Marcel Proust
[...]Molto spesso, per riuscire a scoprire che siamo innamorati, forse anche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno della separazione.[...]
CAPITOLO PRIMO.
La pena e l'oblio.
«La signorina Albertine se ne è andata!». Come, nella psicologia, la sofferenza va oltre la psicologia stessa! Un attimo prima, mentre stavo analizzandomi, avevo creduto che quella separazione, senza essersi rivisti, fosse appunto ciò che desideravo, e, paragonando la mediocrità dei piaceri che Albertine mi dava con la ricchezza dei desideri che mi impediva di realizzare, mi ero ritenuto perspicace, avevo concluso che non volevo più vederla, che non l'amavo più. Ma quelle parole: «La signorina Albertine se ne è andata» avevano provocato nel mio cuore una sofferenza tale che sentivo di non poter resistere più a lungo. Così, quel che avevo creduto non fosse nulla per me, era semplicemente tutta la mia vita. Come ci conosciamo male! Bisognava far cessare immediatamente la mia sofferenza; tenero verso me stesso come lo era stata mia madre verso la nonna morente, mi dicevo, con la stessa buona volontà che si dimostra nel non lasciar soffrire chi si ama: «Abbi un attimo di pazienza, ti troveremo un rimedio, stai tranquillo, non ti lasceremo soffrire così». Per porli sulla mia ferita aperta, il mio istinto di conservazione cercò in un ordine di idee di tal genere i primi calmanti: «tutto questo non ha alcuna importanza perché la farò tornare subito.
Rifletterò sui mezzi, ma in ogni modo lei sarà qui stasera. Perciò, inutile tormentarmi». «Tutto questo non ha alcuna importanza», non mi ero accontentato di dirmelo, avevo cercato di darne l'impressione a Françoise, non lasciando trasparire davanti a lei la mia sofferenza, perché, perfino nel momento in cui la sentivo con una tale violenza, il mio amore non dimenticava quanto gli importasse di sembrare un amore felice, un amore corrisposto, soprattutto agli occhi di Françoise che, non amando Albertine, aveva sempre dubitato della sua sincerità. Sì, poc'anzi, prima dell'arrivo di Françoise, avevo creduto di non amare più Albertine, avevo creduto di non aver tralasciato nulla; da esatto analista, avevo creduto di conoscere bene il fondo del mio cuore. Ma, per quanto grande sia, la nostra intelligenza non può individuare gli elementi che lo compongono e di cui non sospetta l'esistenza, finché, dallo stato volatile in cui sussistono, per lo più, un fenomeno capace di isolarli non abbia fatto loro subire un principio di solidificazione. Mi ero ingannato credendo di veder chiaro nel mio cuore. Ma questa conoscenza che non mi avevano data le più sottili percezioni della mente, mi era appena stata fornita, dura, abbagliante, strana, come un sale cristallizzato, dalla brusca reazione del dolore. Ero talmente abituato ad avere Albertine accanto a me, e improvvisamente vedevo un nuovo volto dell'Abitudine. Finora l'avevo considerata soprattutto come una forza annientatrice che sopprime l'originalità e perfino la coscienza delle percezioni; ora la vedevo come una divinità temibile, così inchiodata su di noi, col volto insignificante così incrostato nel nostro cuore che se si distacca, se si separa da noi, quella divinità di cui quasi non ci accorgevamo, ci infligge sofferenze più terribili di qualunque altra e allora è crudele quanto la morte.
La prima cosa da farsi era leggere la lettera di Albertine perché volevo riflettere sui mezzi che avevo per farla tornare. Sentivo di possederli, perché, siccome l'avvenire è ciò che esiste soltanto nel nostro pensiero, ci sembra che possa essere ancora modificato dall'intervento in extremis della nostra volontà.
Ma al tempo stesso mi ricordavo di aver visto agire su di esso forze diverse dalla mia e contro le quali, quand'anche mi fosse stato concesso più tempo, nulla avrei potuto. A che serve che l'ora non sia ancora suonata se nulla possiamo su quanto sta per accadere? Quando Albertine era in casa mia ero ben deciso a riservarmi l'iniziativa della nostra separazione. E poi lei era andata via. Aprii la lettera di Albertine. Era così concepita:
"Amico mio, perdonatemi di non avere osato dirvi a viva voce le poche parole che seguono, ma sono così vile, ho sempre avuto tanta paura davanti a voi che, anche sforzandomi, non ho avuto il coraggio di farlo. Questo avrei dovuto dirvi: «Fra noi, la vita è diventata impossibile, avete visto del resto con la vostra sgridata dell'altra sera che qualcosa era cambiato nei nostri rapporti. Quel che ha potuto aggiustarsi quella notte sarebbe diventato irreparabile fra qualche giorno. E' dunque meglio, poiché abbiamo avuto la fortuna di riconciliarci, lasciarci da buoni amici»; perciò, mio caro, vi mando queste righe, e vi prego di essere tanto buono da perdonarmi se vi procuro un po' di dolore, pensando a quello immenso che ne avrò io. Mio caro ragazzo, non voglio diventare vostra nemica, sarà già abbastanza duro per me diventarvi a poco a poco, e ben presto, indifferente; quindi, siccome la mia decisione è irrevocabile, prima di farvi consegnare questa lettera da Françoise, le avrò chiesto i miei bauli. Addio, vi lascio il meglio di me. Albertine".
Tutto questo, mi dissi, non significa nulla, è anche meglio di quanto pensassi, giacché, siccome non pensa nulla di tutto ciò, lo ha scritto evidentemente solo per compiere un gesto che impressionasse affinché io mi spaventi e non sia più insopportabile con lei. Bisogna provvedere alla cosa più urgente, che Albertine stasera sia tornata a casa. E' triste pensare che i Bontemps siano gente corrotta che si serve della nipote per estorcermi del denaro. Ma che importa?
Perché Albertine sia qui, dovessi pure dare la metà della mia fortuna alla signora Bontemps, resterà abbastanza ad Albertine e a me per vivere piacevolmente. E, al tempo stesso, calcolavo se avrei avuto il tempo di andare quella mattina a ordinare lo yacht e la Rolls Royce che desiderava, non pensando nemmeno più, scomparsa ogni esitazione, di aver potuto giudicare poco sensato regalarglieli. Anche se la collaborazione della signora Bontemps non basta, se Albertine non vuole obbedire alla zia e pone come condizione del suo ritorno di avere ormai una sua piena indipendenza, ebbene! per quanto questo mi addolori, gliela lascerò; uscirà da sola, come vorrà; bisogna essere disposti a fare dei sacrifici, per quanto dolorosi possano essere, per la cosa cui si tiene di più: e questa, a dispetto di ciò che credevo stamattina secondo i miei esatti e assurdi ragionamenti, è che Albertine viva qui. Potrei dire del resto che lasciarle questa libertà sarebbe stato per me davvero doloroso? Mentirei. Già molte volte avevo avvertito che la sofferenza di lasciarla libera di fare il male lontano da me era forse meno grande di quella particolare tristezza che mi capitava di provare nel sentirla annoiarsi con me, presso di me. Probabilmente, nel momento stesso in cui mi avesse chiesto di andar via, da qualche parte, lasciarla andare, col pensiero che ci potessero essere delle orge organizzate, per me sarebbe stato atroce. Ma dirle: «Prendete la nostra imbarcazione, o il treno, partite per un mese per un paese che non conosco, dove non saprò nulla di quel che farete», era un'idea che mi era spesso piaciuta perché immaginavo che, una volta lontana, nel confronto, mi avrebbe preferito, e sarebbe ritornata felice. Del resto, lei stessa desidera tornare; non esige affatto quella libertà che, peraltro, offrendole ogni giorno nuovi piaceri, riuscirei facilmente a limitare, giorno dopo giorno, in qualche modo. No, questo Albertine ha voluto, che non fossi più insopportabile con lei, e soprattutto - come un tempo Odette con Swann - che mi decidessi a sposarla. Una volta sposata, alla sua indipendenza non terrà più; resteremo tutti e due qui, così felici! Certo, questo significava rinunciare a Venezia. Ma quanto le città più desiderate come Venezia - a maggior ragione le padrone di casa come la duchessa di Guermantes, le distrazioni come il teatro - diventano pallide, indifferenti, morte, quando siamo legati a un altro cuore da un legame tanto doloroso da impedirci di allontanarci! Albertine ha del resto perfettamente ragione in questa faccenda di matrimonio. La mamma stessa giudicava ridicoli tutti questi ritardi. Sposarla, è quanto avrei dovuto fare da tempo, è quanto bisognerà che faccia, è stato questo a farle scrivere la lettera di cui non pensa una parola; per arrivare a questo ha rinunciato per qualche ora a ciò che lei deve desiderare quanto io desidero che faccia: tornare qui. Sì, ha voluto questo, questo è il fine del suo comportamento, mi diceva la ragione, compatendomi; ma sentivo che, nel dirmelo, la mia ragione si muoveva sempre nella stessa ipotesi che aveva adottata fin dal principio. Ora, io capivo bene che, ogni volta, si era verificata puntualmente l'altra ipotesi. Certo, questa seconda ipotesi non sarebbe mai stata ardita abbastanza da formulare esplicitamente che Albertine avesse potuto essere legata con la signorina Vinteuil e la sua amica. E tuttavia, quando ero stato sopraffatto da quella terribile notizia, nel momento in cui stavamo entrando nella stazione di Incarville, era stata proprio la seconda ipotesi a risultare esatta. Questa non aveva poi mai prospettato che Albertine potesse lasciarmi di sua iniziativa, in questo modo, senza avvertirmi e darmi il tempo di impedirglielo. Nondimeno, dopo il nuovo immenso salto che la vita mi aveva appena fatto compiere, la realtà che mi si imponeva mi era tanto nuova quanto quelle che ci mettono innanzi la scoperta di un fisico, le inchieste di un giudice istruttore o i ritrovamenti di uno storico sui retroscena di un crimine o di una rivoluzione, quella realtà andava oltre le fragili previsioni della mia seconda ipotesi, e tuttavia le compiva. Questa seconda ipotesi non era quella dell'intelligenza, e il timor panico che avevo provato la sera in cui Albertine non mi aveva baciato, la notte in cui avevo sentito il rumore della finestra, quella paura non era ragionata. Ma - come si vedrà meglio in seguito e come molti episodi hanno già dimostrato - che l'intelligenza non sia lo strumento più sottile, più potente, più appropriato per cogliere il vero, non è altro che una ragione in più per ricorrere all'intelligenza e non ad un intuito dell'inconscio, ad una fede precostituita nei presentimenti. A poco a poco, caso per caso, è la vita a consentirci di osservare che quel che è più importante per il nostro cuore, o per la nostra mente, non ci viene insegnato dal ragionamento, ma da forze diverse. E allora, rendendosi conto della loro superiorità, è l'intelligenza stessa ad abdicare di fronte ad essi, e ad accettare di diventare loro collaboratrice e serva. E' la fede sperimentale. La sventura imprevista cui dovevo far fronte, mi sembrava di averla già conosciuta (come l'amicizia di Albertine con due lesbiche) per averla letta in tanti segni in cui (nonostante le affermazioni contrarie della mia ragione, basate sulle parole della stessa Albertine) avevo decifrato la stanchezza, l'orrore che aveva di vivere così da schiava: segni tracciati come con un inchiostro invisibile, dietro le pupille tristi e sottomesse di Albertine, sulle sue guance bruscamente infiammate da un inspiegabile rossore, al rumore della finestra che si era di colpo aperta!
Certo, non avevo osato interpretarli fino in fondo, quei segni, e formulare esplicitamente il pensiero di una sua improvvisa partenza. Con l'animo equilibrato dalla presenza di Albertine, avevo pensato soltanto ad una partenza concertata da me, per una data indeterminata; di conseguenza, avevo avuto solo l'illusione di pensare a una partenza, come le persone immaginano di non temere la morte quando ci pensano mentre stanno bene, e in realtà non fanno altro che introdurre un pensiero puramente negativo in una condizione di buona salute che, appunto, l'avvicinarsi della morte altererebbe. D'altronde il pensiero della partenza di Albertine, voluta da lei stessa, avrebbe potuto venirmi mille volte in mente, con la massima chiarezza e nitidezza: nondimeno, non avrei mai sospettato che cosa avrebbe significato per me, cioè realmente, quella partenza, che cosa straordinaria, atroce, sconosciuta, che male assolutamente nuovo. A quella partenza, se l'avessi prevista, avrei potuto pensare incessantemente per anni, senza che, messi gli uni accanto agli altri, tutti quei pensieri avessero il benché minimo legame, non solo di intensità, ma di somiglianza, con l'inimmaginabile inferno di cui Françoise mi aveva sollevato il velo dicendomi: «La signorina Albertine se ne è andata». Per raffigurarsi una situazione sconosciuta, l'immaginazione prende in prestito elementi conosciuti e per questo non se la raffigura. Ma la sensibilità, anche la più fisica, riceve, come la traccia del fulmine, la firma originale e a lungo indelebile dell'evento nuovo.
E osavo appena dirmi che, se avessi previsto quella partenza, sarei stato forse incapace di raffigurarmela nel suo orrore, e quand'anche Albertine me l'avesse comunicata ed io l'avessi minacciata, supplicata, sarei stato ugualmente incapace di impedirglielo! Quanto il desiderio di Venezia era lontano da me ora!
Come un tempo a Combray quello di conoscere la signora di Guermantes, quando veniva l'ora in cui tenevo ad una cosa sola: avere la mamma in camera mia. Ed erano davvero tutte le inquietudini provate fin dalla mia infanzia che, al richiamo dell'angoscia nuova, erano accorse a rinforzarla, ad amalgamarsi con essa in una massa omogenea che mi soffocava.
Certo, quel colpo fisico al cuore che infligge una tale separazione e che, per quella straordinaria capacità di registrazione che possiede il corpo, fa del dolore qualcosa di contemporaneo a tutte le epoche della nostra vita in cui abbiamo sofferto - certo, quel colpo al cuore su cui specula forse un po' -
tanto poco ci si preoccupa del dolore degli altri - la donna che desidera dare al rimpianto la massima intensità, sia che, simulando una falsa partenza voglia solo chiedere condizioni migliori, sia che, andando via per sempre - per sempre!
- desideri colpire, o per vendicarsi, o per continuare ad essere amata, o perché preoccupata di curare la qualità del ricordo che lascerà, e spezzare violentemente quella rete di stanchezze, di indifferenze, che aveva sentito crearsi - certo, quel colpo al cuore, ci eravamo ripromessi di evitarlo, ci eravamo detti che ci saremmo lasciati in buon accordo. Ma, in fin dei conti, è davvero raro che ci si lasci in buon accordo, perché se si fosse in buon accordo, non ci si lascerebbe. E poi la donna cui si mostri la massima indifferenza avverte comunque oscuramente che stancandosi di lei, in virtù di una medesima abitudine, ci si è legati a lei sempre di più, e pensa che uno degli elementi essenziali per lasciarsi in buon accordo sia di andar via avvisando l'altro. Ma ha paura, avvisando, di ostacolare il proprio progetto.
