giovedì 7 marzo 2024

GOLDA Elisabetta Fiorito



 GOLDA

Elisabetta Fiorito

Storia della donna che fondò Israele

1

Kiev, Milwaukee, Eretz

Kiev, 1898-1902

Il rumore del martello che inchioda le assi di legno della porta di casa a Kiev provoca paura, ma non è quella di una bambina quando viene sgridata dai genitori. È un terrore diffuso che arriva dall’esterno, verso il quale si è impotenti. Golda Mabovič ha quasi quattro anni, come tutte le ragazzine di quell’età la possiamo immaginare con i vestiti inzaccherati di fango, gli stivaletti slacciati. Una foto dell’epoca la ritrae con i capelli ricci difficilmente governabili da un fiocco e lo sguardo sveglio. È seduta sulla scala di casa insieme ad un’amichetta, si stringono le mani, le due famiglie abitano nello stesso edificio. I cosacchi stanno arrivando, fuori si sentono le grida di chi inneggia agli assassini di Cristo. Golda guarda il padre che si affanna a inchiodare le assi di legno, l’unica cosa che può fare per proteggere la famiglia. Il pogrom per fortuna non ci sarà, ma Golda resterà traumatizzata per tutta la vita con una certezza: tutto questo avviene perché sono ebrei.


La vita nell’ex impero russo è dura per tutti ma soprattutto per gli ebrei. Povertà e persecuzioni sono il pane quotidiano, il semolino è un vero lusso, ricorderà Golda nelle sue memorie, e protesterà verso le nostalgiche rappresentazioni del mondo yiddish: non ci sono romantici violinisti sul tetto che intonano arie sentimentali, gli shtetl sono miseri villaggi in cui ci si affanna a campare e dove la mortalità infantile è all’ordine del giorno. La madre mette al mondo otto bambini, ne sopravvivono soltanto tre: Sheyna, Golda e Zipke. Contrariamente alle usanze dell’epoca, sono figlie di un matrimonio d’amore. Originari di Pinsk, oggi in Bieolorussia, il padre, Moshe, vede la madre, Bluma, s’innamora, si dichiara e la sposa, senza l’aiuto di una sensale, un piccolo scandalo dei tempi che cambiano. Subito dopo il matrimonio, forse per evitare i rimbrotti del suocero, Moshe tenta la fortuna a Kiev, ma l’attuale capitale dell’Ucraina è un luogo tutt’altro che amichevole, paradossalmente è vietata agli ebrei malgrado si trovi al centro della zona di residenza dove invece sono costretti a vivere dall’impero russo. Moshe è uno dei fortunati ad avere la delega per abitarci. Suo padre è stato coscritto nell’esercito zarista, prelevato a forza a tredici anni e, trattenuto per altri tredici, riesce a resistere alla conversione durante la leva nutrendosi unicamente di pane e verdure crude, così da evitare il cibo non kasher. Quando finalmente lascia l’esercito zarista, sposa un’ebrea e per anni dorme sul banco della sinagoga priva di riscaldamento per espiare il peccato di avere possibilmente infranto la legge mosaica senza volerlo.


Pinsk, 1903

Ma le cose a Kiev non funzionano e la famiglia Mabovič torna a Pinsk. In questa città, a differenza della capitale ucraina, la popolazione è costituita per due terzi da ebrei, una sorta di zona franca, uno shtetl allargato dove svolgono tutti i mestieri: pescatori, scaricatori di porto, facchini che trasportano il ghiaccio d’inverno; posseggono fabbriche di chiodi, legno, fiammiferi che impiegano decine di operai. Ma, appena si mette piede fuori dallasi mette piede fuori dallasi mette piede fuori dalla città, iniziano i pericoli. Pinsk è circondata dalle Pinsker blotte, le paludi nere, da evitare come la peste, oceani di fango abitati dai cosacchi, il braccio armato dello zar e della religione cristiano-ortodossa, che passano al galoppo sopra i corpi di chiunque si trovi sulla loro strada e di certo non si fanno scrupolo se sono bambini ebrei. Succederà anche a Golda, che per fortuna scampa al pericolo.


