venerdì 8 marzo 2024

LA CRISI DELLA NARRAZIONE Byung-chul Han



LA CRISI DELLA NARRAZIONE

 Byung-chul Han

Informazione, politica e vita quotidiana

[...]Da un lato l’informatizzazione della società accelera la sua de-narrativizzazione. Dall’altro, all’interno dello tsunami dell’informazione, cresce il bisogno di senso, identità e orientamento, cioè il bisogno di illuminare la selva oscura dell’informazione nella quale rischiamo di perderci[...]

Prefazione

Oggi tutti parlano di narrazioni. Eppure, paradossalmente, proprio il fatto che in ogni ambito vengano usate delle narrazioni è il segnale di una crisi dell’esperienza narrativa. Al cuore di questo storytelling rumoroso domina un vuoto narrativo che si manifesta come mancanza di senso e perdita dell’orientamento. Né lo storytelling, né tanto meno la svolta narrativa, sono in grado di innescare un ritorno del racconto. Il fatto che un certo paradigma diventi un tema esplicito e sia, inoltre, diventato di moda farne un oggetto di ricerca, è possibile solo in virtú di una profonda alienazione rispetto a esso. Questo richiamo insistente alle narrazioni allude proprio a una loro disfunzionalità.


Fino a quando i racconti sono stati il nostro punto di ancoraggio all’essere, ci hanno assegnato un luogo e grazie a essi il nostro essere-nel-mondo è stato un essere-a-casa, fino a quando hanno dato un senso, un sostegno e un orientamento alla vita, il che significa finché il vivere stesso era un narrare, non si parlava affatto né di storytelling né di narrazioni.

L’uso di tali concetti si è inflazionato proprio quando le narrazioni hanno perso la loro forza originaria, gravitazionale, il loro segreto e la loro magia.

Nel momento in cui le narrazioni vengono viste come un qualcosa che può essere costruito seguendo delle regole di composizione, viene meno il loro momento di verità interno. Le narrazioni sono percepite come contingenti, sostituibili a piacimento e modificabili. Ciò che ci vincola fiduciosamente e ciò che ci lega non proviene piú da esse. Non ci ancorano piú all’essere. Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa. Parlare di «coscienza narrativa» e, ancora, dire che essa potrebbe essere scaturita da un’ipotetica costituzione narrativa del cervello umano, è possibile solo in un’epoca post-narrativa, cioè al di fuori dell’incantesimo narrativo.

La religione è un caso esemplare di narrazione con un momento di verità interno. Narrando, essa spazza via la contingenza. La religione cristiana è una metanarrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all’essere. Il tempo stesso viene caricato di aspetti narrativi.

Il calendario cristiano fa apparire ogni giorno come significativo. Nell’epoca post-narrativa il calendario è de-narrativizzato e diventa un’agenda svuotata di senso. Le festività religiose sono momenti culminanti e rilevanti all’interno di un racconto. Senza racconto non si dà alcuna festività, nessun tempo di festa, nessun sentimento di celebrazione, cioè nessuna intensificazione emotiva dell’essere. Di contro si dànno solo il tempo del lavoro e il tempo libero, il tempo della produzione e quello del consumo.

In un’epoca post-narrativa le feste diventano merci, assumendo la forma di eventi e spettacoli. Anche i rituali sono pratiche narrative. Essi sono sempre incorporati all’interno di un contesto narrativo. Nel loro essere tecniche simboliche per abitare il mondo, i riti trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa.

Una narrazione capace di trasformare e di aprire un mondo non può nascere dal capriccio di una singola persona. Essa, piuttosto, emerge e prende forma grazie a un processo complesso, al quale prendono parte diverse forze e attori. Essa è, in definitiva, espressione di una tonalità emotiva del tempo. Racconti di questo tipo, che hanno un loro momento di verità interno, sono il contrario delle narrazioni deboli, interscambiabili, diventate a loro volta completamente contingenti, cioè delle micronarrazioni che caratterizzano il presente. A queste ultime manca completamente ogni forza di gravità, ogni momento di verità.

