martedì 16 febbraio 2016




IL MONACO NERO

Di Cechov possiamo dire che, in genere, ci racconta storie  statiche ( La steppa o Il duello). Da  questo punto di vista il racconto del 1894" Il monaco nero " fa eccezione, perché in un arco di poco più di venti pagine assistiamo al matrimonio, alla follia e alla morte del protagonista. Per il  protagonista, Andrej Vasil'evič Kovrin, il monaco nero, non è che il suo alter ego, un'allucinazione, un ectoplasma creato da lui stesso. Ne deriva che il protagonista è malato. Una malattia che produce un interlocutore di cui Kovrin ha bisogno: il monaco lo fa sentir un privilegiato, uno  investito dalla Provvidenza di una missione superiore, che sacrifica  tutto se stesso per il prossimo, lavorando per il bene comune. È così che scatta la molla mentale del: « Tu sei un fantasma, un'allucinazione [...] Dunque io sono psi- chicamente malato, un'anormale? » Ma la replica chiarisce: « E foss'anche così? Perché turbarsi? Tu sei malato perché hai lavorato troppo e ti sei strapazzato, ma questo vuoi dire che della tua salute hai fatto sacrificio all'idea ed è vicino il tempo che le darai la tua vita stessa ». Poco oltre il monaco dirà ancora ad Andrej: « Anche se è un'allucinazione, l'allucinazione fa parte della natura ». Mentre Raskol'nikov commette un delitto per cercare di provare a se stesso che è un uomo eccezionale, Kovrin è già convinto di esserlo nel momento in cui si vede il monaco di fronte. Ma Cechov non è  Dostoevskij. Checov è l'uomo dei difficili e delicati equilibri intellettuali, in un'epoca, indubbiamente critica per la cultura europea quale poteva essere la fine del secolo. Kovrìn vive  la banalità umiliante della realtà rispetto alla perfezione di un ideale immaginato, che possa riempire totalmente la propria esistenza interiore. Kovrin, giudicando un fallimento se stesso e la totalità della propria vita, sceglie lo scollamento totale dal mondo circostante per rifugiarsi nel mito come modo per affermare la propria  nobiltà intellettuale. È questa la dinamica psicologica del protagonista che  Checov ci presenta con una impietosa, 'obiettiva' descrizione dei risultati a cui, inevitabilmente, essa approda.

“«Ma quale è il fine della vita eterna?» domandò Kòvrin.
«Come di ogni vita: il godimento. Il godimento vero è nella conoscenza, e la vita eterna fornisce fonti innumerevoli ed inesauribili per la conoscenza; in questo senso è detto: ‹nella casa di Mio Padre sono molte dimore.›»
«Se tu sapessi com'è piacevole ascoltarti,» disse Kòvrin, fregandosi le mani per il piacere.
«Me ne rallegro.»
«Ma so che quando te ne andrai mi tormenterà il problema della tua essenza. Tu sei un fantasma, un'allucinazione. Vuol dire ch'io sono malato psichicamente, che sono anormale?»
«E se fosse così? Per che cosa ti sgomenti? Tu sei malato perché hai lavorato oltre le tue forze e ti sei esaurito, e ciò vuol dire che tu hai sacrificato la tua salute all'idea, ed è prossimo il tempo in cui le sacrificherai anche la vita. Che c'è di meglio? È ciò a cui tendono tutte le nature nobili che il cielo ha altamente dotate.»
«I Romani dicevano: mens sana in corpore sano.»
«Nson è tutta verità quel che hanno detto i Romani o i Greci. La tensione dei nervi, l'esaltazione, l'estasi, tutto ciò che distingue i profeti, i poeti, i martiri per un'idea dalla gente comune, è in contrasto col lato animale dell'uomo, cioè la salute fisica. Lo ripeto: se vuoi essere sano e normale va' nel gregge.»
«Strano, tu ripeti quello che spesso viene in mente anche a me,» disse Kòvrin. «come se tu avessi visti e ascoltati i miei pensieri più intimi. Ma non parliamo di me. Che cosa intendi tu per verità eterna?»
Il monaco non rispose. Kòvrin posò lo sguardo su di lui e non ne distinse più chiaramente il viso: i suoi lineamenti si annebbiavano e svanivano. Cominciarono a scomparire la testa, le mani; il suo tronco si fuse con la panca e con le ombre crepuscolari, alla fine scomparve del tutto.
«L'allucinazione è finita!» disse Kòvrin a se stesso e rise. «Peccato!»”
Anton Pavlovic Cechov. “Racconti.”