giovedì 29 febbraio 2024

IV RIBELLIONE Estratto da Fëdor Michajlovic Dostoevskij, I fratelli Karamàzov


 IV RIBELLIONE 

Estratto da Fëdor Michajlovic Dostoevskij, I fratelli Karamàzov trad. di Maria Rosaria Fasanelli, Garzanti

[...] non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano.[...]

IV • Ribellione

«Devo farti una confessione», esordì Ivan, «non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano. Una volta ho letto da qualche parte la storia di “Giovanni il misericordioso”, un santo: un viandante affamato e infreddolito andò da lui e gli chiese di riscaldarlo e quello lo fece coricare nel letto insieme a lui, lo abbracciò e prese a soffiargli nella bocca, putrida e puzzolente a causa di una terribile malattia. Io sono convinto che egli lo facesse per una lacerazione piena di falsità, per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una penitenza che si era inflitto. Perché si possa amare una persona, è necessario che essa si celi alla vista, perché non appena essa mostrerà il suo viso, l’amore verrà meno».

«Più di una volta, lo starec Zosima ha parlato di questo», osservò Alëša; «ha anche detto che spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un ostacolo per l’amore. Tuttavia, c’è anche molto amore nell’umanità, amore quasi comparabile a quello di Cristo, questo l’ho visto io stesso, Ivan...»

«Be’, io non ne so niente di questo per ora e non posso capire, e, come me, una moltitudine innumerevole di uomini. La questione è se questo è dovuto alle cattive qualità degli uomini o se tale è la loro natura. Secondo me, l’amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. Ma noi non siamo dèi. Supponiamo, per esempio, che io soffra profondamente: un’altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, perché lui è un’altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si trattasse di un’onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi? Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché una volta gli ho pestato un piede. E poi c’è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore, quando, per esempio, si soffre per un’idea, quella non me la accetterà, perché, diciamo, dandomi un’occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che, secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per un’idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l’elemosina rimanendo nascosti dietro i giornali. Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro, nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta e pizzi lacerati e chiedono l’elemosina danzando leggiadramente, be’, in tal caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare. Ma finiamola con questo argomento. Volevo soltanto esporti il mio punto di vista. Volevo parlare delle sofferenze dell’umanità in generale, ma è meglio se ci soffermiamo solo sulle sofferenze dei bambini. Questo riduce le mie argomentazioni ad un decimo della loro portata, ma è meglio parlare solo dei bambini, sebbene questo non vada a mio vantaggio. In primo luogo, i bambini si possono amare anche da vicino, anche se sono sporchi, brutti di viso (anche se a me pare che i bambini non siano mai brutti). Il secondo motivo per cui non voglio parlare degli adulti è che, oltre ad essere disgustosi e incapaci di meritarsi l’amore, per loro si tratta anche della giusta punizione: hanno mangiato la mela, conoscono il bene e il male, e sono divenuti “come Dio”.62  E continuano a mangiarla anche adesso. I bambini invece non hanno mangiato niente e per ora non sono colpevoli di nulla. Tu ami i bambini, Alëša? So che li ami e certo capirai per quale motivo voglio parlare solo di loro. E se anche loro soffrono terribilmente su questa terra, è ovviamente per colpa dei loro padri, sono puniti a causa dei loro padri che hanno mangiato la mela; ma questo ragionamento appartiene ad un altro mondo, ed è incomprensibile per il cuore umano qui sulla terra. Gli innocenti non devono soffrire per le colpe degli altri, soprattutto se sono innocenti come i bambini! Forse ti meraviglierò, Alëša, ma anch’io amo moltissimo i bambini. E nota bene che le persone crudeli, passionali, sensuali – la gente tipo i Karamazov, insomma — non di rado amano molto i bambini. I bambini, finché rimangono piccoli, diciamo fino all’età di sette anni, sono molto diversi dagli adulti: sembrano degli esseri a sé stanti, con una natura tutta propria. Conoscevo un criminale che stava in prigione: nella sua carriera gli era capitato di sterminare intere famiglie, si introduceva nelle loro case di notte per rubare, aveva anche trucidato alcuni bambini. Eppure, mentre si trovava in prigione, nutriva uno strano attaccamento ai bambini. Non faceva altro che guardare dalla finestra della prigione i bambini che giocavano nel cortile del carcere. Ad uno di essi insegnò a salire fino alla sua finestra e così divennero grandi amici... Sai a quale scopo ti sto dicendo tutto questo, Alëša? Non so, ho mal di testa e sono triste».


sabato 17 febbraio 2024

POLITICA E BISOGNO IDENTITARIO




POLITICA E BISOGNO IDENTITARIO
La politica non può ridursi a tecnica e la democrazia non può fermarsi alle sole regole, delle procedure e dei diritti. Deve appropriarsi di simboli, passioni. Se non viene trovato il modo di tramettere ideali e speranze per il futuro, comprendendo che post-ideologico non vuol dire tramonto del bisogno identitario, il vuoto viene riempito dall'antipolitica con i messaggi  dei Trump/Le Pen/Grillo, ed è inutile piangerci sopra. 
Le categorie della politica (popolo, soggetti, diritti, sovranità, consenso, egemonia) sono costruzioni simboliche moderne, che traducono modelli teologici, facendo scendere il trascendente nell'immanente: in quanto tali nella loro autonomia dimostrano anche tutta la loro fragilità. La trasformazione del "Dio immortale" delle religioni nel «Dio mortale» dello Stato teorizzata da Hobbes, non ha eliminato il bisogno di trascendenza, in quanto, spiega Max Weber,  non agisce la funzione compensativa del potere carismatico a fronte della perdita simbolica che il tramonto delle forme tradizionali di legittimazone comportava. 
La debolezza della democrazia dipende dal fatto ci accorgiamo che le norme della politica non possono solo poggiarsi sulla pura ragione, ma anche, come afferma Habermas, su presupposti inespressi, pre-razionali e “presecolari”, che le sostanziano e danno loro l’energia necessaria per essere efficaci. Senza un apporto di vitalità che può derivare solo da convinzioni collettive, cioè "credenze" valoriali, la democrazia si impoverisce e rischia di soccombere. La politica, deve tornare a tradurre con un suo linguaggio questi presupposti taciti, sviluppando una capacità di plasmare l’identità collettiva, per rispondere alle paure e alle speranze che caratterizzano la condizione umana. 

giovedì 15 febbraio 2024

LETTERE A FELICE 1912-1917 Franz Kafka



LETTERE A FELICE

1912-1917

Franz Kafka


[...]Bisogna prendere le persone così come sono oppure lasciarle così come sono. Non è possibile cambiarle, si può solo turbare il loro equilibrio. Un essere umano, dopo tutto, non è fatto di pezzi unici, dai quali si possa togliere un pezzo singolo e sostituirlo con qualcos’altro. Piuttosto è un tutt'uno, e se ne tiri un'estremità, l'altra, che ti piaccia o no, comincia a contrarsi.[...]

[...]Esiste in verità un incantesimo mediante il quale due persone, senza vedersi, senza parlarsi, possono apprendere la maggior parte del loro reciproco passato, direi quasi di botto, senza doversi comunicare ogni cosa, ma è quasi un mezzo di alta magia (senza che ne abbia l’aspetto) al quale ci si accosta, trovandovi sempre il proprio tornaconto, ma con ancora maggiore certezza il proprio castigo.[...]

PREMESSA

Di Ervino Pocar

[....]

Finora si sapeva, di Felice, quel tanto che Kafka ne aveva scritto nei Diari e ciò che ne avevano detto i biografi dello scrittore. Qui invece possiamo seguire le tormentose vicende del fidanzamento, della rottura, del secondo fidanzamento, della seconda e definitiva rottura dal giorno del primo incontro, il 20 settembre 1912, al crollo di ogni illusione e speranza, il 16 ottobre 1917: è la storia di 5 anni attraverso centinaia di lettere, una storia che, come si suol dire, si legge d’un fiato, una storia avvincente non solo perché rivela, fin negli angoli più remoti, l'intima personalità d'un uomo eccezionale come Kafka, ma presenta con tratti caratteristici le persone della sua cerchia e s’illumina, sia pure soltanto a sprazzi, dei sinistri bagliori di quel tragico periodo storico che vide le guerre balcaniche e la prima guerra mondiale.


Quando i due protagonisti si videro la prima volta a Praga in casa Brod, Franz Kafka, nato il 3 luglio 1883, aveva qualche mese più di 29 anni, Felice Bauer, nata il 18 novembre 1887, poco meno di 23. Non erano ragazzi pronti a prender fuoco come diciottenni, eppure Kafka che descrisse quell’incontro, si può dire, minuto per minuto, rimase talmente colpito da pensare che quella doveva essere la sua donna. Non che fosse una bellezza, ma certo mostrava di essere una donna interessante e di possedere qualità non comuni.


Ma chi era Felice? Approfittando dei dati raccolti dai due citati curatori dell’edizione originale, ne tracceremo un breve schizzo biografico.


Era nata in Slesia, a Neustadt, dove suo padre, oriundo viennese, aveva sposato la figlia di un tintore. Quando Felice aveva 12 anni, la famiglia lasciò la provincia e si trasferì a Berlino dove il padre lavorò come agente di una compagnia d’assicurazioni straniera. Per alcuni anni (1904-10) i genitori vissero separati e Felice si vide costretta a contribuire al mantenimento della madre e dei fratelli, tre ragazze (Elsa, Erna, Antonia) e un maschio (Ferdinando). Terminati gli studi s’impiegò nel 1908 come stenodattilografa presso la fabbrica di dischi Odeon, ma dopo un anno passò con lo stesso incarico alla ditta Karl Lindström S.p.a., che produceva registratori e dittafoni. In pochi anni, da quella donna pratica, abile e intelligente che era, salì al grado di procuratore.


Fino al mese di maggio 1913 i Bauer abitarono nella Immanuelkirchstrasse, una via non particolarmente invitante nei quartieri orientali di Berlino. Poi traslocarono nella Wilmersdorfer Strasse che allora faceva parte delle più eleganti zone di Berlino Ovest. Il padre di Pelice morì nel novembre 1914.


