martedì 15 luglio 2025

OGGETTO D'AMORE Edna O'Brien

 

OGGETTO D'AMORE 

Edna O'Brien

Recensione

La prima volta che ho saputo della esistenza di Edna O'Brien è stata quando ho letto "L'Animale morente" di Philip Roth ,è sua l'epigrafe che apre il romanzo

"Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita". 

Leggendo questi racconti ho apprezzato molto la capacità descrittiva di O'Brien nel saper catturare sempre quell'indefinibile non so che delle donne in continuo viaggio, a inseguire qualcosa, i sogni, l'amore, la libertà di essere se stesse, a volte ferite , deluse ,offese dalle crudeltà quotidiane, ma sempre con una vitalità giovanile, una prorompente esuberanza e generosità,anche quando l'esistenza si presenta con le complicazioni che devi per forza affrontare. 

Anche se spesso si accomuna Edna O’Brien a James Joyce, di fatto leggendo i racconti si scopre che il suo vero maestro è Cechov: come lui Edna O’Brien scava a fondo nella coscienza delle personalità più disparate dei suoi personaggi.

Come scrive John Banville nella sua prefazione:

“La cosa che più colpisce nei racconti di Edna O’Brien, a parte l’inesausta maestria dell’esecuzione, è la varietà. Questa scrittrice conosce molti mondi e ce li presenta con un profondo acume, una precisione che ha del prodigioso, una tenerezza divertita e un’immancabile compassione. Pur avendo lasciato presto la terra dove è nata e cresciuta, (l’Irlanda, ndr) non se ne discosta mai. 

[...]“He simply said my name. He said ‘Martha’, and once again I could feel it happening. My legs trembled under the big white cloth and my head became fuzzy, though I was not drunk. It’s how I fall in love. He sat opposite. The love object.[...]

Oggetto d’amore

Disse semplicemente il mio nome. – Marta, – disse, e capii che stava succedendo di nuovo. Mi tremavano le gambe sotto la grande tovaglia bianca e avevo la testa confusa, anche se non ero ubriaca. È cosí che m’innamoro. Era seduto davanti a me. L’oggetto dell’amore. Attempato. Occhi azzurri. Capelli biondo sabbia. Stava ingrigendo ai lati e aveva distribuito le ciocche grigie esterne su tutta la testa quasi a nascondere il biondo, come certi nascondono la calvizie. Aveva quello che io chiamo un sorriso molto religioso. Un sorriso interiore che andava e veniva, governato, per cosí dire, da una gioia tutta sua per quello che sentiva o vedeva: un mio commento, il cameriere che toglieva i piatti freddi decorativi e portava quelli caldi di una foggia diversa, la tenda di nylon che si gonfiava al vento sfiorandomi il braccio nudo cotto dall’estate. Era la fine di una calda estate londinese.

– Non sono troppo simpatici nemmeno a me, – disse. Stavamo spettegolando. Parlavamo di una coppia famosa che conoscevamo tutti e due. Lui teneva sempre le mani giunte come per pregare. Non c’erano barriere fra noi. Eravamo estranei. Io faccio l’annunciatrice televisiva; ci eravamo conosciuti per motivi di lavoro, e lui aveva avuto la gentilezza di invitarmi a cena. Mi aveva raccontato di sua moglie, una trentenne come me, e disse che gli era bastato vederla per capire che l’avrebbe sposata. (Era la terza, di moglie). Non gli chiesi com’era fisicamente. Non lo so tuttora. L’unico ricordo che ho di lei sono le braccia inguainate in due grandi maniche color malva lavorate all’uncinetto; è un’immagine che mi è rimasta impressa e rivedo le mani rosa e oranti di lui svanire dentro quelle maniche, e loro due che ballano in una grande sala tetra sorridendo estatici per la fortuna di essere insieme. Ma questo succedeva molto dopo.

Fu una cena simpatica con i fichi per dessert. I primi fichi che avessi mai assaggiato. Lui li tastò delicatamente con le dita, poi me ne mise tre nel piatto. Rimasi a fissare la buccia nero-violacea perché il tremito mi faceva passare la voglia di pelarli. Lui mi distrasse dal nervosismo raccontandomi la storiella di una ragazza che in un’intervista radiofonica aveva ammesso di possedere trentasette paia di scarpe e di comprare un vestito nuovo ogni sabato, che poi cercava di rivendere a parenti e amici. In un certo senso sapevo che aveva scelto quella storia apposta per me e che non si sarebbe arrischiato a raccontarla a molti altri. Era a suo modo una persona seria, e famosa, anche se questo importa poco quando si racconta una storia d’amore. Oppure importa? Fatto sta che addentai un fico senza sbucciarlo.

Come si fa a descrivere un sapore? Erano un cibo nuovo e un uomo nuovo, e quella notte tra le mie lenzuola lui fu un estraneo e un amante, come dire il compagno di letto ideale.

La mattina mantenne un atteggiamento formale ma disinvolto; chiese perfino una spazzola per gli abiti perché sulla giacca aveva una macchia di cipria che gli avevo lasciato la sera prima quando ci eravamo abbracciati tornando a casa in taxi. Allora non ero sicura che saremmo andati a letto insieme, anche se tutto considerato mi sembrava improbabile. Non ho mai avuto una spazzola per gli abiti. Ho libri, dischi, svariate boccette di profumo e vestiti bellissimi, ma non compro mai strumenti per pulire o per far durare a lungo le cose. Sarà anche uno spreco, però preferisco buttarle. Lui comunque picchiettò col fazzoletto la macchia di cipria, che andò via senza difficoltà. Gli serviva anche un cerotto perché la scarpa nuova gli aveva tagliato il tallone. Guardai, ma la confezione era vuota. L’avevano ripulita i miei figli durante le lunghe vacanze estive. Anzi, per un attimo mi parve di vedere i miei due figli in quei giorni d’estate, stravaccati in poltrona, a leggere fumetti, a scorrazzare in bici, a fare la lotta, procurandosi tagli che subito coprivano con un cerotto e dopo, quando si staccava, esibivano gli sfregi bordati di marrone a riprova del loro valore. Quanto mi mancavano, avrei tanto voluto stringerli fra le braccia: un motivo in piú per apprezzare la sua compagnia. – Non è rimasto nemmeno un cerotto, – dissi, vergognandomi un po’. Pensai che mi avrebbe preso per una persona trascurata. Mi chiesi se era il caso di spiegargli come mai i miei figli erano entrati in collegio cosí piccoli. Avevano otto e dieci anni. Ma non glielo spiegai. Mi era passata la voglia di raccontare in giro che il mio matrimonio era naufragato e che mio marito, incapace di occuparsi di due bambini, aveva voluto a tutti i costi mandarli in collegio per farli crescere, a suo dire, in un clima equilibrato. Secondo me l’aveva fatto per privarmi del piacere che provavo a stare con loro. Non potevo spiegarglielo.

Facemmo colazione fuori. L’avvio di un’altra giornata calda. Dal cielo pendeva quella foschia incolore che precede la canicola e nel giardino accanto erano già partiti gli irrigatori. I miei vicini sono fanatici del giardinaggio. Lui mangiò tre fette di pane tostato con il bacon. Mangiai anch’io, tanto per metterlo a suo agio, anche se normalmente salto la colazione. – Farò incetta di cerotti, spazzole per gli abiti e smacchiatori, – dissi. Un modo per dire: «Tornerai?» Lui capí al volo. Si affrettò a ingoiare il pane, mise una di quelle sue mani oranti sulla mia e disse in tono solenne e gentile che non intendeva avere un’avventuretta squallida e volgare con me, ma che da lí a un mese ci saremmo rivisti e si augurava che diventassimo amici. L’amicizia non mi aveva nemmeno sfiorato la mente, anche se forse era un’eventualità interessante. Mi ricordai che cominciando a parlare, la sera precedente, aveva accennato alle prime due mogli e ai figli ormai adulti, e pensai che era una persona onesta e per niente nostalgica. Non ne potevo piú dei dispiaceri e di chi, non contento, ci ricamava pure sopra. Mi aveva anche intenerito vederlo ripiegare il copriletto di seta verde, una cosa che io non faccio mai.

Quando se ne andò mi sentii euforica e in un certo senso sollevata. Era stato bello e senza strascichi antipatici. Avevo il viso arrossato dai baci e i capelli arruffati dagli strapazzi. Sembravo una poco di buono. Stanca dopo la notte quasi insonne, chiusi le tende e tornai a letto. Ebbi un incubo. Il solito, l’uomo che mi uccide. Mi dicono che avere gli incubi è salutare e da quella volta ci credo. Erano mesi che non mi svegliavo cosí calma e trascorsi il resto della giornata di ottimo umore.

Due mattine dopo telefonò chiedendo se c’era speranza di vederci in serata. Risposi di sí, perché non avevo niente da fare e mi sembrava giusto suggellare il nostro segreto con una bella cena. Invece ripartimmo in quarta.

– Siamo stati benissimo, – disse. Mi accorsi di fare piccoli gesti raggelati che denotavano amore, timidezza; lo guardavo con tanto d’occhi, pendevo dalle sue labbra. Stavolta sbucciò i fichi per tutti e due. Mettevamo le gambe in modo che si toccassero e subito le ritiravamo, convinti che veicolassero il nostro desiderio. Mi accompagnò a casa. Fra le lenzuola mi accorsi che si era messo l’acqua di colonia sulle spalle e che aveva organizzato la cena con la speranza, se non con l’intenzione, di venire a letto con me. Il sapore della sua pelle mi piaceva piú di quella ributtante sostanza chimica e mi toccò dirglielo. Lui rise. Non mi ero mai sentita cosí a mio agio con un uomo. Per la cronaca, ero andata a letto con altri quattro ma sentendo sempre un divario sul piano verbale. Mi soffermai un attimo a riflettere sui loro vari odori mentre respiravo il suo, che mi ricordava qualche erba aromatica. Non era il prezzemolo, non era il timo e nemmeno la menta bensí un’erba aromatica inesistente che riassumeva tutti e tre i profumi. Quella seconda volta facemmo l’amore in modo piú rilassato.

– Come la mettiamo se farai di me una donna insaziabile? – chiesi.

– Ti cederò a un amico che sia all’altezza, – disse.

Ci accoccolammo e, con la testa sulla sua spalla, pensai ai piccioni sotto il ponte della ferrovia lí vicino che la notte si rannicchiano stretti stretti ripiegando la testa sul petto malvaceo. Mentre dormiva ci baciavamo scambiandoci paroline. Io non chiusi occhio. Non dormo mai quando sono troppo felice, troppo infelice o a letto con un estraneo.

Nessuno dei due disse: «Bene, eccoci qui alle prese con un’avventuretta squallida e volgare». Cominciammo semplicemente a frequentarci. Con regolarità. Smettemmo di andare al ristorante perché lui era famoso. Veniva a cena da me. Non dimenticherò mai il delirio di quei preparativi: mettere i fiori nei vasi, cambiare le lenzuola, sprimacciare i cuscini, sforzarmi di cucinare, truccarmi e tenere una spazzola a portata di mano casomai fosse arrivato in anticipo. Che strazio! Quando finalmente suonava il campanello andavo ad aprire con una certa difficoltà.

– Non puoi sapere che oasi è questa per me, – diceva. Poi nell’ingresso mi metteva le mani sulle spalle e me le stringeva attraverso l’abito leggero dicendo: – Fatti guardare, – e io chinavo la testa, perché ero imbarazzata e perché volevo esserlo. Ci baciavamo, spesso per cinque minuti buoni. Lui mi baciava l’interno delle narici. Poi ci trasferivamo in soggiorno per accomodarci sulla chaise-longue ancora ammutoliti. Lui mi toccava l’osso del ginocchio e diceva che avevo delle ginocchia bellissime. Vedeva e ammirava parti di me che gli altri avevano sempre trascurato. Subito dopo cena andavamo a letto.

Una volta si presentò inaspettatamente nel tardo pomeriggio, trovandomi pronta per uscire. Andavo a teatro con un altro.


– Quanto vorrei accompagnarti io, – disse.


– Andremo mai a teatro una sera? – Lui chinò la testa. Ci saremmo andati. Per la prima volta sembrò triste. Non facemmo l’amore perché fra il trucco e le ciglia finte sarebbe stato un po’ scomodo. Disse: – Nessuno ti ha mai detto che vedere una donna che desideri e non poterci fare niente dà un dolore fisico?


Quel dolore contagiò anche me, accompagnandomi per tutto lo spettacolo. Che rabbia non essere andata a letto con lui, e in seguito me ne pentii ancora di piú perché, a partire da quella sera, i nostri incontri si diradarono. La moglie, che era stata in Francia con i figli, rientrò. Lo scoprii una sera che lui venne a trovarmi in macchina e tra una parola e l’altra disse di sfuggita che quel giorno la figlioletta aveva fatto la pipí su un documento importante. A questo punto posso rivelarvi che era un avvocato.


Da allora vedersi di sera diventò quasi impossibile. Mi dava appuntamento di pomeriggio e con un preavviso minimo. Le rare notti in cui riusciva a fermarsi si presentava con una borsa da viaggio dove c’erano lo spazzolino, la spazzola per gli abiti e le poche cose necessarie a un uomo per una notte non d’amore in un albergo di provincia. Immagino che gliela preparasse lei. Pensavo: «È ridicolo». Lei non mi faceva nessuna pena. Anzi, solo a sentirla nominare – si chiamava Helen – mi veniva la rabbia. Lo disse con grande innocenza. Disse che nel cuore della notte avevano svaligiato casa loro e che lui era sceso in pigiama mentre la moglie telefonava alla polizia dall’apparecchio al piano di sopra.


– Capita, quando si è ricchi, – tagliai corto per cambiare discorso. Fu rassicurante scoprire che con lei, a differenza che con me, portava il pigiama. La mia gelosia era estrema, oltre che marchianamente ingiusta. Ma darei un’impressione sbagliata se dicessi che fu l’esistenza di lei che, a quel punto, deteriorò il nostro rapporto. Perché non è vero. Lui si premurava sempre di parlare come uno scapolo e dopo aver fatto l’amore si tratteneva come minimo un’ora prima di andarsene con tutta calma. Anzi, è proprio uno di quei momenti dopo l’amore che considero il non plus ultra del nostro rapporto. Eravamo seduti sul letto, nudi, a mangiare panini al salmone affumicato. Avevo acceso la stufa a gas perché era autunno inoltrato e i pomeriggi erano gelidi. La stufa emetteva un ronzio costante. Era l’unica luce nella stanza. Lui notò per la prima volta la forma del mio viso perché, disse, fino ad allora era stato l’incarnato ad attirare tutta la sua ammirazione. Anche il suo viso, la cassapanca di mogano e i quadri sembravano piú belli. Non rosei, perché la stufa a gas non aveva quel tipo di lucore, però risplendevano di una luce biancastra. Il tappeto in pelle di capra sotto la finestra era di una morbidezza voluttuosissima. Glielo feci notare. Lui disse di avere una leggera vena masochista e che spesso la notte, non riuscendo a dormire a letto, andava in un’altra stanza, si stendeva a terra con un cappotto addosso e si addormentava di schianto. Lo faceva anche da piccolo. L’immagine di quel bimbetto che dormiva in terra mi mosse a enorme compassione e, senza una parola da parte sua, lo portai vicino al tappeto e lo feci stendere. Fu l’unica volta in cui i ruoli si invertirono. Lui non era mio padre. Io diventai sua madre. Morbida e del tutto immune alle paure. Perfino i miei capezzoli, che sono molto suscettibili, non si sottrassero alle sue pretese furiose. Volevo fare tutto e di tutto per lui. Come spesso succede fra amanti, il mio ardore e la mia inventiva stimolarono i suoi. Non ci fermammo davanti a niente. Dopo, commentando l’impresa – com’era sua abitudine –, considerò che era stato il piú intimo dei nostri momenti intimi. Come dargli torto. Quando ci alzammo per vestirci si asciugò le ascelle con la camicetta bianca che portavo prima e mi chiese quale dei miei bei vestiti avrei indossato per la cena. Scelse lui, quello nero. Disse che gli faceva tantissimo piacere sapere che pur cenando con qualcun altro avrei rimuginato su quello che avevamo fatto noi. Una moglie, il lavoro, il mondo potevano anche separarci, ma nel pensiero eravamo legati.


– Ti penserò, – dissi.


– Anch’io.


Non fu nemmeno tanto triste separarci.


Tempo dopo ebbi quello che si può definire soltanto un sogno nel sogno. Stavo uscendo dal torpore, cercando di svegliarmi, asciugandomi la saliva sulla federa, quando sentii qualcosa tirarmi, un peso enorme che mi inchiodava al letto, e pensai: sono diventata invalida. Ho perso l’uso degli arti, ecco perché da mesi mi sento fiacca e ho voglia di prendere il tè e guardare fuori dalla finestra e basta. Sono paralizzata. Dappertutto. Non riesco a muovere nemmeno la bocca. Soltanto il cervello funziona ancora. Il cervello mi dice che la signora che sta stirando al piano di sotto è l’unica in grado di trovarmi, ma potrebbe non salire quassú per giorni, potrebbe pensare che sono a letto con un uomo, a peccare. A volte mi capita di dormire con un uomo, anche se di solito dormo da sola. Lascerà i vestiti stirati sul tavolo della cucina e il ferro in verticale sul pavimento per evitare che bruci qualcosa. Le camicette saranno appese alle grucce, le ruche dei colletti bianche e soffici come schiuma. È tipo da stirare perfino le punte e i calcagni delle calze di nylon, lei. Se ne andrà in silenzio e tornerà, come previsto, giovedí prossimo. Sento qualcosa dietro la schiena, per essere precisi strattona il copriletto che mi sono tirata su per la schiena per coprirmi la testa. Per ripararmi. E adesso so che non è l’invalidità a inchiodarmi al letto bensí un uomo. Come ha fatto a entrare? È in camera, vicino al muro. So che cosa sta per farmi, e la signora al piano di sotto non mi verrà mai a salvare, si vergogna troppo o forse non pensa che voglio essere salvata. Non so qual è dei tanti, se è il marcantonio grande e grosso che mi ritrovo di fronte ogni volta che apro ingenuamente la porta convinta che sia il ragazzo della tintoria e invece c’è Lui, con un vecchio coltello da scalco nero, la lama che scintilla perché l’ha appena affilata su un gradino. Vorrei urlare ma la lingua non è piú mia. O potrebbe essere l’Altro. Un colosso anche lui, mi afferra per il braccialetto mentre mi infilo tra i sostegni del corrimano. Ho dimenticato che non sono piú una bambina e non mi riesce facile infilarmi tra i sostegni del corrimano. Se il braccialetto si fosse spezzato sarei riuscita a scappare, lasciandolo con mezzo braccialetto d’oro in mano, invece, siccome è di nove carati, mia madre che, accidenti a lei, è cosí previdente ci ha fatto mettere una catenella di sicurezza. Fatto sta che è nel letto. Andrà per le lunghe, la cosa che vuole. Non oso girarmi a guardarlo. Poi una certa gentilezza nell’abbassare il lenzuolo mi fa capire che potrebbe essere Quello Nuovo. L’uomo che ho conosciuto qualche settimana fa. Non è affatto il mio tipo, con le venuzze rotte sulle guance e i capelli rossi, ma proprio rossi. Eravamo su una pelle di capra. Sollevata da terra però, alta come un letto. Durante l’amore avevo fatto quasi tutto io; seno, mani, bocca, tutto smaniava di soddisfarlo. Mi sentivo sicura, non mi ero mai sentita cosí sicura della validità di quello che facevo. Poi ha cominciato a baciarmi là sotto e sono venuta sulla lingua che mi leccava e avevo la sua testa sotto le natiche e mi sembrava di partorirlo, solo che provavo piacere anziché dolore. Si fidava di me. Eravamo due persone, nel senso che non mi stava sopra, non mi soffocava, non faceva cose che non vedevo. Vedevo. Volendo avrei potuto cacargli su quei capelli rossi. Si fidava di me. Ha trattenuto lo sburro fino all’ultimo. E tutte le cose che avevo amato fino a quel momento, come il vetro o le bugie, gli specchi e le piume, e i bottoni di madreperla, la seta e i salici piangenti, sono passate in secondo piano rispetto a quello che aveva fatto lui. Era steso in modo che potessi vederlo: cosí delicato, cosí magro, con un mucchio di vene azzurre preoccupate lungo i fianchi. Parlargli è stato come parlare con un bambino. La luce nella stanza era un bagliore bianco. Mi aveva ammorbidita e fatta bagnare molto perciò me lo sono messo dentro. È stato rapido, duro, energico, e lui ha detto: «Non sto pensando a te, adesso, a te ci abbiamo già pensato», e io ho detto che aveva ragione e che quella brutalità mi piaceva. Ho detto cosí. Non ero piú un’ipocrita, non ero piú una bugiarda. In precedenza mi aveva rimproverato spesso, aveva detto: «Ci sono parole che fra noi non useremo, parole come: “Scusa”, oppure: “Hai fame?”» Parole che io avevo usato tantissimo. Perciò dal delicato scivolare del copriletto, piú simile a una richiesta, in effetti, penso che potrebbe essere lui, e se è vero voglio affondare giú giú nel pozzo caldo, scuro e sonnolento di questo letto e restarci per sempre, venendo insieme a lui. Ma non guardo per la paura che non sia Lui ma Uno degli Altri.


Quando finalmente mi svegliai ero in preda al panico e avevo un bisogno terribile di telefonargli, solo che, anche se non me l’aveva mai davvero vietato, sapevo che gli avrebbe dato molto fastidio.


Quando una cosa è stata perfetta, come il nostro incontro alla luce della stufa, si tende a cercare disperatamente di ripeterla. Purtroppo l’occasione successiva fu velata di mestizia. Si presentò nel pomeriggio con una valigia piena di tutto l’occorrente per una cena di gala a cui avrebbe partecipato quella sera. All’arrivo mi chiese se poteva appendere il frac, per evitare che si stropicciasse. Attaccò la gruccia al bordo esterno dell’armadio e ricordo che rimasi colpita dalla fila di medaglie al valore militare che correva lungo il taschino. La parentesi a letto fu piacevole ma veloce. Aveva fretta di vestirsi. Io rimasi seduta a guardarlo. Volevo chiedergli delle medaglie e di come se l’era guadagnate, se si ricordava della guerra, se all’epoca gli era mancata la moglie di allora, se aveva ucciso qualcuno e se gli capitava ancora di sognarlo. Ma non gli chiesi niente. Rimasi lí seduta come paralizzata.


– Niente bretelle, – disse reggendosi i larghi pantaloni neri per la vita. Agli altri doveva avere la cintura.


– Vado a prendertene un paio da Woolworth, – dissi. Ma non era il caso, già cosí rischiava di fare tardi. Presi una spilla da balia e glieli appuntai dietro la vita. Un’operazione non semplice perché la spilla non era abbastanza robusta.


– Me la riporti? – dissi. Non regalo mai le spille da balia, sono superstiziosa. Ci mise un po’ a rispondere perché stava imprecando a mezza bocca. Non ce l’aveva con me. Ce l’aveva con quel colletto inamidato di una rigidità disumana in cui i bottoncini dorati non volevano saperne di infilarsi. Ci provai io. Ci provò lui. Ogni volta che uno dei due non ci riusciva, l’altro si spazientiva. Disse che a furia di provarci l’avremmo imbrattato tutto con le mani. Il che sarebbe stato peggio. Pensai a quanto dovevano essere criticoni i suoi commensali, ma ovviamente mi guardai bene dal dirlo. Alla fine riuscimmo a infilare un bottoncino ciascuno e lui per festeggiare mandò giú un sorsetto di whiskey. Il farfallino fu un’altra impresa. Lui non riuscí ad annodarlo. Io non osai nemmeno provarci.


– Non l’hai mai annodato? – chiesi. Immagino che glielo avessero sempre annodato le mogli, in successione. Mi sentii una vera stupida. Poi, un grumo di odio. Pensai a quant’erano orribili quelle gambe rosa, a quant’era ributtante la forma del corpo, senza nemmeno l’accenno della vita, a quant’erano falsi quegli occhi che si congratularono con lui allo specchio quando riuscí ad abbozzare una specie di farfallino. Quando si mise la giacca, il tintinnio delle medaglie mi diede lo spunto per un commento su quella musica. C’era ben poco da dire. Per ultima mise una sciarpa di seta bianca che gli scendeva oltre la vita. Sembrava uno che non conoscevo. Uscí in fretta e furia. Io corsi in strada con lui per aiutarlo a trovare un taxi, e stargli dietro e chiacchierare non era semplice. Ricordo soltanto l’immagine spettrale della sciarpa bianchissima che dondolava mentre correvamo. Le scarpe, che erano di pelle lucida, facevano uno sgradevole cigolio.


– È una cena fra maschi? – chiesi.


– No. È mista, – rispose.


Ecco il perché di tanta fretta. Aveva appuntamento con la moglie da qualche parte. L’odio cominciò a crescere.


Mi riportò la spilla da balia, ma la superstizione rimase, perché sul davanzale avevo trovato quattro spilli con la capocchia nera rotonda caduti dalla sua camicia nuova. Non volle riprenderseli. Non era superstizioso, lui.


I brutti momenti, come quelli belli, tendono a coalizzarsi, e quando penso a quella vestizione penso anche a un’altra circostanza che non ci vide in totale accordo. Eravamo per strada; stavamo cercando un ristorante. Ci era toccato uscire perché un’amica era venuta a stare da me e ci avrebbe imposto la sua compagnia. Mentre camminavamo – era ottobre e tirava molto vento – capii che era arrabbiato perché per colpa mia dovevamo stare fuori al freddo e non potevamo abbracciarci. Avevo i tacchi altissimi e mi vergognavo del rumore vuoto che facevano. In un certo senso capii che eravamo nemici. Lui guardava le vetrate dei ristoranti per vedere se c’era qualcuno che conosceva. Ne scartò due per motivi noti soltanto a lui. Uno sembrava molto grazioso. Aveva le lampadine arancioni incastonate nei muri con piccole grate di ferro quadrate che filtravano la luce. Attraversammo la strada per guardare i locali sul marciapiede di fronte. Vidi un gruppo di teppistelli venirci incontro e, tanto per dire qualcosa – tra i miei tacchi aggressivi, il vento, il traffico e quell’orribile via che non aveva niente di romantico eravamo rimasti a corto di argomenti piacevoli –, chiesi se l’avesse mai innervosito incontrare gruppi rumorosi come quello di sera tardi. Lui disse che giusto qualche sera prima tornando a casa a piedi molto tardi aveva visto un gruppo simile andargli incontro e, prima ancora di sentire la paura, si era accorto di aver allargato il mazzo di chiavi infilandoci in mezzo le dita e di essere pronto a sfilare di tasca la mano, armata delle punte acuminate delle chiavi, se per caso l’avessero minacciato. Mi sa che mentre parlavamo stava facendo la stessa cosa. Strano, ma non mi sentivo protetta da lui. Sentivo solo che eravamo due persone, che al mondo c’erano problemi, violenze, malattie, catastrofi che lui affrontava in un modo e io affrontavo – o, per essere precisi, rifuggivo – in un altro. Mentre ero assorta in quel pensiero malinconico il gruppo ci sfilò accanto e le mie congetture sulla violenza si rivelarono inutili. Trovammo un bel ristorante e bevemmo tantissimo vino.


Dopo, l’amore fu, al solito, perfetto. Lui si trattenne la notte. Mi sentivo molto privilegiata quando si tratteneva la notte e gli unici piccoli spasmi d’ansia che minavano la mia gioia nascevano dal timore che avesse detto alla moglie che era in un certo albergo e che lei telefonando non lo trovasse. Spesso davo libero sfogo alla fantasia e immaginavo che lei ci scoprisse, immaginavo di restare in un signorile silenzio mentre lui le diceva con grande freddezza di aspettare fuori che si rivestisse. Lei non mi faceva nessuna pena. Certe volte mi chiedevo se ci saremmo mai incontrate o se non ci fossimo già incontrate su qualche scala mobile. Ma era improbabile, visto che abitiamo ai poli opposti di Londra.


Poi, con mia grande sorpresa, si presentò l’occasione. Mi invitarono a una festa per il Ringraziamento organizzata da una rivista americana. Lui vide l’invito sulla mensola del camino e disse: – Ci vai anche tu? – e io sorrisi dicendo forse. E lui? – Sí, – disse. Cercò di convincermi a decidere su due piedi, ma non mi lasciai incantare. Certo che ci sarei andata. Ero curiosa di vedere sua moglie. Avrei incontrato lui in pubblico. Mi sconvolgeva pensare che non ci eravamo mai incontrati in compagnia di altre persone. Era come essere una reclusa… un piccolo animale sotto chiave. Pensai distintamente a un furetto che quand’ero piccola un guardaboschi teneva dentro una cassa di legno con la sommità scorrevole, e a un altro furetto che una volta aveva portato per farli accoppiare. Quel pensiero mi diede i brividi. Nel senso che mi si confusero le idee: pensai ai furetti bianchi con le piccole narici rosa e allo stesso tempo pensai a lui che ogni tanto faceva scorrere una porta e si infilava dentro la mia cassa. Il rosa abbondava sulla sua pelle.


– Non ho ancora deciso, – dissi, ma il giorno prestabilito ci andai. Curai tantissimo l’aspetto, mi feci acconciare i capelli e indossai una tenuta verginale. Bianca e nera. La festa si teneva in una grande sala con le pareti rivestite di legno marrone; a tutti i pannelli erano affisse le copertine ingrandite della rivista. Il bar era sul fondo, sotto una balconata. A colpo d’occhio sembrava che i baristi vestiti di bianco fossero rattrappiti e persi sotto la rupe di quella balconata che pareva pronta a crollargli addosso. Mai visto una sala meno adatta a una festa. Alcune donne si aggiravano con i vassoi ma mi toccò andare al bar perché su quei vassoi c’era lo champagne e io preferisco il whiskey. Mi accompagnò uno che conoscevo e durante il tragitto un altro mi stampò un bacio sulla schiena. Mi augurai che lui se ne fosse accorto, anche se in quella sala enorme con centinaia di persone non riuscivo a immaginare dove fosse. Notai un vestito che mi piaceva molto, un vestito malva con le maniche ampissime lavorate all’uncinetto. Facendo salire lo sguardo lungo le maniche vidi gli occhi della proprietaria puntati su di me. Forse le piaceva la mia mise. Capita, quando si hanno gli stessi gusti. Non ho idea di come fosse il suo viso ma dopo, quando chiesi a un’amica quale fosse la moglie di lui, indicò la donna con le maniche lavorate all’uncinetto. La seconda volta la vidi di profilo. Non so tuttora come sia, né gli occhi che guardai evocano qualcosa di speciale nel ricordo se non, forse, una vaga cupidigia.


Alla fine andai a cercarlo. Mi feci accompagnare da un amico comune che finse di presentarci. Lui era scostante. Sembrava strano, il rossore che gli colorava le guance era acceso e innaturale. Parlò con l’amico comune e in pratica mi ignorò. Forse per rimediare mi chiese, dopo tanto, se mi divertivo.


– Questa sala è gelida, – dissi. Ovviamente mi riferivo al suo atteggiamento. Volendo definire la sala avrei usato l’aggettivo «tetro» o qualcosa di simile.


– Non so da dove le viene questa sensazione di gelo, io non ce l’ho, – disse in tono aggressivo. Poi una tizia molto ubriaca con un vestito a sacchetto venne a prenderlo per mano e cominciò a sbavargli addosso. Chiesi scusa e me ne andai. Lui disse senza mezzi termini che sperava di rivedermi.


Andando via dalla festa incrociai il suo sguardo e provai non solo dispiacere per lui ma anche rabbia. Sembrava attonito, come se gli avessero appena comunicato una notizia importante. Mi vide uscire con un gruppo di persone e io lo fissai senza l’accenno di un sorriso. Ebbene sí, mi dispiaceva per lui. Ero anche seccata. Ci vedemmo il giorno dopo, e quando sollevai l’argomento lui non si ricordava nemmeno che un amico comune ci avesse presentati.


– Clement Hastings! – disse, ripetendone il nome. Il che dimostra quanto fosse nervoso.


È impossibile sostenere che le brutte notizie, se comunicate in un certo modo e in un certo momento, hanno un effetto meno disastroso. Io però sono convinta che lui mi abbia dato il benservito nel momento sbagliato. Tanto per cominciare, era mattina. Suonò la sveglia e mi sollevai a sedere chiedendomi quando lui l’avesse messa. Era già in piedi e stava provvedendo a spegnerla.


– Scusami, cara, – disse.


– L’hai messa tu? – dissi, indignata. Sapeva di tradimento, come se avesse voluto svignarsela senza salutare.


– Pare proprio di sí, – disse. Mi abbracciò e ci stendemmo di nuovo. Fuori era buio e c’era una sensazione – ma forse esiste soltanto nel ricordo – di ghiaccio.


– Complimenti, oggi ritirerai il premio, – bisbigliò. Avrei ricevuto un premio come annunciatrice.


– Grazie, – dissi. Mi vergognavo di quel premio. Mi ricordava di quando a scuola primeggiavo sempre in tutto, provando un senso di colpa che però non bastava a farmi abbassare le ali.


– Che bello, ti sei fermato tutta la notte, – dissi. Lo accarezzavo ovunque. A letto non stavo mai ferma con le mani. Sveglia o addormentata, era un continuo accarezzarlo. Non per eccitarlo, semplicemente per rassicurarlo e consolarlo e forse per consolidare il mio diritto di proprietà. Trovo che ci sia un che di terapeutico nel tenersi strette le cose. Tengo per ore pietre lisce nel palmo della mano oppure impugno i lati di una poltrona e dopo mi sento meglio. Mi baciò. Disse di non aver mai conosciuto una persona piú dolce e premurosa. Io, incoraggiata, mi dedicai a una cosa molto intima. Sentivo i suoi sospiri di piacere, gli «oh, oh» goduti quando si abbandonava dicendosi allo stesso tempo che non doveva. Sulle prime non mi accorsi che stava parlando.


– Ehi, – disse in tono scherzoso, come se niente fosse. – Lo sai che cosí non può andare avanti –. Pensavo che si riferisse all’attività del momento, perché il tempo stringeva e lui doveva scappare. Poi sollevai la testa che tenevo affondata fra le sue gambe e lo guardai attraverso i capelli che mi erano ricaduti sul viso. Vidi che era serio.


– Mi sono appena reso conto che forse mi ami, – disse. Annuii e spinsi indietro i capelli per dargli modo di leggere l’attestazione che avevo scritta chiara in faccia. Mi fece stendere in modo da accostare la testa alla mia e cominciò:


– Ti adoro, ma non sono innamorato di te; con i miei impegni non credo che potrei innamorarmi di qualcuno, all’inizio l’ho presa alla leggera… – Quelle ultime parole mi offesero. Io non la vedevo né la ricordavo cosí: tutti i telegrammi che mi aveva mandato con scritto: «Muoio dalla voglia di vederti», oppure: «Che il sole risplenda su di te», i primissimi istanti a ogni incontro, quando eravamo sopraffatti dalla passione, dalla timidezza e dallo shock di essere cosí turbati dalla presenza dell’altro. Avevamo perfino cercato sul dizionario le parole per esprimere il modo unico in cui consideravamo l’altro. Lui aveva scelto «incensare», che significa adorare o coprire con il profumo dell’amore. Era la parola perfetta e la usavamo di continuo. Adesso rinnegava tutto. Parlava di inglobarmi nella sua vita, nella sua vita familiare… di farmi diventare un’amica. Anche se lo disse con poca convinzione. A me non veniva in mente una sola cosa da dire. Sapevo che se avessi aperto bocca avrei fatto una figura penosa, perciò rimasi in silenzio. Quando tacque fissai la fessura tra le due tende dritto davanti a me e, guardando il raggio di cruda luce che filtrava, dissi: – Mi sa che fuori c’è il ghiaccio, – e lui disse che era possibile, visto che era pieno inverno. Ci alzammo e lui come al solito tolse la lampadina dall’abat-jour sul comodino e infilò la spina del rasoio. Io andai a preparare la colazione. Fu l’unica mattina in cui dimenticai di fargli la spremuta d’arancia e spesso mi chiedo se lui l’abbia preso per un affronto. Se ne andò poco prima delle nove.


