sottoporrà a un’operazione per cambiare sesso.

«Ma sei fuori di testa o che?»

Melchor beve il caffè d’un sorso, lascia la tazza nell’acquaio e spegne la macchinetta.

«Pensavo di averti detto che stavo studiando biblioteconomia alla UOC.»

«Sì, ma...»

«In realtà, non ho neanche bisogno di finire il corso. Be’, soltanto per fare il direttore di una biblioteca. Perciò, appena si apre una posizione di assistente bibliotecario, mi presento. Guadagnerò meno che al commissariato, ma sarà sufficiente. Cosette e io ce la caviamo con poco.»

Blai è sempre a bocca aperta.

«Mi stai prendendo in giro, vero?»

«No» dice Melchor.

Adesso, nell’espressione di Blai il fastidio si aggiunge all’incredulità.

«Sei impazzito, amico» sentenzia, scuotendo la testa. «Bibliotecario, tu? A cosa diavolo stai pensando? A sostituire Olga o cosa?»

«Certo che no» risponde Melchor. «Come ti viene in mente?»

«Scusa se te lo ricordo, ragazzo» prosegue Blai, come se non lo avesse sentito. «Però tua moglie è morta, è morta quattro anni fa, accettalo una buona volta, ché ormai è tempo.» Melchor vorrebbe intervenire, ma non può; Blai è partito in quarta. «E poi, fuori dal commissariato soffocherai. Una cosa è dare una mano in biblioteca ogni tanto e un’altra passare tutta la giornata lì, a mettere in ordine i libri, ad aiutare i vecchietti, a leggere favole ai bambini e a portare romanzi in piscina con un carrello, per vedere se viene voglia di leggere a degli adolescenti che pensano soltanto a scopare, te lo dico io che ne ho qualcuno in casa. Insomma, non resisteresti neanche una settimana. Com’è vero che mi chiamo Blai. Ma se sei lo sbirro più sbirro che abbia mai visto...!»

«Non più» riesce a interromperlo Melchor. «Quello era prima.»

«Ah, sì? E come funziona, che adesso la vocazione passa con il tempo, come la congiuntivite?»

«La vocazione è una favoletta, Blai.»

«Sì. Col cazzo.»

In piedi accanto al ripiano di marmo della cucina, i due polizotti si fissano per un istante. Blai ha i pugni contratti, gli avambracci che tremano e la mandibola sul punto di esplodere, come d’abitudine quando si infiamma. Dal canto suo, Melchor sente ciò che prima o poi finisce per sentire ogni volta che, da un po’ di tempo in qua, conversa con il suo ex comandante dell’Unità investigativa della Terra Alta: che gli mancano le sue bizze.

«Beviti quel caffè, dai» gli dice. «Si raffredda.»

Frustrato e controvoglia, senza sapere cosa aggiungere alla sua strigliata, Blai beve il caffè, e Melchor guarda l’orologio a forma di mela appeso alla parete della cucina. Sono le sei passate.

«Vado a prendere Cosette» annuncia. «Mi accompagni?»

Blai afferra Melchor per un braccio.

«Sai perché ho bisogno che mi aiuti?»

Il caffè non ha rilassato Blai: le sue dita sono artigli.

«Perché non mi fido di nessuno» si risponde da solo, cercando angosciato gli occhi di Melchor. «Egara qui, Egara là, ma quel posto è pieno di fichetti e figurini; poliziotti veri, pochi. E poi, quello che mi hanno affidato è un caso importante. Non importante, eccezionale. E ho urgentemente bisogno di risolvere un caso eccezionale. I miei capi iniziano a pensare di essersi sbagliati su di me. Non lo dicono, ma io lo so, queste cose si notano, Melchor, è come quando tua moglie te le mette con un altro. Iniziano a domandarsi se la faccenda del caso Adell non sia stato soltanto un colpo di fortuna, se io non sia un bluff. Sono preoccupato, lo capisci vero?»

«Invece non dovresti esserlo» commenta Melchor.

Di colpo lo sguardo di Blai si trasforma: non è più di angoscia, ma di curiosità; di genuina curiosità.

«Tu credi?» domanda.

«Certo» risponde Melchor. «Sei sempre stato un bravissimo poliziotto.»

L’elogio fa gonfiare Blai come un tacchino, anche se cerca di dissimularlo.

«Già, già» dice.

Melchor capisce che la vanità dell’amico non è del tutto soddisfatta; e anche che non lo sarà mai.

«E poi» aggiunge, deciso a non farla gonfiare ancora di più, o a farla scoppiare, «se ti cacciano da Egara puoi sempre tornare qua. E fine dei problemi famigliari.»

Come se avesse appena ricevuto una scarica elettrica, Blai molla il braccio di Melchor, che sorride con gli occhi, ma non con la bocca.