Un racconto, come un sillogismo, è una forma che giunge a una conclusione [Schlussform]1 che dà forma a un ordine chiuso e offre senso e identità. Nell’epoca tardo-moderna, caratterizzata dall’apertura e dalla dissoluzione dei confini, le forme del concludere e del precludere subiscono un processo di degradazione. Allo stesso tempo, al cospetto dell’incremento sempre maggiore di permissività si rafforza il bisogno di forme narrative di chiusura. I modelli narrativi populisti, nazionalisti, di estrema destra o tribali, inclusi i modelli narrativi complottistici, rispondono proprio a questo bisogno. Essi fanno presa proprio perché si presentano come offerte a buon mercato di senso e identità. Tuttavia, in quest’epoca post-narrativa segnata da una crescente esperienza della contingenza, i modelli narrativi non sviluppano alcun potere di coesione.

I racconti rendono possibile l’emergere di una comunità. Lo storytelling, di contro, dà forma solo a una community, che è la versione mercificata della comunità. La community è composta da consumatori. Nessuno storytelling sarebbe in grado di accendere nuovamente quel fuoco attorno al quale gli esseri umani si raccolgono per raccontarsi l’un l’altro delle storie. Il fuoco si è spento da tempo. Esso è stato sostituito dagli schermi digitali, che isolano gli esseri umani facendone dei consumatori. I consumatori sono solitari. Non dànno forma ad alcuna comunità. Le stesse Storie condivise sulle piattaforme social non sono in grado di rimuovere il vuoto narrativo. Esse non sono nient’altro che una pornografica esibizione o promozione di sé stessi. Postare, mettere like e condividere, proprio perché sono pratiche consumistiche, non fanno altro che intensificare la crisi dell’esperienza narrativa.

Grazie allo storytelling il capitalismo si appropria della prassi narrativa e la sottomette alle regole del consumo. Lo storytelling produce racconti che hanno la forma di oggetti di consumo. Con il supporto dello storytelling i prodotti si caricano emotivamente, cosí da promettere esperienze uniche.

E cosí ci troviamo a comprare, vendere, consumare racconti ed emozioni. Le storie vendono. Raccontare storie coincide con il vendere storie [Storytelling ist Storyselling]2.

Racconto e informazione sono forze contrapposte. L’informazione intensifica l’esperienza della contingenza, mentre il racconto la attenua, nella misura in cui rende ciò che è accidentale una necessità. All’informazione manca la stabilità dell’essere. A tal proposito Niklas Luhmann nota con lucidità: «La loro cosmologia [delle informazioni] non è una cosmologia dell’essere, ma della contingenza»3. Essere e informazione si escludono a vicenda. È connaturata alla società dell’informazione una mancanza di essere, un oblio dell’essere. L’informazione procede per addizione e accumulo. Essa non è portatrice di senso, mentre nel racconto il senso transita. «Senso» significa, originariamente, «direzione».

Oggi, dunque, siamo meglio informati ma completamente privi di orientamento. L’informazione, inoltre, frammenta il tempo rendendolo una mera sequenza di momenti presenti. Il racconto, invece, fa emergere un continuum temporale, che significa: una storia.

Da un lato l’informatizzazione della società accelera la sua de-narrativizzazione. Dall’altro, all’interno dello tsunami dell’informazione, cresce il bisogno di senso, identità e orientamento, cioè il bisogno di illuminare la selva oscura dell’informazione nella quale rischiamo di perderci. L’attuale profluvio di modelli narrativi effimeri, incluse le teorie complottistiche, e lo tsunami dell’informazione sono, in ultima analisi, due facce della stessa medaglia. All’interno del mare di informazioni e di dati andiamo alla ricerca di un ancoraggio narrativo.

Al giorno d’oggi, nella vita quotidiana, ci raccontiamo l’un l’altro sempre meno storie. La comunicazione nella forma dello scambio di informazioni porta la pratica di raccontare storie a una battuta di arresto. Sulle piattaforme social, inoltre, non vengono quasi per nulla raccontate delle storie. Le storie congiungono le persone le une alle altre, favorendo la capacità di empatizzare. Da esse emerge una comunità. La perdita di empatia che caratterizza l’èra degli smartphone è un chiaro segno che lo smartphone non è un medium narrativo. Ed è proprio il suo dispositivo tecnico a ostacolare la pratica di raccontare storie. Cliccare o scorrere non sono gesti narrativi. Lo smartphone permette solo uno scambio sempre piú veloce di informazioni. Raccontare presuppone, di contro, un restare in ascolto e un’attenzione profonda. La comunità narrativa è una comunità i cui partecipanti restano in ascolto. Noi, però, perdiamo a vista d’occhio la pazienza necessaria per restare in ascolto, cioè la pazienza necessaria per raccontare.


