KARL MARX
Isaiah Berlin
Recensione
[...] Marx non aveva da offrire all’umanità nessun nuovo ideale etico o sociale; non chiedeva una trasformazione della sensibilità morale, che necessariamente avrebbe costituito la sostituzione di una serie d’illusioni con un’altra. Egli era diverso dagli altri grandi pensatori della sua generazione perché intendeva appellarsi unicamente alla ragione, all’intelligenza pratica, perché condannava solo la disonestà o la cecità intellettuale, perché affermava che gli uomini, per trovare il modo di sfuggire al caos nel quale sono coinvolti, dovrebbero semplicemente sforzarsi di prendere coscienza della loro situazione reale, essendo convinto che da una esatta valutazione del rigoroso equilibrio delle forze operanti nella società a cui gli uomini appartengono deriva necessariamente l’indicazione della forma di vita che conviene seguire razionalmente[...]
Apparso per la prima volta nel 1939 il libro di Isaiah Berlin su Karl Marx non è soltanto una brillante biografia intellettuale e politica di Marx, ma anche una chiara ed efficace sintesi del suo pensiero, ricostruito non solo e non tanto nella sua complessa e difficile evoluzione interna ma anche e soprattutto nel suo fondamentale e sempre vivo rapporto con le grandi correnti filosofiche, sociali e politiche del XIX secolo destinate a segnare la storia della civiltà e della cultura europee.
Karl Marx? Chi era? per Isaiah Berlin è stato «un precursore della austera generazione dei rivoluzionari di professione (…); tra i grandi fondatori autoritari di nuove religioni, tra gli spietati sovvertitori e innovatori di un mondo che interpretano in funzione di un unico, chiaro principio, appassionatamente difeso, smascherando e distruggendo tutto ciò che contrasta con esso». Non può non venire alla mente, per analogia, quanto Berlin scriverà in uno dei suoi testi più famosi (Il riccio e la volpe del 1951), usando parole pressoché identiche, quando, dividendo scrittori, pensatori e gli uomini stessi in due grandi categorie, i ricci e le volpi, sosterrà che alla prima di esse appartengono quanti «riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire - un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono», mentre alla seconda appartengono coloro che «perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto, per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificati da un principio morale o estetico». Eppure, elencando i ricci, fra i quali Dante, Platone, Hegel, Dostoevskij, Berlin non inserisce proprio Marx. Dimenticanza?
Karl Marx è un po’ riccio e un po’ volpe. Questa la sintesi di Berlin, che pure non simpatizza: significa che da una parte sta la tendenza ad approfondire una nuova conoscenza, ossia la tendenza ad una visione equilibrata del riccio; dall’altro, la ricerca delle contraddizioni di una volpe ci aiuterebbe ad aumentare i nostri limiti nel ragionamento. Berlin soprattutto nei due capitoli conclusivi quando improvvisamente il modello di sviluppo industriale che ha funzionato come codice culturale nella costruzione del suo opus magnum, Il Capitale, non funziona più come codice universale.
In un’intervista del 1992 che aveva come riferimento una conferenza del 1958 sulla libertà nella quale viene indicato a chiare lettere il motivo conduttore della ricerca, già a partire dal 1933: l’«indignazione per tutti gli inganni dei marxisti, per tutte quelle chiacchiere sulla “vera libertà”, per il gergo stalinista e comunista della “libertà autentica” (…) È il nemico che mi interessa». Il nemico è Marx.
Berlin non nasconde quindi il suo scetticismo nei confronti delle proposte di Marx, ma non si comprenderebbe il suo interesse per una figura e un pensiero che pure non condivide, se non in relazione a un tempo storico in cui scrive.
Gli anni tra le due guerre, soprattutto gli anni ‘’30, sono quelli che acquistano anche un sapore di sfida rispetto a Marx. Non è come rispondere alla crisi economica, ma è soprattutto la forza dei testi e della riflessione critica che impone Marx come tema. In quegli anni, infatti, si registrano due flussi di produzione che innervano gran parte delle pagine di Berlin.
Sono quelli gli anni in cui dagli archivi emergono nuove pagine di Marx che obbligano anche i suoi critici più radicali a confrontarsi con l’improvvisa ricchezza dei suoi percorsi di studi.
Tra il 1927 e il 1939 infatti è pubblicata (ma gli studiosi ne verranno a conoscenza solo nel 1953) una prima versione dei Grundrisse (Lineamenti di critica dell’economia). Verranno pubblicati in forma ristretta e nel 1941. Il primo vero e proprio lancio sarà nel 1953. Ancora nel 1932 escono i carteggi di Marx e Engels con Bebel, Liebknecht, Kautsky. Nel frattempo nel 1927 esce la Critica alla filosofia del diritto dio Hegel,, mentre del 1932 sono i Manoscritti economico-filosofici ad essere pubblicati per la prima volta e una a prima versione de L’ideologia tedesca.
Ma quelli sono anche gli anni in cui si rimettono in discussione piattaforme consolidate di lettura. Nel 1923 György Lukács pubblica Storia e coscienza di classe; nello stesso anno Korsch pubblica Marxismo e filosofia. Nel 1926 Henri de Man pubblica Au de la du marxisme. Alexandre Kojève tra il 1931 e il 1938 propone una lettura una rilettura del rapporto Hegel/Marx. Ernst Bloch inaugura una lettura in cui il dato materiale (ciò che chiama “la materia”) risulta relativizzato dal tempo che la accoglie (il fronte”) e dal “novum” della sua futura possibilità.
Così il tentativo di far dialogare marxismo russo e sovietico con marxismo occidentale, quale stanno alla base del tentativo intrapreso da Bucharin con il suo Teoria del materialismo storico (1921) si scontrano con i nuovi approcci che iniziano a prendere forma in Occidente come quelli che tendono a scoprire una dimensione della creatività della teoria non della consolazione della ideologia.
La monografia di Berlin sta lì ed è anche il risultato di una curiosità intellettuale di una figura che non si lascia condizionare dalle proprie convinzioni. Anche questo, forse, contribuisce a fare di Karl Marx, un libro che resiste al tempo.
Il libro
«Nessun pensatore del secolo scorso ha avuto un’influenza così diretta, meditata e profonda ’sull’umanità quanto quella esercitata dai Karl Marx». L’incipit di questo libro ha la cadenza perentoria del dato acquisito, eppure registra un paradosso: Marx non possedeva né «le qualità che fanno un grande capo» (come Herzen), né la «meravigliosa eloquenza» di Bakunin, né un qualsivoglia tratto che suscitasse l’«intensa, quasi religiosa, venerazione dei discepoli» (come Kossuth o Mazzini). Muovendo da questo enigma, Berlin ripercorre magistralmente gli eventi esterni della biografia di Marx e gli aspetti salienti della sua formazione intellettuale: la mediazione tra l’empirismo scientifico dei francesi e lo storicismo metafìsico dei tedeschi; il peso decisivo della critica della religione; la passione divorante per la letteratura. E ci fa via via scoprire come Marx, pensatore «dogmatico e pedante», interessato più alle teorie che agli uomini, sia tuttavia riuscito a cogliere lucidamente gli effetti dell’economia e dell’ideologia sulla società, inquadrandoli in una serie di prognosi di impressionante esattezza, a partire da quella sull’influenza decisiva dei mutamenti tecnologici e del capitale finanziario. Quello di Berlin è dunque un Marx opportunamente depurato da ogni presunta ortodossia - aderente al suo celebre autoritratto: «Quel che è certo è che io non sono un marxista».
Di Isaiah Berlin (1909-1997) Adelphi ha in catalogo dodici titoli. Karl Marx, il suo primo libro, è apparso in origine nel 1939. Per più ampi ragguagli sull’attività di Berlin si rinvia ai siti https://isaiah-berlin.wolfson.ox.ac.uk/ e https://berlin.wolf.ox.ac.uk/
PREFAZIONE DEL CURATORE ALLA QUINTA EDIZIONE
L’ammirevole abilità dell’autore nel tradurre molte nozioni astruse e oscure del marxismo in un linguaggio chiaro, e il suo virtuosismo nel rivelare le connessioni tra personalità, caratteri, mentalità da una parte e questioni dottrinali dall’altra, non hanno eguali nella letteratura esistente.
LESZEK KOLAKOWSKI1
I
La presente biografia intellettuale di Karl Marx, pubblicata per la prima volta nel 1939, è da tempo riconosciuta come uno dei migliori resoconti brevi della vita e del pensiero di un uomo le cui dottrine Berlin descrive, nelle parole conclusive del volume, come «la più potente tra le forze intellettuali che stanno operando una trasformazione permanente del modo in cui gli uomini pensano e agiscono». Con la sua celebrata capacità di immedesimarsi in coloro di cui non condivide le opinioni, Berlin entra nella mente del suo oggetto e ci mostra la vista dall’interno:2 senza tecnicismi, e senza l’oscurità di gran parte della prosa dello stesso Marx, egli presenta e illustra le idee di Marx, le loro origini e la loro potenza.
I recensori della prima edizione intuirono immediatamente le virtù del libro. Lo storico della Russia Richard Charques lo definì «un modello di chiarezza e obiettività».3 Lo storico britannico A.L. Rowse scrisse: «L’atteggiamento di Berlin verso il suo oggetto è esemplare, e nel complesso è la miglior introduzione di cui disponiamo... La grande qualità del libro è la sua assenza di parti pris, il suo approccio completamente imparziale e obiettivo. Di conseguenza esso rende Marx intelligibile, sia come persona sia come pensatore; e senza alcuna indebita ammirazione».4
Quaranta anni più tardi il verdetto è egualmente positivo, e lo testimonia il succitato giudizio di Leszek Kolakowski - una delle massime autorità del XX secolo su Marx e il marxismo. Inoltre, come il lettore potrà apprezzare da questa nuova edizione (la prima in trentacinque anni), la sintesi di Berlin è rimasta fresca e convincente sino a oggi, sorprendentemente intatta - non da ultimo in virtù dell’imparzialità elogiata dai recensori - dal fiume di studi su Marx che è apparso da quando uscì per la prima volta.
II
Il libro, quindi, è ancora attuale e non dà mostra di voler essere soppiantato quale una delle più riuscite introduzioni a un argomento di cruciale importanza ma notoriamente ostico. Eppure, anche dopo la comparsa di quattro edizioni successive curate dall’autore stesso in un periodo di oltre quarantanni, rimanevano alcuni problemi testuali non indifferenti che andavano risolti. Per spiegare che cosa intendo con questo, sono costretto a una breve nota autobiografica.
La precedente edizione del libro è apparsa nel 1978. Come redattore della Oxford University Press, io ero responsabile di sovrintenderne la pubblicazione. All’epoca ero anche nel bel mezzo della curatela (non sotto il cappello della OUP) delle quattro raccolte dei saggi di Berlin, originariamente pubblicati con il titolo collettivo di Selected Writings, con i quali prese avvio il mio lavoro, tuttora in corso, sui suoi testi. Non rientrava nei miei compiti, in quel periodo, dare al Karl Marx l’attenzione di cui tutte le sue opere avevano bisogno per trasformare - come egli stesso ebbe a dire, con caratteristica quanto immotivata autodenigrazione - «delle mere belles-lettres in lavori accademici».5 Ma sapevo, dalla mia esperienza con i suoi altri scritti, che quel bisogno sussisteva. Fu allora che divenni consapevole che anche questo testo, un giorno o l’altro, avrebbe dovuto essere curato nello stesso spirito. Le citazioni erano prive di riferimenti bibliografici, talvolta erroneamente attribuite, e spesso alquanto approssimative o peggio, a cominciare dall’epigrafe di Joseph Butler che conteneva almeno tre imprecisioni in ventitré parole. La punteggiatura era spesso erratica, e c’erano molti altri difetti minori di forma e sostanza che i precedenti editori avrebbero dovuto individuare, e che chiedevano di essere eliminati.
Non voglio esagerare: questo è ancora sostanzialmente lo stesso libro. Ma perché non si pensi che i difetti a cui ho alluso siano affatto insignificanti, vorrei portare un esempio (estremo, lo ammetto) che rivela quanto potesse essere inaffidabile la penna di Berlin. Sebbene questa inaffidabilità di rado rendesse gravemente fuorviante ciò che egli scriveva, e sebbene in certi casi i suoi errori possano essere ritenuti veniali se si tengono in considerazione le condizioni bibliografiche e tecnologiche relativamente povere in cui lavorava (senza contare gli standard accademici poco rigorosi che prevalevano negli anni Trenta),6 è innegabile che, come gli stessi Marx ed Engels, non sempre riuscisse a garantire che le sue citazioni e, se pure li forniva, i suoi riferimenti bibliografici fossero accurati.
Nelle precedenti edizioni di questo libro, il paragrafo alle pagine 284-85 del presente volume, che inizia con «Questo eccezionalismo inglese», era così formulato:
In Inghilterra - egli scrisse - il lungo periodo di prosperità ha demoralizzato i lavoratori... Sembra che lo scopo finale di questo borghesissimo paese sia la creazione di un’aristocrazia borghese e di un proletariato borghese a fianco della borghesia... L’energia rivoluzionaria dei lavoratori britannici è colata via a goccia a goccia... Dovrà passare molto tempo prima che essi possano scuotersi di dosso l’infezione borghese... Hanno perduto completamente l’ardore dei vecchi cartisti.7
Berlin vi presentava questi passi come se fossero tratti dallo stesso testo (senza specificarne la natura, il destinatario o la data). In realtà, come si legge alle pagine 284-85, ciascuno dei cinque passi separati dai puntini di sospensione proviene da una lettera diversa, tre da Engels a Marx, due da Marx a Engels, che coprono tra loro un periodo di oltre dieci anni. Dobbiamo riconoscere a Berlin (presumibilmente) il merito di aver messo assieme questi passi da fonti differenti, avendo scorto ciò che avevano in comune e che cosa rivelavano. Ma dobbiamo anche censurarlo: forse in questo caso nulla di cruciale è stato messo a repentaglio dalla sua negligenza accademica, ma merita di essere corretto, anche solo per una questione di principio.
III
La revisione e ripubblicazione del libro per la Princeton University Press in questa quinta edizione ha fornito l’occasione e lo stimolo per mettere finalmente mano al necessario lavoro di correzione del testo e dei riferimenti bibliografici. L’uscita di edizioni rivedute di molte delle opere citate da Berlin (per non parlare della trasformazione apportata da internet al lavoro accademico) ha reso più facile garantire la fedeltà ai testi originali. Alcuni di questi, peraltro, pur essendo stati scritti in inglese, vennero ritradotti da Berlin a partire da edizioni in altre lingue - le sole a cui avesse accesso mentre lavorava al libro. In aggiunta, il completamento dell’edizione inglese dei Collected Works di Marx ed Engels, disponibile sia a stampa sia online, consente di adottare un metodo unico per citare questi due autori, rinviando al volume e alla pagina (così: CW, vol. XX, p. 45).8
Berlin traduce spesso in maniera piuttosto creativa. Dove la sua versione non era irragionevolmente imprecisa, di norma non è stata modificata per allinearla a quella dei CW; dove era palesemente errata, o dove una diversa traduzione è diventata invalsa, si è scelto di adottare la versione dei CW.
La profonda conoscenza dimostrata da Terrell Carver della gran parte dei testi citati da Berlin ha accelerato il processo della loro identificazione, referenziazione, controllo e correzione, e io gli sono assai grato per la sua sempre allegra ed efficiente assistenza. I miei ringraziamenti vanno anche ad altri colleghi e studiosi che mi hanno aiutato su singoli punti: Shlomo Avineri, Al Bertrand, John Callow, Joshua L. Cherniss, Georgina Edwards, Steffen Groß, Nick Hall, Jürgen Herres, Helen O’Neill, Ulrich Pagel, Tatiana Pozdnyakova, Jürgen Rojahn, Norman Solomon, Simon Toubeau e Josephine von Zitzewitz.
Le note al piede in questa edizione sono redazionali, eccetto nei casi in cui l’autore abbia relegato in nota un suo commento. Dovrebbe risultare evidente quali siano le note autoriali, ma, a scanso di equivoci, le note redazionali che travalicano il mero riferimento bibliografico sono racchiuse tra parentesi quadre.
Della prima edizione del libro sopravvivono un certo numero di stesure preliminari e alcuni appunti di ricerca, che mostrano come il testo si sviluppò durante il percorso fino alla pubblicazione. Un fattore in campo era il limite di parole imposto dai curatori della collana in cui apparve - la Home University Library - che costrinse Berlin a operare sostanziosi tagli al testo originale.9 Verso la fine del suo processo di revisione, scrisse all’amica Cressida Bonham Carter: «Devo finire il mio Marx, di cui mi restano solo 7000 parole da tagliare: un lavoro assolutamente odioso, ogni sera verso qualche goccia di sangue e poi misuro la coppa. I passi più fioriti non ci sono più, rimangono i nudi fatti, ma qui subentra lo spirito di vendetta e li elimino senza pietà».10
Altre tre edizioni apparvero durante la vita di Berlin, sebbene le aggiunte apportate in una ristampa del 1960 (previste in origine per una traduzione tedesca del 1959) avrebbero reso più appropriato definire quella una nuova edizione, anziché il testo solo leggermente modificato del 1948; ma il passaggio dalla Thornton Butterworth alla Oxford University Press avvenuto quell’anno suggerì naturalmente tale decisione. I lettori interessati alla storia del testo, prima e dopo la sua prima edizione, sono invitati a visitare la Isaiah Berlin Virtual Library, dove sono raccolte le informazioni su questo argomento, incluso il testo integrale della prima edizione nel quale sono stati ripristinati molti dei brani tagliati: si veda <http://berlin.wolf.ox.ac.uk/ published-works/>.
Berlin dedicò il Karl Marx: His Life and Environment,11 come il libro è stato conosciuto sino a oggi, ai suoi genitori, Marie e Mendel Berlin, che gli diedero la vita e crearono l’ambiente nel quale egli si formò. Questa edizione è dedicata alla loro memoria.
Heswall, agosto 2012 H.H.
1. Plauso alla quarta edizione [I. Berlin, Karl Marx: His Life and Environment, Oxford University Press, New York - London, 1978. N.d.R.].
2. Questo dono ventriloquistico lasciò interdetti i suoi lettori, e non per la prima volta, su dove esattamente corresse il confine tra Γ esposizione delle opinioni del suo oggetto e l’espressione delle proprie. Il 29 ottobre 1939, poco dopo la pubblicazione del libro, un’amica di Berlin, Mary Fisher, scrisse all’amica Flora Russell: «Ti ho raccontato che domenica scorsa Corinne e io abbiamo incontrato il Sig. e la Sig.ra Berlin père et mère, e che la Sig.ra B. è stata costretta a confessare che ogni fine settimana il Sig. B. le legge il libro ad alta voce, e lei a intervalli lo interrompe per chiedere: “Questo è Marx o è Shaya? [forma familiare di ‘Isaiah’] ”, e lui la rassicura: “No, no - questo è solo Marx: non è Shaya”?».