«Sai che ti dico, Spagna?» chiede l’ex comandante dell’Unità investigativa della Terra Alta, scuotendo di nuovo la testa e facendo schioccare la lingua. «Che un giorno o l’altro, quando meno te lo aspetti, ti spacco la faccia.»

I due uomini escono insieme su calle Costumà, dove non c’è più traccia dei bambini. Sfidando la canicola estiva, si dirigono verso la chiesa senza incrociare nessuno, attraversano la piazza, costeggiano la rotonda della Farola e proseguono per avenida de Catalunya. Hanno ripreso vagamente la conversazione sulla Sequestri ed Estorsioni, perché Melchor ha chiesto di Vàzquez.

«È una dinamo» lo definisce Blai, per chiedere subito dopo: «Ai tuoi tempi passava le giornate a incazzarsi per tutto perché gli mancava gente?»

«Sì» risponde Melchor.

«Be’, anche adesso» dice Blai.

Poco prima di arrivare all’Hotel Piqué svoltano a destra. Il telefono di Melchor squilla di nuovo: ancora Vivales.

Anche stavolta Melchor non risponde e, quando stanno ormai per arrivare a casa di Elisa Climent, Blai torna alla carica e gli domanda, con un tono di offesa incredulità, se davvero non gli darà una mano. Melchor non è sorpreso: ha lavorato abbastanza agli ordini di Blai per avere la certezza che, se l’ispettore è ancora lì, ad accompagnarlo a prendere Cosette, è perché confida nella propria capacità di ricatto o nelle proprie doti di persuasione, perché non si è ancora dato per vinto. Si sono fermati sotto il tendone di un negozio di alimentari aperto.

«È l’ultimo favore che ti chiedo» insiste Blai, e la sua voce suona troppo stridente nel silenzio sabatino delle strade svuotate dall’afa. «L’ultimo. Pensa anche che sarà il tuo ultimo vero caso, se la faccenda della biblioteca va in porto. Vieni per qualche giorno in missione a Barcellona, con Cosette, poi torni e te ne stai con i tuoi vecchietti e i tuoi bambini.»

Melchor pensa che Blai non sta dicendo niente di insensato, che non gli stia chiedendo cose dell’altro mondo. Negli occhi dell’amico c’è un luccichio di supplica.

«Non sei nemmeno curioso di sapere di cosa si tratta?»

«Di cosa si tratta?»

Non appena si sente formulare quella domanda, Melchor capisce di avere sbagliato, ma non trova il modo di ritirarla, o non vuole farlo. E nemmeno può, perché Blai si affretta ad annunciare:

«Stanno ricattando la sindaca di Barcellona».

 

 

Sono da poco passate le sei quando i due arrivano a casa di Elisa Climent per prendere Cosette. Blai li riaccompagna verso il centro: ha la macchina parcheggiata vicino alla piazza, accanto al Municipio. Lì si salutano e, arrivata a casa, Cosette si mette a guardare un film in televisione; nel frattempo, Melchor prepara da mangiare. Cenano finendo di vedere il film, che parla di alcuni ragazzini che formano un gruppo rock con la professoressa della loro scuola di campagna, fanno successo nell’ambiente musicale, ne rimangono delusi, litigano fra loro, si riconciliano e finiscono per tornare al paese, dove li aspetta la professoressa, che è ancora lì, a far lezione ai loro vecchi compagni. Quando il film finisce, sparecchiano e portano i piatti in cucina.

Melchor lava e asciuga le stoviglie mentre la figlia si spoglia in camera, si mette la camicia da notte e si infila a letto. Dopo aver finito di sistemare la cucina, Melchor si stende accanto a Cosette e, come ogni sera, le legge qualcosa. Da qualche giorno sono alle prese con Michele Strogoff, il romanzo di Jules Verne, e sono arrivati all’episodio in cui il corriere dello zar – che è in viaggio verso Irkutsk sotto la falsa identità del commerciante Nicola Korpanoff con la missione di mettere in guardia il governatore, il fratello dello zar, sul tradimento dell’ex colonnello Ivan Ogareff – incontra sua madre a Omsk, la sua città natale, dopo aver conosciuto Nadia Fedor ed essersi innamorato di lei. Cosette è completamente assorbita dalla storia, però, alla fine di un capitolo, ammette:

«C’è una cosa che non capisco, papà».

«Cosa?»

«Se è così pericoloso arrivare a Irkutsk e avvisare il fratello dello zar, perché Michele lo fa?»

«Perché è suo dovere: glielo ha ordinato lo zar.»

«Questo lo so. Non sono mica stupida. Però è una missione molto pericolosa. Possono catturarlo i tartari, e se lo prendono lo ammazzano. Perché non se ne va con Nadia e con sua madre e non si sposa con Nadia?»

«Perché non può.»

«Perché non può?»