Ogni donna avverte che, quanto più grande è il suo potere su di un uomo, il solo modo di andarsene, è fuggire. Fuggitiva perché regina, è così. Certo, c'è un intervallo inimmaginabile fra quella stanchezza che lei ispirava un istante prima e, per il fatto che se n'è andata, quel furioso bisogno di riaverla. Ma tutto ciò ha le sue ragioni, oltre a quelle fornite nel corso di quest'opera e ad altre che lo saranno in seguito. Prima di tutto la partenza ha spesso luogo nel momento in cui l'indifferenza - reale o creduta tale - è al massimo grado, all'estremo, dell'oscillazione del pendolo. La donna si dice: «No, non può più continuare così», proprio perché l'uomo parla soltanto di lasciarla, o ci pensa; ed è lei, allora, a lasciare. Allora, tornando il pendolo all'altro suo estremo, l'intervallo è il più grande. In un secondo ritorna a quel punto; ancora una volta, al di là di tutte le ragioni fornite, è un fenomeno tanto naturale! Il cuore batte; e d'altronde la donna che è andata via non è più la stessa donna che era lì. La sua vita accanto a noi, fin troppo conosciuta, vede a un tratto aggiungersi ad essa, le vite cui va inevitabilmente a mescolarsi, e forse proprio per unirsi a quelle, ci ha lasciato. Di modo che quella ricchezza nuova della donna in fuga agisce retrospettivamente sulla donna che ci stava accanto, e che forse premeditava la sua partenza. Alla serie di fatti psicologici che possiamo dedurre e che fanno parte della sua vita con noi, della nostra troppo manifesta stanchezza di lei, della nostra gelosia anche (per cui gli uomini che sono stati lasciati da diverse donne lo sono stati quasi sempre nello stesso modo per via del proprio carattere e di reazioni sempre identiche, che è possibile calcolare: ognuno ha un suo modo personale di essere tradito, come ha un suo modo di prendere il raffreddore), a quella serie non troppo misteriosa per noi corrispondeva probabilmente una serie di fatti che avevamo ignorati. Da qualche tempo lei doveva intrattenere relazioni scritte, o verbali, per mezzo di intermediari, con questo o quell'uomo, con questa o con quella donna, aspettare questo o quel segnale che forse noi stessi abbiamo dato senza saperlo dicendole: «Il signor X è venuto ieri a trovarmi», se aveva convenuto con il signor X che il giorno precedente quello in cui doveva incontrarsi con il signor X, questo sarebbe venuto a trovarmi. Quante ipotesi possibili! Soltanto possibili.
Costruivo così bene la verità, ma soltanto nell'area del possibile, che un giorno, avendo aperto per sbaglio una lettera destinata ad una delle mie amanti, lettera scritta in stile cifrato e che diceva: "Aspetto sempre segno per andare dal marchese di Saint-Loup, avvertitemi domani con una telefonata", ricostituii una specie di fuga progettata; il nome del marchese di Saint-Loup stava a significare altro, perché la mia amante non conosceva Saint-Loup, ma mi aveva sentito parlare di lui e del resto la firma era una specie di soprannome, senza nessuna forma di linguaggio. Ora, la lettera non era indirizzata alla mia amante, bensì ad una persona di casa che portava un nome diverso, ma che era stato letto male. La lettera non era in linguaggio cifrato ma in cattivo francese perché l'aveva scritta un'americana, effettivamente amica di Saint-Loup, come questi me ne informò. E il modo strano in cui quell'americana formava certe lettere aveva dato l'aspetto di un soprannome a un nome perfettamente reale ma straniero. Quel giorno, dunque, mi ero sbagliato in pieno nei miei sospetti. Ma l'armatura intellettuale che in me aveva collegato quei fatti, tutti falsi, era di per sé la forma così giusta, così inflessibile della verità che quando, tre mesi dopo, la mia amante (la quale allora pensava di vivere tutta la vita con me) mi aveva lasciato, tutto si era svolto in un modo assolutamente identico a quello da me immaginato la prima volta. Arrivò una lettera, con le stesse caratteristiche che avevo erroneamente attribuite alla prima, ma questa volta racchiudeva davvero un segnale e Albertine aveva così premeditato da tempo la propria fuga. Quella sventura era la più grande di tutta la mia vita. E nonostante tutto, la sofferenza che mi provocava non era forse pari alla curiosità di conoscere le cause di quella sventura: chi Albertine avesse desiderato, ritrovato. Ma le fonti di tali grandi eventi sono come le sorgenti dei fiumi, abbiamo un bel percorrere la superficie della terra, non le troviamo. Non ho detto (perché allora mi erano sembrati soltanto ostentazione e malumore, quel che Françoise chiamava «tenere il broncio») che dal giorno in cui aveva smesso di baciarmi, aveva avuto un'aria da funerale, tutta rigida, impenetrabile, con una voce triste anche nelle cose più semplici, lenta nei movimenti, senza più sorriso. Non posso dire che qualcosa provasse una sua connivenza con l'esterno. Françoise mi raccontò pure in seguito che, essendo entrata due giorni prima della partenza nella stanza di lei, non vi aveva trovato nessuno e le tende chiuse, ma aveva sentito dall'odore dell'aria e dal rumore che la finestra era aperta. E, infatti, aveva trovato Albertine sul balcone. Ma non si capisce con chi avrebbe potuto comunicare di là, e del resto le tende chiuse sulla finestra aperta potevano spiegarsi probabilmente in quanto lei sapeva che io temevo le correnti d'aria, e, comunque, anche se le tende me ne proteggevano poco, avrebbero impedito a Françoise di vedere dal corridoio le imposte aperte così di buon'ora. No, non vi vedo nulla, se non un fatto banale che prova soltanto che il giorno prima lei sapeva che se ne sarebbe andata. Il giorno prima, infatti, prese in camera mia una gran quantità di carta e di tela da imballaggio che vi si trovava, con cui tutta la notte stette a fare dei pacchi dei suoi numerosi accappatoi e vestaglie, per partire al mattino. Questo fu tutto. Non posso dare importanza al fatto che mi restituì quasi a forza, quella sera, mille franchi che mi doveva: la cosa non aveva nulla di speciale, perché era estremamente scrupolosa nelle questioni di denaro.
Sì, il giorno prima aveva preso la carta di imballaggio, ma non dal giorno prima soltanto sapeva che sarebbe andata via! Perché non era stata la sua tristezza a farla partire; ma fu la risoluzione presa di partire, di rinunciare alla vita che aveva sognata, a darle quell'aria triste. Triste, quasi solennemente fredda con me, tranne l'ultima sera, in cui, dopo essere rimasta da me più a lungo di quanto volesse - il che mi stupiva venendo da lei che voleva sempre prolungare il tempo da trascorrere insieme - mi disse sulla porta: «Addio, piccolo, addio, piccolo». Ma non vi feci caso sul momento. Françoise mi ha detto che l'indomani mattina, quando Albertine le disse che se ne andava (ma, del resto, lo si può spiegare con la stanchezza, perché non si era svestita e aveva passato la notte intera a preparare pacchi di tutto, ad eccezione di quelle cose che doveva chiedere a Françoise e che non si trovavano in camera sua e nella sua stanza da bagno) era ancora tanto triste, tanto più rigida, tanto più gelida dei giorni precedenti, che Françoise, quando lei le disse: «Addio, Françoise», credette che stesse per svenire. Quando si vengono a sapere certe cose, si capisce che la donna che ormai vi piaceva meno di tutte quelle che si incontrano con tanta facilità nelle più banali passeggiate, cui si rimproverava di doverle sacrificare per lei, sia invece ora quella che incontestabilmente si preferirebbe. Perché non si tratta più di scegliere fra un certo piacere -
diventato per l'uso, e forse per la mediocrità dell'oggetto, quasi nullo - e altri piaceri, allettanti, eccitanti, ma fra quei piaceri e qualcosa di molto più forte di essi: la pietà per il dolore.
Promettendo a me stesso che Albertine sarebbe stata già di ritorno quella sera, mi ero affrettato a cercare un conforto immediato e avevo alleviato con una certezza nuova la lacerazione del distacco da colei con cui ero vissuto fino ad allora. Ma per quanto rapidamente avesse agito il mio istinto di conservazione, io, quando Françoise mi aveva parlato, ero rimasto per un attimo privo di soccorso, e poco mi giovava sapere ora che Albertine sarebbe stata con me quella sera stessa, il dolore che avevo provato nell'istante in cui non avevo ancora informato me stesso di quel ritorno (l'istante che aveva seguito le parole «La signorina Albertine ha chiesto i suoi bauli, la signorina Albertine se ne è andata»), quel dolore rinasceva spontaneamente in me, simile a quello che era stato, cioè come se avessi continuato ad ignorare ancora il prossimo ritorno di Albertine. D'altronde bisognava che tornasse, ma di sua iniziativa. In ogni caso, avere l'aria di far compiere un passo, di pregarla di tornare, sarebbe stato controproducente. Certo, non avevo più la forza di rinunciare a lei come l'avevo avuta per Gilberte. Più ancora che rivedere Albertine, quel che volevo era mettere fine all'angoscia fisica che il mio cuore, più malato ora di quanto non fosse un tempo, non poteva più tollerare. Poi, a furia di abituarmi a non volere, si trattasse di lavoro o d'altro, ero diventato più vile. Ma soprattutto quell'angoscia era incomparabilmente più forte per molte ragioni, la più importante delle quali non era forse il non aver mai provato alcun piacere dei sensi con la signora di Guermantes e con Gilberte, ma che, non vedendole ogni giorno, a ogni ora, non avendone la possibilità e, di conseguenza, il bisogno, mancava, al mio amore per esse, la forza immensa dell'Abitudine. Forse, ora che il mio cuore incapace di volere, e di sopportare volontariamente la sofferenza, trovava un'unica soluzione possibile, il ritorno a ogni costo di Albertine, forse la soluzione opposta (la rinuncia volontaria, la progressiva rassegnazione), mi sarebbe sembrata una soluzione da romanzo, inverosimile nella vita, se un tempo a sceglierla non fossi stato proprio io, quando si era trattato di Gilberte. Sapevo dunque che anche quell'altra soluzione poteva essere accettata, e da uno stesso uomo, perché ero rimasto più o meno lo stesso.
Tuttavia, il tempo aveva fatto la sua parte, il tempo che mi aveva invecchiato, quel tempo che pure mi aveva messo Albertine continuamente accanto quando vivevamo insieme. Ma almeno, senza rinunciare a lei, quel che mi rimaneva di quanto avevo provato per Gilberte, era la fierezza di non voler essere per Albertine un disgustoso giocattolo facendole chiedere di tornare; volevo che tornasse senza che io dessi l'impressione di tenervi. Mi alzai per non perdere tempo, ma la sofferenza mi fermò: era la prima volta che mi alzavo da quando Albertine se n'era andata. Eppure dovevo vestirmi in fretta per andare a prendere informazioni dal suo portiere.
La sofferenza, prolungamento di un colpo morale imposto, aspira a mutar forma; speriamo di volatilizzarla facendo progetti, chiedendo informazioni; vogliamo che passi attraverso le sue innumerevoli metamorfosi: questo richiede meno coraggio che serbare intatta la propria sofferenza; così stretto, così duro, così freddo sembra il letto in cui ci si corica col proprio dolore. Mi rimisi dunque in piedi, mi muovevo nella stanza con infinita precauzione, mi situavo in modo da non vedere la sedia di Albertine, i pedali della pianola sui quali appoggiava le sue pantofoline d'oro, uno solo di quegli oggetti che aveva usato, ciascuno dei quali, nel linguaggio particolare che avevano loro insegnato i miei ricordi, sembrava darmi una traduzione, una versione diversa, annunciarmi una seconda volta la notizia della sua partenza. Ma senza guardarli, li vedevo lo stesso; le forze mi abbandonarono, caddi seduto in una di quelle poltrone di raso blu i cui riverberi, un'ora prima, nella penombra della stanza, mi avevano ispirato sogni appassionatamente accarezzati allora, e adesso da me tanto lontani. Oh! non mi ci ero mai seduto, prima di allora, se non quando c'era ancora Albertine. Perciò non riuscii a resistere, mi alzai; e così, ad ogni istante, degli innumerevoli e umili «io» che ci compongono, ce n'era qualcuno che ancora ignorava la partenza di Albertine e cui bisognava comunicare la notizia; bisognava - ed era ancora più crudele che se fossero stati degli estranei e non avessero preso in prestito, per soffrire, la mia sensibilità -
annunciare la sventura appena capitata a tutti quegli esseri, a tutti quegli «io» che ancora non lo sapevano; bisognava che ognuno di essi sentisse per la prima volta quelle parole, «Albertine ha chiesto i bauli» - quei bauli a forma di bara che avevo visto caricare a Balbec accanto a quelli di mia madre -
«Albertine se n'è andata». Ad ognuno dovevo comunicare la mia pena, quella pena che non è affatto una conclusione pessimista, tratta liberamente da un insieme di circostanze funeste, ma la reviviscenza intermittente e involontaria di un'impressione specifica, venuta dall'esterno, e che non abbiamo scelta noi.
Alcuni di quegli «io» non li avevo rivisti da tempo. Per esempio (non avevo pensato che quello era il giorno del parrucchiere) l'io che ero quando mi facevo tagliare i capelli. Avevo dimenticato quell'io, la cui apparizione mi fece scoppiare in singhiozzi, come a un funerale, quella di un vecchio domestico in pensione che abbia conosciuto colei che si è appena spenta. Poi, tutt'a un tratto mi ricordai che, da otto giorni ero stato colto da paure violente che non avevo voluto confessare a me stesso. In quei momenti discutevo tuttavia con me stesso dicendomi: «E' inutile, vero, prospettare l'ipotesi di una sua partenza improvvisa. E' assurdo. Se l'avessi sottoposta a un uomo sensato e intelligente (e lo avrei fatto per tranquillizzarmi se la gelosia non mi avesse impedito di confidarmi), mi avrebbe sicuramente risposto: 'Ma siete pazzo. E' impossibile'.