3. R.D. Charques, In the name of Marx, in «The Times Literary Supplement», 7 ottobre 1939, p. 570. Scrisse inoltre: «Si potrebbe auspicare che il Sig. Berlin prediligesse periodi più brevi, ma d’altro canto bisogna ammettere che la precisione ricercata e quasi neo-augustea del suo stile non è priva di fascino».
4. A.L. Rowse, in «The Political Quarterly», XI, 1, gennaio 1940, pp. 127-30, citazione a p. 128.
5. Frase citata in una lettera di Pat Utechin, segretaria di Berlin, a Henry Hardy, 12 dicembre 1997.
6. Sui quali cfr. (mutatis mutandis) la mia nota sui riferimenti bibliografici nel XVIII secolo nella mia edizione di I. Berlin, The Roots of Romanticism, Princeton University Press, Princeton, 2a ediz., 2013, p. xxv, nota 2 [trad. it. Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano, 2001, pp. 18-19, nota. N.d.R.].
7. I Berlin, Karl Marx: His Life and Environment, Thornton Butterworth, London, 1939, pp. 241-42.
8. I Collected Works, malgrado il tìtolo, non sono completi, ma Berlin non usò materiali di Marx ed Engels che ne siano rimasti esclusi.
9. Il margine concesso da contratto era inizialmente di 50.000 parole, aumentate nel 1938 a 65.000 in risposta alle suppliche di Berlin. Berlin scrisse 100.000 parole, che poi tagliò fino a 75.000, la lunghezza della prima edizione. Fisher gli aveva detto che «comprimere il libro nel formato della Home University - dalle sue più vaste dimensioni originali, che avevo perorato nel 1936 - “ne avrebbe determinato il successo”» (Isaiah Berlin in una lettera a Noel Annan, 31 agosto 1973).
10. Lettera del 28 agosto 1938, in I. Berlin, Flourishing: Letters 1928-1946, a cura di H. Hardy, Chatto & Windus, London, 2004, p. 280 [trad. it. A gonfie vele. Lettere 1928-1946, Adelphi, Milano, 2008, p. 166. N.d.R.].
11. Ho eliminato il sottotitolo dalla presente edizione. Non si adatta a sufficienza a un libro così ampiamente dedicato alle idee del suo oggetto, anche qualora si intendesse «ambiente» nel senso intellettuale. «Vita e opinioni», forse.
PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE
Ho scritto questo libro quasi quarant’anni fa. Il testo originario era grande oltre il doppio della presente edizione, ma le indeflettibili esigenze della Home University Library mi obbligarono a emendare dal testo buona parte della discussione vertente sui temi di carattere filosofico, economico e sociologico, e a concentrarmi sulla biografia intellettuale di Marx. Da allora, e soprattutto in seguito alle grandi trasformazioni sociali scaturite dalla seconda guerra mondiale che hanno via via coinvolto l’intero pianeta, si è avuta una grande fioritura di studi marxisti. Scritti di Marx all’epoca inediti hanno visto la luce, e in particolare la pubblicazione dei Grundrisse, sorta di bozza preliminare del Capitale, ha esercitato un’influenza decisiva sull’interpretazione del suo pensiero. Inoltre, gli eventi stessi che si sono verificati hanno finito inevitabilmente col mutare l’ottica entro cui inquadrare e valutare l’opera di Marx, un’opera la cui rilevanza per l’attività teorica e pratica dei nostri tempi è riconosciuta finanche dai suoi critici più implacabili. Temi quali il rapporto intercorrente tra le sue idee e quelle di precedenti pensatori, in particolare Hegel (sulla scorta delle nuove interpretazioni del pensiero hegeliano fittamente succedutesi); l’accento posto sulla validità e rilevanza dei suoi primi scritti «umanisti», in parte originato dal desiderio di salvare Marx da interpretazioni e «distorsioni» di stampo staliniano (o, in alcuni casi, da quelle compiute da Plechanov, Kautsky, Lenin e finanche Engels); il crescente divario venutosi a creare tra le interpretazioni «revisioniste» e «ortodosse», soprattutto a Parigi, delle teorie contenute nel Capitale, le discussioni su temi quali quello dell’alienazione, delle sue cause e dei suoi rimedi, soprattutto da parte dei neofreudiani, o della dottrina dell’unità di teoria e pratica avanzata da neo-marxisti di vario conio (e le aspre reazioni alle deviazioni ideologiche perpetrate dagli autori sovietici e dai loro alleati): tutto ciò ha generato una messe di studi critici e interpretativi copiosa e inarrestabile che ha surclassato il dibattito precedente. Se alcune di tali dispute riprendono pedissequamente le polemiche sollevate dagli ex alleati di Marx - i giovani hegeliani, da lui accusati di voler sfruttare e manipolare le spoglie della dottrina hegeliana -, tale dibattito ideologico ha offerto un notevole contributo alla conoscenza e comprensione sia delle idee di Marx che del rapporto tra queste e la storia del nostro tempo.
Nessuno studioso serio di Marx può in buona fede asserire di essere rimasto totalmente estraneo alle aspre polemiche scoppiate, soprattutto nell’arco di quest’ultimo ventennio, in merito al significato e alla validità delle sue principali teorie. Di conseguenza, se oggi dovessi riscrivere un libro sulla vita e le idee di Marx finirei inevitabilmente col produrre un’opera completamente diversa, se non altro perché la mia idea del significato che Marx intese attribuire ad alcuni suoi concetti di fondo quali la scienza della società, il rapporto tra idee e istituzioni e le forze di produzione, e la corretta strategia che i leader del proletariato dovevano seguire nelle varie fasi del suo sviluppo, è in certa misura mutata. Con ciò, naturalmente, non intendo certo affermare di conoscere l’intero campo di studi marxisti. Allorquando mi accinsi a scrivere questo libro, nei primi anni Trenta, ero forse troppo influenzato dalle interpretazioni classiche di Engels, Plechanov, Mehring, su cui il marxismo in quanto movimento venne a fondarsi, oltre che dalla straordinaria (e mai riedita) biografia critica di E.H. Carr.1 Ma non appena iniziai a revisionare il testo, mi accorsi ben presto di come stessi in pratica scrivendo un libro completamente nuovo, più completo e ambizioso, i cui orizzonti superavano di gran lunga i limiti che mi ero imposto. Ritenni dunque che avrei fatto meglio, nelle successive revisioni, a limitarmi a correggere eventuali errori di contenuto e di impostazione, precisando meglio affermazioni troppo generiche, approfondendo uno o due punti trattati in modo superficiale, e apportando solo lievi mutamenti interpretativi.
Marx non è certamente il più limpido degli scrittori, né egli si prefisse mai di elaborare un unico, onnicomprensivo sistema di idee nel senso in cui possono aver aspirato a farlo pensatori quali Spinoza, Hegel o Comte. Chi, come Lukacs, sostiene risolutamente che quanto Marx mirò (e secondo alcuni riuscì) a realizzare fu una radicale trasformazione del modo di pensare, di giungere alla verità, e non la mera sostituzione di un corpo dottrinario con un altro, può facilmente trovare conferma di ciò nelle parole dello stesso Marx; e poiché per tutta la vita egli non smise mai di ripetere che tanto il significato quanto la sostanza di un ideale consistono nell’attività pratica che lo esprime, non sorprende forse che le sue opinioni in merito a un certo numero di concetti-base, anche quelli più originali o influenti, non vengano sviscerate in modo sistematico ma vadano piuttosto dedotte spigolando singoli passi delle sue opere, e soprattutto guardando alle concrete forme di azione che egli evocò o cui dette origine.
Era inevitabile che una dottrina al contempo così radicale e strettamente intrecciata, se non addirittura intimamente connessa, alla pratica rivoluzionaria, producesse un così ampio ventaglio di interpretazioni e strategie, com’ebbe ad accadere già all’epoca di Marx (donde la sua famosa battuta che egli stesso era tutto fuorché un marxista).2 La pubblicazione dei suoi primi saggi, che per tono, enfasi e in alcuni casi contenuto differiscono non poco dai lavori successivi, non solo accrebbe immensamente i motivi di contrasto tra i successivi teorici del marxismo: essa creò aspri conflitti tra e all’interno dei vari partiti socialisti e comunisti nonché, in seguito, tra vari Stati e governi, e ha prodotto una serie di riallineamenti del potere a livello mondiale i quali hanno alterato la storia del genere umano e continueranno probabilmente a farlo. Tale grande fermento, insieme ai dogmi e agli schieramenti ideologici che fungono da fondamento teorico di tali conflitti, va comunque al di là degli scopi che il presente libro si prefigge.
La storia che intendo raccontare è soltanto quella della vita e delle idee del pensatore e militante nel cui nome i partiti marxisti vennero originariamente alla luce in molti paesi, e le idee sulle quali ho focalizzato l’analisi sono quelle che hanno storicamente formato il nucleo centrale del marxismo in quanto dottrina teorica e organizzazione politica. Le vicissitudini del movimento e le idee cui Marx dette origine, gli scismi, le eresie, e i mutamenti di prospettiva che hanno trasformato concetti all’epoca audaci e paradossali in verità acquisite, così come alcune delle sue idee e obiter dicta pre-comuniste hanno acquisito grande preminenza e stimolato il dibattito contemporaneo, non rientrano in linea di massima negli scopi di questo libro.
Desidero inoltre esprimere la mia gratitudine nei confronti di due amici: il professor Leszek Kolakowski, che ha letto il testo e mi ha offerto preziosi suggerimenti dai quali ho tratto enorme profitto; e G.A. Cohen, per i suoi acuti commenti critici e l’incessante incoraggiamento fornitomi. Vorrei inoltre ringraziare Francis Graham-Harrison, che ha riveduto l’indice, e il personale della Oxford University Press per la loro esemplare cortesia e pazienza.
Oxford, 1977
I.B.
1. [E.H. Carr, Karl Marx: A Study in Fanaticism, Dent, London, 1934, ri stampato nel 1938, ma non in seguito].
2. [Engels racconta, in due diverse lettere, due versioni di un commento fatto in francese da Marx al genero Paul Lafargue: 2-3 novembre 1882 a Eduard Bernstein: «Quel che è certo è che io non sono un marxista», CW, vol. XLVI, p. 356; 5 agosto 1890 a Conrad Schmidt: «Tutto quel che so è che io non sono un marxista», CW, vol. XLIX, p. 7] [trad, it. in K. Marx, F. Engels, Lettere. 1880-1883 (marzo), Edizioni Lotta comunista, Milano, 2008; trad. it. in K Marx, F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, vol. XLVIII, 1983. N.d.R.].
I.
INTRODUZIONE
Things and Actions are what they are, and the Consequences of them will be what they will be: Why then should we desire to be deceived?
JOSEPH BUTLER1
Nessun pensatore del secolo scorso ha avuto un’influenza così diretta, meditata e profonda sull’umanità quanto quella esercitata da Karl Marx. L’ascendente intellettuale e morale che egli ebbe sui discepoli negli anni della sua vita e in quelli successivi fu straordinario, anche per l’epoca aurea del nazionalismo democratico, nella quale erano emersi tanti grandi eroi e martiri popolari, tante figure romantiche quasi leggendarie, la cui esistenza e le cui parole dominarono la fantasia delle masse e dettero origine a una nuova tradizione rivoluzionaria in Europa. Tuttavia Marx non potè mai essere considerato una figura popolare nel senso che si attribuisce di solito a quest’espressione: egli non fu certamente in alcun modo uno scrittore o un oratore popolare. Scrisse moltissimo ma, finché fu in vita, le sue opere non ebbero larga diffusione, e anche quando, alla fine degli anni Settanta, iniziarono a raggiungere il vastissimo pubblico che alcune di esse avrebbero in seguito conquistato, il loro prestigio fu dovuto non tanto a un’intrinseca autorità intellettuale quanto all’ampliarsi della fama e della notorietà del movimento che da lui aveva preso il nome.
Non possedeva le qualità che fanno un grande capo o un agitatore popolare, né un ingegno pubblicistico, come il democratico russo Aleksandr Herzen, e non possedeva neppure la meravigliosa eloquenza di Bakunin; trascorse la maggior parte della sua vita operosa a Londra in una relativa oscurità, a tavolino, o nella sala di lettura del British Museum. Il grande pubblico lo conosceva ben poco e, anche se negli ultimi anni divenne il capo riconosciuto e ammirato di un potente movimento internazionale, nella sua vita o nel suo carattere non vi fu nulla che accendesse la fantasia, che suscitasse l’illimitata devozione e l’intensa, quasi religiosa, venerazione dei discepoli come nel caso di Kossuth, di Mazzini e perfino di Lassalle poco prima di morire.
Egli appariva raramente in pubblico e senza particolare successo. Nelle poche volte in cui prese la parola, in occasione di qualche pranzo o di pubbliche riunioni, pronunciò discorsi eccessivamente concettosi, il cui tono monotono e al tempo stesso rude, mentre imponeva il rispetto, non suscitava però l’entusiasmo degli ascoltatori. Teorico e intellettuale per indole, evitava d’istinto il contatto diretto con le masse pur avendo dedicato l’intera sua esistenza allo studio dei loro interessi. Molti suoi discepoli lo consideravano un maestro tedesco dogmatico e pedante, sempre pronto a ripetere le sue tesi all’infinito, con crescente precisione, pur d’inculcarne loro durevolmente l’essenza. La maggior parte delle sue tesi economiche trovò per la prima volta espressione nel corso di incontri con gli operai: in tali circostanze la sua esposizione fu assolutamente un modello di lucidità e di concisione. Ma scriveva lentamente e con fatica, come accade talvolta ad alcuni pensatori rapidi e fecondi, i quali non riescono a seguire il ritmo delle proprie idee e sono impazienti di divulgare subito una nuova dottrina e di controbattere in anticipo ogni possibilità di obiezione.2 I suoi scritti, quando trattino di questioni astratte, sono generalmente ampollosi, pesanti e oscuri nei particolari, ma la tesi centrale emerge quasi sempre con chiarezza. Egli se ne rendeva perfettamente conto, e suo genero, Paul Lafargue, riferisce che una volta Marx si paragonò all’eroe del Capolavoro sconosciuto di Balzac, il quale tenta di ritrarre l’immagine che si è formata nella sua mente, procede a furia di ritocchi e finisce per produrre una massa informe di colori, che gli sembrano rappresentare la visione della sua fantasia.
Egli faceva parte di una generazione che intese conferire un maggior valore della generazione precedente all’immaginazione e fu educato in un ambiente che spesso attribuiva maggior peso alle idee che ai fatti e maggiore rilevanza ai rapporti personali che agli avvenimenti del mondo esterno: in un ambiente, cioè, che talvolta concepiva e interpretava la vita pubblica in base all’insieme ricco e complesso dell’esperienza individuale. Marx non era introspettivo per natura e s’interessava poco alle persone o agli stati d’animo; provava solo un senso di collera e di disprezzo quando osservava che molti suoi contemporanei non riuscivano a valutare l’importanza delle trasformazioni rivoluzionarie avvenute nella società in cui vivevano in seguito al rapido progresso della tecnica, il quale era stato accompagnato da un improvviso aumento della ricchezza e, in pari tempo, da scompensi e confusione nella società e nella cultura.
Egli era dotato di un ingegno poderoso, attivo, concreto e poco portato al sentimento, di un acuto senso dell’ingiustizia e di scarsissima emotività; provava ripugnanza tanto per la retorica e il sentimentalismo degli intellettuali che per la stupidità e la compiacenza della borghesia; i primi gli parevano spesso chiacchieroni sconclusionati, lontani dalla realtà e, sinceri o bugiardi che fossero, destavano in lui la stessa irritazione; la borghesia, che era in pari tempo ipocrita e preda delle illusioni, era cieca di fronte agli avvenimenti salienti del suo tempo perché intenta ad arricchirsi e a farsi una posizione sociale.
La sensazione di vivere in un mondo ostile e volgare, resa forse ancora più acuta dal segreto dispiacere causatogli dalla sua origine ebraica, fece sì che la sua brutalità e la sua aggressività naturali crescessero, dando origine a una figura che impressiona la fantasia popolare. Anche i suoi più fervidi ammiratori potrebbero difficilmente sostenere che fosse un uomo sensibile e delicato, o che si preoccupasse dei sentimenti delle persone che avvicinava; quasi tutti gli uomini con i quali ebbe rapporti gli parevano degli sciocchi o degli adulatori e si comportò verso di loro con aperta diffidenza o con disprezzo. Mentre, però, l’atteggiamento che aveva in pubblico era arrogante e offensivo, nella cerchia degli intimi, composta dai familiari e dagli amici, in cui si sentiva completamente al sicuro, era invece indulgente e gentile; la sua vita coniugale fu serena, ebbe un profondo affetto per i figli e manifestò una costante fedeltà e devozione all’amico e al collaboratore di tutta la vita, Engels. Era un uomo privo di fascino, aveva spesso un contegno rozzo ed era sovente preda di odi accecanti, ma anche i suoi nemici furono affascinati dalla energia e dalla veemenza del suo carattere, dall’audacia e dalla forza critica delle sue opinioni e dall’ampiezza e dall’acume delle sue analisi della situazione contemporanea.