Nell’attuale tempesta della contingenza, proprio nel momento in cui ogni cosa diventa arbitraria, effimera e accidentale e ciò che genera vincolo, legame e fiducia si dissolve, lo storytelling alza la voce. L’inflazione dei modelli narrativi tradisce il bisogno di fronteggiare la contingenza. Ma lo storytelling non è capace di trasformare la società dell’informazione, priva di orientamento e vuota di senso, e di riportarla a essere una comunità narrativa. Lo storytelling si presenta, piuttosto, come un sintomo della patologia che caratterizza il presente. La crisi dell’esperienza narrativa ha una lunga preistoria. Intento di questo saggio è seguirne le tracce.

1.


Dal racconto all’informazione

Hippolyte de Villemessant, fondatore del quotidiano francese «Le Figaro», ha espresso l’essenza dell’informazione con la formula: «Per i miei lettori […] è piú importante l’incendio di un solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid»1. Per Walter Benjamin questa osservazione rende palese che «ciò che trova ora piú facilmente ascolto non è piú la notizia che viene da lontano, ma l’informazione che offre un aggancio immediato»2. L’attenzione del lettore di quotidiani non va mai al di là di ciò che è strettamente immediato. Essa si contrae diventando mera curiosità. Il lettore moderno di quotidiani salta da una novità a un’altra, anziché lasciar spaziare lo sguardo verso ciò che è lontano e indugiare in esso. Egli ha perso lo sguardo lungo, lento, che sa indugiare.


Una notizia, che si trova inserita sempre all’interno di una storia, presenta una struttura spaziotemporale completamente differente rispetto a un’informazione. Essa viene «da lontano». La lontananza è il suo tratto distintivo. Il progressivo abbattimento della lontananza è un tratto caratteristico della modernità. Essa svanisce e viene sostituita con la perdita di qualunque intervallo di separazione. L’informazione è uno dei modi peculiari in cui si palesa questa assenza di un intervallo di separazione, che rende tutto a portata di mano. La notizia [Kunde], nel suo essere un venire a conoscenza di qualcosa, è caratterizzata, di contro, da una lontananza che non la rende completamente disponibile. Essa annuncia un evento storico che si sottrae all’accessibilità immediata e alla prevedibilità. Noi ci troviamo come consegnati a essa, come se fosse una forza del destino.


L’informazione non sopravvive oltre l’attimo stesso in cui viene annunciata: «L’informazione si consuma nell’istante della sua novità. Vive solo in quest’attimo, a quest’attimo deve interamente consegnarsi e spiegarsi senza perder tempo»3. È propria della notizia, di contro, un’estensione temporale che oltrepassa l’attimo presente e che la rimanda anche a ciò che è da venire. La notizia è portatrice di una storia. Al suo interno abita una vibrazione narrativa.


L’informazione è il medium del reporter che gira il mondo in lungo e in largo alla ricerca di novità. Il narratore è il suo antagonista. Il narratore non informa, né fornisce spiegazioni. L’arte di narrare comporta proprio la capacità di nascondere le informazioni: «È, infatti, già la metà dell’arte di narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni»4. L’informazione nascosta, cioè la spiegazione mancante, aumenta la tensione narrativa.


L’assenza di un intervallo di separazione distrugge tanto la vicinanza che la lontananza. La vicinanza non è identica all’assenza di un intervallo di separazione, poiché la lontananza ne è una parte costitutiva. Vicinanza e lontananza si presuppongono e si animano vicendevolmente. È proprio questa interazione tra vicinanza e lontananza a far emergere l’aura: «La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza, per quanto possa essere vicino ciò che essa suscita»5. L’aura è narrativa proprio perché intrisa di lontananza. L’informazione, di contro, toglie al mondo ogni aura e ogni incanto nel momento stesso in cui abolisce la lontananza. L’informazione fissa il mondo e cosí facendo lo rende a portata di mano. Anche la «traccia», che rimanda a un che di lontano, è ricca di allusioni e induce al racconto.


Bisogna ricondurre la crisi dell’esperienza narrativa che caratterizza la modernità al fatto che il mondo è sommerso da informazioni. Lo spirito della narrazione è soffocato da una marea di informazioni. Benjamin constata: «Se l’arte di narrare si è fatta sempre piú rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva»6. Le informazioni rimuovono quegli avvenimenti che non possono essere spiegati, ma solo raccontati. Molto spesso i racconti sono avvolti da un alone inconsueto ed enigmatico. Non hanno punti di contatto con le informazioni, le quali non hanno proprio nulla di misterioso. Spiegare e narrare si escludono a vicenda: «Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge piú alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni. In altri termini: quasi piú nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione»7.