(E infatti, negli ultimi giorni non avevamo litigato neppure una volta.) Si va via per un motivo. Lo si dice. Vi si da il diritto di rispondere. Non si va via così. E' una bambinata... E' la sola ipotesi assurda.» Eppure, ogni giorno, ritrovandola lì al mattino, quando suonavo, avevo tirato un immenso sospiro di sollievo. E quando Françoise mi aveva consegnato la lettera di Albertine, avevo avuto subito la certezza che si trattasse della cosa che non poteva essere, di quella partenza in qualche modo presentita con molti giorni di anticipo, a dispetto di ogni ragione logica che mi rassicurasse. Me l'ero detto, quasi con una sorta di soddisfazione per la mia perspicacia pur nella disperazione, come un assassino che sa di non potere essere scoperto ma che ha paura e che tutt'a un tratto vede il nome della vittima scritto su di un fascicolo dal giudice istruttore che lo ha fatto convocare. Tutta la mia speranza era che Albertine fosse andata in Turenna dalla zia, dove insomma era abbastanza sorvegliata e non avrebbe potuto far molto finché io non l'avessi ricondotta indietro. La mia paura più grande era che fosse rimasta a Parigi, o partita per Amsterdam o per Montjouvain, che fosse scappata, cioè, per dedicarsi a qualche tresca di cui mi fossero sfuggiti i preliminari. Ma, in realtà, nel dirmi Parigi, Amsterdam, Montjouvain, cioè tanti luoghi diversi, pensavo a luoghi che erano solo possibili; perciò, quando il portiere di Albertine rispose che era partita per la Turenna, quella sede che ero convinto di desiderare mi sembrò la più orribile di tutte, perché era reale, e perché, per la prima volta, torturato dalla certezza del presente e dall'incertezza dell'avvenire, mi raffiguravo Albertine mentre iniziava una vita che aveva voluta separata da me, forse per molto tempo, forse per sempre, e nella quale avrebbe realizzato quell'ignoto che un tempo mi aveva tante volte turbato, quando pur tuttavia avevo la felicità di possedere, di accarezzare ciò che ne era l'esterno, quel dolce viso impenetrabile e captato. Era quell'ignoto a costituire l'essenza del mio amore.
Davanti alla porta di Albertine trovai una bambina povera che mi guardava con dei grandi occhi, e che aveva un'aria tanto buona che le chiesi se non volesse venire da me, proprio come avrei fatto con un cane dallo sguardo fedele. Ne parve contenta. A casa la cullai un po' sulle ginocchia, ma ben presto la sua presenza, facendomi sentire troppo l'assenza di Albertine, mi riuscì insopportabile. E la pregai di andarsene, dopo averle dato un biglietto da cinquecento franchi. Eppure, subito dopo, il pensiero di avere accanto qualche altra bambina, ma di non essere mai solo senza il sostegno di una presenza innocente, fu l'unico sogno che mi consentisse di farmi sopportare l'idea che forse Albertine avrebbe potuto, per un po' di tempo, non tornare. Quanto ad Albertine, lei esisteva in me soltanto sotto la forma del suo nome, il quale, tranne qualche rara pausa, al risveglio, si era appena iscritto nel mio cervello e non smetteva. Se avessi pensato ad alta voce, lo avrei ripetuto ininterrottamente e il mio ritornello sarebbe stato monotono, limitato come se fossi stato mutato in uccello, in un uccello simile a quello della favola il cui grido ripeteva senza fine il nome di colei che, da uomo, aveva amata. Ce lo diciamo, e, nel tacerlo, sembra che esso si iscriva in noi, che lasci la sua traccia nel cervello e che questo debba finir con l'essere, come un muro su cui qualcuno si è divertito a disegnare, interamente coperto dal nome mille volte riscritto di colei che amiamo. Ce lo riscriviamo sempre nella mente, finché siamo felici, ancora di più quando siamo infelici. E a ripetere quel nome che non ci da nulla di più di quanto già sappiamo, proviamo un bisogno sempre rinascente, ma, a lungo andare, stanchezza. Al piacere carnale non pensavo nemmeno, in quel momento; non vedevo neppure nel mio pensiero l'immagine di quella Albertine, che pure era la causa di un tale sconvolgimento nel mio essere, non vedevo il suo corpo, e se avessi voluto isolare l'idea che era collegata alla mia sofferenza - perché ce n'è sempre qualcuna - si sarebbero alternati, da una parte, il dubbio sullo stato d'animo con cui era partita, con o senza l'idea di ritornare, dall'altra i mezzi di farla tornare. Forse c'è un simbolo e una verità nel posto insignificante che occupa nella nostra ansietà colei a cui la riferiamo. Il fatto è che la sua persona c'entra davvero poco; c'entra moltissimo, invece, il processo di emozioni, di angosce che certi eventi ci hanno fatto provare in passato in relazione a lei e che l'abitudine ha finito col collegare a lei. Dimostra tutto questo (più ancora della noia che si prova nella felicità) il constatare quanto vedere o non vedere quella stessa persona, essere stimato o meno da lei, averla o no a nostra disposizione, ci riuscirà indifferente allorquando non dovremo più porci il problema (e sarà tanto ozioso allora che non ce lo porremo nemmeno più) se non relativamente alla persona stessa, una volta dimenticato il processo di emozioni e di angosce: almeno per quanto si riferisce a lei, perché può essersi sviluppato di nuovo, ma trasferito su di un'altra persona. Prima, quando ancora era legata ad essa, credevamo che la nostra felicità dipendesse dalla sua persona: dipendeva soltanto dalla fine della nostra ansietà. Il nostro inconscio era ancora più perspicace di noi in quel momento rimpicciolendo tanto la figura della donna amata, figura che forse avevamo anche dimenticata, che potevamo conoscere male e credere mediocre, nel terribile dramma in cui perfino la nostra vita stessa poteva dipendere dal ritrovarla per non aspettarla più. Proporzioni minuscole della figura della donna, effetto logico e necessario del modo in cui l'amore si sviluppa, chiara allegoria della natura soggettiva di questo amore.
L'intento con cui Albertine era partita era simile probabilmente a quello dei popoli che fanno preparare da una dimostrazione delle loro forze armate l'opera della propria diplomazia. Doveva essere partita solo per ottenere da me condizioni migliori, più libertà, più lusso. In tal caso, chi l'avrebbe vinta, fra noi due, sarei stato io, se avessi avuto la forza di aspettare, di aspettare il momento in cui, vedendo che non otteneva nulla, sarebbe ritornata da sé. Ma se, nel gioco delle carte, in guerra, dove importa solo vincere, si può resistere al bluff, le condizioni che creano l'amore, la gelosia, per non parlare della sofferenza, non sono certo le stesse. Se per aspettare, per «tener duro», avessi lasciato che Albertine restasse lontana da me parecchi giorni, forse molte settimane, avrei rovinato quel che per più di un anno era stato il mio scopo: non lasciarla libera neanche un'ora. Tutte le mie precauzioni sarebbero diventate inutili, se le avessi lasciato il tempo, l'agio di ingannarmi a suo piacimento e se alla fine si fosse arresa, non avrei più potuto dimenticare il tempo in cui era stata sola; e anche se alla fine avessi pur vinto, nel passato, cioè irreparabilmente, il vinto sarei stato io.
Quanto ai mezzi per ricondurre Albertine, avevano tanto maggiori possibilità di riuscita quanto più sarebbe sembrata plausibile l'ipotesi che lei se ne fosse andata solo con la speranza di essere richiamata con condizioni migliori. E
probabilmente, per quanti non credevano alla sincerità di Albertine, sicuramente per Françoise, ad esempio, quella ipotesi lo era. Ma per la mia ragione, alla quale l'unica spiegazione di certi malumori, di certi atteggiamenti era sembrata, prima ancora che ne sapessi nulla, il progetto da lei concepito di una partenza definitiva, era difficile credere, ora che quella partenza era avvenuta, che si trattasse di una simulazione. Dico per la mia ragione, non per me. L'ipotesi della simulazione diventava per me tanto più necessaria quanto più era improbabile e guadagnava in forza quel che perdeva in verosimiglianza.
Quando ci si vede sull'orlo dell'abisso e sembra che Dio ci abbia abbandonati, non si esita più ad aspettarsi da lui un miracolo. Riconosco che in tutta questa storia fui il più apatico, benché il più angosciato, dei poliziotti. Ma quella fuga non mi aveva restituito le qualità che l'abitudine di farla sorvegliare da altri mi aveva tolto. Pensavo a una cosa soltanto: incaricare qualcun altro di quella ricerca. Quest'altro fu Saint-Loup, che acconsentì. L'ansietà di tante giornate, consegnata a un altro, mi mise addosso un po' d'allegria e, sicuro del successo, mi sfregai le mani ridiventate improvvisamente asciutte come una volta, non più madide di quel sudore di cui Françoise mi aveva bagnato dicendomi: «La signorina Albertine se ne è andata». Si ricorderà che quando decisi di vivere con Albertine e anche di sposarla, lo feci per custodirla, per sapere quel che faceva, per impedirle di riprendere le sue abitudini con la signorina Vinteuil. Avevo preso quella decisione, nello strazio atroce della sua rivelazione, a Balbec, quando mi aveva detto come una cosa assolutamente naturale, benché quello fosse il dolore più grande che avessi mai provato in vita mia, ciò che nelle mie supposizioni peggiori, non sarei mai stato tanto audace da immaginare. (E' incredibile come la gelosia, che passa il suo tempo a fare piccole supposizioni nel falso, abbia poca immaginazione nello scoprire il vero.) Ora quell'amore, nato soprattutto dal bisogno di impedire ad Albertine di fare il male, quell'amore aveva serbato in seguito la traccia della sua origine.
Essere con lei mi importava poco, purché riuscissi a impedire all'«essere in fuga» di andare qua e là. Per impedirglielo, mi ero affidato agli occhi, alla compagnia di chi andava con lei e, purché mi facessero la sera un buon rapportino rassicurante, le mie inquietudini si risolvevano in buon umore.
Nell'aver concesso a me stesso l'affermazione che, qualunque cosa dovessi fare, Albertine sarebbe stata di ritorno a casa la sera stessa, avevo sospeso il dolore che Françoise aveva provocato in me dicendo che Albertine era andata via (perché allora il mio essere colto di sorpresa aveva creduto per un istante che quella partenza fosse definitiva). Ma dopo una pausa, quando da uno slancio della sua vita indipendente la sofferenza iniziale ritornava spontaneamente in me, era sempre altrettanto atroce perché anteriore alla promessa consolatrice che mi ero fatta di ricondurre a casa Albertine quella sera stessa. La frase che l'avrebbe calmata, la mia sofferenza l'ignorava. Per mettere in opera i mezzi necessari a ottenere quel ritorno, ancora una volta, non che un tale atteggiamento mi fosse mai ben riuscito, ma perché sempre quello avevo adottato da quando amavo Albertine, ero condannato a comportarmi come se non l'amassi, come se non soffrissi della sua partenza, ero condannato a continuare a mentirle. Avrei potuto essere tanto più energico nel mettere in opera i mezzi per farla tornare, quanto più, personalmente, avrei dato l'impressione di aver rinunciato a lei. Mi proponevo di scrivere ad Albertine una lettera d'addio, in cui avrei considerato definitiva la sua partenza, mentre avrei mandato Saint-Loup a esercitare, come a mia insaputa, le pressioni più brutali perché Albertine ritornasse al più presto. Certo, avevo sperimentato con Gilberte il pericolo delle lettere scritte con un'indifferenza che, finta in principio, finisce col diventare vera. E quella esperienza avrebbe dovuto impedirmi di scrivere ad Albertine lettere dello stesso tenore di quelle che avevo scritte a Gilberte. Ma quel che si chiama esperienza, non è altro che la rivelazione ai nostri occhi di un aspetto del nostro carattere che naturalmente riappare, e riappare con tanto maggior forza in quanto l'abbiamo già messo in luce una volta per noi stessi, di modo che l'impulso spontaneo che quella prima volta ci aveva guidati si trova rafforzato da tutte le suggestioni del ricordo. Il plagio umano cui è più difficile, per un individuo, sfuggire (e anche per i popoli che perseverano nei propri errori e li aggravano sempre più), è il plagio di se stessi.
Saint-Loup, che sapevo a Parigi, era stato mandato a chiamare da me immediatamente; accorse, rapido ed efficiente come era stato un tempo a Doncières, e acconsentì a partire subito per la Turenna. Gli sottoposi il piano seguente. Doveva scendere a Châtellerault, farsi indicare la casa della signora Bontemps, aspettare che Albertine fosse uscita perché avrebbe potuto riconoscerlo. «Ma la ragazza di cui parli mi conosce allora?», mi disse. Gli dissi che credevo di no. Il progetto di quella iniziativa mi riempì di una gioia infinita. E tuttavia era in contraddizione assoluta con quanto mi ero ripromesso all'inizio: fare in modo da non avere l'aria di far cercare Albertine; e tutto questo ne avrebbe avuto l'aria, inevitabilmente; ma una tale iniziativa aveva, su «quel che si sarebbe dovuto», l'inestimabile vantaggio di consentirmi di dire a me stesso che qualcuno, inviato da me, stava per vedere Albertine, e certo per ricondurla a casa. E se avessi saputo vedere chiaro nel mio cuore fin dall'inizio, avrei potuto prevedere che sarebbe stata questa soluzione nascosta nell'ombra, da me giudicata deplorevole, ad avere il sopravvento sulle soluzioni di pazienza, e che quella ero deciso a volere, per mancanza di volontà. Siccome Saint-Loup sembrava già un po' sorpreso che una ragazza avesse abitato da me per tutto un inverno senza che gliene avessi mai detto nulla; e siccome, d'altra parte, mi aveva spesso riparlato della ragazza di Balbec e io non gli avevo mai risposto: «Ma abita qui», avrebbe potuto essere offeso dalla mia mancanza di fiducia. E' vero che forse la signora Bontemps gli avrebbe parlato di Balbec. Ma ero troppo impaziente della sua partenza, del suo arrivo, per volere, per poter pensare alle conseguenze possibili di quel viaggio. Quanto poi all'eventualità che riconoscesse Albertine (che d'altronde egli aveva sistematicamente evitato di guardare quando l'aveva incontrata a Doncières) lei era, a dire di tutti, tanto cambiata e ingrassata che la cosa non sarebbe stata molto probabile. Mi chiese se non avessi un ritratto di Albertine. In un primo momento risposi di no perché egli non avesse, da quella fotografia, fatta più o meno all'epoca di Balbec, la possibilità di riconoscere Albertine, che in ogni caso aveva soltanto intravisto nel vagone. Ma riflettei che nell'ultima fotografia, lei sarebbe stata tanto diversa dall'Albertine di Balbec, quanto lo era ora l'Albertine viva, e che non l'avrebbe riconosciuta in fotografia più che nella realtà.