Egli rimase per tutta la vita una figura singolarmente isolata fra i rivoluzionari del suo tempo, nutrendo pari ostilità verso le loro persone e verso i loro metodi e i loro fini. Il suo isolamento non fu tuttavia determinato solo dal suo carattere o da condizioni di tempo e di luogo. I democratici europei, almeno la maggior parte, erano assai diversi fra loro per carattere, finalità e ambiente di origine, tuttavia avevano in comune un attributo fondamentale che rendeva possibile la loro collaborazione, almeno in via di principio. Sia che fossero convinti dell’utilità di una rivoluzione violenta, sia che non lo fossero, erano quasi tutti dei riformatori liberali, dichiaratamente mossi da criteri etici comuni a tutta l’umanità. Essi criticavano e condannavano le condizioni presenti degli uomini, ispirandosi a qualche presupposto ideale o a qualche sistema di cui non occorreva dimostrare l’utilità, la quale era evidente per chiunque avesse avuto una normale sensibilità etica; pur sussistendo opinioni diverse sulla possibilità di realizzazione dei loro piani, che potevano quindi essere giudicati più o meno utopistici, nelle linee generali tutti i fautori delle ideologie democratiche erano concordi sulle mete da raggiungere. Il dissenso nasceva a proposito dell’efficacia degli strumenti proposti, della misura in cui era moralmente o praticamente lecito un compromesso con le autorità costituite, del carattere e del valore di alcune istituzioni sociali particolari, e, di conseguenza, della posizione da assumere nei loro confronti. Ma persino i più violenti tra loro, giacobini e terroristi - ed essi, forse, più degli altri -, partivano dalla convinzione che ci fosse ben poco che una decisa volontà degli individui non potesse modificare; inoltre essi erano persuasi che quando siano in gioco ben radicate finalità morali si hanno sufficienti stimoli all’azione perché ci si appella non ai fatti ma a una scala di valori universalmente accettata. Di conseguenza, conveniva anzitutto stabilire quale aspetto si preferiva che avesse la società; poi, tenuto conto di ciò, in che misura si poteva conservare la società esistente e in che misura si doveva condannarla; e infine occorreva cercare i mezzi più efficaci per compiere le trasformazioni necessarie. Marx non nutriva alcuna simpatia per questo modo di pensare, comune alla maggior parte dei rivoluzionari e dei riformatori di tutti i tempi, convinto com’era che la storia dell’umanità ubbidisca ad alcune leggi che non si possono modificare mediante la semplice azione dell’uomo, quali che siano gli ideali da cui è mosso. Egli era anzi convinto che l’esperienza interiore che consente all’individuo di giustificare i propri fini non solo non permette di conoscere quella particolare verità che si definisce etica o religiosa, ma tenda, nel caso degli uomini storicamente situati in determinate situazioni, a generare miti e illusioni, sia individuali che collettivi. Siccome sono determinati dalle condizioni materiali in cui nascono, i miti incarnano, sotto forme di verità obiettiva, tutto ciò che gli uomini, nella loro miseria, desiderano credere; la loro influenza ingannatrice induce gli uomini a interpretare in modo falso la natura del mondo in cui vivono, a fraintendere la loro posizione in esso e a valutare perciò erroneamente la portata della propria e dell’altrui potenza e le conseguenze sia delle proprie azioni che di quelle degli avversari. Contrariamente alla maggior parte dei pensatori democratici del suo tempo, Marx era convinto dell’impossibilità di distinguere i valori dai fatti, dato che i valori dipendono necessariamente dal modo in cui si giudicano i fatti. Con la dovuta analisi della natura e delle leggi dello sviluppo storico, un essere razionale potrà chiarire a se stesso, senza l’aiuto di criteri morali dei quali sia venuto a conoscenza indipendentemente da tale analisi, quale passo gli conviene fare, quale comportamento, cioè, è più consono alle esigenze dell’ordine a cui egli appartiene.
Di conseguenza, Marx non aveva da offrire all’umanità nessun nuovo ideale etico o sociale; non chiedeva una trasformazione della sensibilità morale, che necessariamente avrebbe costituito la sostituzione di una serie d’illusioni con un’altra. Egli era diverso dagli altri grandi pensatori della sua generazione perché intendeva appellarsi unicamente alla ragione, all’intelligenza pratica, perché condannava solo la disonestà o la cecità intellettuale, perché affermava che gli uomini, per trovare il modo di sfuggire al caos nel quale sono coinvolti, dovrebbero semplicemente sforzarsi di prendere coscienza della loro situazione reale, essendo convinto che da una esatta valutazione del rigoroso equilibrio delle forze operanti nella società a cui gli uomini appartengono deriva necessariamente l’indicazione della forma di vita che conviene seguire razionalmente.
Marx condanna l’ordinamento vigente sulla base non di astratti ideali, bensì della concreta esperienza storica: non lo stigmatizza come ingiusto, deplorevole, o emanante dalla malvagità o dalla stoltezza umane, ma in quanto deriva da leggi di evoluzione sociale per le quali è inevitabile che, a una certa fase della storia, una classe che persegua i propri interessi con gradi diversi di razionalità espropri e sfrutti l’altra e in tal modo porti all’oppressione e all’assoggettamento dell’uomo sull’uomo. Gli oppressori non rischiano di subire la spietata vendetta delle loro vittime, ma la distruzione inevitabile che la storia (nella forma degli interessi di un gruppo sociale antagonistico) riserva loro, come classe che ha assolto alla propria funzione sociale ed è dunque condannata a scomparire rapidamente dalla scena degli eventi umani.
Tuttavia, benché si proponga di fare appello all’intelletto, Marx si esprime da araldo e da profeta, parla a nome non di esseri umani, ma della stessa legge universale, cercando, più che di salvare o di perfezionare i suoi simili, di ammonire e di condannare, di rivelare il vero e soprattutto di confutare il falso. La massima «Destruam et aedificabo», che Proudhon aveva preposto a una delle sue opere,3 si adatta molto meglio al concetto che Marx aveva del compito attribuitosi. Intorno al 1845 aveva adempiuto la prima parte del suo programma perfezionando la conoscenza della natura, della storia e delle leggi evolutive della società in cui viveva, ed era giunto alla conclusione che la storia della società è la storia dell’uomo che cerca di ottenere la padronanza di se stesso e del mondo esterno coi mezzi del proprio lavoro creativo. Questa attività è incarnata nelle lotte di classi opposte, una delle quali dovrà risultare vittoriosa, per quanto in una forma molto mutata: il progresso è costituito dalla successione delle vittorie di una classe sull’altra. Queste alla lunga incarnano il progresso della ragione. Ed è razionale solo chi si identifica con la classe in ascesa nella sua società, decidendo, se occorre, di abbandonare il proprio passato e di allearsi con essa, oppure, se la storia lo abbia già posto nella classe vittoriosa, acquistando coscienza della propria posizione e operando alla luce di tale coscienza.
Di conseguenza, dopo avere individuato nel proletariato la classe destinata a prevalere nella lotta sociale del suo tempo, Marx dedica il resto deliavita a preparare la vittoria della classe di cui si è posto alla testa. Lo sviluppo storico rendeva comunque sicura questa vittoria, ma il coraggio, la fermezza e l’ingegno potevano abbreviare il cammino e rendere meno penosa la fase di transizione, eliminando in parte gli attriti e la perdita di materiale umano. Egli assumerà quindi d’ora innanzi la funzione del capo, che partecipa materialmente alla battaglia e che perciò non si sente continuamente costretto a esigere da se stesso e dagli altri una giustificazione della propria partecipazione alla guerra e dei motivi per i quali si è schierato da una parte della barricata anziché dall’altra: lo stato di guerra e la parte dalla quale si è schierato sono già presupposti, sono dati di fatto che non si rimettono in discussione ma che si devono accettare ed esaminare; l’unico compito è quello di battere il nemico: tutti gli altri problemi sono accademici, si fondano su condizioni ipotetiche inattuali e non sono pertinenti. Perciò nelle ultime opere di Marx si nota l’assenza quasi completa di ogni discussione sui princìpi ultimi, di ogni tentativo di giustificare la sua opposizione alla borghesia. I meriti o i difetti del nemico, ciò che avrebbe potuto essere se non fosse stato un nemico, non presentano alcun interesse durante una battaglia. Chi pone questi problemi irrilevanti nel corso della lotta non fa altro che distrarre l’attenzione dei propri compagni dai problemi cruciali che, anche quando non ne siano coscienti, essi debbono affrontare, e perciò contribuisce unicamente a indebolire la loro capacità di resistenza.
Durante la guerra importa solo di conoscere bene le proprie risorse e quelle dell’avversario, e, a tal fine, è indispensabile conoscere la storia della società e delle leggi che la governano. Il Capitale costituisce un tentativo di analisi di questo tipo. Siccome Marx vi concentra l’attenzione sui problemi pratici dell’azione, si nota in quest’opera una mancanza pressoché assoluta di ogni esplicita argomentazione morale, di ogni appello alla coscienza o ai princìpi, come pure la mancanza non meno sorprendente di minuziose previsioni su ciò che accadrà o dovrebbe accadere dopo la vittoria. Egli respinge come illusioni meramente difensive dei liberali la nozione di diritti naturali, inalterabili e universali, e quella di coscienza che ogni uomo dovrebbe possedere indipendentemente dalla posizione che assume nella lotta di classe. Il socialismo non invoca, rivendica; non parla di diritti, ma della nuova forma di vita, libera da opprimenti strutture sociali, di fronte al cui inesorabile avvicinarsi la vecchia struttura sociale ha visibilmente cominciato a disgregarsi. I concetti e gli ideali morali, politici, economici si trasformano con le condizioni sociali dalle quali scaturiscono: l’attribuire un carattere universale e immutabile a uno qualunque di questi concetti o di questi ideali equivale ad affermare che (’ordinamento del quale fanno parte - in tal caso l’ordinamento borghese - è eterno.
Questo errore si ritiene sia alla base delle dottrine etiche e psicologiche dell’umanitarismo idealistico, dal XVIII secolo in poi. Marx non prova che disprezzo e avversione per l’ipotesi comunemente accettata dai liberali e dagli utilitaristi secondo cui, poiché tutti gli uomini finiscono per avere e hanno sempre avuto gli stessi interessi, basta un po’ di buona volontà e di generosità da parte di ciascuno perché sia ancora possibile raggiungere una forma di compromesso generale che soddisfi tutti. Se la lotta di classe è reale, quegli interessi sono assolutamente incompatibili. Chi nega questo fatto non può essere ispirato che da uno stupido e cinico disprezzo per la verità, da una forma particolarmente depravata d’ipocrisia o di volontaria illusione che la storia ha ripetutamente smascherato. È questa fondamentale divergenza di opinioni e non solo una disparità di carattere o di doti naturali, che distingue nettamente Marx dai radicali borghesi e dai socialisti utopisti, contro i quali, con loro somma sorpresa e indignazione, egli combattè e si scagliò ferocemente e senza posa per oltre quaranti anni.
Detestava ogni forma di romanticismo, di sentimentalismo e di umanitarismo: mosso dalla preoccupazione di evitare ogni riferimento ai sentimenti idealistici di chi lo ascoltava, cercò di eliminare sistematicamente dalla letteratura propagandistica del suo movimento ogni traccia del vecchio frasario democratico. Non offri e non chiese mai concessioni, non partecipando ad alleanze politiche equivoche perché rifiutava ogni forma di compromesso. È molto raro che i numerosi manifesti, professioni di fede e programmi d’azione ai quali legò il suo nome si richiamino al progresso morale, alla giustizia eterna, all’uguaglianza dell’uomo, ai diritti degli individui o delle nazioni, alla libertà di coscienza, alla lotta per la civiltà e ad altre espressioni analoghe che facevano parte del patrimonio (e che un tempo avevano realmente incarnato gli ideali) dei movimenti democratici allora esistenti; egli le considerava un gergo inutile, indice di confusione ideologica e di incapacità di agire.4
Si deve combattere su ogni fronte e poiché la società contemporanea è organizzata politicamente, si deve costituire un partito politico fra quegli elementi che secondo le leggi dello sviluppo storico sono destinati a emergere come classe dominante; senza posa si insegnerà loro che tutto ciò che sembra così stabile nella società presente è invece fatalmente condannato a una rapida estinzione, pur se è difficile crederlo, a causa dell’ampia facciata protettiva dei concetti e delle convinzioni morali, religiose, politiche ed economiche che la classe morente ha eretto in modo più o meno consapevole, celando a se stessa e agli altri la sua prossima fine. Occorrono coraggio intellettuale e acume critico per diradare questa cortina fumogena e percepire la struttura reale degli avvenimenti. La visione del caos, il carattere imminente della crisi con la quale questo caos è destinato a sciogliersi, basteranno a far comprendere a un osservatore chiaroveggente e interessato (e chiunque non sia di fatto già morto o moribondo non può essere indifferente all’estinzione della società alla quale è legata la propria vita) ciò che deve essere e deve fare per sopravvivere. Secondo Marx un atteggiamento razionale non può essere determinato da una scala soggettiva di valori rivelati a ciascuno in modo diverso e derivanti dai lumi di una visione interiore, ma deve emanare dalla conoscenza dei fatti stessi.
Si deve giudicare progressista, e perciò meritevole d’aiuto, una società le cui istituzioni siano capaci di un’ulteriore espansione delle proprie forze produttive senza alterarne tutta la base. Una società è invece reazionaria quando marcia inevitabilmente verso un vicolo cieco senza riuscire a evitare le contraddizioni interne e il crollo finale malgrado si sforzi disperatamente di sopravvivere, contribuendo in tal modo a creare quella fiducia irrazionale nella propria definitiva stabilità che è il balsamo con cui tutte le istituzioni morenti inevitabilmente credono di curarsi. Ciò che è stato condannato dalla storia sarà ineluttabilmente spazzato via: chi afferma che si dovrebbe salvarlo anche quando non è possibile nega il piano razionale dell’universo.
Marx giudicava la denuncia del processo stesso - i conflitti dolorosi attraverso i quali, e a causa dei quali, l’umanità lotta per raggiungere la piena efficienza delle sue forze - come una forma di soggettivismo infantile, dovuta a una concezione morbosa e superficiale della vita, a un pregiudizio irrazionale a favore di determinate virtù o istituzioni, che rivelava un attaccamento al vecchio mondo ed era il sintomo di un’emancipazione incompleta dai suoi valori. Gli sembrava che sotto la maschera di un ardente sentimento filantropico crescessero nell’ombra i germogli della debolezza e del tradimento, determinati dal sostanziale desiderio di venire a patti con la reazione, dal segreto orrore per la rivoluzione, radicato nella paventata perdita dei propri agi e privilegi nonché, a un più profondo livello, nella paura della verità, della piena luce del giorno. Con la realtà non poteva esservi alcun compromesso; l’umanitarismo non era altro che una forma più blanda di compromesso, destinata a salvare la faccia, e ispirata dal desiderio di evitare i cimenti di una lotta aperta, peggio ancora, i rischi e le responsabilità della vittoria. Nulla suscitava la sua indignazione più della viltà: ciò spiega il tono violento e spesso brutale con cui ne parla, preludio di quel duro stile «materialistico» che portò una nota del tutto insolita nella letteratura del socialismo rivoluzionario. La moda della «pura e semplice obiettività» indusse soprattutto gli scrittori russi della generazione successiva a sforzarsi di scrivere nel modo più aspro, disadorno e irritante possibile per esprimere concetti che spesso non avevano nulla di stupefacente.
Lo stesso Marx ha ammesso di avere cominciato a costruire il suo nuovo strumento prendendo le mosse da circostanze quasi fortuite: nel corso di una polemica col governo, su un argomento economico di rilievo esclusivamente locale, alla quale prese parte come direttore di un giornale radicale, si accorse di ignorare quasi del tutto la storia e i princìpi dello sviluppo economico. Questa polemica ebbe luogo nel 1843. Cinque anni dopo, nel 1848, egli aveva compiutamente elaborato il suo punto di vista come pensatore politico ed economico. Con un rigore prodigioso, aveva elaborato una dottrina completa della società e della sua evoluzione, che indicava con la massima esattezza dove e come si dovevano cercare e trovare le risposte agli interrogativi in questione.
L’originalità di tale dottrina è stata spesso contestata. Essa è originale non nel senso in cui lo sono le opere d’arte quando incarnano un’esperienza individuale rimasta fino a quel momento inespressa, ma come sono da considerare originali le teorie scientifiche quando offrono una nuova soluzione a un problema rimasto fino a quel momento insoluto o finanche mai formulato, talvolta operando una modifica e una fusione delle opinioni esistenti per formulare una nuova ipotesi. Marx non tentò mai di negare il suo debito verso altri pensatori. «Compio un atto di giustizia storica e rendo a ciascuno ciò che gli è dovuto» pare abbia affermato con fierezza.5 Ma sosteneva di aver offerto per la prima volta una soluzione del tutto soddisfacente a problemi che nel passato erano stati fraintesi o avevano avuto soluzioni sbagliate, insufficienti e oscure. La caratteristica che Marx cercava non era la novità ma la verità e quando la trovò nelle opere di altri si sforzò di assorbirla nella sua nuova sintesi, per lo meno nei primi anni trascorsi a Parigi, durante i quali la sua teoria assunse la forma definitiva. L’originalità del risultato raggiunto non risiede nei singoli elementi che lo compongono, ma nell’ipotesi centrale che collega gli uni agli altri, in modo che le diverse parti siano reciprocamente conseguenti e si sostengano a vicenda in un unico complesso sistematico.
È dunque relativamente semplice ritrovare l’origine diretta di ogni singola dottrina sostenuta da Marx, come molti suoi critici si sono fin troppo preoccupati di fare. Può darsi benissimo che non vi sia una sola delle sue opinioni che già non esistesse in embrione in qualche scrittore antecedente o contemporaneo. Certamente negli ultimi duemila anni la dottrina della proprietà collettiva fondata sull’abolizione della proprietà privata ha trovato spesso in una forma o nell’altra dei fautori. Di conseguenza, la questione più volte dibattuta se Marx l’abbia ricavata diretlamente da Morelly o Mably, da Babeuf e dai suoi seguaci o da qualche versione tedesca del comunismo francese, ha un valore troppo esclusivamente accademico per avere grande importanza. Per quello che riguarda dottrine più specifiche, si può trovare una forma pienamente elaborata di materialismo storico in un trattato di Holbach stampato quasi un secolo prima, che a sua volta deve moltissimo a Spinoza; ai tempi di Marx, Feuerbach rielaborò questa dottrina in altra forma. Si può trovare il concetto di storia dell’umanità come storia della lotta di classe in Linguet e Saint-Simon, ma anche alcuni storici liberali francesi contemporanei di Marx, come Thierry e Mignet, e perfino Guizot, che era ben più conservatore di loro, lo accettavano in larga misura, come ammise lo stesso Marx. La teoria scientifica dell’inevitabilità del ricorso regolare delle crisi economiche fu probabilmente formulata per la prima volta da Sismondi; quella della nascita del Quarto Stato fu certamente sostenuta dai primi comunisti francesi e diffusa in Germania ai tempi di Marx da von Stein e da Hess. La dittatura del proletariato fu genericamente enunciata da Babeuf nell’ultimo decennio del XVIII secolo e chiaramente elaborata in diversi modi nel XIX secolo da Weitling e Blanqui; la posizione e l’importanza, presenti e future, degli operai nello Stato industriale furono descritte da Louis Blanc e dai sostenitori francesi del socialismo di Stato più ampiamente di quanto Marx non sia disposto ad ammettere. La teoria del valore lavoro deriva da Locke, da Adam Smith, da Ricardo e dagli altri economisti classici; la teoria dello sfruttamento capitalistico e del plusvalore si trova in Fourier e quella del rimedio che si può porre a questo fenomeno per mezzo di un risoluto controllo statale è contenuta negli scritti di alcuni fra i primi socialisti inglesi come Bray, Thompson e Hodgskin; la teoria dell’alienazione dei proletari fu enunciata da Max Stirner almeno un anno prima di Marx; l’influenza di Hegel e della filosofia tedesca è profonda e diffusa più di ogni altra; e sarebbe facile proseguire in questa elencazione.