«Perché no. Ognuno deve fare il proprio dovere. E Michele è il corriere dello zar e deve consegnare quel messaggio a suo fratello.»

«Sì, ma perché deve consegnarglielo Michele? Perché non può farlo un altro?»

«Te l’ho già detto: perché lo zar l’ha ordinato a lui.»

«E perché l’ha ordinato a lui?»

Melchor riflette, cercando di non perdere la pazienza. Non è la prima conversazione di questo tipo tra loro. Prima di avere una figlia, lui aveva sentito dire che i bambini fanno domande scomode, ma solo da quando ce l’ha, ha scoperto che quelle domande sono le migliori e le più difficili a cui rispondere. Dopo diversi secondi, azzarda una risposta:

«Perché Michele è il miglior corriere che ha».

«Tu credi che Michele sia il miglior corriere dello zar?»

«Certo. Altrimenti, perché avrebbe affidato a lui questa missione?»

Cosette rimane pensierosa, come se sentisse che l’argomentazione del padre è debole; in ogni caso, non sembra che l’abbia convinta fino in fondo. Melchor sta per proseguire la lettura, però si trattiene. Avverte il corpo della figlia accanto a sé, tiepido e familiare, e vede il profilo del suo visino abbronzato che si staglia sul bianco della parete. Cosette si volta verso il padre e lo guarda con i suoi grandi occhi castani.

«Magari nessuno voleva farlo» azzarda.

«Portare il messaggio?»

La bambina annuisce.

«Può darsi» conviene il padre. «E se Michele non porta il messaggio, non lo porta nessuno. E se non lo porta nessuno, vincono i cattivi. E non vorrai che vincano i cattivi, vero?»

Cosette scuote la testa da una parte e dall’altra, con un’enfasi scandalizzata. Dopo qualche secondo riprende l’interrogatorio:

«Per questo tu sei diventato poliziotto? Per non far vincere i cattivi?»

Preso di nuovo in contropiede, Melchor ricorda Javert, il poliziotto inflessibile che inflessibilmente perseguita Jean Valjean nel corso dei Miserabili, e ricorda anche che il romanzo di Victor Hugo aveva risvegliato in lui, quando l’aveva letto per la prima volta, ancora adolescente, rinchiuso nel carcere di Quatre Camins, un furioso desiderio di diventare poliziotto, per trovare gli assassini di sua madre. Ricorda anche un remoto bagno lustrale nell’alba estiva della Barceloneta, dopo che un magnate messicano nato nella Terra Alta gli aveva rivelato, durante una nottata eterna, i motivi per i quali, con l’aiuto di Albert Ferrer e di Salom, aveva ordinato l’omicidio di Francisco Adell; e ricorda che il mattino dopo aveva sentito dissolversi nell’acqua gelida il fantasma di Javert, come se fosse il fantasma del padre che non aveva mai conosciuto. Ora la domanda di sua figlia lo costringe a chiedersi se Javert è scomparso davvero per lui, se davvero non esiste più quel padre illusorio, se quel pomeriggio è stato sincero con Blai quando gli ha detto che la vocazione è una menzogna e che non si sente più un poliziotto.

«Più o meno» risponde Melchor.

Cosette non lo guarda più. Adesso guarda nel vuoto.

«E se un giorno ti beccano i cattivi?» domanda.

«Non mi beccheranno» dice Melchor. E prende la mano di Cosette, una manciata di ossicini avvolti in carne vellutata. «Per di più, tra un po’ non sarò più un poliziotto e lavorerò alla biblioteca.»

«Come mamma?»

«Esatto.»

«Ma se non fai più il poliziotto, i cattivi possono vincere.» Fa una pausa e aggiunge: «Non t’importa più se vincono?»

«Certo che mi importa. Ma non vinceranno: ci sono poliziotti bravissimi. Blai, per esempio.»

«Lo so» dice Cosette, voltandosi di nuovo verso di lui. «Però tu sei il migliore.»

Sua figlia lo osserva con una serietà quasi adulta.

«Dai, su» replica Melchor. «Non fare la lecchina.»

Cosette tarda un secondo a ridere; poi chiede al padre di leggerle un altro capitolo di Michele Strogoff. Lui acconsente, e alla fine annuncia che per quella sera la lettura è finita. Cosette gli chiede un’altra cosa: di rimanerle vicino mentre si addormenta. Melchor acconsente di nuovo e spegne la luce. Quasi al buio, con la stanza appena illuminata dal tenue bagliore che arriva dal corridoio, rimangono per un po’ uno accanto all’altra, mano nella mano, ad ascoltare in silenzio i mormorii che vengono dal paese. Cosette ha ancora gli occhi aperti quando Melchor le domanda se le piacerebbe passare qualche giorno a Barcellona.

«A casa di Vivales?» mormora lei.

«Se ci invita...»

«Fico.»