Nel settembre 1915 Felice, spinta da Kafka, offrì la sua collaborazione volontaria alla Casa del Popolo ebraica, un centro di assistenza che nel maggio dello stesso anno era stato fondato in un quartiere di Berlino abitato prevalentemente da profughi di guerra e da immigrati orientali. Max Brod e Martin Buber erano i promotori. L'istituzione si prefiggeva l'educazione nazionale e religiosa di fanciulli e adolescenti le cui famiglie vivevano in condizioni estremamente precarie. Felice dedicava le ore libere dall'ufficio a questa attività sociale. Insegnava in una classe di fanciulle ed era molto benvoluta sia dalle allieve, sia dalle altre aiutanti della Casa. Kafka le mandava da Praga i suoi consigli per quel nuovo compito, raccomandava e procurava libri di pedagogia per lei e testi di lettura per le alunne. Da quanto sappiamo, Felice era una creatura ottimista, tutt'altro che complicata. Kafka la definisce una volta « ragazza allegra, sana, spontanea, robusta, sicura di sé ». Le piaceva vestirsi bene, viaggiava volentieri, ma era anche pronta a fare rinunce quando si trattava di aiutare la famiglia. I suoi gusti in fatto di letteratura, di arte e di appartamenti corrispondevano a quelli degli strati borghesi di quel tempo. Per i lavori letterari di Kafka aveva evidentemente poca comprensione.


Nel marzo 1919, poco più di un anno dopo la definitiva separazione da Kafka, Felice sposò un berlinese, uomo d'affari benestante. Da questo matrimonio nacquero due creature: un maschio e una femmina. Kafka, prima di morire, ebbe notizia della loro nascita. Nel 1931, a causa delle persecuzioni razziali, Felice passò con la famiglia in Svizzera e nel ’36 negli Stati Uniti dove mori il 15 ottobre 1960.

Il 13 agosto 1912, quando incontrò Felice, Kafka stava pensando al romanzo che Brod chiamò America.

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Dire quanto sia importante la pubblicazione di queste lettere è certamente superfluo. Esse, oltre a offrire in minutissimi e finora ignoti particolari la storia di un'anima sensibilissima, danno la conferma di quanto Kafka scrisse nei Diari e nelle finora conosciute lettere agli amici e ad altre personalità. Sarebbe perciò interessante, dopo la prima lettura, rileggere tutto il libro tenendo davanti agli occhi i passi paralleli (che recano spesso la medesima data delle lettere) nei Diari e nel già pubblicato Epistolario: ne risulterebbero non solo la conferma, ma spesso il completamento, talvolta la discordanza tra una lettera spedita e uno sfogo che nell’intenzione dell’autore doveva rimanere segreto.

Il suo atteggiamento, per esempio, verso il sionismo? «Si venne a sapere che Lei [Felice] è sionista, e io ne fui molto contento. » Sono « un uomo escluso per il suo ebraismo non sionista (io ammiro il sionismo e ne sono nauseato) e non credente, da ogni larga comunità sostenitrice... ». «Se [tu, Felice] un giorno dovessi sentirti sionista... e poi accorgerti che io non sono sionista (questo risulterebbe probabilmente a un esame), io non ho paura e non ne devi avere neanche tu: il sionismo non è una cosa che divida gli uomini ben disposti. »

La sua fede religiosa? Ha già detto qui sopra che non è credente. Poi: « Benché la mia religiosità si sia smarrita in tutt’altre regioni, per la tua lettera odierna avrei voglia di ringraziare Dio in ginocchio ». « No, non mi passa per la mente di andare nel tempio... Non posso farlo ora, come non potevo quand’ero fanciullo... »

E, via via, troviamo ribaditi i suoi cattivi rapporti coi genitori, specialmente col padre; il suo amore per la solitudine (che è poi relativa perché egli conosce e frequenta molta gente, ma gli occorre essere solo per scrivere. « Quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte.» « Per scrivere ho bisogno di isolamento, non come un eremita, non sarebbe sufficiente, ma come un morto. Scrivere in questo senso è uguale a un sonno profondo, cioè alla morte; come non si estrarrà un morto dal suo sepolcro, così non si può togliere me, di notte, dalla scrivania»), e in fatto di solitudine va ricordata la bella pagina dell'isolamento in cantina.

L'insistenza pedagogica talvolta prende forme ossessive e diventa quasi una persecuzione dell'umile Felice. C'è una lettera che contiene una serqua di domande: un fuoco di fila di 21 interrogazioni! E non si può non pensare a Kleist e alla sua smania d'istruire la povera Guglielmina von Zenge. E altre affinità lo legano a Kleist, uno dei suoi quattro autori preferiti (gli altri sono Grillparzer, quello dei diari e dell'autobiografia, non il drammaturgo, e Dostoevskij e Flaubert): come il poeta di Pentesilea che si ritira in una casetta solitaria su un'isola nel Lago di Thun, anche lui ha un progetto ideale: « Il progetto migliore sarebbe probabilmente quello di racimolare in qualche modo astuto un po' di denaro e di partire con te per sempre verso Mezzogiorno per raggiungere un'isola o un lago. Laggiù a Mezzogiorno penso che tutto sia possibile. Vivere là isolati e nutrirsi di erba e di frutta ». Ma questa è poesia.

Psicologia diplomatica è invece quella che lo induce a una spietata autodenigrazione («La fotografia è brutta, ma è somigliante, nella realtà mi presento anche peggio. » « Sono un uomo freddo, egoista e insensibìle»), mentre è ben conscio del suo valore («...con le forze di creatore che sento dentro di me, anche prescindendo dalla loro potenza e costanza, avrei compiuto, in circostanze di vita più favorevoli, un lavoro più pulito, più incisivo, meglio organizzato di quello che è in realtà. »). Un lavoro, cioè, degno dei quattro grandissimi autori citati qui sopra (« i 4 uomini che io - senza volermi mettere troppo vicino a loro per potenza e vastità di orizzonti - considero i miei veri e propri consanguinei »). Questa infatti è la sua natura, ed egli non si stanca di dirlo e ripeterlo: « La mia vita consiste ed è consistita, in fondo, da sempre, in tentativi di scrivere... ». «Tu non hai capito abbastanza, credo, che lo scrivere è la mia unica possibilità di vivere. » «...lo scrivere è il mio vero lato buono... Se non lo avessi, se non avessi nella testa questo mondo che vuol essere liberato, non avrei mai osato concepire il pensiero di volere te. » « Il romanzo sono io, i miei racconti sono io... Solo scrivendo riesco a vivere... » « Io non ho un interesse letterario, ma sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro. »

Così si snoda questo « romanzo » donde il ritratto di Franz Kafka esce a sbalzo come da una lastra brunita, espresso in un tedesco che non potrebbe essere più terso e forbito

Ma, per ritornare all’inizio, il romanzo è completo? è incompleto?In qualunque modo finisca, con le nozze dei protagonisti come usava una volta, o con un’immane catastrofe, un romanzo non è mai finito. La vita continua, dunque anche il romanzo potrebbe continuare, come avviene nei così detti romanzi ciclici. Dopo i Promessi Sposi dove il salmo finisce in gloria nulla impedirebbe di narrare la vicenda dei figli di Renzo e Lucia, dei loro nipoti, ecc. ecc.

Nel caso di Franz e Felice il romanzo è terminato? Evidentemente sì, ma altrettanto evidentemente no.

Dopo il 16 ottobre 1917 Franz vivrà ancora 7 anni, si fidanzerà con un'altra donna, Julie Wohryzek, senza arrivare alle nozze; s'innamorerà della scrittrice boema Milena Jesenskà, con la quale avvierà un animato carteggio; troverà Dora Dymant, una giovane ventenne, con la quale andrà a convivere a Berlino, ed essa lo assisterà fino all'ultimo giorno, fino alla straziante morte di lui nel sanatorio di Kierling. Se ciò non è romanzesco! Materia per uno, due, tre romanzi.

Felice, invece, vivrà ancora 43 anni, si mariterà, avrà figli, fuggirà sotto la minaccia delle persecuzioni, in Svizzera e poi in America dove morirà 36 anni dopo la morte di Franz.

Ecco dunque perché il presente romanzo è incompleto, ed ecco perché è effettivamente finito con la lettera del 16 ottobre. Questa non per nulla termina con la parola « ceneri ».

Ervino Pocar


 

 


 


 


 


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


Praga, 20 settembre 1912


 


Gentile Signorina,


per il caso facilmente possibile che Lei possa non ricordarsi più minimamente di me, mi presento un’altra volta: mi chiamo Franz Kafka e sono quello che per la prima volta La salutò a Praga quella sera in casa del direttore Brod,1 poi Le porse da un lato all’altro della tavola fotografie di un viaggio da Talia,2 l'una dopo l’altra, e infine con questa mano, che ora batte i tasti, tenne la Sua con la quale Lei confermò la promessa di fare con lui l’anno venturo un viaggio in Palestina.


Se è ancora dell’idea di intraprendere quel viaggio -Lei disse allora di non essere di carattere volubile né io notai qualcosa di simile in Lei -, sarà non solo opportuno, ma assolutamente necessario che fin da ora cerchiamo d’intenderci per questo viaggio. Dovremo infatti sfruttare fino in fondo le nostre ferie, troppo brevi per un viaggio in Palestina, e lo potremo fare soltanto se ci saremo preparati nel miglior modo possibile e se saremo d’accordo su tutti i preparativi.


Devo soltanto confessare una cosa, per quanto suoni male e oltre a ciò male si adatti a quanto ho scritto: io non sono puntuale nello scriver lettere. Anzi sarebbe peggio di quanto non sia già se non possedessi la macchina per scrivere; infatti se qualche volta il mio umore non fosse sufficiente per una lettera, ci sono in fin dei conti pur sempre le punte delle dita che possono scrivere. In compenso non mi aspetto mai che le lettere arrivino puntualmente; perfino quando ne aspetto una con ansia ogni giorno nuova, non resto mai deluso se non arriva, e quando infine arriva rimango facilmente scosso. Nell'infilare un nuovo foglio noto che mi sono presentato forse più difficile di quanto non sia. Ben mi starebbe se avessi commesso quest’errore: infatti perché mi metto a scrivere questa lettera dopo sei ore d’ufficio e con una macchina alla quale non sono molto avvezzo?


Eppure, eppure - è l’unico svantaggio dello scrivere a macchina quello di sviarsi così - se anche ci dovessero essere dubbi, dubbi pratici intendo, per prendermi in un viaggio come accompagnatore, guida, zavorra, tiranno e quello che ancora potessi diventare, contro di me in quanto corrispondente (e solo di questo si tratterebbe per il momento) non ci dovrebbe essere da fare alcuna obiezione decisiva e Lei potrebbe probabilmente tentare con me.