Mentre gliela cercavo, mi passava con dolcezza la mano sulla fronte, per consolarmi. Ero commosso per la pena che provocava in lui il dolore che intuiva in me. Prima di tutto anche se si era separato da Rachel, quanto aveva sofferto allora non era ancora tanto lontano da non far nascere in lui una simpatia, una pietà particolare per quel genere di sofferenze: ci si sente più vicini a chi ha la nostra stessa malattia. Poi, aveva tanto affetto per me che il pensiero delle mie sofferenze gli era insopportabile. Perciò concepiva per colei che ne era la causa un misto di risentimento e di ammirazione. Ma convinto com'era che fossi un essere tanto superiore, riteneva che perché fossi sottomesso a un'altra creatura, questa dovesse essere assolutamente straordinaria. Pensavo, certo, che avrebbe trovato graziosa la fotografia di Albertine, ma siccome non immaginavo, tuttavia, che avrebbe prodotto su di lui l'impressione che produsse Elena sui vegliardi troiani, mentre continuavo a cercare, dicevo modestamente: «Oh! sai, non farti delle idee, prima di tutto la fotografia è mal riuscita, e poi, lei non è straordinaria, non è una bellezza; è, soprattutto, molto amabile. - Oh!
sì, dev'essere meravigliosa», disse con ingenuo e sincero entusiasmo, cercando di raffigurarsi l'essere che aveva potuto gettarmi in una disperazione e in una agitazione simili. «Non le perdono di farti del male, ma bisognava anche immaginarselo che un perfetto artista come te, come te che ami in tutto la bellezza e di un simile amore, era predestinato a soffrire più di chiunque altro quando l'avesse incontrata in una donna.» Finalmente avevo trovato la fotografia. «E' sicuramente meravigliosa», continuava a dire Robert, non accorgendosi che gliela porgevo. Tutt'a un tratto la vide, la tenne un attimo in mano. Il suo viso esprimeva uno stupore che sfiorava l'ebetudine. «E' questa, la ragazza che ami?», finì per dirmi, con un tono in cui lo stupore era represso dal timore di dispiacermi. Non fece nessuna osservazione; aveva assunto quell'aria ragionevole, prudente, inevitabilmente un po' sdegnosa che si ha nei confronti di un malato - fosse anche stato fino ad allora un uomo notevole e vostro amico - ma che non è più nulla di tutto ciò, perché, colto da pazzia furiosa, vi parla di un essere celestiale che gli è apparso e continua a vederlo là dove voi, sano di mente, vedete soltanto un piumino. Capii subito lo stupore di Robert. Era quello stesso che avevo provato io nel vedere la sua amante, con la sola differenza che io avevo riconosciuto in lei una donna che conoscevo già, mentre lui credeva di non aver mai visto Albertine. Ma, probabilmente, la differenza fra ciò che l'uno e l'altro di noi vedeva di una stessa persona era altrettanto grande. Era lontano il tempo in cui, a Balbec, avevo cominciato, ma in modo molto limitato, ad aggiungere sensazioni gustative, olfattive, tattili, a quelle visive, quando guardavo Albertine. Da allora, sensazioni più profonde, più dolci, più indefinite, vi si erano aggiunte, poi sensazioni dolorose. Come una pietra intorno alla quale è nevicato, Albertine non era altro, insomma, se non il centro generatore di una costruzione immensa, che passava attraverso il piano del mio cuore. Robert, cui tutta quella stratificazione di sensazioni era invisibile, coglieva soltanto quel residuo che essa mi impediva invece di scorgere. Ciò che aveva sconcertato Robert quando aveva visto la fotografia di Albertine, era non l'emozione improvvisa dei vegliardi troiani che vedono passare Elena e dicono:
"Il nostro male non vale uno solo dei suoi sguardi" (1) '
ma quello esattamente inverso che fa dire: «Come, per questa ha potuto provare tanta amarezza, tanto dolore e fare tante follie!». Bisogna pur confessare che questo genere di reazione alla vista della persona che ha causato sofferenze, sconvolto vite, qualche volta provocato la morte di qualcuno che amiamo, è infinitamente più frequente di quello dei vegliardi troiani e, insomma, abituale. Questo non accade soltanto perché l'amore è individuale, né perché, quando non lo proviamo, giudicarlo evitabile e filosofeggiare sulla follia degli altri ci è naturale. No, il fatto è che, una volta giunta al grado in cui causa mali simili, la costruzione delle sensazioni interposte fra il volto della donna e gli occhi dell'amante, l'enorme uovo doloroso che lo avvolge e lo dissimula, come un manto di neve una fontana, è già spinta abbastanza lontano perché il punto in cui si fermano gli sguardi dell'amante, il punto in cui egli incontra il proprio piacere e le proprie sofferenze, sia tanto lontano da quello in cui gli altri lo vedono, quanto il vero sole lo è dal luogo in cui la sua luce condensata ce lo fa scorgere nel cielo. E per di più, frattanto, sotto la crisalide di dolori e di tenerezza che rende invisibili all'amante le peggiori metamorfosi della persona amata, il volto ha avuto il tempo di invecchiare e di cambiare. Di modo che, se il volto che l'amante ha visto per la prima volta è lontanissimo da quello che vede da quando ama e soffre, esso è, al contrario, altrettanto lontano da quello che può ora vedere lo spettatore indifferente.
(Che reazione avrebbe avuto Robert se, invece della fotografia di una ragazza, avesse visto quella di una vecchia amante?) E anzi, non abbiamo bisogno di vedere per la prima volta colei che ha causato una passione tanto straziante, per essere colti da un tale stupore. Spesso la conosciamo, come mio zio conosceva Odette. Allora la differenza di ottica si estende non solo all'aspetto fisico, ma al carattere, all'importanza individuale. Ci sono molte possibilità che la donna che fa soffrire chi la ama sia stata sempre una brava ragazza con chi non si curava di lei, come Odette, tanto crudele verso Swann, era stata la premurosa «signora in rosa» del mio prozio, oppure che l'essere di cui ogni decisione è prevista in anticipo da chi l'ama, con un timore pari a quello ispirato da una divinità, appaia come una persona senza importanza, troppo felice di fare tutto ciò che si voglia, agli occhi di chi non l'ama, come l'amante di Saint-Loup era per me che vedevo in lei soltanto quella "«Rachel quand du Seigneur»" (2) che tante volte m'era stata proposta. Mi ricordavo, la prima volta che l'avevo vista con Saint-Loup, il mio stupore al pensiero che ci si potesse tormentare per non sapere cosa una tale donna avesse fatto una certa sera, cosa avesse potuto dire sottovoce a qualcuno, perché avesse avuto il desiderio di rompere. Ora, sentivo che, tutto quel passato, quello di Albertine, verso cui ogni fibra del mio cuore, della mia vita, tendeva con una pena vibratile e maldestra, doveva apparire altrettanto insignificante a Saint-Loup quanto forse un giorno sarebbe diventato a me; che riguardo all'irrilevanza o alla gravita del passato di Albertine, sarei passato a poco a poco dallo stato d'animo di quel momento a quello di Saint-Loup, perché non mi facevo illusioni su quanto Saint-Loup potesse pensare, su quanto chiunque non sia l'amante possa pensare. E non ne soffrivo troppo. Lasciamo le belle donne agli uomini senza immaginazione. Mi ricordavo quella tragica spiegazione di tante vite che si incarna in un ritratto geniale e non somigliante come quello di Odette dipinto da Elstir, e che più che il ritratto di un'amante, è quello dell'amore che deforma la realtà. Mancava ad esso - cosa comune a tanti ritratti - di essere al tempo stesso di un gran pittore e di un amante (eppure si diceva che Elstir lo fosse stato di Odette). Tale dissomiglianza, tutta la vita di un amante, di un amante di cui nessuno comprende le follie, tutta la vita di uno Swann stanno a provarla. Ma se l'amante è anche un pittore come Elstir, allora la parola dell'enigma è proferita, avete finalmente sotto gli occhi quelle labbra che la gente comune non ha mai avvertito in quella donna, quel naso che nessuno ha mai saputo vedere, quell'incedere insospettato. Il ritratto dice: «Quel che ho amato, quel che mi ha fatto soffrire, quel che ho sempre visto, è questo». Con una ginnastica inversa, io, che avevo cercato col pensiero di aggiungere a Rachel tutto quel che Saint-Loup le aveva aggiunto di suo, cercavo di eliminare l'apporto del mio cuore e della mia mente alla composizione di Albertine e di raffigurarmela quale doveva apparire a Saint-Loup, come a me appariva Rachel. A quelle differenze, quand'anche le vedessimo noi stessi, che importanza potremmo conferire? E quando un tempo, a Balbec, Albertine mi aspettava sotto i portici di Incarville e saltava nella mia vettura, non solo non era ancora ingrassata, ma, per un eccesso di esercizio fisico, era troppo dimagrita; magra, imbruttita da un cappello sgraziato che lasciava vedere solo la punta di un brutto naso e, di profilo, delle guance bianche come vermi bianchi, ritrovavo ben poco di lei, ma abbastanza tuttavia perché, dal salto che faceva nella mia vettura, sapessi che era lei, che era stata puntuale all'appuntamento e non era andata altrove. E
tanto basta. Quel che si ama è troppo nel passato, consiste troppo nel tempo perduto insieme perché si abbia bisogno di tutta la donna; si vuoi solo essere certi che sia lei, non sbagliarsi sull'identità, ben diversamente importante della bellezza per colui che ama; le guance possono scavarsi, il corpo smagrirsi, anche per quanti sono stati al principio i più orgogliosi, agli occhi degli altri, del loro dominio su una bellezza, quel visetto, quel segno in cui si riassume la personalità permanente di una donna, quell'estratto algebrico, quella costante: tanto basta perché un uomo atteso nella più alta società e che amasse il bel mondo, non possa disporre di una sola delle sue serate, perché trascorre il proprio tempo a pettinare e spettinare, fino all'ora di addormentarsi, la donna amata; o semplicemente restando accanto a lei, per essere con lei, o affinché lei sia con lui, o solo affinché lei non sia con altri.
«Sei sicuro, mi disse Robert, che io possa offrire così a quella donna, trentamila franchi per il comitato elettorale di suo marito? E' disonesta fino a questo punto? Se non ti sbagli, tremila franchi basterebbero. - No, te ne prego, non far risparmi su di una cosa che mi sta tanto a cuore. Questo devi dire, in cui c'è del resto una parte di verità: 'Il mio amico aveva chiesto questi trentamila franchi a un parente per il comitato dello zio della sua fidanzata.
Glieli avevano dati per via di quel fidanzamento. E aveva pregato me di portarveli perché Albertine non ne sapesse nulla. Ed ecco che Albertine lo lascia. Non sa più cosa fare. E' costretto a restituire i trentamila franchi se non sposa Albertine. E se la sposa, sarebbe necessario che, almeno per la forma, lei ritornasse immediatamente, perché, se la fuga si prolungasse, la cosa farebbe un'impressione troppo brutta'. Credi che questa storia sia stata inventata apposta? - Ma no», mi rispose Saint-Loup, per bontà, per discrezione, e poi perché sapeva che le circostanze sono spesso più strane di quanto non si creda. Dopo tutto non era assolutamente impossibile che in quella storia dei trentamila franchi ci fosse, come gli dicevo, una buona parte di verità. Era possibile, ma non era vero, e quella parte di verità era, appunto, una menzogna.
Ma ci mentivamo a vicenda, Robert e io, come avviene in tutti i colloqui in cui un amico desidera sinceramente aiutare l'amico in preda a una disperazione d'amore. L'amico, che è consiglio, sostegno, consolazione, può compiangere la disperazione dell'altro, non provarla; e quanto più sinceramente egli è amico, tanto più mente. E l'altro gli confessa quel che è necessario per essere aiutato, ma proprio, forse, per essere aiutato, nasconde molte cose. E, tra i due, tuttavia, ad essere felice è quello che si dà da fare, che fa un viaggio, che compie una missione, ma che non ha sofferenze interiori. Io ero in quel momento, quel che era stato Robert a Doncières, quando si era creduto abbandonato da Rachel. «Insomma, come vuoi; se dovessi subire un affronto, lo accetto in anticipo perché si tratta di te. E poi, per quanto possa sembrarmi un po' strano, questo mercato tanto poco mascherato, so bene che nel nostro mondo ci sono duchesse, anche tra le più bigotte, che per trentamila franchi farebbero cose più difficili del dire alla propria nipote di non restare in Turenna. Poi, sono doppiamente contento di farti un favore, se ci vuoi questo perché tu acconsenta a vedermi. Se mi sposo, aggiunse, non ci vedremo di più, non farai della mia casa un po' la tua?...» Si fermò all'improvviso, colto dal pensiero, supposi, allora, che se anch'io mi sposavo, Albertine non avrebbe potuto essere per sua moglie un'amicizia intima. E mi ricordai di quel che i Cambremer mi avevano detto di un suo probabile matrimonio con la figlia del principe di Guermantes.
Consultato l'orario ferroviario, vide che non sarebbe potuto partire prima di sera. Françoise mi chiese: «Bisogna togliere il letto della signorina Albertine dallo studio? - Anzi, dissi, bisogna rifarlo.» Speravo che sarebbe tornata da un giorno all'altro e non volevo neppure che Françoise potesse supporre che lo mettessi in dubbio. Era necessario che la partenza di Albertine sembrasse una cosa convenuta fra noi, che non implicava affatto che mi amasse di meno. Ma Françoise mi guardò con un'aria se non di incredulità, per lo meno di dubbio.
Aveva anche lei le sue due ipotesi. Le narici le si dilatavano, fiutava la rottura, doveva avvertirla da tempo. E se non era assolutamente certa, era forse solo perché, come me, rifuggiva dal credere interamente ciò che le avrebbe fatto fin troppo piacere. Adesso il peso della faccenda non poggiava più sulla mia mente affaticata ma su Saint-Loup. Mi sentivo sollevato da una sorta di allegria perché avevo preso una decisione, perché mi dicevo: «Ho reagito con prontezza».
Saint-Loup doveva essere appena salito sul treno quando incrociai nell'anticamera Bloch, che non avevo sentito suonare, di modo che fui costretto a riceverlo un attimo. Ultimamente mi aveva incontrato con Albertine (che conosceva da Balbec) un giorno in cui lei era di cattivo umore. «Ho cenato col signor Bontemps, mi disse, e siccome ho una certa influenza su di lui, gli ho detto che mi ero dispiaciuto che sua nipote non fosse più amabile con te, che bisognava rivolgerle delle preghiere in tal senso.» Ero fuori di me dalla collera: quelle preghiere e quelle lagnanze distruggevano tutto l'effetto dell'iniziativa di Saint-Loup e mi chiamavano direttamente in causa presso Albertine, che davo l'impressione di implorare. Per colmo di sventura, Françoise, rimasta nell'anticamera, sentiva tutto. Rimproverai Bloch in tutte le maniere, dicendogli che non gli avevo affidato per nulla un tale incarico, e che del resto la cosa era falsa. A partire da quel momento Bloch non smise più di sorridere, meno, credo di gioia, che per l'imbarazzo di avermi contrariato.