Le teorie sociali abbondavano, specie nel XVIII secolo. Alcune morirono sul nascere; altre, non appena incontrarono un clima intellettuale favorevole, contribuirono a modificare le idee correnti e a influenzare l’azione politica. Marx passò in rassegna questa enorme massa di materiale disordinato e ne estrapolò tutto ciò che gli sembrò originale, autentico e importante; quindi se ne servì per elaborare un nuovo strumento di analisi sociale, il cui merito principale non risiede nella bellezza o nell’armonia, e neppure nella forza emotiva o intellettuale (i grandi sistemi utopistici sono creazioni più nobili dell’intelletto speculativo), ma piuttosto nella straordinaria fusione di semplici princìpi essenziali con una visione comprensiva e realistica e una capacità di distinguere tutti gli elementi particolari dei problemi. Il mondo del quale questo nuovo strumento di analisi sociale presupponeva l’esistenza corrispondeva concretamente all’esperienza personale, diretta, dell’ambiente al quale era destinato; le analisi che permise di effettuare, quando furono enunciate nella loro forma più semplice, colpirono subito per la loro novità e il loro acume; le nuove ipotesi che permise di formulare integravano in una sintesi tutta particolare l’idealismo tedesco, il razionalismo francese, il pensiero economico inglese,6 e sembrò che potessero coordinare e osservare in modo autentico una quantità di fenomeni sociali, i quali erano stati concepiti fino a quel momento come relativamente distinti fra loro. Le formule e le parole d’ordine popolari del nuovo movimento comunista ebbero così fin dal primo momento un senso concreto. Soprattutto, esso permise a detto movimento di non limitarsi a stimolare generici sentimenti di malcontento e rivolta collegando loro, come già il cartismo aveva fatto, un insieme di finalità politiche ed economiche specifiche ma del tutto disarticolate; esso diresse tali stati d’animo verso obiettivi sistematicamente coordinati, immediati e raggiungibili, che non vennero considerati quali mete finali valide per tutti gli uomini di tutti i tempi, ma quali obiettivi adatti a un partilo rivoluzionario rappresentante una fase specifica di sviluppo sociale.
Il vanto principale della dottrina di Marx consistette nell’offrire soluzioni chiare e unitarie, in termini empirici accessibili a tutti, alle questioni teoriche che maggiormente angustiavano gli uomini di quel tempo, e nell’aveme ricavato, senza ricorrere a deduzioni palesemente artificiose, alcune conseguenze pratiche. Perciò la dottrina di Marx fu dotata di quella eccezionale vitalità che le permise di sconfiggere le dottrine rivali e di rimanere ancora in vita, quando le altre furono tutte quante superate, nei decenni successivi. Essa fu elaborata in gran parte a Parigi, negli anni agitati che vanno dal 1843 al 1850, quando, sotto lo stimolo di una crisi di portata mondiale, alcune tendenze economiche e politiche, che solitamente sarebbero rimaste dissimulate sotto la superficie della vita sociale, assunsero un’importanza e un’intensità tali da spezzare una struttura tenuta in piedi, in tempi normali, dalle istituzioni esistenti, e per un breve momento svelarono il proprio carattere reale durante il luminoso intermezzo che precedette l’urto finale, in cui tutti i problemi tornarono ancora una volta nell’ombra. Marx sfruttò appieno questa rara opportunità di osservazione scientifica nel campo della teoria sociale, da cui ricavò l’impressione che le sue ipotesi risultassero pienamente confermate.
Il suo sistema, quale finalmente emerse, ebbe l’aspetto di una costruzione poderosa, armata di tutto punto contro gli attacchi che potevano essere sferrati ai suoi vari punti strategici, pronta a resistere vittoriosamente a ogni assalto diretto, munita, entro i bastioni della sua cinta, delle risorse occorrenti a contrastare ogni arma conosciuta dell’arsenale nemico. L’influenza esercitata dal sistema di Marx è stata immensa, tanto sui discepoli quanto sugli avversari: particolare peso ha avuto sugli studiosi di scienze sociali, sugli storici e sui critici. Esso ha contribuito a trasformare la storia del pensiero umano: dopo l’enunciazione del pensiero marxiano, molte teorie e molti giudizi diventarono caduchi. Nessun argomento perde vigore, almeno nell’ambito di una prospettiva a lunga scadenza, quando diventa oggetto di controversia: così il rilievo che Marx conferì al primato dei fattori economici nella determinazione del comportamento umano ha portato come diretta conseguenza a uno studio più approfondito della storia economica, che, pur non essendo stata completamente trascurata nel passato, non aveva mai raggiunto la posizione preminente che ha oggi, fino a quando il sorgere del marxismo non ebbe sollecitato una più esatta valutazione storica in quel campo; un po’ come, nel corso della generazione precedente, le dottrine hegeliane avevano dato un fortissimo impulso allo studio storico in generale. L’interpretazione sociologica della storia e della morale che Comte e, in seguito, Spencer e Taine, avevano discusso ed elaborato, si tradusse in un metodo preciso e concreto solo quando le conclusioni alle quali tale interpretazione era destinata a giungere diventarono, per effetto dell’incalzare della polemica marxiana nel campo politico, un argomento d’immediata attualità, costringendo a una maggiore accuratezza nella ricerca dei dati e imponendo di dedicare maggiore attenzione al metodo impiegato.
Nel 1849 Marx dovette lasciare Parigi e andò a vivere in Inghilterra. Per lui Londra, in particolare la biblioteca del British Museum, era «il punto strategico ideale per chi intenda studiare la società borghese»,7 un arsenale colmo di munizioni della cui importanza i proprietari non sembravano rendersi conto. Egli rimase quasi del tutto indifferente davanti all’ambiente che lo circondava, vivendo racchiuso nel proprio mondo, in gran parte tedesco, costituito dalla sua famiglia e da un gruppetto di amici intimi e di compagni di lotta politica. Incontrò pochi inglesi, senza capirli e senza curarsi di loro né del loro modo di vivere. Era un uomo eccezionalmente impermeabile all’influenza dell’ambiente, vedeva in pratica solo ciò che era stampato nei giornali o nei libri e fino alla morte fu relativamente ignaro del modo in cui la gente viveva attorno a lui o dello sfondo sociale e naturale di questo modo di vivere. Il suo sviluppo intellettuale non sarebbe stato diverso se si fosse trovato in esilio nel Madagascar, a condizione che gli fosse regolarmente fornita la sua scorta di libri, giornali e resoconti governativi; difficilmente gli abitanti di Londra avrebbero potuto accorgersi meno della sua esistenza. Gli anni della formazione, che sono quelli psicologicamente più interessanti della sua vita, si erano conclusi nel 1851: a quell’epoca egli aveva raggiunto la propria stabilità sentimentale e intellettuale e non subì più quasi nessuna trasformazione. Quando si trovava ancora a Parigi aveva concepito l’idea di descrivere e spiegare in modo esauriente la nascita e il crollo imminente del sistema capitalistico. Si accinse a studiare quest’argomento nella primavera del 1850, e tranne qualche interruzione, determinata giorno per giorno da esigenze tattiche e dall’attività giornalistica con la quale tentava di mantenere la famiglia, proseguì quest’opera per circa vent’anni.
Gli opuscoli, gli articoli e le lettere scritte nei trent'anni passati a Londra costituiscono un commento coerente sulle questioni politiche dell’epoca alla luce del suo nuovo metodo di analisi. Si tratta di scritti acuti, lucidi, mordenti, realistici, dal tono sorprendentemente moderno, volutamente diretti contro l’ottimismo diffuso del suo tempo.
Egli disapprovava, come rivoluzionario, i metodi della cospirazione, che giudicava antiquati, inefficaci e capaci solo di irritare l’opinione pubblica senza cambiarne la struttura; e si accinse invece a creare apertamente un partito politico ispirato alla sua nuova concezione della società. Trascorse gli ultimi anni dedicandosi quasi esclusivamente alla raccolta di dati che dimostrassero la validità delle sue tesi e alla diffusione di queste sino a persuaderne intimamente i seguaci e a farle penetrare nel tessuto di ogni loro pensiero, di ogni loro parola e di ogni loro atto. Per un quarto di secolo egli si dette interamente al perseguimento di questo scopo che raggiunse verso la fine della vita.
Nel XIX secolo s’incontrano molti critici della società, molti rivoluzionari degni di nota, che sono non meno originali, non meno violenti, non meno dogmatici di Marx; ma nessuno di loro fu, come Marx, dominato in modo così rigoroso da un unico pensiero, nessuno di loro si dedicò con altrettanta passione a tradurre ogni parola e ogni atto della propria vita in uno strumento mirante a raggiungere un solo, immediato fine pratico, di fronte al quale nulla era considerato inviolabile. Se, da un lato, egli era in anticipo sul suo tempo, dall’altro incarnava altrettanto chiaramente una delle più antiche tradizioni europee. Infatti, da una parte il realismo, l’empirismo, le critiche ai princìpi astratti, il bisogno di verificare che ogni soluzione emanasse dalla situazione reale e le fosse applicabile, l’avversione per i compromessi e il gradualismo, da lui considerati come forme di evasione dalla necessità di azioni più drastiche, la convinzione che le masse sono sempre pronte a cadere nell’inganno e che si debbono a ogni costo salvare, se necessario con la forza, dagli impostori e dagli stolti che le traggono in inganno: tutte queste caratteristiche fanno di Marx un precursore della austera generazione dei rivoluzionari di professione del secolo successivo; d’altra parte la sua profonda convinzione che occorresse rompere completamente col passato, edificare un sistema sociale assolutamente nuovo, perché solo così si sarebbe emancipato l’individuo che, libero dalle costrizioni sociali, coopererà armoniosamente con gli altri, ma nel frattempo necessita di una ferma direzione sociale, lo colloca tra i grandi fondatori autoritari di nuove religioni, tra gli spietati sovvertitori e innovatori di un mondo che interpretano in funzione di un unico, chiaro principio, appassionatamente difeso, smascherando e distruggendo tutto ciò che contrasta con esso.
La sua fede nella propria concezione generale di una società autonoma, ordinata, disciplinata, destinata a scaturire dall’inevitabile suicidio dell’attuale mondo irrazionale e caotico aveva quel carattere integrale, assoluto, che risolve ogni questione e scioglie ogni difficoltà, che porta un senso di liberazione analogo a quello che gli uomini scoprirono, nel Cinquecento e nel Seicento, nella nuova fede protestante, e, in seguito, nelle verità scientifiche, nei princìpi della grande Rivoluzione francese, nei sistemi metafisici tedeschi. Se è giusto considerare i primi razionalisti come dei fanatici, allora, in questo senso, fu un fanatico anche Marx. Ma la sua fede nella ragione non era cieca: non meno che dalla ragione egli prendeva le mosse dal dato empirico. Le leggi della storia erano infatti eterne e immutabili - e per rendersene conto occorreva un’intuizione quasi metafisica - ma quali fossero queste leggi si sarebbe potuto stabilire solo con la prova dei fatti. Il suo sistema intellettuale era rigido, tutto ciò che entrava a farne parte doveva conformarsi a uno schema prestabilito, ma era un sistema che tuttavia si fondava sull’osservazione e sull’esperienza. Non essendo ossessionato da idee fisse, Marx non mostra alcuna traccia dei ben noti sintomi che tradiscono il fanatismo patologico, come quell'alternarsi di momenti di esaltazione con altri dominati da un senso di solitudine e di persecuzione, che si ritrovano tanto spesso nella vita privata di molte persone avulse dalla realtà.
Le idee essenziali della sua opera principale dovevano essere già mature nel 1847. Qualche abbozzo preliminare apparve nel 1849 e tornò di nuovo alla luce sette anni dopo; ma egli non era capace di cominciare a scrivere prima di essere certo di padroneggiare tutta la letteratura esistente sull’argomento. A questo fatto si univano la difficoltà di trovare un editore e la necessità di provvedere al fabbisogno proprio e della propria famiglia, con l’eccesso di lavoro e le frequenti malattie che ne derivavano: ne risultò un costante procrastinare, anno per anno, la pubblicazione della sua opera. Il primo libro uscì finalmente vent’anni dopo essere stato ideato, nel 1867, e costituì uno sforzo degno di coronare tutta la sua vita. In esso Marx intese spiegare in modo unitario e organico il corso e le leggi dello sviluppo sociale, includendovi una completa teoria economica interpretata storicamente e, sia pure in modo meno esplicito, una teoria della storia e della società come processo determinato da fattori economici. Questo primo libro è interrotto qua e là da alcune digressioni veramente notevoli, costituite da analisi e profili storici aventi per oggetto la condizione del proletariato e dei suoi padroni, in particolare durante il periodo di transizione dal sistema della fabbrica al capitalismo industriale su larga scala, inserite nel testo allo scopo di illustrare la tesi generale, ma implicanti in realtà una rivoluzione nel metodo storiografico e nella scienza politica: tutto l’insieme forma il più poderoso, circostanziato e organico atto d’accusa che sia mai stato rivolto contro un intero ordinamento sociale, contro i suoi dirigenti, contro i suoi fautori, contro i suoi ideologi, contro i suoi strumenti volontari e involontari, contro tutti coloro che hanno la vita legata alla sua sopravvivenza. Egli sferrò il suo attacco contro la società borghese in un momento in cui questa società aveva raggiunto l’apice del benessere materiale, proprio nell’anno in cui Gladstone, in un discorso sul bilancio, si congratulò con i suoi concittadini per «l’incremento inebriante della loro ricchezza e della loro potenza»,8 verificatosi negli ultimi anni, in un clima di ottimismo e di generale fiducia. In questo mondo, Marx appare come una figura isolata e profondamente ostile, pronta, come i primi cristiani o i rivoluzionari francesi, a respingere fieramente tutto quello che esso aveva da offrire: gli ideali di quel mondo erano per lui senza valore, le sue virtù erano vizi; egli ne condannava le istituzioni non perché fossero cattive, ma perché erano borghesi, perché appartenevano a una società corrotta, tirannica e irrazionale, che si doveva completamente e definitivamente annientare.
In un’epoca che distruggeva gli avversari con metodi perfettamente efficienti, sebbene lenti e solenni, che costringeva Carlyle e Schopenhauer a cercare rifugio in civiltà remote o nell’idealizzazione del passato, e che spingeva il suo nemico più acerrimo, Nietzsche, all’isterismo e alla pazzia, solo Marx rimase fiducioso e agguerrito. Come un antico profeta adempiente una missione celeste, con una serenità fondata sulla fiducia chiara e incrollabile nella società armoniosa del futuro, egli fornì le prove dei segni di decadimento e di rovina che vedeva incombere da ogni parte. Vedeva l’ordine antico crollare apertamente davanti a sé e contribuì più di chiunque altro ad accelerare questo processo, cercando di abbreviare l’agonia che precede la morte.
1. J. Butler, Fifteen Sermons Preached at the Rolls Chapel, James & John Knapton, London, 1726, sermone 7, p. 136, par. 16 («Le cose e le azioni sono quelle che sono e le loro conseguenze saranno quelle che saranno: perché dunque desiderare di illudersi?») [trad. it. in Joseph Butler, Sansoni, Firenze, vol. II: I quindici sermoni, 1969. N.d.R.).
2. Chiunque desideri conoscere il metodo seguito da Marx nella composizione delle sue opere può utilmente consultare i Grundrisse (1857
58), editi per la prima volta nel 1939, che contengono le linee essenziali delle dottrine approfondite poi nel Capitale e nei primi studi sull’alienazione sociale [trad. it. K Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, 2 voli., Einaudi, Torino, 1976. N.d.R.].
3. [Epigrafe sul frontespizio di P.-J. Proudhon, Système des contradictions économiques, ou Philosophie de la misère, 2 voll., Guillaumin et Cie, Paris, 1846, attribuita a Deuteronomio, 32. Si tratta probabilmente di un’allusione al versetto 39 della Vulgata: «Ego occidam et ego vivere faciam» («Io ucciderò e farò vivere») ] [trad. it. Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria, Edizioni della rivista «Anarchismo», Catania, 1975. N.d.R].
4. Le sue osservazioni, in una lettera a Engels, sul suo atteggiamento verso simili espressioni nella bozza della dichiarazione di princìpi che la prima Associazione internazionale degli operai gli aveva sottoposto sono altamente istruttive a questo riguardo. Marx a Engels, 4 novembre 1864, CW, vol. XLII, pp. 15-19 [trad. it. in K. Marx, F. Engels, Opere complete, cit., vol. XLII, 1974. N.d.R.].
5. [Non rintracciata; probabilmente è una falsa attribuzione].
6. [La nozione di questa triplice sintesi proviene da M. Hess, Die europäische Triarchie, O. Wigand, Leipzig, 1841, pp. 155-78, specialmente p. 178. Cfr. il saggio di I. Berlin su Hess nel suo Against the Current: Essays in the History of Ideas, a cura di H. Hardy, Princeton University Press, Princeton, 2a ediz., 2013, p. 281, dove scrive: «Più specificamente, Die europäische Triarchie invocò l’unione delle tre potenze civilizzate d’Europa: la Germania, patria delle idee e paladina della libertà religiosa; la Francia, ovvero il campo di battaglia su cui erano state conquistate una riforma sociale effettiva e l’indipendenza politica; e l’Inghilterra, che era la patria della libertà economica, e costituiva inoltre la sintesi dello spirito francese e di quello tedesco: né “eccessivamente speculativa”, come la Germania, né “volgarmente materialistica”, come la Francia»[trad. it. La vita e le opinioni di Moses Hess, in I. Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Adelphi, Milano, 2000, pp. 315-70, citazione alle pp. 330-31. N.d.R.]. L’idea fu ripresa da Lenin, che scrisse: «Marx fu il genio che continuò e portò a compimento le tre principali correnti ideologiche del diciannovesimo secolo, rappresentate dalle tre nazioni più avanzate dell’umanità: la filosofia classica tedesca, la politica economica classica inglese, e il socialismo francese insieme alle dottrine rivoluzionarie francesi in generale», V.I. Lenin, Karl Marx: A Brief Biographical Sketch with an Exposition of Marxism (1914), in V.I. Lenin, Collected Works, Progress Publishers, Moscow, vol. XXI, 1974, p. 50] [trad. it. Karl Marx. Breve saggio biografico ed esposizione del marxismo, in V.I. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, vol. XXI, 1966. N.d.R.].
7. K Marx, A Contribution to the Critique of Political Economy (1859), Prefazione, CW, vol. XXIX, p. 264 [trad. it. Per la critica dell’economia politica, in K Marx, F. Engels, Opere complete, cit., vol. XXX, 1986. N.d.R.].
8. «The Times», 17 aprile 1863, p. 7, citato in F. Engels, In the Case of Brentano versus Marx (1890-91), CW, vol. XXVII, pp. 99-100 [trad. it. Nella questione Brentano contro Marx per pretesa falsa citazione, in K Marx, F. Engels, Opere, Edizioni Lotta comunista, Milano, vol. XXVII, 2020. N.d.R.].
II.
INFANZIA E ADOLESCENZA
Nimmer kann ich ruhig treiben, Was die Seele stark erfaßt, Nimmer still behaglich bleiben, Und ich stürme ohne Rast.