Per Benjamin, Erodoto è il venerando maestro del racconto. Per esemplificare la sua arte di narrare si serve della storia di Psammetico. Quando il re d’Egitto Psammetico viene catturato dopo esser stato sconfitto dal re di Persia Cambise, questi lo umilia costringendolo ad assistere alla processione trionfale dei persiani. Cambise fa in modo che Psammetico possa vedere sua figlia, fatta prigioniera, trattata come una serva. Mentre tutti gli egizi, che assistono lungo il ciglio della strada, levano alte grida di lamento, Psammetico resta muto e immobile, con gli occhi fissi a terra. Quando, poco dopo, vede suo figlio che viene condotto al patibolo, egli resta ancora immobile. Ma non appena riconosce tra i prigionieri uno dei suoi servitori, vecchio e gracile, egli si percuote il capo con i pugni dando sfogo al suo profondo dolore. Benjamin crede di poter riconoscere, all’interno di questa storia di Erodoto, in che cosa consiste il vero racconto. Ritiene che qualsiasi tentativo di spiegare perché il re egizio avesse iniziato a disperarsi solo alla vista del servo distruggerebbe la tensione narrativa. Proprio l’omissione di tale spiegazione è essenziale per il vero racconto. Il racconto si astiene dal fornirla: «Erodoto non spiega nulla. La sua narrazione è asciutta all’estremo. Ecco perché a distanza di millenni questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado di scatenare meraviglia e riflessioni. Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia d’anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione sino al giorno d’oggi»8.


Secondo Benjamin il racconto «non si esaurisce. Esso conserva la propria forza raccolta e sa dispiegarsi anche dopo lungo tempo»9. Le informazioni hanno una temporalità differente. In virtú del loro ristretto margine di attualità, si esauriscono molto velocemente. Le informazioni producono solo effetti istantanei. Non sono semi di mais, la cui forza germinativa permane nel tempo, ma sono come granelli di polvere. La forza del germoglio gli manca completamente. Una volta che si è preso atto di esse, le informazioni sprofondano nell’insignificanza, come messaggi accumulati nella segreteria telefonica.


Secondo Benjamin il primo sintomo del processo di decadenza della prassi narrativa è la nascita del romanzo all’inizio dell’epoca moderna. La prassi narrativa si nutre di esperienza e la passa in consegna da una generazione all’altra: «Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita –; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia»10. Con il suo ricco bagaglio di esperienza e di saggezza, la storia sa dare consiglio ai viventi. Il romanzo, di contro, attesta «il profondo disorientamento del vivente»11. Mentre la prassi narrativa dà forma a una comunità, il romanzo è la sala parto dell’individuo con la sua solitudine e il suo isolamento. In contrapposizione al romanzo, che mette all’opera la psicologia e l’interpretazione, la prassi narrativa procede in modo descrittivo: «Lo straordinario, il meraviglioso, è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore»12. Tuttavia non è l’avvento del romanzo, ma l’avvento dell’informazione all’interno del capitalismo a sferrarle il colpo mortale: «D’altra parte possiamo vedere che col dominio sviluppato della borghesia, fra i principali strumenti del quale, nel capitalismo avanzato, è la stampa, appare una forma di comunicazione che, per quanto remota possa essere la sua origine, non aveva mai esercitato un influsso decisivo sulla forma epica: ciò che comincia a fare ora. E che essa si oppone alla narrazione in forma non meno estranea, ma assai piú pericolosa del romanzo […]. Questa nuova forma di comunicazione è l’informazione»13.


Raccontare richiede uno stato di distensione. Benjamin eleva la noia a punto piú alto di distensione spirituale. La noia è l’«uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza»14, «un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai piú smaglianti colori. In questo panno ci avvolgiamo quando sogniamo»15. Il ronzio dell’informazione, il «minimo rumore nelle frasche»16 lo mette in fuga. Nelle frasche «non si tesse e non si fila piú»17. Ci sono solo informazioni che, come stimoli, vengono prodotte e consumate.


Narrare e restare in ascolto si co-appartengono. La comunità narrativa è una comunità che resta in ascolto. Nel restare in ascolto abita una peculiare forma di attenzione. Colui che resta in ascolto dimentica sé stesso, sprofonda in ciò che ascolta: «Quanto piú dimentico di sé l’ascoltatore, tanto piú a fondo s’imprime in lui ciò che ascolta»18. Il dono del restare in ascolto ci sta sempre piú abbandonando. Noi produciamo noi stessi, ci spiamo a vicenda anziché, dimenticando noi stessi, donarci ascolto e restare in ascolto l’uno dell’altro.