Rideva meravigliandosi di provocare una collera simile. Forse lo diceva per minimizzare ai miei occhi la propria indiscreta iniziativa, forse perché era vile di carattere e viveva allegramente e pigramente fra le bugie, come le meduse vivono a fior d'acqua; forse perché, anche se fosse stato di un'altra specie di uomini, gli altri, non potendo mai situarsi dal nostro stesso punto di vista, non capiscono l'importanza del male che le loro parole dette a caso possono farci. Lo avevo appena congedato, non trovando alcun rimedio a quanto aveva fatto, quando suonarono di nuovo e Françoise mi consegnò una convocazione al commissariato. I genitori della bambina che avevo condotto per un'ora a casa mia avevano voluto sporgere denuncia contro di me per corruzione di minore. Ci sono dei momenti nella vita in cui una specie di bellezza nasce dalla molteplicità dei guai che ci piombano addosso, incrociati come motivi wagneriani e anche dalla cognizione, manifesta allora, che gli eventi non sono situati nell'insieme dei riflessi dipinti sul povero specchietto che l'intelligenza porta davanti a sé e che chiama avvenire; che essi stanno al di fuori e sorgono all'improvviso come chi sopraggiunga a sorprendere in flagrante un reato. Già, abbandonato a se stesso, un evento si modifica, sia che l'insuccesso lo ingigantisca, sia che lo sminuisca la soddisfazione. Ma raramente è solo. I sentimenti suscitati da ognuna di queste condizioni si contrappongono, e in qualche modo, come ne feci l'esperienza mentre andavo al commissariato, la paura è un revulsivo almeno momentaneo e piuttosto efficace delle pene sentimentali.
Trovai al commissariato i genitori che mi insultarono, dicendomi: «Non mangiamo di questo pane», mi restituirono i cinquecento franchi che non volevo riprendermi e il commissario che, proponendosi di seguire l'esempio inimitabile dei presidenti di corte d'assise dalla battuta facile, prelevava una parola da ogni frase che proferivo, servendosene per formulare una replica spiritosa e pesante. L'eventualità della mia innocenza non fu proprio considerata, perché fu la sola ipotesi che nessuno volle accettare neanche per un attimo. Nondimeno, la difficoltà di formulare un'accusa contro di me fece sì che me la cavassi con una ramanzina, estremamente violenta, fin quando i genitori furono presenti. Ma non appena se ne furono andati, il commissario, cui piacevano le ragazzine, cambiò tono e rimproverandomi con un'amichevole aria di complicità, disse: «Un'altra volta, bisogna essere più abili. Diamine! Non si fanno adescamenti in un modo così maldestro, o va tutto a monte. Del resto, troverete dovunque ragazzine migliori di quelle e per molto meno. La somma era insensatamente esagerata».
Avvertivo tanto profondamente che non mi avrebbe capito se avessi cercato di spiegargli la verità che approfittai, senza aprir bocca, del permesso di andarmene. Tutti i passanti, finché non fui rientrato a casa, mi parvero ispettori incaricati di spiare le mie azioni e i miei gesti. Ma quel "leitmotiv", come pure quello della collera contro Bloch, si spense per lasciar posto solo a quello della partenza di Albertine. Ora questo ritornava ma su di una tonalità quasi allegra da quando Saint-Loup era partito. Dal momento in cui si era assunto l'incarico di andare a trovare la signora Bontemps, le mie pene si erano dissipate. Credevo che questo mi succedesse perché avevo agito, lo credevo in buona fede, poiché non si sa mai cosa si nasconda nell'anima nostra.
In fondo, quel che mi rendeva felice, non era, come credevo, l'aver scaricato su Saint-Loup le mie indecisioni. Del resto non mi ingannavo affatto; il rimedio specifico per guarire un evento infelice (i tre quarti degli eventi lo sono) è prendere una decisione; giacché provocando un brusco capovolgimento dei nostri pensieri, essa riesce a interrompere il flusso di quelli che provengono dall'evento passato e che prolungano la vibrazione, a spezzarlo con un flusso contrario di pensieri contrari, provenienti dall'esterno, dall'avvenire. Ma quei pensieri nuovi ci fanno bene soprattutto (e tale era l'effetto di tutti quelli che mi assediavano in quel momento) quando, dal profondo di quell'avvenire, ci portano una speranza. Ciò che in fondo mi rendeva tanto felice, era la segreta certezza che siccome la missione di Saint-Loup non poteva fallire, Albertine non poteva non ritornare. La mia decisione, l'avergli conferito i pieni poteri, non erano dunque questa la causa della mia gioia che, altrimenti, sarebbe stata duratura; lo era invece l'aver pensato «Il successo è assicurato» mentre dicevo: «Accada quel che potrà accadere». E l'idea (risvegliata da quel ritardo) che potesse verificarsi qualcosa di diverso dal buon esito previsto, mi era tanto odiosa che avevo perduto la mia allegria. In realtà è il nostro voler provvedere, il nostro sperare in eventi felici a riempirci di una gioia che attribuiamo ad altre cause e che scompare poi per lasciarci cadere nell'afflizione, se non siamo più tanto certi che quanto desideriamo si realizzerà. Da questa invisibile fede è sostenuto il mondo della nostra sensibilità; e se ne è privo, vacilla. Abbiamo visto che essa determinava per noi il valore o la nullità degli esseri, l'ebbrezza o la noia di vederli. Essa determina ugualmente la possibilità di sopportare una pena che ci sembra mediocre semplicemente perché siamo convinti finirà presto, o il suo improvviso ingigantirsi fino a quando una presenza valga quanto la nostra vita, talora anche di più. Una cosa, del resto, finì di rendere la mia pena al cuore acuta come lo era stata il primo minuto e come, bisogna pur confessarlo, non era più.
Fu il rileggere una frase della lettera di Albertine. Per quanto amiamo le persone, la sofferenza di perderle, quando, nel nostro isolamento, di fronte a noi c'è lei soltanto cui la nostra mente da, in qualche modo, la forma che vuole, questa sofferenza è sopportabile e diversa da quella (meno umana, meno nostra, tanto imprevista e strana quanto lo è un fatto capitato nella sfera morale e nella regione del cuore) causata non tanto dalle persone in se stesse ma piuttosto dal modo in cui saremo venuti a sapere che non le vedremo più.
Quanto ad Albertine, potevo pensare a lei, piangendo dolcemente, accettando di non vederla nemmeno stasera, come non l'avevo vista ieri; ma rileggere "la mia decisione è irrevocabile", era un'altra cosa; era come prendere una medicina pericolosa, che mi avrebbe provocato una crisi cardiaca cui sarebbe stato impossibile sopravvivere. C'è nelle cose, negli eventi, nelle lettere di rottura, un pericolo particolare che dilata e snatura il dolore stesso che le persone possono procurarci. Ma quella sofferenza durò poco. Nonostante tutto, ero tanto sicuro del successo dell'abilità di Saint-Loup, il ritorno di Albertine mi parve una cosa tanto certa, che mi chiesi se avessi avuto ragione ad augurarmelo. Eppure me ne rallegravo. Disgraziatamente per me che credevo chiusa la faccenda del commissariato, Françoise venne ad annunciarmi che un ispettore era venuto a informarsi se io non avessi l'abitudine di tenere delle ragazze in casa mia, che il portiere, credendo si parlasse di Albertine, aveva risposto di sì, e che, da quel momento, la casa sembrava sorvegliata. Da allora, mi sarebbe stato impossibile far venire una ragazzina a consolarmi nelle mie pene, senza provare la vergogna davanti a lei di veder comparire un poliziotto e di farmi considerare un delinquente. E al tempo stesso capii quanto si viva per certi sogni più di quel che si crede, giacché quella impossibilità di cullare mai più una bambina mi sembrò togliere ogni valore alla vita; ma capii, per di più, quanto sia comprensibile che la gente rifiuti facilmente la fortuna e rischi la morte, mentre ci immaginiamo, invece, che siano l'interesse e la paura di morire a muovere il mondo. Perché al solo pensiero che perfino una ragazzina sconosciuta, al sopraggiungere di un poliziotto, potesse farsi un'idea turpe di me, avrei preferito uccidermi! Non era possibile neanche paragonare le due sofferenze. Ora, nella vita, la gente non riflette mai che coloro cui offre del denaro, che minaccia di morte, possono avere un'amante o anche semplicemente un compagno, alla cui stima possono tenere molto, pur non tenendo invece alla propria. Ma improvvisamente, per una confusione di cui non mi resi conto (non pensai, infatti, che Albertine era maggiorenne e perciò poteva abitare in casa mia e anche essere la mia amante), mi sembrò che la corruzione di minore potesse applicarsi anche ad Albertine. Allora la vita mi apparve sbarrata da tutte le parti. E, pensando che non avevo vissuto castamente con lei, riconobbi nella punizione che mi veniva inflitta per aver cullato una ragazzina sconosciuta, quella relazione che esiste quasi sempre nei castighi umani e che fa sì che non ci sia quasi mai né giusta condanna, né errore giudiziario, ma una specie di armonia fra l'idea falsa che si fa il giudice di un atto innocente e i fatti colpevoli da lui ignorati. Ma allora, al pensiero che il ritorno di Albertine potesse comportare per me una condanna infamante tale da degradarmi ai suoi occhi e forse da arrecare a lei stessa un torto che non mi avrebbe perdonato, quel ritorno smisi di augurarmelo e, anzi, mi spaventò. Avrei voluto telegrafarle di non tornare. E subito, sommergendo tutto il resto, fui invaso dal desiderio appassionato di rivederla.
Prospettata per un istante la possibilità di dirle di non tornare e di vivere senza di lei, all'improvviso mi sentii, invece, pronto a sacrificare tutti i viaggi, tutti i piaceri, tutti i lavori, purché Albertine ritornasse! Per il mio amore verso Albertine avevo creduto di poter prevedere un destino simile a quello che avevo conosciuto con Gilberte: quanto, invece, si era sviluppato in assoluto contrasto con quello! Quanto mi era impossibile restare senza vederla!
E per ogni atto, anche il più insignificante, ma che prima era immerso nell'atmosfera felice creata dalla presenza di Albertine, dovevo ogni volta, con un dispendio sempre maggiore di energie, con lo stesso dolore, ricominciare l'esperienza della separazione. Poi, la concorrenza delle altre forme della vita ricacciava nell'ombra quel nuovo dolore, e in quei giorni, che furono i primi della primavera, aspettando che Saint-Loup riuscisse a vedere la signora Bontemps, ebbi anche, nell'immaginare Venezia e belle donne sconosciute, qualche momento di piacevole calma. Non appena me ne accorsi, mi sentii invadere da un ter-ror panico. Quella calma che avevo appena assaporato, era la prima apparizione di quella grande forza intermittente, che avrebbe lottato in me contro il dolore, contro l'amore, e che avrebbe finito con l'avere il sopravvento. Ciò di cui avevo appena avuto la prefigurazione e avvertito il presagio fu, per un istante soltanto, quella che sarebbe diventata una condizione permanente del mio essere, una vita in cui non avrei più potuto soffrire per Albertine, in cui non l'avrei amata più. E il mio amore che aveva appena riconosciuto il solo nemico in grado di vincerlo, l'Oblio, si mise a fremere, come un leone che, nella gabbia in cui sta rinchiuso, ha scorto tutt'a un tratto il pitone che lo divorerà.
Pensavo continuamente ad Albertine, né mai Françoise, entrando in camera mia, mi diceva «Non ci sono lettere» tanto in fretta da abbreviare la mia angoscia. Ma, di tanto in tanto, facendo passare questa o quella corrente di idee attraverso il mio dolore, riuscivo a rinnovare, ad aerare un po' l'atmosfera viziata del mio cuore. Ma la sera, se riuscivo ad addormentarmi, era allora come se il ricordo di Albertine fosse stata la medicina che mi avesse portato il sonno e che, una volta cessato l'effetto, mi avrebbe fatto svegliare. Dormendo, pensavo continuamente ad Albertine. Era un suo sonno speciale che mi dispensava, in cui non sarei più stato libero di pensare ad altro, come durante uno stato di veglia. Il sonno, il suo ricordo, erano le due sostanze, miscelate, che ci fanno prendere insieme per dormire. Da sveglio, del resto, la mia sofferenza andava aumentando ogni giorno, invece di diminuire. Non che l'oblio non compisse la sua opera, anzi, proprio per questo favoriva l'idealizzazione dell'immagine rimpianta e quindi l'assimilazione della mia sofferenza iniziale ad altre sofferenze analoghe che la rafforzavano. Ma se all'improvviso pensavo alla sua stanza, alla sua stanza dove il letto rimaneva vuoto, al suo pianoforte, alla sua automobile, piegavo la testa sulla spalla sinistra, come chi sta per svenire. Il rumore delle porte mi faceva quasi altrettanto male perché non era lei ad aprirle.
Quando l'arrivo di un telegramma di Saint-Loup divenne possibile, non osai chiedere: «C'è un telegramma?». Ne arrivò uno, finalmente, ma che non faceva altro che differire tutto, comunicandomi: QUELLE SIGNORE SONO PARTITE PER TRE
GIORNI. Certo, mi era stato possibile sopportare i quattro giorni già trascorsi da quando era partita, perché dicevo a me stesso: «E' solo una questione di tempo, prima della fine della settimana sarà qui». Ma quella ragione non poteva evitare che per il mio cuore, per il mio corpo, gli atti da compiere fossero gli stessi: vivere senza di lei, tornare a casa senza trovarla, passare davanti alla porta della sua stanza - di aprirla, non avevo ancora il coraggio - sapendo che non c'era, andare a letto senza darle la buonanotte, ecco le cose che il mio cuore aveva dovuto compiere nella loro terribile interezza e proprio come se non avessi dovuto rivedere Albertine. Ora, l'averle compiute già quattro volte provava che adesso era capace di continuare a compierle. E presto, forse, avrei smesso di aver bisogno della ragione che così mi aiutava a continuare a vivere (avrei potuto dirmi: «Non tornerà mai» e vivere ugualmente come avevo già fatto durante quei quattro giorni) come un ferito che ha ripreso l'abitudine di camminare e può fare a meno delle stampelle. Certo, ritornando, la sera, trovavo ancora, giustapposti in una serie interminabile, i ricordi, che mi levavano il respiro, che mi soffocavano col vuoto della solitudine, di tutte le sere in cui Albertine mi aspettava, ma già trovavo pure il ricordo della sera prima, di due sere prima e delle altre due sere precedenti: il ricordo, cioè, delle quattro serate trascorse dalla partenza di Albertine, durante le quali ero rimasto senza di lei, solo, e tuttavia vivo ancora: quattro serate che già formavano una striscia di ricordi molto sottile, paragonata all'altra, ma cui ogni giorno che fosse trascorso avrebbe dato forse consistenza. Non dirò nulla della lettera di dichiarazione d'amore che ricevetti in quel periodo da una nipote della signora di Guermantes, che aveva fama di essere la più graziosa ragazza di Parigi, né del passo compiuto presso di me dal duca di Guermantes, per conto dei genitori, rassegnati, per la felicità della figlia, a un partito di livello sociale inferiore, a un tale cattivo matrimonio. Avvenimenti come questi, cui l'amor proprio potrebbe essere sensibile, sono troppo dolorosi quando si ama. Si potrebbe avere il desiderio, ma non si avrebbe l'indelicatezza, di farli conoscere a colei che ha di noi un'opinione meno favorevole, e che, del resto, non modificherebbe se venisse a sapere che si può essere giudicati in modo del tutto diverso. Quanto mi scriveva la nipote del duca avrebbe solo irritato Albertine.