Il soggiorno serbava le tracce della sua presenza. O, per essere precisi, gli avanzi dei suoi sigari. In uno dei portacenere azzurri a forma di piattino c’erano grossi stronzi di cenere di sigaro grigio scuro. C’erano anche i mozziconi, ma erano i pezzi di cenere che continuavo a guardare, pensando che la loro grossezza mi ricordava quella delle sue brutte gambe. E ancora una volta lo odiai. Stavo per svuotare il portacenere nel camino quando qualcosa mi trattenne e invece presi una scatoletta di metallo e, aiutandomi con un foglio di carta, misi dentro i pezzi di cenere e portai la scatoletta di sopra. Gli stronzi spostandosi si disfecero e, anche se mi avevano ricordato le sue gambe, adesso erano una massa informe di cenere grigio scuro, simili probabilmente alle ceneri dei morti. Misi la scatoletta in un cassetto sotto alcuni indumenti.


Piú tardi mi diedero il premio: una grossa medaglia d’argento con su scritto il mio nome. Alla festa che seguí mi ubriacai. Gli amici mi dicono che non feci una figura proprio pessima, ma io ho il ricordo umiliante di aver cominciato a raccontare una storia che poi non riuscii a finire, non perché me ne sfuggisse il contenuto ma perché era troppo difficile pronunciare le parole. Un tizio mi accompagnò a casa e dopo avergli offerto una tazza di tè lo misi fin troppo pudicamente alla porta; dopodiché mi avviai barcollando verso il letto. Dormo male quando alzo il gomito. Mi svegliai che era ancora buio e mi tornò subito in mente l’intuizione del ghiaccio all’esterno la mattina prima e le sue parole fredde e ammonitrici. Mi vidi costretta a dargli ragione. Anche se i nostri incontri erano perfetti, avevo la sensazione che incombesse una minaccia, che fra noi si andasse spalancando un abisso, che qualcuno lo dicesse a sua moglie, che l’amore si guastasse, che andasse tutto in malora. E dire che ancora non ci eravamo spinti fin dove avremmo dovuto. C’erano vette di gioia e del suo contrario ancora da scalare, ma il tempo era scaduto. Lui, ovvio, aveva detto: «Fisicamente mi attiri ancora tantissimo», e questo, a suo modo, l’avevo trovato umiliante. Fare ancora l’amore dopo che mi aveva scaricato sarebbe stato disgustoso. Era finita. Continuavo a pensare a una viola nel bosco che a tempo debito appassisce e muore. Il ghiaccio doveva esercitare un influsso sui miei pensieri, o meglio, sulle mie riflessioni. Mi alzai e indossai una vestaglia. La sbronza mi aveva lasciato un gran mal di testa ma ero determinata e sapevo che dovevo approfittarne per scrivergli. Conosco le mie debolezze e sapevo che entro la fine della giornata mi sarebbe venuta voglia di rivederlo, di stare con lui, di riconquistarlo con la dolcezza e con la mia impotenza disarmante.


Scrissi una lettera tralasciando la parte sulla viola. Sono cose che messe per iscritto ti fanno sembrare stravagante. Dissi che se non riteneva prudente vedermi, evitasse pure di farlo. Dissi che era stata una piacevole parentesi e che dovevamo conservare un bel ricordo. Era una lettera controllatissima. Lui rispose subito. La mia decisione arrivava come una doccia fredda, disse. Però doveva ammettere che avevo ragione. A metà lettera diceva di dover sfondare una breccia nella mia compostezza e ammettere che malgrado tutto mi amava e mi avrebbe sempre amato. Ecco la parolina che andavo cercando da mesi. Serví a darmi il la. Gli scrissi una lunga lettera in risposta. Persi la testa. Straparlai. Professai di amarlo, di aver trascorso quei giorni sull’orlo della follia, di sperare in un miracolo.


Fortuna che non mi addentrai nel merito del miracolo, che probabilmente è, o era, abbastanza disumano. Riguardava la sua famiglia.


Lui tornava dal funerale della moglie e dei figli con il frac nero. Aveva anche la sciarpa di seta bianca che gli avevo già visto e all’occhiello portava un tetro tulipano nero. Vedendolo venire verso di me gli strappavo il tulipano nero e lo sostituivo con un narciso bianco e lui mi metteva la sciarpa intorno al collo e mi attirava a sé reggendola per le frange. Io continuavo a muovere il collo dentro l’abbraccio della sciarpa. Poi ballavamo divinamente su un pavimento di legno che era bianco e scivoloso. Ogni tanto pensavo che saremmo caduti, ma lui diceva: «Non preoccuparti, ci sono qua io». Il pavimento era anche una strada che ci stava portando in un posto bellissimo.


Aspettai per settimane una risposta alla mia lettera, che non arrivò. Portai piú volte la mano al telefono ma una specie di prudenza, sensazione che mi era del tutto nuova, nei recessi della mente mi esortava ad aspettare. A dargli tempo. A lasciare che il pentimento s’impossessasse del suo cuore. A lasciarlo tornare di sua spontanea volontà. Poi mi prese il panico. Pensai che la lettera fosse andata persa o fosse finita nelle mani sbagliate. Naturalmente l’avevo spedita all’ufficio di Lincoln’s Inn dove lui lavorava. Ne scrissi un’altra. Stavolta era un biglietto formale al quale acclusi una cartolina con le parole SÍ e NO. Gli chiesi, se aveva ricevuto la mia lettera precedente, di essere cosí gentile da farmelo sapere cancellando la parola errata e di rispedirmela. Tornò con il NO cancellato. Nient’altro. Dunque l’aveva ricevuta. Rimasi a guardare quella cartolina per ore. Non riuscivo a smettere di tremare e per calmarmi scolai vari bicchieri. C’era un che di tremendamente brutale in quella cartolina, ma del resto va detto che affrontando la situazione in quel modo me l’ero cercata. Tirai fuori la scatola con dentro le sue ceneri e ci piansi sopra, combattuta fra il desiderio di buttarla dalla finestra e di conservarla per sempre.


Assunsi un atteggiamento in linea di massima molto strano. Telefonai a una che lo conosceva e di punto in bianco le chiesi a suo parere che hobby poteva avere lui. Mi rispose che suonava l’armonium, e la notizia mi risultò intollerabile. Poi entrai in una zona grigia e il terzo giorno persi il controllo.


A furia di non dormire e prendere stimolanti e whiskey mi ridussi a uno straccio. Tremavo dalla testa ai piedi e avevo l’affanno, neanche avessi assistito a un incidente. Guardai dalla finestra della camera da letto, che è al secondo piano, il cemento sottostante. Le uniche piante ancora in fiore erano le ortensie, e sbiadendo avevano preso un delicato color ruggine molto piú grazioso del rosa stridulo che avevano avuto per tutta l’estate. Le fucsie del giardino accanto avevano un cappello di ghiaccio. Guardai prima le ortensie e poi le fucsie cercando di valutare come sarebbe andata se mi fossi buttata di sotto. Mi chiesi se il dislivello fosse sufficiente. Immaginai che con la mia malagrazia sarei riuscita tutt’al piú a procurarmi qualche danno irreversibile, il che sarebbe stato peggio perché mi avrebbe inchiodato al letto imprigionandomi in quegli stessi pensieri che mi stavano portando alla disperazione. Aprii la finestra e mi sporsi, ma mi ritrassi subito. Mi era venuta un’idea migliore. Al pianterreno c’era un idraulico che stava installando il riscaldamento centralizzato, impresa in cui mi ero imbarcata da quando il mio amante aveva cominciato a venire regolarmente a casa mia e avevamo scoperto che ci piaceva girare nudi mangiando panini e ascoltando i dischi. Decisi di uccidermi con il gas e di ricorrere all’aiuto dell’idraulico per farlo come si deve. Sapevo – doveva avermelo detto qualcuno – che a un certo punto, nel pieno dell’operazione, ci si pente e si cerca di tornare indietro ma non si può. Una nota tragica in piú che preferivo risparmiarmi. Perciò decisi di andare di sotto e di spiegare all’idraulico che volevo davvero morire, che non glielo dicevo perché me lo impedisse o mi consolasse, che non cercavo pietà – in certi momenti la pietà non serve a niente – e che volevo soltanto la sua assistenza. Poteva mostrarmi come si faceva, sistemarmi e – questo sí che è assurdo – provvedere per qualche ora a rispondere al telefono e ad aprire la porta. E anche a sbarazzarsi del cadavere in modo dignitoso. Questo volevo, al di sopra di tutto. Decisi perfino come mi sarei vestita: un abito lungo che, guarda caso, aveva lo stesso colore delle ortensie nella fase ruggine e che avevo indossato giusto per qualche servizio fotografico o in televisione. Prima di scendere al piano di sotto scrissi un biglietto che diceva semplicemente: «Mi suicido per mancanza di intelligenza e perché non so né ho imparato a vivere».


Mi giudicherete spietata a non aver considerato l’esistenza dei miei figli. In realtà non è vero. Molto prima che cominciasse quella storia ero arrivata alla conclusione che il collegio li aveva separati irrevocabilmente da me. Se preferite, avevo la sensazione di averli abbandonati anni prima. Pensavo, ed era un’ammissione fuori da isterismi, che nella loro vita cambiava poco se io ero viva o no. Va detto che non li vedevo da un mese ed è sconvolgente come l’assenza, pur non attenuando l’amore, plachi il bisogno fisico di chi amiamo. Dovevano tornare per le vacanze di metà anno proprio quel giorno ma, siccome toccava al padre tenerli, sapevo che li avrei visti un solo pomeriggio per qualche ora. E in quello stato di prostrazione mi sembrava peggio che non vederli affatto.


Inutile dire che quando scesi di sotto l’idraulico mi diede un’occhiata e disse: – Qui ci vuole una bella tazza di tè –. L’aveva preparato per davvero. Accettai e rimasi lí a scaldarmi le mani da bambina intorno al cilindro della tazza marrone. Ricordai in un lampo il mio amante che a letto misurava le nostre mani dicendo che le mie non erano piú grandi di quelle di sua figlia. E poi ecco un altro ricordo meno edificante sulle mani. Era la volta che, quando ci incontrammo, lui era visibilmente sconvolto perché aveva schiacciato le mani di quella stessa figlia nello sportello della macchina. Le dita non si erano rotte ma erano tutte ammaccate e lui era dispiaciutissimo e si augurava che la figlia lo perdonasse. Sentendo quella storia mi ero subito affrettata a dirgli che io una volta nello sportello di una Jaguar ci avevo quasi lasciato le dita. Osservazione inutile, anche se un ascoltatore ne avrebbe dedotto che ero una ragazzina vanitosa e senza cuore. Mi sarebbe dispiaciuto per qualunque bambina si fosse schiacciata le dita nella portiera di una macchina, ma in quel momento era un tentativo di richiamarlo a un mondo segreto tutto nostro. Forse è una delle cose che mi ha sminuito ai suoi occhi. Forse è stato allora che ha deciso di troncare i rapporti. Stavo per raccontarlo all’idraulico, per metterlo in guardia dal cosiddetto amore che spesso indurisce il cuore ma che, al pari delle viole, può fare una brutta fine sprofondando due persone in uno sconcerto mortale. Il tè era zuccherato e lo trovai stomachevole.


– Mi serve il suo aiuto, – dissi.


– Basta chiedere, – disse lui. Era prevedibile. Eravamo amici. Avrebbe fatto un impianto raffinatissimo. Quell’impianto sarebbero stato una piccola opera d’arte e il colore dei termosifoni si sarebbe armonizzato con quello delle pareti.


– Lei pensa che li dipingerò di bianco, invece sarà un avorio chiaro, – disse. Il bianco sulle pareti della cucina era un po’ ingiallito.


– Mi voglio ammazzare, – dissi.


– Dio santo, – disse, e scoppiò a ridere. L’aveva sempre saputo che ero un tipo melodrammatico. Poi mi guardò in faccia e capí come stavano le cose. Tanto per cominciare non controllavo il respiro. Mi prese sottobraccio e mi portò in soggiorno, dove ci facemmo un goccetto. Sapevo che non era tipo da disdegnare un goccetto e pensai: «Non tutti i mali vengono per nuocere». La cosa esasperante era che continuavo ad avere i pensieri di una persona viva. Disse che i motivi per vivere non mi mancavano. – Una ragazza giovane come lei, con la gente che le chiede l’autografo, una bella macchina nuova, – disse.


– È tutto… – annaspai in cerca della parola. Volevo dire «inutile», invece venne fuori «crudele».


– E i suoi figli, – disse. – Che ne sarà dei suoi figli? – Li aveva visti in fotografia, e una volta gli avevo letto la lettera di uno di loro. La parola «crudele» mi infuriava nella testa. Urlava da ogni angolo della stanza. Per evitare lo sguardo dell’idraulico abbassai gli occhi sulla manica del mio maglioncino di angora e mi diedi a staccare metodicamente i pezzetti di peluria arrotolandoli in una pallina.


Ci fu un attimo di silenzio.


– Questa è una via sfortunata. Lei è la terza, – disse.


– La terza di che cosa? – dissi, ammonticchiando industriosamente la peluria nera nel palmo.


– Una donna giú in fondo alla strada; il marito dirigeva una banda musicale e rientrava sempre tardi. Una sera è andata alla sala da ballo e l’ha visto con un’altra; è tornata a casa e l’ha fatto senza starci tanto a pensare.


– Col gas? – chiesi, sinceramente curiosa.


– No, coi sedativi, – disse, e passò a raccontare la storia di una ragazza che si era uccisa col gas ed era stato lui a trovarla perché era in casa a curare la carie del legno. – Nuda, aveva giusto un maglioncino, – disse, chiedendosi come mai fosse conciata cosí. Cambiò decisamente atteggiamento mentre ricordava che entrando in casa aveva sentito puzza di gas e aveva cercato di capire da dove venisse.


Lo guardai in faccia. Era serissimo. Aveva le palpebre pesanti. Non l’avevo mai visto cosí da vicino. – Povero Michael, – dissi. Un po’ fiacche come scuse. Stavo pensando che, se si fosse reso complice del mio suicidio, il ricordo l’avrebbe perseguitato per sempre.


– Una bella ragazza, – disse in tono mesto.


– Poveretta, – dissi, facendo appello alla pietà.


Sembrava che non ci fosse altro da aggiungere. Era riuscito a farmi vergognare. Mi alzai sforzandomi di essere normale: presi un po’ di bicchieri dal tavolino e mi diressi in cucina. Se i bicchieri sporchi sono prova di quanto si è bevuto, allora dovevo aver bevuto parecchio negli ultimi giorni.


– Bene, – disse lui, e si alzò con un sospiro. Ammise di essere soddisfatto del suo operato.


Il caso volle che quel giorno ci fosse un’altra crisi. I miei figli sarebbero dovuti tornare dal padre, ma lui telefonò per dirmi che il piú grande aveva la febbre e siccome – ma questo non lo disse – non era capace di prendersi cura di un bambino malato, si vedeva costretto a portarli da me. Arrivarono nel pomeriggio. Li aspettavo sulla soglia, il viso truccatissimo per mascherare l’angoscia. Il bambino malato aveva una coperta avvolta sul cappotto di tweed e una sciarpa del padre intorno al viso. Appena lo abbracciai si mise a piangere. Il piú piccolo girò per casa assicurandosi che tutto fosse rimasto come l’aveva lasciato. Di solito quando venivano da me li accoglievo con dei regali mentre stavolta non ci avevo pensato e loro ci rimasero un po’ male.


– Domani, – dissi.


– Perché hai le lacrime agli occhi? – chiese quello malato mentre lo svestivo.


– Perché stai male, – dissi, raccontando una mezza verità.


– Oh, mammina, – disse lui. Erano anni che non mi chiamava cosí. Mi abbracciò e ci mettemmo tutti e due a piangere. Capii che piangeva per i tanti tormenti che una famiglia divisa gli aveva fatto cadere tra capo e collo. Era strano e insoddisfacente stringerlo fra le braccia dopo che per mesi mi ero abituata alle dimensioni del mio amante, alla circonferenza delle sue spalle, all’esatta altezza del suo corpo che mi obbligava a stare sulle punte per far coincidere le nostre membra alla perfezione. Abbracciare mio figlio mi dava soltanto la consapevolezza di quanto fosse piccolo e della tenacia con cui si aggrappava.


Io e il piú piccolo ci installammo in camera da letto a fare un gioco in cui bisognava leggere domande come: «È un fiume?», «È un calciatore famoso?», poi girare una ruota finché non si fermava su una lettera e usare quella lettera come iniziale del fiume, del calciatore famoso e via dicendo, oggetto della domanda. Io ero piuttosto lenta, e anche l’ammalato. Il fratello vinse senza difficoltà, anche se gli avevo chiesto di lasciar vincere l’invalido. I bambini sono spietati.


Quando si accese il riscaldamento sobbalzammo tutti perché la caldaia, che era nel seminterrato proprio sotto di noi, fece un ribollio del diavolo con lo stesso slancio che avrei voluto avere io quella mattina quando mi ero piantata davanti alla finestra della camera da letto per provare a buttarmi di sotto. Per farmi una sorpresa e tirarmi su il morale, l’idraulico aveva chiesto rinforzi a due colleghi e fra tutti e tre avevano finito il lavoro. Cosí stavamo al caldo ed eravamo contenti, come disse quando venne in camera a riferirmelo. C’era un clima di imbarazzo. Dopo la sceneggiata di quella mattina avevo evitato di incontrarlo. All’ora del tè gli avevo perfino lasciato un vassoio con la tazza sul pianerottolo. Avrebbe raccontato in giro che gli avevo chiesto di essere il mio assassino? L’avrebbe interpretato in questi termini? Offrii da bere a lui e agli amici, che rimasero lí impacciati nella stanza dei bambini a guardare la faccia paonazza dell’ammalato dicendo che sarebbe guarito presto. Che altro potevano dire!


Io e i bambini passammo il resto della serata a fare il gioco delle domande non si sa quante volte e prima di metterli a letto lessi un racconto d’avventure. La mattina dopo avevano tutti e due la febbre. Trascorsi un paio di settimane a curarli. Preparavo litri di consommé, ci spezzavo dentro il pane e li convincevo a ingoiare quella gustosa zuppetta. Volevano essere continuamente distratti. Quando attingevo alla realtà dei fatti mi venivano in mente soltanto stralci di folclore naturalistico spigolati da un collega alla mensa televisiva. Ma, per quanto li infiorettassi, bastavano un paio di minuti per raccontarli ai miei figli: una tempesta di farfalle in Venezuela, certi animali chiamati bradipi talmente pigri che restavano appesi agli alberi fino a ricoprirsi di muschio, e i passerotti inglesi che cinguettavano in modo diverso da quelli parigini.


– Ancora, – dicevano loro. – Ancora, ancora –. Dopodiché dovevamo rifare quello stupido gioco o imbarcarci in un altro racconto d’avventure.


In quei momenti non permettevo alla mente di vagare, ma la sera, quando veniva il padre, mi ritiravo in soggiorno a bere qualcosa. Allora era un disastro. L’ozio mi portava a rimuginare; e poi la luce fioca delle mie lampade crea una penombra che stimola i ricordi. Venivo trasportata nel passato. Mi raffiguravo vari tipi di ricongiungimento con il mio amante, ma il mio preferito era un incontro inatteso in uno di quei sottopassaggi pedonali disumani e piastrellati dove ci correvamo incontro ritrovandoci davanti a una scala con la scritta (a Londra esiste davvero): SOLTANTO PER L’ISOLA CENTRALE, e ridevamo scavalcando quella scala d’un balzo, sospinti da ali miracolose. Nelle fasi meno compiaciute rimpiangevo di non aver visto con lui piú tramonti o pubblicità di sigarette o che so io, perché nel ricordo i nostri tanti incontri si risolvevano in un lungo e ininterrotto amplesso non inframmezzato da una normalità che facesse brillare le punte massime. I giorni, le notti con lui, sembravano compressi in una lunga, bellissima ma unica notte, anziché essere distribuiti nei diciassette incontri della realtà. Quelle punte massime, ahimè, non c’erano piú. Una volta ero cosí convinta che fosse entrato nella stanza da staccare uno spicchio dall’arancia che avevo appena sbucciato per offrirglielo.


Ma dall’altra stanza arrivava la voce sommessa e sicura del padre dei bambini che enunciava informazioni con la presunzione di chi enuncia dogmi, e rabbrividivo all’idea di tutto il veleno che c’era fra noi, anche se un tempo professavamo di amarci. Amore malato. Poi alcuni dei sentimenti che provavo per mio marito si trasferirono al mio amante e mi dissi che la lettera in cui lui aveva professato di amarmi era una farsa, che l’aveva scritta solo quand’era ormai convinto di essersi liberato di me ma poi, ritrovandosi di nuovo invischiato, si era tirato indietro e mi aveva mandato la cartolina. Ero diventata un’estranea ai miei stessi occhi. Traboccavo di odio. Gli augurai le peggiori umiliazioni. Escogitai perfino di partecipare a una cena dov’ero sicura che fosse invitato anche lui e di snobbarlo dall’inizio alla fine. I miei pensieri oscillavano tra l’odio e la speranza di una risoluzione finale che mettesse bene in chiaro quello che provava per me. Perfino una pubblicità vista di sfuggita sull’autobus mi rimandò immediatamente a lui. Diceva: NIENTE PANICO, CI SIAMO QUA NOI: RIPARIAMO, ADATTIAMO, RIMODELLIAMO. Era la pubblicità di qualcuno che infilava perle. Gliel’avrei fatto vedere io come si riparava.


Non saprei dire quando è cominciata, perché sarebbe troppo categorico, e in ogni caso non lo so. Ma i bambini erano tornati a scuola, Natale era passato e io e lui non ci eravamo scambiati nemmeno un biglietto d’auguri. Però avevo iniziato a pensare a lui con meno astio. In realtà erano pensieri un po’ stupidi. Speravo che gli fossero riservati piccoli piaceri come una cena al ristorante, un paio di calze pulite, il vino rosso alla temperatura che piaceva a lui e perfino… ma sí, perfino l’estasi a letto con la moglie. Pensieri che dentro di me mi facevano sorridere, un tipo di sorriso che avevo scoperto da poco. Rabbrividivo pensando al pericolo che aveva corso frequentandomi. Certo, i pensieri feriti di prima combattevano con quelli nuovi. Era come attraversare un corridoio dove infuriano gli spifferi con una candela che rischia a ogni momento di spegnersi. Pensavo contemporaneamente a lui e ai miei figli, e le piccole fisime degli uni diventavano quelle dell’altro: i miei figli che mi raccontavano complicate bugie sulle loro imprese sportive, lui che salendo le scale si sforzava di nascondere il fiatone. La differenza d’età fra noi doveva essergli pesata. È stato allora, credo, che mi sono innamorata veramente di lui. Il suo corteggiamento, i telegrammi, la dipartita, perfino il sesso non erano niente in confronto a quella nuova sensazione. Montava come linfa dentro di me, spesso piangevo perché lui non poteva beneficiarne! La tentazione di telefonargli si era spenta.


La sua telefonata fu un fulmine a ciel sereno. Di solito lasciavo squillare il telefono senza rispondere, e fui tentata di farlo anche quella volta. Chiese se potevamo vederci, se, e lo disse con estrema dolcezza, avevo i nervi abbastanza saldi. Dissi che i miei nervi non erano mai stati meglio. Era una libertà che dovevo concedermi. Prendemmo un tè al bar. Brindammo. Come all’inizio. Mi chiese come stavo. Disse che avevo un bel colorito. Nessuno dei due accennò all’episodio della cartolina. Né gli chiesi quale impulso l’avesse spinto a telefonarmi. Forse non era stato un impulso. Parlò del suo lavoro e di quanto l’avesse impegnato, poi mi raccontò di aver accompagnato una vecchia zia a sbrigare una commissione in macchina guidando cosí piano che lei gli aveva chiesto il favore di sbrigarsi perché a piedi ci avrebbe messo di meno.


– Sei guarita, – disse, cosí, all’improvviso. Lo guardai dritto in faccia. Capii le sue intenzioni.


– È passata, – dissi, e affondai il dito nella zuccheriera per fargli leccare i cristalli bianchi dalla punta. Poverino. Non potevo dirgli di piú, non avrebbe capito. In un certo senso mi sembrava di stare con un altro. Non era quello che aveva ripiegato il copriletto, mi aveva succhiato fino all’osso e mi aveva lasciato le ceneri di sigaro da conservare. Era la sua controfigura.


– Vediamoci ogni tanto, – disse.


– Come no –. Dovevo avere un’aria poco convinta.


– Magari non ti va.


– Tutte le volte che vuoi –. L’idea non mi entusiasmava né mi spaventava. I miei sentimenti non sarebbero cambiati di una virgola. Mi resi conto per la prima volta che per tutta la vita avevo temuto di restare prigioniera: nella cella di un convento, in un letto d’ospedale, in luoghi dove ti confronti con te stesso senza distrazioni, senza gli altri a fare da stampella; ma mentre stavo lí seduta a imboccarlo con lo zucchero, pensai: «Adesso sí che sono entrata in una cella, e quest’uomo non può sapere che cosa significhi per me amarlo come lo amo, e io non posso scaricargli addosso questo peso, perché lui è in un’altra cella alle prese con altre difficoltà».


La cella mi fece pensare a un convento e, tanto per dire qualcosa, accennai a mia sorella, che era suora.


– Sono andata a trovare mia sorella.


– Come sta? – chiese. Mi domandava spesso di lei. Lo incuriosiva, mi chiedeva com’era fisicamente. Mi ero fatta perfino l’idea che fantasticasse di sedurla.


– Bene, – dissi. – Mentre percorrevamo un corridoio mi ha chiesto di dare un’occhiata in giro per assicurarmi che non ci fossero altre suore in circolazione, poi si è tirata su le gonne e ha sceso la rampa di scale scivolando col sedere sul corrimano.


– Che simpatica, – disse. Quella storia gli piacque. Traeva un enorme piacere dalle piccole cose.


Fu bello prendere quel tè. Fu uno dei pomeriggi meno infruttuosi che passavo da mesi, e all’uscita lui mi afferrò per il braccio e disse che sarebbe stato perfetto poter evadere qualche giorno. Forse lo pensava davvero.


In effetti abbiamo mantenuto la promessa. Ogni tanto ci vediamo. Diciamo che le cose sono tornate alla normalità. Per normalità intendo una condizione che mi permette di notare la luna, gli alberi, lo sputo fresco sul marciapiede; guardo gli estranei e riconosco nella loro espressione una traccia del mio disagio; faccio parte della quotidianità, ecco. In camera mia c’è una lampada che emette un crepitio secco ogni volta che passa un treno elettrico, e la notte conto i crepitii perché è allora che viene lui. Quello vero, dico, non l’uomo che ogni tanto mi siede davanti al tavolino di un bar, ma l’uomo che ha preso dimora dentro di me. Si leva davanti ai miei occhi: le mani oranti, la lingua a cui piaceva succhiare, gli occhi mascalzoni, il sorriso, le vene sulle guance, la voce pacata che mi parla con giudizio. Vi chiederete come mai mi tormento cosí con i particolari della sua presenza, ma ne ho bisogno, non posso lasciarlo andare adesso perché, se lo facessi, tutta la nostra felicità e il dolore che ha provocato in me – per lui non posso garantire – non sarebbero serviti a niente, e aggrapparsi al niente è spaventoso.

Numero dieci


Tutto cominciò a migliorare per la signora Reinhardt dal momento in cui diventò sonnambula. Ogni notte il viaggio offriva una nuova sorpresa. La prima fu che vide le pecore: non le pecore che si vedono nella vita, belanti e un po’ fuligginose, ma le pecore che si vedono in sogno. Vide miriadi di pecorelle bianche in cima a una collina, circondate da agnellini zampettanti che succhiavano a tutto spiano.


Poi vide quadri che nella vita non aveva mai visto. Il marito possedeva una galleria d’arte e la signora Reinhardt aveva modo di vederne tanti di quadri, eppure quelli che vedeva di notte erano molto piú appaganti. Tanto per cominciare era al loro interno. Non li guardava da fuori, facendo commenti stupidi, era una parte del quadro: un braccio, un giglio o la criniera grigia di un cavallo. Non doveva rivaleggiare, non doveva dire niente. Tutti i suoi movimenti erano prestabiliti. Era semplicemente consapevole del proprio respiro, un respiro leggero, continuo, corroborante.


La mattina il marito le diceva che sembrava un po’ provata o un po’ su di giri, e lei diceva: – Sciocchezze, – perché in vent’anni di matrimonio non si era mai sentita meglio. La vita da addormentata le si addiceva e, ovviamente, non sapeva mai cosa aspettarsi. La vita diurna seguiva uno schema prestabilito. Le mattine feriali restava a casa ad aiutare o a dirigere Fatima, la domestica spagnola. Due pomeriggi a settimana dava lezioni ai bambini autistici, due pomeriggi erano dedicati alla palestra e il venerdí faceva acquisti da Harrods e la spesa per tutto il weekend. Il signor Reinhardt aveva comprato una fattoria due anni prima e il weekend lo trascorrevano in campagna, nel cottage appena ristrutturato. In campagna la signora Reinhardt non era sonnambula e si chiedeva se a inibirla fosse il filo spinato che correva intorno al giardino. Ma ci sono dei cancelli, pensava, e dovrei aprirli. Ce l’aveva un po’ con sé stessa per non avere uno spirito piú avventuroso.


Poi una notte di maggio, tornata alla casa di Londra, fece un sogno incredibile. Camminava in un campo con suo figlio, che nella vita reale era all’università, e tutt’a un tratto s’inginocchiavano all’unisono mettendosi a scavare a mani nude. Era una terra rossa e ricca, molto friabile. Fremevano sapendo che stavano per appropriarsi del tesoro. E infatti trovavano delle pagliuzze d’oro, granelli minuscoli che mettevano in un fazzoletto e poi, a coronare la sua felicità, la signora Reinhardt trovava una chiavetta d’oro bellissima e la sollevava alla luce mentre il figlio rideva dicendo con una vocetta da bimbo: «Mammina».


Subito dopo quel sogno la signora Reinhardt si diede alle pulizie di primavera. Tende e tappeti da portare in lavanderia, cassetti svuotati di tutte le vecchie cianfrusaglie inutili che si erano andate accumulando. Mise in ordine anche i vestiti del marito. Fra loro due si era aperta una piccola incrinatura che si allargava di giorno in giorno. Lui era di malumore. Rincasava piú tardi del solito e, anche se non lo diceva, si fermava all’angolo a farsi un paio di bicchieri, e lei lo sapeva. Una volta quella primavera l’aveva costretta a sedersi accanto a lui sul divano del soggiorno e le aveva accarezzato le cosce cominciando a spogliarla col rischio di farsi sentire da Fatima, che tagliuzzava e cantava in cucina. Non faceva che tagliuzzare e cantare a voce alta o a mezza bocca. Il piú delle volte, però, il signor Reinhardt andava dritto all’armadietto dei liquori e preparava un gin per tutti e due, il suo piú abbondante perché i maledetti digiuni della signora Reinhardt, diceva, le facevano girare la testa.


Stava smistando le maglie del signor Reinhardt – quelle a maniche corte, i maglioncini estivi e i maglioni pesanti a girocollo – disponendole in tante pile ordinate, quando dalla giacca a righine cadde una chiavetta d’oro che le strappò un urlo. La prima cosa che sentí fu una scarica di paura. Poi si chinò a raccoglierla. Era identica a quella del sogno. La strinse nella mano, ripromettendosi di non separarsene mai. Come siamo sciocchi a inseguire di giorno quello che dovremmo lasciare alla notte.


Nel successivo episodio di sonnambulismo la signora Reinhardt uscí di casa trovando un taxi ad aspettarla e dopo un breve tragitto arrivò a una casa ricavata da un’antica scuderia. Fuori c’era una vasca bianca e nera piena di bei fiori. Mettendo la mano sotto le foglie trovò subito la chiave. Dentro era un piccolo nido. La carta da parati nell’ingresso era proprio quella che aveva sempre desiderato per la loro casa, oro chiaro con minuscoli fiorellini bianchi: piú un’idea di fiori, come quelli delle fragoline selvatiche. La cucina era immacolata. Sul ballatoio al piano di sopra c’era una piccola panchina traforata. I cuscini del soggiorno erano rigidi e imponenti, come l’imbottitura delle poltrone, mentre la camera da letto… ah, la camera da letto.


Era esattamente quella che aveva sempre desiderato per loro. Anzi, era proprio la camera da letto che aveva immaginato tantissime volte e che aveva descritto per filo e per segno al marito. Eccolo: il letto d’ottone sormontato da un piccolo baldacchino di pizzo, il muro di fronte coperto per intero da uno specchio metallico scuro dove parevano nuotare ombre scure, una chaise-longue di velluto azzurro, una pianta pensile dalle foglie lucide e una lampada a stelo con il paralume marrone frangiato che diffondeva una luce molto soffusa.


Si sedette sul bordo del letto, meravigliata, e vide le altre cose che aveva sempre desiderato. Vide, per esempio, la foto di una bimbetta col vestito della Prima Comunione; vide il fermacarte che scuotendolo sprigionava una tempesta di neve in miniatura; vide il vassoio di madreperla con due bicchieri di champagne – e all’improvviso si mise a piangere, tanta era la gioia. Forse, pensò, lui verrà qui da me, verrà a trovarmi, e sarà come ai vecchi tempi, non sarà nervoso, non tamburellerà le dita e non giocherellerà con la levetta della penna stilografica. Mi riempirà di baci e di abbracci e ci rotoleremo nel lettone.


Rimase seduta in quella camera da letto senza toccare niente, nemmeno i due iris bianchi nell’alto vaso di vetro. Aveva la chiavetta in mano e sapeva che era dell’armadio e che le sarebbe bastato aprirlo per trovare una camicia da notte con il corpetto plissettato, un vestito da ballo di tulle, una mantella di volpe argentata e un paio di Chanel. Ma non lo aprí. Voleva che qualcosa restasse segreto. Sgattaiolò via e tornò a casa nel suo letto senza che il marito si accorgesse dell’assenza. Altre volte sentendola tornare a letto si era lamentato del fatto che avesse i piedi freddi e le aveva chiesto che cavolo combinasse: non è che preparava il tè, per caso? Quella mattina lei era cosí felice che gli si avvicinò, gli sbottonò il pigiama e fecero l’amore in modo dolcissimo, lentissimo, con l’impressione che piacesse anche a lui. Al risveglio però era arrabbiato, come se gli avessero fatto un torto.


Naturalmente la signora Reinhardt prese ad andare ogni notte nella casa ricavata dalle scuderie e le si illuminava il cuore vedendo la colonna con il numero, il dieci, in cifre dorate con il bordo bianco. Lo zero era un po’ storto. Certe volte s’infilava nel letto d’ottone e sapeva che prima o poi il signor Reinhardt l’avrebbe raggiunta, era solo questione di tempo.


Una notte mentre era a letto, un po’ ansante, lui arrivò pian piano, chiuse la porta, le tolse la camicia da notte e la prese con una tale forza che dopo le sarebbe venuto il dubbio di avere una costola rotta. Usarono parole che non usavano da anni. Lei era giovane e scatenata. Una febbre meravigliosa s’impossessò di lei. Lo trattò con insolenza quando la pregò e la scongiurò di sposarlo, per favore, di rinunciare per favore alla sua indipendenza, di essere sua, per favore, aggiungendo che se avesse rifiutato l’avrebbe rapita. Poi per dimostrarle che non scherzava la prese di nuovo. Lei per poco non morí, tanto era profondo e totale il piacere, e ogni volta che tornava in sé vedeva un ninnolo o una minuzia che aggiungeva piacere al piacere: una volta una giostrina dove i cavalli d’argento s’inseguivano, una volta un rumore che sembrava di un ruscello. Lui le offrí lo champagne e bevvero nel piú assoluto silenzio.