È l’ultima parola che la bambina pronuncia quella sera. Melchor non vuole che si faccia inutili illusioni, perciò si affretta ad avvertirla che non è ancora sicuro, ma la figlia ha già cominciato a scivolare nel sonno e lui capisce che non ha sentito il suo avvertimento o che l’ha sentito circondato da una bruma indecifrabile, e che la cosa più sicura è che, dentro di lei, abbia trasformato la possibilità in un fatto.

Dopo essersi assicurato che Cosette stia dormendo, Melchor le lascia con cautela la mano, si alza senza far gemere il materasso e, socchiudendo la porta della stanza, va in sala da pranzo. Per un po’ tenta di leggere sul divano – L’illustre casata Ramires, di Eça de Queirós – ma riesce a stento a concentrarsi, e alla fine decide di telefonare a Vivales, che non gli risponde. Un minuto dopo, l’azzeccagarbugli lo richiama con la domanda di rigore, formulata con la sua voce di grappa e tabacco:

«Tutto sotto controllo?»

Melchor risponde di sì. Sente in sottofondo un fracasso profondo, potente e sincopato da locale notturno.

«Dove sei?» chiede a sua volta.

«Qui» risponde Vivales. «A bere qualcosa. Aspetta un momento.» Melchor attende per qualche secondo. «Eccomi.» Il rumore è cessato: è evidente che, dovunque si trovasse, Vivales è uscito in strada. «Come vanno le cose? È tutto il giorno che ti chiamo.»

«Lo so.»

«La bambina è lì? Falla venire al telefono, dai.»

«Sta dormendo. Lo sai che ora è?»

Nessuna risposta.

«Vivales?» domanda Melchor.

«Aspetta un altro istante, fammi il favore.»

Confusamente, sente qualcosa che all’inizio gli sembra un dialogo civile, poi una discussione su di tono e alla fine una rissa tra ubriachi, che culmina in una sorta di latrato umano.

«Scusa, Melchor.» Vivales è di nuovo all’apparecchio. «Cosa mi stavi dicendo?»

«Che è successo?» chiede a sua volta Melchor.

«Niente» risponde Vivales, di malavoglia. «Il proprietario di questa topaia, ’sto fichetto, che viene e mi fa una piazzata perché non si possono portare i bicchieri in strada. Che cazzo. Ho minacciato di querelarlo. Barcellona sta diventando insopportabile, ragazzo: sporca come Napoli e puritana come Ginevra. Insomma, il peggio di tutto. Di cosa stavamo parlando?»

«Di niente» dice Melchor. «Però ho pensato una cosa. Che ne diresti se Cosette e io passassimo qualche giorno a casa tua?»

«Non c’è neanche bisogno di chiederlo. Quando venite?»

«Non è ancora sicuro. E poi, non sarebbe per molto tempo.»

«Quello che serve. Mi fa male la bocca a furia di ripeterti che casa mia è casa tua. E poi, con la scusa che siete qui, ne approfitto per prendermi qualche giorno libero: ne ho le palle piene di lavorare.»

«Non farlo per noi.»

«No, no. Lo faccio per me.»

«Grazie. Dimmi un’altra cosa. Conosci qualcuno al Comune?»

«Al Comune? Ma per chi mi hai preso? Io ho rapporti soltanto con gente onesta, ed è più facile trovare una puttana vergine che un uomo onesto al Comune.»

«Non parlo dei politici, Vivales. Be’, non solo. Mi interessano anche i funzionari, gente che lavora per il municipio...»

«Ah, be’. Comunque anche lì ci sono molti ladri e molti mascalzoni, però c’è anche il mio amico Manel Puig.»

«Puig?»

«Il tizio a cui hai fatto un occhio nero mentre montava di guardia alla porta di casa mia il giorno che sei venuto a cercare Cosette, quando è finito il caso Adell. Te lo ricordi?»

«Certo che me lo ricordo. Sei tu quello che non si ricorda che ci siamo visti non molto tempo fa a casa tua, con quell’altro... Come si chiama?»

«Chicho Campà.»

«Lui. Anche se non sapevo che Puig lavorava al Comune.»

«Non lavora lì. Però è architetto, e ogni tanto il suo studio fa progetti per loro.»

«E conosce la sindaca?»

«Non ne ho idea. Perché non glielo chiedi tu? Vuoi che organizzi una cena con lui per festeggiare il vostro arrivo a Barcellona?»

«Sarebbe perfetto. E di’ anche a Campà di venire.»

«Non ce n’è bisogno. Quei due vanno sempre insieme, come Ortega e Gasset.»

«Chi?»

«Niente. Allora, per quando vi aspetto?»

«Presto. Magari domani pomeriggio siamo lì. Ti chiamo appena lo so.»

«Cazzo, che bella notizia. Vado subito a farmi una bevuta per festeggiare. Addio.»