Dal momento in cui mi svegliavo e riprendevo il mio dolore nel punto in cui lo avevo lasciato prima di addormentarmi, come un libro chiuso per un attimo e che non avrei più lasciato fino a sera, ogni mia sensazione veniva a collegarsi sempre e soltanto al pensiero di Albertine, venisse dall'esterno o dall'interno.
Suonavano: è una lettera di lei, è lei stessa, forse! Se mi sentivo bene, non troppo infelice, non ero più geloso, non avevo più nulla da rimproverarle, avrei voluto rivederla presto, baciarla, passare allegramente tutta la vita con lei.
Telegrafarle: VENITE PRESTO, mi sembrava diventata una cosa semplicissima, come se il mio nuovo umore avesse cambiato non solo le mie disposizioni, ma anche le cose fuori di me, le avesse rese più facili. Se ero di cattivo umore, rinasceva tutto il mio rancore contro di lei, non avevo più voglia di baciarla, sentivo che sarebbe stato impossibile essere mai felici con lei, volevo soltanto farle del male e impedirle di appartenere ad altri. Ma il risultato di quei due umori opposti era identico: lei doveva tornare al più presto. E tuttavia, per quanta gioia potesse darmi, sul momento, quel ritorno, sentivo che presto sarebbero sorte le stesse difficoltà di prima e che la ricerca della felicità nell'appagamento del desiderio morale era qualcosa di tanto ingenuo quanto il voler raggiungere l'orizzonte camminando diritti davanti a sé. Più il desiderio progredisce, più il vero possesso si allontana. Di modo che se è possibile trovare la felicità, o almeno l'assenza di sofferenze, non bisogna cercare l'appagamento, ma la riduzione progressiva, l'estinzione finale del desiderio.
Si cerca di vedere quel che si ama, bisognerebbe cercare di non vederlo; l'oblio soltanto può provocare l'estinzione del desiderio. E immagino che se uno scrittore esprimesse verità come queste, dedicherebbe il libro che le contenesse a una donna, che egli vorrebbe in questo modo avvicinare, dicendole: «Questo libro è tuo». E intanto, esprimendo delle verità nel suo libro, mentirebbe nella dedica, perché terrà a che il libro sia di quella donna non più di quanto tenga a possedere quella pietra che provenga da lei e che gli sarà cara soltanto finché amerà quella donna. I legami fra una persona e noi esistono solo nel nostro pensiero. La memoria, nell'affievolirsi, li allenta, e, malgrado l'illusione da cui vorremmo lasciarci ingannare, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi soltanto esistiamo. L'uomo è l'essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in se stesso, e se dice il contrario mente. Avrei avuto tanta paura, se fossero stati capaci di farlo, che mi togliessero quel bisogno di lei, quell'amore di lei, che ero convinto fosse prezioso per la mia vita.
Poter sentir pronunciare, senza esserne soggiogato e senza provare sofferenze, i nomi delle stazioni che il treno attraversava per andare in Turenna mi sarebbe sembrata una diminuzione del mio essere (solo perché, in fondo, questo avrebbe provato che Albertine mi stava diventando indifferente). Era bene, mi dicevo, che, domandandomi continuamente cosa potesse fare, pensare, volere, a ogni istante, se contasse di ritornare, se stesse per farlo, tenessi aperta quella porta di comunicazione che l'amore aveva praticata in me, e sentissi la vita di un'altra inondare, attraverso delle chiuse aperte, quel bacino che non avrebbe voluto ridiventare stagnante. Presto, prolungandosi il silenzio di Saint-Loup -
un'ansietà secondaria - l'attesa di un telegramma, di una telefonata di Saint-Loup mascherò la prima: l'inquietudine del risultato, sapere se Albertine sarebbe ritornata. Spiare ogni rumore nell'attesa di quel telegramma, mi diventò tanto insopportabile da farmi immaginare che, qualunque notizia mi recasse l'arrivo di quel telegramma, la sola cosa cui pensassi ormai, avrebbe posto fine alle mie sofferenze. Ma quando ebbi ricevuto finalmente un telegramma di Robert, in cui mi diceva di avere incontrato la signora Bontemps ma, nonostante tutte le precauzioni prese, di essere stato visto da Albertine, il che aveva mandato a monte ogni cosa, ebbi un'esplosione di ira e di disperazione, perché proprio quel pericolo avevo voluto prima di tutto evitare. Il viaggio di Saint-Loup, di cui Albertine era venuta a conoscenza, autorizzava a credere che io tenessi a lei, cosa che avrebbe solo potuto impedirle di ritornare: e, del resto, il rifiuto irriducibile di quell'impressione che avrei data era tutto quanto mi rimaneva della fierezza che il mio amore possedeva al tempo di Gilberte e che aveva perduto. Maledicevo Robert, poi mi dissi che se quel mezzo aveva fallito, ne avrei adottato un altro. Poiché l'uomo può agire sul mondo esterno, come avrei potuto, ricorrendo all'astuzia, all'intelligenza, all'interesse, all'affetto, non riuscire a sopprimere quella cosa atroce: l'assenza di Albertine? Crediamo che secondo il nostro desiderio cambieremo le cose intorno a noi, lo crediamo perché, al di fuori di questa, non vediamo nessun'altra soluzione favorevole. Non pensiamo a quella che il più delle volte si verifica e che è, anch'essa, favorevole: non riusciamo a cambiare le cose secondo il nostro desiderio, ma a poco a poco il nostro desiderio cambia. La situazione che speravamo di cambiare perché ci era insopportabile, ci diventa indifferente. Non abbiamo potuto superare l'ostacolo, come volevamo assolutamente, ma la vita ce lo ha fatto aggirare, oltrepassare e a stento, allora, volgendoci verso il passato in lontananza, riusciamo a scorgerlo, tanto è diventato impercettibile.
Sentii giungere, dal piano di sopra qualche aria di "Manon", suonata da una vicina. Applicavo le parole, che conoscevo, ad Albertine e a me, e fui invaso da una commozione tanto profonda che mi misi a piangere. Era:
"Hélas, l'oiseau quifuit ce qu'il croit l'esclavage, Le plus souvent, la nuit d'un vol désespéré revient battre au vitrage" (3)
e la morte di Manon:
"«Manon réponds-moi donc! - Seul amour de mon âme, Je n'ai su qu'aujourd'hui la bonté de ton coeur»" (4).
Poiché Manon tornava da Des Grieux, mi sembrava ch'io fossi per Albertine l'unico amore della sua vita. Ahimè, è probabile che se avesse sentito in quel momento la stessa aria non avrebbe amato me sotto il nome di Des Grieux, e, quand'anche ne avesse avuto soltanto l'idea, il mio ricordo le avrebbe impedito di commuoversi nell'ascoltare quella musica che pure rientrava benissimo, benché meglio scritta e più raffinata, nel genere che a lei piaceva.
Quanto a me, non ebbi il coraggio di abbandonarmi alla dolcezza di pensare che Albertine mi chiamasse «solo amore dell'anima mia» e che avesse riconosciuto di essersi ingannata su ciò che «aveva creduto una schiavitù». Sapevo che non si può leggere un romanzo senza attribuire all'eroina i lineamenti della donna amata. Ma il libro ha un bell'essere a lieto fine, il nostro amore non ha fatto un passo avanti, e, una volta chiuso il libro, colei che amiamo e che alla fine, ci è venuta incontro, nel romanzo, una volta che lo abbiamo chiuso, non ci ama di più nella vita. Furioso, telegrafai a Saint-Loup di tornare al più presto a Parigi, per evitare, almeno in apparenza, di insistere, aggravando le cose, in un'iniziativa che avrei tanto voluto tenere segreta. Ma prima ancora che egli fosse tornato, secondo le mie istruzioni, ricevetti da Albertine stessa questo telegramma:
AMICO MIO, AVETE MANDATO IL VOSTRO AMICO SAINT-LOUP DA MIA ZIA, COSA ASSOLUTAMENTE INSENSATA. AMICO MIO CARO, SE AVEVATE BISOGNO DI ME, PERCHE' NON
AVERMI SCRITTO DIRETTAMENTE? SAREI STATA TROPPO FELICE DI RITORNARE; NON
RIPRENDETE PIU' QUESTE INIZIATIVE ASSURDE. «Sarei stata troppo felice di ritornare!» Se diceva così, significava allora che rimpiangeva di essere partita, che cercava solo un pretesto per ritornare. Dunque non dovevo far altro se non quello che mi diceva, scriverle che avevo bisogno di lei, e sarebbe tornata. L'avrei dunque rivista, lei, l'Albertine di Balbec (perché, da quando se ne era andata, era ridiventata per me quella di allora. Come una conchiglia, cui non facciamo più attenzione quando l'abbiamo sempre sul comò, una volta che ce ne siamo separati per averla regalata o per averla perduta, e pensiamo ad essa, cosa che non facevamo più, lei mi ricordava tutta la ridente bellezza delle azzurre montagne del mare). E non lei soltanto era diventata un essere di immaginazione, cioè desiderabile, ma anche la vita con lei era diventata una vita immaginaria, libera, cioè, da ogni difficoltà, tanto che mi dicevo: «Come saremo felici!». Ma, dal momento che avevo la certezza di quel ritorno, non dovevo aver l'aria di affrettarlo, bensì cancellare piuttosto la cattiva impressione dell'iniziativa di Saint-Loup che avrei sempre potuto sconfessare in seguito dicendo che aveva agito per suo conto, perché era sempre stato fautore di quel matrimonio.
Intanto, rileggevo quella lettera, ed ero comunque deluso del poco che c'è di una persona in una lettera. Certo i caratteri tracciati esprimono il nostro pensiero, come anche i nostri lineamenti; ci troviamo sempre in presenza di un pensiero. Ma tuttavia, nella persona, il pensiero ci appare solo dopo essersi diffuso nella corolla del viso sbocciata come una ninfea. E questo, comunque, lo modifica molto. E forse una delle cause delle nostre perpetue delusioni in amore, sta in quelle perpetue deviazioni, che fanno in modo che, nell'attesa dell'essere ideale che amiamo, ogni incontro ci porti un essere di carne che ha così poco a che vedere col nostro sogno. E poi, quando chiediamo qualcosa a quella persona, riceviamo da lei una lettera in cui anche di lei stessa resta pochissimo, come nelle lettere algebriche non resta altro che la determinazione delle cifre aritmetiche, le quali peraltro non contengono più le qualità dei frutti e dei fiori addizionati. E così l'amore, l'essere amato, le sue lettere, sono forse anch'esse traduzioni della stessa realtà - per quanto insoddisfacente sia passare dall'una all'altra - poiché la lettera ci sembra insufficiente solo quando la leggiamo, perché ci struggiamo dalla passione finché non arriva, e perché essa basta ad acquietare la nostra angoscia, se non a colmare, con i suoi minuscoli segni neri, il nostro desiderio, il quale avverte tuttavia che in essi non c'è altro se non l'equivalente di una parola, di un sorriso, di un bacio, e non queste cose in se stesse. Scrissi ad Albertine:
"Amica mia, stavo appunto per scrivervi e vi ringrazio di dirmi che se avessi avuto bisogno di voi, sareste accorsa; è bello da parte vostra sentire in modo tanto elevato la devozione per un vecchio amico e la mia stima per voi non può che essere accresciuta. Ma no, non ve lo avevo chiesto e non ve lo chiederò; rivederci, almeno fra molto tempo, non sarebbe forse penoso per voi, insensibile ragazza. Per me, che talora avete creduto tanto indifferente, lo sarebbe molto.
La vita ci ha separati. Avete preso una decisione che giudico molto saggia, e che avete preso nel momento voluto, con una straordinaria preveggenza, giacché siete andata via l'indomani del giorno in cui avevo ricevuto il consenso di mia madre a chiedere la vostra mano. Ve lo avrei detto al mio risveglio, quando ho ricevuto la sua lettera (contemporaneamente alla vostra!). Forse avreste temuto di addolorarmi partendo proprio allora. E avremmo forse unito le nostre vite con un legame che sarebbe diventato per noi, chissà?, l'infelicità. Se questo fosse dovuto succedere, siate benedetta per la vostra saggezza. Rivedendoci, ne perderemmo tutto il frutto. Non che questo non sia per me una tentazione. Ma non ho un gran merito a resisterle. Voi sapete che essere incostante io sia e come dimentichi presto. Perciò, non sono molto da compatire. Me lo avete detto spesso, sono soprattutto un uomo abitudinario. Le abitudini che sto incominciando a prendere senza di voi non sono ancora molto forti.
Evidentemente, in questo momento, quelle che avevo con voi e che la vostra partenza ha turbato, sono ancora le più forti. Non lo saranno più molto a lungo.
Anzi, per questa ragione, avevo pensato di approfittare di questi ultimi giorni, durante i quali vederci non sarebbe ancora per me quel che sarà fra una quindicina di giorni, prima forse (perdonate la mia franchezza): un disturbo -
avevo pensato di approfittarne prima dell'oblio finale, per sistemare con voi certe piccole questioni materiali nelle quali avreste potuto, buona e deliziosa amica, fare un favore a chi si è creduto, per cinque minuti, vostro fidanzato.
Non dubitando dell'approvazione di mia madre, e desiderando del resto che ognuno di noi avesse tutta quella libertà che con tanta amabilità e generosità mi avevate sacrificato - sacrificio ammissibile per una convivenza di qualche settimana, ma che sarebbe diventato odioso a voi quanto a me se avessimo dovuto trascorrere tutta la vita insieme (mi addolora quasi, scrivendovi, pensare che c'è mancato poco che questo avvenisse, che non è successo per pochi secondi) avevo pensato di organizzare la nostra esistenza nel modo più indipendente possibile, e per cominciare avevo voluto che aveste quello yacht con cui avreste potuto viaggiare mentre io, troppo sofferente, vi avrei aspettato al porto; avevo scritto a Elstir per chiedergli consiglio, siccome il suo gusto vi piace.