 


Suo cordialmente devoto dott. Franz Kafka


Praga, Poric 7


 


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


Praga, 28.IX.12


 


Gentile Signorina,


scusi se non scrivo a macchina, ma ho un’infinità di cose da scriverle, la macchina è di là nel corridoio, oltre a ciò questa lettera mi sembra molto urgente, e poi oggi è festa in Boemia 1 (cosa che non c’entra a rigore con la scusa suddetta), e la macchina non è per me abbastanza veloce, il tempo è bello, caldo, la finestra è aperta (le mie finestre però sono sempre aperte), in ufficio sono arrivato, cosa che non mi accade da un pezzo, un po’ cantando, e se non ci fossi venuto per ritirare la Sua lettera, non saprei davvero perché oggi, giorno festivo, avrei dovuto venire in ufficio.


Come ho avuto il Suo indirizzo Lei non chiede questo quando lo chiede. Ecco, ho mendicato il Suo indirizzo. Prima mi fu indicata non so quale società per azioni, ma ciò non mi è piaciuto. Poi ricevetti il Suo indirizzo di casa ma senza il numero, e poi anche il numero. Allora fui contento ma non scrissi affatto perché mi pareva che l’indirizzo fosse già qualcosa, inoltre temevo che fosse sbagliato, poiché chi fu Immanuel Kirch? E non c’è niente di più triste che mandare una lettera a un indirizzo incerto, essa non è una lettera, è piuttosto un sospiro. Quando poi venni a sapere che nella sua via c’è una chiesa Imm., mi fermai lì per qualche tempo. Nel Suo indirizzo però mi sarebbe piaciuto avere anche uno dei punti cardinali, come c’è sempre negli indirizzi di Berlino. Per parte mia l’avrei messa volentieri al Nord, benché sia, credo, una zona povera. 1


Ma prescindendo da queste apprensioni per l’indirizzo (a Praga non si sa affatto con certezza se Lei abita al numero 20 o al 30), quanto non dovette soffrire la mia povera lettera prima di essere scritta. Ora che la porta tra di noi comincia a muoversi o per lo meno stringiamo la maniglia, lo posso dire, anche se proprio non ne ho il dovere. Sapesse, signorina, da quali capricci sono trattenuto! Una pioggia di nervosismi mi cade addosso ininterrotta. Ciò che voglio ora, poco dopo non lo voglio più. Quando sono in cima alla scala, non so ancora in quale condizione sarò entrando in casa. Devo accumulare incertezze dentro di me prima che diventino una piccola certezza o una lettera. Quante volte (per non esagerare, dirò, in dieci sere) ho composto quella prima lettera prima di addormentarmi! Una delle mie sofferenze è quella di non poter scrivere correntemente ciò che ho composto prima in perfetto ordine. Ho una pessima memoria, ma neanche la memoria migliore mi potrebbe aiutare a mettere in carta esattamente un periodo, magari breve, pensato prima e soltanto ricordato, perché in ogni proposizione ci sono passaggi che devono rimanere sospesi prima di essere scritti. Se poi mi siedo per scrivere la proposizione che ricordo, vedo soltanto pezzi e bocconi davanti a me, non riesco né a sceverarli né a sorvolarvi, e non avrei che da buttar via la penna se ciò rispondesse alla mia indifferenza. Ma, ciò nonostante, riflettei su quella lettera, perché non ero affatto risoluto a scriverla, e siffatte riflessioni sono appunto il mezzo migliore per trattenermi dallo scrivere. Una volta, ricordo, mi alzai persino dal letto per scrivere ciò che avevo meditato per Lei. Ma subito ritornai a letto rimproverandomi -questa è la seconda delle mie sofferenze - la stoltezza della mia inquietudine e affermando che ciò che avevo esattamente in testa lo potevo scrivere anche al mattino. Sono affermazioni che verso mezzanotte trionfano sempre.


Ma per questa strada non arrivo ad alcuna fine. Invece di scriverle le molte cose che avrei da dirle sto chiacchierando della mia lettera precedente. La prego di osservare donde deriva l’importanza che quella lettera ha acquistato per me. Deriva dal fatto che Lei mi ha risposto con la lettera che ho qui accanto a me, che mi procura una gioia ridicola e sulla quale poso ora la mano per sentirne il possesso. Me ne scriva presto un’altra, per favore. Non faccia fatica, una lettera è faticosa comunque la si guardi; mi scriva un piccolo diario, vuol dire pretendere meno e dare di più. Naturalmente deve scrivere più di quanto sarebbe necessario per Lei sola, perché io non La conosco affatto. Deve dunque riferire quando va in ufficio, che cosa ha mangiato per colazione, che cosa si vede dalla finestra del suo ufficio, che lavoro vi si svolge, come si chiamano i suoi amici e le amiche, perché Le si fanno regali, chi intende di rovinare la Sua salute regalandole dolci, e le mille cose delle quali non so l’esistenza né la possibilità. - Già, dove è andato a finire il viaggio in Palestina? Prossimamente, o più in là, ma certo nella prossima primavera o in autunno. - L’operetta di Max 1 riposa ora, egli è in Italia, ma tra poco lancia nella Sua Germania un enorme annuario letterario? Il mio libro, libretto, fascicoletto è felicemente accettato? Ma non è molto buono, bisogna scrivere di meglio. E con questa verità La saluto.


 


Suo Franz Kafka


 


 


13.X.12


Gentile Signorina,


due settimane fa alle dieci del mattino ho ricevuto la Sua prima lettera e pochi minuti dopo ero seduto e Le scrissi quattro pagine di un formato enorme? Non mi rammarico, perché non avrei potuto passare quel tempo con più grande piacere, mi rammaricai soltanto che, arrivato allora alla fine, avevo scritto soltanto un piccolo inizio di ciò che avrei voluto, di modo che la parte allora soppressa della lettera mi accompagnò per giorni e giorni e mi rese inquieto, finché l’inquietudine fu sostituita dall’attesa della Sua risposta e dal progressivo affievolirsi dell’attesa stessa.


Ma perché non mi ha scritto? Può darsi e, visto il modo di quello scritto, è anche probabile che nella mia lettera ci fosse qualche sciocchezza che poteva lasciarla perplessa, ma non è possibile che Le sia sfuggita nel fondo d’ogni mia parola la buona intenzione. -Che sia andata perduta una lettera? La mia però era stata spedita con troppo zelo da poter essere trascurata, e la Sua era fin troppo attesa, ma si smarriscono forse lettere tranne che nell’incerta attesa che non trova alcun’altra spiegazione? - O la mia lettera non Le fu consegnata a causa del disapprovato viaggio in Palestina? Ma possono accadere queste cose in una famiglia e addirittura verso di Lei? Secondo i miei calcoli la lettera doveva perfino arrivare domenica mattina. - Dunque non rimarrebbe che la triste eventualità che Lei sia malata. Io però non ci credo, Lei è certamente sana e allegra. - Allora però il mio intelletto mi abbandona e scrivo questa lettera non tanto con la speranza di una risposta quanto in adempimento di un dovere verso me stesso.


Oh fossi il portalettere della Immanuelkirchstrasse che reca questa lettera in casa Sua, non si lascia trattenere da alcun membro stupefatto della famiglia, attraversa diritto tutte le stanze, arriva a Lei e Le mette in mano questa lettera! O meglio ancora, fossi io stesso davanti alla Sua porta a premere il campanello all’infinito per mio godimento, per un godimento che risolva tutta la mia ansia!


 


Suo Franz K.


Praga, Poric 7


 


 


Alla signora Sophie Friedmann


 


14.X.12


 


Gentile e cara Signora,


questa sera, per caso e senza avere veramente il permesso (Lei per questo non mi terrà il broncio) ho letto in una lettera ai Suoi genitori la notizia che la signorina Bauer tiene con me un vivace carteggio. Siccome ciò è vero solo molto relativamente, d’altro canto però corrisponderebbe al mio desiderio, La prego, gentile e cara Signora, di scrivermi qualche parola di spiegazione intorno a quella notizia, la qual cosa non dovrebbe essere difficile dato che Lei è senza dubbio in contatto epistolare con la signorina.


Il carteggio che lei ha chiamato « vivace » è in realtà il seguente: passati circa due mesi da quella sera in cui avevo visto la signorina per la prima e ultima volta in casa dei Suoi genitori, le scrissi una lettera, della quale non è il caso di menzionare il contenuto, perché ad essa seguì una risposta cortese. Non era certo una risposta conclusiva e per il tono e il contenuto poteva benissimo passare per introduzione a un carteggio che un giorno poteva diventare forse amichevole. Vero è che tra la mia lettera e la risposta passarono dieci giorni e oggi mi sembra che avrei dovuto accettare quell’indugio a rispondere, anche se non molto lungo, come un consiglio. Per diversi motivi che a loro volta non mette conto di menzionare (probabilmente menziono già fin troppe cose che a Lei, gentile e cara Signora, non sembrano degne di menzione) non lo feci, ma, dopo aver letto forse non abbastanza a fondo quella lettera, scrissi subito la mia che probabilmente per molti occhi poteva avere l’aspetto inevitabilmente sciocco di uno sfogo. Comunque sia, posso giurare che anche ammettendo per giustificate tutte le obiezioni a quella lettera l’accusa di disonestà sarebbe ingiusta, e ciò dovrebbe essere il punto decisivo tra persone che non abbiano reciprocamente pregiudizi sfavorevoli. Da quella lettera sono passati oggi sedici giorni senza risposta, e non saprei davvero quale causa potrebbe ancora provocare una risposta posticipata, tanto più che la mia di allora era una di quelle lettere che si chiudono soltanto per creare al più presto l’occasione di una risposta. Per dirle tutta la mia sincerità, durante questi sedici giorni ho scritto ancora due lettere alla signorina, ma senza spedirle, e queste sono, se io fossi dotato di umorismo, l'unico punto che mi permetterebbe di parlare di un carteggio vivace. Sulle prime avrei potuto credere che circostanze fortuite abbiano potuto impedire o rendere impossibile la risposta a quella lettera, ma le ho studiate tutte e non credo più in circostanze fortuite.


Non avrei certo osato, gentile e cara Signora, fare questa piccola confessione né a Lei né a me stesso, se quella notizia nella Sua lettera non mi avesse stimolato troppo e se oltre a ciò non sapessi che la presente lettera, il cui contenuto non è veramente ostensibile, arriverà in mani buone e abili.