KARL MARX, Empfindungen1
Karl Heinrich Marx, figlio maggiore di Heinrich e di Henrietta Marx, nacque il 5 maggio 1818 a Treviri, nella Renania tedesca, dove suo padre esercitava la professione d’avvocato. Già sede di un principe-arcivescovo, la città era stata occupata dai francesi una quindicina di anni prima della nascita di Marx, e Napoleone l’aveva incorporata nella Confederazione del Reno. Dopo la sconfitta di Napoleone, dieci anni più tardi, il Congresso di Vienna aveva assegnato Treviri al regno di Prussia, che stava rapidamente espandendosi. L’autorità personale dei re e dei principi degli Stati tedeschi era stata quasi completamente sopraffatta poco tempo addietro dalle successive invasioni francesi dei loro territori, e in quel momento essi erano attivamente impegnati a riparare i danni arrecati all’edificio della monarchia ereditaria, un’opera che richiedeva di cancellare ogni traccia delle idee pericolose che avevano cominciato a risvegliare dal loro tradizionale letargo perfino i placidi abitanti delle province tedesche. La sconfitta e l’esilio di Napoleone avevano finalmente distrutto le illusioni di quei radicali tedeschi che avevano sperato di ottenere dalla politica accentratrice di Napoleone, se non la libertà, per lo meno l’unità della Germania. Dovunque fu possibile si tornò allo status quo ante; la Germania fu ancora una volta divisa in regni e principati di tipo semi-feudale; i loro sovrani, reintegrati nel loro potere e decisi a ripagarsi dei danni subiti durante gli anni di sconfitte e di umiliazioni, si accinsero a restaurare l’antico regime in ogni suo particolare, preoccupati di esorcizzare una volta per sempre lo spettro della rivoluzione democratica, il cui ricordo veniva diligentemente mantenuto vivo dai loro sudditi più illuminati. Il re di Prussia, Federico Guglielmo III, fu particolarmente energico a questo riguardo. Con l’aiuto della classe dei proprietari feudali e di quel tipo di aristocrazia terriera che esisteva in Prussia, egli seguì l’esempio dato da Metternich a Vienna e riuscì ad arrestare il normale sviluppo sociale di gran parte dei suoi sudditi per molti anni creando un’atmosfera di profondo e disperato ristagno, a confronto della quale perfino la Francia e l’Inghilterra durante gli anni della reazione sembrarono nazioni liberali e dinamiche.
Chi se ne rendeva conto più acutamente erano gli elementi più avanzati della società tedesca: non soltanto gli intellettuali, ma anche il grosso della borghesia e dell’aristocrazia liberale delle città, soprattutto nella Prussia occidentale, che aveva sempre conservato qualche contatto con la cultura europea. Questo orientamento reazionario assunse la forma di un complesso di leggi economiche, sociali e politiche miranti a conservare, e in taluni casi a restaurare, una quantità di privilegi, di diritti e di restrizioni in gran parte risalenti al Medioevo, di grette sopravvivenze del passato che da lungo tempo avevano perfino cessato di essere pittoresche: siccome questo orientamento contrastava apertamente con le esigenze dei tempi nuovi era necessario, per mantenerlo in vita, come avvenne, una complessa e rovinosa struttura doganale. Ne conseguì una politica di scoraggiamento sistematico del commercio e dell’industria; e poiché, d’altra parte, questa struttura antiquata doveva essere difesa contro la pressione popolare, fu creata una burocrazia dispotica, la quale ebbe il compito di isolare la società tedesca dall’influenza contagiosa delle idee e degli istituti liberali.
L’accresciuto potere della polizia e il rigido controllo introdotto in tutti i campi della vita pubblica e privata provocarono una serie di scritti di protesta, che furono rigorosamente stroncati dalla censura governativa. Gli scrittori e i poeti tedeschi andarono volontariamente in esilio e da Parigi o dalla Svizzera condussero una campagna appassionata contro il regime. La situazione generale si rifletteva con particolare chiarezza nelle condizioni di quel settore della società che per tutto l’Ottocento fu il barometro più sensibile all’orientamento delle trasformazioni sociali: la popolazione ebraica, poco numerosa ma presente ovunque.
Gli ebrei avevano tutti i motivi per essere grati a Napoleone: dovunque era apparso, egli si era dedicato ad abbattere l’impalcatura tradizionale delle condizioni e dei privilegi sociali, delle barriere razziali, politiche e religiose, sostituendo all’edifìcio che aveva smantellato il suo codice civile, a fondamento della cui autorità stavano i princìpi della ragione e dell’uguaglianza umana. Con questo atto che schiudeva agli ebrei l’accesso ai mestieri e alle professioni rimaste loro fino a quel momento rigidamente precluse, potè esplicarsi un patrimonio di energie e di ambizioni prima inutilizzato; la collettività ebraica, fino a quel tempo segregata, diventò da allora un nuovo e importante fattore nell’evoluzione della società europea, dando la sua adesione con entusiasmo, talvolta incontenibile, a tutta la cultura europea. Lo stesso Napoleone soppresse più tardi alcune di queste libertà e quelle che rimasero furono in massima parte revocate dai principi tedeschi dopo la restaurazione; perciò molti ebrei, che davanti alla prospettiva di un’esistenza più libera si erano affrettati ad abbandonare le abitudini tradizionali di vita dei loro antenati, dovettero convincersi che le prospettive improvvisamente intraviste venivano altrettanto improvvisamente precluse, costringendoli ad affrontare una diffìcile scelta: fare marcia indietro e tornare penosamente nel ghetto, dove per lo più erano rimaste le loro famiglie, oppure cambiare nome e religione e cominciare così una vita nuova come partecipi della collettività tedesca e della Chiesa cristiana.
Il caso di Herschel Levi fu quello tipico di tutta una generazione. Suo padre, Marx Levi, il fratello di questi, e il suo nonno materno, erano stati rabbini in Renania: come la maggior parte dei loro correligionari, essi avevano trascorso tutta la vita entro i confini di una comunità devota, formata dai membri di un’unica stirpe, gelosamente racchiusa in se stessa, la quale, di fronte alle ostilità dei vicini cristiani, si era rifugiata dietro una barriera difensiva di fierezza e di diffidenza che per molti secoli l’aveva quasi completamente isolata da ogni contatto con le trasformazioni della vita esterna. Tuttavia l’Illuminismo aveva cominciato a penetrare anche in questo mondo medioevale artificiosamente chiuso, e Herschel, che aveva ricevuto un’educazione laica, seguì l’insegnamento dei razionalisti francesi e dei loro discepoli, gli Auflklärer tedeschi, convertendosi, ancor giovane, alla religione della ragione e dell’umanità. Egli vi aderì con calore e ingenuità e i lunghi anni d’oscurantismo e di reazione non riuscirono a scuotere la sua fede in Dio e il suo semplice e ottimistico umanitarismo. Herschel si distaccò del tutto dalla famiglia, cambiò il cognome in Marx, acquisì nuovi amici e nuovi interessi. Avendo conquistato un discreto successo nella professione forense, cominciò a contemplare un tranquillo avvenire come capo di una rispettabile famiglia borghese tedesca, quando le leggi antisemitiche del 1816 gli tolsero improvvisamente ogni mezzo di sussistenza.
Probabilmente non provava grande venerazione per la Chiesa protestante, ma era ancor meno affezionato alla fede israelitica, e poiché le opinioni che professava erano vagamente teiste, non incontrò ostacoli morali o sociali a una completa accettazione del luteranesimo più o meno illuminato dei suoi concittadini prussiani. Se ebbe qualche esitazione, comunque, questa non durò a lungo. Fu ufficialmente accolto nella religione protestante al principio del 1817, un anno prima della nascita del figlio Karl, la cui ostilità contro tutto ciò che si riferiva alla religione, e segnatamente alla religione israelitica, potè ben dipendere, almeno in una certa misura, dalla situazione particolare di disagio in cui i nuovi convertiti venivano talvolta a trovarsi. Mentre taluni di loro superarono queste difficoltà diventando dei cristiani zelanti e perfino fanatici, altri, invece, si ribellarono contro ogni religione costituita, e la sofferenza che ne derivò fu proporzionale alla loro sensibilità e alla loro intelligenza. Sia Heine che Disraeli furono ossessionati per tutta la vita dal problema personale della loro singolare posizione: essi non la respinsero né l'accettarono mai completamente ma in fasi alterne si beffarono della religione dei loro padri, o la difesero, incapaci di assumere un atteggiamento univoco nei riguardi di una condizione così ambigua, e sospettando sempre che dietro la finzione della loro completa ammissione in seno alla società in cui vivevano si dissimulasse un senso di disprezzo o di compassione.
Il padre di Marx non ebbe nessuno di questi complessi. Era un uomo semplice, serio, colto, ma non dotato di intelligenza o sensibilità superiori alla media. Ammiratore di Leibniz e di Voltaire, di Lessing e di Kant, possedeva inoltre un carattere docile, timido e accomodante e finì per diventare un ardente patriota prussiano, entusiasta dell’istituto monarchico; per giustificare questa sua posizione citava come esempio la figura di Federico il Grande, principe tollerante e illuminato, certamente non inferiore a Napoleone, che pure era celebre per il disprezzo nel quale teneva gli ideologi. Dopo essere stato battezzato assunse il nome cristiimo di Heinrich ed educò la sua famiglia al protestantesimo liberale, fedele alle istituzioni vigenti e al sovrano regnante di Prussia. Per quanto egli fosse ansioso di identificare quel sovrano col principe ideale descritto dai suoi filosofi preferiti, la figura ripugnante di Federico Guglielmo III ebbe la meglio perfino sulla sua fantasia lealista. Quest’uomo pavido e riservato si comportò una volta con coraggio, quando, in occasione di un pubblico pranzo, pronunciò un discorso sull’opportunità di moderate riforme sociali e politiche degne di un sovrano saggio e benevolo, attirando immediatamente su di sé l’attenzione della polizia prussiana. Ma Heinrich Marx sconfessò subito ogni cosa e convinse tutti della propria completa innocuità. Non è improbabile che questo lieve ma umiliante contrattempo, e in particolare l’atteggiamento timoroso e sottomesso del padre, abbiano esercitato una profonda impressione sul figlio maggiore Karl Heinrich, il quale aveva allora sedici anni, e che abbiano fatto covare sotto la cenere un oscuro risentimento che gli avvenimenti successivi avrebbero poi fatto divampare.
Suo padre si era rapidamente reso conto che, mentre gli altri figli non avevano nulla di eccezionale, Karl era invece un figlio difficile e fuori del comune; a una intelligenza acuta e lucida, egli univa un carattere ostinato e imperioso, un attaccamento selvaggio alla propria indipendenza, un eccezionale controllo sui suoi sentimenti e soprattutto un appetito intellettuale insaziabile e irresistibile. Quell’avvocato pieno di scrupoli, in perpetuo compromesso con la società e con se stesso, era turbato e spaventato dall’intransigenza del figlio, che, a suo parere, era destinata a infastidire le persone autorevoli e avrebbe potuto un giorno metterlo in gravi difficoltà. Lo pregava spesso nelle sue lettere di moderare gli entusiasmi, di imporsi una certa autodisciplina, di non perdere tempo in ricerche destinate a risultare inutili, di coltivare maniere cortesi e civili, di non trascurare chi avrebbe potuto essergli utile, e soprattutto, di non inimicarsi tutti quanti col rifiuto ostinato di fare il minimo sforzo di adattamento; insomma, di ottemperare alle condizioni elementari poste dalla società in cui era destinato a vivere. Tuttavia le sue lettere, anche quando erano di aperta disapprovazione, rimanevano dolci e affettuose; pur essendo sempre più preoccupato per il suo carattere e la sua carriera, Heinrich Marx trattò il figlio con una delicatezza istintiva e non tentò mai di contrastarlo o di imporgli la propria volontà nelle questioni più importanti. I loro rapporti rimasero quindi calorosi e amichevoli fino alla morte del vecchio Marx, nel 1838.
Il padre di Marx esercitò quasi certamente una profonda influenza sullo sviluppo intellettuale del figlio. Egli era convinto come Condorcet che l’uomo fosse per natura buono e razionale, e che bastasse rimuovere gli ostacoli artificiosamente posti sul suo cammino per assicurare il trionfo di queste qualità. Gli ostacoli già cominciavano a scomparire, ed era ormai vicino il momento in cui sarebbero crollati, di fronte alla marcia irresistibile della ragione, gli ultimi bastioni della reazione, ossia la Chiesa cattolica e l’aristocrazia feudale. Le barriere sociali, politiche, religiose e razziali nascevano tutte dal deliberato oscurantismo dei preti e dei principi, scomparsi i quali sarebbe spuntata un’èra nuova per la razza umana, un’èra in cui tutti gli uomini sarebbero stati uguali non solo sul piano politico e giuridico, nei loro rapporti formali ed esterni, ma anche sul piano sociale e individuale, nei loro rapporti quotidiani più stretti.
La sua storia personale gli sembrava una palese conferma di queste opinioni: da una condizione giuridica e sociale d'inferiorità data dalla sua origine ebraica, egli in seguito aveva raggiunto l’uguaglianza con i concittadini più illuminati, si era conquistato il rispetto che gli era dovuto come essere umano e si era conformato a un modo di vivere che giudicava più razionale e dignitoso di quello della comunità (lidia quale proveniva. Era convinto che nella storia dell’emancipazione dell’umanità stesse per spuntare una nuova èra, un’èra alla luce della quale i suoi figli avrebbero potuto vivere come cittadini liberi di uno Stato giusto e liberale.
Alcuni elementi di questa fede si ritrovano chiaramente nella dottrina sociale di suo figlio. In realtà, Karl Marx non credeva che una tesi razionale potesse influire in modo determinante sull’azione; a differenza di alcuni tra gli intellettuali dell’Illuminismo francese, egli non credeva nel costante miglioramento della condizione umana. Qualunque cosa fosse definibile come progressista in termini di conquista della natura da parte dell’uomo, essa era stata conquistata al prezzo di un sempre crescente sfruttamento e avvilimento dei veri produttori, le masse dei lavoratori. Non v’era alcun movimento costante in direzione di una sempre maggiore felicità o libertà per la maggioranza degli uomini; il cammino verso l’armoniosa realizzazione delle piene potenzialità dell’uomo passava attraverso la crescente miseria e «alienazione»2 di un grande numero di essi; questo Marx intendeva dire allorché parlava del carattere «contraddittorio»3 del progresso umano.
Tuttavia, si può senz’altro affermare che fino alla morte egli conservò integra la fede nella ragione e nel progresso.
Era convinto che fosse possibile comprendere perfettamente l’evoluzione della società e che questa fosse fatalmente destinata al progresso, compiendo a ogni stadio un passo in avanti, e che ogni nuovo stadio rappresentasse un’evoluzione e si avvicinasse all’ideale razionale più di quelli che l’avevano preceduto. Marx odiava, con la stessa passione di un pensatore del Settecento, il sentimentalismo, la fede nelle cause sovrannaturali, le fantasticherie d’ogni specie, e sottovalutava sistematicamente l’influenza di forze non razionali quali il nazionalismo e la solidarietà di religione e di razza. Perciò, quantunque sia vero che la filosofia hegeliana è quella che ha esercitato la maggiore influenza sulla sua formazione spirituale, è anche vero che i princìpi del razionalismo filosofico inculcatigli dal padre e dagli amici di suo padre lo preservarono in seguito dalla capitolazione incondizionata davanti al fascino emanante dai sistemi metafìsici della scuola romantica che aveva sconvolto molti dei suoi contemporanei.
Questa decisa preferenza, acquistata fin dall’età giovanile, per i ragionamenti chiari e l’impostazione empirica dei problemi, fu quella che gli permise di conservare una certa indipendenza critica nei confronti dei sistemi filosofici prevalenti e lo portò in seguito, sotto l’influenza di Feuerbach, a una concezione più positivistica. Ciò può forse spiegare la realistica e concreta qualità del suo pensiero, anche quando è influenzato dalle idee romantiche in contrasto con l’orientamento di tanti radicali famosi del suo tempo, come Börne, Heine o Lassalle, le cui origini e la cui formazione erano per molti aspetti simili alle sue.
Sulla sua infanzia e sugli anni giovanili a Treviri si hanno scarse notizie. La madre ebbe un’importanza insolitamente limitata nella sua vita; Henrietta Pressburg (o Pressburger) proveniva da una famiglia israelita ungherese, stabilitasi in Olanda, dove suo padre era rabbino, ed era una donna solida, poco colta, dedita interamente alle cure della sua grande famiglia, che non dimostrò di comprendere minimamente le qualità e le attitudini del figlio, il cui radicalismo la scandalizzava e per la cui esistenza sembra che negli ultimi anni avesse perduto ogni interesse.
Karl era il secondo degli otto figli di Heinrich e Henrietta Marx; a parte un certo affetto infantile per la sorella maggiore Sophia, egli dimostrò scarso interesse verso i fratelli e le sorelle sia da giovane che in età matura. Frequentò nella sua città la scuola media superiore, dove fu apprezzato per la diligenza e per il tono elevato e sincero dei suoi saggi su argomenti morali e religiosi. Marx era abbastanza versato in matematica e in teologia, ma le materie che lo interessavano di più erano quelle letterarie e artistiche; questo suo orientamento era dovuto soprattutto all’influenza dei due uomini dai quali imparò di più e che ricordò con affetto e rispetto per tutta la vita. Il primo era suo padre; il secondo era il loro vicino Freiherr Ludwig von Westphalen, legato da amicizia con il simpatico avvocato e con la sua famiglia.
Westphalen era un eminente funzionario del governo prussiano e apparteneva a quella corrente colta e liberale della classe superiore tedesca, i cui esponenti si trovarono all’avanguardia di ogni movimento illuminato e progressista del loro paese durante la prima metà dell’Ottocento. Mente aperta, uomo colto e affascinante, egli faceva parte della generazione dominata dalle grandi figure di Goethe, Schiller e Hölderlin, sotto la cui influenza aveva superato le frontiere estetiche così rigorosamente stabilite dai mandarini letterari di Parigi, e condivideva la crescente passione tedesca per il genio nuovamente scoperto di Dante, Shakespeare, Omero e dei tragici greci. Attratto dalla sorprendente intelligenza e dalla sete di sapere del figlio di Heinrich Marx, lo incoraggiò a leggere, gli prestò libri, andò a passeggiare con lui nei boschi vicini e gli parlò di fischilo, Cervantes, Shakespeare, citando lunghi passi al suo ascoltatore entusiasta.
Karl, che raggiunse la maturità molto presto, lesse con fervore la nuova letteratura romantica. Il gusto che acquistò durante quegli anni così sensibili alle nuove impressioni rimase inalterato fino alla morte. Più tardi, avrebbe spesso e volentieri ricordato le serate trascorse con Westphalen in quel periodo che gli sembrò il più felice della sua vita. Proprio quando aveva avuto particolarmente bisogno di affetto e d’incoraggiamento, Westphalen, che era molto più anziano di lui, lo aveva trattato da pari a pari; mentre un solo atto sgarbato e offensivo avrebbe potuto turbarlo profondamente, egli fu invece accolto con rara cortesia e ospitalità. La sua tesi di dottorato contiene una calorosa dedica a Westphalen, piena di gratitudine e di ammirazione. Nel 1837 Marx gli chiese la mano della figlia e ne ottenne l’assenso senza difficoltà; data la grande disparità fra le loro condizioni sociali, si dice che quell’atto abbia costernato i parenti della ragazza. Parlando di Westphalen in età più avanzata, Marx, che pure non brillò per la generosità dei giudizi sugli uomini, diventava quasi sentimentale. Westphalen aveva umanizzato e rafforzato quella fede in se stesso e nelle proprie capacità che fu in ogni periodo la caratteristica più saliente di Marx. Egli è uno dei pochi rivoluzionari che non siano mai stati né contrariati né perseguitati in gioventù. Di conseguenza, malgrado la sensibilità fuori dell’ordiriario, l’amor proprio, la vanità, l’aggressività e l’arroganza, la sua figura rimane singolarmente intatta, positiva e fiduciosa in quarant’anni di malattia, di miseria e di lotta incessante.