E per gli spostamenti per terra avevo voluto che aveste la vostra automobile personale, assolutamente personale, con cui sareste uscita, avreste viaggiato a vostro piacimento. Lo yacht era già quasi pronto; si chiama, secondo il desiderio da voi espresso a Balbec, il "Cigno". E, ricordandomi che a tutte le altre automobili preferivate la Rolls, ne avevo ordinata una. Ora, visto che non ci vedremo mai più, e non sperando di farvi accettare né l'imbarcazione né l'automobile (a me non servirebbero assolutamente) avevo dunque pensato -
siccome li avevo ordinati ad un intermediario ma dando il vostro nome - che forse potreste, annullando voi l'ordine, evitarmi quello yacht e quella vettura inutili. Ma per questo e per molte altre cose avremmo dovuto discutere insieme.
Ora, credo che, finché sarò capace di riamarvi, e non sarà per molto ancora, sarebbe insensato, per un'imbarcazione a vela e una Rolls-Royce, vederci e compromettere la felicità della vostra vita, giacché ritenete che essa consista nel vivere lontano da me. No, preferisco tenermi la Rolls e anche lo yacht. E
siccome non me ne servirò e molto probabilmente resteranno l'una nel porto, in disarmo, l'altra nell'autorimessa, farò incidere sullo yacht (Dio mio, non oso mettere un nome inesatto e commettere un'eresia che vi potrebbe scandalizzare) quei versi di Mallarmé che tanto amavate:
'Un cygne d'autrefois se souvient que c'est lui Magnifique mais qui sans espoir se délivre Pour n'avoir pas chanté la région où vivre Quand du stèrile hiver a resplendi l'ennui' (5).
Vi ricordate - è la poesia che comincia: 'Le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui'. Ahimè, l'oggi non è più vergine, né bello. Ma chi, come me, sa che ne farà presto un «domani» sopportabile, è assolutamente insopportabile. Quanto alla Rolls, avrebbe meritato piuttosto questi altri versi dello stesso poeta, che, come mi dicevate, vi riuscivano incomprensibili:
'Dis si je ne suis pas joyeux
Tonnerre et rubis aux moyeux
De voir en l'air que ce feu troue Avec des royaumes épars
Comme mourir pourpre la roue
Du seul vespéral de mes chars' (6).
Addio per sempre, mia piccola Albertine, e grazie ancora della bella passeggiata che abbiamo fatta insieme la vigilia della nostra separazione. Ne conservo un buonissimo ricordo.
P. S. Non rispondo a quanto mi dite di certe pretese proposte che Saint-Loup avrebbe fatto a vostra zia (e non credo assolutamente, peraltro, che egli sia in Turenna). Sono cose degne di Sherlock Holmes. Che idea vi fate di me?"
Certo, come un tempo avevo detto ad Albertine: «Non vi amo» perché lei mi amasse, «Dimentico quando non vedo le persone» perché mi vedesse spesso, «Ho deciso di lasciarvi» per prevenire ogni idea di separazione, ora le dicevo «Addio per sempre» perché volevo assolutamente che ritornasse entro otto giorni; le dicevo: «Riterrei pericoloso vedervi» perché volevo rivederla; le scrivevo: "Avete avuto ragione, saremmo infelici insieme", perché vivere separato da lei mi sembrava peggio della morte. Ahimè, quella lettera piena di finzioni, scrivendola per non avere l'aria di tenere a lei (sola fierezza che sopravvivesse del mio antico amore per Gilberte nel mio amore per Albertine) e anche per la dolcezza di dire certe cose che potevano commuovere soltanto me e non lei, avrei dovuto innanzitutto prevedere che potesse avere come risultato una risposta negativa, che riconoscesse cioè quanto io affermavo; che era anzi probabile che fosse così, perché, quand'anche Albertine fosse stata meno intelligente di quanto non fosse, non avrebbe dubitato un istante che quanto le dicevo fosse falso. Senza doversi soffermare, infatti, sulle intenzioni che io enunciavo in quella lettera, il solo fatto che l'avessi scritta, anche se non fosse stato successivo all'iniziativa di Saint-Loup, bastava a provarle che desideravo ritornasse e a consigliarle di farmi abboccare all'amo sempre di più.
Poi, dopo aver previsto la possibilità di una risposta negativa, avrei ugualmente dovuto prevedere che quella risposta mi avrebbe improvvisamente restituito, più vivo che mai, il mio amore per Albertine. E avrei dovuto, sempre prima di spedire la lettera, chiedermi se, qualora Albertine avesse risposto sullo stesso tono, e non fosse voluta tornare, sarei stato abbastanza padrone del mio dolore per costringermi a restare in silenzio, a non telegrafarle: RITORNATE, o a non mandarle qualche altro emissario, dimostrandole in questo modo più che mai apertamente di non poter fare a meno di lei, con il risultato che lei avrebbe rifiutato ancora più energicamente e che, non potendo più sopportare la mia angoscia, sarei andato io da lei e che, forse, non sarei stato ricevuto. E certo, dopo tre enormi sciocchezze, questa sarebbe stata la peggiore di tutte, dopo di che non mi rimaneva altro da fare che uccidermi davanti alla sua casa. Ma la rovinosa costruzione dell'universo psicopatologico vuole che l'atto maldestro, quello che bisognerebbe soprattutto evitare, sia proprio l'atto che acquieta, l'atto che, aprendo a noi, finché non ne conosciamo il risultato, nuove prospettive di speranza, ci libera momentaneamente dal dolore intollerabile che il rifiuto ha fatto nascere in noi. Cosicché quando il dolore è troppo forte, ci buttiamo nella stupidaggine che consiste nello scrivere, nel far rivolgere preghiere da qualcuno, nell'andare a trovare, nel provare che non si può fare a meno della donna amata.
Ma non previdi nulla di tutto ciò. Il risultato di quella lettera mi pareva invece dovesse essere di far tornare Albertine al più presto. Così, pensando a quel risultato, avevo provato una grande dolcezza nello scrivere la lettera. Ma al tempo stesso, scrivendola, non avevo smesso di piangere; prima di tutto un po' come quando avevo recitato la falsa separazione, perché, siccome quelle parole mi raffiguravano l'idea che esse esprimevano per me nonostante tendessero a uno scopo opposto (pronunciate in modo menzognero, per non confessare, per fierezza, che amavo) portavano in sé la loro tristezza, ma anche perché sentivo che in quell'idea c'era del vero.
Sembrandomi certo il significato di quella lettera, rimpiansi di averla spedita.
Perché, nel raffigurarmi il ritorno, tutto sommato così facile, di Albertine, improvvisamente tutte le ragioni che mi prospettavano il nostro matrimonio come una cosa negativa per me, ritornavano con tutta la loro forza. Speravo che si sarebbe rifiutata di tornare. Stavo valutando che la mia libertà, tutto l'avvenire della mia vita erano sospesi al suo rifiuto; che era stata una pazzia scrivere; che avrei dovuto riprendere la lettera, già, ahimè, partita, quando Françoise, nel darmi anche il giornale che aveva portato su, me la restituì. Non sapeva con quanti francobolli dovesse affrancarla. Ma subito cambiai parere; mi auguravo che Albertine non tornasse, ma volevo che quella decisione venisse da lei per porre fine alla mia ansietà, e mi decisi a restituire la lettera a Françoise. Aprii il giornale. Annunciava la morte della Berma. Allora mi ricordai dei due modi diversi in cui avevo ascoltato "Phèdre", e ora immaginai in un terzo modo la scena della dichiarazione. Mi sembrava che quel che avevo tante volte recitato a me stesso e che avevo ascoltato a teatro, fosse l'enunciato delle leggi che dovevo sperimentare nella mia vita. Nel nostro animo ci sono cose che non sappiamo quanto siano importanti per noi. Oppure, se teniamo ad esse, è perché rimandiamo di giorno in giorno per il timore di non riuscire, di entrarne in possesso. E' quanto mi era successo con Gilberte, quando avevo creduto di rinunciare a lei. Se avviene che prima di avere raggiunto un completo distacco, momento questo molto posteriore a quello in cui ci crediamo distaccati, la ragazza che amiamo, per esempio, si fidanzi, perdiamo la ragione, non possiamo più sopportare la vita che ci sembrava così malinconicamente calma. Oppure, se la cosa è in nostro possesso, crediamo che ci sia di peso, che ce ne libereremmo volentieri; è quanto mi era successo con Albertine. Ma se una partenza viene a sottrarci l'essere indifferente, non possiamo più vivere. Ora, l'argomento di "Phèdre" non riuniva forse entrambi i casi? Ippolito sta per partire. Fedra che fino ad allora si è preoccupata di offrirsi alla sua inimicizia, per scrupolo, dice (o, piuttosto, le fa dire il poeta), perché non vede a cosa potrebbe arrivare e perché non si sente amata, Fedra non regge più. Viene a confessargli il proprio amore, e questa è la scena che tante volte mi ero recitata:
"On dit qu'un prompt départ vous éloigne de nous" (7).
Certo il motivo della partenza di Ippolito è secondario, si può pensare, accanto a quello della morte di Teseo. E così pure, quando, qualche verso più in là, Fedra finge per un attimo di essere stata mal compresa:
"...Aurais-je perdu tout le soin de ma gloire" (8),
si può credere che questo avvenga perché Ippolito ha respinto la sua dichiarazione.
"Madame, oubliez-vous
Que Thésée est mon père, et qu'il est votre époux?" (9)
Ma, quand'anche egli non avesse mostrato quella indignazione, Fedra, di fronte alla felicità raggiunta, avrebbe potuto avvertire ugualmente quanto poco valesse. Ma non appena si accorge di non averla raggiunta, e vede che Ippolito crede di avere capito male e si scusa, allora - come me nel restituire la lettera a Françoise - vuole che il rifiuto venga da lui, vuole tentare la sua ultima possibilità:
"Ah! cruel, tu m'as trop entendue" (10).
E perfino le durezze, che mi erano state raccontate, di Swann verso Odette, o le mie verso Albertine, durezze che sostituiscono all'amore anteriore un amore nuovo, fatto di pietà, di intenerimento, di bisogno di effusione, e che altro non è se non una variante del primo, si trovano pure in questa scena:
"Tu me haïssai splus, je ne t'aimais pas moins, Tes malheurs te prêtaient encore de nouveaux charmes" (11).
La prova che "la cura della sua gloria" non è ciò a cui Fedra tiene di più, è che perdonerebbe Ippolito e si sottrarrebbe ai consigli di Enone, se non venisse a sapere proprio allora che Ippolito ama Aricia. A tal punto la gelosia, che in amore equivale alla perdita di ogni felicità, è più sensibile della perdita della reputazione. Allora lei lascia che Enone (che non è altro che il nome della parte peggiore di sé) calunni Ippolito, senza curarsi di difenderlo, e manda così chi non vuoi saperne di lei, incontro a un destino le cui calamità, del resto, non la consolano affatto, giacché la sua morte volontaria segue di poco la morte di Ippolito. In quel modo almeno, riducendo la parte di tutti gli scrupoli «giansenisti» (come avrebbe detto Bergotte) che Racine ha attribuito a Fedra per farla apparire meno colpevole, immaginavo quella scena, come una sorta di profezia degli episodi amorosi della mia esistenza. Quelle mie riflessioni peraltro non avevano modificato in nulla la mia determinazione, e porsi la mia lettera a Françoise perché finalmente la imbucasse, per operare presso Albertine quel tentativo che mi sembrava indispensabile da quando ero venuto a sapere che non era stato compiuto. E certo, abbiamo torto di credere che la realizzazione del nostro desiderio sia poca cosa, giacché non appena crediamo sia irraggiungibile, vi teniamo di nuovo, e consideriamo che non valesse la pena di inseguirlo se non quando siamo certi di essercelo assicurato. E tuttavia si ha ugualmente ragione. Perché, se quell'appagamento, se la felicità ci sembrano poca cosa quando abbiamo la certezza di ottenerli, sono tuttavia qualcosa di instabile da cui possono nascere solo affanni. E gli affanni saranno tanto più gravi quanto più completo sarà stato l'appagamento del desiderio, tanto più impossibili da sopportare quanto più la felicità sarà stata, contro ogni legge di natura, prolungata per un certo tempo, e avrà ricevuto la consacrazione dell'abitudine. Anche in un altro senso, le due tendenze, e in questo caso particolare, quella che mi induceva a volere che la lettera partisse, e quando la credevo partita, a rimpiangerlo, posseggono entrambe la loro verità in se stesse. Quanto alla prima, è assolutamente comprensibile che noi corriamo dietro alla nostra felicità - o alla nostra infelicità - e che al tempo stesso desideriamo porre davanti a noi, grazie a quella nuova azione che sta per sviluppare le sue conseguenze, un'attesa che non ci lasci nella disperazione assoluta; che noi cerchiamo, insomma, di far passare attraverso altre forme, che immaginiamo debbano essere per noi meno crudeli, il male di cui soffriamo. Ma l'altra tendenza non è meno importante, giacché, nata dalla fede nel successo della nostra iniziativa, è soltanto l'inizio, l'inizio anticipato della delusione che ben presto proveremo di fronte all'appagamento del desiderio, il rimpianto di aver fissato per noi, a danno di altre che si trovano ad esserne escluse, quella forma di felicità. Avevo dato la lettera a Françoise dicendole di andare presto a imbucarla. Appena partita la lettera, immaginai di nuovo come imminente il ritorno di Albertine. E allora si affollarono nel mio pensiero immagini gradevoli che neutralizzavano un po', con la loro dolcezza, i pericoli che vedevo in quel ritorno. La dolcezza, da tanto tempo perduta, di averla con me, mi inebriava.
Il tempo passa, e a poco a poco tutte le bugie che si dicevano diventano verità, lo avevo sperimentato anche troppo con Gilberte; l'indifferenza da me simulata quando non la smettevo di singhiozzare aveva finito col diventare realtà; a poco a poco la vita, come dicevo a Gilberte con una formula menzognera e che retrospettivamente si era rivelata vera, la vita ci aveva divisi. Me lo ricordavo. Mi dicevo: «Se Albertine lascia passare qualche mese, le mie bugie diventeranno verità. E ora che il più duro è passato, non sarebbe auspicabile che lasciasse trascorrere questo mese? Se torna, dovrò rinunciare alla vita vera che, certo, non sono ancora in grado di assaporare, ma che progressivamente potrà cominciare ad avere un certo fascino per me, mentre il ricordo di Albertine si andrà affievolendo». Non dico che l'oblio non cominciasse a fare la sua opera. Ma col far sì che molti degli aspetti sgradevoli di Albertine, delle ore noiose che passavo con lei, non si presentassero più alla mia memoria, cessando dunque di essere dei motivi di desiderare la sua assenza, come la desideravo quando era ancora con me - uno degli effetti dell'oblio era appunto di darmi di lei un'immagine sommaria, abbellita dall'amore che avevo provato per altre persone. Sotto quella forma particolare, l'oblio, che pur concorreva a farmi abituare alla separazione, mi faceva desiderare maggiormente il suo ritorno, mostrandomi un'Albertine più dolce, più bella.