Con cordiali saluti per Lei e il suo caro marito


 


Suo dev. Franz Kafka


Praga, Poric 7


 


 


Alla signora Sophie Friedmann


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


18.X.12


 


Gentile e cara Signora,


l’ufficio deve passare in seconda linea data l’importanza di questa lettera, con la quale rispondo alla Sua del 16 che, in quanto l’ha scritta Lei, è cara e buona e chiara come mi aspettavo, mentre il passo della lettera citato non si spiega neanche alla decima lettura. Lei dunque non ha scritto la notizia del « vivace carteggio » superficialmente e senza prova, come io credetti per mia vergogna, ma certo senza confessarlo nell’ultima lettera, la quale altrimenti sarebbe stata superflua. E questo vivace carteggio sarebbe dunque realmente esistito il 3 o al più presto il 2 ottobre, dunque in un momento in cui la mia sfortunata lettera, rimasta senza risposta, avrebbe dovuto essere assolutamente già a Berlino. Dunque la risposta era forse scritta davvero, dato che il passo citato è una confessione che quella lettera era conosciuta? Ma è possibile che lettere vadano smarrite se non nell’incerta attesa di colui che non trova nessun’altra spiegazione? Lei deve ammettere, gentile e cara Signora, che avevo ragione di scriverle e che la questione ha veramente bisogno di un angelo cortese.


I miei più cordiali saluti per Lei e per il Suo caro marito.


 


Il suo riconoscente Franz K.


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


23.X.12


 


Gentile Signorina,


anche se intorno alla mia scrivania stessero tutti i miei tre direttori a guardare ciò che scrivo, Le devo rispondere subito, poiché la Sua lettera scende come dalle nuvole alle quali si è alzato lo sguardo invano per tre settimane. (In questo momento si è attuata la previsione per quanto riguarda il mio principale diretto.) Se alla narrazione della Sua vita in questo frattempo dovessi rispondere allo stesso modo, ecco: la mia vita consistette per metà nell’attesa della Sua lettera, ma vi posso aggiungere le tre letterine che le ho scritto in queste tre settimane (ecco che intanto, Dio buono, mi vengono a chiedere informazioni sull’assicurazione dei detenuti!), due delle quali si possono ora spedire, mentre la terza, o in realtà la prima, non può assolutamente partire. La Sua lettera dunque si sarebbe smarrita (non so nulla, ho dovuto dichiarare in questo momento, di un ricorso al ministero da parte di Josef Wagner a Katharinaberg) e io non riceverò risposta alle domande di allora, pur non avendo alcuna colpa nello smarrimento.


Sono inquieto e non riesco a calmarmi, sono in vena di lamentarmi continuamente, benché oggi non sia più ieri, ma tutto ciò che si è accumulato si riversa e si libera verso giorni migliori.


Ciò che ora Le scrivo non è la risposta alla Sua lettera, la risposta sarà forse soltanto quella lettera che scriverò domani, forse quella di posdomani. La mia maniera di scrivere non è beninteso dissennata per se stessa, ma esattamente dissennata come il mio attuale modo di vivere che un giorno Le potrò anche esporre.


E Lei riceve continuamente regali! Codesti libri, le caramelle e i fiori stanno sulla Sua scrivania in ufficio? Sulla mia non c’è che un grande disordine e il Suo fiore, per il quale Le bacio la mano, l’ho messo subito nel portafoglio, nel quale nonostante la Sua lettera sia andata perduta e non sostituita, si trovano già due lettere Sue, poiché ho pregato Max di darmi la Sua: è un po’ ridicolo, ma non si deve aversene a male.


Questo primo inciampo del nostro carteggio è stato forse un bene perché ora so che mi è lecito scriverle anche al di sopra di lettere smarrite. Ma nessuna lettera deve più andare perduta. - Stia bene e pensi a un piccolo diario.


 


Suo Franz K.


 


[Sul margine superiore della prima pagina] Sono innervosito a causa di eventuali smarrimenti di lettere e del resto l’indirizzo, come Lei lo scrive, non è esatto: Poric 7 con due uncini, sulla r e sulla c, e per maggior sicurezza sarà bene indicare anche l’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori.


La data di nascita della signora Sophie gliela scriverò domani.


 


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


24.X.12


 


Gentile Signorina,


come è stata insonne la notte scorsa, quando proprio alla fine, nelle due ultime ore, uno si rannicchia in un sonno forzato, immaginario, e i sogni non sono ancora neanche lontanamente sogni e il sonno meno che mai sonno. Oltre a ciò davanti alla porta di casa ho cozzato contro la gerla di un garzone di macellaio, della quale sento ancora il legno sopra l’occhio sinistro.


Questi preparativi non mi hanno messo certo nelle condizioni migliori per superare le difficoltà che mi procura lo scrivere a Lei, e anche questa notte mi giravano per la testa in forme sempre nuove. Esse non consistono nel fatto che io non possa scrivere ciò che voglio dire, si tratta delle cose più semplici, ma sono tante che non riesco a collocarle nel tempo e nello spazio. Certe volte, convinto di ciò, ma soltanto di notte, mi vien voglia di piantare tutto, di non scrivere più e di perire con ciò che non ho scritto piuttosto che con ciò che scrivo.


Lei mi parla dei teatri che frequenta e ciò mi interessa molto, perché in primo luogo costi a Berlino Lei è alla fonte di tutti gli sviluppi teatrali, in secondo luogo sceglie bene i programmi (tranne il Teatro Metropol dove sono stato anch’io con sbadigli di tutto me stesso, più larghi del boccascena) e in terzo luogo io di teatri non so nulla. Ma che mi giova sapere dove va a teatro se non so tutto quanto è avvenuto prima e dopo, se non so come era vestita, che giorno della settimana era, che tempo, se ha cenato prima o dopo, quale posto aveva, di che umore era e per quali ragioni, e così via, tutto quanto si può immaginare. Naturalmente è impossibile scrivermi tutto ciò, ma così tutto è impossibile.


Il compleanno della signora Sophie (per scrivere qualcosa di puramente e pienamente comunicabile) cade soltanto il 18 marzo; e quando è il Suo, per fare una domanda esplicita?


E non è soltanto il trambusto, uguale in tutti gli uffici, a farmi scrivere senza ordine, e a farle una domanda del tutto diversa: ho in mente press’a poco tutto ciò che Lei disse quella sera a Praga, fin dove si può avere fiducia in siffatti ricordi, una sola cosa non mi riesce del tutto chiara; mi viene in mente ora leggendo la Sua lettera, e Lei me la dovrebbe completare. Quando insieme col direttore Brod andammo dalla casa all’albergo io, a dire il vero, ero agitato, disattento e annoiato, senza che ne avesse colpa la presenza del direttore, almeno per quanto me ne rendevo conto; al contrario, ero relativamente contento di sentirmi lasciato in disparte. Si disse allora che Lei capita di rado in mezzo al traffico serale del centro, nemmeno quando è stata a teatro, e che poi, al ritorno, con un modo particolare di battere le mani chiama dalla strada Sua madre che Le fa aprire il portone. Questo modo un po’ strano è esatto? E l’eccezione di aver portato con sé la chiave andando al Metropol era dovuta all’ora tarda del ritorno? Le sembrano domande ridicole? Il mio aspetto è serio, e se Lei ride La prego di ridere gentilmente e di rispondere con precisione.


In primavera al più tardi esce da Rowohlt a Lipsia un « Annuario di poesia » edito da Max. Ci sarà un mio breve racconto, La condanna, che avrà la dedica « Per la signorina Felice B. ». Sarebbe forse un modo troppo dispotico di trattare i Suoi diritti? Specialmente perché questa dedica è scritta da un mese in testa al racconto e il manoscritto non è più in mie mani. È forse una scusa plausibile dire che mi sono imposto di omettere l’aggiunta « affinché essa non riceva sempre e soltanto regali da altri »? D’altronde il racconto, per quanto io veda, non presenta nessun’allusione a Lei; vi è soltanto la fuggevole comparsa di una ragazza che si chiama Frieda Brandenfeld, la quale ha, come mi sono accorto in seguito, le Sue stesse iniziali. L’unica cosa in comune consiste invece nel fatto che il breve racconto cerca, da lontano, di essere degno di Lei. Questo intende dire anche la dedica.


Mi pesa non poter sapere che cosa Lei aveva risposto alla mia penultima lettera. Di Lei non avevo saputo nulla per tanti anni, e ora, senza che ce ne sia bisogno, dovrò buttare ancora un mese nelle fauci dell’oblio! Naturalmente andrò a informarmi alla posta, ma ho poca speranza di apprendervi più di quanto Lei ricordi ancora di quella lettera. Me lo potrebbe dire in dieci parole?


Chiudo definitivamente, definitivamente per oggi. Già durante la pagina precedente sono cominciati i disturbi, perfino in questa stanza più tranquilla dove mi sono nascosto. Lei si meraviglia che io abbia tanto tempo in ufficio (è un’eccezione forzata) e che scriva soltanto in ufficio. Anche questo si può spiegare, ma mi manca il tempo di scriverlo.


Stia bene e non s’indispettisca di dover firmare ricevute ogni giorno.1


 


Suo Franz K.


 


 


Alla signora Sophie Friedmann


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


24.X.12


 


Gentile e cara Signora,


la ringrazio molto della delicatezza con cui ha trattato l’argomento che ora sembra in perfetto ordine. Se non ha risposto alla mia ultima lettera, che d’altronde non aveva bisogno di una risposta particolare, non devo certo pensare che sia stata una punizione per qualche sciocchezza che mi possa essere sfuggita nelle mie due lettere per nervosismo o altre ragioni. Ma Lei sa ora, gentile e cara Signora, quanto io soffra non ricevendo risposte, al punto che per una sciocchezza avrebbe certo preferito punirmi con una lettera adeguata anziché tralasciando di rispondere. Per questa considerazione non spero neanche ora di riceverne, ma conto che anche in avvenire vorrà trattarmi amichevolmente come ha dimostrato col suo recente aiuto. Vorrei ringraziare anche il Suo caro marito, ma non lo faccio in primo luogo perché mi troverei un po’ a disagio e in secondo luogo perché Lei, a quanto ne so, è così unita a Suo marito che un ringraziamento fatto a Lei è fatto direttamente anche a lui.