Lasciò la scuola di Treviri all’età di diciassette anni e, seguendo il consiglio del padre, nell’autunno 1835 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bonn, dove sembrò trovarsi bene: dichiarò di avere l’intenzione di frequentare almeno sette corsi alla settimana e di seguire le lezioni del celebre August Wilhelm Schlegel su Omero, come pure lezioni sulla mitologia, sulla poesia latina, sull’arte moderna. Condusse la vita allegra e dissipata dello studente tedesco, partecipò intensamente alle attività delle associazioni goliardiche, compose poesie alla maniera di Byron, si indebitò e fu arrestato almeno una volta dalle autorità per il suo comportamento turbolento. Al termine della sessione estiva del 1836 lasciò Bonn, e in autunno si trasferì all’Università di Berlino.
Quest’avvenimento segna una profonda crisi nella sua vita. Marx era vissuto fino a quel momento in un ambiente relativamente provinciale: Treviri era una graziosa cittadina che ricordava ancora la vita di un tempo, e la grande rivoluzione sociale ed economica che stava modificando l’aspetto del mondo civile non l’aveva neppure sfiorata; lo sviluppo industriale sempre più intenso di Colonia e di Düsseldorf sembrava quanto mai remoto; nessun urgente problema di carattere sociale, intellettuale o materiale aveva turbato la tranquillità della raffinata e colta società degli amici di suo padre, placido lembo del XVIII secolo, che artificiosamente sopravviveva in pieno XIX secolo. In confronto a Treviri o a Bonn, Berlino era una grandissima e popolosa città moderna, tetra, pretenziosa ed estremamente solenne, che fungeva al contempo da centro della burocrazia prussiana e da luogo di raccolta degli intellettuali radicali scontenti, intorno ai quali andava formandosi l’opposizione a questa burocrazia. Marx seppe conservare per tutta la vita il suo buon umore e amò lo scherzo, sia pure con una certa pesantezza, ma nessuno avrebbe potuto, neppure in quell’epoca, considerarlo superficiale o frivolo. Egli si moderò non appena si immerse nell’atmosfera cupa e tragica in cui venne improvvisamente a trovarsi, e con la sua consueta energia cominciò subito a esplorare e a criticare il nuovo ambiente.
1. K. Marx, Feelings (1836), da un album di poesie dedicate a Jenny von Westphalen, CW, vol. I, p. 525 («Mai non posso perseguire in quiete / ciò che avvince la mia anima, / mai restare fermo in pace, / ma infurio senza sosta») [trad. it. Sensazioni, in K Marx, F. Engels, Opere complete, cit.,vol. 1,1980. N.dR].
2. Si veda K Marx, Economic and Philosophie Manuscripts of 1844, CW, vol. III, pp. 229-346 [trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, cit., vol. III, 1976. N.d.R].
3. Si veda, per esempio, K. Marx, A Contribution to the Critique of Political Economy (1859), Prefazione, cit., p. 263.
III.
LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO
Was ihr den Geist der Zeiten heißt,
Das ist im Grund der Herren eigner Geist,
In dem die Zeiten sich bespiegeln.
JOHANN WOLFGANG VON GOETHE1
La Raison a toujours raison2
I
La filosofia hegeliana esercitava in quell’epoca un’influenza intellettuale preponderante all’Università di Berlino, come d’altronde in ogni altra università tedesca. Essa aveva trovato un terreno predisposto a riceverla, grazie al graduale abbandono delle idee e del linguaggio del periodo classico, iniziato nel XVII secolo, ed era quindi assurta a sistema compiuto nel XVIII secolo. La figura più notevole e più originale di questo moto intellettuale, in Germania, era stata quella di Gottfried Wilhelm Leibniz, le cui idee erano state sviluppate da discepoli e interpreti in modo da formare un sistema metafisico coerente e dogmatico che, a quanto sostenevano i suoi divulgatori, era logicamente dimostrabile per mezzo di deduzioni da premesse semplici, a loro volta evidenti per coloro che avessero saputo servirsi di quell’infallibile intuizione intellettuale di cui sono dotati, fin dalla nascita, tutti gli esseri pensanti.
In Inghilterra, dove nessuna forma di razionalismo puro aveva mai trovato un terreno adatto, i filosofi più eminenti di quell’epoca avevano criticato questo rigido intellettualismo. Locke, Hume e, verso la fine del secolo, Bentham e i filosofi radicali si rifiutavano di ammettere che nella natura reale delle cose esistesse una simile facoltà di intuizione intellettuale. A prescindere dalle ben note sensazioni fisiche, nessun’altra facoltà avrebbe potuto fornire quelle notizie empiriche iniziali su cui si fondano in definitiva tutte le successive conoscenze del mondo. Poiché ogni dato era trasmesso dai sensi, la ragione non avrebbe potuto essere una fonte autonoma di conoscenza e doveva limitarsi alla funzione di ordinare, classificare e collegare i dati e di trarne deduzioni elaborando un materiale ottenuto senza il suo intervento.
In Francia la posizione razionalista era stata condannata dalla scuola materialista del XVIII secolo: Voltaire, Diderot, Condillac e Helvétius, pur riconoscendo quanto dovevano ai liberi pensatori inglesi, avevano sviluppato un proprio sistema, che continua ancor oggi a esercitare in Europa un’influenza sul modo di ragionare e di agire. Alcuni di questi pensatori non erano giunti a negare la possibilità di una conoscenza che non fosse ottenuta tramite i sensi, ma sostenevano che, pur esistendo effettivamente questa conoscenza innata che rivelava alcune verità valide, i suoi dati non bastavano a confermare le proposizioni che gli antichi razionalisti davano per verità incontestabili: qualunque individuo spregiudicato, non ottenebrato dal dogmatismo religioso o dal pregiudizio politico ed etico, sarebbe stato condotto alla stessa conclusione da una diligente e scrupolosa introspezione mentale.
Si erano difesi troppi abusi in nome dell’autorità o di qualche particolare intuizione: Aristotele, per esempio, aveva sostenuto, appellandosi all’autorità della ragione, che gli uomini per natura non sono uguali, che alcuni di essi sono naturalmente schiavi, mentre altri sono liberi; e anche nella Bibbia, secondo i cui insegnamenti la verità poteva essere rivelata per vie soprannaturali, si trovavano passaggi che avrebbero potuto servire a dimostrare la naturale malvagità dell’uomo e la necessità di porvi un freno. Tesi, queste, utilizzate dai governi reazionari per difendere la situazione esistente di disuguaglianza politica, sociale e perfino morale. Ma l’esperienza e la ragione, adeguatamente comprese, contribuivano entrambe a provare esattamente il contrario. Sarebbe stato possibile dimostrare, con una serie di argomenti inoppugnabili, che l’uomo era buono per natura, che tutti gli esseri coscienti erano parimenti provvisti di ragione, che ogni oppressione e ogni sofferenza avevano per causa l’ignoranza umana prodotta in parte dalle condizioni sociali e materiali nate nel corso di uno sviluppo storico naturale, in parte dal soffocamento della verità ad opera di tiranni ambiziosi e di preti senza scrupoli, e il più delle volte da entrambi questi fattori. Sarebbe stato possibile, mediante l’opera di un governo illuminato e benefico, smascherare e quindi annientare queste funeste influenze. Se gli uomini fossero stati liberi di agire, senza ostacoli che ne oscurassero il pensiero e ne turbassero gli sforzi, essi avrebbero avuto come obiettivi la virtù e il sapere; la giustizia e l’uguaglianza avrebbero sostituito l’autorità e il privilegio, la concorrenza avrebbe ceduto il passo alla collaborazione, la felicità e la saggezza sarebbero divenute patrimonio comune. Il principio basilare di questo razionalismo semi-empirico consisteva in una fede illimitata nella capacità della ragione di interpretare e di perfezionare il mondo; la causa ultima del mancato raggiungimento di queste mete, nel passato, era attribuita all’ignoranza delle leggi che disciplinano il comportamento della natura, sia animata sia inanimata. La miseria era il complesso risultato non solo dell’ignoranza della natura, ma anche delle leggi che disciplinano il comportamento sociale. Per abolire questa ignoranza era necessario e sufficiente un unico rimedio: l’uso della ragione e nient’altro che della ragione nella condotta degli affari umani.
Questo compito, per unanime consenso, è ben lungi dall’essere facile; gli uomini sono vissuti troppo a lungo in un mondo pervaso dalla oscurità intellettuale per poter affrontare, senza proteggersi gli occhi, la luce improvvisa del giorno. Occorre perciò insegnare gradatamente i princìpi scientifici: per quanto lo sviluppo della ragione e il progresso della verità siano per se stessi sufficienti a sconfiggere le forze del pregiudizio e dell’ignoranza, essi non si possono conseguire fino a quando non vi siano uomini illuminati, pronti a dedicare tutta la vita al compito di educare la grande massa ottenebrata dell’umanità.
Ma ecco sorgere un nuovo ostacolo: mentre la causa originaria della miseria umana - che è il disprezzo per la ragione e l’inerzia intellettuale - non è frutto di una precisa volontà, tuttavia esiste già da molti secoli una classe di uomini, la quale, realizzando che il proprio potere poggia sull’ignoranza, che rende gli uomini ciechi di fronte all’ingiustizia, ha favorito questa ignoranza con ogni artificio e con ogni mezzo in suo potere. Tutti gli uomini sono razionali per natura e tutti gli esseri razionali hanno uguali diritti davanti alla legge naturale della ragione, ma le classi dominanti, i principi, l’aristocrazia, il clero, i generali, sono fin troppo consapevoli che il diffondersi della ragione finirebbe rapidamente per aprire gli occhi a tutti i popoli del mondo sulla frode colossale con cui, in nome di una serie di vuote finzioni, come la santità della Chiesa, il diritto divino dei sovrani, le esigenze del prestigio nazionale o della difesa della patria, si costringono questi stessi popoli a rinunciare alle loro naturali rivendicazioni e a operare senza un lamento per mantenere una ristretta classe che non ha il più pallido diritto di esigere un simile privilegio.
La classe più elevata della gerarchia sociale ha perciò un diretto e personale interesse nell’ostacolare lo sviluppo normale della conoscenza dovunque questo sapere minacci di svelare il carattere arbitrario della sua autorità, e nel sostituirle un codice dogmatico, una serie di misteri incomprensibili, espressi in frasi altisonanti, con cui mira a confondere la debole intelligenza dei suoi disgraziati sudditi e a mantenerli in uno stato di cieca obbedienza. Anche se alcuni membri della classe dominante possono ingannarsi in buona fede e finire per credere anch’essi nelle proprie invenzioni, altri debbono essere consapevoli del fatto che solo mediante l’inganno sistematico, sostenuto dall’uso occasionale della violenza, si può conservare un ordine così corrotto e contro natura. Il primo dovere di un sovrano illuminato è perciò quello di spezzare il potere delle classi privilegiate e di consentire alla ragione naturale, della quale sono dotati tutti gli uomini, di prevalere di nuovo; e poiché la ragione non può combattere contro se stessa, ogni conflitto privato e pubblico finisce per derivare da qualche elemento irrazionale, da una mancata percezione delle vie da seguire per giungere a un armonioso accordo fra interessi apparentemente contrastanti.
La ragione ha sempre ragione. Ogni domanda comporla sempre un’unica vera risposta, che si può con sufficiente diligenza infallibilmente scoprire. Ciò vale sia per i problemi etici o politici, per la vita individuale o sociale, che per i problemi fisici o matematici. Non appena trovata la risposta, la sua traduzione in pratica non richiede che la capacità tecnica: ma occorre prima eliminare i nemici tradizionali del progresso e insegnare agli uomini l’importanza di agire in ogni campo seguendo il parere di gente disinteressata e scientificamente esperta, il cui sapere si fondi sulla ragione e l’esperienza. Quando si sarà raggiunta questa meta, non vi saranno più ostacoli sulla via che conduce alla nuova èra.
Ma l’influenza dell’ambiente non è meno importante di quella dell’educazione. Chi volesse predire il corso della vita di un uomo dovrebbe prendere in considerazione, oltre alle sue peculiarità fisiche e alla natura della sua occupazione quotidiana, anche i caratteri della zona in cui vive, come il clima, la fertilità del suolo, la distanza dal mare. L’uomo è un oggetto della natura e l’anima umana, come la sostanza materiale, non è governata da nessuna influenza soprannaturale e non possiede alcuna proprietà occulta; se ne può spiegare adeguatamente tutto il comportamento per mezzo di ipotesi fisiche sottoponibili a comune verifica.
Il materialista francese La Mettrie sviluppò quest’empirismo fino, e per la verità oltre, le sue estreme conseguenze in un celebre trattato: L’uomo macchina, che provocò grandissimo scalpore quando fu pubblicato. Le sue opinioni rappresentavano in forma estremista le idee condivise in varia misura dai direttori Enciclopedia, Diderot e d’Alembert, da Holbach, Helvétius e Condillac, i quali, pur dissentendo su altri punti, erano concordi nell’ammettere che la principale differenza esistente fra l’uomo, le piante e gli animali inferiori è che l’uomo possiede l’autocoscienza, cioè la consapevolezza di alcuni suoi atti, e ha la capacità di servirsi della ragione e della fantasia, di concepire scopi ideali e di conferire un valore morale a questa o a quella attività o caratteristica secondo che essa tenda a favorire o a ritardare il raggiungimento dei fini desiderati.
Un grave paradosso che questa opinione comportava era la difficoltà di conciliare l’esistenza del libero arbitrio con l’influenza assolutamente decisiva del carattere e dell’ambiente, che era poi, riproposto in nuovi termini, il vecchio conflitto fra libero arbitrio e prescienza divina, con la Natura al posto di Dio. Spinoza aveva osservato3 che se una pietra, mentre cade nel vuoto, fosse capace di pensare, potrebbe benissimo immaginarsi di aver liberamente scelto il proprio cammino, non conoscendo le cause esterne, quali lo scopo e la forza di chi l’ha gettata e il mezzo naturale che consente la caduta. Allo stesso modo l’ignoranza delle cause materiali della sua condotta fa supporre all’uomo di essere in qualche modo diverso dalla pietra che cade: un sapere universale farebbe rapidamente scomparire questa vana illusione, anche se potrebbe persistere, ormai priva del potere di ingannare, la sensazione di libertà che ne scaturisce.
Per quanto riguarda l’empirismo estremo, questa dottrina deterministica può essere resa coerente col razionalismo ottimistico, ma comporta conseguenze assolutamente opposte per quanto riguarda la possibilità di operare una riforma nelle cose umane. Se, infatti, gli uomini diventano santi o criminali esclusivamente per effetto del movimento della materia nello spazio, gli educatori sono altrettanto rigorosamente determinati nelle loro azioni quanto coloro che essi hanno il dovere di educare. Tutto accade in un dato modo per effetto di processi naturali immutabili; non si possono attuare progressi per volontà degli individui, quali che siano la saggezza, le buone intenzioni e il potere di cui sono dotati, perché essi come ogni altro essere, non possono cambiare ciò che per natura è inevitabile.
Questo celebre dilemma, spogliato della vecchia veste teologica, si presentò ancor più acuto nella forma laica, ponendo entrambe le parti in difficoltà, ma fu oscurato dai problemi più vasti che si stavano trattando. Su di un fronte erano schierati gli atei, gli scettici, i deisti, i materialisti, i razionalisti, i democratici, gli utilitaristi; mentre nell’altro campo si trovavano i teisti, i metafisici, i sostenitori e gli apologeti dell’ordinamento esistente; la frattura tra l'Illuminismo e il clericalismo era così profonda e il conflitto così aspro che le difficoltà dottrinali all’interno di ciascun campo passarono relativamente inosservate.
Le tesi dei primi finirono per costituire il fondamento dottrinario dei movimenti radicali del secolo successivo. Esse mettevano in rilievo la bontà naturale o potenziale degli uomini non corrotti dal malgoverno o da un regime oscurantista e l’influenza illimitata che avrebbe potuto avere un’educazione razionale tendente a emancipare le masse dalle loro attuali sofferenze, a organizzare una distribuzione più giusta e più scientifica delle ricchezze del mondo e a condurre in tal modo l’umanità verso quel grado di felicità che era possibile raggiungere. Nel XVIII secolo la fantasia degli uomini era stata soggiogata dall’enormità dei progressi compiuti dalle scienze matematiche e fisiche nel corso del secolo precedente e si era considerata del tutto normale una interpretazione dei fenomeni sociali e del comportamento umano che seguisse il metodo sperimentato con tanta efficacia da Keplero, Galileo, Cartesio e Newton.
Se il merito principale di aver dato vita a tale corrente di opinioni potesse attribuirsi a un’unica persona, questa sarebbe indiscutibilmente Voltaire. Forse egli non ne fu l’ideatore, ma ne fu certamente il maggiore e più celebre esponente per oltre mezzo secolo. I suoi libri, i suoi pamphlet, la sua stessa presenza contribuirono senza dubbio più di ogni altro fattore a distruggere l’autorevolezza dell’assolutismo e del cattolicesimo. L’influenza da lui esercitata non cessò alla sua morte. La libertà di pensiero si identificò col suo nome e in battaglia ne fece la propria bandiera; nessuna rivoluzione popolare, dai tempi di Voltaire ai giorni nostri, ha mancato di trarre alcune delle armi più efficaci da quell’inesauribile arsenale che due secoli non hanno reso antiquato. Ma se Voltaire creò la religione dell’uomo, Rousseau fu il maggiore dei suoi profeti. La sua concezione dell’uomo era differente da quella dei radicali del suo tempo e in ultima analisi la sovvertiva. Ma egli era un predicatore e un propagandista geniale, e conferì al movimento un tono nuovo, eloquente, un’impronta passionale, un’espressione linguistica più ricca, più ambigua e più densa di sentimento, che influenzò profondamente gli scrittori e i filosofi del XIX secolo. Si può, in effetti, attribuirgli la creazione dei nuovi modi di pensare e di sentire e del nuovo idioma che esaltava la volontà a spese della ragione e dell’indagine, e che nel campo dell’arte e delle scienze sociali fu adottato come mezzo espressivo più congeniale dai ribelli del XIX secolo: cioè dalla prima generazione di romantici, quella che cercò ispirazione nella storia e nella letteratura rivoluzionaria di Francia e in loro nome innalzò la bandiera della rivolta nelle proprie regioni arretrate.