A Pinsk la miseria continua a perseguitare i Mabovič e Moshe prende la decisone di partire per la Goldene Medineh, l’America, la famiglia lo raggiungerà in seguito, ma passeranno tre anni prima che si ritrovino. È un’epoca di fermento quella che si vive nell’impero russo, spira un vento nuovo, si parla di socialismo, di equità, di lotta di classe. Per gli ebrei è la speranza della fine delle persecuzioni, la maggior parte si raccoglie nel Bund, il sindacato dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia fondato nel 1897, convinti che, con il sovvertimento del regime zarista, l’antisemitismo cesserà d’esistere. Soltanto una piccola minoranza aderisce al movimento sionista, accusato dai membri del Bund di seguire un’utopia borghese, quella della fondazione di uno stato ebraico in Palestina. Ma è la strada che Sheyna, la sorella maggiore di Golda ormai quattordicenne, decide di seguire. I rischi sono molti, capillari i controlli della polizia zarista, le preoccupazioni della madre Bluma incessanti quando Sheyna non rincasa la sera o quando organizza riunioni clandestine mentre è in sinagoga durante lo Shabbat. Ed è in uno di questi incontri che conosce Shamai, suo futuro marito. Dopo il fallimento della prima Rivoluzione russa nel 1905, una nuova ondata di pogrom colpisce Kiev, Kishinev, Odessa e Minsk. Sheyna rischia di essere arrestata da un momento all’altro, Bluma sa che c’è solo un modo per salvarsi: raggiungere Moshe in America.


Milwaukee, 1906

Come se fosse facile. Tre anni prima, Moshe è riuscito a partire grazie ai falsari di documenti, come racconta Francine Klagsbrun in Lioness. Ha ottenuto un biglietto gratis, pagato da una donna in attesa di raggiungere il marito in America. In cambio, ha dovuto dichiarare che colei con cui viaggia è sua moglie e i ragazzi suoi figli. La conseguenza è che ora Bluma e le figlie non hanno i documenti per partire e devono emigrare clandestinamente. È da poco passato Pesach, la Pasqua ebraica, la famiglia si mette in viaggio a piedi per raggiungere il confine con la Galizia. Ripetono a memoria i nomi falsi scritti sui passaporti e per passare il confine Bluma paga una mazzetta alla guardia di frontiera. Poi via in treno fino a Vienna e Anversa, dove si imbarcano su una nave zeppa di immigrati russi, pallidi ed esausti. Stipate in una cabina buia e angusta insieme ad altre quattro persone con cuccette prive di lenzuola, tra mal di mare, vomito e fila per la zuppa, trascorrono due settimane fino a quando sbarcano a Québec City in Canada per evitare le maglie strette dell’immigrazione di New York a Ellis Island. Da lì di nuovo in treno per raggiungere Milwaukee in Wisconsin. Al contrario della maggior parte della popolazione ebraica che si trova nel sovrappopolato e povero Lower East Side di Manhattan, Moshe ha scelto una città di provincia, probabilmente spinto dall’Industrial Removal Office, l’Ufficio ebraico per il ricollocamento che cerca di integrare gli ebrei alla vita americana.


Alla stazione Bluma si trova davanti un uomo che stenta a riconoscere: senza barba, si fa chiamare Morris e guarda con una punta di disprezzo la famiglia che sembra provenga da un altro secolo. Sheyna è addirittura vestita con l’abito nero dal colletto alto tipico delle rivoluzionarie bolsceviche. L’automobile con cui le va a prendere è la prima su cui Golda sia mai salita e, mentre osserva il nuovo mondo di tram, vetture, biciclette, appare davanti ai suoi occhi un edificio di ben cinque piani, quello dei magazzini Schuster, il primo così alto che abbia mai visto in vita sua.