 


Con i più cordiali saluti Suo dott. F. Kafka


 


 


27.X.12


 


Gentile Signorina,


finalmente, alle otto di sera (è domenica) posso scriverle, eppure tutto ciò che ho fatto durante la giornata mirava a poterlo eseguire al più presto. Lei passa le domeniche in letizia? Ma certo, dopo quel po’ po’ di eccessivo lavoro. Per me la domenica, almeno da un mese e mezzo in qua, è un miracolo del quale vedo lo splendore già il lunedi mattina quando mi sveglio. Rimane il problema di trascinare la settimana fino alla domenica, di stiracchiare il lavoro attraverso quei giorni feriali, e, per quanto io faccia, il venerdì di solito non ne posso più. Quando si passa una settimana così ora per ora, perfino di giorno con non molta più attenzione di chi non dorme la notte, e quando ci si guarda intorno nell’inesorabile macchina di una simile settimana, bisogna essere veramente contenti che questi giorni così desolatamente sovrapposti non ricadano indietro per ricominciare, ma passino via lisci, e infine, perché si possa trarre il respiro, vengano la sera e la notte.


Anch’io sono più allegro, ma non oggi; il tempo piovoso mi ha fatto perdere la passeggiata domenicale; sono stato solo, in apparente contrasto con la frase introduttiva, mezza giornata a letto, il luogo migliore per chi è triste e pensoso; i turchi stanno perdendo,1 e ciò mi potrebbe spingere a predicare, come un falso profeta, la ritirata non solo per i soldati, ma per tutto (è anche un brutto colpo per le nostre colonie), e non rimane altro che sprofondare ciechi e sordi nel proprio solito lavoro.


Come La diverto, vero? Cara Signorina, devo alzarmi e smettere di scrivere? Ma forse vede attraverso tutto che in fondo sono molto felice, e allora posso rimanere qui e continuare a scrivere.


Nella Sua lettera mi dice quanto si è sentita a disagio quella sera a Praga e, senza che Lei lo voglia dire e forse pensare, da quel passo della lettera risulta, mi pare, che il disagio sia entrato allora con me, poiché prima Max aveva appena accennato alla sua operetta, che d’altronde non lo faceva stare particolarmente in pensiero, e io col mio ridicolo pacco non disturbavo ancora l’unità della brigata. Oltre a ciò era proprio un periodo in cui nelle mie frequenti visite, mi concedevo sovente lo spasso di impedire il sonno a Otto Brod - il quale tiene ad andare a letto puntualmente - con una particolare vivacità che andava aumentando col procedere delle ore, finché l’intera famiglia con forze unite, beninteso con tutto l’affetto, mi spingeva fuori di casa; perciò la mia comparsa a ora così tarda (probabilmente erano già passate le nove) significò una certa minaccia. Nella mente dei membri della famiglia c’erano dunque due visite in contrasto fra loro: Lei che certamente volevano trattare con ogni bontà e cortesia, e io, il solito disturbatore del sonno. Per Lei, ad esempio, si suonò il pianoforte, per me, ad esempio, Otto tirava di scherma contro il paravento della stufa, la qual cosa era diventata una consuetudine per farmi capire che era ora di andare a letto e, per chi non lo sapeva, appariva assurda e faticosa. Ora, non ero minimamente preparato a incontrarvi una visita, avevo solo un appuntamento con Max alle otto (come al solito arrivai un’ora dopo) per discutere con lui la sequenza dei manoscritti,1 della quale non mi ero affatto curato, benché dovessi spedirli la mattina dopo. Ed ecco che trovavo una visita, sicché ne rimasi un po’ seccato. Vero è che, per contro, non fu neanche una sorpresa. Al di sopra della gran tavola Le porsi la mano ancora prima che mi presentassero, benché Lei non si fosse neanche alzata e probabilmente non avesse voglia di porgermi la Sua. La guardai soltanto di sfuggita, mi sedetti e tutto mi parve in perfetto ordine; senza sentire, direi, da parte Sua quel lieve incoraggiamento che mi danno sempre le persone estranee in una società già nota. Se prescindo dal fatto che non potei rivedere il manoscritto insieme con Max, l’idea di porgerle le fotografie del viaggio « Talia » fu un bellissimo diversivo. (Per questa parola che descrive molto bene l’impressione di allora, oggi che sono così lontano da Lei mi picchierei.) Lei prese molto sul serio l’esame delle fotografie e alzava gli occhi solo quando Otto dava una spiegazione o io un’altra fotografia. A uno di noi, non ricordo più chi, occorse nella spiegazione di una veduta non so quale comico malinteso. Certo per guardare le fotografie Lei rinunciò a mangiare e quando Max fece un’osservazione sul mangiare Lei osservò press’a poco che nulla Le ripugna quanto le persone che mangiano continuamente. Intanto suonò il campanello (è passato del tempo, sono le undici di sera, quando comincia il mio vero lavoro, ma non posso staccarmi da questa lettera) sonò dunque e Lei parlò della scena introduttiva di un’operetta La ragazza dell’auto che aveva ascoltato nel teatro di Corte (c’è un teatro di Corte? ed era proprio un’operetta?) nella quale sono in scena 15 persone alle quali se ne aggiunge un’altra, che viene dall’anticamera donde si sente sonare il telefono, e invita tutti uno per uno con le stesse parole ad andare all’apparecchio. Ricordo ancora queste parole, ma mi vergogno di scriverle, perché non so pronunciarle bene e meno ancora scriverle, anche se allora non solo le ho udite benissimo, ma le ho anche lette dalle Sue labbra e anche se da allora mi sono passate molte volte per la mente, cercando sempre di riprodurle con esattezza. Non so come poi (cioè no, prima, perché ero ancora seduto vicino alla porta, dunque di fronte a Lei, ma di sbieco) si sia venuti a parlare di botte e di fratelli. Si citarono i nomi di alcuni membri della famiglia, dei quali non avevo mai sentito parlare, si pronunciò anche il nome di Ferry (è forse Suo fratello?) 1 e Lei raccontò che quando era piccola le aveva prese spesso da fratelli e cugini (anche dal signor Friedmann?) e non aveva avuto modo di difendersi. Lei si passò la mano lungo il braccio sinistro che a quei tempi doveva essere coperto di lividi. Ma non aveva affatto l'aria addolorata e non riuscivo a capire, senza però rendermene precisamente conto, come qualcuno avesse potuto osare batterla, anche se allora era soltanto una bambina. - Lei disse a un certo punto, così di straforo, mentre stava guardando qualcosa o leggeva (Lei alzava troppo poco gli occhi, eppure era una sera così breve) che aveva imparato l’ebraico. Da un lato rimasi stupito, dall’altro (non sono che opinioni di allora, passate per molto tempo attraverso uno staccio sottile), non avrei voluto che ciò fosse menzionato così esageratamente di straforo, e così fui anche lieto tra me quando un po’ dopo Lei non seppe tradurre Tel Aviv.1 Si venne anche a sapere che Lei è sionista, e io ne fui molto contento. - In quella stanza si parlò anche della Sua professione e la signora Brod fece notare di aver visto nella Sua camera d’albergo un bell’abito di batista, perché si recava forse a qualche matrimonio che (indovino più di quanto non mi ricordi) doveva essere celebrato a Budapest? Quando Lei si alzò si vide che portava un paio di pantofole della signora Brod, perché i Suoi stivaletti erano messi ad asciugare. Durante il giorno c’era stato un tempo orrendo. Le pantofole La misero in imbarazzo e quando arrivammo al di là della stanza di mezzo immersa nel buio Lei mi disse che di solito porta pantofole coi tacchi. Tali pantofole erano per me una novità. - Nella stanza del pianoforte Lei era seduta di fronte a me e io cominciai a discorrere del mio manoscritto. Per la spedizione mi vennero da ogni parte buffi consigli, e ora non ricordo più quali fossero i Suoi. Ricordo invece ancora qualcosa che avvenne nell’altra stanza: e ne rimasi così stupefatto che battei un colpo sulla tavola. Lei disse infatti che Le fa piacere copiare manoscritti, che anche a Berlino ne copiava per qualche signore (accidenti al suono di questa parola quando non è accompagnata da un nome né da una spiegazione!) e pregò Max di mandarle dei manoscritti.


- La cosa migliore che mi capitò quella sera fu di aver preso con me per caso un numero di « Palestina »,1 e perciò vorrei che tutto il resto mi fosse perdonato. Si parlò del viaggio in Palestina e Lei mi porse la mano o meglio sono stato io ad attirarla in virtù di un’ispirazione. - Mentre si sonava il pianoforte ero seduto dietro a Lei, di sbieco, Lei aveva messo una gamba sull’altra e si toccò più volte la pettinatura che non riesco a immaginare vista di fronte, e ricordo che durante quella musica sporgeva un po’ da una parte. In seguito la compagnia si disperse, la signora Brod si era appisolata sul divano, il signor Brod stava rovistando nella libreria, Otto si batteva col paravento della stufa. Si parlò dei libri di Max, Lei fece un’osservazione su Arnold Beer,2 menzionò una recensione in « Ost und West » e, mentre sfogliava un volume delle opere di Goethe nell’edizione dei Propilei, disse che aveva incominciato a leggere Il castello di Nornepygge, ma non aveva potuto continuare fino in fondo. A questa osservazione mi sentii gelare per me, per Lei e per tutti. Non era un’offesa inutile, inspiegabile? eppure Lei completò da eroina il salvataggio di questo guaio apparentemente irrimediabile, mentre tutti noi fissavamo la Sua testa china sul libro. Si vide che non era un’offesa, anzi nemmeno un giudizio, ma soltanto un fatto del quale Lei stessa era stupita, sicché all’occasione avrebbe ripreso la lettura del libro. Non si poteva risolvere la cosa meglio di così e io pensai che tutti potevamo vergognarci un pochino davanti a Lei.