Svegliandosi da quell’idillio, però, si ritrovò nel suo letto, insieme a lui. Era mortificata. Aveva urlato nel sonno? Le era sfuggito qualche gemito? Le costole erano tutte intere. Allungò la mano verso lo specchietto e non scorse segni di lascivia sul suo volto, né capelli arruffati, e i bottoni della camicia da notte erano ordinatamente chiusi fino all’ultimo.


Lui era un monolite di sonno. Aprí gli occhi. Lei gli disse qualcosa, qualcosa di preoccupato, ma senza ricevere risposta. Si alzò e scese in soggiorno a riflettere. Come sarebbe andata a finire? Doveva parlarne al marito? Secondo lei no. Passò la mattinata a infilare la chiave in varie serrature, ma era troppo piccola. Anzi, una volta per poco non la perse perché scivolò dentro la serratura e le toccò usare il rebbio di una forchetta per tirarla fuori. Ovviamente si premurò di non far vedere a Fatima, la cameriera, quello che combinava.


Era venerdí, il giorno in cui andavano in campagna, e lei non ne aveva nessuna voglia. Sapeva che all’arrivo si sarebbero precipitati in giardino a guardare se le piante erano cresciute, a guardare le foglie delle rose per assicurarsi che non ci fossero parassiti. Poi, spingendo lo sguardo in fondo ai campi dove c’erano le mucche, si sarebbero detti quant’erano fortunati ad avere un posto cosí bello, quant’erano furbi. I fiori della magnolia dovevano essere sbocciati del tutto e lei si sarebbe impalata a fissare l’albero come se bastasse fissarlo per impregnarsi del suo biancore.


Le magnolie erano sbocciate quando arrivarono, come tanti piccoli portauovo di porcellana bianca, ogni fiore proteso verso il cielo. Due dei platani avevano sicuramente preso un fungo, disse il signor Reinhardt, perché le foglie stavano seccando. Quegli olmi andavano tagliati e il signor Reinhardt calcolò che avrebbero avuto legna per due inverni. Ne avrebbe parlato con l’amministratore, che abitava in fondo alla strada. Portarono dentro la spesa, alzarono le serrande e accesero il riscaldamento. La piccola cucina era come l’avevano lasciata, a parte le primule nel vaso che erano scolorite e sembravano brandelli di pelle gialla. Lei tirò fuori le provviste, mise alcune cose in frigo e cominciò a sbucciare le carote e le patate per la cena. Il signor Reinhardt piantò quattro ganci nel muro per appendere le nuove stampe che aveva portato. Ogni tanto la chiamava per chiederle in quale ordine doveva metterle e lei arrivava con le mani coperte di farina e proponeva distrattamente una combinazione.


Aveva la chiave con sé, e di quando in quando apriva la borsetta per assicurarsi che fosse ancora lí. Poi arrossiva.


All’imbrunire uscí a prendere un ramo di melo per dare un buon odore al fuoco. Un uccello cinguettava su un albero. Piú suono che canto. Non capí che uccello fosse. La magnolia era una massa bianca nel buio circostante. Scendeva la rugiada e lei si chinò un istante a toccare l’erba bagnata. Avrebbe tanto voluto che fosse domenica cosí sarebbero tornati a casa. A Londra le serate sembravano trascorrere piú in fretta e tutti e due avevano piú cose da sbrigare. Aveva quasi l’impressione di tradirlo.


Bevvero vino rosso seduti davanti al camino. Il signor Reinhardt era nervoso ma allo stesso tempo accusava lei di nervosismo. Stava parlando del Mercato comune con perentorietà. A che gli serviva illustrargliene la logistica se lei nemmeno lo contraddiceva? Si fece prendere la mano, cominciò a gesticolare, disse che amava l’Inghilterra, lui, l’amava con tutto sé stesso, che l’Inghilterra stava andando in malora. Quando lei si alzò per spingere nel focolare un ciocco che era caduto, le intimò per l’amor del cielo di non distrarsi.


Lei si rimise subito seduta, augurandosi che non scoppiasse una di quelle liti furiose, inaspettate, inutili. Ma per fortuna furono distolti. Gli sentí dire: – Perdindirindina! – e alzando lo sguardo vide quello che aveva appena visto lui. Una mandria di bestiame li fissava. Balzò in piedi. Il signor Reinhardt corse al telefono per chiamare l’amministratore, essendo del tutto ignaro della vita campestre, e nella fattispecie di come si disperdeva una mandria.


Lei agguantò un bastone da passeggio e uscí per impedire alle mucche di cadere dentro la piscina. Fuori faceva freddo e il vento frusciava in tutti gli alberi. Le mucche la guardarono, sospettose. Drizzarono le orecchie. Lei accennò qualche mossa con il bastone e in quel momento quattro di loro scavalcarono il filo spinato tornando nel campo adiacente. La mucca rimasta cominciò a correre a perdifiato. Le quattro mucche nell’altro campo si misero a strepitare. La quinta cozzava contro il recinto. La signora Reinhardt pensò: «Lo so come ti senti: ti senti persa e confusa, allo sbando».


Arrivò il marito furibondo perché aveva telefonato all’amministratore senza ottenere risposta. – Non c’è mai, accidenti a lui! – disse. La povera mucca si spaventò talmente sentendolo urlare che tentò il balzo impigliandosi nel filo spinato. La signora Reinhardt vide le punte del filo spinato dentro l’enorme mammella e pensò ma tu guarda dov’è andata a cacciarsi. Dovevano salvarla. Si avvicinarono con estrema cautela all’animale, e nelle intenzioni il signor Reinhardt avrebbe tenuto ferma la mucca mentre la signora Reinhardt liberava la carne. Si sforzò di essere delicata. La mucca aveva un odore di latte, tenue a paragone di quel suo ruggito, che era implorante. Il signor Reinhardt la prese per le zampe posteriori e disse alla moglie di sbrigarsi. La mucca scalciava. Appena la signora Reinhardt sollevò la carne sanguinante, la mucca fece un bel salto e scavalcò il recinto piombando nel campo, dove corse a bere nel fiume.


Le altre la seguirono e d’un tratto l’intero prato divenne teatro di strepiti e di un forsennato trambusto. Il signor Reinhardt si sfregò le mani con un sospiro di sollievo. Propose di aprire una bottiglia di champagne. La signora Reinhardt era contentissima. Ultimamente il marito era diventato molto parsimonioso, non le concedeva mai un lusso. Anzi diceva che, per come era messo il Paese, presto avrebbero dovuto rinunciare anche al vino. Entrando in casa la cinse con un braccio. E tornati nella stanza lei si sedette sentendosi come un’amante mentre beveva lo champagne, gli sorrise e sentí l’alcol fluire in tutto il corpo. Lo champagne li mise di buonumore e si abbracciarono salendo la stretta scala che portava in camera da letto. Malgrado questo la signora Reinhardt non aveva voglia di intimità; voleva riservarla alla stanza nascosta.


La domenica sera tornarono a Londra e quella notte la signora Reinhardt non dormí. Di conseguenza non andò da nessuna parte in sogno. La mattina era sulle spine. Si guardò allo specchio. Stava invecchiando. Dopo colazione, mentre il signor Reinhardt si affrettava a uscire, sollevò la piccola chiave.


– Che cos’è? – gli chiese.


– Come faccio a saperlo? – disse lui. Era livido in volto.


Lei prese il telefono e fissò un appuntamento con il parrucchiere. Si fece un discorsetto. Non doveva invecchiare. Dopo, con i capelli in ordine, gli avrebbe fatto una sorpresa: sarebbe passata alla galleria chiedendogli di portarla in un bel pub. Lungo la strada si sarebbe comprata un foulard nuovo e lo avrebbe legato al collo per sembrare piú giovane.


Quando arrivò alla galleria il signor Reinhardt non c’era. Hans, il suo assistente, era alle prese con un cliente mediorientale. Lei disse che avrebbe aspettato. La nuova segretaria andò a preparare il tè. La signora Reinhardt si sedette alla scrivania del marito, meditabonda, e poi cominciò a sfogliare pigramente l’agenda, tanto per passare il tempo. Pranzo con questo e con quest’altro. Un appunto per ricordarsi di comprarle un regalo per il loro anniversario, cosa che aveva fatto. Le aveva comprato un bellissimo anello con sopra una sfinge.


Poi lo vide: l’indirizzo dove lei andava notte dopo notte. Numero dieci. Le cifre le ballarono davanti agli occhi come avevano ballato quand’era arrivata in taxi la prima volta. Tutti i suoi gesti si fecero veloci e meccanici. Ingollò il tè, strinse distrattamente la mano al signore arabo, mangiò il biscotto allo zenzero masticandolo con una tale violenza da digrignare i denti. Camminò su e giú per la stanza, tornò all’agenda. Lo stesso indirizzo, tre, quattro o cinque volte a settimana. Sfogliò le pagine a ritroso per vedere da quanto tempo continuava. Inutile. L’unica era andarci di persona.


Arrivata alla casa ricavata da un’antica scuderia trovò la chiave nella vasca dei fiori. In cucina c’erano dei gusci d’uovo e una padella in cui avevano cotto un’omelette. I gusci erano due marrone e uno bianco. Affondò il dito nel grasso; era ancora caldo. Il cuore la precedette lungo le scale. Sembrava un proiettile dentro il corpo. Aveva la mano sulla maniglia quando all’improvviso si arrestò sui suoi passi, immobilizzandosi. Si allontanò pian piano dalla porta e tornò alla panchina sul ballatoio.


Non si sarebbe intromessa, no. Si capiva benissimo perché il signor Reinhardt andava lí. Ci andava di giorno per rispettare il convegno amoroso con lei, per essere infedele con lei, che poi era lo stesso motivo che spingeva lei ad andarci di notte. Un giorno o una notte, con una buona dose di fortuna, si sarebbero incontrati condividendo il loro segreto ma, fino ad allora, la signora Reinhardt era ben contenta di lasciare le cose come stavano. Scese le scale in punta di piedi felice di non essere stata precipitosa, di non aver rotto l’incantesimo.La signora Reinhardt


La signora Reinhardt aveva tracciato l’itinerario. Inchiostro blu per le strade principali, rosso se voleva deviare. Un sistema, e un voto. Doveva divertirsi, doveva riposare, doveva recuperare, doveva ingrassare, e magari rifiorire un minimo. Doveva guarire. In fin dei conti il mondo era verde, soleggiato e incantevole. Stavano raccogliendo il fieno e le mucche pezzate, cosí lucide da sembrare cani dalmata, si muovevano nei prati con la pigrizia dei sonnambuli. Gli uomini e le donne al lavoro nei campi sembravano non conoscere agitazione né fretta. Era giugno in Bretagna, poco prima che calassero le orde di turisti, e le strade erano relativamente sgombre. Il vento impazzava ma lei dall’auto vedeva i rari sprazzi di sole illuminare gli alberi, l’erba rigogliosa e gli acquitrini. I semi e il polline sulla superficie degli acquitrini erano di un giallo senape luminoso. Il ciglio della strada era costellato di ginestre in fiore e, a intervalli regolari, un telefono di emergenza arancio sgargiante rapiva la sua attenzione. Questo non le piaceva. Non le piaceva l’emergenza e non le piaceva il telefono. Da evitare.


Assorta com’era nella guida, la signora Reinhardt aveva il cuore relativamente sereno. Non si sarebbe detto che ne aveva appena passate di cotte e di crude e che l’aspettava anche di peggio. Quella era una tregua. Osserva il ciglio della strada, le margherite nei campi, il rosso e il rosa dei tulipani, e i lupini sonnacchiosi come le mucche; osserva i segnali stradali e se proprio devi pensa agli inglesi morti nell’ultima guerra i cui spettri aleggiavano da queste parti, gli inglesi morti di cui in quel momento in qualche casa a schiera inglese accarezzavano una fotografia, un cimelio, un pensiero smozzicato. Pensa al cibo, pensa ai crostacei, pensa a come si dice mirtillo in francese, pensa a quello che ti pare, basta che tieni la mente impegnata.


Doveva essere un bell’albergo. Aveva visto le foto, una colombaia sulla riva di un lago, l’essenza stessa dell’immobilità, della bellezza, dell’isolamento. Un posto dove ritrovare il dio della pace. I pini ai lati della strada erano giovani e allampanati mentre le mucche erano pendule, le mammelle grosse e piene all’inverosimile. Pensò che era ancora mattina e che le avevano appena munte: chissà come sarebbero state al tramonto! Che rabbia, le mammelle di quelle mucche le fecero tornare in mente il pensiero proibito. Una volta nel loro cottage di campagna una mucca si era impigliata nel recinto di filo spinato e lei e il signor Reinhardt avevano passato un brutto quarto d’ora prima per cercare aiuto e poi per liberare quella povera bestia, mettendo in subbuglio la comunità delle mucche. Dopo avevano bevuto champagne per festeggiare qualcosa. O per nascondere qualcosa? Il signor Reinhardt aveva detto che non dovevano mettere una distanza fra loro, eppure aveva litigato con lei per il Mercato comune e a letto le aveva tolto gli occhiali mentre leggeva un racconto di Flaubert. L’inizio della fine, lo sapeva ora e lo sapeva allora, ma lo sapeva veramente, lo sappiamo veramente, esiste veramente una cosa del genere oppure è l’ennesimo inizio dell’ennesima fine ora e per sempre?


– Accidenti, – disse la signora Reinhardt e accelerò proprio a pochi metri da una profusione di segnali con le frecce grandi e i nomi blu. Si era confusa. Svoltò a destra e si accorse subito di aver preso l’uscita non per la cittadina principale ma per quella a est. Cosí imparava a distrarsi. Levati quell’uomo dalla testa. Il peggio era passato. Si lanciò un’occhiata alle spalle e vide il duomo della cittadina, già alla ricerca di un modo per svoltare a destra.


Il peggio era passato, il peggio era stato quando all’altra donna, una ragazza in realtà, era stato concesso di indossare la camicia da notte e la collana della signora Reinhardt. Per scherzo. «È giovane», aveva detto lui. E a quanto pareva lo era davvero quella rivale, o meglio, quel rimpiazzo. Cosí giovane da inveire contro gli altri automobilisti dal finestrino della macchina, da girare con un grosso ombrello sgargiante, da ingozzarsi di patatine e pastiglie per la tosse mentre il signor Reinhardt la portava nei migliori ristoranti. Una vera peste.


La signora Reinhardt girò intorno a una città murata e imprecò contro un sistema di segnali che non riportavano il nome del paese con i mulini a vento che cercava lei. C’erano altre cose, come un orologio, un panettiere e qualche passeggino e accostando nella piazza orlata di alberi vide un ragazzo a torso nudo davanti a un cavalletto, chiaramente intento a ritrarre la cattedrale. Lei si allargò la cartina sulle ginocchia e aprí lo sportello per far entrare un po’ d’aria. Lui la guardò. Lei gli sorrise. Doveva pur sorridere a qualcuno. Tutt’a un tratto provò il desiderio irrazionale di avere un figlio, un figlio accanto a sé in quel momento a consolarla, a darle sicurezza, a prendere le sue parti. In realtà un figlio ce l’aveva, solo che era cresciuto, era andato in America e non sapeva niente di quella storia né doveva saperlo.


Un tizio le spiegò che aveva sbagliato a entrare nella cittadina con la cattedrale ma lei si disse che aveva visto la cittadina, aveva visto il ragazzo che dipingeva e gli aveva rivolto un utile sorriso che lui aveva ricambiato, e questo non era poco. Per il resto del viaggio non si distrasse, vide gli alberi, le case con i tetti spioventi, qualche mulino a vento, vide i denti di leone, oltrepassò vari paesini, vide i panni stesi ad asciugare e capí che stava andando nella direzione giusta.


L’arrivo fu ammantato di magia. Alberi, il gorgoglio dell’acqua, fiori, fiori di campo e la sensazione di trovarsi in un posto che avrebbe richiesto tempo per lasciarsi conoscere, per lasciarsi scoprire. Ad accrescere il mistero, gli appartamenti erano chalet di pietra disseminati qua e là nel parco. In realtà era un comprensorio, ma dominato dalla natura. Scese qualche gradino seguendo l’indicazione per la reception e non appena si presentò la invitarono a sbrigarsi perché stavano per servire il pasto. Trovare la sala da pranzo fu una piccola spedizione a sé: su per le scale, giú per altre scale e poi dentro un saloncino esterno dove i tavoli rotondi avevano tovaglie di pizzo e un vaso di fiori di campo ciascuno. Lei si chinò ad annusare le viole del pensiero. Un odore puro, dolce e setoso, con la consistenza dell’infanzia. Si sentí grata. Era il marito a coprire le spese ed era un peccato che ora, come lei, non fosse lí a scendere altri scalini per approdare a un tavolo dietro un séparé di raso apparecchiato per due e vicino a una finestra aperta, col gorgoglio dell’acqua come accompagnamento. Prese mezza bottiglia di champagne, pâté d’anatra e un pesce piatto e bianco alla griglia su un letto di porri scottati a striscioline. La salsa olandese era perfetta e piú gialla del normale perché ci avevano aggiunto la senape. Era da sola, a parte la ragazza che serviva e una coppia anziana qualche tavolo piú in là. Non sentiva che cosa dicevano. L’uomo beveva Calvados. La ragazza che serviva aveva un bel faccino e i capelli ricci castani legati con un nastro. Un ricciolo civettuolo le ricadeva a bella posta sulla fronte. Aveva innocenza da vendere, e anche un sogno. La signora Reinhardt non riuscí a guardarla a lungo e pensò che probabilmente non era mai stata a Parigi, non era mai stata nemmeno a Nantes ma sperava di andarci e un giorno ci sarebbe andata. Quella la storia che portava scritta negli occhi, nei riccioli dei capelli, in ogni cosa che faceva. Quella la sete.


Dopo pranzo accompagnarono la signora Reinhardt in camera. Era al fondo di una strada polverosa costeggiata da felci e romice. Le rose selvatiche di un rosa pallidissimo ricadevano sull’arco che sovrastava la porta, e quando lei si affacciò a una dalle strette finestrelle del bovindo in camera da letto vide proprio quelle rose e la distesa d’erba, mentre dal lato opposto giungeva lo scroscio impetuoso dell’acqua, due immagini che le ricordavano sé stessa e tutti quelli che aveva conosciuto. Una era verde, silenziosa e quieta, l’altra torrenziale. Dovevano per forza essere in conflitto fra loro? Si svestí, disfece i bagagli, aprí il piccolo frigorifero per vedere quali delizie contenesse. C’erano birra, champagne, bottigline di whiskey, acqua di Vichy e cordiale rosso. Le sembrava di essere tornata bambina e di guardare dentro la casetta giocattolo. Pianse un po’. Perché piangeva la signora Reinhardt: per la bellezza, per la bruttezza, per sé stessa, per il figlio in America, per il signor Reinhardt che aveva perso la ragione. Il signor Reinhardt era talmente innamorato di quella ragazza, Rita, che si era fatto trascinare a conoscere tutti i suoi amici per informarsi su com’era Rita a sedici anni, a diciassette, come si vestiva Rita, com’era Rita alla festa per il diciottesimo compleanno e perché Rita aveva smesso di frequentare la scuola d’arte, e aveva preso nota di tutto. Bella figura, aveva fatto. Sí, piangeva proprio per quello, e piangendo le sembrava che le lacrime fossero come le stratificazioni della terra, che avessero tanti livelli e tanti strati, e che gli strati fossero diversi fra loro e che adesso il suo pianto dipendesse da piú di una cosa alla volta, che le sue lacrime fossero tutte mischiate. Piangeva anche per la vecchiaia, per due ciuffetti grigi nel pelo pubico, piangeva perché certe volte non si era impegnata di piú, per esempio quando il signor Reinhardt tornava a casa aspettandosi l’eccitazione o il riposo e invece si ritrovava la tipica storia dell’impiegato del gas che non si era presentato all’appuntamento. Si era lasciata risucchiare dal vortice stanco e ipnotico della vita domestica. Con lei le riviste dovevano essere in ordine e la polvere spolverata, lí aveva riversato tutto il suo perfezionismo anziché in cose piú grandi, o nel signor Reinhardt. Dove abbiamo sbagliato? Non spetterebbe agli angeli prenderci per mano e riportarci indietro?


Piangeva anche per la sera in cui gli aveva tirato addosso un piatto da portata, mentre lui stava lí catatonico e diceva di sapere che stava rovinando la vita a lei e a sé stesso, ma non poteva impedirlo, diceva sarà pure follia o la menopausa maschile o quello che voleva lei, ma le cose stavano cosí, cosí come stavano, come stavano. Le aveva perfino rivolto un appello. Le aveva raccontato una storia, le aveva raccontato che proprio quel giorno, andando a un’asta a comprare dei quadri per la galleria, aveva portato con sé Rita e mentre guidava in autostrada si era augurato di avere un incidente, tanto era terribile la sua situazione e impossibile per lui separarsi da quella ragazza che, doveva ammetterlo, gli aveva fatto perdere la testa, ma l’aveva reso Felice, Felice, continuava a ripetere.


Era quell’impotenza degli esseri umani a farla piangere piú di tutto e quando, molto piú tardi, cioè al tramonto, la signora Reinhardt si asciugò gli occhi e indossò l’abito color ostrica con la collana cinese, si andava ancora ripetendo la storia dell’impotenza. Allo stesso tempo ricordava a sé stessa che aveva una vita davanti, e tante avventure, che non era finita, aveva semplicemente cambiato direzione e non conosceva ancora la strada nuova.


Andò a cena. Le diedero un altro tavolo. Stavolta guardava il lago che era un affresco di meraviglie: gli alberi ai due lati, i rami sporgenti, le foglie verdi con la parte inferiore argentata e un grosso ramo caduto che le anatre usavano come posatoio. Gli ospiti erano quasi tutti anziani a parte una donna con i capelli arancioni e gli occhiali da sole borchiati. La donna esaminò una rivista per tutta la cena senza mai rivolgere la parola al suo accompagnatore.


La signora Reinhardt guardava il panorama, sorseggiava il vino, masticava una crosta di quel pane leggero come un’ostia. D’un tratto girò lo sguardo e vide una vasca con le bolle d’acqua dove c’erano svariati astici. Erano cosí belli che lí per lí li scambiò per modellini, per astici ornamentali. I carapaci avevano meravigliose sfumature blu, il blu dei lapislazzuli, e anche se i movimenti dei crostacei sulle prime la innervosirono, poco alla volta si lasciò irretire dalle loro movenze dimenticando quello che le avveniva intorno. Si muovevano in modo bellissimo e con un intento preciso. Si muovevano per toccarsi, almeno alcuni, mentre gli altri aspettavano, erano beneficiari, per cosí dire, di quel protendersi, di quel toccarsi. I loro movimenti avevano tutta la magnificenza della parola, priva però della follia. Ma le intenzioni erano chiare. La signora Reinhardt era cosí assorta che non sentí la ragazza carina dirle che la desideravano al telefono e in effetti quella le dovette toccare il braccio nudo facendola sobbalzare. Naturalmente uscí dalla sala un po’ turbata, mise un piede in fallo prendendo una storta ma per fortuna senza slogarsi la caviglia. Era la caviglia debole, quella su cui cadeva sempre. Entrando nella piccola cabina si fece forza. Forse lui era pentito o ubriaco, oppure c’era stato un incidente, oppure era il figlio che si sposava. Di sicuro era qualcosa di importantissimo. Disse un «Pronto?» calmo ma vivace. Lo ripeté. Era la voce di un estraneo, uno che voleva Rachel. Rachel chi, chiese lei. Dopo qualche istante di forte nervosismo la signora Reinhardt tornò al tavolo molto delusa e tremante. Che stupida quella ragazza a chiamare lei! Fortuna che gli astici salvarono la situazione.


Ora sí che li guardò con la massima attenzione. Ora sí che dimenticò l’errore telefonico e si godette lo spettacolo. Un astice lungo e imponente sembrava il padrone della vasca. Le chele erano coperte da elastici neri ma questo non gli impediva di aggirarsi tutto tronfio nell’acqua, ingaggiando battaglie frontali con alcuni ma cercando per lo piú di stuzzicarne un altro: una femmina che dormiva ed era chiaramente il suo amore. Le inviava richiami ipnotizzanti. Le faceva il solletico con le antenne, le appoggiava le chele sul dorso, poi gliene infilava una sotto a mo’ di leva per sollevarla appena appena, poi la lasciava un attimo in pace ripartendo subito dopo con un assalto piú impetuoso, piú esplicito. Ogni tanto, per forza di cose, era costretto a desistere, a tenere a bada gli altri che insidiavano la sua bella, e lo faceva con la stessa determinazione, affrontandoli con occhi feroci ma allo stesso tempo immobili come perle. Si avventava nell’acqua spingendoli indietro, spingendoli altrove, e tornava dalla sua amata, dal suo oracolo. Ovviamente nella vasca c’erano anche movimenti secondari ma la signora Reinhardt seguiva lo spettacolo principale. Immaginò che quell’astice fosse un maschio e decise di chiamarlo Napoleone. In certi momenti era cosí preso dalla smania sessuale che si portava una lunga antenna sotto il sedere e si toccava la piccola gorgiera di membrane grigiastre per eccitarsi e ripartire in tromba con la dama dormiente. Perché non aveva dubbi che lei avrebbe ceduto. La signora Reinhardt la battezzò la Dama Giapponese per via del languore, del rifiuto di lasciarsi provocare da lui e da tutti gli altri, e la signora Reinhardt pensò: «Oh, chissà che scena quando lei si deciderà ad alzarsi e si concederà al suo abbraccio, oh, chissà che matrimonio!» La signora Reinhardt pensò anche che con ogni probabilità sarebbero rimasti in quella vasca poche ore e che in quelle ore dovevano interpretare la commedia della loro vita. Li guardò premendo una mano contro l’altra e sperò, come i bambini, che quel corteggiamento avesse un lieto fine.


Era ancora in corso quando fu costretta a lasciare la sala da pranzo, ma aveva come la sensazione che a luci spente e senza ospiti i due protagonisti, al sicuro nella loro vasca e protetti dalle bolle d’aria, si sarebbero segretamente trovati. Aveva bevuto un po’ troppo e risalí la strada polverosa che portava al suo chalet barcollando appena. Si sentiva euforica. Aveva visto una cosa che l’aveva commossa. Aveva visto l’istinto, aveva visto le effusioni e aveva visto la volontà che rifiuta di essere rifiutata. Aveva visto la tenerezza.


In camera mise la collana nella scatola di vimini a forma di cuore e la nascose sotto il cuscino del secondo letto. Un bellissimo collier di giada che aveva rubato al marito. Era stato della madre di lui. Valeva diecimila sterline. Era il suo regalo di benservito. Gliel’aveva estorto. Prima di chiuderlo nella scatola morse le perle come fossero frutti.


«Se mi dài la collana me ne vado». Questo gli aveva detto, e sapeva di averlo ferito mortalmente al cuore, in qualche angolo recondito. Per lui era la collana di famiglia nonché quello che considerava il suo unico portafortuna. E poi suo marito era del Cancro e quando si attaccava, si attaccava. Quel monile li accomunava e lei prendendolo gli diceva che andava via per sempre, e portava via una parte di lui, il suo talismano piú importante, cimelio della madre, cimelio della loro vita insieme. Oramai si era talmente legata a quel gioiello che quando lo aveva indosso si toccava la gola di continuo per assicurarsi che ci fosse, e quando se lo toglieva lo baciava, e la notte lo sognava, e una notte sognò che per sicurezza se l’era infilato dentro la vagina, l’aveva nascosto lí dentro. Altre volte pensava di andare al casinò e di giocarsi la fortuna di lui e la propria. C’era un casinò lí nei paraggi e quel sabato era prevista una gara ciclistica e lei pensò che una sera, magari proprio sabato, sarebbe uscita, e magari avrebbe giocato d’azzardo e magari avrebbe vinto. E si addormentò.


Il terzo giorno la signora Reinhardt fece un giro in macchina. Aveva bisogno di cambiare scenario. Aveva bisogno di aria di mare e di scogli. Aveva bisogno di rinvigorirsi. Il piccolo nido era stucchevole. Il qua-qua delle anatre e il gorgoglio dell’acqua andavano benissimo ma cominciavano a fare il verso alle sue brame e questo non le piaceva. Perciò dopo colazione lesse la Preghiera di una monaca inglese del XVII secolo, quella che chiede al Signore di liberarci dall’eccessiva facondia, di renderci riflessivi ma non musoni, di concederci qualche amico e di conservarci ragionevolmente dolci. Pensò a Rita. Ai luminosi occhi blu di Rita, occhi zaffiro, e ai suoi piccoli orecchini in tinta. Rita era sgraziata come una puledra. Rita era tipo da passare la notte in bianco, buttarsi in mare all’alba e poi dormire come una bambina tutto il giorno anche in una stanza senza tapparelle. Beata gioventú. Eppure guarda caso la signora Reinhardt aveva un ammiratore. Monsieur, il proprietario dell’albergo, era pieno di premure. Le bastava girare l’angolo per ritrovarselo davanti, ed escogitava sempre qualche scusa per trattenerla un istante e mangiarsela con gli occhi. Una volta era una lepre che correva nella vegetazione, un’altra il suo cane che seguiva le anatre, un’altra ancora il camioncino dell’elettricista venuto a riparare i cavi telefonici. Il temuto telefono. Era proprio contenta che non funzionasse. Era anche contenta di fare ancora colpo, e guai a chi diceva che la signora Reinhardt non era una rubacuori.


Suo marito aveva conosciuto Rita esaminando la mostra d’arte di alcuni giovani talenti. Rita, che si era resa conto di essere la peggiore, in un attacco di rabbia aveva distrutto la propria opera. Lui rientrando a casa aveva raccontato alla signora Reinhardt quanto gli fosse dispiaciuto per quella ragazza, anche se aveva dimostrato di avere un bel fegato. Era il ventidue febbraio. Il giorno dopo erano successe due cose: lui aveva comprato svariate camicie di seta e le aveva proposto un weekend a Parigi.


«Magari potessi chiudere la porta a chiave e tornare quando sarò vecchia, magari». Questo si diceva la signora Reinhardt allontanandosi in macchina da quel nido verde, dagli uccelli cinguettanti e dai moscerini a mezz’aria, dalle ricche salse olandesi e dal letto con la trapunta, dall’eccessiva comodità di tutto quanto. Pensò che forse aveva soffocato il marito allo stesso modo. Perché, anche se la signora Reinhardt con gli altri era fredda e manteneva rapporti distaccati con uomini e donne, non era quella la sua vera natura, era una sovrastruttura, uno scudo di riserbo a protezione delle sue paure. A casa era romantica, faceva un milione di cose per compiacere il signor Reinhardt, per assecondarlo. Gli scaldava il suo lato del letto mentre lui si svestiva, guardava un disegno che aveva appena comprato o passeggiava per la stanza. Le passeggiate si erano fatte piú febbrili. Quando gli faceva ai ferri le calze a trecce ne faceva sempre tre casomai una si fosse strappata o rovinata. Quando lui andava a pescare oppure ad agosto, quando andava a caccia in Scozia, lo seguiva soltanto per stargli vicino anche se odiava quelle scorribande. Troppa vita pubblica. Una residenza di campagna stipata di ospiti per una settimana frenetica e alla buona. Niente vita privata. Alcune delle donne partecipavano come battitrici, mentre altre si accomodavano in uno dei salotti per scambiarsi ricette o parlare di lifting facciali, di bei vestiti o delle agenzie che fornivano personale di servizio. Il paesaggio e il gallo cedrone avevano lo stesso colore meraviglioso: quello del metallo arrugginito. Gli uccelli abbattuti davano spesso l’idea di essersi stesi in terra per scherzo, tanto poco sembravano morti. Perfino le rare gocce di sangue parevano irreali, teatrali. Lei amava la brughiera, il colore arrugginito della cascina e del sottobosco. Amava i cani e l’entusiasmo ma non sopportava il rumore degli spari. Un’improvvisa violenza in quella brughiera incontaminata e poi la gioia dei cacciatori alla ricerca della preda abbattuta. Quando si riunivano intorno al tavolo capitava che lui le facesse l’occhiolino o le passasse una tazza di brodo ma non la coinvolgeva mai nei discorsi. Non ce n’era bisogno. La signora Reinhardt pensava spesso che il vero segreto del loro amore fosse che lei teneva la propria interiorità perennemente al caldo per lui, come si tiene un uovo sotto un nido di paglia. Quando amava, amava senza riserve, lei, come un cocker. Aveva gli occhi dello stesso marrone giallognolo. Una volta da ragazza mentre cuciva una cosa a macchina si era infilata per sbaglio l’ago dentro l’indice, e invece di chiamare i genitori che erano nell’altra stanza aveva aspettato che arrivasse la madre. La madre vedendo quel disastro aveva lanciato un urlo. Un attimo dopo ecco arrivare il padre, che l’aveva liberata dall’ago dando un colpetto alla leva e poi le aveva rivolto uno sguardo, uno sguardo cosí carico d’amore. All’epoca la signora Reinhardt era semplicemente Tilly, figlia unica e anima bella. Era convinta che prima ami tuo padre e tua madre, e ami tuo fratello, poi amerai tuo marito e al di sopra di tutto amerai i tuoi figli. I genitori l’avevano viziata, l’avevano portata al Ritz per festeggiare i compleanni, le avevano lasciato ninnoli d’oro sul cuscino la vigilia di Natale, l’avevano consolata quando piangeva. A ventun anni le avevano fatto fare un costoso ritratto e l’avevano appeso in bella vista cosí gli ospiti entrando in casa dicevano: «Ma tu guarda! E quella chi è?» sperticandosi poi in complimenti.


Per il trentesimo compleanno anche il marito aveva fatto dipingere un suo ritratto che in quel preciso istante era nel salotto di casa loro, a guardare lui e Rita, a meno che lui non l’avesse girato al contrario, o che Rita non l’avesse imbrattato di vernice. Rita era una ribelle, a quanto pareva. La sua gelosia era piú dirompente dei rari sottomarini di gelosia che la signora Reinhardt aveva varato nei diciassette anni del loro matrimonio, e sempre indirizzati a donne grossomodo della sua età, donne posate, donne sposate, donne scaltre, donne che di professione facevano le girovaghe ma alle sei in punto tornavano a casa. Essere gelosa di Rita era piú un’astrazione; si erano viste una sola volta, sui gradini di un teatro. Rita lo aveva seguito fin lí, aveva salito i gradini di corsa, gli aveva dato un biglietto ed era scappata via. Essere gelosa di Rita significava essere gelosa della giovinezza, della libertà e della spontaneità. Rita non voleva il matrimonio o un anello di fidanzamento. Voleva andare a Firenze, voleva andare a un ballo, al parco con i pattini a rotelle. Rita aveva carattere. Una volta a un ricevimento di suo padre aveva buttato venti sedie d’oro dalla finestra. Se loro due avessero avuto una figlia, forse le cose sarebbero andate diversamente. E se il figlio fosse rimasto a casa, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ci sarebbero state quattro persone sedute al tavolo bianco sotto l’ombrellone rosso, a guardare il lago marrone, il colore stemperato da un folto di alberi e arboscelli. Ci sarebbero stati quattro bicchieri, uno di Coca-Cola, uno o forse due di whiskey e quello della signora Reinhardt con vino bianco e acqua brillante. Una voce giovane avrebbe detto: «Che cos’è?» indicando un cesto di vimini sformato su un basamento di legno in mezzo al lago, e lei avrebbe guardato con attenzione per capire cosa fosse, e mentre cercava di stabilire se fosse un nido di cigni o di anatre avrebbe sentito ripetere la domanda con una punta di impazienza: «Mamma, che cos’è?» e forse avrebbe risposto. Mannaggia, quel quadretto familiare l’aveva distrutta.