Ma la famiglia non se la passa bene nemmeno a Milwaukee. Morris lavora soltanto saltuariamente nelle officine delle ferrovie, Bluma per sbarcare il lunario apre un negozio nel locale sotto casa, prima una latteria poi una drogheria. Golda deve aiutarla al banco, un incubo che la accompagnerà durante l’adolescenza, mentre vorrebbe concentrarsi negli studi. È sveglia e impara presto l’inglese, fondamentale per la sua vita futura. Sheyna continua a frequentare i socialisti, trova lavoro come occhiellaia, impiego che odia ma che la fa sentire parte del proletariato, lontano da Shamai che sogna di raggiungerla negli Stati Uniti. Trascorreranno cinque anni prima che ci riescano. Sheyna si ammala di tubercolosi, guarisce, si riunisce con Shamai, lo sposa nonostante il parere contrario della famiglia e va a vivere a Denver. Golda rimane sola, si diploma a quattordici anni, è tra le prime della classe, vuole diventare insegnante. Per la madre non se ne parla neppure, bisogna che si trovi un marito e metta su famiglia. Golda non ha scelta, progetta la fuga e, grazie all’amica Regina, raggiunge la sorella a Denver.


1913-1916 Non è bello ma ha una bellissima anima

A Denver, Sheyna continua a perseguire il sogno sionista, il suo appartamento è diventato un centro dove si incontrano gli ebrei russi. Si discute di politica, di socialismo, di sionismo e il sogno di una patria ebraica coinvolge anche Golda che condivide l’idea di un luogo dove gli ebrei possano finalmente vivere liberi. Inizia a sognare i kibbutz e la Palestina. In una di queste riunioni, conosce Morris Meyerson, di cinque anni più grande, un uomo timido e stempiato. Sono due persone agli antipodi: Golda è interessata alla politica, al socialismo, alla creazione di una società nuova, Morris è attratto dall’arte, dalla letteratura, dalla musica e dalla poesia. La porta ai concerti, alle mostre, a teatro e riesce a conquistare il suo cuore rispetto ai molti pretendenti che le ronzano attorno. È una ragazza vivace, intelligente, carina e, secondo l’amica del cuore Regina, fa innamorare chiunque incontri.


Ma di sicuro non è una che si fa mettere i piedi in testa, nemmeno da sua sorella che la vuole controllare e la rimprovera ogni giorno di più: è venuta a Denver per studiare non per andare ai concerti. Golda fa i bagagli, va a vivere da sola e trova lavoro in un negozio dove prende le misure delle fodere degli abiti. Ricorderà in seguito che anche da primo ministro non potrà fare a meno di controllare gli orli delle gonne. Lavorare e studiare insieme, però, non è possibile, suo padre la prega di rientrare a casa se ha a cuore il benessere di sua madre, le promette che stavolta potrà continuare a studiare. Golda decide di tornare a Milwaukee, ma la sera prima di partire Morris, per paura di perderla, le chiede la mano. “Non è bello – scrive di getto a Regina – ma ha una bellissima anima”. Tornata in famiglia, frequenta finalmente le magistrali.


1917-1921 Matrimonio, Balfour, Eretz

La storia d’amore va avanti a distanza. I due fidanzati si scrivono in inglese affinché Bluma non capisca le lettere della figlia anche se cerca di farsele tradurre dalla figlia minore Zpike, che in America gli insegnanti hanno ribattezzato Clara. La casa dei genitori è cambiata, è diventata un via vai di persone, con lo scoppio della Prima guerra mondiale i Mabovič ospitano molti ebrei di passaggio che vorrebbero andare a combattere in Palestina sotto l’egida dell’Impero britannico per scacciare i turchi. In casa arrivano anche primi membri dello yishuv, la comunità ebraica in Palestina, proprio per reclutare soldati per la Legione ebraica. Sono due personaggi che faranno la storia d’Israele: Yitzhak Ben Zvi, secondo presidente dello Stato ebraico, e David Ben Gurion, il padre della patria. Malgrado la collaborazione e l’amicizia a venire, nelle sue memorie Golda lo descriverà come un uomo impermeabile e senza ironia.