- Per diversivo il direttore portò un volume illustrato di quell’edizione dei Propilei, annunciando che Le avrebbe fatto vedere Goethe in mutande. Lei citò: « Egli rimane re anche in mutande »3, e questa citazione fu l'unica Sua manifestazione che quella sera mi dispiacque. Il dispiacere mi strinse quasi la gola e a rigore avrei dovuto domandarmi che cosa mi spingesse a prendermela tanto a cuore. Ma qui non sono affatto preciso. - Della velocità con cui alla fine Lei scappò dalla stanza e ritornò avendo calzato gli stivaletti non riuscivo a capacitarmi. Ma il paragone con una gazzella, espresso due volte dalla signora Brod, non mi piacque affatto. - Vedo ancora abbastanza chiaramente come Lei si mise il cappello e vi infilò gli spilloni. Il cappello era piuttosto largo, bianco di sotto. - Per via sprofondai subito in uno di quei miei non infrequenti stati di dormiveglia nei quali non vedo con chiarezza altro che il fatto di essere un buono a nulla. Nella Perlgasse Lei mi domandò, forse per soccorrere il mio increscioso mutismo, dove abito e naturalmente volle sapere se la via per andare a casa coincideva con quella del Suo albergo, ma io disgraziato imbecille domandai a mia volta se desiderava il mio indirizzo, supponendo evidentemente che, appena ritornata a Berlino, mi avrebbe scritto con zelo e fervore a proposito del viaggio in Palestina e non voleva trovarsi nella disperata situazione di non aver subito sottomano il mio indirizzo. Il fatto mi imbarazzò naturalmente durante il successivo tratto di strada, seppure c’era qualcosa che allora mi potesse imbarazzare. - Già di sopra, nella prima stanza, e di nuovo per la strada si parlò di un signore della sua filiale praghese col quale era andata nel pomeriggio al Hradschin in carrozza. Questo signore mi tolse, credo, ogni possibilità di venire al mattino alla stazione a portarle dei fiori, cosa che da un po’ avevo in mente pur essendo indeciso. L’ora mattutina della Sua partenza, l’impossibilità di trovar fiori così presto mi facilitarono la rinuncia. Nella Obstgasse e nel Graben ebbe la parola soprattutto il direttore Brod, Lei raccontò soltanto la storia della Sua mamma che quando Lei batte le mani Le fa aprire il portone di casa, una storia della quale Lei mi deve ancora la spiegazione. Il resto del tempo venne vergognosamente sprecato in confronti fra il traffico di Praga e quello di Berlino e, se non erro, si menzionò che Lei aveva fatto colazione nella « Casa di Rappresentanza » di fronte al Suo albergo. Infine il signor Brod Le diede ancora consigli per il viaggio e nominò alcune stazioni dove si poteva trovare qualcosa da mangiare. Lei aveva intenzione di far colazione nel vagone ristorante. Venni anche a sapere che aveva dimenticato l’ombrello in treno e questa inezia (inezia per me) recò una maggiore varietà nel Suo ritratto. -Apprendendo che non aveva ancora fatto le valigie e voleva ancora leggere a letto mi sentii inquieto. La notte precedente aveva letto fino alle quattro del mattino. Le Sue letture da viaggio erano: Bandiere sulla città e nel porto di Björn son e Libro di figure senza figure di Andersen. Ebbi l’impressione che avrei potuto indovinare questi libri, cosa che naturalmente non avrei mai saputo fare. All’ingresso nell’albergo, per non so quale confusione mi spinsi avanti nel settore della porta girevole nel quale entrava Lei, e quasi le urtai i piedi. - Poi ci trovammo tutti e tre un momento davanti al cameriere presso l’ascensore nel quale Lei doveva scomparire subito e la cui porta veniva aperta in quel momento. Lei disse ancora al cameriere alcune parole in tono altero, tono che, se rifletto, sento ancora nelle orecchie. Lei non si lasciò convincere facilmente che non c’era bisogno di carrozza fino alla vicina stazione. Vero è che pensava di partire dalla stazione Francesco Giuseppe. Poi prendemmo l’ultimo commiato e io menzionai ancora una volta nel modo più maldestro possibile il viaggio in Palestina, mentre in quel momento avevo l’impressione di aver menzionato troppo spesso in tutta la sera quel viaggio che probabilmente nessuno prendeva sul serio tranne me.


Questi sono press’a poco, salvo piccole omissioni non essenziali, anche se ancora numerose, tutti i fatti esteriori di quella sera che io ancora riesco a ricordare dopo più di 30 sere che nel frattempo passai con la famiglia Brod e purtroppo possono aver cancellato parecchie cose. Li ho scritti per rispondere alla Sua osservazione che quella sera ci si era accorti poco della Sua presenza, e poi perché troppo tempo ho resistito al piacere di registrare una volta i ricordi di quella sera in quanto esistano ancora. Ma ora Lei vede con spavento questa montagna di carta scritta, maledice anzitutto l’osservazione che l’ha prodotta, maledice la sorte che le imporrebbe di leggere tutta questa roba, ma poi la legge forse con un po’ di curiosità fino in fondo, mentre il tè le si fredda del tutto, e infine è di così cattivo umore da giurare per tutto ciò che Le è caro di non completare in nessun caso le mie memorie con le Sue, senza considerare nella stizza che completare non è faticoso come scrivere per primi, e che completando darebbe a me una gioia molto più grande di quanto non mi sia riuscito di dare con questa prima raccolta di particolari. Ora però voglio realmente lasciarla in pace e aggiungere ancora soltanto i miei più cordiali saluti.


 


Suo Franz K.


 


Non è finito, c’è persino una domanda alla quale è difficile rispondere: Quanto tempo si può conservare la cioccolata senza che si guasti?


 


 


29.X.12


 


Gentile Signorina,


ora Le dirò una cosa molto importante, sia pure in gran fretta (non scrivo in ufficio, perché il mio lavoro d’ufficio si ribella quando scrivo a Lei, tanto mi è del tutto estraneo questo lavoro e non ha un’idea di ciò che occorre a me). Lei invece non deve credere che con una lettera interminabile come quella di ieri l’altro, per la quale mi sono già fatto abbastanza rimproveri, io voglia portarle via oltre al tempo di leggerla anche il tempo di riposare e obbligarla a lunghe e puntuali risposte; dovrei infatti vergognarmi se in aggiunta ai Suoi faticosi giorni di lavoro io dovessi essere il tormento delle Sue sere. Le mie lettere invece non vogliono questo, non lo vogliono assolutamente, cosa del resto ovvia che certo nemmeno Lei avrà inteso diversamente. Lei dunque - ed ecco la cosa importante - la cosa importante (così importante che nella fretta mi diventa una litania) - non mi deve scrivere a lungo nemmeno quando, senza riguardo alle mie lettere, dovesse aver voglia di scrivermi. Per quanto mi figuri bello il Suo ufficio (è sola in una stanza?) non voglio più avere la sensazione di averla trattenuta là fino a tarda sera. Cinque righe, sì, queste me le può scrivere di sera ogni tanto, mentre contro ogni opposizione non posso reprimere la brutale osservazione che si possano scrivere più di frequente 5 righe che lunghe lettere. La vista delle Sue lettere alla porta (ora arrivano verso mezzogiorno) potrebbe farmi dimenticare ogni riguardo per Lei, ma la lettura della data o il presentimento di averle forse sottratto una passeggiata, sono a loro volta insopportabili. Ho allora il diritto di sconsigliarle il pyramidon se sono anch’io colpevole del Suo mal di testa? Ma quando va veramente a passeggio? Due volte la settimana ginnastica, tre volte il professore (di lui deve avere scritto nella lettera smarrita), quanto tempo libero rimane ancora? Oltre a ciò lavoretti a mano la domenica. Perché questi? Può far piacere a Sua madre sapere che Lei vi deve impegnare le Sue ore di riposo? Tanto più che, secondo le Sue lettere, la mamma è la Sua migliore e allegra amica. - Sarei lieto se Lei mi tranquillasse in proposito con 5 righe, affinché non si debba più parlarne o pensarci, ma si possa guardarci ed ascoltarci reciprocamente, senza farci rimproveri, Lei secondo la Sua bontà e intelligenza, io nel modo che devo.


 


Suo Franz K.


 


 


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]


 


31.X.12


 


Gentile Signorina,


guardi un po’ quante cose impossibili ci sono nel nostro carteggio. Posso forse togliere a una preghiera come quella di scrivermi soltanto 5 righe l’apparenza d’una antipatica e falsa magnanimità? Non è possibile. E non intendo forse che questa preghiera sia sincera? Certo che la intendo sincera. E non la intendo forse anche priva di sincerità? Naturalmente la intendo priva di sincerità, e come! Quando finalmente arriva una lettera, dopo che la porta della mia stanza si è aperta mille volte per far entrare invece del fattorino con la lettera un’infinità di gente che qui si sente al posto giusto, con la faccia tranquilla e per me tormentosa, mentre soltanto il fattorino con la lettera e nessun altro ha diritto di presentarsi: quando dunque questa lettera c’è, chiedo di poter essere tranquillo un istante, di potermene saziare e spero che la giornata passerà bene. Ma poi la leggo, contiene più di quanto io possa mai pretendere di venire a sapere, Lei ha occupato la Sua sera a scrivere questa lettera e forse non Le rimane più il tempo per la passeggiata lungo la Leipziger Strasse, io rileggo, metto da parte la lettera, poi torno a leggerla, prendo una pratica e in realtà non faccio che leggere la Sua lettera, sto accanto al dattilografo al quale dovrei dettare, e di nuovo la lettera mi passa lentamente tra le mani e appena l’ho presa, qualcuno mi chiede qualcosa e io so esattamente che ora non dovrei pensare alla Sua lettera, ma è anche la sola cosa che mi viene in mente... dopo tutto ciò sono però affamato come prima, irrequieto come prima, e di nuovo la porta comincia a muoversi allegramente come se il fattorino dovesse già ritornare con la lettera. Questa è la « piccola gioia » che, secondo la Sua espressione, mi danno le Sue lettere. Con ciò ho già risposto alla Sua domanda se non mi sia sgradevole ricevere ogni giorno una lettera Sua in ufficio. Naturalmente è quasi impossibile collegare in qualche modo l’arrivo di una Sua e il lavoro d’ufficio, ma altrettanto impossibile è lavorare e aspettare invano una lettera, o lavorare e riflettere se non ce ne sia una a casa. Cose impossibili da tutte le parti! Eppure non è un gran male, poiché negli ultimi tempi mi sono riuscite col lavoro d’ufficio anche altre impossibilità, non bisogna accasciarsi di fronte alle piccole impossibilità, perché allora non si potrebbero nemmeno vedere le grandi.


D’altronde oggi non mi posso lamentare perché le Sue due ultime lettere mi sono giunte separate soltanto da un intervallo di 2 ore e naturalmente ho imprecato contro il disordine postale di ieri come lodo la posta di oggi.


Ma io non rispondo affatto, domando poco, e tutto perché la gioia di scriverle, senza che me ne renda subito conto, dà alle lettere per Lei un’impostazione come dovessero non finire mai, e allora i primi fogli non devono naturalmente contenere niente di essenziale. Aspetti però, domani spero (spero per me) di aver tempo sufficiente da rispondere d’un fiato a tutte le domande e da farne a mia volta tante da alleggerire il mio cuore, almeno per il momento.