Uno dei più fervidi difensori di questa dottrina, e certamente il più efficace, fu un gallese, l’industriale idealista Robert Owen. La sua professione di fede era riassunta nel «principio» enunciato nel primo dei quattro Essays on the Principle of the Formation of the Human Character:4
Si può dare a ogni società e perfino a tutto il mondo qualsiasi impronta, dalla migliore alla peggiore, dalla più ignorante alla più illuminata, mediante l’applicazione di determinati mezzi, che in larga misura sono posseduti e controllati, o possono facilmente essere resi tali, da coloro che dirigono il governo delle nazioni.
Egli aveva trionfalmente dimostrato la validità della sua teoria creando condizioni esemplari nelle proprie filande a New Lanark, con la limitazione dell’orario di lavoro e con la creazione di un sistema di assistenza sanitaria e di una cassa di risparmio. Riuscì ad accrescere la produttività della fabbrica, ed elevò in misura notevolissima il livello di vita degli operai; ma l’opinione pubblica fu soprattutto colpita dal fatto che il suo patrimonio risultò triplicato. New Lanark diventò una meta di pellegrinaggio per sovrani e uomini di Stato e, trattandosi del primo esperimento riuscito di collaborazione pacifica fra lavoro e capitale, ebbe un’influenza considerevole sulla storia del socialismo, e su quella della classe lavoratrice. Gli altri suoi tentativi di attuare riforme pratiche ebbero però minor successo. Owen, che morì vecchissimo verso la metà dell’Ottocento, fu l’ultimo superstite del periodo classico del razionalismo e fino all’ultimo giorno di vita conservò, malgrado i ripetuti insuccessi, piena fiducia nell’illimitato potere dell’educazione e nella capacità dell’uomo di perfezionarsi.
La vittoriosa avanzata delle nuove idee ebbe sulla cultura europea un effetto non meno importante del Rinascimento italiano. Lo spregiudicato spirito di ricerca che si era imposto nel campo dei problemi individuali e sociali, la tendenza a rimettere ogni cosa in discussione davanti al tribunale della ragione, acquistarono un aspetto sistematico e furono accettati in modo sempre più entusiastico in vasti settori della società. Il coraggio intellettuale e, più ancora, l’onestà intellettuale, diventarono virtù itila moda. Voltaire e Rousseau furono festeggiati e ammirati dappertutto, Hume fu accolto con grandi onori a Parigi. In questo clima si formò il carattere dei rivoluzionari del 1789, generazione austera ed eroica che fu insuperata per la chiarezza e la purezza delle convinzioni, per l’intelligenza vigorosa e umanitaria, aliena da sentimentalismi, e soprattutto per l’assoluta integrità morale e intellettuale, saldamente fondata sulla convinzione che la verità in quanto tale avrebbe finito per prevalere, convinzione che gli anni di esilio e di persecuzione non riuscirono a scuotere. Le idee morali e politiche di quegli uomini, le loro espressioni di lode e di biasimo sono ormai diventate da lungo tempo patrimonio spirituale comune ai democratici di tutte le tendenze e di tutti i colori; i socialisti e i liberali, i fautori dell’utilitarismo e dei diritti naturali parlano la loro lingua e professano la loro fede, forse con minore ingenuità, o con una fiducia non altrettanto assoluta, ma anche in modo meno eloquente, meno semplice e meno convincente.
II
Il contrattacco venne alla fine del secolo. Maturò in terra tedesca ma si diffuse rapidamente in tutto il mondo civile e ostacolò l’empirismo avanzante in Occidente sostituendolo con una visione meno razionalistica della natura e dell’individuo che, nel bene e nel male, ha avuto un effetto fondamentale e ha trasformato la nostra concezione dell’uomo e della società. La Germania, spiritualmente e materialmente paralizzata dalla guerra dei Trent’anni, verso la fine del Settecento stava cominciando a produrre ancora una volta, dopo un lungo periodo di sterilità, una sua cultura, sostanzialmente autoctona, anche se influenzata dai modelli francesi che tutta l’Europa si sforzava di imitare.
Nell’ambito della filosofia e in quello della critica i tedeschi iniziarono a creare opere che, sia pure in forma più rozza, riflettevano passioni più ardenti, si esprimevano con maggiore veemenza, e riuscivano a turbare gli spiriti più di ogni altro scritto apparso in Francia ad eccezione delle pagine di Rousseau. I francesi interpretarono questo disordinato fermento come un grottesco travestimento del proprio stile limpido e della propria squisita simmetria. Le guerre napoleoniche, che alle ferite riportate dall’orgoglio intellettuale dei tedeschi aggiunsero l’umiliazione della disfatta militare, approfondirono ancora di più questo solco, e l’energica reazione patriottica che cominciò a manifestarsi in quel periodo, trasformandosi in un’esplosione impetuosa di patriottismo dopo la sconfitta di Napoleone, venne a identificarsi con le nuove teorie, definite romantiche, dei successori di Kant: la filosofia di Fichte, Schelling e dei fratelli Schlegel acquistò così un significato nazionale e raggiunse tale importanza e diffusione da trasformarsi, in Germania, quasi in dottrina ufficiale. All’empirismo scientifico dei francesi e degli inglesi, i pensatori tedeschi contrapposero lo storicismo metafisico di Herder e di Hegel. Questo storicismo, fondato sulla critica alle dottrine degli avversari, offrì un’audace alternativa ed esercitò un’influenza così profonda da modificare il corso della civiltà europea e lasciare un’impronta indelebile sulla fantasia e sul carattere delle intuizioni.
I filosofi classici del Settecento si erano chiesti: dato che l'uomo non è altro che un oggetto nella natura, quali sono le leggi che ne regolano il comportamento? Se è possibile scoprire con mezzi empirici le cause per cui i corpi cadono, i pianeti compiono le loro rivoluzioni, gli alberi crescono, il ghiaccio si trasforma in acqua e l’acqua in vapore, deve essere altrettanto possibile scoprire quali condizioni impongono agli uomini di mangiare, bere, amare, odiare, combattersi l’un l’altro, costituire famiglie, tribù, nazioni, e quindi monarchie, oligarchie, democrazie. Fino a quando un Newton o un Galileo non scopriranno queste leggi, non potrà esistere una vera scienza della società.
Hegel considerava questo empirismo radicale come espressione di un dogmatismo scientifico ancor più disastroso della teologia che si proponeva di spodestare, perché cadeva nell’errore di ritenere che soltanto i metodi validi nell’ambito delle scienze naturali fossero accettabili in tutti gli altri settori dell’esperienza. Nutriva dubbi sulla validità del nuovo metodo persino nello studio del mondo fisico e temeva, senza alcun fondamento, che i cultori delle scienze naturali scegliessero arbitrariamente i fenomeni da esaminare e si limitassero, non meno arbitrariamente, solo ad alcuni tipi di ragionamento. Ma se considerava senza alcuna simpatia l’empirismo nel campo delle scienze, giudicava in modo ancora più severo le conseguenze rovinose che esso avrebbe potuto avere una volta applicato nel campo della storia umana.
Se si fosse scritta la storia in base a «leggi» scientifiche, nel senso dato a quest’espressione da Voltaire o da Hume, ne sarebbe risultata una mostruosa deformazione dei fatti, che gli storici più illustri, da Tucidide a Montesquieu, e gli stessi Hume e Voltaire, avevano inconsapevolmente evitato con sicura intuizione quando non enunciavano teorie ma scrivevano la storia. Hegel concepiva la storia secondo due dimensioni: quella orizzontale, in cui i fenomeni attinenti alle diverse sfere di attività appaiono connessi fra di loro in una specie di schema generale unitario, che conferisce a ogni periodo un carattere particolare, «organico», riconoscibile e unico; e la dimensione verticale, in cui la stessa sezione di avvenimenti è vista come elemento di una successione temporale, come fase necessaria di un processo in corso, contenuta e generata, in un certo senso, dalla fase che la precede nel tempo, la quale è essa stessa concepita come elemento che ha già in sé, pur se meno evolute, quelle stesse tendenze e quelle stesse forze, il cui pieno emergere contribuisce a dare all’epoca successiva il suo volto definitivo. Perciò ogni epoca per essere pienamente compresa non deve essere considerata unicamente in rapporto col passato, perché contiene nel suo grembo i semi dell’avvenire, anticipando il profilo di ciò che deve ancora accadere; nessuno storico, per quanto scrupoloso, per quanto ansioso di non lasciarsi trasportare oltre la semplice prova dei fatti, dovrà permettersi di ignorare questo tipo di relazione. Soltanto così potrà presentare nella loro giusta prospettiva gli elementi essenziali del periodo studiato, distinguendo ciò che è importante da ciò che è secondario, le caratteristiche centrali, determinanti di un’epoca, da quelle non sostanziali, accidentali, che si sarebbero potute riscontrare ovunque e in qualsiasi momento e che non hanno, di conseguenza, profonde radici nello specifico passato, né grande influenza sui particolari sviluppi di quell’epoca.
Il concetto di sviluppo, in virtù del quale si afferma che la ghianda contiene potenzialmente la quercia e può essere adeguatamente descritta solo in rapporto alla sua crescita, è una dottrina che risale ad Aristotele e forse a qualcuno prima di lui. Nel Rinascimento essa tornò in auge e fu portata alle sue estreme conseguenze da Leibniz, il quale insegnò che l’universo è composto da un numero infinito di entità autonome e che ciascuna di queste racchiude in sé tutto il suo passato e tutto il suo futuro. Egli sosteneva che niente accade per caso; nessun oggetto poteva essere descritto nel modo voluto dagli empiristi, cioè come una successione di fenomeni o di stati continui o discontinui connessi nella migliore delle ipotesi solo dal rapporto esterno della causalità meccanica. Per essere valida, la definizione di un oggetto doveva spiegare i motivi della sua necessaria evoluzione in base alla storia specifica di quella entità, ciascun momento del cui sviluppo era, secondo l’espressione di Leibniz, «gros de l'avenir et chargé du passé».5 Leibniz non fece nessun tentativo particolare di applicare questa dottrina metafisica ai fatti storici, ma Hegel ritenne che quello fosse il campo più adatto al suo impiego. Infatti, se non si postulano rapporti diversi da quello scientifico di causalità, la storia diventa solo una successione di eventi raccontati superficialmente. Spiegare è fornire i motivi razionali e non semplicemente gli antecedenti.
Spiegare una successione di episodi, in questo senso, vuol dire riferirli a un processo razionalmente intelligibile, cioè all’attività intenzionale di uno o di molti esseri: Dio o gli uomini. In mancanza di ciò gli eventi restano inspiegati, senza motivo, «privi di senso». Un modello meccanico può permettere di predire o controllare il comportamento degli oggetti, ma non può fornire una spiegazione razionale. E una serie di eventi verificatisi nelle vite umane e rimasti senza spiegazione non giunge a costituire la storia dell’uomo. Analogamente, non sembra possibile interpretare e neppure enunciare il carattere specifico di una determinata figura o di un periodo della storia, né la particolare essenza - cioè, lo scopo - incarnata in un’opera artistica o scientifica, impiegando unicamente i metodi delle scienze naturali, perché ciascuna di quelle caratteristiche potrà forse presentare numerose analogie con qualcosa che è accaduto prima o dopo, ma la sostanza complessiva rimane per alcuni aspetti unica e ricorre una volta sola; non si può, dunque, interpretarla con un metodo scientifico che risulta valido soltanto quando accada esattamente il contrario, ossia quando lo stesso fenomeno, la stessa combinazione di caratteristiche si ripetano e ricorrano regolarmente in modo costante.
Il nuovo metodo fu applicato per la prima volta vittoriosamente da Herder, il quale, forse influenzato dallo sviluppo della coscienza nazionale e culturale in Europa, spinto dall’odio verso il cosmopolitismo e l’universalismo livellatore dell’imperante filosofia francese, applicò il concetto di sviluppo organico (come venne a essere definito più tardi) alla storia di intere civiltà e nazioni, come a quella degli individui. Egli riteneva, in realtà, che fosse essenziale applicarlo nel primo caso, perché si deve ricordare che gli individui fanno la loro comparsa a un determinato stadio di sviluppo della società, quando questa, mediante il pensiero e l’azione dei suoi maggiori esponenti, raggiunge la sua espressione più tipica e più consapevole. Egli si immerse perciò nello studio della civiltà nazionale tedesca, delle sue origini barbare, della sua filologia e della sua archeologia, della sua storia e dei suoi istituti medioevali, del suo folklore e dei suoi elementi tradizionali. Partendo da questi caratteri cercò di ritrarre lo spirito tedesco della sua epoca, in cui vedeva la forza creatrice che aveva reso unitario quel particolare sviluppo nazionale, la cui interpretazione non avrebbe potuto basarsi infatti sul rapporto rozzamente meccanicistico della semplice successione cronologica, che può solo spiegare in modo soddisfacente il ciclo uniforme e monotono di avvenimenti meccanicamente determinati come l’avvicendamento delle colture, o le rivoluzioni annue della terra, che non sono storia perché non sono modi di esprimersi dell’uomo.
Hegel sviluppò questo metodo in termini ancor più estesi e ambiziosi. Sosteneva che la spiegazione offerta dal materialismo francese rappresentava, nel migliore dei casi, un’ipotesi atta a spiegare i fenomeni statici, ma non quelli dinamici, le differenze, ma non il mutamento. Date alcune circostanze materiali si può prevedere che negli uomini che vi nascono si svilupperanno certe caratteristiche, senz’altro attribuibili a cause fisiche e all’educazione impartita loro dalla precedente generazione, influenzata anch’essa dalle medesime circostanze. Ma anche se fosse così, quale insegnamento ne ricaveremmo effettivamente? Le condizioni naturali dell’Italia, ad esempio, erano più o meno le stesse nel I secolo d.C. come nell’VIII o nel XV; eppure gli antichi romani erano molto diversi dai loro discendenti italiani, e negli uomini del Rinascimento si potevano rilevare alcune spiccate caratteristiche che l’Italia nella sua decadenza stava perdendo o aveva totalmente perduto. Queste condizioni relativamente costanti che rientrano nella sfera di competenza dei cultori di scienze naturali non possono quindi essere la causa determinante dei mutamenti che avvengono nel corso della storia, del progresso e della reazione, della gloria e della decadenza. Bisogna postulare qualche fattore dinamico per interpretare sia le trasformazioni in quanto tali, sia la particolare direzione che esse finiscono per rivelare. Lo svolgimento così inteso non è, indubbiamente, suscettibile di ripetersi: ogni epoca eredita qualche cosa di nuovo dal passato e ciò la rende differente da ogni periodo che l’ha preceduta; il principio evolutivo esclude quello della ripetizione uniforme, che è la base sulla quale edificarono i loro sistemi Galileo e Newton. Se la storia possiede delle leggi, queste saranno evidentemente di una specie diversa da quella delle leggi scientifiche che erano sembrate le uniche possibili fino a quel momento; e poiché tutto ciò che esiste permane e ha una sua storia, proprio per questa ragione le leggi storiche debbono essere identiche a quelle che regolano la vita di ogni altra cosa esistente.
Dove trovare il principio dinamico dello svolgimento storico? Se si affermasse che esso risiede in quella potenza misteriosa e occulta che gli uomini non possono sperare neppure di scoprire, famoso oggetto di derisione da parte degli empiristi, si ammetterebbe il fallimento dell’uomo, la sconfìtta della ragione. Sarebbe strano che ciò che regola la vita normale non ci fosse più presente di ogni altra cosa, non costituisse l’esperienza che ci è più nota. È sufficiente considerare la nostra vita come microcosmo e modello dell’universo. Abbiamo l’abitudine di spiegare gli atti e le idee di un individuo con il suo carattere o con la sua indole, con le sue intenzioni, i suoi motivi, i suoi obiettivi, che non consideriamo una cosa indipendente, totalmente distinta da quegli atti e da quelle idee, bensì come elemento comune che essi esprimono: quanto meglio affermiamo di comprendere un uomo, tanto meglio si può dire che ne conosciamo l'attività morale e mentale in rapporto al mondo esterno. Hegel trasferì il concetto di carattere individuale, dei fini, della logica, della qualità dei pensieri, delle scelte, insomma dell’attività e dell’esperienza così come si svolgono nella vita di un uomo, al caso di intere civiltà e nazioni. Egli definì questo concetto in vari modi, chiamandolo Idea o Spirito, distinse le fasi della sua evoluzione e dichiarò che esso era il movente, il fattore dinamico dello sviluppo di determinati popoli e civiltà, e quindi dell’universo cosciente in generale.
Sostenne inoltre che tutti i pensatori c he lo avevano preceduto avevano commesso l’errore di considerare come relativamente indipendenti fra loro le diverse sfere di attività di un determinato periodo storico, di distinguere le guerre di un’epoca storica dalla sua arte, la sua filosofia dalla sua vita quotidiana. Naturalmente non si sarebbe compiuta questa distinzione se si fosse trattato di individui, perché osservando coloro che conosciamo meglio, ne vediamo quasi inconsapevolmente tutti gli atti in rapporto gli uni con gli altri, come manifestazioni diverse di un unico flusso di attività aventi un loro motivo; siamo influenzati dagli innumerevoli elementi tratti da questo o quell’aspetto della loro vita, che agiscono tutti insieme sull’immagine che ci facciamo di loro. Secondo Hegel, questa impostazione deve valere anche per il concetto che abbiamo di una civiltà o di un particolare periodo storico. Gli storici passati avevano mostrato la tendenza a scrivere saggi monografici sulla storia di una determinata città o di una determinata campagna militare, sulle gesta di un re o di un comandante, come se fosse stato possibile presentarli isolatamente dagli altri fenomeni del loro tempo. Ma, come gli atti di un individuo appartengono a tutta la persona, così i fenomeni culturali di un’epoca, il tipo particolare di avvenimenti che in essa si svolgono, sono espressioni dell’intera epoca e della sua intera personalità, di una particolare fase dello spirito indagatore dell’uomo che tenta di comprendere, di controllare tutto quello che incontra: e fa ciò per trovare la completa padronanza di sé che costituisce la nozione hegeliana di libertà. Questo carattere unitario di un’epoca, in quanto espressione di una visione integrale delle cose, è un fatto che noi d’altronde riconosciamo implicitamente quando affermiamo che un fenomeno è più tipico del mondo antico che di quello moderno, o di un’epoca di caos che di un’epoca di tranquillità e di pace.