Quei tempi, però, sono ancora lontani. Durante la Prima guerra mondiale Chaim Weitzmann, un cittadino naturalizzato britannico (futuro primo presidente d’Israele), e Lord Rothschild si appellano al governo britannico per il via libera a una patria ebraica. La risposta arriva il 2 novembre 1917 quando il segretario agli affari esteri britannico Lord Arthur Balfour redige la famosa dichiarazione in cui c’è scritto che il governo di sua maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale del popolo ebraico. È la svolta.


Israele, però, è ancora una nebulosa per Golda che in quello stesso anno, il 24 dicembre 1917, convola a nozze con Morris. I due sono riusciti a vincere le resistenze dei genitori; Bluma, però, la spunta sul matrimonio religioso, malgrado gli sposi preferirebbero una cerimonia laica. Golda e Morris sono uniti sotto la chuppà, il baldacchino nuziale, dal rabbino ortodosso Solomon Isaac Scheinfeld. Nel certificato di nozze, la professione di Morris è disegnatore d’insegne per negozi, non c’è riferimento al mestiere di Golda, sempre più impegnata in politica con un ménage che si ripeterà in futuro: Morris l’aspetta a casa mentre lei vaga tra un congresso laburista e l’altro. Sono gli anni in cui si discute sulla lingua da adottare nella nuova patria, se l’yiddish o l’ebraico, tesi sostenuta da Eliezer Ben Yehuda. Golda è contraria, sostiene l’esperanto degli ebrei dell’Europa dell’Est, nelle biografie future i maligni adombreranno la difficoltà di un ebraico ancora stentato rispetto all’inglese e all’yiddish. Tutte le discussioni, tutti i congressi ai quali partecipa la convincono sempre di più che l’unica possibilità per essere liberi è emigrare in Palestina, deve soltanto convincere Morris. Al marito, la politica non interessa granché, nemmeno il sionismo, ha piuttosto una concezione anarcopacifista del mondo, ma un carattere mite come il suo non riesce a resistere a lungo a un ariete come Golda. La decisione è presa, bisogna soltanto attuarla, si forma un gruppo pronto a partire: Regina, il marito, la sorella Sheyna e i figli, Shamai li raggiungerà in seguito, e ovviamente Golda e Morris. Si trasferiscono a New York con l’intenzione di imbarcarsi quanto prima.


Fervono i preparativi con alcuni malintesi dall’aspetto comico. Immaginando di andare a vivere in un clima desertico, decidono di vendere tutti i vestiti invernali, ma di portare un giradischi a manovella per allietare le notti in tenda. Sul molo del porto, mentre la primavera newyorkese esplode, nel maggio 1921, il gruppo individua l’imbarcazione su cui viaggeranno: la Pocahontas, una carretta del mare, talmente malmessa che l’equipaggio entra in sciopero prima della partenza. Per percorrere il tratto New York-Boston ci impiegano una settimana, poi riescono a prendere la via dell’oceano, ma la traversata dell’Atlantico è un vero incubo. Quando attraccano a Porto Delgado nelle Azzorre, la nave è talmente in cattive condizioni che devono fermarsi una settimana per le riparazioni. Nell’ultimo tratto di viaggio il frigorifero è fuori uso, possono cibarsi soltanto di riso, un passeggero muore, il fratello del comandante impazzisce e viene incatenato, mentre lo stesso comandante, Daniel Prendergast, si suicida poco prima di arrivare a Napoli, anche se è più probabile un omicidio da parte dell’equipaggio visto che il cadavere viene ritrovato in mare con le mani legate.