La signora Reinhardt era talmente assorta nel pensiero della famigliola felice riunita in albergo che attraversò gli scogli coperti di muschio e poi la sabbia bagnata fra gli scogli come una sonnambula. Era diretta alle lontane rocce scoscese. Le calotte di alghe sulla sabbia erano cosí verdi e cosí simili a una nuca da sembrare parrucche teatrali. Ne guardò una, si chinò a meditare su quel verde e, alzandosi, se lo ritrovò davanti. Un tipo sui venticinque anni con la camicia azzurra e le labbra socchiuse sembrava dirle qualcosa di simpatico, anche se forse era soltanto un saluto. Aveva l’accento americano. Se si fossero incontrati in un cocktail bar o nell’atrio di un aeroporto difficilmente si sarebbero rivolti la parola, ma lí la situazione lo imponeva. Era d’obbligo che l’una o l’altro esprimessero o confermassero l’ammirazione per il mare, le barche, le case bianche in lontananza, il biancore della luce, il panorama; e poi che lui, con la massima spontaneità, la prendesse per il polso e dicesse: – Guardi, guardi, – indicando un uccello che si tuffava in acqua, risaliva di volata e si rituffava per riemergere poi con un pesce.


– Un predatore, – disse la signora Reinhardt, sul polso ancora quella mano, come se niente fosse. Discussero dell’uccello, lei disse che era una sula e lui disse che era una specie di falco. Lei disse con dolcezza di conoscere la natura meglio di lui. Lui glielo concesse. Disse che se vieni da Main Street, nell’Iowa, non sai niente di niente, sei un burino e basta. Risero.


Tornando indietro lungo la spiaggia, lui le raccontò che stava da certi amici lí nei paraggi ma aveva deciso di andarsene perché non scopri niente se non sei da solo. Si sarebbe trattenuto un altro paio di notti e poi se ne sarebbe andato, con la Turchia come destinazione finale. Non era un giro delle capitali europee e nemmeno un viaggio gastronomico il suo, visitava semplicemente le zone selvatiche della Bretagna e aveva scovato un albergo sull’altro versante che nessuno conosceva. – Il versante selvaggio, – disse.


Quando lei accettò di andare a mangiare una crêpe si erano già scambiati quelle informazioni di base. Lui confessò di non parlare bene il francese. Lei confessò di aver fatto un corso accelerato e che pensava di passare tre mesi a Parigi per seguire un corso di cucina. Quando entrarono nel locale lei si tolse il foulard e lui fu subito rapito dalla bellezza di quella massa di capelli castani. Mentre cercavano un tavolo lei li agitò, spinta da un recondito impeto di vanità.


– Di’ un po’, – disse lui, – sei o non sei sposata?


– Sí e no… – Si era tolta la fede e l’aveva messa nella scatolina di cuoio con la chiusura a scatto.


Lui fu incuriosito dalla risposta. Lei si affrettò a spiegare che lo era stata ma che presto non lo sarebbe stata piú. Lui allungò la mano senza però toccarla e lei pensò che c’era qualcosa di delizioso in quel gesto, in quel delicato accenno di solidarietà. Lui disse sottovoce di essersi lasciato sfuggire l’occasione di sposarsi e avere figli. A lei sembrò sincero. Disse di essere stato un gatto randagio, di aver tradito, e perso, ogni brava ragazza che aveva incontrato. Non riusciva a mettere la testa a posto.


– È meglio perdermi che trovarmi, – disse, e rise, e c’era un che di cosí malizioso in lui che la signora Reinhardt ne fu conquistata.


A conoscerlo meglio le toccò ammettere che era di una bellezza impeccabile. Perciò il carattere non doveva essere terribile come lui lo dipingeva. Lei lo stimolava a raccontarle le cose, cose puerili come la sua prima vacanza in Grecia, la sua prima ragazza, la sua prima chitarra, e poco alla volta si accorse che quelle storie le interessavano anche se non avevano niente di originale. Erano piú il calore e il piacere che metteva nel raccontarle che la spingevano a chiederne altre. La signora Reinhardt era come una appena sbarcata da un viaggio che vuole sapere tutto quello che è successo sulla terraferma. Le raccontò di aver girato un cortometraggio che gli sarebbe piaciuto tantissimo farle vedere. Potendo sarebbe salito su un aereo quella sera stessa per andarlo a prendere! Parlava di motociclismo e l’aveva girato con grande anticipo rispetto a chiunque avesse girato film o scritto libri sull’argomento. Le descrisse alcune scene. In una era il crepuscolo in un posto deserto e un tizio dopo aver bucato dice: «Ma sí, chi se ne frega…» e si siede a fumare una sigaretta. Lei avvertiva come una purezza in lui, oltre a tutto quanto il resto. Era uno che amava il deserto e la prateria però, ebbene sí, si faceva mantenere dalle donne, e aveva bevuto tanto e dormito dove capitava e fumato qualunque erba esistesse al mondo, e gli dispiaceva non aver conosciuto Aldous Huxley, che Aldous Huxley non fosse suo padre.


– Sono ancora in fase di ricerca, – disse.


– È la nuova moda, – disse lei in tono un po’ sardonico.


– E dài, sposiamoci, – disse lui, e batterono le mani fingendo che fosse vero. Inscenarono uno spettacolino come se si fosse appena presentato qualcuno dicendo: «Fate finta che sia vero, ragazzi». Per scherzo accostarono le guance, per scherzo intrecciarono le dita, per scherzo si strinsero le nocche e per scherzo si alzarono in piedi, andarono nell’angolino dove si ballava e ballarono vicini come due gemelli siamesi alla musica del juke-box. Per scherzo, o forse no, la signora Reinhardt sentí attraverso le bellissime pieghe dell’abito color ostrica la pressione del sesso di lui, e girarono, girarono, girarono, i due fidanzati per scherzo che erano lontani da casa e si erano vicendevolmente attirati in quel vortice di eccitazione. Com’era elettrizzante e come ringiovaniva ballare torno torno e sentire la forza e il bisogno di quell’uomo premere sempre piú contro di lei che pure continuava a mantenere il suo riserbo. Che bellissimo sorriso estatico le si era dipinto sul viso. Sorrideva di sé stessa. Lui le fece scivolare l’altra mano sul sedere ma la signora Reinhardt l’allontanò con una scrollata. Appena finí il ballo si separarono.


Poco dopo essere tornati al tavolo lei guardò il minuscolo orologio che aveva al polso, e lui vedendola strizzare gli occhi accese subito l’accendino di plastica azzurra per permetterle di leggere quelle lancette nere minuscole come insetti. Poi le tenne l’accendino davanti al viso per ammirarla, per ammirare gli occhi, il naso lungo, la bocca sensuale, la collana.


– Sono vere, – disse, sollevando le grosse perle verdi che avevano assunto un ruolo cosí coinvolgente e profondo nella vita di lei.


– Credo di sí, – disse la signora Reinhardt, pentendosene all’istante. In fin dei conti il mondo pullulava di ladri e mascalzoni e non era uno scherzo portare al collo diecimila sterline. Aveva letto di donne come lei che avevano stretto amicizia con uomini, giovani o anziani che fossero, ed erano state derubate, ripulite, dissanguate. Le si gelò il sangue e inventò lí per lí la scusa che aspettava una telefonata in albergo. Quando si congedò lui si alzò cavallerescamente e uscí con lei scortandola giú per le scale e lungo il vialetto di ghiaia che portava al parcheggio. Non si diedero il bacio della buonanotte.


La mattina il mondo era pulito e luminoso. Aveva piovuto ed era tutto lavato, i mulini a vento, le anatre, le rose, gli alberi, i lupini e i sentierini sinuosi. I sentierini sinuosi erano ovviamente disseminati di fiori bianchi, rosa e azzurri. Perciò le parve di vedere la neve quando aprí le finestre, si affacciò e spezzò una rosa umida che non aveva ancora riacquistato tutto il suo profumo. Il profumo era soffocato da quello della pioggia, di per sé meraviglioso. Com’erano meravigliosi i suoi seni nudi poggiati sul davanzale della finestra. E la vita, il benessere fisico, il proprio corpo, le rose, l’incontro, la promessa, il ballo. Si ritrasse all’istante vedendo che sotto c’era Monsieur che piantava pigramente qualche chiodo nel muro. Sembrava impegnato a fare un graticcio per le rose ma non aveva fretta, e guardava nella sua direzione. Aveva la capacità di scovarla ovunque fosse. Quando la sera prima era rientrata tardi l’aveva trovato che l’aspettava nel parcheggio per dirle che le avevano tenuto un tavolo per la cena. In tasca aveva un menu. Non la guardava soltanto lui ma anche il cagnone nero. Il biancore della signora Reinhardt e la parvenza lattea dei suoi seni contrastavano con il nero del cane e lei li vide divisi ma raggruppati in un bellissimo quadro, opposti, uno lungo, nero e con il muso, l’altro bianco e rotondo come una lampada. Le piaceva quel quadro e le sarebbe piaciuto aggiungerlo ai quadri che aveva visto durante gli anni del suo sonnambulismo. Ora non era piú sonnambula. La vita era cosí, sognavi tantissimo o piangevi tantissimo o sentivi tantissimo prurito, e poi tutto passava per essere sostituito da qualcos’altro.


La signora Reinhardt se la prese comoda. Indossò un vestito poi un altro, sollevò un portacenere placcato in argento e scoprí che sotto c’era uno sciame di formichine, prese l’acqua frizzante dal frigorifero, la bevve, ingoiò due compresse di ferro e per associazione di idee si abbassò la palpebra inferiore per vedere se era ancora anemica. Si rese conto di una cosa meravigliosa. Per un certo numero di minuti non aveva pensato una sola volta al signor Reinhardt e questo segnava l’inizio della guarigione. Era cosí che succedeva: dimenticavi per due minuti e ricordavi per venti. Dimenticavi per tre minuti e ricordavi per quindici, ma poi ricordo e oblio poco alla volta si equilibravano come un pendolo che poi, un bel giorno, cominciava a oscillare dall’altra parte decretando la vittoria dell’oblio. Che cosa poteva volere di piú una donna. La signora Reinhardt ballò per la stanza, balzò sul letto, tirò in aria un cuscino e si sentí viva e allegra come il giorno in cui si era fidanzata sapendo che avrebbe vissuto felice e contenta. Che cosa poteva volere di piú una donna. Lei voleva quell’americano anche se forse era un mascalzone. Forse no. L’avrebbe avuto, ma a tempo debito e come diceva lei. Non gli avrebbe permesso di trasferirsi nella sua stanza in albergo perché la riservatezza era sacra. A dire il vero cominciava proprio a divertirsi. Ma tu pensa, poteva prendere il caffè a mezzogiorno anziché alle nove e mezzo, poteva mangiare un bignè, poteva tirarsi le sopracciglia, poteva cantare note alte e note basse, poteva vagare senza meta.


– Libertà! – disse la signora Reinhardt alla donna bella e flessuosa con la vestaglia a fiori che sorrideva nel lungo specchio mentre l’altra signora Reinhardt diceva alla bella donna che l’acquavite di prugne bevuta la sera prima le frusciava ancora nel cervello.


Dopo colazione fece una passeggiata nel bosco. Su un ponticello si tolse i sandali e camminò in punta di piedi per non disturbare i rumori e l’operato della natura. Non era mai entrata in un bosco cosí buio. Tutti gli alberi si avviluppavano in cielo disegnando una volta verde a tanti strati. Le felci crescevano con prodigiosa abbondanza e tra una felce e l’altra erano tante le cose che lottavano per mettersi in mostra circondate da farfalle e da insetti. I funghi commestibili e velenosi prosperavano alla base di ogni albero e lei si inginocchiò ad annusarli. Adorava quell’odore umido. I cinguettii di ogni nota e varietà trafiggevano l’aria mentre gli uccelli sfrecciavano al suolo o risalivano di volata. La fecondità della natura, quel coro di uccelli e il lontano tubare dei colombi nella colombaia la misero in fibrillazione, seguiti da un’altra cosa che accelerò il suo desiderio. Le giunse all’orecchio il fischio sommesso, allusivo e smanioso di un maschio. Lo aveva quasi calpestato. Le vedeva le gambe nude sotto il vestito. Lei si ritrasse. Lui era steso a terra con la camicia aperta. Non si alzò per salutarla.


– Tu, – gli disse.


Lui sollevò il piede in segno di saluto. Lei rimase impalata cercando di decidere se quella presenza fosse la benvenuta o un’intrusione.


– Incredibile, – disse lui, e tese le mani assecondando l’abbondanza della natura che lo circondava. Si scusò della sua presenza e disse di essere passato da lei in bicicletta per salutarla e lasciarle i croissant appena sfornati, ma quando gli avevano detto che dormiva ancora aveva deciso di fare un giro nel bosco. I croissant li aveva dati agli uccelli. Usò qualche parola francese per fare colpo su di lei, che dissipò con una risata il proprio disappunto. In fondo il bosco non era mica suo, lui non aveva bussato alla sua porta e se fosse andato via senza averla vista ci sarebbe rimasta male. Allargò la gonna come un cuscino sotto di sé e si sedette ripiegando le gambe dall’altra parte. Fu allora che parlarono. Parlarono per tanto tempo. Parlarono del coraggio, del coraggio degli uomini che è diverso da quello delle donne. Del coraggio che dimostri quando un cavallo s’imbizzarrisce o l’auto che hai davanti si schianta, del coraggio logorante di tutti i giorni. Lei disse che gli uomini non sono mai capaci di mettere un punto. – Cazzarola, se hai ragione, – disse lui e quell’uscita gergale le sembrò comica in confronto alla pace e alla maestà del bosco.


– Hai un buon odore, – le diceva ogni tanto e anche questo apparteneva a un altro ambiente, ma lui la colpiva soprattutto per la sincerità e perché si prendeva il tempo per dire le cose che voleva dire. Entro la fine della settimana lo avrebbe portato nel proprio letto. Sarebbe stato semplice e inaspettato, un invito buttato lí all’ultimo momento come quando prendi un fiore o un fazzoletto e lo lanci nell’arena della corrida. Lei avrebbe abbandonato ogni pudore, come non faceva da anni. Rimasero quasi un’ora a parlare e ogni tanto uno dei due si alzava, camminava o correva verso il ponticello e fingeva di scattare una foto. Alla fine si alzarono insieme e andarono a recuperare la bicicletta. Lui volle fargliela provare a tutti i costi. Lei dopo qualche incertezza sfrecciò lungo il sentiero e lo sentí applaudire. Poi smontò, girò la bici e tornò indietro. Lui le disse che la prossima volta doveva fare la curva restando in sella e lei gli diede una pacca dicendo che non andava in bicicletta da anni. Aveva il viso arrossato e si era sporcata la gonna col grasso della bicicletta. Lui la fece salire per scherzo sulla canna, montò in sella e infilarono il viale a velocità spaventosa cantando: – Daisy, Daisy, give me your answer do, I’m half crazy all for the love of you…


Lui non si fermò nemmeno sentendola giurare che da un momento all’altro sarebbe caduta.


– Vai benissimo… – le diceva infilando la curva successiva. Dopo poco lei smise di urlare e si godette il rimescolio che sentiva nello stomaco.


La signora Reinhardt era nell’angusta doccia con il disco verde di sapone ficcato sotto un’ascella quando vide un ramo di rosa dondolare dentro la stanza. Come in un miraggio i petali cadevano dove capitava. Chi era dei due? Lui o Monsieur? Aveva i sensi tutti accesi. Lui entrò dalla finestra e andò dritto da lei. Non disse una parola. L’afferrò in modo brutale, senza togliersi i vestiti, ed era cosí intento a possederla da non accorgersi che si stava inzuppando. La doccia scrosciava ma nessuno dei due si prese la briga di chiudere il rubinetto. La lampo dei pantaloni le faceva male ma a lui non importava. Il fatto era che l’aveva desiderata fin dal primo istante e adesso le stava riversando dentro tutta la sua arroganza di galletto e lei l’accoglieva volentieri, anzi, con voracità. Stava riconquistando il suo orgoglio di donna, e di donna desiderabile, per di piú. Era questo che le era mancato da morire negli ultimi dieci mesi. Eppure la sorprendeva quel suo bisogno smodato di pareggiare i conti con la vita, o forse di guarire. Si appoggiò alla parete della doccia, tutta bagnata e scivolosa, e prese a dondolare per sentirlo in ogni parte. Non si preoccupava di lui, che pure sembrava smanioso di dimostrarsi all’altezza e di soddisfarla e che andava ripetendo le peggiori sconcezze chiamandola troia, puttana, zoccola e compagnia bella. Fu tale l’intensità che pensò perfino di concepire e l’unico altro pensiero che le sfiorò la mente fu quello degli astici con la dama che non batteva ciglio mentre tutti la corteggiavano.


Quando lui venne lei rifiutò di dichiararsi soddisfatta e con poche carezze brusche volle che lui la riempisse di nuovo e sondasse ogni suo anfratto. Il tutto senza una parola, a parte gli appellativi che le bofonchiò quando gli spremette succhi di cui aveva ormai esaurito le riserve. Ora sí che si stava riscattando.


Dopo essersi lavata lo lasciò steso senza fiato sul pavimento del bagno e andò in camera a riposarsi. Si sentiva una regina e quando si sdraiò sul letto l’intero corpo era una nave armata di bellezza. Che vittoria! Aveva chiuso la porta della camera da letto a chiave. Lui poteva aspettare, poteva sudare. Lo avrebbe raggiunto a cena. Glielo aveva detto in francese sapendo di confonderlo il doppio. Si predispose a dormire imponendosi sogni piacevoli, sogni colorati, i colori del sole e dei lampi, del sole giallo e dei lampi zaffiro.


Lui si presentò all’appuntamento per la cena. La signora Reinhardt lo vide dal ballatoio, in fondo al saloncino dove c’erano i tavoli con le tovaglie di pizzo e i vasi di fiori di campo che aveva visto il primo giorno. Beveva un Pernod. Era in un angolino quasi buio, illuminato soltanto dalle candele sui tavoli. Era una sala piuttosto tetra. I disegni sulle pareti ritraevano tutti monaci o asceti e a una croce di legno era inchiodato un uccello, sembrava un fagiano morto. Lui era vestito di verde, con una giacca da sera di seta verde… non l’aveva già vista da qualche parte? Sí, era esposta nella piccola vetrina dell’albergo dove vendevano anche gioielli e abbigliamento da mare.


Le bastò avvicinarsi al tavolo per percepire il cambiamento in lui. Il ragazzo indolente e bonario aveva ceduto il posto al seduttore un po’ suscettibile che non mosse una sedia né un muscolo quando lei si sedette. Urlò a Michele, la ragazza con i capelli ricci, di portare un altro Pernod, anzi, di portarne due. La signora Reinhardt pensò che era soltanto un trucco per dimostrarle che era un uomo di mondo. Gli disse che aveva dormito bene.


– Dov’è il malloppo? – le chiese, guardandole il collo. L’aveva lasciato in camera e al suo posto aveva messo le perle. Lei per tutta risposta alzò il libro tascabile per dimostrargli che aveva letto.


– Leggi quella roba? – disse lui. Era D. H. Lawrence. – Io ho smesso quando avevo dodici anni, – disse. Era ubriaco. Brutto segno. Lei si chiese se liquidarlo su due piedi, sapendo per esperienza che quando le cose si mettevano molto male diventava una stupida, diventava un’incapace. Lui fece l’occhiolino alla cameriera e la prese per la mano sinistra dove aveva un braccialetto. Quella si allontanò con la languidezza di sempre.


– Sei una bambola, – le disse.


– Non parla inglese, – disse la signora Reinhardt.


– Il mio inglese lo parla, – disse lui.


La cena si aprí dunque tra rabbia, fastidio e agitazione. Lui esaminò i quattro menu scegliendo i piatti piú costosi e si disse proprio contento che lei fosse una battona riccona.


– Battona riccona, – disse, e rise.


Lei lasciò correre. Lui le chiese perché non lo portava a Pamplona a vedere le corride e poi si fece prendere dall’entusiasmo parlando di corride e toreri del passato.


– Ah, allora hai letto Ernest Hemingway, – disse lei, incapace di resistere alla tentazione di punzecchiarlo.


– Ah, la signora è un po’ banderuola, – disse lui tenendo la lista dei vini rivestita di velluto davanti a sé. La vasca degli astici era mezza vuota. Ne erano rimasti soltanto tre, tutti assolutamente immobili. Forse, scioccati dalle incursioni, stavano a testa bassa muovendosi il meno possibile per non dare nell’occhio. Lei per poco non si mise a piangere. Lui ordinò una bottiglia di vino d’annata e la ragazza dovette chiamare Monsieur, il quale prese la chiave, andò in cantina, portò cerimoniosamente il vino al tavolo, mostrò l’etichetta, lo aprí, lo fece decantare e aspettò. La cameriera si era cambiata per andare alla gara di ciclismo. Al posto del grembiule nero aveva un vestito blu con le pieghe colorate. Era incantevole. Pronta per il profluvio di baci e di complimenti.


– Che ne diresti se ti scopassi? – disse lui alla ragazza che provvedeva a versare il vino.


– Questo è troppo, – disse la signora Reinhardt e lui, forse temendo una scenata, le si avvicinò e disse: – Non preoccuparti, a te ci penso io.


Lei chiese scusa, piú alla cameriera che a lui, e corse fuori. Non era mai stata cosí arrabbiata in vita sua. Si sedette sull’amaca in giardino e chiese alle stelle, alle belle lampade esagonali e alle anatre addormentate di aiutarla per favore a uscire da quell’incubo. Pensò al conto dell’albergo e capí che si sarebbe aggiunta anche la giacca, e pianse come una bambina arrabbiatissima che non può raccontare a nessuno cos’è successo. Che disonore! Dondolò sull’amaca tra una maledizione e un’imprecazione, poi pregò di non perdere la calma. L’importante era non doverlo mai piú rivedere. Tremava ed era sotto shock quando tornò in camera. Voleva mettersi un cardigan e ordinare un panino o una minestra. E se lo ritrovò davanti con addosso la sua vestaglia da camera. Le disse di aver mollato la cena perché lei era stata cosí maleducata da andarsene. Anche lui stava per ordinare un panino. Entrando gli aveva sentito chiudere lo sportello del frigorifero. Ovviamente aveva bevuto di tutto e si vedeva che era fuori di sé.


Non si sarebbe lasciato sfuggire quel lusso, quel lassismo. Si alzò barcollando.


– Primo round, – disse, e la afferrò.


– Vattene, – disse lei.


– Chi, io? Guarda che sono qui per il liquore.


La signora Reinhardt si convinse che stava per essere spettatrice, e artefice, di un sordido pasticcio. L’alacrità si impossessò di lei, che pensò: prendilo con le buone, dimostrati matura, ridi, distrailo. Ma vedendo la follia nei suoi occhi, ricorse d’istinto a misure piú drastiche e le scappò un urlo che lei stessa trovò sbalorditivo. Nel giro di qualche secondo, ecco Monsieur impegnato in un corpo a corpo con lui. La signora Reinhardt capí che doveva averla tenuta d’occhio fin dall’inizio e che, diversamente da lei, era preparato a quell’evenienza. Monsieur gli stava dicendo in francese di vestirsi e sparire. Sembrava quasi una messinscena.


– Okay, okay, – diceva lui. – Fatemi vestire, fatemi uscire da questo letamaio.


Lei era contenta della barriera linguistica. Poi le cose si misero male e, non appena Monsieur mollò la presa per lasciarlo andare, lui ricorse a un bieco trucchetto. Prese una bottiglia di champagne vuota e la brandí sulla testa dell’avversario. Un attimo dopo erano avvinghiati e la signora Reinhardt si lambiccò il cervello per capire cosa fosse meglio fare. Sollevò una sedia, ma era come se si muovesse al rallentatore perché mentre i due cercavano di mettersi al tappeto lei teneva la sedia per aria senza fare niente. Era la bottiglia rotta a spaventarla di piú. Allora suonò il campanello dell’allarme e quando caddero tutti e due a terra arrivò l’aiuto cuoco con un coltello. Doveva essersi precipitato dalla cucina. Tra tutti e due riuscirono a gestire la situazione e lui, alzandosi, scosse la testa come un pugile conciato male.


Monsieur le disse di aspettarlo alla reception. Quando lei uscí dalla stanza le diede la sua giacca. La signora Reinhardt risalí il vialetto con il corpo che tremava come gelatina. La giacca continuava a scivolarle. Era consapevole di essere appena sfuggita a un orrore indescrivibile. Di quelli che si leggono sui giornali. Capí quanto fosse protetta la vita che aveva fatto, ma questo non le fu d’aiuto. Quello che desiderava davvero era sedersi con qualcuno e parlare di qualsiasi cosa. Il salone dell’albergo era un perfetto esempio di decoro. Un’altra ragazza, anche lei con una rosa nei capelli, preparava con tutta calma un vassoio di bevande. Un gruppo di olandesi sedeva in un angolo, il cane azzannava le mosche e dalla sala accanto arrivava la musica di una festa nuziale. La signora Reinhardt sprofondò in una poltrona di cuoio lasciandosi lambire da tutte quelle cose gradevoli. Sentí discorsi e battimani e poi le note dolci e bellissime della fisarmonica e, anche se non sapeva spiegarsi il perché, quei suoni la facevano sentire enormemente al sicuro, la facevano sentire come se fosse lei a sposarsi e capí che erano i piacevoli postumi dello shock.


La mattina dopo erano tutti in fermento per la nascita di sette anatroccoli. Le bestiole erano state scaricate nell’impetuosa acqua marrone al cospetto di un pubblico estasiato. Le altre anatre stavano raggomitolate sulle pietre, forse col broncio perché erano ignorate a vantaggio di una madre fiera delle sue stupide bestiole implumi. Anche le colombe sventolavano la coda scocciatissime mentre tutti guardavano l’acqua anziché loro. Lei si sedette a sorseggiare un caffè. Monsieur si sedette a breve distanza distribuendo la sua ammirazione fra lei e gli anatroccoli. Si sbriciolò il pane fra le mani, aprí la porta scorrevole e lo lanciò fuori. Poi la guardò e sorrise. Parlare era al di sopra delle sue possibilità. Si era innamorato di lei, o era infatuato, o si fingeva infatuato. Delle tre l’una. Forse stava solo salvando l’orgoglio della signora Reinhardt. Eppure lo sguardo era sinceramente dolce, perfino adorante. La deglutizione ne risentiva, le guance erano rosse come tulipani rossi e faceva gesti come caricare l’orologio o aggiustarsi l’orlo dei calzini a beneficio esclusivo della signora Reinhardt. Una volta le mise la mano sulla spalla per avvisarla di qualche nuova minuzia nel comportamento delle anatre, premendo tanto da farle male.


«Se lo scoprisse Madame!» pensò lei, e tutto il suo essere tremò alla prospettiva di altre brutture. Del mascalzone non chiese, però dopo chiese di dare un’occhiata al conto e in effetti c’era il veston, il veston maschile da milleseicento franchi. Dopo colazione si sedette sul prato a osservare il comportamento delle altre anatre. «Passano il tempo in modo piacevolissimo, – pensò, – sonnecchiano molto, poi si grattano o si puliscono, poi risonnecchiano, poi fanno una passeggiatina e magari si stiracchiano», ma dubitava che un’anatra facesse piú di duecento metri in tutta la sua vita. Poi scrisse al figlio sulla bella carta intestata dell’albergo. Scrisse una lettera volutamente allegra, una lettera sulle anatre, gli alberi e la natura. Due bicchieri con dentro una mezza fetta succhiata di arancia erano riposti in una nicchia del muro e glieli descrisse pensando che di lí a poco si sarebbe concessa di ordinare un cocktail allo champagne. Non scrisse: «Io e tuo padre ci siamo separati». Glielo avrebbe detto dopo, quando il dolore si fosse placato e non avrebbe piú avuto importanza. Quando sarebbe successo? La signora Reinhardt guardò il cuscino su cui era seduta e vide che era cento per cento fibranne, e per quanto la riguardava quella era l’unica cosa al mondo di cui fosse assolutamente certa.


Tornò in camera prima di pranzo e decise di indossare un abito di georgette e le perle. Lo doveva a Monsieur. Doveva essere bella anche se non riusciva a sorridere. Doveva fingere, e forse cosí sarebbe diventata la persona che simulava. Tutti i pensieri che le bruciavano e tutte le recenti ferite potevano assopirsi dentro di lei permettendole di assumere un’aria calma e imperturbabile come un lago estivo con le foglie di ninfee e i fiori stellati. La carpa sotto la superficie non attira il pescatore. La tenerezza di Monsieur significava molto per lei, significava che era ancora una persona degna di attenzioni e perfino di amore.


Poveri astici, pensò, e le tornarono in mente quelle mosse imploranti. Quando aprí la scatola a forma di cuore dove nascondeva le perle, la signora Reinhardt lanciò un urlo. Sparite. Sparite. Il suo talismano, la sua assicurazione sulla vita, l’ultimo filo che la legava al marito Harold, spariti. La loro unica possibilità di ricongiungersi. Sparita. Risalí di corsa la strada che portava alla reception. Era fuori di sé. Madame si seccò molto sentendo che era stata cosí superficiale da lasciare in giro una cosa di grande valore. Di furto, poi, non voleva nemmeno sentir parlare. Era una volgarità riservata a tutt’altro genere di esercizi, non certo al suo bellissimo tre stelle. Gestiva una struttura perfetta, lei, una struttura che era il suo vanto oltre che un rifugio dal mondo esterno. Come osava il mondo esterno intrufolarsi nel suo territorio? La faccia di Monsieur si dissolse in un rossore dalle sfumature sempre piú intense e in un’espressione dispiaciutissima. Non aprí bocca. Madame disse che era stato chiaramente l’ospite, il signore americano, e va’ a sapere cos’altro aveva preso. Per quanto riguardava Madame, la feccia della terra era entrata nel suo nido e fece un gesto piccolo ma eloquente quando prese un vaso di fiori, lo mise in un altro posto e nell’appoggiarlo fece cadere l’acqua sul conto che stava preparando. Questo accentuò il suo fastidio. Si creò un momento molto antipatico e il povero Monsieur, nell’impossibilità di rendersi utile all’una o all’altra, tirò le orecchie al cane. La signora Reinhardt doveva telefonare al marito. Assolutamente. Davanti a tutti, mentre Madame scarabocchiava numeri sulla pagina e Monsieur tirava le orecchie al cane, la signora Reinhardt disse al marito Harold in Inghilterra che le avevano rubato la collana, che gli avevano rubato la collana, che avevano rubato la loro collana, e si mise a piangere. Lui non fu di nessun aiuto. Chiese se c’era speranza di recuperarla e lei disse che ne dubitava.


– È stata una toccata e fuga, – disse, augurandosi che lui capisse al volo. E forse capí, perché subito dopo disse che a quanto pareva le stavano succedendo tante cose. Lei disse di essere in uno stato pietoso e pregò Dio che le chiedesse di tornare a casa. Lui non glielo chiese. Disse che avrebbe contattato quelli dell’assicurazione.


– Vaffanculo all’assicurazione, – disse la signora Reinhardt e sbatté giú il telefono. Monsieur si girò dall’altra parte. Lei se ne andò. Non aveva un solo amico al mondo.


La signora Reinhardt visse uno di quei momenti capaci di sconvolgerti per sempre. Il mondo diventò nero. Il nero le invase il cuore. Sembrava che i topi le raschiassero il cervello. Era una crudeltà. Le espressioni: «Come stai?», oppure: «Ti amo», oppure: «Mia cara», erano una beffa bella e buona. Le poche facce estranee che la circondavano si mascherarono da animali. Il mondo nel quale si reggeva ancora in piedi e dove sarebbe caduta era verde e bello, ma da un momento all’altro l’avrebbe sostituito un pozzo senza fondo nel quale la signora Reinhardt sarebbe precipitata per l’eternità. Svenne.


Dovevano averla soccorsa perché quando rinvenne non aveva piú le décolleté, i bottoni della camicetta erano slacciati e c’era una tazza di tisana calda sullo sgabello accanto a lei. Una presenza era appena svanita. O un fantasma. Era appena scivolato via. Le parve che fosse una donna e forse era sua madre che le imponeva le ceneri e pensò che fosse il Mercoledí delle Ceneri. – Perché ormai dispero di vivere ancora, – disse, ma per fortuna nessuno parve capire. Si sollevò a sedere, mandò giú un sorso di tisana bollente, si scusò per la collana e per la piazzata che aveva fatto. Non sapeva fin dove si fosse spinta. Le venne in mente re Lear che sfiora la veste di Cordelia e chiese a Dio se i morti potevano davvero rivivere, se, se anche lei poteva assistere al miracolo a cui avevano assistito i tre apostoli quando all’arrivo avevano visto la pietra rotolare via dal sepolcro di Cristo. – Ritorna, – sussurrò e fu come se si prendesse per mano da sola riportandosi in vita. A guidarla era la sé stessa con la testa sulle spalle e a essere guidata era una bambina che voleva bene a Dio, voleva bene ai genitori, voleva bene agli alberi e alla campagna e desiderava che non cambiasse mai niente. Quelle due parti vacillavano nel mezzo. Furono momenti estremi per la signora Reinhardt, e se avesse ceduto avrebbe preso una gran brutta strada. Chiese un po’ d’acqua. Il bicchiere che aveva in mano si rammollí nella stretta e la bambina spaventata che c’era in lei ebbe come il ricordo di carne che cadeva, ma la donna che c’era in lei sorrise assicurando a tutti quanti che la crisi era passata, che poi era vero. Si stese un po’ ad ascoltare l’acqua che si infrangeva di continuo contro la macina nero corvino e decise che nel pomeriggio sarebbe partita, dicendo addio a quella parentesi fatta di incanto, vendetta, vergogna e della tenerezza di Monsieur.


Andandosene in macchina lo vide spuntare da dietro la casa sull’albero con un mazzetto di viole del pensiero fresche. Erano multicolore ma i due colori predominanti erano il giallo e il bordò. Odoravano di pelle giovane e avevano la stessa delicatezza. La signora Reinhardt lo ringraziò assaporando quell’istante. Era come un lenimento. Gli sorrise, si guardarono dritto negli occhi, anche per lui era un momento di felicità vera, fuggevole ma vera, un momento di benessere.


Il nuovo albergo affacciava su una darsena e per la seconda volta in quattro giorni lei si ritrovò a camminare sui massi incrostati di muschio. Ai piedi altri ciuffi di alghe variopinte che sembravano parrucche teatrali, ma stavolta vedeva chi aveva davanti e chi aveva alle spalle. Era padrona della situazione. A farla arrabbiare era che le donne facevano sempre quello che aveva fatto lei senza per questo rimetterci l’orgoglio, o i gioielli. O forse non lo raccontavano in giro. Bisognava essere cosí furbi, cosí ipocriti.


Guardando le barche lungo la baia, gli alberi maestri e le rare doppie vele, capí che adesso la sua nuova vita era cominciata davvero, una vita di adattamenti e di cambiamenti. La vita con un punto interrogativo. Qual è il tuo ideale di vita?, si chiese. Nessuno, fu la risposta. Era sempre stato suo marito, il loro rapporto, la sua galleria d’arte, il loro cottage in campagna e i loro progetti. Una cosa soprattutto le venne in mente e cioè le migliaia di petali di fiori che aveva messo sotto il tappeto dell’ingresso per stirarli. Quei fiori stirati erano i momenti della loro vita e che fine avrebbero fatto?... sarebbero rimasti lí per anni oppure qualcuno li avrebbe spazzati via. Le sembrava di vederli, migliaia di simpatici petali colorati, ricordo dei momenti che avevano condiviso. Prima della passeggiata aveva letto Ruskin, aveva letto del legame necessario fra la bellezza e la moralità, ma l’aveva lasciata indifferente. Voleva qualcuno da amare, lei. Per quanto la riguardava le teorie di Ruskin erano bei sermoni, ma non era questo che voleva il suo cuore. Doveva tornare subito a casa, e trovarsi un lavoro. Ci doveva provare. La signora Reinhardt si mise a correre, corse a perdifiato, si fermò a guardare la darsena, ricominciò a correre e con uno sforzo di volontà riuscí a sradicarsi dallo spirito malinconico in cui era sprofondata.