Oggi dirò ancora soltanto questo: che al punto in cui si trattava del Suo cappello mi sono morso la lingua. Dunque nero era di sotto? Dove avevo gli occhi?


E per me l’osservazione non era per niente futile. Allora era tutto bianco di sopra e questo mi può aver confuso perché data la mia statura lo guardai dall’alto. Lei anche piegò un po’ la testa quando se lo mise. Scuse ci sono come sempre, ma non avrei dovuto scriverle ciò che non sapevo con certezza.


Con i più cordiali saluti e, se è permesso, baciandole la mano,


 


Suo Franz K.


 


 


1°.XI.12


 


Cara signorina Felice,


almeno per questa volta non deve aversene a male se La chiamo così, poiché se Le devo descrivere, come Lei ha già chiesto alcune volte, il mio modo di vivere, dovrò probabilmente dire alcune cose per me delicate che di fronte a un « gentile signorina » non sarei forse capace di pronunciare. D’altro canto il nuovo modo di chiamarla non può essere un gran male, altrimenti non lo avrei escogitato con tanta e ancora presente soddisfazione.


La mia vita consiste ed è consistita, in fondo, da sempre, in tentativi di scrivere, per lo più mal riusciti. Ma se non scrivevo mi trovavo già a terra, degno di essere spazzato fuori. Le mie forze sono state da sempre esigue e meschine, e se anche non ne ero apertamente convinto, veniva da sé che dovessi fare economia da tutte le parti, lasciarmi sfuggire un po’ dappertutto, per conservare un’energia appena sufficiente a quello che mi sembrava il mio scopo principale. Quando però non lo facevo per conto mio (Dio mio, persino in questo giorno feriale durante il servizio giornalistico in ufficio sono senza un po’ di tranquillità, ricevo una visita dopo l’altra come in un piccolo inferno scatenato), ma cercavo di sorpassare me stesso, ero respinto automaticamente, danneggiato, umiliato, debilitato per sempre, ma proprio ciò che per qualche istante mi rendeva infelice mi infuse fiducia con l’andar del tempo e cominciai a credere che in qualche luogo, anche se difficile da trovare, ci doveva essere una buona stella sotto la quale fosse possibile continuare a vivere. Una volta feci un elenco particolareggiato di ciò che avevo sacrificato allo scrivere e di ciò che per amore dello scrivere mi veniva tolto o, meglio, la cui perdita era sopportabile soltanto con questa spiegazione.


Difatti, magro come sono, e sono l’uomo più magro che io conosca (non è poco, dato che ho girato parecchio nelle case di cura), non ho in me nulla che in riguardo allo scrivere si possa dire superfluo, superfluo in senso buono. Se dunque esiste un potere superiore che mi vuol utilizzare o mi utilizza, sto in mano sua come uno strumento almeno chiaramente elaborato; se invece no, non sono niente e all’improvviso mi troverò in un vuoto spaventevole.


Ora ho allargato la mia vita aggiungendovi il pensiero di Lei e non c’è forse quarto d’ora del tempo in cui sono desto che non abbia pensato a Lei, e numerosi quarti d’ora nei quali non faccio altro. Ma persino questo è collegato col mio scrivere. Soltanto il moto ondoso dello scrivere mi determina e in un periodo di fiacchezza nello scrivere non avrei certamente trovato il coraggio di rivolgermi a Lei. Questo è tanto vero come è vero che da quella sera ho sentito quasi di avere uno squarcio nel petto attraverso il quale questo sentimento entrasse e uscisse succhiando e senza dominarmi, finché una sera a letto ricordando una storia della Bibbia mi convinsi della necessità di quel sentimento come anche, ad un tempo, della verità di quella storia biblica. Ma ultimamente ho notato con mio stupore quanto anche Lei sia imparentata col mio scrivere, benché fino allora avessi creduto che proprio durante lo scrivere non pensavo minimamente a Lei. In un breve periodo che avevo scritto si trovavano fra l’altro le seguenti relazioni con Lei e con le Sue lettere: qualcuno riceveva in dono una tavoletta di cioccolata. Si parlava di piccoli diversivi che uno aveva durante il suo servizio. Più avanti c’era una chiamata al telefono e infine uno spingeva un altro ad andare a dormire e minacciava, se non obbediva, di condurlo fino in camera sua, e ciò era certamente solo un ricordo della stizza che Sua madre ebbe quando Lei restò così a lungo in ufficio. - Fatti di questo genere mi sono particolarmente cari, io ve La tengo prigioniera senza che Lei se ne accorga e pertanto senza che debba difendersi. E se persino un giorno dovesse leggere qualcosa di simile, queste inezie certamente Le sfuggiranno. Ma può credermi che forse in nessun altro posto del mondo Lei potrebbe lasciarsi catturare così tranquillamente come qui.


Il mio tenore di vita è organizzato soltanto in vista dello scrivere e se subisce mutamenti, li subisce solo perché corrisponda meglio, possibilmente, allo scrittore, poiché il tempo è breve, le forze sono esigue, l’ufficio è uno spavento, l’abitazione è rumorosa e bisogna cercare di cavarsela con artifici, quando non è possibile farlo con una bella vita diritta. La soddisfazione per l’artificio con cui uno riesce nella distribuzione del tempo, non è niente di fronte all’eterna miseria che ogni stanchezza si imprime nello scritto molto meglio e più chiaramente di ciò che in sostanza si voleva scrivere. Da un mese e mezzo la mia distribuzione del tempo, salvo alcuni disturbi subentrati negli ultimi giorni in seguito a una debolezza insopportabile, è questa: dalle 8 alle 2 o 2.20 ufficio, fino alle 3 o 3.30 colazione, poi a letto a dormire (per lo più soltanto tentativi, per tutta una settimana ho visto dormendo soltanto montenegrini con una chiarezza, estremamente disgustosa e causa di mal di capo, di tutti i particolari dei loro abiti complicati) fino alle 7.30, poi 10 minuti di ginnastica, nudo, con la finestra aperta, poi 1 ora di passeggiata da solo o con Max o con un altro amico ancora, poi la cena in famiglia (io ho tre sorelle, una maritata, una fidanzata, una nubile; questa, nonostante l’amore per le altre, mi è di gran lunga la più cara), poi alle 10.30 (spesso faccio anche le 11.30) mi accingo a scrivere e continuo secondo l’energia, la voglia e la fortuna fino all’una, alle 2, alle 3, una volta perfino sino alle 6 del mattino. Poi di nuovo ginnastica come sopra, naturalmente evitando ogni sforzo, poi mi lavo e vado a letto per lo più con leggeri dolori al cuore e con sussulti ai muscoli dell’addome. Seguono tutti i possibili tentativi per addormentarmi, per raggiungere cioè l’impossibile, poiché non si può dormire (il signore esige perfino un sonno senza sogni) e nello stesso tempo pensare al proprio lavoro e oltre a ciò pretendere di risolvere con certezza il quesito, non solubile con certezza, se il giorno dopo arriverà una Sua lettera e a che ora. Così la notte consta di due parti, di una desta e di una insonne, e se gliene volessi scrivere nei particolari e Lei fosse disposta ad ascoltare, non la finirei più. Naturalmente non c’è poi da meravigliarsi se la mattina in ufficio comincio a lavorare proprio col termine delle mie forze. Qualche tempo fa, in un corridoio dal quale passo sempre per andare dal mio dattilografo, c’era una barella con la quale trasportano documenti e stampati, e ogni qualvolta ci passavo mi pareva che fosse adatta soprattutto per me e mi stesse aspettando.

Per essere preciso non devo dimenticare che non sono soltanto un impiegato, ma anche un fabbricante. Mio cognato1 infatti possiede una fabbrica di amianto, io sono socio (ma soltanto con una quota versata da mio padre) e come tale registrato. Questa fabbrica mi ha procurato già abbastanza dolori e apprensioni, che adesso non voglio raccontare, in ogni caso la trascuro da parecchio tempo (cioè le sottraggo la mia collaborazione che del resto è inutile) meglio che posso, e posso abbastanza bene.

Ma ecco che questa volta ho raccontato poco, non ho fatto nessuna domanda e già devo chiudere. Ma nessuna risposta e senza alcun dubbio nessuna domanda andrà perduta. Esiste in verità un incantesimo mediante il quale due persone, senza vedersi, senza parlarsi, possono apprendere la maggior parte del loro reciproco passato, direi quasi di botto, senza doversi comunicare ogni cosa, ma è quasi un mezzo di alta magia (senza che ne abbia l’aspetto) al quale ci si accosta, trovandovi sempre il proprio tornaconto, ma con ancora maggiore certezza il proprio castigo. Perciò non lo dico, fino a che Lei non lo indovini. È brevissimo come tutte le formule magiche.


Stia bene e mi permetta di suggellare questo augurio con un lungo baciamano.

Suo Franz K.


[Carta intestata dell’Istituto d’Assicurazione contro gli Infortuni dei Lavoratori]

2.X.12 [2 nov. 1912]


Gentile Signorina,

come? Anche Lei si stanca? Provo quasi raccapriccio sapendola sola la sera e stanca nel Suo ufficio. Mi dica, come è vestita in ufficio? In che cosa consiste il Suo principale lavoro? Scrive o detta? Dev’essere un posto elevato1 se deve ricevere tanta gente, poiché l’impiegato inferiore deve stare muto alla sua scrivania. Che il suo ufficio fosse collegato con una fabbrica l’avevo già indovinato, ma che cosa vi si produce? Soltanto dittafoni? Ma è roba che qualcuno compera? Io sono felice (quando in casi eccezionali non scrivo a macchina io stesso) di poter dettare a un uomo vivo (questo è il mio lavoro principale) che ogni tanto, quando non mi viene nulla in mente, si appisola o si stira un po’ o accende la pipa e intanto mi lascia guardare tranquillamente dalla finestra. Oppure, come oggi per esempio, quando lo rimproverai perché scriveva adagio, per ammansirmi mi avverte che ho ricevuto una lettera. Esiste un dittafono capace di fare altrettanto? Ricordo che poco tempo fa mi è stato presentato un dittafono (allora non avevo ancora il pregiudizio che nutro oggi contro i prodotti dei Suoi concorrenti), che però era troppo noioso e poco pratico. Non riesco pertanto a immaginare l’azienda e vorrei che in realtà fosse poco fondata e campata in aria come io me la immagino e che lei facesse un’adeguata vita facile e senza fatica. D’altro canto non riesco a trovare la Sua filiale di Praga che, se ricordo bene una Sua osservazione, dovrebbe essere nella Obstgasse o nella Ferdinandstrasse. L’ho già cercata più volte perché dall’insegna della ditta dovrei pur ricavare qualche indizio o un’idea di Lei.