Nel fruscio digitale di Internet non c’è piú alcun nido per l’uccello incantato. I cacciatori di informazioni lo hanno scacciato via. Nell’odierna iperattività, nella quale vige la regola di non lasciare alcuno spazio perché la noia possa emergerne, non perveniamo mai alla condizione di una profonda distensione spirituale. Con la società dell’informazione inizia un’epoca di crescente tensione spirituale, poiché il fascino della sorpresa19 è l’essenza dell’informazione. Lo tsunami dell’informazione genera una condizione in cui i nostri organi percettivi risultano costantemente stimolati. Essi non sono piú in grado di passare a una modalità di percezione contemplativa. Lo tsunami dell’informazione frammenta l’attenzione. Impedisce l’indugiare contemplativo che è costitutivo tanto del raccontare che del restare all’ascolto.


La digitalizzazione mette in moto un processo che Benjamin, condizionato dal suo tempo, non avrebbe potuto assolutamente prevedere. Egli mette in connessione l’informazione con la stampa. Essa sarebbe una forma di comunicazione accanto alla prassi narrativa e al romanzo. Nel processo di digitalizzazione l’informazione perviene a uno stadio completamente differente. La realtà stessa prende la forma dell’informazione e dei dati. Essa viene informatizzata e datizzata [datafiziert]. Noi ormai percepiamo la realtà, in primo luogo, in risposta alle, oppure attraverso le, informazioni. L’informazione è una rappresentazione, cioè una ri-presentazione. L’informatizzazione della realtà ha come conseguenza che l’immediata esperienza del presente viene distorta. Attraverso la digitalizzazione in quanto informatizzazione la realtà viene appiattita.


Cento anni dopo Benjamin l’informazione è progredita in una nuova forma di esistenza, cioè in una nuova forma di dominio. Intrecciandosi con il neoliberismo si afferma un regime dell’informazione, il quale non opera in modo repressivo ma seduttivo. Esso assume una forma smart. Non opera piú attraverso obblighi e divieti. Non ci impone alcun silenzio. Tale dominio smart, piuttosto, pretende da noi che comunichiamo senza sosta le nostre opinioni, i nostri bisogni e le nostre preferenze. Ci chiede di raccontare le nostre vite, di postare, condividere, mettere like. La libertà in questo caso non viene repressa ma interamente sfruttata. Essa si ribalta in controllo e manipolazione. Il dominio smart è altamente efficiente, dato che non ha bisogno di apparire come tale. Esso si nasconde nell’apparenza della libertà e della comunicazione. Mentre postiamo, condividiamo e mettiamo like, ci sottomettiamo alla cornice di questa forma di dominio.

Ci troviamo, oggi, storditi dalla frenesia dell’informazione e della comunicazione. E perciò non siamo piú padroni della comunicazione. Siamo, al contrario, esposti a uno scambio accelerato di informazioni che sfugge al nostro controllo cosciente. La comunicazione viene sempre piú pilotata dall’esterno e sembra obbedire a un processo automatico, meccanico, controllato da algoritmi, un processo del quale noi non siamo coscienti. Siamo in balia della scatola nera algoritmica. Gli esseri umani vengono ridotti a un insieme di dati che possono essere controllati e sfruttati.

All’interno del regime dell’informazione valgono ancora le parole di Georg Büchner: «Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute; non siamo niente, per noi stessi, niente!»20. La forza che muove i fili è diventata cosí sottile e impercettibile che noi non ne siamo piú coscienti. Addirittura la confondiamo con la libertà. Il film di animazione Anomalisa di Charles Kaufman illustra la logica del potere smart. La pellicola presenta un mondo nel quale tutti gli esseri umani hanno lo stesso aspetto e parlano con la stessa voce. Un mondo che rappresenta l’inferno neoliberista dell’Uguale, in cui paradossalmente la creatività e l’autenticità vengono sollecitate. Michael Stone, il protagonista, è un motivatore di successo che, un giorno, prende coscienza di essere una marionetta. La bocca gli cade dal viso e lui si trova a tenerla tra le mani. Quando la bocca, che si è staccata ed è caduta, continua a blaterare da sé, è terrorizzato.