Bisogna però riconoscerlo esplicitamente. Quando, ad esempio, si scrive la storia della musica del Seicento e si studia la nascita di una particolare forma di polifonia, conviene almeno domandarsi se non sia possibile osservare lo sviluppo di un modello analogo nella storia scientifica di quel periodo, se la scoperta simultanea del calcolo differenziale da parte di Newton e di Leibniz sia stata puramente occasionale o non determinata invece da talune caratteristiche generali di quella particolare fase della cultura europea, che produsse un tipo di ingegno non dissimile in Bach e in Leibniz, in Milton e in Poussin. Se gli storici hanno l’ossessione del metodo scientifico rigoroso potranno essere indotti, sull’esempio degli scienziati, a elevare una serie di barriere fra i loro rispettivi campi d’indagine e a trattare i vari rami dell’attività umana come se funzionassero in un relativo isolamento, considerandoli alla stregua di tante correnti separate che si incrociano raramente e senza conseguenze. Lo storico che voglia adempiere bene il suo compito, elevarsi al di sopra del cronista e del collezionista di antichità, deve invece sforzarsi di dipingere il ritratto di un’epoca in movimento, di raccogliere ciò che è caratteristico, distinguere fra i suoi elementi costitutivi, fra il vecchio e il nuovo, fra ciò che è fecondo e ciò che è sterile, fra i residui morenti di un’epoca e i segni premonitori del futuro, nati prima del loro tempo.
Questa esigenza di cercare l’espressione più viva dell’universale nel particolare, in ciò che è concreto, distinto, individuale, questo bisogno di emulare l’arte e il realismo del biografo e del pittore piuttosto che quelli del fotografo e dello statistico, costituiscono il retaggio originale tramandatoci dallo storicismo tedesco. Se la storia è una scienza, non deve per questo lasciarsi trarre in inganno dalla falsa analogia con la fisica o la matematica, le quali, ricercando le caratteristiche comuni più diffuse e costanti, ignorano deliberatamente ciò che appartiene specificamente a una sola epoca e a un solo luogo, sforzandosi di rimanere quanto più sia possibile generiche, astratte, formali. Lo storico, al contrario, deve vedere e descrivere i fenomeni nel loro quadro più ampio, sullo sfondo del passato e nella prospettiva dell’avvenire, collegandoli organicamente con tutti gli altri fenomeni scaturiti dallo stesso impulso culturale.
Enorme fu l’effetto di questa dottrina, oggi così diffusa, che fu in pari tempo sintomo e causa di un nuovo modo di vedere le cose da parte di un’intera generazione. Nasce, fra l’altro, da questa nuova concezione storicistica la nostra abitudine di attribuire particolari caratteristiche a periodi e luoghi determinati e di considerare gli individui e i loro atti come espressione tipica di nazioni o di determinate epoche, la tendenza a conferire quasi una personalità propria, qualità attivamente determinanti a certi periodi o a certi popoli, o perfino a orientamenti sociali largamente condivisi in virtù dei quali si afferma che certi atti sono espressione dello spirito del Rinascimento o della Rivoluzione francese, del Romanticismo tedesco o dell’età vittoriana. Le dottrine più strettamente logiche di Hegel e il suo giudizio sul metodo delle scienze naturali furono sterili ed ebbero effetti nel complesso disastrosi. La sua vera importanza risiede nell'influenza che esercitò nel campo degli studi sociali e storici, e nell’aver creato nuove discipline che comportavano la storia e la critica degli istituti umani, da lui concepiti come delle specie di grandi personalità collettive, dotate di vita autonoma e di caratteristiche proprie, tali da non poter essere descritte tenendo conto unicamente degli individui che le componevano. Questa rivoluzione del pensiero ha prodotto miti irrazionali e pericolosi, come per esempio il considerare lo Stato, la razza, la storia, le epoche alla stregua di super-personalità che esercitano un impatto determinante; ma i suoi effetti sullo studio del comportamento umano sono stati molto fruttuosi. Nacque, in gran parte per sua influenza, una nuova scuola storica tedesca, le cui opere fecero apparire ingenui e scarsamente scientifici tutti gli scritti che spiegavano gli avvenimenti sulla base del carattere e delle intenzioni, della sconfitta o del trionfo personale di questo o di quel re o uomo politico.
Se la storia era l’evolversi dello Spirito assoluto, che Hegel non identificava esclusivamente con lo spirito umano, poiché egli negava ogni netta frattura tra spirito e materia, occorreva riscriverla come storia dell’attuazione dello Spirito. L’orizzonte sembrò improvvisamente più vasto. La storia del diritto cessò di essere un campo isolato riservato agli archeologi e agli studiosi di epigrafia e si trasformò in giurisprudenza storica. In base a questa gli istituti giuridici contemporanei furono visti come il prodotto di un’ordinata evoluzione iniziata dal diritto romano o da una legge anteriore, nella quale si rifletteva lo spirito del diritto, della società nel suo aspetto giuridico, strettamente legato agli aspetti politici, religiosi e sociali della vita.
Da quel momento ebbero inizio la storia dell’arte e la storia della filosofia come elementi complementari e indispensabili a una storia generale della cultura. D’un tratto acquistarono importanza fatti prima ritenuti insignificanti o disprezzabili e si studiarono alcune zone di attività dello Spirito rimaste fino ad allora inesplorate, la storia del commercio, della moda, del linguaggio, del folklore, delle arti domestiche, divennero elementi essenziali di una storia istituzionale, completa e «organica» dell’umanità.
Tuttavia, almeno per un aspetto, Hegel si distaccò nettamente dal concetto leibniziano di sviluppo, inteso come progresso regolare di una sostanza dallo stato potenziale a quello attuale. Egli difese con energia la realtà e la necessità dei conflitti, delle guerre e delle rivoluzioni, della tragedia delle devastazioni e delle distruzioni nel mondo. Sostenne, seguendo in questo Fichte, che ogni processo comporta una necessaria tensione tra forze in conflitto, fra loro incompatibili, che si evolvono contrastandosi. Questa lotta, ora nascosta e ora aperta, si può ritrovare in tutti i campi dell’attività cosciente, sotto forma di urto fra tante tendenze e movimenti, di carattere materiale, morale e intellettuale, che si affrontano pretendendo tutti di fornire soluzioni totali e provocando nuove crisi proprio per questa loro unilateralità. Lo scontro si fa sempre più brutale e più aspro, per poi trasformarsi in conflitto aperto e culminare nell’urto finale, la cui violenza distrugge tutti i contendenti. A questo punto si spezza una linea di sviluppo fino a quel momento ininterrotta, con un balzo improvviso si raggiunge un nuovo livello, e torna a intervenire la tensione fra nuovi raggruppamenti di forze.
I balzi di più ampia portata e maggiore rilievo si chiamano rivoluzioni politiche. Ma altri ne avvengono comunemente in ogni sfera di attività, nelle arti come nelle scienze, nello sviluppo degli organismi studiati dai biologi e nei processi atomici studiati dai chimici e, infine, nelle normali discussioni fra due avversari, quando nel conflitto tra due errori parziali si scopre una nuova verità, anch’essa solo relativa, anch’essa assalita da una contro-verità, e dalla distruzione di ciascuna di esse a opera dell’altra si raggiunge un livello successivo in cui gli elementi antagonistici sono trasfigurati in un nuovo e organico insieme, mentre il processo continua senza fine.
Hegel definì questo processo «dialettico». Il concetto di lotta e di tensione fornisce appunto quel principio dinamico che occorre per interpretare il movimento della storia. Il pensiero non è altro che la realtà autocosciente e i suoi processi non sono altro che i processi della natura nella loro forma più chiara. Il principio del perpetuo assorbimento e della risoluzione (Aufhebung) in un’unità sempre più alta si verifica nel pensiero razionale, come nella natura, e dimostra che i suoi processi non sono senza scopo, come i movimenti meccanici postulati dal materialismo, ma possiedono una logica interna e tendono verso una sempre maggiore autorealizzazione. Ogni transizione importante è caratterizzata da un grande balzo rivoluzionario, come per esempio il sorgere del cristianesimo, la distruzione di Roma a opera dei barbari, o la grande Rivoluzione francese e il nuovo mondo napoleonico. In ciascun caso, lo Spirito o Idea universale compie un passo verso la sua completa autocoscienza, mentre per l’umanità ha inizio una nuova fase, ma ciò non avviene mai esattamente nella direzione prevista da uno dei due movimenti impegnati nel conflitto preliminare. Delle due parti, quella che era stata più fermamente convinta della propria capacità di modellare con i suoi sforzi la realtà rimane più profondamente e più irrazionalmente delusa.
I nuovi metodi di ricerca e di interpretazione che si erano improvvisamente diffusi ebbero un effetto profondo e quasi inebriante sugli ambienti tedeschi più colti e, in minore misura, sulle loro appendici culturali, cioè sulle Università di Pietroburgo e di Mosca. La dottrina hegeliana diventò il credo ufficiale di ogni persona che avesse pretese intellettuali. Le idee nuove vennero applicate con un entusiasmo sfrenato, difficilmente immaginabile in un’epoca più scettica di fronte alle idee, in ogni campo del pensiero e dell’azione. Gli studi accademici furono completamente trasformati, e lo studioso non vide più intorno a sé che la logica hegeliana, la giurisprudenza hegeliana, l’etica e l’estetica hegeliane, la teologia hegeliana, la filologia hegeliana, la storiografia hegeliana. Centro del movimento fu Berlino, dove Hegel trascorse gli ultimi anni della sua vita. Il patriottismo e la reazione politica e sociale si risollevarono. La teoria che sosteneva la fratellanza di tutti gli uomini e l’artificiosità delle differenze nazionali, sociali e di razza, dovute a un’educazione errata, subì una battuta d’arresto a opera dell’opposta tesi idealista, secondo cui tutte queste differenze, nonostante la loro apparente irrazionalità, esprimono effettivamente il ruolo storico di una razza o di una nazione, e si fondano su di una necessità metafisica. Esse sono necessarie allo sviluppo dell’Idea, parzialmente incarnata dalla nazione, e non si possono far scomparire da un momento all’altro semplicemente con l’impiego della ragione a opera di singoli riformatori.
Le riforme debbono sprigionarsi dal terreno che è stato loro preparato storicamente, altrimenti sono destinate a fallire, sono condannate in anticipo dalle forze della storia, che si muovono nel proprio tempo e col proprio ritmo, in armonia con la propria logica. Quando ci si vuole emancipare da queste forze e si cerca di elevarsi al di sopra di loro, non si fa altro che tentare di sfuggire alla propria posizione storica logicamente necessaria, alla società di cui si è parte integrante, al complesso di rapporti, pubblici e privati, che fanno di ogni uomo quello che è, che sono l’uomo, e non si differenziano da lui. Quando si vuole sfuggire a tutto questo, non si fa altro che tentare di abbandonare la propria natura, rispondendo a un’esigenza che è in se stessa contraddittoria e che potrebbe essere formulata solo da chi non ne comprenda il contenuto, da chi abbia una concezione puerile e soggettiva della libertà individuale.
La vera libertà consiste nella padronanza di sé, nel sottrarsi al controllo esterno. Questo può essere raggiunto solo scoprendo ciò che siamo e possiamo divenire, cioè la vera libertà consiste nell’individuare quelle leggi, alle quali si è necessariamente sottoposti nel tempo e nel luogo in cui si vive, e nel tentare di rendere attuali quegli elementi potenziali della propria natura razionale, rispettosa della legge, la cui attuazione fa progredire l’individuo e, in tal modo, la società della quale egli fa «organicamente» parte e che si esprime in lui e nei suoi simili. Solo gli individui «di rilievo storico universale» che nella realizzazione dei propri fini giungono a incarnare le leggi della storia hanno la capacità di rompere col passato. Ma allorquando un uomo di più bassa statura morale tenta in nome di un ideale soggettivo di distruggere una tradizione, invece di modificarla, si oppone alle leggi della storia, vuole l’impossibile, e rivela in tal modo la propria irrazionalità.
Un simile atteggiamento viene condannato, non soltanto perché è necessariamente votato all’insuccesso ed è perciò futile (in alcuni casi, infatti, può sembrare più generoso perire in modo donchisciottesco che sopravvivere), ma anche e soprattutto perché è irrazionale. Le leggi della storia a cui esso si oppone sono le leggi dello Spirito, che è la sostanza fondamentale da cui ogni cosa è formata, e sono quindi necessariamente razionali. D’altronde, se non lo fossero, l’uomo non potrebbe dar loro una spiegazione. Lo Spirito si avvicina alla perfezione realizzando un’autocoscienza sempre maggiore da una generazione all’altra, e tocca il vertice del suo sviluppo negli individui che più chiaramente e in ogni momento riescono a percepire se stessi in rapporto con il proprio universo, cioè nei pensatori più profondi di ogni epoca. I pensatori, per Hegel e i suoi discepoli, includono gli artisti e i filosofi, gli scienziati e i poeti, ossia tutti quegli ingegni sensibili e curiosi che, rispetto ai loro contemporanei, possiedono una coscienza più acuta e approfondita della fase di sviluppo che l’umanità ha raggiunto, di ciò che si è conquistato nella loro epoca e in parte mediante il loro sforzo.
La storia della filosofia è la storia dello sviluppo di questa consapevolezza di sé, che rende lo Spirito cosciente della propria attività. Secondo questa teoria anche la storia dell’umanità non è altro che la storia del progresso dello Spirito che va acquistando una crescente consapevolezza. Tutta la storia è quindi storia del pensiero, cioè storia della filosofia, e di conseguenza filosofia della storia, poiché questa non è che una definizione della consapevolezza di quella consapevolezza. Per chiunque accetti la metafisica hegeliana il celebre aforisma di Hegel, secondo il quale «la filosofia della storia è storia della filosofia»,6 non è un oscuro paradosso, ma un luogo comune, espresso in modo originale, con l’importante e singolare corollario che ogni vero progresso è progresso dello Spirito, consapevole nell’uomo, inconsapevole nella natura, perché questa è la sostanza di cui si compone tutto il resto. L’unico mezzo che hanno a disposizione coloro che desiderano operare per il bene della società consiste quindi nel coltivare la capacità propria e altrui di analizzare se stessi e il proprio ambiente, mediante un metodo più tardi definito critico, il cui sviluppo si identifica col progresso umano.
Ne consegue che le trasformazioni accompagnate da violenza fisica e da spargimento di sangue sono determinate esclusivamente dalla resistenza della materia bruta, la quale, come aveva insegnato Leibniz, non è altro che spirito a un livello più basso, meno cosciente. Le rivoluzioni introdotte da Socrate o da Gesù o da Newton furono perciò molto più propriamente rivoluzioni di quanto non lo siano molti avvenimenti che in genere vengono definiti in tal modo, sebbene siano avvenute senza alcuno spargimento di sangue. Ogni autentica conquista, ogni vera vittoria, avviene sempre, letteralmente e non solo metaforicamente, nel regno dello Spirito. La Rivoluzione francese era da considerare già conclusa prima che la ghigliottina cominciasse a funzionare, quando cioè i filosofi ebbero trasformato la coscienza della realtà nei propri contemporanei.
La nuova dottrina sembrava risolvere finalmente il grande problema, molto sentito agli inizi dell’Ottocento, al quale tutte le principali teorie politiche avevano cercato di dare una soluzione. La Rivoluzione francese era stata compiuta per garantire la libertà, l’eguaglianza e la fraternità tra gli uomini e aveva costituito il maggior tentativo nella storia moderna di tradurre in concreti istituti un’ideologia rivoluzionaria interamente nuova, per mezzo della conquista violenta e vittoriosa del potere da parte degli stessi fautori di questa ideologia. Ma era fallita, e la sua meta, l’istituzione della libertà e dell’eguaglianza umana, sembrava più lontana che mai dal realizzarsi. Quale risposta dare a chi, amaramente deluso, era caduto in una cinica apatia e proclamava l’impotenza del bene sul male, della verità sull’errore, affermando la totale incapacità degli uomini di migliorare la propria sorte con i propri sforzi? Con la sua dottrina dell’inevitabilità dello svolgimento storico, che implica l’insuccesso fatale di qualunque tentativo mirante a deviarne o ad accelerarne il corso con la violenza - indice di fanatismo e quindi di esasperazione unilaterale di uno degli aspetti della dialettica -, con questa opinione direttamente contrapposta alle ipotesi tecnologiche sostenute in Francia da Saint-Simon e da Fourier, Hegel offrì un’affascinante soluzione al problema cui si erano dedicati gli studiosi di questioni sociali durante il periodo della reazione politica in Europa.
È naturale, quindi, che il problema della libertà sociale e delle cause della sua mancata realizzazione sia stato l’argomento centrale di tutti i primi scritti di Marx. L’impostazione che egli dà al problema e la soluzione che offre sono di spirito puramente hegeliano. Ma la formazione intellettuale e le inclinazioni naturali lo spingevano verso l' empirismo, e il modo di pensare tipico di questa scuola affiora qua e là sotto la struttura metafisica dietro la quale quasi sempre si nasconde. Ciò si manifesta con estrema chiarezza nella passione con cui denuncia l’irrazionalismo e i miti di ogni specie e forma. Nelle sue argomentazioni Marx si serve spesso dei metodi e degli esempi introdotti dal materialismo settecentesco, ma lo stile in cui si esprime e le tesi che intende dimostrare sono interamente hegeliane: l’ascesa dell’umanità che con le sue fatiche trasforma se stessa e il mondo esterno a cui è legata da un rapporto organico, sottoponendo tutto ciò che incontra al controllo razionale. Egli si era convertito alle nuove idee in gioventù e per molti anni, nonostante le aspre polemiche contro la metafisica idealistica, rimase un fautore convinto e coerente del grande filosofo che ammirava.
1. J.W. von Goethe, Faust, I, vv. 577-79 («Ciò che chiamate lo spirito dell’epoca / non è altro, in realtà, che lo spirito dei suoi maestri, / in cui l’epoca si rispecchia») [trad. it. Faust, Einaudi, Torino, 1967. N.d.R.].
2. «La ragione ha sempre ragione». [La fonte di questa osservazione oggi quasi proverbiale è oscura. La sua occorrenza in L-A. Martin, De l’Éducation des mères de famille, ou De la civilisation du genre humain par les femmes, C. Gosselin, Paris, 1834, p. 276, potrebbe non essere la prima] [trad. it. L'educazione delle madri di famiglia, o Dell’incivilimento del genere umano per mezzo delle donne, Andrea Bettini, Firenze, 1862. N.d.R. ].
3. In una lettera a G.H. Schuller, ottobre 1674 [trad. it. Spinoza, Opere, Mondadori, Milano, 2007. N.d.R.].
4. [I saggi furono pubblicati per la prima volta a puntate nel 1812; i primi due furono ristampati l’anno successivo come A New View of Society, or Essays on the Principle of the Formation of Human Character, and the Application of the Principle to Practice, Cadell & Davies, London, 1813, del quale si vedano il frontespizio e p. 9] [trad. it. Per una nuova concezione della società e altri scritti, Laterza, Bari, 1972. N.d.R}.
5. «Pregno del futuro e carico del passato». G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l'entendement, par l'auteur du système de l'harmonie préétablie (completati nel 1704, pubblicati nel 1765), in Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, a cura di C.I. Gerhardt, 7 voll., Weidmannsche Buchhandlung, Berlin, vol. V: Leibniz und Locke, 1882, p. 48. [trad. it. Nuovi saggi sull'intelletto umano, Laterza, Roma-Bari, 1988. N.d.R.].
6. [L’osservazione non sembra trovarsi in questa forma negli scritti di Hegel].
IV