A cena il cameriere, dopo ognuna delle meravigliose portate, andava a chiederle come l’aveva trovata. Una era una terrina di pesce dai colori estivi, bianco, rosa e verde, i colori dei fiori. Quanto le sarebbe piaciuto imparare a prepararla. Poi fu la volta di un granchio in crosta e perfino le chele staccate erano state spolverate di farina e passate un attimo in forno per creare l’effetto di un pane caldo e profumato. Era tutto perfetto e tutto luminoso. La piantina nel vaso era di un luminoso rosso ciliegia, i pettirossi sfrecciavano tra gli alberi bui, e sui piatti ornamentali dentro una vetrina erano dipinti fiori e graticci.


– Un signore desidera vederla, – disse il giovane cameriere. La signora Reinhardt si raggelò: era tornato il mascalzone. Pronta a dare battaglia, posò il tovagliolo stritolato e uscí con passo deciso. Svoltando l’angolo per entrare nel salone principale vide su una poltrona con lo schienale alto in stile spagnolo suo marito, il signor Reinhardt. Lui scattò subito in piedi e si strinsero la mano in modo formale, come un avvocato e il suo cliente a un incontro che promette bene. È venuto a denunciarmi per la collana, pensò lei. Non disse: «Che ci fai qui?» Sembrava stanco. La signora Reinhardt sobbalzò sentendo che aveva preso un aereo privato. Era andato prima all’altro albergo e da lí si era spostato in macchina. Rifiutò di bere ed evitò di guardarla. Meditava l’attacco. Lei era convinta che le avrebbe sparato quando lo vide portare la mano alla tasca e sfilare una cosa. Non le importava di morire ma per assurdo pensò a come si sarebbero ridotti quei bellissimi mobili spagnoli.


– L’hanno trovata, – disse lui tirando fuori la collana e mettendola sul tavolo in mezzo a loro. Sembrava un serpente in un quadro, una spirale pronta a spiccare il balzo. Eppure a vederla le si riempirono gli occhi di lacrime e raccontò piagnucolando del mascalzone, di come l’aveva conosciuto e si era fatta usare da lui e all’improvviso si accorse che il marito cascava dalle nuvole.


– L’ha rubata la cameriera, – le disse, e a lei parve di rivedere la camerierina con i riccioli castani agghindata per la gara ciclistica e si sarebbe strappata la lingua per aver parlato troppo presto del mascalzone.


– L’hanno licenziata? – chiese.


Non lo sapeva. Secondo lui, no.


– Quello sí che è un bel posto, – disse il signor Reinhardt, riferendosi al lago e ai mulini a vento.


– Anche questo non è male, – disse lei e parlò del panorama che si vedeva dalla sala da pranzo, e della luce, cosí suggestiva, cosí bianca, cosí inevitabile. Come la loro situazione. Era pronta a vederlo alzarsi e andare via. Se solo non gli avesse raccontato del mascalzone. Se solo gli avesse lasciato dire perché era lí. Gli aveva chiuso l’ultima porta in faccia.


– Come sei stata? – chiese lui.


– Bene, – disse lei, ma il nervo della mascella non voleva saperne di stare fermo e senza preavviso e senza volerlo la signora Reinhardt scoppiò a piangere, lasciando sbalordito il giovane cameriere che aspettava, convinto che avrebbero ordinato da bere.


– Lui ha cercato di ricattarmi, – disse, rimangiandoselo subito dopo.


Il marito la guardava in silenzio e lei non capí se gli fosse rimasta qualche briciola di comprensione. Pensò: «Se va via adesso sarà una catastrofe» e pensò di nuovo ai pochi astici immobilizzati dal dolore rimasti nella vasca.


– Ci siamo noi e ci sono quelli come lui, – disse il signor Reinhardt che, anche se lei non gli aveva raccontato tutta la storia, ne aveva intuito la gravità. Disse che se non le dispiaceva si sarebbe trattenuto, e siccome aveva fame e siccome era tardi, perché non andavano a cena? Lei lo guardò e probabilmente aveva gli occhi madidi.


– Noi e quelli come lui! – disse.


Il signor Reinhardt annuí.


– E Rita? – disse la signora Reinhardt.


Lui aspettò. Si guardò intorno. Non era per niente a suo agio.


– Lei è una di noi, – disse, poi si spiegò meglio. – O potrebbe esserlo, se incontrerà l’uomo giusto.


La sua espressione ammoní la signora Reinhardt a non indagare oltre. Mentre si avviavano verso il tavolo della cena lei lo prese sottobraccio.


Il vento che frusciava nel camino seminò una spruzzata di fuliggine su un mazzo di fiori. Lei se ne accorse. Dal rumore. Gli strinse il braccio. Si sedettero l’uno di fronte all’altra. Quando il vento ruggisce, quando i ganci delle persiane sbatacchiano, quando anche i vetri delle finestre sembrano rabbrividire, allora vento e mare si mischiano, allora i cani cominciano a ululare e la tempesta in arrivo ha un sentore di soprannaturale. Che cosa fai, che cosa fa una delle tante signore Reinhardt? Allunghi la mano verso il viso che hai di fronte, che ami, che odi, che temi, che ti ha tradito, che conosci a metà, che desideri toccare e avere di nuovo con te, almeno per la durata di una notte di vento. E la mattina, chissà. Tanto non si sa comunque.

La bocca della caverna


Erano due le strade che portavano in paese. Scelsi quella impervia, per stare vicino alla montagna anziché al mare. Era un tratto di strada polveroso e mal delineato cosparso di pietre. Le pietre cadute dalla rupe prendono una tonalità di rosso minacciosa quando si spaccano. In superficie la rupe sembra grigia. La parete grigia e rossa è costellata qua e là di macchie d’alberi. Riarse d’estate, tormentate dai venti d’inverno, sopravvivono lo stesso, senza espandersi né rimpicciolire.


In una di quelle macchie di vegetazione, appena sotto la rupe, vidi alzarsi una ragazza. Cominciò ad allacciarsi lentamente il reggicalze. Era un po’ in bilico perché tirandosi su le mutandine perse varie volte l’equilibrio. Si infilò la gonna da sopra la testa e per ultimo indossò il cardigan, che sembrava avere molti bottoni. Quando mi avvicinai se ne andò. Una ragazza con il cardigan bordò e la gonna nera. Doveva avere una ventina d’anni. Tutt’a un tratto, senza preavviso, svoltai verso casa per dare l’impressione che facessi una semplice passeggiata. Subito dopo mi resi conto che era ridicolo e mi girai di nuovo, dirigendomi verso il luogo del suo segreto. Tremavo, ma certi viaggi vanno portati a termine.


Che shock scoprire che non nascondeva niente, né uomo né animale. I cespugli non si erano risollevati dal peso del suo corpo. Ne dedussi che doveva essere rimasta stesa un bel po’. Poi vidi che anche lei stava tornando. Aveva dimenticato qualcosa? Voleva chiedermi un favore? Perché andava di fretta? Il viso non lo vedevo, teneva la testa bassa. Mi girai, stavolta correndo verso la strada privata della mia casa in affitto. Pensai: «Perché corro, perché tremo, perché ho paura? Perché lei è femmina e io anche. Perché, perché?» Non lo sapevo.


Arrivata in cortile chiesi alla domestica, che si stava sventolando, di slegare il cane. Poi mi sedetti fuori ad aspettare. L’albero in fiore era particolarmente spettacolare, i petali rosa intenso, il profumo di una dolcezza soffocante. L’unico albero fiorito. La domestica mi aveva messo in guardia da quei fiori; si era perfino scomodata a prendere il dizionario per inculcarmi bene la parola: venodno, veleno, petali velenosi. Per stare piú vicina a quell’albero le feci spostare lo stesso il tavolo e lo stabilizzammo mettendo dei pacchetti di sigarette piegati sotto due gambe. Dissi alla domestica di apparecchiare per due. Decisi che cosa avremmo mangiato, anche se di solito lo evito, per dare alle giornate un elemento di sorpresa. Chiesi di mettere in tavola tutti e due i vini e anche quei lunghi biscotti ricoperti di zucchero che si inzuppano nel vino bianco e si succhiano fino a prosciugarne tutto il dolce e poi si inzuppano e si succhiano di nuovo, all’infinito.


A lei la casa sarebbe piaciuta. Era semplice, nonostante l’imponenza. Una casa bianca con le persiane verdi e una lunetta di pietra sopra ciascuno dei tre ingressi al pianterreno. Una meridiana, un pozzo, una piccola cappella. Pareti e soffitti erano di un azzurro latteo e questo, insieme al mare e al cielo, creava uno strano effetto allucinatorio, come se mare e cielo si fossero trasferiti all’interno. C’erano carte geografiche al posto dei quadri. Intorno alle lampadine, conchiglie rosa che con gli anni si erano un po’ sbeccate ma questo contribuiva solo a rendere l’ambiente informale.


La cena sarebbe andata molto per le lunghe. Dall’albero sarebbero caduti i petali; alcuni si sarebbero posati sul tavolo di pietra, a mo’ di decorazione. I fichi, raffreddati a meraviglia, sarebbero stati serviti su un grande piatto da portata. Li avremmo saggiati con le dita. Avremmo capito quali, affondando i denti, ci avrebbero appagato. Lei, che era del posto, forse sarebbe stata piú esperta di me. Era probabile che una delle due li avrebbe addentati con troppa avidità e si sarebbe ritrovata sul mento uno zampillo di semini madido, appiccicoso, grondante e bellissimo. Io mi sarei pulita il mento con la mano. Avrei fatto di tutto per metterla a suo agio. Mi sarei ubriacata, se necessario. All’inizio avrei parlato ma poi mi sarei mostrata esitante per lasciarle spazio.


Indossai una tunica arancione e una lunga collana fatta con una varietà di conchiglie. Il cane era ancora sciolto per darmi l’avviso. Appena si fosse messo ad abbaiare l’avrei fatto portare dentro e legare sul retro della casa, cosí non ci sarebbero arrivati neanche i guaiti.


Mi accomodai in terrazza. Il sole stava calando. Mi spostai su un’altra sedia per gustarmelo meglio. I grilli avevano avviato il loro incessante strepitio semi-meccanico e le lucertole cominciavano a spuntare da dietro le carte geografiche. Qualcosa nei loro movimenti abili e furtivi mi faceva pensare a lei, ma del resto tutto mi faceva pensare a lei. C’era un tale silenzio che i secondi sembravano registrare il loro trascorrere. C’erano soltanto i grilli e, in lontananza, lo scampanellio delle pecore, piú onirico di un belato. Sempre in lontananza, il faro con le sue segnalazioni affidabili. Un paio di calzoncini appesi a un gancio svolazzarono al primo alito di vento, che accolsi a braccia aperte, sapendo che annunciava la sera. Lei aspettava il buio, il buio avvolgente, un complice caro ai peccatori.


La domestica aspettava nell’ombra. Non la vedevo ma ero consapevole della sua presenza come di un suggeritore dietro le quinte. Mi urtava i nervi. La sentivo prendere o posare un piatto e sapevo che lo faceva soltanto per attirare la mia attenzione. Dovevo anche combattere con l’odore della zuppa di lenticchie. Quell’odore, per quanto gratificante, sembrava un’esca per accelerare i tempi, il che era impensabile. Perché, secondo le mie congetture, mettendomi a mangiare avrei azzerato le probabilità che lei venisse. Dovevo aspettare.


L’ora successiva assecondò uno schema irritante, prevedibile e atroce: camminai, presi posto su varie sedie, accesi sigarette per buttarle subito via, mi versai ripetutamente da bere. A momenti dimenticavo il motivo di tanta agitazione, ma poi ripensavo a lei vestita di scuro e con gli occhi bassi e il piacere di riceverla mi elettrizzava di nuovo. I vari agglomerati di luce presero vita su tutta la baia, configurando cittadine e paesi invisibili alla luce del giorno. La perfezione delle stelle era detestabile.


Alla fine ecco arrivare la pappa del cane, che mangiò come sempre ai miei piedi. Quando il piatto vuoto scivolò sull’acciottolato liscio, per colpa della mia malagrazia, e la luna piena, cosí vicina, cosí rossa, cosí stranamente ospitale, spuntò sopra i pini, decisi di cominciare, e sfilai il tovagliolo dall’anello aprendomelo con fare lento e cerimonioso in grembo. Confesso che in quei pochi secondi la mia fiducia era smodata e la mia speranza piú forte che mai.


La cena era rovinata. Bevvi tantissimo.


Il giorno dopo m’incamminai verso il paese, ma presi la strada del mare. Da allora non sono mai piú passata dalla rupe. L’ho desiderato spesso, specie dopo il lavoro, quando so quale sarà il mio itinerario: raccoglierò le lettere, berrò un Pernod al bar dove i colonnelli in pensione giocano a carte, mi siederò a parlare con loro di nulla. È da tanto che abbiamo accettato la nostra reciproca inutilità. Difficile che si presenti qualcuno di nuovo.


C’era un pittore australiano che, sembrandomi moderatamente attraente, avevo invitato a cena. Dopo qualche bicchiere era diventato insolente e continuava a ripetermi che avevamo un’idea distorta dei suoi connazionali. Fu triste piú che sgradevole e io e la domestica dovemmo prenderlo sottobraccio e riportarlo a casa.


La domenica e i giorni festivi le ragazze di una ventina d’anni passano abbracciate, i corpi persi dentro larghi indumenti scuri. Nessuna mi guarda, anche se oramai mi conoscono. Lei deve conoscermi. Eppure non mi offre mai un segno per rivelarmi qual è. Mi sa che ha troppa paura. Nei momenti di maggiore ottimismo mi piace pensare che aspetti lí, convinta che andrò a cercarla. Eppure mi ritrovo sempre a prendere la strada del mare, anche se vorrei disperatamente andare per l’altra via.

La vedova


Bridget, si chiamava cosí. Giocava a carte mettendoci l’anima e trincava gin e lime. Teneva la gente a pensione, ma erano pensionanti scelti: gente che andava per fare la pesca a pelo d’acqua, o magari un avvocato che si tratteneva la notte per discutere un caso con un cliente o con un procuratore legale.


Il direttore del caseificio fu il primo ospite piú o meno in pianta stabile. Dopo qualche mese si capí che non avrebbe costruito la villetta che aveva in mente e dopo qualche altro mese cominciò a invitare le ragazze come se fosse a casa sua. E quante se ne sentivano! Si raccontava di partite a carte, bevute e Dio sa cos’altro. Nessuno osava chiederlo espressamente. Spesso si presentavano donne appariscenti, con le unghie laccate, le borsette di lucertola e compagnia bella, e a volte si fermavano il fine settimana. Bridget aveva consacrato il salotto a lui e ai suoi ospiti, decidendo di dire che quello che combinavano era affar loro.


Lei di giorno lavorava in un negozio, dove teneva la contabilità. Se ne stava molto in disparte, chiusa in un ufficetto con le pareti di vetro satinato a stilare conti e pagare la merce e raramente, per non dire mai, si affacciava in negozio per servire i clienti. Lei e il proprietario andavano d’amore e d’accordo. Lui la chiamava Biddy, diminutivo di Bridget, e da questo si capiva che erano buoni amici. Ogni tanto lei emergeva dalla sua cabina di vetro per congratularsi con una giovane madre che aveva avuto un figlio o per fare le condoglianze a chi aveva perso qualcuno, ma la gente diceva che era tutta scena, tanto per rispettare le forme. Non aveva mai invitato nessuno nella sua nuova casa con la facciata a intonaco e, quando le gemelle le avevano fatto un’improvvisata, le aveva lasciate sulla porta con la scusa poco convincente che stava tinteggiando il soffitto della cucina. Era decisa a mantenere le distanze e, quasi a sottolinearlo, aveva fatto mettere le veneziane.


Vi chiederete, come si era chiesta la direttrice dell’ufficio postale, quella direttrice dell’ufficio postale che era la sua nemica giurata: «Perché tiene le veneziane sempre chiuse, d’inverno e d’estate, di giorno e di notte? Che cosa cerca di nascondere Bridget?» Che cosa succedeva là dentro la sera, quando Bridget tornava senza fretta a casa con qualche prelibatezza che le aveva regalato il proprietario del negozio, come le fette di bacon o le scatolette di salmone? Girava voce che si togliesse il grembiule scuro del negozio per indossare abiti piú variopinti. Una bambina l’aveva vista portare in casa un secchio di carbone. Ma allora accendevano il camino in salotto, diceva la gente.


Cominciarono a dare feste e molte sere una o due macchine strane, se non tre, parcheggiavano nel vialetto di casa e ci restavano fin quasi all’alba. Spesso gli ospiti all’uscita cantavano: «She’ll be comin’ ‘round the mountain when she comes, when she comes». Ovvio che a fare tanto i farfalloni poi succedono le disgrazie, e infatti ne capitò una che lasciò tutti interdetti. Nella casa morí un prete. Non era un prete della zona, era arrivato a bordo di una di quelle strane macchine con la targa strana. Raccontarono che era andato in bagno, uscendo non aveva visto il gradino e, ovviamente – potrebbe succedere a chiunque –, aveva inciampato ed era caduto. Era ruzzolato giú per tutti e quindici i gradini, aveva sbattuto la testa contro l’orologio a pendolo in fondo alla scala ed era rimasto a terra privo di sensi. Si era scatenato il finimondo, aveva riferito Rita, una vicina. In casa si sentiva urlare. Pare che il direttore del caseificio avesse barcollato fino alla macchina ma fosse troppo ubriaco anche solo per metterla in moto; poi era arrivata una donna giovane che invece era partita in quarta e di lí a poco ecco spuntare il curato della zona con un viatico. Un’ora dopo un’ambulanza aveva portato il prete in ospedale, solo che era già morto.


Bridget aveva fatto buon viso a cattivo gioco. Anziché nascondere il comprensibile senso di colpa, lo riconosceva. Parlava in continuazione di quella notte fatale, del divertimento che aveva preceduto la tragedia, del prete che non aveva toccato una goccia d’alcol e li aveva intrattenuti con il racconto meraviglioso di quando era stato ricevuto in Vaticano, non per un’udienza, come pensava lui, bensí per vedere i tesori: «Tesori che valgono migliaia di sterline… tesori che valgono migliaia di sterline!» pare avesse detto descrivendo un quadro, una scultura, un calice o un paramento. Poi Bridget proseguiva raccontando che avevano giocato tutti a Quarantacinque e senza che se ne accorgessero si erano fatte le tre del mattino e padre Tal dei Tali prima di tornare a casa era andato di sopra. A suo dire aveva bevuto bicchieri su bicchieri di limonata. Poi il tonfo terribile, loro che erano rimasti increduli, il direttore del caseificio che si era alzato dal tavolo per andare in corridoio, e poi la ragazza che era uscita, e poi le urla. Bridget diceva chiaro e tondo che non si sarebbe mai perdonata di non avere una lampadina piú forte sul ballatoio. Alla messa solenne in suffragio del prete indossò una cosetta di pizzo lunga e nera che non rispolverava dalla morte dell’amato marito.


Il marito era annegato anni prima, perciò era conosciuta come «la Vedova». Erano sposati da pochissimi mesi, due autentici piccioncini. Abitavano in un’altra casa, una casetta con una veranda baciata dal sole dove coltivavano gerani, begonie e perfino qualche pomodoro. La disperazione di Bridget per quella morte era stata cosí terribile da diventare leggendaria. Il suo urlo, quando le avevano dato la notizia, aveva lacerato la parrocchia e si diceva che l’avessero sentito anche nelle parrocchie piú lontane. L’avevano sentito i bambini nella culla, l’avevano sentito i vecchi sordi seduti davanti al fuoco e pure quelli che lavoravano nei campi. Quando le avevano detto che il marito era annegato, non aveva voluto crederci: suo marito non era morto; era un nuotatore provetto, lui; nuotava giú al molo ogni sera della sua vita prima del tè. Quelle urla erano la sua ribellione. Aveva urlato tutta la sera e tutta la notte. In paese nessuno aveva chiuso occhio. Quando la mattina avevano trovato il corpo ammantato di canne, le sue grida avevano toccato punte pantagrueliche. Non potevano lasciarla andare in chiesa. Le donne avevano dovuto tenerla ferma per evitare che desse i numeri.


Poi, qualche giorno dopo la sepoltura, quando le mucche avevano cominciato a calpestare la tomba e a trattarla come se fosse una vecchia tomba qualsiasi, aveva interrotto il lamento funebre. Subito dopo aveva assunto un contegno calmissimo, allegro e rassegnato. Diceva a tutti che ormai era una donna impegnata e che aveva tanto da fare. Doveva scrivere per ringraziare chi aveva partecipato al funerale, per ringraziare i preti che avevano celebrato la messa solenne e poi decidere cosa fare dei vestiti del marito. Soprattutto, era decisa a vendere la casa. L’avevano sconsigliata, ma non si era lasciata smuovere. Quella era stata la casa sua e di Bill – «il caro Bill», lo chiamava lei – e soltanto andandosene il ricordo, l’inviolato ricordo, delle mattine, delle sere, delle notti e dei loro momenti di intimità, sarebbe rimasto inalterato.


Aveva venduto la casa, o meglio, l’aveva svenduta, ed era tornata a vivere in campagna con i familiari: un fratello e una sorella sordomuta. In paese nessuno l’aveva piú sentita nominare fino a qualche anno dopo, quando il fratello era morto e la sorella era andata in un istituto. Non sapendosela cavare con l’aratura e il foraggio, Bridget aveva venduto la fattoria e si era trasferita di nuovo in paese. Al suo ritorno era un’altra donna, molto piú padrona di sé. Molto piú sciccosa, diceva la gente. Aveva trovato lavoro come contabile al negozio e cominciato a costruire una casa, e durante i lavori molti avevano congetturato che le frullasse per la testa di rimaritarsi. Si vociferava che si fossero visti vari scapoli parlare con lei, specie uno venuto dall’America che l’aveva portata alle corse dei cani a Limerick per qualche sabato sera di fila e le aveva offerto del gin. La notizia che beveva si era diffusa a macchia d’olio e il verdetto era stato che era tipo da alzare il gomito col primo venuto. Perciò quando si era installata nella nuova casa il vicinato non l’aveva accolta a braccia aperte. Non c’erano state feste inaugurali, per esempio; niente panna, sanguinacci fatti in casa o torte alla birra scura di benvenuto; niente ferri di cavallo portafortuna sulla porta. Per farla breve, l’avevano ostracizzata. Lei sembrava non farci caso, tanto era abituata a stare per conto suo. Aveva un bel guardaroba, aveva un buon lavoro e appena si era decisa a tenere pensionanti scelti, due o tre al massimo, tutti avevano detto che si era montata la testa. Casa sua era sarcasticamente chiamata la dimora del piacere e ogni tanto, con piú malanimo, veniva associata alla canzone: «Biddy la puttana, che viveva in albergo senza la sottana».


I primi ospiti erano stati due forestieri impegnati in qualche ricerca per la commissione territoriale e sospettati da tutti i contadini di essere degli intriganti. Loro e Bridget erano diventati grandi amici, si sedevano fuori sulle sedie a sdraio e tutti li sentivano ridere; la domenica andavano insieme all’ultima messa e la sera sbevazzavano, a casa o al bar. Quando quei due se n’erano andati era arrivato il direttore del caseificio, un omaccione con le spalle larghe e la faccia grande e rossiccia. Era un chiacchierone affettuoso. Toccava il bavero delle persone, specie delle donne, e chiedeva baci senza ritegno. Qualche ragazza confessava di averlo respinto. Le zitelle, che non si fidavano di lui, lo tenevano d’occhio quando usciva dal caseificio alle cinque e mezzo di sera per vedere se tornava dritto a casa o se attraversava il paese per farsi un paio di pinte. Lo aspettavano appostate dietro i muri, o dietro la finestra del salotto. Era raro che parlasse di Bridget chiamandola per nome, per lui era «la padrona di casa», e spesso aggiungeva che era un’impertinente e una cuoca straordinaria. Aveva un debole per il suo stufato d’agnello che in realtà, diceva la gente, era stufato di montone.


Ben presto il direttore del caseificio, che si chiamava Michael, trovò una fidanzata fissa che si chiamava Mea. Mea faceva l’impiegata di banca in città e nei fine settimana arrivava in macchina e si fermava due notti. Michael si metteva l’acqua di colonia e la aspettava camminando su e giú davanti a casa, tanta era la smania di vederla. Non si baciavano mai sui gradini ma andavano sempre dentro lasciando che alcuni degli impiccioni locali, specie le donne, impazzissero di curiosità per ciò che succedeva dopo. Quella donna, disse Bridget al padrone del negozio, che poi lo disse a tutti, si rigirava Michael come voleva. Pare che fosse soggetta a sbalzi d’umore: certe volte era gioiosa come un colibrí, altre dichiarava di avere il mal di testa o la sinusite o il mal di pancia e si rifiutava perfino di rivolgergli la parola. Un volta si era chiusa a chiave in camera e non era uscita per tutta la sera. Mangiava come un uccellino, si schiariva i capelli con tuorlo d’uovo e limone e si metteva sempre in ghingheri per la messa o le orazioni sfoggiando un cappello o un foulard diverso ogni domenica. Pregare, però, non era il suo forte: si guardava attorno, soppesava i presenti, elargiva qualche sorrisetto di superiorità e, per capire quando bisognava alzarsi e quando inginocchiarsi, guardava cosa facevano gli altri.


– Ah, è il suo dolce mistero… il suo dolce mistero, – aveva detto Michael a Bridget, che l’aveva detto al proprietario del negozio che, naturalmente, l’aveva detto a tutti. Di lí a poco Mea e Micheal erano fidanzati e Mea si fermava non solo due ma tre notti alla settimana e scorrazzava in macchina con lui alla ricerca di case o villette sfitte perché ovviamente volevano andare a stare per conto loro. Ogni settimana portava anche qualche mobile, di solito ingombrante – uno specchio, un armadio, una scansia o uno scrittoio –, e a sentire lui era proprio fissata, con i mobili. Lui chiedeva scherzando agli uomini chi glielo faceva fare di mettersi un cappio al collo.


Dovevano sposarsi a giugno ma una sera di inizio maggio ci fu uno screzio. E Michael la lasciò. Successe al bar, proprio mentre gli altri avventori facevano auguri e allusioni alla cicogna. Michael era molto ubriaco – nelle ultime settimane ci dava parecchio dentro con l’alcol – e all’improvviso si girò verso Mea e disse, con estremo candore e quasi in lacrime, che non ce la faceva ad andare fino in fondo. L’anello poteva tenerselo: voleva chiudere i rapporti senza dissapori. Lei gli mollò tre ceffoni, lí, davanti a tutti. – Come osi? – disse con l’acrimonia di un’istitutrice, poi corse fuori, lui la seguí e un attimo dopo eccoli sfrecciare lungo Shannon Road, di sicuro per fare pace, disse la gente. Ma Michael fu irremovibile. Il fidanzamento era rotto.


Lei andò via quella sera stessa e Michael non si fece vedere per tre giorni. Tornò al caseificio, teso e con la barba lunga, e quel venerdí apprese da un settimanale che lei l’aveva denunciato per aver rotto la promessa. Il giornale riportava le loro foto, l’accenno a qualche scambietto sdolcinato e perfino una foto di Bridget che, a detta di Mea, aveva non poca influenza su di lui e probabilmente era responsabile della rottura. Mea parlava anche del suo cuore a pezzi, dei tanti progetti che aveva fatto, della casetta con un giardino di rose che aveva immaginato, poi raccontava del suo corredo, del baule pieno di biancheria, sacchetti di lavanda e via dicendo. Soprattutto, lamentava il fatto che per lei ormai un futuro romantico con un altro uomo era fuori discussione; in parole povere, la sua vita era distrutta. Michael ricevette la lettera dell’avvocato, si rivolse al proprio avvocato e a quanto pare la risarcí profumatamente. Poi ci diede dentro a bere per qualche settimana e lo trascinarono in un monastero cistercense e alla fine tornò a casa assai dimagrito e molto piú calmo. – Una cacciatrice di dote, ecco cos’era, una cacciatrice di dote, – diceva Bridget ogni volta che sentiva nominare Mea, e ben presto la faccenda finí nel dimenticatoio.


Notarono – prima la direttrice dell’ufficio postale e poi un’altra signora, che ne parlarono con tante altre – che Bridget e il direttore del caseificio amoreggiavano apertamente. Di lí a poco li videro passeggiare mano nella mano in Chapel Road dopo la benedizione. Si erano attardati in chiesa nell’attesa che gli altri uscissero. Era stata la sacrestana a vederli, e appena si era ripresa dallo spavento era corsa a raccontarlo in paese. La gente le domandò se ne era sicura, se non l’avesse immaginato. – Che possa morire stecchita se non è vero, – disse lei, mettendosi la mano sul cardigan di lana grigia che le copriva il petto rincagnato.


Questo poi no, era veramente troppo da mandare giú. In fin dei conti era una vedova, e quarantenne per giunta, doveva pur sapere come ci si comporta. I vicini cominciarono a guardare con piú attenzione, specie la notte, per vedere quante luci si accendevano nelle stanze al primo piano, per vedere se avevano camere separate o vivevano nel peccato mortale. I censori meno severi dissero che era un fuoco di paglia e che presto lui avrebbe avuto un’altra pupa al seguito, perciò tutti, e dico tutti, rimasero esterrefatti la mattina in cui Bridget si piazzò sulla soglia del negozio annunciando il fidanzamento. A riprova aveva un diamante azzurro che le luccicava al dito e gli occhi ballerini mentre la gente la guardava a bocca aperta.


Poco dopo Bridget comprò un’auto e Michael iniziò a darle lezioni di guida in Dock Road, quella stessa strada che aveva percorso il marito andando incontro alla morte. Lui smise di fare il cascamorto con le ragazzine, anche con quella del burro al caseificio, e raccontava agli estranei quant’era felice, diceva che le altre erano state soltanto degli zuccherini, mentre lei era quella giusta.


Bridget era troppo felice perché gli altri riuscissero a digerirlo; la chiamarono sgualdrina, pronosticarono un’altra promessa mandata a monte, aspettarono la disfatta. Alcune delle donne anziane si rivolsero al prete della parrocchia, ma lui era cosí di malumore per i contributi destinati al nuovo altare che le esortò tutte a rimboccarsi le maniche e a rimediare i soldi vendendo torte, gelatine e compagnia bella a un’asta di beneficenza. Intuí il motivo della loro visita perché il direttore del caseificio era andato a trovarlo da solo e si era trattenuto un’ora, dandogli di sicuro un’offerta sostanziosa per le messe.


Per salvare le apparenze durante il periodo del fidanzamento, a casa di Bridget si trasferí un ragazzo di campagna, uno cosí stupido da raccogliere i tuberi degli iris scambiandoli per cipolle, insomma, uno che non dava certo adito a malignità. Dovevano sposarsi a dicembre, il che concedeva a Bridget due mesi per lasciare il lavoro e preparare il corredo. Ora la vedevi sempre sfrecciare a bordo della sua auto rossa, una minaccia per i pedoni e le mucche che si erano spinte sul ciglio della strada. Per ingraziarsi gli altri, dicevano, si offriva di accompagnarli in città, oppure di sbrigare qualche commissione per loro. Alcuni, i deboli, accettavano quei favori, ma non gli irriducibili. Qualche maschietto, a dire il vero, la elogiava, le diceva che aveva un bel fegato. Era molto piú vecchia di Michael e, come se non bastasse, gli aveva fatto perdere il vizio dell’alcol; ormai beveva soltanto vino… da tavola.


Qualche settimana prima del matrimonio la coppia andò al pub, contravvenendo alle recenti abitudini, e offrí da bere a tutti. Il proprietario del negozio, proponendo un brindisi, disse di sapere che Biddy e Michael avevano l’approvazione generale. La gente applaudí e qualcuno cantò. Poi Biddy, che era un po’ sbronza, batté l’anello di fidanzamento contro il bicchiere e disse che avrebbe recitato una cosetta. Si alzò senza tanti indugi, sfoderò quel suo sorriso da monella, si passò la lingua sulle labbra, altro suo vezzo, e recitò una poesia intitolata La gente parlerà. Era un attacco a tutte le persone maligne e avvizzite che non le perdonavano di essere rifiorita. Può darsi – e sono in tanti a dirlo – che sia stata quell’ardita provocazione a scatenare il terremoto delle settimane successive. Forse confidarsi con qualcuna delle donne locali l’avrebbe salvata, ma lei non si confidò; si tenne in disparte con il suo uomo, gli occhi che le brillavano, la felicità in tasca.


Non si è mai saputo chi abbia veramente cominciato, fatto sta che all’improvviso la voce iniziò a girare, lo scheletro in agguato da anni: il marito non era annegato per sbaglio, si era tolto la vita. Era talmente divorato dalle preoccupazioni, si diceva, da non vedere altra via d’uscita. Quella sera, dopo l’ennesima lite furibonda con lei, era sceso al molo con carta e penna in tasca e aveva scritto un biglietto di addio. Ce l’aveva nella tasca dei pantaloni prima che lo dessero a lei. Altrimenti perché Bridget aveva urlato tre giorni, si chiedevano, perché non era stata in condizione di andare al funerale del marito e poi alla messa solenne? Altrimenti perché si era ripresa cosí in fretta se non perché era una donnaccia malvagia e senza cuore? Il direttore del caseificio, predissero, sarebbe diventato un capro espiatorio a matrimonio avvenuto. Prima una persona lo disse sottovoce, poi un’altra, e poi un’altra ancora; la storia passò di casa in casa, di bocca in bocca, e di lí a poco arrivò alle orecchie incredule di Bridget. Come se non fosse già abbastanza sconvolgente, una mattina ricevette una lettera anonima dove c’era scritto che presto il futuro marito avrebbe saputo del suo scheletro nell’armadio. Buttò la lettera nella stufa, poi cercò invano di recuperarla. Per fortuna Michael era ancora al piano di sopra, addormentato in camera sua. Fu allora che commise il primo errore: corse in giro a cercare di comprarsi le persone, a chiedere di non accennare a quel pettegolezzo terribile, di non raccontarlo al direttore del caseificio, per l’amor di Dio di non raccontarglielo. Piú cercava di soffocare quella diceria, piú la gente si convinceva della sua colpa. Perse ogni ritegno. La si vedeva correre in strada scalza o in camicia da notte per andare incontro al postino, per tenere lontani altri orribili bollettini.


Dopo quella mattina non osò far andare Michael in giro da solo, temeva che qualcuno gli raccontasse tutto. Sapeva, o quantomeno si aggrappava alla speranza, che al lavoro nessuno si sarebbe arrischiato a raccontargli niente, per paura di essere licenziato in tronco. In strada, però, o andando a messa, o al pub… erano quelle le zone pericolose e per settimane lo seguí ovunque, tanto che lui cominciò a mostrare segni di insofferenza e a dire che gli stava troppo appiccicata. Bridget, che con il fidanzamento era diventata piú bella, si guastò, tornando a essere quella di prima: un’anziana pelle e ossa con i capelli radi e la pelle troppo gialla.


Michael si accorse che era sconvolta ma non capiva perché. Pare che avesse raccontato alla ragazza che faceva il burro che alla sua signora era presa l’agitazione e che prima si sposavano, meglio era. Mentre lui parlava cosí, la futura signora non sapeva a che santo votarsi. Si confidò con il proprietario del negozio, che le consigliò di dirlo a Michael, ma lei perse il controllo e diede in escandescenze, non fidandosi dell’unico amico che aveva. – Perché non prendi il toro per le corna e non glielo dici chiaro e tondo? – le aveva consigliato. Ma non poteva. Lui l’avrebbe piantata in asso. Non ne aveva già piantata una piú giovane e carina e lei, Bridget, non rischiava di fare la stessa fine? Fu allora che si ricordò della vecchia che un tempo abitava di fronte a lei e al marito e che in seguito era tornata a vivere in campagna. Sarebbe andata a cercarla e quella donna avrebbe giurato di non averli mai sentiti alzare la voce, anzi, che Bridget e il primo marito la sera si accomodavano sempre nella veranda assolata, fra gerani e begonie, a dirsi paroline, tenersi per mano e scambiarsi effusioni.