Descrivere il mio lavoro in ufficio mi fa poco piacere. Non merita che Lei ne sappia qualcosa, e non mette conto che io lo descriva poiché non mi lascia né tempo né pace da scriverle, mi rende svagato e insensato come sono in questo momento e, per vendicarsi del fatto che penso a Lei, è così sconvolto che è un piacere.

Addio! Domani sarà probabilmente una domenica tranquilla e io Le scriverò un monte di cose. E Lei non si stanchi a lavorare! Non mi renda triste! - E dire che scrivo queste cose il giorno stesso in cui Lei ha ricevuto la mia misera lettera. Come siamo deboli noi uomini.

Suo Franz K.



3.XI.12

lunedì 12 febbraio 2024

GIGANTE EGOISTA Oscar Wilde




GIGANTE EGOISTA
Racconto
Oscar Wilde
Ogni pomeriggio, appena uscivano dalla scuola, i bambini avevano l'abitudine di andare a giocare nel giardino del Gigante.
Era un grazioso e vasto giardino, con erba soffice e verde. Qua e là sull'erba c'erano bellissimi fiori che sembravano stelle, e dodici alberi di pesco che in primavera fiorivano di bianco e rosa, e in estate davano frutti succosi. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano così dolcemente che i bambini interrompevano i loro giochi per ascoltarli.
"Come siamo felici qui!" gridarono gli uni agli altri.
Un giorno il Gigante tornò. Era stato a visitare suo fratello, l'Orco di Cornovaglia, e si era trattenuto con lui per sette anni.
Dopo sette anni aveva detto tutto quanto aveva da dire e si era deciso a ritornare nel suo castello. Quando arrivò, vide i bambini che giocavano nel giardino.
"Che cosa state facendo laggiù?" gridò con voce burbera, e i bambini scapparono via.
"Il mio giardino è mio! - proclamò il Gigante. - Chiunque può capirlo, e non permetterò a nessun altro di giocarci". Così vi costruì un alto muro tutt'intorno, e mise un cartello:
VIETATO L'INGRESSO
I TRASGRESSORI SARANNO PERSEGUITI A TERMINI DI LEGGE
Era veramente egoista quel Gigante.
I poveri bambini ora non avevano un posto dove giocare. Provarono a giocare sulla strada, ma la strada era veramente sporca e piena di polvere e sassi acuminati, e a loro non piaceva. Erano soliti gironzolare intorno alle mura invalicabili dopo l'orario di lezione, parlando tra loro dello stupendo giardino all'interno.
"Come eravamo felici lì!" si dicevano.
Poi arrivò la Primavera, e in tutto il paese spuntarono deliziosi fiorellini sui quali svolazzavano gli uccellini novelli. Soltanto nel giardino del Gigante Egoista era ancora inverno. Gli uccelli non si preoccupavano di cantare perché non c'erano i bambini, e gli alberi si dimenticarono di fiorire. Un solo bellissimo fiore mise la sua testolina fuori dall'erba, ma quando vide il cartello fu così dispiaciuto per i bambini che si infilò nuovamente nella terra, e ritornò a dormire. I soli contenti furono la Neve e il Gelo.
"La Primavera ha dimenticato questo giardino esclamarono, - cosicché noi potremo viverci tutto l'anno".
La Neve coprì l'erba con il suo grande mantello bianco, e il Gelo dipinse d'argento tutti gli alberi. Quindi invitarono il Vento del Nord a stare con loro, ed egli venne. Era avvolto in una pelliccia, e ruggì dal mattino alla sera nel giardino, e abbatté i comignoli.
"Questo è un posto piacevolissimo - disse, - dobbiamo invitare la Grandine".
E la Grandine arrivò. Ogni giorno per tre ore questa crepitò sul tetto del castello finché non ebbe rotto la maggior parte delle tegole, e allora si mise a correre senza mai fermarsi intorno al giardino, più forte che poteva. Era vestita di grigio, e il suo alito era di ghiaccio.
"Non capisco proprio come mai la Primavera tardi così tanto ad arrivare - disse il Gigante Egoista guardando dalla finestra il suo giardino freddo e coperto di neve, - spero che il tempo possa cambiare presto".
Ma la Primavera non arrivò, e nemmeno l'Estate.
L'Autunno portò frutti dorati in tutti i giardini ma non in quello del Gigante.
"E' troppo egoista" disse l'Autunno. Così là era sempre Inverno, e il Vento del Nord, la Grandine, il Gelo, la Neve danzavano qua e là fra gli alberi.
Una mattina il Gigante stava disteso nel suo letto, sveglio, quando sentì una musica dolcissima. Gli sembrò così dolce che pensò dovessero essere i musicanti che passavano. In realtà era soltanto un piccolo fanello che cantava davanti alla finestra, ma era da tanto tempo che non sentiva cantare un uccello nel suo giardino, che quella gli sembrò la musica più soave del mondo.
Allora la Grandine smise di ballargli sulla testa, e il Vento del Nord cessò di ruggire, e un delizioso profumo entrò attraverso i battenti aperti.
"Credo che sia veramente arrivata la Primavera" disse il Gigante; e saltò giù dal letto per guardar fuori.
Che cosa vide?
Vide una scena stupenda. Da un piccolo buco nel muro i bambini si erano insinuati nel giardino, e stavano seduti sui rami degli alberi. Su ogni albero che poteva vedere c'era un bambino. E gli alberi erano così felici di avere di nuovo i bambini con loro, che si ricoprirono di germogli, e agitavano delicatamente i rami sulla testa dei bambini. Gli uccelli stavano volando qua e là cinguettando allegramente, e i fiori occhieggiavano tra l'erba verde e ridevano. Era una scena deliziosa: solo in un angolo era ancora inverno. Era l'angolo più lontano del giardino e lì un bambino stava dritto in piedi. Era così piccolo che non riusciva a raggiungere i rami degli alberi, e vi girava tutt'intorno, piangendo amaramente.
Il povero albero era ancora coperto di neve e gelo, e il Vento del Nord soffiava e ruggiva tutt'intorno.
"Sali, bambino!" disse l'albero, e piegò i rami più che poté; ma il ragazzo era troppo piccolo.
E il cuore del Gigante a quella vista si squagliò immediatamente.
"Come sono stato egoista! - esclamò. - Ora so perché la Primavera tardava a venire. Metterò quel povero bambino in cima all'albero, e destinerò per sempre il mio giardino ai giochi dei bambini".
Era davvero molto dispiaciuto per quello che aveva fatto.
Così scese furtivamente e aprì senza rumore il portone di fronte, uscendo dal giardino. Ma quando i bambini lo videro si spaventarono talmente che scapparono via, e nel giardino ritornò l'Inverno. Soltanto il bambino più piccolo non fuggì perché aveva gli occhi così pieni di lacrime che non poté vedere il Gigante avvicinarsi. E il Gigante gli si avvicinò da dietro, lo prese gentilmente per mano e lo sollevò sull'albero. E l'albero fece immediatamente sbocciare i fiori, e gli uccelli si posarono cantando sui rami, e il bambino tese le braccia e le gettò al collo del Gigante e lo baciò. E gli altri bambini, quando videro il Gigante che non era più cattivo come un tempo, tornarono di corsa e con loro tornò la Primavera.
"Bambini, il giardino è vostro ora" disse il Gigante, e prese una grande scure e abbatté il muro. E alle dodici, quando la gente uscì per andare al mercato, trovò il Gigante che giocava con i bambini nel giardino più bello che avessero mai visto.
Tutto il giorno giocarono e la sera tornarono dal Gigante a salutarlo.
"Ma dov'è il vostro piccolo compagno? - domandò. - Il bambino che ho messo sull'albero". Il Gigante lo amava più di tutti gli altri perché era stato lui a baciarlo.
"Non lo sappiamo - risposero i bambini, - è andato via".
"Dovete dirgli di stare tranquillo e di venire domani" disse il Gigante. Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitava, e che non l'avevano mai visto prima di allora; e il Gigante si sentì molto triste.
Tutti i pomeriggi, quando la scuola terminava, i bambini venivano a giocare con il Gigante. Ma il bambino che il Gigante amava non si fece mai più vedere. Il Gigante era gentilissimo con tutti i bambini, eppure quel suo piccolo primo amico gli mancava moltissimo, e chiedeva spesso sue notizie.
"Come vorrei vederlo ancora!" era solito ripetere.
Passarono gli anni, e il Gigante divenne molto vecchio e debole.
Non poteva più partecipare ai giochi, così, seduto su una grande poltrona, si limitava ad osservarli e ad ammirare il giardino.
"Ho tanti fiori bellissimi ma i fiori più belli di tutti sono i bambini" esclamava ogni tanto.
Una mattina d'inverno guardò fuori dalla finestra mentre si vestiva. Ora non odiava più l'Inverno, perché sapeva che era semplicemente la Primavera addormentata, e sapeva che i fiori si stavano solo riposando.
Improvvisamente si strofinò gli occhi e guardò con meraviglia. Era certamente una visione incredibile. Nell'angolo più nascosto del giardino c'era un albero completamente coperto di fiori bianchi. I suoi rami, dai quali pendevano frutti d'argento, erano interamente d'oro, e sotto c'era il bambino che il Gigante aveva amato.
Il Gigante corse al piano inferiore, con il cuore colmo di gioia, e uscì in giardino.
Attraversò velocemente il prato e si diresse verso il bambino.
Quando arrivò vicirno al suo viso, si fece rosso dall'ira, e chiese:
"Chi ha osato ferirti?".
Sulle palme delle mani del bambino c'erano i segni di due chiodi, e i segni di due chiodi erano anche sui suoi piedini.
"Chi ha osato ferirti? - gridò il Gigante. - Dimmelo affinché io possa prendere la mia grande spada e ucciderlo".
"No! - rispose il bambino. - Queste sono le ferite dell'Amore".
"Chi sei tu?" domandò il Gigante, mentre uno strano timore lo prendeva, e si inginocchiò davanti al bambinetto.
Il bambino sorrise al Gigante e gli disse:
"Tu una volta mi hai permesso di giocare nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio giardino, che è il Paradiso".
E quando i bambini, quel pomeriggio, vennero a giocare trovarono il Gigante che giaceva morto sotto l'albero, tutto coperto di fiori bianchi.