Da quando se n'era andata, quando mi sembrava fosse impossibile accorgersi che avevo pianto, chiamavo Françoise e le dicevo: «Bisognerà controllare se la signorina Albertine non abbia dimenticato qualcosa. Pensate a fare la sua stanza perché sia in ordine quando verrà». O semplicemente: «L'altro giorno, appunto, la signorina Albertine mi diceva, ecco, proprio il giorno prima della sua partenza...». Volevo far diminuire in Françoise l'insopportabile piacere che l'assenza di Albertine le procurava facendole intravedere che sarebbe stata di breve durata; volevo anche mostrare a Françoise che non temevo di parlare di quella partenza, volevo - come sono soliti fare certi generali che chiamano ritirate strategiche conformi a piani prestabiliti un arretramento forzato -
farla apparire come voluta, come un episodio di cui tenessi segreto momentaneamente il vero significato, non certo come la fine della mia amicizia per Albertine. Nominandola continuamente, volevo infine far entrare, come un po'
d'aria, qualcosa di lei in quella stanza, dove la sua partenza aveva fatto il vuoto e dove non respiravo più. E poi, si cerca di diminuire le proporzioni del proprio dolore, facendolo entrare nel linguaggio parlato fra l'ordinazione di un vestito e le disposizioni per il pranzo. Riordinando la stanza di Albertine, Françoise, curiosa com'era, aprì il cassetto di un tavolino in legno di rosa in cui la mia amica riponeva gli oggetti personali che non portava con sé quando dormiva. «Oh! signore, la signorina Albertine ha dimenticato di prendere i suoi anelli, sono rimasti nel cassetto.» Il mio primo impulso fu di dire: «Bisogna mandarglieli». Ma avrei dato l'impressione di non essere certo del suo ritorno.
«Bene», risposi, dopo un attimo di silenzio, «non ne vale la pena per quel po'
di tempo che starà via. Datemeli, vedrò.» Françoise me li consegnò con una certa diffidenza. Detestava Albertine, ma, giudicandomi secondo il suo modo di essere, immaginava che non si potesse consegnarmi una lettera scritta dalla mia amica senza il timore che io l'aprissi. Presi gli anelli. «Il signore stia attento a non perderli, disse Françoise, si può ben dire che sono belli! Non so chi glieli abbia regalati, se il signore o qualcun altro, ma deve essere una persona ricca e di buon gusto! - Non sono stato io, risposi a Françoise, e del resto non provengono dalla stessa persona: uno glielo ha regalato la zia e l'altro lo ha comprato lei. - Non provengono dalla stessa persona! esclamò Françoise, il signore vuole scherzare, sono identici, a eccezione del rubino che si trova su un anello, c'è la stessa aquila su tutti e due, le identiche iniziali all'interno.» Non so se Françoise avvertisse il male che mi faceva, ma cominciò ad accennare un sorriso che non lasciò più le sue labbra. «Come, la stessa aquila? Siete pazza. Su quello senza rubino c'è effettivamente un'aquila, ma sull'altro è cesellata una specie di testa d'uomo. - Una testa d'uomo? Ma dove l'ha vista, il signore? Anche solo con i miei occhiali ho visto subito che era una delle ali dell'aquila, il signore prenda la lente d'ingrandimento, e vedrà l'altra ala sull'altro lato, la testa e il becco al centro. Si vede ogni piuma.
Ah! è un bel lavoro.» L'ansioso bisogno di sapere se Albertine mi avesse mentito mi fece dimenticare che avrei dovuto mantenere una certa dignità di fronte a Françoise e negarle il perfido piacere che provava, se non nel torturarmi, almeno nel nuocere alla mia amica. Ansimavo mentre Françoise andava a cercare la mia lente. La presi, chiesi a Françoise di mostrarmi l'aquila sull'anello col rubino; non ebbe difficoltà a farmi riconoscere le ali, stilizzate esattamente come sull'altro anello, il rilievo di ogni piuma, la testa. Mi fece anche notare delle iscrizioni simili, alle quali, è vero, erano aggiunte delle altre nell'anello col rubino. E, all'interno di entrambe, le iniziali di Albertine.
«Mi stupisce, però, che il signore abbia avuto bisogno di tutto questo per vedere che era un anello identico, mi disse Françoise. Anche senza osservarli da vicino, si distingue lo stesso lavoro, lo stesso modo di piegare l'oro, la stessa forma. Solo a guardarli, avrei giurato che avevano la stessa provenienza.
Si riconosce come la cucina di una brava cuoca.» E infatti, alla sua curiosità di domestica ravvivata dall'avversione e avvezza a notare i particolari con una spaventosa precisione, si era aggiunto, per aiutarla in quella valutazione, il suo gusto personale, quello stesso gusto infatti che dimostrava nella cucina e che forse, come mi ero reso conto partendo per Bal-bec, nel suo modo di vestire, era sollecitato dalla sua civetteria di donna che è stata bella, che ha osservato i gioielli e i vestiti delle altre donne. Se avessi sbagliato scatola di medicine e, invece di prendere qualche compressa di veronal, un giorno in cui avessi bevuto troppe tazze di tè, ne avessi prese altrettante di caffeina, il mio cuore non avrebbe potuto battere con più violenza. Chiesi a Françoise di uscire dalla stanza. Avrei voluto vedere Albertine immediatamente. All'orrore per la sua menzogna, alla gelosia nei confronti di uno sconosciuto, si aggiungeva il dolore che si fosse lasciata fare dei regali. Io gliene facevo di più, è vero, ma una donna che manteniamo noi non ci appare una mantenuta fin quando non sappiamo che lo è da altri. E tuttavia, siccome non avevo smesso di spendere tanto denaro per lei, l'avevo presa nonostante quella bassezza morale; quella bassezza l'avevo mantenuta in lei, l'avevo forse accresciuta, forse creata. Poi, giacché abbiamo il dono di inventarci delle favole per consolare il nostro dolore, come riusciamo, quando moriamo di fame, a convincerci che uno sconosciuto stia per lasciarci in eredità una fortuna di cento milioni, immaginai che Albertine, fra le mie braccia, mi spiegasse senza troppe parole di aver comprato l'altro anello per via della rassomiglianza della manifattura, e che era stata lei a farvi incidere le proprie iniziali. Ma quella spiegazione era ancora fragile, non aveva ancora avuto il tempo di piantare le sue benefiche radici nella mia mente, e il mio dolore non poteva placarsi tanto presto. E
pensavo che tanti uomini che vantano agli altri la grazia della propria amante, soffrono torture simili. Così, mentono agli altri e a se stessi. Non mentono però completamente; trascorrono con la propria donna ore veramente dolci; ma pensate a quante ore sconosciute nasconde quella dolcezza che l'amante dimostra loro davanti agli amici e che è per essa motivo di glorificazione; quella dolcezza che sa avere quando è sola con il proprio amante e che consente a questi di benedirla; ore sconosciute in cui l'amante ha sofferto, dubitato; ore di inutili ricerche, per conoscere la verità! A simili sofferenze è legata la dolcezza d'amare, di lasciarsi incantare dai discorsi più insignificanti di una donna, di cui si conosce bene la futilità, ma che ci sembra emanino il suo profumo. In quel momento, non potevo più deliziarmi a respirare col ricordo quello di Albertine. Prostrato, con i due anelli in mano, guardavo quell'aquila spietata il cui becco mi attanagliava il cuore, le cui ali dalle piume in rilievo avevano strappato la fiducia che riponevo nella mia amica, e sotto i cui artigli la mia mente straziata non poteva sottrarsi neppure per un istante agli interminabili interrogativi riguardanti quello sconosciuto di cui certo l'aquila simboleggiava il nome senza tuttavia lasciarmelo leggere, che certo lei aveva amato un tempo e che certo aveva rivisto non tanto tempo prima, perché il giorno in cui le avevo visto per la prima volta il secondo anello, quello dove l'aquila sembrava immergere il becco nella coppa di limpido sangue del rubino, era stato quello, così dolce, così familiare, della nostra passeggiata al Bois.
Del resto, se, dalla mattina alla sera, non smettevo di soffrire per la partenza di Albertine, ciò non significava che pensassi soltanto a lei. Da una parte, avendo il suo fascino pervaso uno a uno oggetti che le erano ormai lontanissimi ma non meno elettrizzati da quella stessa emozione che mi dava, se qualcosa mi faceva pensare a Incarville o ai Verdurin, o a una nuova parte di Léa, un flusso di sofferenza veniva a colpirmi. D'altra parte, quanto a me, quel che io stesso chiamavo pensare ad Albertine, era pensare al modo di farla tornare, di raggiungerla, di sapere cosa facesse. Cosicché se, durante quelle ore di interminabile martirio, un grafico avesse potuto rappresentare le immagini che accompagnavano la mia sofferenza, si sarebbero viste quelle della stazione di Orsay, dei biglietti di banca offerti alla signora Bontemps, di Saint-Loup curvo sul banco inclinato di un ufficio telegrafico, intento a riempire un modello di telegramma per me, mai l'immagine di Albertine. Come in tutto il corso della nostra vita il nostro egoismo vede continuamente davanti a sé i fini preziosi per il nostro io, ma non guarda mai quell'"io" stesso che non smette mai di considerarli, così il desiderio che guida i nostri atti scende verso di essi, ma non risale fino a se stesso, sia che, mirando troppo al suo utile, si precipiti nell'azione e disdegni la conoscenza, sia che ricerchiamo l'avvenire per correggere le delusioni del presente, sia che la pigrizia della mente la spinga a scivolare sul pendio agevole dell'immaginazione piuttosto che a risalire la china scoscesa dell'introspezione. In realtà, in quelle ore di crisi in cui ci giocheremmo tutta la nostra vita, man mano che la persona da cui essa dipende meglio rivela l'immensità del posto che occupa per noi, non lasciando nulla nel mondo che da essa non sia sconvolto, proporzionalmente l'immagine di quell'essere decresce fino a divenire impercettibile. In tutte le cose troviamo l'effetto della sua presenza per l'emozione che proviamo; ma lei stessa, la causa, non la troviamo in nessun luogo. Fui, in quei giorni, talmente incapace di raffigurarmi Albertine, che avrei quasi potuto credere di non amarla; come mia madre, nei momenti di disperazione in cui fu incapace di raffigurarsi mia nonna (tranne una volta, nell'incontro fortuito di un sogno cui ella conferì un così grande valore che, benché addormentata, tentò, con quante forze le rimanevano nel sonno, di farlo durare) avrebbe potuto accusarsi, e si accusava effettivamente, di non rimpiangere la madre, la cui morte la straziava, ma i cui lineamenti sfuggivano alla sua memoria.
Perché avrei dovuto credere che ad Albertine non piacessero le donne? Perché aveva detto, soprattutto negli ultimi tempi, che non le piacevano; ma la nostra vita non riposava forse su una perpetua menzogna? Mai mi aveva detto, neanche una volta: «Perché non posso uscire liberamente? perché chiedete agli altri cosa faccia?». Ma era, effettivamente, una vita troppo singolare perché lei non me ne avesse chiesto la ragione, se l'avesse capita. E al mio silenzio sulle cause della sua clausura, non era comprensibile che da parte sua corrispondesse uno stesso e costante silenzio sui suoi perpetui desideri, sui suoi ricordi innumerevoli, sui suoi innumerevoli desideri e speranze? Françoise aveva l'aria di sapere che mentivo quando alludevo all'imminente ritorno di Albertine. E la sua convinzione sembrava fondata su qualcosa di più di quella verità che abitualmente guidava la nostra domestica, cioè che ai padroni non piace essere umiliati di fronte ai propri servitori, e che della realtà essi fan conoscere loro solo ciò che non si allontana troppo da una finzione lusinghiera, atta a salvaguardare il rispetto. Questa volta, la convinzione di Françoise sembrava fondata su qualcos'altro, come se fosse stata lei a suscitare, ad alimentare la diffidenza nell'animo di Albertine, a sovreccitare la sua collera, come se l'avesse, insomma, spinta al punto da prevedere come inevitabile la sua partenza. Se questo era vero, la mia versione di una partenza temporanea, da me conosciuta e approvata, aveva potuto solo trovare incredulità in Françoise. Ma l'idea che lei si faceva della natura interessata di Albertine, l'esagerazione con cui, nella sua avversione, ingigantiva il «profitto» che, secondo lei, Albertine ricavava da me, potevano in qualche maniera minare la sua certezza.
Così, quando davanti a lei alludevo, come a una cosa del tutto naturale, al ritorno imminente di Albertine, Françoise mi guardava in viso (allo stesso modo in cui, quando, per provocarla, il maggiordomo le leggeva, cambiando le parole, una notizia politica che esitava a credere - per esempio, la chiusura delle chiese e la deportazione dei preti - lei, dal fondo della cucina e senza poter leggere, guardava istintivamente e avidamente il giornale) come se avesse potuto vedermelo scritto davvero in volto, e capire se invece non inventassi tutto.
Ma quando Françoise vide che dopo avere scritto una lunga lettera, vi apponevo l'indirizzo della signora Bontemps, crebbe allora in lei il terrore, tanto vago fino ad allora, che Albertine potesse ritornare. Ad esso si aggiunse una vera e propria costernazione quando, una mattina, dovette consegnarmi, con la posta, una lettera sulla cui busta aveva riconosciuto la calligrafia di Albertine. Si chiedeva se la partenza di Albertine non fosse stata soltanto una commedia, supposizione che l'affliggeva doppiamente, in quanto comportava con certezza la definitiva sistemazione di Albertine in casa, e per me, quale suo padrone, l'umiliazione di essere stato preso in giro da Albertine. Per quanto fossi impaziente di leggere quella lettera, non riuscii a fare a meno di considerare per un attimo gli occhi di Françoise da cui ogni speranza era svanita, arguendo da quell'auspicio l'imminenza del ritorno di Albertine, come un appassionato di sport invernali conclude con gioia che il freddo è vicino, se vede partire le rondini. Finalmente Françoise uscì e quando mi fui assicurato che avesse richiuso la porta, aprii senza far rumore, per non aver l'aria di essere troppo ansioso, la lettera seguente: "Amico mio, grazie di tutte le belle cose che mi dite, sono ai vostri ordini per disdire l'acquisto della Rolls se credete che io possa far qualcosa, e lo credo. Dovete solo scrivermi il nome dell'intermediario. Vi lascereste imbrogliare da quella gente che cerca una cosa sola: vendere; e che ve ne fareste di un'automobile, voi che non uscite mai?
Sono molto commossa che abbiate conservato un buon ricordo della nostra ultima passeggiata. Credete che, per quel che mi riguarda, non dimenticherò quella passeggiata due volte crepuscolare (perché scendeva la notte e perché noi stavamo per lasciarci) e che solo la notte definitiva potrà cancellare dalla mia vita".