Il viaggio prosegue via terra per Brindisi dove il gruppo prende di nuovo il mare con destinazione Alessandria. Nella Palestina mandataria, è possibile scendere a terra su scialuppe davanti a Jaffa, ma gli arabi si rifiutano di far sbarcare gli ebrei. Sulla nave, Golda incontra dei veri pionieri che vengono dalla Lituania, dormono sul ponte e guardano con diffidenza gli americani che hanno in mano biglietti per le cabine, li accusano di non essere autentici sionisti. Per non essere da meno, Golda impone al gruppo di dormire sul ponte, ma Sheyna si assicura che i bambini riposino in cabina. Arrivati in Egitto, viaggiano in treno per El Qantara in carrozze malmesse sommerse dalla polvere e dall’afa. Finalmente il 14 luglio 1921, giungono a Tel Aviv nel pieno di un’ondata di caldo, 40 gradi sono difficili da sopportare per chi è nato a Kiev ed è vissuto a Milwaukee, nella fredda regione dei Grandi Laghi. «Ecco Golda, siamo arrivati in Palestina, adesso che l’abbiamo vista possiamo anche tornare indietro», sarà la battuta memorabile di un componente del gruppo appena arrivati.


1921, Vita in kibbutz

Lungi dall’essere la città piena di grattacieli e di vita di oggi, all’epoca Tel Aviv è un villaggio tra le dune. Il sindaco, il leggendario Meir Dizengoff, ha fondato il primo insediamento in mezzo al deserto grazie a una lotteria in cui sessantasei famiglie, compresa la sua, si sono divise gli appezzamenti di sabbia a nord di Jaffa nel 1901. Vaga per il centro della città in sella a un cavallo bianco, mentre si costruisce a cielo aperto. Tel Aviv non è, però, la scelta di una socialista, non è per questo che Golda è arrivata in Palestina, ma per assaporare la vita collettiva del kibbutz dove non ci sono proprietà private, tutti sono uguali e mangiano alla stessa mensa. Un vecchio amico le ha indicato un posto che potrebbe fare al caso suo: Merhavia, nel nord, vicino a Nazareth. Più che un kibbutz vero e proprio è un insediamento di confine in mezzo a una palude infestata dalla malaria, sotto il fuoco costante dei cecchini arabi. Una delle prime raccomandazioni quando lei e Morris arrivano è quella di non indossare abiti bianchi di notte perché si diventa facili bersagli. La vita è tutt’altro che un lusso, ma a lei sembra di stare in paradiso. Quel poco da mettere sotto i denti ha un sapore atroce, Golda decide di intervenire per migliorare il menù e qui avviene il primo scontro con le istanze femministe, un leitmotiv che si ripeterà per tutta la sua vita come descrive Pnina Lavah nel suo The only woman in the room. Le altre donne si sentono sminuite a cucinare, non sono venute in Palestina per essere sottomesse agli uomini, ma per diventare loro pari. Golda non bada alle recriminazioni, se il cibo è pessimo si sta male tutti, elimina le aringhe in scatola definite paradossalmente fresche sull’etichetta, l’olio non raffinato che causa problemi intestinali e a colazione impone farina d’avena, energetica e digeribile per chi deve affrontare il duro lavoro dei campi. Il venerdì sera propone che la tavola sia apparecchiata con un vaso di fiori. Una borghese, per i duri e puri del kibbutz, ma con i suoi suggerimenti la salute migliora e Golda viene eletta rappresentante della piccola comunità. È felice, vorrebbe vivere per sempre lì, ma non lo è Morris. Malaria, clima, cibo, lavoro nei campi sono troppo per lui e se Golda vuole avere un bambino, non potrà mai accettare che cresca insieme agli altri bambini in una sorta di comune. Dopo due anni e mezzo, Golda è costretta a lasciare il kibbutz per salvare il matrimonio, una scelta che rimpiangerà tutta la vita.