Poi ci fu una piccola tregua. Michael decise di andare a casa dai suoi una settimana, e quella fu una manna dal cielo. Dopo si sarebbero visti a Limerick, con una manciata di parenti, e lí si sarebbero sposati in una chiesa agostiniana. Uno dei frati, che era amico di Michael, aveva già organizzato tutto. Considerato il precedente della promessa infranta, si sarebbero sposati senza clamori.


Prima di partire Michael la prese di petto. La fece sedere in cucina sulla poltroncina accanto alla stufa dove spesso, anzi, spessissimo, scherzavano e si coccolavano. Le chiese se per caso avesse avuto dei ripensamenti, se per caso non lo amava. A lei si riempirono gli occhi di lacrime. Disse: – No, no, Michael… no –. Era cosí innamorata, confessò, da temere che qualcosa andasse storto. Poi lui la baciò, la rimproverò di essere sciocca come una gallina e ballarono per tutta la stanza, promettendosi le cose che avrebbero fatto una volta sposati, come mettere un lucernario in cucina e comprare una stufa nuova, cosí lei non si sarebbe piú sporcata le dita con la cenere e le scorie. Lui le disse di amare quelle sue manine, poi le baciò. – Gnam, gnam, – fece, come se le stesse mangiando, come se fossero crostatine alla marmellata.


Come lei raccontò in seguito al proprietario del negozio, il commiato era stato gioioso. Lui aveva cercato di convincerla a dirgli come si sarebbe vestita al matrimonio ma lei aveva tenuto la bocca cucita. – Ho tenuto la bocca cucita, – disse, e raccontò di essere corsa di sopra a prendere il vecchio collo di volpe, con quel musetto volpino e gli occhi rotondi, e di averlo minacciato con quello, facendo: – Bau, bau, bau –. Avevano giocato a nascondino, avevano riso, si erano presi in giro ma lei non gli aveva permesso nel modo piú assoluto di entrare nella stanza dove aveva riposto il corredo con l’abito di tulle e le scarpe di raso, le pile di biancheria intima nuova e le morbide mantelline da notte. Il loro addio era stato cosí dolce che Michael era tentato di annullare il viaggio. – Che diamine, sono maggiorenne da un pezzo, – aveva detto. Ma lei l’aveva convinto ad andare, aveva insistito. Sapeva che era essenziale allontanarlo da quel posto, dove qualunque piantagrane poteva dire: «Secondo me la tua futura moglie ha spinto il primo marito a uccidersi». Non era proprio il caso di rischiare. Qualcosa di Michael, anche se non gliel’aveva mai detto, le ricordava il suo primo marito. Erano tutti e due ingenui e affettuosi, e tutti e due si arrabbiavano per delle sciocchezze ma erano pronti a scusarsi, a farle trovare una barretta di cioccolato o un fazzoletto sul cuscino per farsi perdonare. E lei li amava piú o meno nello stesso modo, nello stesso modo prorompente, spumeggiante e infantile in cui aveva amato a vent’anni e, come per miracolo, il suo amore era ricambiato.


Il giorno dopo la sua partenza, Bridget si mise in viaggio per incontrare l’anziana vicina. Era allegra quando si fermò in paese a fare benzina. Disse perfino al giovane benzinaio che stava pensando di dare una festa e gli chiese se ci voleva andare. – Come no, – sostenne in seguito di aver risposto il benzinaio.


Nessuno di noi ha mai saputo come sia andata con la vicina, perché è sulla via del ritorno che successe. Il tratto di strada era infido, questo si è sempre saputo; curvava, si raddrizzava, poi si biforcava all’improvviso, ondulandosi sotto una fitta cupola di faggi. Lí camion e macchine si erano schiantati cosí spesso che la gente diceva che era maledetto, quel tratto di strada. Un tempo da quelle parti abitava una strega, una strega che sfidava la gerarchia ecclesiastica ed escogitava cure pagane con le erbe. La gente si chiedeva se non fossero gli strascichi lasciati dalla strega a provocare tanti disastri, e i preti ci avevano spruzzato l’acqua santa non si sa quante volte.


Era buio quando ci fu l’incidente. Bridget aveva fatto visita all’anziana vicina e dopo era andata in un bar del paese piú vicino e si era concessa un bicchiere. È possibile che fosse andata al bar a festeggiare, ad assaporare per la prima volta la gioia, oltre che la certezza, di avere un futuro. Forse la vicina le aveva detto: «Glielo racconto io a quelli quant’eravate felici tu e Bill», oppure aveva pianto, ricordando l’ultima volta che si erano viste, quando non era vecchia, quando non aveva le cataratte agli occhi, quando la bella coppietta che abitava nella casa di fronte la invitava a prendere un bicchiere di birra o una tazza di tè. O forse l’anziana vicina aveva dimenticato quasi tutto e si era limitata a tremare e a fissarla. Qualunque cosa sia successa, non si è mai saputa, ma al bar dove bevve un gin e lime e comprò le patatine Bridget chiacchierò con il proprietario e gli chiese il biglietto da visita, dicendo che sarebbe tornata a cena con il marito. Quella località le aveva portato fortuna, disse, e sentiva di doverle una piccola ricompensa. Mezz’ora dopo era intorno a un albero, la macchina sollevata sulle zampe posteriori, come un animale, la faccia sul cruscotto, di traverso, gli occhi spalancati.


Alcuni operai impegnati a rifare il manto stradale sentirono lo schianto dell’incidente e accorsero da una piccola roulotte dove stavano preparando la cena. Nessuno la conosceva. Due rimasero mentre il terzo andò nella portineria di una grande casa a chiedere se poteva usare il telefono. La portinaia era un po’ strana e non glielo permise, perciò dovette salire alla grande casa e trascorse un mucchio di tempo prima che arrivassero l’ambulanza e la polizia. Ma concordarono tutti che era morta sul colpo. La portarono all’ospedale piú vicino, dove una giovane infermiera la vestí di bianco. Chi il giorno dopo andò al funerale rimase sorpreso per non dire inorridito vedendo quella faccia cosí meravigliosamente liscia, senza tagli né squarci. Era perché l’avevano truccata, dichiararono, truccata alla perfezione: che scandalo, addobbare un cadavere.


Michael le si inginocchiò accanto e urlò senza ritegno, come aveva urlato lei un tempo, dimostrando senz’ombra di dubbio che l’amava con tutto il cuore. Al cimitero cercò di parlarle, cercò di impedire che calassero la bara. Adesso sapeva tutto; sapeva che cosa lei aveva passato e non poteva farci nulla. Il suo fu un gran funerale, ma sotto le preghiere e i mormorii si bisbigliava che fosse ubriaca fradicia quand’era montata in macchina. Dissero che aveva il viso sfigurato ma che qualche stupida infermiera l’aveva resa presentabile, aveva manipolato la verità, l’aveva mandata al creatore con quel travestimento mostruoso, un’oca di infermiera, dissoluta com’era stata Bridget.

Paradiso


Nel porto c’erano le quattro barche. Le barche prendevano il nome da una nazione, una strada, un’emozione e una ragazza. Lei le vide per la prima volta al tramonto. Splendide erano, e tranquille, barche bianche ben distanziate, coccolavano il porto. Sull’altra sponda una montagna. Lilla in quel momento. Sembrava fatta di un materiale pieghevole tanto era inconsistente. Fra le barche e la montagna un faro, su un’isola.


Qualcuno disse che il faro non aveva piú niente della bellezza di un tempo, quand’era abitato dalla guardia costiera e andava a gas. Adesso era automatico e molto piú luminoso. Fra loro e il mare c’erano quattro campi coltivati ad alberi di fico. Aridi campi gialli che sembravano esalare polvere. Niente erba. Lei guardò di nuovo le quattro barche, i campi, gli alberi di fico, il mare soave; guardò la casa alle sue spalle e pensò: «Può essere mia, mia», e il cuore fece una piccola capriola. Lui capí il suo turbamento e sorrise. La casa esercitava una specie di incantesimo su chiunque la frequentasse. La prese per mano e le fece salire la scala principale. Una scala di pietra con il corrimano malfermo. La parte inferiore di ogni gradino era azzurro sgargiante. – Ferma, – le disse dove diventava buio quasi in cima, e prima di accendere la luce.


Un domestico le aveva disfatto i bagagli. Nella stanza c’erano i fiori. Odoravano di caramella. Nel bagno una grande urna di vetro piena di borotalco. Lei si accostò al bordo e annusò. La fece starnutire tre volte. Ovaie di sapone viola scuro estratte dall’involucro di carta, per vari minuti ne tenne una per mano. Sí. Aveva fatto bene ad andare. Non c’era bisogno di aver paura; lui aveva bisogno di lei, la sua espressione e le loro mani strette lo confermavano.


Si accomodarono in terrazza a prendere un aperitivo preparato da lui. Era fatto con rum e limone e si rivelò fortissimo. Uno degli ospiti disse che l’angolazione della luce sulla montagna era all’apice dello sfarzo. Lui si portò le dita alle labbra e mandò un bacio alla montagna. Lei contò le cime, tredici in tutto, con un altipiano fra le prime quattro e le ultime nove.


Le cime sfioravano il cielo. Piú giú sulla parete rocciosa risaltavano varie sporgenze che tracciavano ombre sulle sporgenze vicine. Le dissero come si chiamava la montagna. Nello stesso istante le arrivò all’orecchio la domanda rivolta a una donna giovane: – Le interessa Maria Stuarda? – La donna, che aveva la pelle di una radiosità ammaliante, rispose di sí con troppa prontezza. Era possibile che tanta radiosità le venisse da una costante fornitura di sperma maschile. L’uomo aveva la fronte alta e pallida e un aspetto mortuario.


Bevvero. Fumarono. Tutti e dodici i fumatori buttavano i mozziconi sulle tegole del tetto inclinato verso gli annessi della fattoria. Cominciarono i lampi estivi. Erano sporadici, silenziosi e vagamente teatrali. Sembravano concepiti per il loro divertimento. Illuminavano una parte del cielo, poi un’altra. C’era anche uno svolazzare di pipistrelli e quelle sagome scure unite alle fuggevoli scariche sporadiche dei lampi estivi erano una distrazione e una cosa verso cui puntare il dito. – Se avessi un cavallo lo chiamerei Lampo Estivo, – disse una delle femmine, e il maschio che le stava accanto disse: – Che bello –. Lei sapeva che avrebbe dovuto parlare. Voleva parlare. Per il bene di lui e per il proprio. La sua mente aveva un piccolo guizzo, s’immobilizzava e aveva un altro guizzo; le parole lottavano per liberarsi, per dire qualcosa, una cosetta simpatica che la rendesse parte di loro. Solo che aveva la lingua legata. Loro dovevano conoscere chi l’aveva preceduta. Dovevano fare paragoni particolareggiati: l’aspetto, l’accento, il modo in cui lui la trattava. Dovevano sapere meglio di lei quanto gli fosse cara, se era una cosa seria o una breve parentesi. Avevano letto tutti nella cronaca rosa come si erano incontrati, che lui era andato a fare una radiografia e l’aveva conosciuta lí, la radiografa vestita di bianco, confinata in una stanza buia con i negativi di polmoni e apparati respiratori.


– Dovrai prendere lezioni di nuoto, dico bene? – chiese uno dei maschi, scegliendo il momento in cui si era appoggiata allo schienale a fissare un grande pino.


– Sí, – disse lei, rammaricata che gliel’avessero detto.


– Non ci vuole niente: entri e nuoti, – disse lui.


Erano tutti cosí sorpresi, sorpresi e divertiti. Le chiesero dove avesse vissuto e se fosse proprio vero.


– Non riesco a immaginare uno che non nuota da piccolo.


– Non riesco a immaginare uno che non nuota, punto e basta.


– Che ci vuole, basta che colpisci, colpisci.


Il sole filtrato dagli aghi verdi calò e si mise a giocare su un folto grappolo di nocciole marrone. Loro non ridicolizzano mai la natura, pensò lei, non si azzardano mai. Lui le si portò dietro e le batté la mano sulla pallida spalla nuda. Uno che non aveva la macchina fotografica finse di scattare una foto. Quanto sarebbe durata? Questa la domanda che doveva dominare i loro pensieri.


– Domani ti portiamo in barca, – disse lui. Evviva. Si prodigarono, si sperticarono tutti per descriverle il cabinato. Facevano a gara. In realtà era con lui che parlavano. Lei pensò: «Dovrei essere onesta, dire che non mi piace il mare, dire che sono una di terra, che mi piacciono la pioggia e le rose in un prato, la pioggerella sottile che offusca le rose e la vegetazione, che per me il mare è scuro come le valve delle cozze, e significa catastrofe». Ma non poteva.


– Dev’essere meraviglioso, – ecco cosa disse.


– È davvero qualcosa di spettacolare, – disse lui timidamente.


A cena lei sedette a un capo del tavolo a forma d’uovo e lui all’altro. Sei candele bianche nei portacandele di vetro a separarli. La segretaria aveva assegnato i posti. Una cicciona alla destra di lui aveva tantissimi braccialetti d’argento ed era velata di crespo. Cominciarono con una vellutata fredda. Era guarnita con cose tagliate cosí sottili che le riconoscevi soltanto dal sapore. Lei si sfilò le scarpe. Uno che stava raccontando del suo viaggio in India si dilungò per un tempo spropositato su quanto si mangiava male. Era andato per vedere i templi. Un altro, che faceva di tutto per tenere alto l’umore, rivolse la domanda all’intera tavolata: – In quale porto del Mediterraneo è meglio attraccare? – Ognuno aveva il suo preferito. Alcuni scelsero porti dov’erano successe cose emozionanti, altri scelsero porti che ammaliavano chiunque si avvicinasse, confrontando, tanto per sapere, le tasse portuali; quello che aveva sollevato la domanda li divertí raccontando che una volta era andato in crociera con la figlia e quand’erano arrivati a Venezia non era riuscito a sbarcare tanto era ubriaco. A lei toccò ammettere che non conosceva nemmeno un porto. Una confessione che li commosse.


– Li proveremo tutti, – disse lui dall’altro capo del tavolo, – e terremo un diario di bordo –. I commensali spostarono lo sguardo da lui a lei con un sorriso smaliziato.


Quella notte dietro le persiane chiuse inscenarono il loro rito. Erano tutti e due impazienti di arrivarci. Molto prima che venisse servito il caffè si erano allontanati da tavola e avevano trovato il modo di restare soli, scegliendo il sedile di pietra che cingeva il grande pino. Il sedile era tutto macchiato dalla gomma trasparente dell’albero. Le nocciole dondolavano accostate con un rumore sordo di nacchere. Rimasero quel tanto prescritto dalla buona educazione, poi si ritirarono. A letto lei si sentí di nuovo al sicuro, unita a lui non solo dalla passione e dal piacere ma anche da un coinvolgimento piú radicale. Non sapeva dare un nome a quell’emozione sconcertante che era piú dell’amore, o forse meno, che non era semplicemente sessuale, anche se il sesso era imprescindibile e la teneva unita come i fili di ferro tengono insieme un vaso rotto. Nessuno dei due era nuovo alle rotture e perciò amavano con cauta superstizione.


– Che cosa mi fai, – disse lui. – Come mi conosci, tutte le mie vibrazioni.


– Mi sa che siamo legati nell’intimo, – disse lei sottovoce. Pensava spesso che lui la odiasse perché lo coinvolgeva in qualcosa di troppo tenero. Adesso però non la stava odiando.


Alla fine le toccò tornare in camera sua, perché lui aveva promesso di alzarsi presto per andare a pescare insieme ai maschi con la fiocina.


Mentre lo salutava con un bacio si intravide sulla superficie cromata del thermos per il caffè poggiato sul comodino, e a fissarla di rimando vide due occhi che emanavano soddisfazione, disappunto e panico. Ogni volta che lo lasciava si aspettava di non vederlo mai piú; ogni separazione prometteva di essere l’ultima.


I maschi andarono via poco dopo le sei; lei sentí gli sportelli delle auto perché non aveva chiuso occhio.


La mattina prese la prima lezione di nuoto. Avevano deciso che si sarebbe tenuta mentre gli altri facevano colazione. Avevano portato l’istruttore dall’Inghilterra. Lei gli chiese se aveva dormito bene. Dove, non glielo chiese. I domestici sparivano di casa la sera tardi e si avviavano verso l’agglomerato di edifici col tetto basso. Il cane andava con loro. L’istruttore le disse di girarsi al contrario e scendere la scaletta di metallo. C’era uno svolazzare di vespe e lei pensò che se l’avessero punta avrebbe evitato la lezione. Nessuna vespa si prestò.


I bambini avevano già usato la piscina lasciandoci dentro giocattoli di plastica: un salvagente giallo che si allungava disegnando il collo e la testa di una papera. La papera aveva un’espressione disgustata. C’erano anche un delfino azzurro con sopra dipinto un nome e corazzate di vario genere. Erano i figli degli ospiti. I piú grandicelli, tutti maschi, ignoravano gli adulti in blocco e si aggiravano, rumorosi e invadenti, approfittando di tutto quanto avevano a disposizione: la sera guardavano pazientemente le lucertole per ore, con la canicola del giorno restavano in acqua, la mattina presto raccoglievano mandorle ricevendo da lui una commissione sul lavoro. Sul fondo della piscina era appostata una pinna nera. Lei la occhieggiò toccandola con la punta del piede. Furono gli ultimi istanti di autonomia, gli istanti prima che cominciasse la lezione.


L’istruttore le disse di sedersi, di sedersi dentro come se fosse nella vasca da bagno. Lui si accovacciò e piano piano si accovacciò anche lei. – Ora si turi il naso e metta la testa sott’acqua, – le disse. Lei calcò bene la cuffia sopra le orecchie e la fronte per proteggere la pettinatura e stringendo troppo forte il naso andò sott’acqua. – La sente? – disse lui tutto entusiasta. – La sente l’acqua che la sostiene? – Lei non la sentiva. Sentiva l’acqua travolgerla. Lui le disse di togliersi l’acqua dagli occhi. Era la gentilezza in persona. Poi si immerse, fece qualche bracciata e si alzò in piedi, scuotendo i capelli grigi. Le prese le mani e arretrò finché non ebbero tutti e due le braccia tese. Le chiese di stendersi a pancia sotto e di affidarsi a lui. Promise di non lasciarle le mani. Ogni volta, sul punto di dargli retta, lei si bloccava: prima il corpo e poi la mente si rifiutavano. Sentiva che se avesse staccato i piedi da terra sarebbe successo l’indicibile. «Di che cosa ho paura?» si chiese. «Della morte», si disse, eppure non era cosí. Le sembrava che dovesse succederle qualcosa di terribile prima di morire per davvero. Forse perché si sarebbe dibattuta per non annegare, pensò.


Quando riuscí a stendersi per un solo disperato minuto, lui esultò di gioia. Ma per quanto la riguardava quella prima lezione era stata un disastro. Tornando verso casa capí che era stato un errore lasciare che portassero un istruttore. Creava troppe aspettative. Le imponeva di riuscirci. Gli altri si sarebbero interessati ai suoi progressi, non perché ci tenessero ma perché, al pari dei lampi estivi o del passaggio degli yacht, era un argomento di conversazione. Ma non potevano spedire l’istruttore a casa. Era anziano e non era mai stato all’estero. Era già stregato dal paesaggio. Le toccava continuare. Tornando alla terrazza le parve di camminare nel vuoto, sentí il terreno mancarle sotto i piedi; aveva l’impressione di barcollare e le ginocchia tremavano in modo incontrollabile.


Sedendosi per fare colazione scoprí che qualcuno le aveva sbucciato un piattino di mandorle. Erano dolci e fresche, evocavano la dolcezza e la freschezza di una mattinata in campagna. Sapevano di nocciole. Lo disse. Nessuno concordò. Nessuno dissentí. Stavano leggendo il giornale. Ogni tanto qualcuno leggeva un pezzo a voce alta, pezzi divertenti su qualche loro conoscente che aveva commesso una scempiaggine degna di finire sui giornali. I bambini leggevano il termometro e discutevano sul filo d’ombra della meridiana. La temperatura sfiorava già i trenta gradi. Le donne stavano progettando di andare in motoscafo per abbronzarsi a torso nudo. Lei rifiutò. Lui la chiamò nella serra e le chiese se poteva dedicare un po’ del suo tempo all’organizzazione dei pasti perché la segretaria aveva tantissimo da fare.


Le foglie della passiflora si distendevano sul tetto come cavi di salvataggio di spago verde. Ogni foglia simile alle cinque dita di una mano. Foglie gialle e verdi nella stessa mano. Niente fiori. I fiori dopo. Fiori che avrebbero vissuto un giorno. Almeno a sentire il giardiniere. Lei disse: – Mi auguro che saremo qui per vederli. – Se vorrai, ci saremo, – disse lui, ma se gli fosse preso l’estro se ne sarebbe andato. Non sapeva nemmeno lui quello che era capace di fare. Nessuno lo sapeva.


Vedendola entrare nella grande cucina, la servitú per prima cosa sorrise. Donne vestite di nero, le scarpe con la para morbida, tutte sorridenti, non un briciolo di complicità in uno solo di quei sorrisi. Si era portata dietro un frasario, un quaderno e un libro inglese di ricette. La cucina sembrava un laboratorio: diversi macchinari bianchi accostati alle pareti, frigoriferi che pigolavano a varie velocità, una cappa sopra ogni cucina elettrica, le luci verdi e rosse sulle manopole vagamente minacciose, come se stessero per far partire un allarme. Sul tavolo c’era un pesce enorme. L’avevano preso i maschi quella mattina con la fiocina. Aveva la bocca aperta; gli occhi cosí ravvicinati da diventare quasi uno solo; il labbro inferiore penosamente pendulo. Le pinne erano nere e arruffate dall’olio. Lo guardarono tutte, lei e le sette o otto volenterose dalle quali doveva farsi capire. Quando si sedette a copiare la ricetta dal libro inglese e a tradurla nella loro lingua, loro accesero un’altra cappa. Stavano già tagliuzzando per la cena. Tre ragazze tagliuzzavano cipolle, pomodori e peperoni. Sembravano trarre piacere dal loro compito; sembravano sorridere ai cumuli di verdure che tagliuzzavano con tanta diligenza.


C’erano otto cestini da picnic da portare in barca. E una quantità di asciugamani. I bambini vollero a tutti i costi portare gli asciugamani. Lui aveva la borsa con la zip dove c’erano le bottiglie di vino. La agitò facendo sbatacchiare le bottiglie nel letto di ghiaccio. Gli ospiti sorrisero. Aveva la capacità di trasmettere il suo stato d’animo agli altri senza dire né fare granché. Aveva anche la capacità opposta di escludere gli altri. Due cose che affascinavano. Attraversarono i quattro campi che portavano al mare. I fichi erano duri e verdi. Il sole le giocava come una fiamma ossidrica sul collo e la schiena. Lui le disse che avrebbe fatto meglio a cospargersi di olio solare. Suonò stranamente ostile detto cosí a voce alta, davanti a tutti. Avvicinandosi all’acqua lei sentí il cuore prendere la fuga. L’acqua era tutto uno scintillio. Alcuni andarono a nuoto, altri salirono sulla barca a remi. Strusciando la mano sulla superficie increspata lei pensò: «Non è dei crampi, delle meduse o dei cocci di vetro che ho paura, ma di qualcos’altro». Calarono una scaletta sul lato della barca per far salire i nuotatori. Entrando bisognava togliersi i sandali. Il pavimento era di legno chiaro e rovente. I nuotatori dovettero farsi controllare i piedi nel caso ci fossero tracce di catrame. Il marinaio stava lí con un batuffolo di cotone impregnato nella trementina pronto a cancellarle. I maschi si misero all’opera: uno aiutò ad avviare il motore, un paio montarono i tendoni, altri portarono fuori grossi cuscini a strisce spargendoli sotto i tendoni. Due bambini rifiutarono di salire a bordo.


– Mi piace picchiare il mio fratellino sott’acqua, – disse un bimbetto, la voce minacciosa e melodiosa a un tempo.


Lei sorrise e scese i gradini che portavano a una cucina e alla zona notte con quattro posti letto. Lui la seguí. Poi la guardò, fece un respiro profondo e un mormorio.


– Tiralo fuori, – disse lei, – lo voglio adesso, subito –. Timorosa e pazza di desiderio. A lui piaceva da morire. Gli piaceva da morire quel tono imperioso. Chiuse la porta e lei lo guardò annaspare per abbassarsi i calzoncini, incapace di slegare il cordino. Adesso era lui quello goffo. Come barcollava. Lei aspettò per un momento straziante e fece aspettare lui. Poi si inginocchiò e quando cominciò lo sentí borbottare tra i denti serrati. Lui, che sapeva domare gli animali, in quello era indifeso. Lei ce la mise tutta e succhiò, succhiò, succhiò con tutta la fame che aveva e tutta la fame simulata che le piaceva fargli credere di avere. Minacciava di mutilarlo ma si limitava sempre soltanto a graffiarlo col bordo dei bei denti squadrati. Non s’intromise nessuno. Bastò qualche minuto. Lei attese un intervallo decente prima di seguirlo. Aveva sete. Sul davanzale c’erano libri tascabili e boccette di olio solare. E anche un paio di calzoncini di ricambio con sopra stampati i nomi di tutte le possibili cose al mondo: nomi di bevande e di capitali e le bandiere di ogni nazione. Il mare visto dall’oblò era un globulo di azzurro piccolo e innocuo.


Lasciarono il porto allontanandosi dalle altre tre barche e dalla macchia di pini. Ben presto ci furono soltanto mare e scogli, nessuna insenatura sprofondata tra le canne, nessuna cittadina. Chilometri e chilometri di allucinante mare. La follia dei marinai la contagiò, l’illusione che fosse terraferma e si potesse attraversare. Terraferma che non portava da nessuna parte. Gli scogli si erano ridotti a qualunque forma l’occhio e la mente fossero in grado di abbracciare. Vicino all’acqua c’erano varchi aperti a viva forza dal mare, alcuni rapaci, altri grandi abbastanza da permettere a una piccola imbarcazione di scivolarci sotto, altri ancora piccoli e inquietanti quanto le orbite degli occhi. Gli alberi sulle pareti a picco di quegli scogli erano soltanto lo sforzo di essere alberi. Gli uccelli non ci si potevano appollaiare, e men che mai fare il nido. Lei cercò di non ricordare la lezione di nuoto, di posticipare il ricordo fino al pomeriggio, fino alla lezione successiva.


Uscí e li raggiunse. Una ragazza seduta a poppa, fra i cuscini, suonava la chitarra. Aveva lunghi orecchini d’argento a forma di spatola. Una zingara per scelta. I bambini giocavano a «Indovina, indovinello, cosa vedo sul battello?», ma la disponibilità di oggetti era limitata. Dovevano accontentarsi di quello che avevano attorno. Si accorse che se stava in piedi il vento e gli schizzi d’acqua le davano freschezza. Le montagne lontane sembravano inconsistenti mentre quelle vicine scintillavano quando il sole ne trafiggeva le pietre aguzze.


– Lo trovo un po’ irreale, – disse a uno dei maschi. – Bellissimo ma irreale –. Le toccò urlare perché il motore faceva rumore.


– Irreale in che senso? – replicò lui.


Il loro repertorio era limitato ma efficace. Era nell’intonazione che stava l’aculeo. Spaventosamente impalpabile. Impossibile difendersi. Anzi, la cosa fastidiosa era lo stupore terribile che provocava. Era intenzionale o no? Lei ricordava benissimo che una volta le era sembrato di avere sul viso la trina di una ragnatela ma non era riuscita a sentirla sotto le dita, e non riuscire a toccare con mano il loro marciume le dava la stessa identica sensazione. Si tiravano frecciatine anche fra loro e poi cambiavano discorso. Parlavano per lo piú dei posti dov’erano stati e delle persone che ci avevano trovato e, anche se parlavano all’infinito, non dicevano mai niente di sé.


Fecero il picnic su una spiaggetta rosa. Lui mangiò pochissimo e dopo si allontanò. Lei pensò di seguirlo, ma poi non lo fece. I bambini andarono al largo con un lungo ceppo di legno sbiancato e una delle femmine lesse a tutti la mano. A lei assicurò una malattia. Lui tornando le porse controvoglia la grande mano olivastra. A lui assicurò un figlio maschio. Lei lo guardò in cerca di una gratificazione ma non la ottenne. Lui in quel momento stava raccontando a uno dei maschi di uno sloop nero di cui si era innamorato da piccolo. Lei pensò: «Che cosa vede in me lui che ama il mare, gli sloop, le barzellette, le messinscene e i rinvii? Che cosa vede in me che non amo nessuna di queste cose?»


L’istruttore portò delle tavolette bianche. Lui teneva un’estremità e lei l’altra. Gli guardò attentamente le mani. A furia di stare in acqua erano diventate bianchissime. Lei si stese a pancia sotto, strinse la tavoletta e guardò quelle mani per assicurarsi che non mollassero la presa. La tavoletta ballonzolava alimentando la sua incertezza. Lui disse che una corda sarebbe stata meglio.


Il pescione era stato privato della lisca e poi ricomposto. Un inganno perfetto. La testa e gli occhi troppo ravvicinati non c’erano piú. Lei aveva consigliato alla governante di togliere i limoni dal frigo e adesso sembravano limoni anziché spugne congelate. Qualcuno apprezzò e lei provò un piacere infantile. Un vento del sud scatenò una strana euforia serale. Bevvero molto. Parlarono di serate splendide. Serate che resuscitavano in loro grazie al vino, al vento e a una benevolenza passeggera. Uno parlò dei fagiani dorati che aveva visto aggirarsi impettiti nel cortile di una casa; uno parlò di certi polli bantam posati su un cancello all’imbrunire, le forme che sembravano note musicali su un rigo vuoto; nessuno accennò all’amore o alla famiglia, erano solo il panorama, la natura o un levriero a lasciare in loro i ricordi migliori e piú sereni. Lei rivisse un temporale notturno con un asino che ragliava in un campo e un ramo scagliato in strada dal vento. Dopo cena varie coppie andarono a fare una passeggiata, o un bagno, o a sentire dov’erano i bambini. I tre maschi non accoppiati andarono in paese per un giro di ricognizione. Le femmine si confidarono le diete che stavano seguendo, o le creme facciali che trovavano piú benefiche. Una divorziata disse all’anfitrione: – Devi assolutamente venire a letto con me, non sento ragioni, – e lui sorrise. Era soltanto un convenevole, una delle tante sparate nello strano andamento della serata che includeva anche i grilli, tre rane e un rumore di baci clandestini. I non accoppiati tornarono quasi subito riferendo che l’unico bar era pieno di tedeschi e che il whiskey non valeva niente. Quello che era stato piú sprezzante con le lezioni di nuoto si sedette ai suoi piedi dicendole quant’era carina. Le chiese particolari sulla sua vita, sul lavoro, sugli studi che aveva fatto. Un atteggiamento amichevole che serví solo a rafforzare il suo senso di solitudine, il suo isolamento. Rispose a ogni domanda in modo serio e meticoloso. Rispondendo assecondava il desiderio di inserirsi. Lui le dava l’impressione di essere un po’ geloso, perciò si alzò e lo raggiunse. Nemmeno lui era veramente uno di loro. Si divertiva soltanto a fare il direttore artistico. Lei lontano dagli altri riusciva quasi a raggiungerlo. Sembrava stretto da un nodo che lei forse, forse, era in grado di sciogliere, per un lungo tratto, vivendo la loro vita, coltivando una vera emozione, indipendente dagli altri. Ma si sarebbero mai allontanati? Non osava chiederlo. A quel tipo di discorsi le toccava sopperire con il silenzio.


Lei entrò di nascosto nelle varie camere a cercare indizi delle loro identità private, a vedere se avevano portato cerotti, pillole per l’indigestione, salviette per il viso, cose di ordinaria amministrazione. Su un comò c’era un portaparrucca con dei capelli biondi arricciati ad arte. Sulla faccia erano sparsi lustrini colorati che riproducevano i tratti di un’antica regina egiziana. La divorziata aveva un cuscinetto da neonato in una scatola di mussolina gialla. Alcuni avevano portato delle bottiglie di vino rimaste intatte dov’erano. La servitú toccava solo quello che veniva gettato in terra o messo nel cestino dei rifiuti. I vestiti da lavare venivano gettati in terra. Era una delle regole della casa, come l’aperitivo in terrazza la sera. Qualcuno aveva scritto cartoline che lei lesse avidamente. Le cartoline dicevano soltanto che era tutto superlativo.


La segretaria di lui, un’introversa, la evitava. Forse sapeva troppo. I progetti che lui aveva per il futuro.


Lei scrisse al proprio medico:


Sto prendendo i tranquillanti ma non mi sento per niente rilassata. Potrebbe mandarmene altri?


Strappò il foglio.


La salsedine le arruffava i capelli. Comprò un arricciacapelli.


Una, che era incinta, passava la giornata a spruzzarsi e spalmarsi il talco per bambini sulla pancia. Prendevano sempre il tè insieme. Erano amiche. Lei pensò: «Se questa donna non fosse incinta sarebbe cosí affabile?» Il loro modo di pensare cominciava a mettere radici dentro di lei.


L’istruttore le passò una corda sopra la testa. Lei se la fece scendere fino alla vita. Sentirono un qua qua. Lei era sicura che l’avesse intonato la papera di plastica. Rise sistemandosi il nodo scorsoio. Rise anche l’istruttore e afferrò saldamente la corda. Lei si dimenò nell’acqua cercando di non pensare a dov’era. Certe volte ci riusciva bene; certe volte doveva essere trascinata come un legno vecchio. Non riusciva mai a prevedere il risultato di un’immersione; non sapeva mai come sarebbe andata o quali pensieri l’avrebbero improvvisamente ostacolata. Ma ogni volta lui diceva: – Benissimo, benissimo, – e in quell’esuberanza lei trovava consolazione.


Una che si chiamava Iris raggiunse a nuoto il loro yacht. Rimase in acqua aggrappata con una mano al fianco dell’imbarcazione. Lo smalto era perfetto e le unghie avevano il lucore denso, intenso di una perla. Il bianco castigato delle lunule contrastava con lo smalto perlaceo. Anche la sua personalità era cosí: piena di lucore. Riservò un sorriso a ciascuna faccia, e un paio di parole a chi conosceva già. Uno dei maschi le chiese se era innamorata. Ma quale amore!, lo rimbeccò. Disse che il buonumore le veniva dalla respirazione. Disse che nella vita tutto sta a respirare correttamente. Era andata per invitarli a bere qualcosa ma lui rifiutò perché dovevano tornare a casa. Avevano invitato a pranzo il suo avvocato. La donna gli rimproverò di essere troppo impegnato, poi tornò a nuoto verso la riva dove il suo barboncino l’aspettava fra i guaiti. A pranzo parlarono tutti di Iris. Accennarono alle sue trascorse scappatelle, alle liti col marito, alla morte di lui, si diceva per suicidio, e alla faccenda incresciosa della sepoltura, che non si era potuta tenere in suolo consacrato. Alla fine l’avevano seppellito nel piccolo recinto attiguo al cimitero pubblico. Una storia spiacevole, eppure a pavoneggiarsi nell’acqua c’era una donna radiosa che non dava segno di aver sofferto.


– Sí, Iris ha una forza d’animo incredibile, incredibile, – disse lui.


– Per che cosa? – chiese lei dal capo opposto del tavolo.


– Per vivere, – disse lui in tono caustico.


Agli altri non sfuggí. Lei sentí i muscoli della mascella contrarsi.


Si fece un discorsetto, rimproverandosi quel dolore: «Ci provo, ci provo, voglio inserirmi, far parte del gruppo, essere una che s’insinua tra la folla di manifestanti a manifestazione cominciata, ma in me c’è qualcosa che chiamerei buonsenso e si ritrae davanti ai vostri modi. Si direbbe che sto qui soltanto per farmi ferire dalle vostre critiche». Rifugiandosi nei sogni e nel monologo.


Posò per una foto. Posò accanto alla signora scolpita. Imitò la posa della signora. Le mani sovrapposte poggiate sulla spalla sinistra, la testa inclinata verso le mani. Lui scattò. Clic, clic. La signora di marmo era stata moglie dello scultore ed era morta in circostanze tragiche. Le mani con le unghie di una lunghezza innaturale erano la parte migliore. Clic, clic. Mentre lei non guardava, lui ne scattò un’altra.


Trovò il libro contabile in un cassetto della scrivania e le voci che vide la stupirono. Bisognava dare conto di cose come il latte e i fiammiferi. Pensò: «Sarà generoso, di fondo?» La governante aveva lasciato un lavoro di cucito nel libro. Aveva abitudini antiquate e avversava molti degli strumenti da cucina moderni. Teneva il latte in piccoli bricchi con il coperchietto di mussolina. Levava la panna con le dita cicciottelle, versava la panna nelle piccole caraffe per il caffè del mattino. Chissà loro cosa avrebbero detto! La sera, dopo aver sbrigato tutti i compiti, la governante si sedeva nella veranda sul retro con il marito a rammendare. Sul tetto avevano poggiato dei rami di pino che crescendo erano diventati forti come cavi. Il marito ricavava delle figure dai pezzi morbidi di legno bianco giovane e quand’era buio metteva via il temperino e si sollazzava con la moglie. Lei li sentiva quando entrava di nascosto a prendere i fichi in frigorifero. Era commovente e disdicevole allo stesso tempo.


L’istruttore mollò la corda. Lei si fece prendere dal panico e smise di usare gambe e braccia. L’acqua la stava sommergendo. L’acqua la travolgeva. Sapeva che stava urlando in modo convulso. All’istruttore toccò buttarsi in acqua, coi vestiti e tutto. Dopo si sedettero nella stanza della biancheria a bere brandy con una coperta addosso. Giurarono di non dirlo a nessuno. A lui il brandy salí dritto alla testa. Disse che di sicuro in Inghilterra pioveva e la gente faceva la fila per prendere l’autobus e gli brillarono gli occhi perché aveva la fortuna di trovarsi all’estero.


Piú di un ospite si chiamava Teddy. Uno dei Teddy le disse che la mattina, prima che la moglie si svegliasse, leggeva Proust nello spogliatoio. Cosí poteva masturbarsi. Come se le avesse detto che sentiva la mancanza del bacon a colazione. A colazione c’erano frutta e uova strapazzate. Il bacon era una rarità sull’isola. Lei disse ai bambini piú grandi che la papera di plastica era paranormale e aveva squittito. Loro risero. Una risata vera, che però si trascinò a lungo dopo che lo scherzo era finito. Una bambina disse: – Vuoi che ti racconto una storiella sporca? – I maschi sembrava che volessero impedirglielo. La bambina disse: – C’era una volta una signora, e un cieco suonava ogni sera alla sua porta per chiederle una moneta, e un giorno mentre era nella vasca da bagno suonarono alla porta, lei si mise la vestaglia, aprí e vide che era il lattaio, poi tornò nella vasca da bagno, suonarono alla porta ed era il panettiere, poi alle sei suonarono alla porta e lei pensò: «È inutile che mi metto la vestaglia, tanto è il cieco», e quando aprí la porta il cieco disse: «Signora, sono venuto a dirle che ho recuperato la vista» –. E la risata che non si era mai del tutto spenta ripartí daccapo, riecheggiando. Non si sentivano insetti né canti d’uccello lungo il viottolo. Doveva tenere d’occhio l’orologio. La sera i bambini cenavano prima. Mangiavano nella veranda sul retro e lei spesso andava a rubare un’acciuga o un pezzo di pane per evitare di ubriacarsi troppo a digiuno. La cena poteva tardare all’infinito. Dipendeva da lui, se si annoiava o meno. Ogni sera per l’aperitivo c’era qualche ospite in piú venuto dalle case vicine. Movimentavano la scena. Si parlava di navigazione e di velocità, oppure di giardini, oppure di piscine. Sembravano tutti incuriositi da quegli argomenti, perfino le donne. Uno patito della neve sapeva dov’erano le migliori superfici innevate ogni settimana di ogni anno. Quello era un argomento che non la annoiava troppo. Almeno era bello pensare alla neve, friabile e azzurra, come diceva quell’uomo, che raschiava sotto gli sci. Spesso si sentivano i bambini urlare, ma dopo l’aperitivo sparivano dalla circolazione. Lei era convinta che il matrimonio e i figli avrebbero aggiustato le cose. Le avrebbero permesso di farsi accettare. Che impostura: creaturine minuscole generate senza sforzo che cementano un rapporto, eppure era cosí. Accennavano tutti a quanto lui desiderasse un figlio maschio. Era sulla soglia dei sessanta. Lei aveva smesso di prendere gli anticoncezionali e lui aveva smesso di chiederglielo. Forse era cosí che lui decideva le cose o che la accettava, finalmente.


Portarono in tavola uova di gabbiano, già sgusciate. Gli albumi di un giallo delicatissimo. – Dove sono i gusci? – chiese la cicciona velata di crespo. Dovettero portare i gusci. Erano ridotti quasi in polvere ma li portarono lo stesso. – Dove sono i nidi? – chiese lei. Come non detto. Se l’avessero sentita forse avrebbero riso, ma si era alzato il vento e stavano correndo tutti a portare la roba dentro. Il vento infuriava. Strappò i gerani dalle foglie e fece impazzire le fiamme delle candele, che presero a soffiare di qua e di là nei portacandele di vetro. Quella notte fecero l’amore con tutta la dolcezza e il sollievo che deve provare la terra ricevendo la sospirata pioggia. Lui era un altro uomo, con un’altra voce: amorevole, intima e incantatoria. La sua freddezza, il suo rifiuto per lei quasi inconcepibili. Forse, se avessero litigato, le liti, come il sesso, li avrebbero avvicinati. Ma non litigavano mai. Lui sosteneva di non aver mai litigato con nessuna delle sue donne. Lei ne dedusse che aveva lasciato le mogli quando il rapporto si era esaurito. Lui non lo disse, ma lei sentiva che doveva essere stato cosí perché una volta le aveva detto che tutti i suoi matrimoni erano stati felici. Che con i maschi aveva avuto degli scontri ma non gli erano dispiaciuti. Aveva un rapporto piú profondo con i maschi; con le donne era affascinante ma era un fascino concepito per tenerle a bada. Non aveva fratelli né figli maschi. Il suo era stato un padre tiranno che l’aveva privato dell’eredità piú a lungo del dovuto. Questo lei lo venne a sapere da uno dei maschi, che lo conosceva da quarant’anni. Il padre l’aveva fatto soffrire, e tanto. Lei non sapeva come né poteva chiederglielo, perché erano notizie che non sarebbero mai dovute arrivarle all’orecchio.


Dopo la gita alle grotte romane, i bambini tornarono a casa affamati. Un bambino protestò perché il cibo era freddo. La domestica colse il lato simpatico e lo riferí al padrone, e a pranzo si sbellicarono tutti dalle risate. La storiella fu ripetuta varie volte. Lui le lanciò una voce per chiederle se l’aveva sentita. Certe volte si rivolgeva esclusivamente a lei. Erano i rari casi in cui gli ospiti intravedevano il legame fra loro. Sí, l’aveva sentita. – Carina, carina, – disse. Ormai quella parola figurava spesso nel suo repertorio. Stava imparando la loro lingua. E il loro servilismo. Lontano da casa, dove pascolava il bestiame. Il bestiame aveva interi campi per vagare, e una vasca d’acqua vicino alla casa. La terra intorno alla vasca dell’acqua sempre smossa, sempre sudicia a furia di calpestarla. Erano gente di campagna, loro, il pasto principale era il pranzo, e litigavano. Il padre era sparito una sera dopo cena, aveva detto che andava a contare il bestiame, si era portato una torcia e nessuno l’aveva piú visto. Gli altri le avevano consolate, ma lei e la madre sotto sotto erano contente. Forse si era suicidato in uno dei tanti laghi paludosi nei dintorni, o aveva cambiato nome e si era trasferito in una città. In ogni caso non aveva fatto buffonate come impiccarsi a un albero.


Stava a pancia in su mentre l’istruttore la portava per tutta la piscina, tenendole una mano sotto la spina dorsale. Il cielo di un azzurro innocente e senza macchia, con le scie dov’erano passati gli aerei. Lei lasciò ricadere la testa all’indietro. Pensò: «Se dovessi abbandonarmi del tutto, sarebbe un piacere e una conquista», ma non ci riusciva.


Le mimose pendevano dagli alberi come bucce di banana annerite. I maschi le raccoglievano la mattina presto e le mettevano nei sacchi per il foraggio invernale. Nel fienile dove riponevano i sacchi c’era puzza di marcio. E una vecchia macina per le olive. Nella stanza della biancheria lí accanto, un buon odore di bucato. La servitú usava troppa candeggina. Il colore dei vestiti perdeva intensità dopo un solo lavaggio. Lei si sedeva sempre nell’una o nell’altra stanza a leggere. Andava nella biblioteca a prendere un libro. Lui era seduto su una delle sedie Regency foderate di bordatino. Come su un trono. Una sedia era originale e l’altra una copia ma lei non riusciva mai a distinguerle. – Ti ho vista ieri, per poco non andavi sotto, – disse lui. – Ho ancora un bel po’ di lezioni, – disse lei, e si allontanò come previsto, ma senza il libro che era andata a prendere.


La figlia che lui aveva avuto dal terzo matrimonio aveva il vitino di vespa. La prima sera indossò un tailleur pantaloni bianco. Stava a gambe larghe e le piegoline si aprivano a fisarmonica. A tavola si sedette accanto al padre guardandolo con la dovuta adorazione. Lui raccontò la storia di una pericolosa caccia al leopardo. Per l’occasione venne servita aragosta. Le code di aragosta s’inarcavano da un coperto all’altro stabilendo un contatto molto piú cordiale della conversazione. Lei si sforzò di ricordare una cosa che aveva letto quel giorno. Aveva scoperto che a tavola riusciva a rendersi simpatica grazie a quello che imparava a memoria.


– Il gorilla mangia, beve o si gratta per superare l’ansia, – disse piú tardi. Risero tutti.


– Ma va’, – disse lui con un ghigno. Le venne da pensare che se fosse diventata troppo sicura di sé a lui non sarebbe piaciuto lo stesso. O forse l’aveva detto per rassicurare la figlia.


In certi momenti acquistava sicurezza. Dentro di sé sapeva quali movimenti doveva fare per solcare l’acqua. Non ci riusciva, ma sapeva cosa andava fatto. Muoveva le mani sotto il tavolo, cercando di fare incursioni sempre piú profonde nell’atmosfera. Non se ne accorgeva nessuno. Non riusciva a togliersi dalla testa la parola «plancton». Ne vedeva fitte masse, grigie e sinuose, le infiacchivano le dita. Ne sentiva quasi il sapore.


L’ultima moglie aveva cucito una scacchiera da backgammon verde e rossa. Era bellissima. La cicciona giocava con lui dopo cena. Proseguivano il gioco da una sera all’altra. Erano molto contenti di giocare. La donna sfoggiava ogni volta una diversa combinazione di anelli e lui non mancava mai di ammirarli e di complimentarsi con lei. Era particolarmente affascinante con chi non aveva il dono della bellezza.


Il suo arricciacapelli fece saltare l’intero sistema elettrico. Gli altri uscirono di corsa dalle stanze per sapere cos’era successo. Lui non lasciò trapelare la rabbia ma lei l’avvertí. La mattina dopo dovettero spedire un telegramma per far venire l’elettricista. All’ufficio dei telegrammi c’erano due impiegati, uno piegava i foglietti azzurri, l’altro metteva la colla con un pennello sottile, poggiava dei bordini bianchi sull’azzurro e premeva con le mani. Sulle strisce bianche erano già stampati il nome e l’indirizzo. Nell’ufficio c’era una motocicletta, per proteggere gli pneumatici dal sole, o per evitare che la rubassero. Quando bisognava mandare un telegramma, i due facevano a turno. Lei risparmiò all’uno o all’altro un viaggio perché mentre aspettava arrivò il telegramma di uno degli ospiti andati via. Diceva semplicemente: «Tutto meraviglioso, Harry». Gli ospiti dimenticavano puntualmente qualcosa e nelle lettere di ringraziamento indicavano le cose dimenticate. Secondo lei alcuni dei cappelli infilati uno dentro l’altro e appoggiati sul davanzale di pietra erano cappelli dimenticati o gettati via. Si era affezionata moltissimo a uno verde che aveva perso i nastrini.


L’istruttore chiese di essere portato in un negozio di souvenir. Comprò un soprammobile di vetro e un collare per il suo cane. Al ritorno il benzinaio regalò un uccello a uno dei bambini. Lo misero nella cappella. Gli fecero il nido. La domestica lo buttò col nido e tutto nel secchio della spazzatura. Quella sera a cena non si parlò d’altro. Lui ricordò la storia del suo pesce e la raccontò ai nuovi arrivati: una mattina gli era toccato abbandonare l’arpione perché si erano aggrovigliati i fili e il giorno dopo, tornando, aveva scoperto che lo squalo si era rintanato nella grotta e aveva in bocca due grossi pezzi di scoglio, chiaramente azzannati per liberarsi. La cosa l’aveva molto colpito.


– La nave prende il nome da tua madre? – chiese lei alla figlia. La madre si chiamava Beth e la nave si chiamava Miss Beth. – Lui non l’ha mai detto, – rispose la figlia. Spariva sempre dopo pranzo. Forse per fare un favore a loro due. Nonostante il caldo s’incaponivano ad andare nella camera di lui. Come s’incaponivano a essere inventivi. Lei provò uno stelo verde e robusto, per eccitarlo, e ne rimase ammirata, paragonandolo a lui. Lui guardava. Non sopportava la concorrenza. Lei, la testa all’ingiú a un soffio dal pavimento, vedeva tutti gli oli e le pomate sulla mensolina del bagno di lui e cercava di leggerne le etichette al contrario. Mi piace fare cosí spesso l’amore?, si chiese. Le toccò ammettere che forse non le piaceva, che andava troppo per le lunghe, che lei cercava il coinvolgimento, il coinvolgimento e la minaccia.


Si scambiarono i sogni. Era stata lei ad avere l’idea. Cominciò lui. Stavano tutti attenti ad assecondarlo. Lui disse che in un sogno perdeva un cane e gli dispiaceva da morire. Per un attimo sembrò che volesse dire di piú ma non lo fece, o non ci riuscí. Anzi, ripeté la stessa cosa. Quando toccò a lei, raccontò un sogno diverso da quello che intendeva raccontare. Un piccolo sogno breve e senza complicazioni.


La notte sentiva un’ospite singhiozzare. La mattina quella stessa ospite indossava una vestaglia di fuoco e lodava la marmellata, che mangiava con parsimonia.


Lei chiese di aumentare il numero di lezioni. Arrivò a tre al giorno e non andava in barca con gli altri. Tra una lezione e l’altra passeggiava in riva al mare. I tronchi di pino erano chiari, come se li avessero passati al tornio. I venti invernali erano il tornio. In inverno si sarebbero trasferiti; per rimettersi in pari con gli amici, le riunioni d’affari, le mostre d’arte, per comprare regali, fare spese. Lui odiava le valigie, gli piaceva trovare i vestiti ad aspettarlo ovunque andasse, e li trovava. Lei vide un guardaroba con i vestiti invernali riposti con ordine, vide il mantello di lana grezza con il bavero di astrakan nero, e le venne una nostalgia fortissima per quella stagione impossibile, per quella città impossibile, e per il corpo di lui dentro il mantello mentre uscivano al freddo per andare a teatro. Camminando in riva al mare faceva mentalmente i movimenti del nuoto. Dominavano i pensieri. Invadevano i sogni. Sogni atroci sulla madre, il padre, e uno dove lei era stesa su un’amaca circondata da cuccioli di leone. I cuccioli aspettavano solo che accennasse un movimento per saltarle addosso. L’amaca, ovviamente, era instabile. Ogni volta che si svegliava da uno di quei sogni era sicura che le sue grida riproducessero le grida dell’infanzia, e allora mangiava i fichi che aveva portato di sopra.


Lui le mise un fazzoletto, ripiegato come una lettera, davanti al piatto sul tavolo. Aprendolo lei trovò dei ramoscelli di menta fresca, freddi e con le foglie grandi. Li aveva sicuramente messi prima in frigorifero. Lei li annusò e li fece girare. Poi s’alzò d’impulso e andò a dargli un bacio e tornando indietro per poco non inciampò nella domestica con la zuppiera in mano, tanto era su di giri.


L’istruttore le era amico. – Stiamo vincendo, stiamo vincendo, – diceva. Camminava dall’alba in poi, camminava per le colline e vedeva la terra coperta di rugiada. Si metteva in testa un fazzoletto che legava sopra le orecchie ma, avvicinandosi alla casa, se lo toglieva. Lei lo incontrò durante una di quelle camminate mattutine. Il grande momento si avvicinava e lei non riusciva a dormire né a fare l’amore. – Stiamo vincendo, stiamo vincendo –. Lo diceva sempre, dovunque si incontrassero.


Uscirono per andare a comprare gli sciacquadita. Nella fabbrica del vetro c’erano dei ragazzi magri con la pelle bianchissima che afferravano i pezzi di vetro con l’attizzatoio e li ficcavano nei forni. C’era un forte odore di legna. I ciocchi erano impilati negli angoli. In cima al muro avevano praticato dei buchi circolari tra una finestra quadrata con le grate e l’altra. Il tetto era alto eppure sembrava di essere in una fornace. Cinque gattini con la coda da topo erano ammassati in un cumulo immobile. Un ragazzo si lavò in un secchio d’acqua e raccolse i gattini uno a uno immergendoli dentro. Lei la prese per una gentilezza. Dopo le depositò davanti una bolla azzurra rovente all’estremità di un attizzatoio. Col placarsi della fiamma divenne malva e, raffreddandosi un po’ di piú, quasi incolore. Era a forma di serpente marino, con la coda di una lunghezza innaturale. Il colore e l’aspetto definitivo erano casuali mentre il regalo era chiaramente intenzionale. Lei non poté fare altro che sorridere. Quando se ne andarono trovò il ragazzo ad aspettare vicino alla macchina e lei, salendo a bordo, gli accennò un vago saluto. Quella sera c’erano gli asparagi, perciò si erano presi il disturbo di cercare gli sciacquadita. Erano azzurri con tante piccole bolle, e anche se le bolle forse erano un difetto davano a quel vetro spesso un che di arioso.


C’era un cane nuovo, un bastardino, che lo lasciava indifferente. Disse che i domestici prendevano nuovi cani per il semplice fatto che destinava dei soldi anche per loro. Ma siccome non avevano nessuna voglia di dar da mangiare a piú di un animale, il cane dell’anno prima l’avevano ucciso o abbandonato sulla montagna. Erano tutti cani della stessa specie, mezzi lupi; lei si domandò se quando li lasciavano in montagna tornassero lupi. Lui dichiarò solennemente a tutti i commensali che non si sarebbe mai permesso di affezionarsi a un altro cane. Lei gli chiese senza mezzi termini: – È possibile stabilirlo in anticipo? – Lui disse: – Sí –. Lei capí di averlo innervosito.


Lui venne tre volte e dopo tossí tantissimo. Lei gli si sedette accanto e gli accarezzò la schiena, ma quando la tosse prese il sopravvento lui si allontanò. Si piegò in avanti, tenendo un cuscino contro la bocca. Lei vide un film dei suoi polmoni, forme arancioni con intarsi scuri che presagivano la malattia. Avrebbe voluto fare una cosa semplice e domestica come dargli la medicina, ma lui la mandò via. Tornando dalla terrazza sentí gli uccelli. Gli uccelli erano indaffarati con il canto. Incontrò la cicciona. – Ti hanno mandato a spasso, – disse, – anche a me –. E fecero un inchino scherzoso.


Un archeologo era stato agli scavi dove avevano scoperto un tempio di legno. – Raccontami del tempio, – disse lei.


– Direi che è del Quattrocento avanti Cristo, – disse lui, nient’altro. Asciutto asciutto.


Un ragazzo che si chiamava Jasper e portava camicie color malva riceveva lettere a nome John. Le lettere erano distribuite sul tavolo nell’ingresso, una pietra su quelle di ognuno. La madre di lei scrisse che aspettavano con ansia la buona notizia. Si augurava che prima si fidanzassero ma ammise di essere pronta a sentirsi dire che il matrimonio era già avvenuto. Sapeva quanto lui fosse imprevedibile. La madre dirigeva un’azienda avicola in Inghilterra ed era una mangiatrice compulsiva.


Arrivarono dei ragazzi a chiedere se c’era Clay Sickle. Erano vestiti di stracci, ma sembravano stracci consumati a bella posta che miravano a fare colpo. Le scarpe erano pezzi di copertone tenuti insieme con lo spago. Scesero tutti dalla macchina, anche se per fare la domanda ne bastava uno. Lui stava tornando dalla piscina e dopo aver chiacchierato con loro due minuti li invitò a cena. Traeva linfa dalle persone nuove. Quella sera la ribalta fu tutta loro: i tre ragazzi scarmigliati e la ragazza dai capelli lunghi. La ragazza aveva occhi folgoranti, che puntava ora su un maschio ora sull’altro. Era decisa a comprometterne uno. I ragazzi parlarono della loro vacanza, dei soldi finiti, dei guai con la macchina, che apparteneva a una ditta di vendite rateali londinese. Dopo cena ci fu un imprevisto. La ragazza seguí uno dei maschi in bagno. – Voglio vedere cos’hai lí sotto, – disse, e insistette per guardarlo mentre faceva pipí. Disse che potevano scopare come gli pareva. Disse che sarebbe stato un coglione a non provarci. Era troppo tardi per metterli alla porta perché oramai li avevano invitati a dormire e i letti erano pronti nella stanza della biancheria. La ragazza fu l’ultima ad andarci. Si mise a cantare una canzone: – Tutt’intorno al cazzo ha un eczema tricolore, – e continuò a urlarla mentre attraversava il cortile e scendeva le scale, brandendo una bottiglia.


La mattina lei decise di nuotare da sola. Non è che non si fidasse dell’istruttore, ma si avvicinava il grande momento ed era disperata. Andando alla piscina vide spuntare uno dei ragazzi che mangiava una banana, con un paio di calzoncini bianchi presi in prestito. Lei lo salutò con allegria esitante. Lui disse che era divertente stare fuori prima degli altri. Aveva la testa grande e i capelli rasati, il collo corto e il naso larghissimo.


– È soprattutto sulle spiagge che voglio stare, dove tutto ha avuto inizio, – disse il ragazzo. Lei pensò che si riferisse alla creazione, ma quello sentendoglielo dire sbottò in una risata profana. – Mettiamo che un gruppo di ragazzi cazzeggiano con una palla e hanno tutte le dimensioni sensoriali attive…


– Eh? – fece lei.


– Un’erezione…


– Ah…


– Allora, la palla finisce in acqua e io la seguo e lei segue me e mi toglie la palla di mano e una fitta pioggia di energia, di amore, se vuoi, passa da me a lei e viceversa, una reciprocità in altre parole…


Idiota sentenzioso. Lei pensò: «Perché alla gente piace stazionare sotto il suo tetto? Dove ce l’ha il giudizio quell’uomo, dove?» Rientrò in casa, furiosa per aver sprecato l’occasione di nuotare.


Cara mamma,

non è quel genere di rapporto. Sposata o non sposata ho gli stessi privilegi e in nessuno dei due casi ho qualche certezza. La casa è bellissima ma stare qui è davvero un’impresa. Ti massacrano come se niente fosse. Succede, tra amici. Si mangia bene. Cucinano gli altri ma il menu del giorno è una mia responsabilità. Per fare la spesa ci vogliono ore. I negozi hanno un odore particolare impossibile da descrivere. Sono tutti bui, cosí la roba non va a male. Una vecchia gira le strade con un carretto per vendere il pesce. Fa un urlo molto penetrante. Sembra l’attacco di una canzone. Con lei ci sono sempre sei o sette bambine, tutte con i fori alle orecchie e una bella tutina dorata. Intorno al carretto sciamano le mosche, anche quand’è riposto in verticale nella piazza. Si vede che si nutrono di scarti e di squame. Noi non compriamo da lei, andiamo al porto a comprare direttamente dal pescatore. Gli ospiti – tutti tranne una – mangiano piccole porzioni. Tu non lo sopporteresti. Tutti pezzi da novanta. Hanno un istinto di conservazione imbattibile; sanno quanto mangiare, quanto bere, fin dove spingersi; si direbbe che l’hanno inventato loro Shakespeare, tanto si sono impossessati del suo genio. Non sono mica scemi, anzi. C’è una scacchiera cosí grande da non aver bisogno di un tavolino. Intorno ci hanno messo delle sedie dell’altezza giusta.

Tanto tempo fa, nella mia lontana infanzia, mamma, ricordo che la notte tossivi; in realtà era piú un lamento e lo odiavo. All’epoca non sapevo di odiarlo e questo dimostra quanto siano inaffidabili i sentimenti. Non sappiamo quello che proviamo sul momento, è sconcertante. Perdonami se ho accennato a quella tosse, è solo che secondo me ormai è tempo di parlare senza peli sulla lingua di qualsiasi cosa. Ma sta’ tranquilla. Tu sei secoli avanti rispetto alla gente che c’è qui. In parole povere, se uno è inoffensivo passa per idiota. Ci sono leggi della giungla che non mi hai mai insegnato; e come facevi: non le conoscevi nemmeno tu. Vabbè!

Ti porterò un regalo. Probabilmente un capo scamosciato. Lui dice che qui con l’ago sono un disastro e che le cose cadono a pezzi ma puoi sempre farle aggiustare. Avevamo degli stampini di porcellana per la gelatina cosí belli quand’ero piccola. Che fine hanno fatto? Con affetto.

Come la lettera al dottore, non fu imbucata. Non è che la strappò, rimase lí nella busta e passarono i giorni senza che la spedisse. Quella nuova tendenza la turbava. L’abitudine di rinviare tutto. Sembrava che prima dovesse concludere qualcosa di vitale. Attribuí la colpa al nuoto.


Il giorno in cui svuotarono la piscina saltò le tre lezioni. Sentiva gli operai sfregare, ogni tanto scendeva a piantonarli come se bastasse la sua presenza a velocizzare i lavori e a riempire la vasca d’acqua con un solo getto miracoloso. Lui si accorse che stava sulle spine, disse che avrebbero dovuto far costruire due piscine. Le chiese di andare in barca con loro. I libri e l’olio solare erano dove li aveva visti la prima volta. Le scogliere stuzzicanti come sempre. – Ciao, scogliera, posso cadere dalla tua cima? – ne salutò allegramente una. In un porticciolo videro un altro milionario con la sua ragazza. Erano soli, senza nemmeno l’equipaggio. Chissà perché le si strinse il cuore. A cena i maschi scommisero su chi fosse la ragazza. Ne commentarono la bellezza anche se l’avevano appena intravista. L’acqua che riempiva la piscina faceva il rumore di un ruscello su una collina lontana. Lui disse che la mattina dopo la vasca sarebbe stata piena.


Le altre case avevano oggetti bellissimi ma la loro era imbattibile quanto a buongusto. La cosa che a lei piaceva di piú era il lampadario di ottone opaco venuto dal Portogallo. La sera quand’era acceso i coni di luce si affusolavano verso le travi del soffitto ricordandole il fumo di legna e l’incessante frullio delle ali d’uccello. Votivi. Per farle piacere lui teneva un fuoco acceso in una stanza lontana semplicemente per diffondere l’odore di legna bruciata nell’aria.


La zuppa di crescione che doveva essere una specialità sapeva di acqua salata. Nessuno diede la colpa a lei ma dopo rimase seduta al tavolo a chiedersi come mai fosse venuta male. Si sentiva sconfitta. Su richiesta lui portò un’altra bottiglia di vino rosso ma le chiese se era sicura di voler bere ancora. Lei pensò: «Non capisce i miei meccanismi mentali». Ma del resto non li capiva nemmeno lei. Era ubriaca. Sollevò il bicchiere. Guardando il vino, lasciando che si inclinasse da una parte all’altra, si chiese quanto sarebbe stata ubriaca una volta in piedi. – Racconta, – disse, – cos’è che ti interessa? – Era la prima domanda a bruciapelo che gli avesse mai rivolto.


– Tutto, direi, – disse lui.


– Ma nel profondo, – disse lei.


– La scoperta, – disse lui, e se ne andò.


Non la scoperta di sé però, pensò lei, quella proprio no.


Un neurologo si ubriacò e suonò jazz all’organo della cappella. Disse che non resisteva, c’erano tante di quelle cose da pigiare. L’organo era irrigidito dall’inattività.


Lei andò a dormire presto. Il giorno dopo doveva nuotare per loro. Pensò che lui sarebbe andato a trovarla. In tal caso si sarebbero stesi a parlare una fra le braccia dell’altro. Lei gli avrebbe massaggiato quel povero scroto consumato facendogli domande sul mondo sottomarino dove lui si immergeva ogni giorno, gli avrebbe chiesto di quegli abissi e se laggiú ci fossero fiori di sorta, e lui per raccontarglielo sarebbe stato costretto a raccontarle di sé. Lei continuava a sperare che l’organista si addormentasse. Sapeva che non l’avrebbe raggiunta finché ogni singolo ospite non fosse andato a dormire, perché aveva una strana reticenza riguardo al suo amore.


Ma la musica continuava. Anzi, il musicista acquistava impeto e vigore. Quando finalmente si addormentò, lei aprí le persiane. Le luci della terrazza erano tutte accese. La notte immobile senza una bava di vento. Di là dai campi veniva lo sciabordio del mare e poi lo scampanellio di una pecora, incerto e intercettato. Perfino una pecora riconosceva la notte fonda. Il faro lavorava affidabile come un battito cardiaco. Il cane era steso sulla poltrona, addormentato ma con le orecchie tese. Su un’altra poltrona c’erano maglioni, libri e asciugamani, resti delle attività giornaliere. Lei guardò e attese. Lui non si fece vedere. Rimpianse di non poterlo cercare la sera in cui aveva piú bisogno di lui.


Per la prima volta pensò ai crampi.


La mattina prese tre pillole per il mal di testa e le mandò giú con un caffè bollente. Si disintegrarono in bocca. Dopo le annaffiò con l’acqua brillante. Non c’era lezione perché si sarebbe esibita nel nuoto subito dopo colazione. Provò un costume da bagno, poi un altro; poi, rendendosi conto di quanto era assurdo, mise di nuovo il primo che aveva indossato e rimase in camera finché non fu quasi ora.


Scendendo in piscina scoprí che l’avevano preceduta tutti. Formavano un bel pubblico: i venti ospiti della casa e sei bambini indispettiti costretti a uscire dall’acqua. Perfino la governante stava in piedi sulla panchina di pietra sotto l’albero, per avere una buona visuale. Alcuni sorridevano, alcuni erano un po’ in imbarazzo. La donna incinta le diede una medaglietta come portafortuna. Era attaccata a una spilla. Allora erano amiche. L’istruttore era all’inizio della piscina, la corda legata intorno alla vita per ogni evenienza. I bambini erano gli unici a dare leggerezza a quel momento. Lei si girò al contrario e scese la scaletta senza guardare nessuna faccia in particolare. Si accovacciò immergendosi fino alle spalle poi fece un balzello e si abbandonò. Capí quasi subito che ce l’avrebbe fatta. Le mani, non piú restie a immergersi a fondo, spalavano l’acqua e le gambe scalciavano con una ferocia che non credeva possibile. Sapeva di rendersi ridicola ma non le importava. Nuotò, come promesso, da un lato all’altro dell’estremità dove si toccava. Fu di una brevità patetica ma i patti erano quelli. Dopo un bambino disse che aveva il viso distrutto. I fiori di gomma si erano staccati ormai da un pezzo dalla cuffia, lei se la sfilò, si raddrizzò e si aggrappò alla scaletta. Gli altri applaudirono. Dissero che bisognava festeggiare. Lui non disse niente ma lei capí che era contento. L’istruttore era il piú felice di tutti.


Per organizzare la festa andarono nello studio, dove potevano sedersi e stilare gli elenchi. Lui disse che avrebbero ordinato gitani e fiori e avrebbero servito il caviale nei cigni di vetro pieni di ghiaccio. Lei non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla. Avrebbero incaricato qualcuno. Scrissero in tutto venti telegrammi. Lui le chiese come si sentiva. Lei ammise che tra saper nuotare e non saperlo fare c’era un abisso. Erano due sensazioni inconciliabili. Il vero brivido, disse, era stato quando aveva capito che ce l’avrebbe fatta ma il corpo non l’aveva ancora assecondata. Lui disse che non vedeva l’ora che entrasse e uscisse dall’acqua come un coltello. Fece un abile movimento con la mano. Disse che ora doveva imparare a cavalcare. Gliel’avrebbe insegnato lui stesso o gliel’avrebbe fatto insegnare da qualcuno. A lei tornò in mente la giumenta castana con la testa sollevata, le narici che fiutavano l’aria e lei che non riusciva ad accarezzarla, non riusciva a starle vicino senza sprizzare paura.


– Tu non hai paura di niente? – gli chiese, troppo spaventata per entrare nel merito dell’incontro con la giumenta, avvenuto nella stalla di lui.


– Certo, come no.


– Non lo dài mai a vedere.


– Lí per lí sono troppo spaventato.


– Ma dopo, dopo… – disse lei.


– Cerchi di metterci una pietra sopra, – disse lui e la guardò affrettandosi ad abbracciarla. Lei pensò: «Non dev’essere mai stato piú vicino di cosí a un essere vivente, eppure non è tanto vicino, non è vicino affatto». Sapeva che, se lui l’avesse scelta, non avrebbero sondato la parte profonda della piscina, quella che lei temeva e sognava. Lui quando si trattava di interiorità non correva rischi.


Era stanca. Stanca della vita in cui aveva scelto di avventurarsi e delusa dall’uomo che aveva messo su un piedistallo. Una stanchezza che veniva da dentro e, come un respiro profondo che fuoriesce lentamente, le strappava le viscere. Era stanca del proprio debole per la tirannia. Le sembrava di accostarsi sempre le persone all’orecchio, come la madre si accostava le uova, scuotendole per verificare se fossero marce ma, a differenza della madre, lei sceglieva proprio quelle che avrebbe fatto bene a buttare via. Lui parve intuire la sua tristezza, ma non disse niente; la tenne fra le braccia stringendola ogni tanto per rassicurarla.


L’abito, regalato da lui, era steso sul letto, le ampie maniche bianche pendevano ai lati. Era traforato e aveva l’aspetto inquietante di un cadavere. C’erano uno scialle, le scarpe e la borsa. La cameriera stava aspettando. Accanto alla vasca da bagno il suo libro, un portacenere, le sigarette e una confezione a libretto di cerini difficili da accendere. Accese una sigaretta e aspirò a fondo. Rimpianse di non essersi portata da bere. Aveva una gran voglia di bere e gustò mentalmente quello che avrebbe bevuto. La cameriera si inginocchiò per mettere il tappo. Lei le chiese di aspettare a far scorrere l’acqua. Poi prese l’asciugamano piú grande, lo mise sopra il costume da bagno, uscí in corridoio e scese le scale di servizio. Non c’era bisogno di accendere le luci; avrebbe saputo arrivare alla piscina anche bendata. I giocattoli erano tutti in acqua, come animali della fattoria appena messi a letto. Lei li prese uno a uno e li appoggiò sul bordo vicino alla pila di bottiglie di cloro vuote. Si girò al contrario e scese la scaletta.


Nuotò nella parte dove si toccava, lasciando che l’orribile pensiero venisse a galla. Pensò: «Lo faccio o non lo faccio», e quei due pareri opposti parvero confermare l’idea che non fosse cosí importante. Chiunque, anche il bambino piú piccolo, l’avrebbe persuasa a non farlo perché non ne era convinta. Sembrava semplicemente piú facile, tutto qui, piú facile dello sforzo, dell’amore incompleto e delle gite che si prospettavano.


– È questo che voglio, è qui che voglio andare, – disse, tenendo a freno la parte di lei che si sarebbe messa a urlare. Scese una volta in profondità, e si sottomise, l’acqua raccolta tutt’intorno in un grande, bellissimo, generoso battesimo. Scendendo in quella regione fredda ed elettrizzante pensò: «Non lo sapranno mai, non lo sapranno mai e poi mai con certezza».


A un certo punto cominciò a lottare e a dibattersi, e urlò, anche se non poteva sapere dove sarebbero arrivate le sue urla.


Riprese i sensi a terra, accanto alla piscina, ottenebrata e con la nausea. Aveva un dolore lancinante al petto, come se una cesoia le lacerasse le viscere. Con lei c’erano la servitú, due ospiti e lui. I riflettori intorno alla piscina erano accesi. Si portò le mani ai seni per esserne sicura; sí, era nuda sotto la coperta. Dovevano averle strappato il costume. Era stato chiaramente lui a farle la respirazione bocca a bocca, perché aveva l’affanno e le maniche arrotolate. Lo guardò. Lui non sorrise. Si sentiva una musica, forte, allegra e animata. Le tornò in mente prima la festa e poi tutto il resto. Quella piacevole vaghezza la abbandonò e guardò lui, vergognandosi. Guardò tutti quanti. Che cosa aveva urlato mentre la riportavano in vita? Quali pensieri aveva espresso in quei momenti cruciali? Quanto c’era voluto? La preoccupazione piú immediata fu che non la portassero in casa, doveva impedire quell’ultimo smacco. Ma non ci riuscí. Mentre lui e il giardiniere la trasportavano vide i fiori, le ostriche, i piatti in gelatina e i maialini arrosto su tutte le tavolate, come il banchetto di un sogno, solo che era spaventosamente lucida. Rimasta sola in camera sua vomitò.


Per due giorni non si fece vedere al piano di sotto. Lui mandò una pila di libri e ogni volta che l’andava a trovare le portava qualcosa. Professava grande interesse per i romanzi che lei aveva letto e le chiedeva di raccontargli la trama. Quando si decise a scendere, gli ospiti furono educati, disinvolti e sempre infidi, ma ora in aggiunta erano anche cauti e profondamente contrariati. I loro modi lasciavano intendere che aveva commesso un gesto stupido e agghiacciante, e se fosse andato a buon fine li avrebbe coinvolti tutti in quello stupido e agghiacciante pasticcio. Lei avrebbe tanto voluto tornare a casa senza commiati. I bambini la guardavano e ogni tanto ridevano apertamente. Un maschietto le disse che una volta suo fratello aveva cercato di annegare nella vasca da bagno. A parte questo e l’inevitabile lettera al giardiniere, non se ne fece parola. Il giardiniere era quello che l’aveva sentita gridare e aveva dato l’allarme. Ai loro occhi era un eroe.


Andavano meno a fare il bagno. Pianificavano la partenza. Avevano la scusa pronta: il lavoro, il tempo che era cambiato, le prenotazioni aeree. Lui le disse che sarebbero rimasti finché non se ne fosse andato l’ultimo ospite, dopodiché sarebbero partiti subito. La segretaria avrebbe viaggiato con loro. Lui le chiedeva ogni giorno come stava ma poi, quand’erano soli, leggeva o faceva un solitario. Sembrava calmo, a parte gli occhi lucidi come se avesse la febbre. Erano occhi giovani. L’azzurro sembrava intensificarsi appena la rabbia veniva resuscitata. Era sgarbato con la servitú. Lei sapeva che al ritorno a Londra avrebbero trovato due auto separate ad aspettarli all’aeroporto. Era piú che naturale. La casa, le pietre calde del lastricato, lo scintillio dell’acqua di sicuro ogni tanto si sarebbero riaffacciati alla memoria; di lui invece si sarebbe dimenticata, riponendolo nella soffitta della mente, dove si apposta la sconfitta.

Peccatori


Erano rientrati. Madre, padre e figlia. Delia era rimasta sveglia per sentirli rincasare, ma tanto sarebbe stata sveglia comunque visto che il sonno con l’andare degli anni si faceva sempre piú desiderare. Qualche volta si addormentava senza neanche accorgersene, poi si svegliava in quell’ora infelice che precede l’alba e, andando alla finestra, vedeva il cane sbucare da sotto la siepe, sintonizzato sul primo rumore quasi impercettibile proveniente dalla casa, e rivolgerle uno sguardo d’intesa che le chiedeva di scendere, aprire la porta di servizio e offrirgli il solito piattino di tè al latte.


Ogni tanto prendeva una pillola, ma essere schiava dei farmaci la terrorizzava, come la terrorizzava l’idea che un giorno non avrebbe piú potuto permetterselo. Durante quelle veglie a occhi spalancati pregava, o cercava di pregare, ma la preghiera, al pari del sonno, si era ridotta ai minimi termini, proprio ora che lei avrebbe dovuto avvicinarsi di piú al santissimo Creatore. Le preghiere ormai sgorgavano soltanto dalle labbra e non piú dall’intimo. Aveva perso quel rapporto viscerale che un tempo la legava a Dio.


Perciò la notte, sveglia, si aggirava mentalmente per la casa pensando alle migliorie che col tempo avrebbe apportato: la carta da parati nuova nella stanza buona, dove quella rosa attuale era sporca intorno agli infissi della finestra, chiazze marrone dovute alla costante umidità. Poi la stanza vuota dove conservava le mele, con la carta da parati attaccata alla rovescia sopravvissuta per anni senza che mai un ospite si accorgesse che ghiande e colibrí erano girati dalla parte sbagliata. Poteva sostituire anche quella, cosí imparavano i buzzurri che l’avevano attaccata male. A Delia non piaceva prestare il fianco alle critiche. Neanche a farlo apposta il giorno in cui era stata attaccata lei aveva consultato una cartomante giú in centro per una certa questione e quella le aveva detto che tornando a casa avrebbe trovato gli uccelli e le ghiande all’incontrario, e come ci era rimasta male scoprendo che era vero. In altre zone della casa prefigurava migliorie piú spartane: una nuova striscia di linoleum dietro la porta d’ingresso, magari, per proteggere le piastrelle dalle pedate lasciate da scarponi e stivali di gomma. Lavare in terra cominciava a pesarle, specie all’altezza dei reni. Poi c’erano tante piccole cose basilari, come asciugamani, tovagliette e strofinacci nuovi. Gli strofinacci puzzavano di latte, per quanto li tenesse a bagno e li facesse bollire. Avevano una puzza acida, di guasto.


Il senso che Delia aveva piú sviluppato era l’olfatto e quella mattina, all’arrivo degli ospiti paganti, si era accorta che madre e figlia avevano lo stesso profumo, uguale e identico, anche se non sembravano avere nient’altro in comune. La figlia, Samantha, era una strafottente con i capelli color caramello che socchiudeva gli occhi come se pensasse a un problema matematico, mentre in realtà pensava esclusivamente: «Guardatemi, viziatemi». Quei capelli lunghi erano la sua arma vincente e ci spazzolò tutto il tavolo esaminando la carta da parati o la foto sopra la scansia con i mici che cercavano di avvicinare le lancette dell’orologio all’ora della pappa. Insistette perché i genitori assaggiassero la torta glassata, che secondo lei era buonissima. La tariffa includeva soltanto la stanza e la colazione ma a Delia piaceva accogliere i nuovi ospiti con una tazza di tè e il dolce appena sfornato di turno. La gonna corta metteva in risalto le cosce di Samantha, sembravano due robuste colonne di torrone dentro le calze di pizzo color crema. Le scarpe bicolori avevano l’allacciatura laterale. La madre, bruna e paffuta, aveva il vizio di toccare la figlia ogni volta che un accesso di esuberanza la faceva schizzare in piedi. Il padre fumava la pipa. Era un bell’uomo, alto e riservato, sembrava un professore di chissà che cosa.


Dopo il tè e il dolce avevano chiesto se potevano avere un cestino da picnic con panini e uova sode in vista di un’eventuale gita in barca. Lei aveva spiegato che forniva soltanto la stanza e la colazione, per i pasti dovevano arrangiarsi da soli.


Quando rientrarono, dopo mezzanotte, sentí che salendo facevano: – Shhh, shhh, – di continuo. Usarono il bagno a turno. Lo capí da come si muovevano e le toccò ammettere che si prodigavano per non fare rumore finché… uno schianto: si era rotto qualcosa. Doveva essere il portaspazzolini di porcellana. Quel portaspazzolini le piaceva tanto, era color crema con scanalature verdi e piccole ghirlande di trifoglio, e le venne una gran voglia di alzarsi e affrontarli a muso duro ma qualcosa la frenò. E poi non aveva la vestaglia. Chissà se loro erano in vestaglia. La donna forse sí, e l’uomo in maniche di camicia. Quel portaspazzolini le sarebbe mancato, l’avrebbe rimpianto. Gli oggetti, non aveva altri seguaci ora che tutto il resto non c’era piú o era disseminato in giro. Lo sapeva eccome che col tempo l’amore dei figli tra alti e bassi si stempera e, piú o meno come un vestito lavato e rilavato, alla fine conserva giusto un’idea del colore originario. La loro figlia, la loro Samantha, non sarebbe stata da meno e al primo diversivo, un fidanzato o chissà cos’altro, avrebbe preso la fuga.


I genitori avevano la stanza blu, che era stata la sua camera matrimoniale, quella dov’erano nati i figli e dove, con gli anni, aveva dormito il meno possibile, facendo visita al marito solo quand’era costretta e lavandosi e sciacquandosi con cura subito dopo. Cinque figli bastavano e avanzavano per qualsiasi donna. Quattro disseminati in giro, uno morto, e una nuora che aveva trasformato l’unico maschio nella quintessenza della rapacità. Ma non doveva essere troppo severa con loro, troppo critica. Le femmine si ricordavano quando si ricordavano, mandavano regali, specie la piú piccola, e la prossima volta che le avessero chiesto cosa voleva per il compleanno avrebbe detto una vestaglia, cosí poteva affrontare gli ospiti nei momenti cruciali.


Lavorava soltanto d’estate, in parte perché era la stagione dei turisti ma anche perché, con i prezzi del gasolio, riscaldare tutta la casa d’inverno sarebbe costato uno sproposito. E poi non voleva mai nessuno per piú di due o tre notti, altrimenti era convinta che avrebbero alzato la cresta considerandosi a casa loro, aprendo armadi e cassetti dov’erano riposti i ricordi del suo passato, i fazzoletti con le massime ricamate, l’abito da ballo col bolerino lavanda e il ventaglio di mussolina nera con il manico di ebano. L’altro motivo era piú recondito. Temeva di affezionarsi, di invitarli a trattenersi di piú, per avere compagnia. Con il ricavato degli ospiti estivi apportava migliorie alla casa e al giardino, concedendosi come unico lusso una grande scatola di biscotti alla crema e ai lamponi, che per lei erano una specie di mania.


Sí, la coppia era nel suo letto matrimoniale, un grande letto con la testiera scricchiolante di quercia e la trapunta rosa che aveva fatto lei con le sue mani durante il fidanzamento, cucendoci dentro tutti i suoi sogni. Li immaginò, il tipo del professore con moglie paffuta, stesi fianco a fianco, i quadrati rigonfi della trapunta che si alzavano e si abbassavano a ogni respiro, e le tornò in mente che stringeva fortissimo quella coperta quando il marito infuriava su di lei amandola senza amore. Con gli anni si era un po’ ingentilito, diventando il marito che lei avrebbe voluto all’inizio, e dopo i cinquantacinque anni non si era piú avvicinato alla bottiglia, ragion per cui lei lo viziava preparandogli il tè a tutte le ore del giorno e della notte.


Probabilmente Samantha anziché dormire si aggiustava le sopracciglia o spazzolava la lunga cascata di capelli, li spazzolava lentamente, magari studiandosi allo specchio dell’armadio, ammirando quel suo personalino sodo e paffuto dentro la camicia da notte corta. Quand’erano usciti per andare a cena Delia aveva curiosato in camera loro. Le valigie non le aveva aperte, per correttezza, ma aveva esaminato alcune delle loro cose: il filo di perle della donna, i cosmetici e una retina per i capelli marrone scuro poggiata di soppiatto accanto alle pipe del marito, pipe di legno in vari colori con un involto rigonfio di tabacco molliccio. I soldi, soldi inglesi, erano divisi in due pile ordinate, i soldi di lui e i soldi di lei, immaginò. Sul comò della ragazza c’erano solo una spazzola, i cotton fioc e un flacone di olio per bambini. La camicia da notte rosa trasparente poggiata sul cuscino dava l’impressione di essere viva, o di contenere una bambola.


Il sonno non si decideva a venire.


Si alzò con l’intenzione di andare a vedere il portaspazzolini rotto, ma appena arrivata alla porta qualcosa glielo impedí. Si vergognava di farsi sentire da loro, era come se fossero diventati i padroni di casa. Qualcosa in quei tre non la convinceva, erano legati da una confidenza eccessiva e non facevano che vantare quella magnifica vacanza, già, qualcosa le dava proprio sui nervi. Passeggiò per la stanza. Non poteva andare a passeggiare in corridoio, come faceva di solito, e mettere la mano sulla fredda statuetta di gesso della Vergine chiedendo protezione.


Successe mezz’ora esatta dopo che erano rientrati. Sentí uno scricchiolio, poi la porta della ragazza si aprí lentamente e lei pensò che dovesse andare in bagno, invece la sentí dirigersi in punta di piedi verso la camera dei genitori, poi bussare, con piccoli colpetti, piano e per scherzo, non come una bambina che si sente male o è agitata, non come una bambina che ha paura del buio o è innervosita da un corvo finito nel camino, macché, e a Delia bastarono pochi secondi per mangiare la foglia. Il disgusto le irrigidí tutto il corpo. Sentendo la ragazza entrare nella stanza scese dal letto, portò la mano alla maniglia, aprí pianissimo e attraversò il ballatoio scalza, puntando nella loro direzione senza però sapere cosa avrebbe fatto. La casa era tutt’orecchi. I tre non parlavano ma lí dentro succedeva qualcosa di agghiacciante, tra sussurri, sogghigni e risolini. Delia non vedeva, ma i suoi occhi sembravano trapassare la porta di legno come fosse trasparente, e se li immaginò: mani, bocche, arti, tutto un cercarsi fra di loro. Non avevano osato accendere la luce. La ragazza probabilmente era nuda e arrendevole, si lasciava coccolare, e l’uomo la coccolava in un modo, la donna in un altro, e Delia non ci mise troppo a capire che quell’obbrobrio sarebbe sfociato in un’orgia. Avrebbe dovuto entrare e coglierli sul fatto: l’uomo, signore del suo harem, a cavalcioni su una ragazza che tutto era fuorché sua figlia, e la donna a dare manforte, perché era il modo piú sicuro per tenersi stretto il marito. Altro che la figlia. Magari era un’autostoppista a cui avevano dato un passaggio, o forse avevano pubblicato un annuncio, dissimulando sapientemente le parole, sul giornale locale, nelle Midlands inglesi, dove vivevano, almeno cosí avevano detto. C’era un attizzatoio in quella stanza, era dentro il secchio per il carbone, rimasto lí dopo il suo ultimo parto trent’anni prima, e per poco non lo prese per fracassarlo su quei corpi nudi e ruzzanti. Che cosa la trattenne non lo sapeva nemmeno lei. Aveva tutti i buoni motivi per entrare eppure temporeggiava. Poi si levarono le esclamazioni, su tre tonalità diversissime: alta e compiaciuta quella della donna, inerme quella della ragazza, quasi un pianto, poi ecco l’uomo, un somaro nel bosco con le sue amanti. Delia tornò di corsa in camera e si sedette sul bordo del letto, tremante. Da una scatoletta rotonda nel cassetto del comodino prese a tentoni un sonnifero che era color turchese proprio come il mare di una cartolina che la figlia minore una volta le aveva spedito dalla Costa Azzurra. Per parsimonia lo divise in due, li divideva sempre in due. La polvere aveva un gusto amaro sulla lingua, venefico, e lei non aveva un bicchiere d’acqua per mandarla giú.


Venne il sonno, accompagnato da un profluvio di sogni. Era con un gruppo di donne che stavano per essere fotografate da due uomini dichiaratamente rivali che battibeccavano e si spintonavano per sbarazzarsi l’uno dell’altro. Al momento di scattare la foto veniva ordinato a tutte di svestirsi, solo che lei non poteva, non voleva. Rifiutava categoricamente di togliersi il corpetto, che era di ruvido lino grezzo. Quella accanto a lei, nella quale riconobbe Ellie, la sarta del paese, invece si spogliava, pavoneggiandosi come una poco di buono. Poi all’improvviso il sogno cambiò. Era sola in una grande chiesa, regale ma assai profana. I santi Giuseppe, Giuda, Antonio e Teresa il piccolo fiore erano tutti privi degli indumenti e, come se non fosse già abbastanza sacrilego, il prete intonava canzoni sconce da osteria. Poi ecco arrivare un chierichetto tutto impettito in rosso cardinalizio e bere il vino da un calice. Lei per tutto il tempo rimaneva convinta che non fosse un sogno, invece lo era. Svegliandosi di soprassalto ripensò subito agli ospiti paganti, ai loro ansiti, all’obbrobrio e al fatto che le toccava friggere pancetta, uova e salsicce per la loro ributtante colazione.


Si vestí in fretta e furia, armeggiò con le calze, che non salirono con la dovuta rapidità, e usò degli austeri pettinini per tirare indietro i capelli.


La colazione era pronta in tavola: la frittura, una teiera piena, un bricco di acqua bollente e un barattolo di caffè istantaneo. Aveva anche lasciato un piattino di mandarini. Dovevano servirsi da soli. Spesso si tratteneva con gli ospiti mentre loro facevano colazione, scoprendo cosí posti lontanissimi: le barriere coralline, l’Australia dai tanti climi contrastanti o la Table Mountain di Città del Capo, dove dicevano che la condensa stendesse una tovaglia di nuvole sopra l’altopiano. Con quella gentaglia invece non ci voleva parlare, non si affacciò nemmeno a chiedere se desiderassero altro pane tostato o un altro po’ di caffè.


Fu mentre se ne andavano che si vendicò. Eccoli lí, il ritratto dell’innocua famigliola con bagaglio al seguito, la madre una valigia di tela nera, la ragazza uno zaino azzurro e il marito una ventiquattrore di cuoio. Avrebbero dovuto pagare una sola stanza, disse, visto che, le era parso di capire, avevano usato tutti la stessa. Si accorse che avevano accusato il colpo ma, tanto per esasperarla, facevano finta di niente. Il marito le diede una banconota da cinque sterline, altre da una e qualche spicciolo, coprendo cosí il costo delle due stanze. Lei insistette per restituirgliene una parte ma lui non volle, e neanche la moglie. Allora s’indispettirono. Il marito digrignò i denti per il fastidio e la moglie lamentò la penuria di asciugamani in bagno, quanto poi allo sciacquone, capriccioso e antidiluviano, era passato di moda con l’Arca di Noè. La figlia sghignazzava succhiando minuscole mezzelune di mandarino. Alla fine il marito le ficcò le tre banconote e gli spiccioli nel tascone del grembiule e lei, decisa a non farsi surclassare, li lanciò come un lazo sul viale di brecciolino. Le monete luccicavano sotto il sole splendente del mattino.


Ormai avevano oltrepassato il cancello e i genitori stavano caricando i bagagli nel baule quando la figlia tornò di corsa indietro a raccogliere le monete e le fece la linguaccia con una sfrontatezza da schiaffi.


L’auto era scomparsa da un pezzo quando Delia si decise a distogliere lo sguardo. Poi si lasciò cadere sull’erba e si mise a piangere. Pianse dal profondo del suo essere. Perché piangeva? Perché piango, si chiese a voce alta. Non era per loro o per il disgusto che le aveva lasciato quella notte. Aveva a che fare con lei. Il suo cuore era murato da tanto di quel tempo che ormai aveva dimenticato le piccole cose, i piccoli piaceri, quel dare e avere che è la vita. Aveva dimenticato perfino i propri peccati.


L’erba era morbida, setosa e non troppo secca, nutrita dalla pioggia e da qualche sprazzo di sole.

I re della pala


Su un bavero aveva una piccola arpa verde e oro, sull’altro un angelo in volo. La giacca blu aveva conosciuto tempi migliori. Portava un cappello di feltro nero e le spirali di capelli bianchi gli scendevano quasi fino alle spalle. La pelle era olivastra mentre le enormi mani avevano un colore nocciola scuro, sulla destra una nocca sbilenca dovuta senz’altro a qualche infortunio. Sopra, al polso, portava un largo cinturino nero. L’età era indefinibile e sembrava che gli fosse calato addosso un gelo perenne. Beveva la Guinness lentamente, sollevando il bicchiere con misurata solennità. Eravamo al Biddy Mulligan’s, un immenso pub nella zona nord di Londra, era la festa di San Patrizio e il clima era carico d’attesa. I grandi striscioni con la scritta BUON SAN PATRIZIO addobbavano le pareti e numerosi televisori a schermo piatto trasmettevano le immagini della madrepatria, mostrando colline, valli, laghi, cittadine minuscole e i momenti clou degli eventi sportivi diventati leggendari nel corso degli anni. Le piccole lampade votive del tutto simili ai lumini del Sacro Cuore, inchiodate negli angoli a varie travi di legno, in quel giorno cruciale avevano un che di talismanico. Eravamo soltanto in tre: io, l’uomo silenzioso e una squinternata dai capelli arruffati che farfugliava da sola.


Adrian, il giovane barista, riportava sulla lavagna le delizie che si prospettavano: un bicchierone di Jameson a meno di metà prezzo, assaggini gratuiti di stufato irlandese e di torta di mele. Il proprietario aveva anche lasciato una scatola piena di sciarpe verdi e cappelli di lana verde riservati ai clienti abituali. Adrian, che era giovane e simpatico, mi chiese se volevo un altro caffè e si domandò se il tipo silenzioso, che lui chiamava Rafferty, desiderasse fare il bis in onore della ricorrenza. Clodagh, l’aiutante giovane e tutta pepe, non era affatto contenta che Adrian si abbandonasse alla nostalgia mettendo Galway Shawl a ripetizione nel juke-box.


Mi avevano servito un caffè pessimo ma, essendo in anticipo a un appuntamento, mi trattenni lo stesso e presi il giornale appoggiato su un tavolo libero accanto al mio. Disastri e scandali a tutta pagina. Riportavano anche che in una provincia della Cina settentrionale c’erano stati nuovi disordini; un’attrice era stata immortalata mentre l’aiutavano a uscire ubriaca da un locale notturno; un’altra foto la ritraeva all’arrivo, appena qualche ora prima, con un abito bianco attillatissimo e tacchi pericolosamente alti. Un ostaggio rilasciato in chissà quale foresta africana dopo sessantasette giorni di prigionia sembrava stordito dall’orda di giornalisti che lo attorniava. Guardai le previsioni del tempo a New York, dove avevo trascorso spesso il giorno di San Patrizio nel turbinio di gente che acclamava carri allegorici e gruppi musicali, sentendomi stranamente sola in mezzo a tanti festeggiamenti.


Avevo appuntamento con un dottore che vedevo ormai da quasi un anno e che si era appena trasferito in quella zona meno salubre di Londra lasciando l’abitazione di Primrose Hill, probabilmente perché gli affitti erano saliti alle stelle. Quella sarebbe stata la mia prima volta nella nuova dimora ed ero un po’ terrorizzata, in parte perché, a mio modo di vedere, in quell’altro studio con le pile di libri, il camino acceso e un clima informale del tutto inconsueto fra paziente e analista avevo lasciato qualche frammento di me. Me ne stavo lí seduta con un occhio fisso all’orologio sulla parete a controllare e ricontrollare il nuovo indirizzo, chiedendo a Adrian dove fossero determinate vie per essere doppiamente sicura di non sbagliare strada. Sí, Adrian conosceva il mio dottore, e sentendo che era stato lí varie volte ne dedussi che non disdegnava farsi un goccio.


Clodagh nel frattempo si dava da fare con un grembiule verde smeraldo, recitando una poesiola a beneficio di tutti:


Boxty alla piastra

Boxty in padella

Se non mangi il boxty

Non trovi il tuo bello.

La luce proveniente dalle lastre di vetro piombato ballava sulla sua ombra mentre lei svolazzava da un tavolo all’altro, celebrando il miracolo di quel pane alle patate che chiamano boxty e passando lo straccio sui tavoli marrone rotondi insudiciati da anni e anni di birra scura.


Dopodiché guarní le pinte appena spillate di Guinness con una tintura verde per riprodurre il simbolo del trifoglio, sotto lo sguardo di Rafferty che soffriva in silenzio. Nel locale irruppe un gruppo chiassoso adorno di leprechaun e ninnoli verdi d’ogni genere e capeggiato da una donna alta che aveva un trifoglio fresco ancora attaccato a un grumo di terra grassa. Disse con voce leggermente affettata di aver scritto varie volte al vecchio zio dopo Natale per ricordargli che la pianta non andava separata dalla terra e che non doveva dimenticarsi di spruzzarle un po’ d’acqua e di spedirla in una scatola bucherellata piena di terriccio.


– Che era, acqua santa, per caso? – sbraitò la squinternata.


– Tu sta’ zitta, – si sentí rispondere, al che sollevò un dito intimidatorio dichiarando: – Io stavo qua prima che voi nascevate.


Passando di mano in mano le piantine con un solo trifoglio sembravano un po’ abbacchiate.


Un secondo gruppo seguí a ruota il primo, e tutti si salutarono affettuosamente, spargendo cappotti e borse sui vari tavoli e accaparrandosi angolini tranquilli nelle varie alcove destinati agli amici che a loro dire li avrebbero raggiunti. Un giovane sbruffoncello con le basette e un giubbotto di pelle nera andò dritto alla slot machine, le luci verde lime e rosso ciliegia che lampeggiavano a intermittenza e i simboli luminosi che vorticavano a velocità tentatrice. Due ragazzotti, forse suoi fratelli, gli si piazzarono accanto a guardarlo con tanto d’occhi mentre infilava una moneta dietro l’altra nella macchinetta, e intanto aspettavano invano la pioggia sferragliante di monete, il piú giovane con un fazzoletto aperto pronto a ricevere la vincita. Il piú grande, che era cicciottello, si ficcava in bocca quadratini di cioccolato succhiandoli beato, mentre il terzo guardava con l’espressione afflitta di un monello.


Posai il giornale, e stavo annotando su un taccuino un paio di cose che forse avrei discusso col dottore quando rimasi sorpresa trovandomi davanti Rafferty che disse, quasi con timidezza: – Le spiace se mi riprendo il giornale? – Mi scusai e gli offrii da bere, ma lui si era già avviato, indifferente alla ressa sfrenata, assumendo una strana dignità ultraterrena quando sollevò il braccio per salutare Adrian.


Passarono tre o quattro settimane prima che scambiassimo di nuovo due parole.


– L’arpa che cosa rappresenta? – gli chiesi una mattina quando, com’era ormai consuetudine, mi offrí per scherzo il giornale.


– Dimostra che sono irlandese, – rispose.


– E l’angelo?


– Ah, quello è l’angelo custode… Tutti ne abbiamo uno, – disse con un mezzo sorriso rispettoso.


All’incirca sei mesi dopo il nostro primo incontro, m’imbattei in Rafferty per caso e ci salutammo come vecchi amici. Ero in Kilburn High Road, davanti a un negozio di mobili usati dove lui, accomodato su una poltrona di pelle, sorrideva ai passanti come un potentato. Era perfettamente a suo agio lí all’aria aperta, con le grandi nuvole bianche che veleggiavano pigre sopra di noi, circondato da sedie, tavoli, cassettiere, ferri per il camino, parafuoco, vasellame e cianfrusaglie varie.


Invitandomi ad accomodarmi disse che secondo il proprietario la sua presenza stuzzicava l’interesse per il negozio perché una volta che si era messo a cantare I’ll Take You Home Again, Kathleen i passanti si erano fermati ad ascoltare e, secondo lui, a dare una sbirciatina. Una donna lí accanto tirava sul prezzo di un setaccio sformato e una giovane madre cercava invano di togliere il figlio dal cavalluccio a dondolo a cui stava avvinghiato. La vernice bianca era scrostata in vari punti e l’aurea criniera era marrone sporco, ma per il bambino restava comunque un nobile destriero.


Rafferty si rollò una sigaretta, ripiegò il sacchetto del tabacco e, mosso da chissà quale ricordo interiore, cominciò a raccontarmi la storia del suo arrivo a Londra quarant’anni prima, un quindicenne venuto insieme al padre a Camden Town che non aveva mai visto un posto cosí strano e fuligginoso e pensava che perfino gli uccelli, i grossi piccioni che si aggiravano sgraziati, fossero finti. Vivevano in una stanzetta che il padre aveva affittato l’anno prima. C’erano un letto di ferro a una piazza, un materasso sottile, un lavandino e un fornelletto per farsi il tè.


La mattina dopo alla stazione della metropolitana di Camden, dov’erano parcheggiati camion e carri merci, i ragazzi aspettavano di essere assunti a centinaia, letteralmente, centinaia di irlandesi che speravano in un lavoro. Un caporale squadrò Rafferty dalla testa ai piedi e disse al padre che il ragazzo non aveva diciassette anni proprio per niente ma il padre mentí, insistendo che li aveva. I toni si accesero, volarono parole grosse su parenti di vario grado ma alla fine Rafferty fu invitato a salire su un camion, e ci salí. Ero convinto (disse Rafferty) che mi aspettasse un grande futuro, ma lo sguardo disperato dei ragazzi rimasti a terra era straziante, non lo dimenticherò mai.


Li portarono qualche chilometro piú a nord, dove un gruppo di giovani stava scavando una lunga trincea destinata a ospitare i cavi dell’elettricità. Le pietre del selciato erano già staccate e impilate. Appena li vide, disse Rafferty, non poté fare a meno di immaginare quegli uomini, per quanto giovani, condannati a scavare per l’eternità una tomba infinita. Gli diedero una pala e gli dissero di mettersi al lavoro. Era una pala con il manico corto, piú corto di quello delle pale che usava a casa per dissotterrare rape e patate, e la lama era tozza e squadrata. Cosí (disse) mi misero a scavare l’argilla blu di Londra, come la chiamavano all’epoca, blu per le fuoriuscite di gas e appiccicosa, talmente appiccicosa che ogni tanto toccava immergere la pala in un secchio d’acqua e poi ficcarla sottoterra per riuscire a smuoverla. I ragazzi in fila, a torso nudo per il caldo torrido, ognuno con un tot di metri da scavare, un metro e mezzo di larghezza per uno e mezzo di profondità. Il caporale con gli stivali di gomma verde faceva avanti e indietro, mettendoci una paura del diavolo. Un bruto, e un bruto irlandese, per giunta. Dopo un’ora che scavavo per poco non mi addormentai sulla pala e fu solo grazie a Haulie che non mi licenziarono. Mi coprí, reggendomi in piedi. Era di Donegal, diceva che le montagne e le strade in salita l’avevano reso d’acciaio, e che ci avrei fatto il callo. Lí accanto c’erano due tizi del Connemara che parlavano solo irlandese e non capivano una parola di quello che dicevano gli altri, però capivano il caporale e quant’era spietato. Non avevo fame, soltanto sete, e il bicchiere di latte alle dieci e mezzo fu una manna dal cielo. Il tè sobbolliva tutto il giorno in un grande secchio ma Haulie disse che sapeva di senna. Teddy Teiera era l’addetto alla sbobba e a cena c’erano cavoli e patate, solo che non ce la facevo proprio a mangiare. Quando la sera suonò il fischietto avevo le mani insanguinate e la schiena a pezzi. In camera mi addormentai come un sasso sul piccolo tavolo e mio padre mi buttò sul letto con tutti gli stivali e poi uscí.


Ogni giorno la stessa sfacchinata (continuò), ma parlavano e raccontavano storie per tenere alto il morale. Parlavano di qualsiasi cosa e tutto rimandava alla madrepatria. Un ragazzo fece morire tutti dal ridere quando, di punto in bianco, dichiarò che alle rape serviva il gelo per diventare dolci. Fu battezzato seduta stante Rapa O’Mara. I soprannomi cementavano il cameratismo, laggiú nelle trincee, erano una forma di fratellanza, noi contro di loro, contro quel mastino del caporale, gli appaltatori e i subappaltatori, che ai nostri occhi erano soltanto bruti, bruti allo stato puro. Capitava di trovare dei tesori. La leggenda narrava che uno aveva trovato un piatto romano che valeva centinaia di sterline e che un altro aveva riesumato una scatola di legno con dentro tre croci d’oro, portandole al banco dei pegni. Noi trovavamo soltanto le radici degli alberi, incastonate e vigorose, qualche roncola per il carbone e i rivestimenti marci delle tubature del gas che i prigionieri di guerra tedeschi avevano posato negli anni Quaranta. Il giovedí arrivava un tipo di Cork con un furgoncino verde e distribuiva i salari insieme a una guardia del corpo, sempre di Cork, che brandiva una mazza da cricket in caso di furto. Per un attimo gli uomini si sentivano re. Io prendevo quattro sterline e dovevo consegnarle a mio padre, che mi faceva scrivere una lettera a mia madre per dirle quant’ero contento e che mi ero adattato senza nessuna difficoltà alla vita londinese, tant’è che lei mi scrisse augurandosi che non prendessi l’accento inglese, sarebbe stato un tradimento.


In realtà non conoscevo un bel niente di Londra (disse Rafferty, quasi scusandosi), a parte le quattro mura della stanza, le molle rotte del letto, il tragitto per andare dove camion e carri merci prelevavano gli uomini e la grande cappella bianca, enorme, con tre altari, dove la domenica il prete irlandese tuonava i suoi sermoni. Ero pieno di paure, vedevo peccati ovunque. Se l’ostia della comunione mi toccava i denti, pensavo che fosse un peccato mortale. Dopo la messa prendevamo il tè con i biscotti spolverati di zucchero in sacrestia. Le domeniche erano orribili, percorrevi le strade in lungo e in largo guardando lo squallore delle vetrine dei negozi con tendine luride alle finestre di sopra e vecchie murature imbrattate di nero. Una domenica mio padre se ne andò prestissimo, mai saputo dove.


Avevamo un solo libro sulla mensolina in camera nostra. Era di Zane Grey. L’avrò letto decine di volte. Lo conoscevo cosí bene che mi sembrava di vedere i filari di salvia viola e di pioppi nello Utah, i fuorilegge, i cavalieri mascherati e i criminali che si inseguivano nelle praterie, specie in una zona che aveva lo strano nome di Deception Pass. Mi sa che giurai di andarci anch’io, perché mi mancava l’aria aperta, mi mancavano i vagabondaggi nei campi intorno a casa nostra e la caccia domenicale con un furetto bianco. La mia povera mamma scriveva come minimo due volte a settimana, implorando mio padre di tornare, dicendo che non ce la faceva a star dietro ai bambini e alla fattoria, a lavare i panni degli altri per pochi spiccioli e che, come se non bastasse, soffriva sempre piú di capogiri. Alla fine mio padre annunciò che sarebbe tornato a casa e, poco prima che partisse, successe una cosa. Eravamo in camera nostra quando la padrona disse che lo volevano al telefono, che era in cucina. Io pensai che fosse morta mia madre, e invece no, mio padre tornò fischiettando e sorridendo, mi diede mezza corona e mi disse di andare al ristorante italiano sul corso e di restarci finché non fosse passato lui a prendermi. Ci rimasi tre ore, ma di lui nemmeno l’ombra. Il locale stava chiudendo. Stavano girando le sedie sui tavoli e una donna aspettava, lo straccio già immerso in un secchio d’acqua, di lavare in terra. Quando tornai la porta della camera da letto era chiusa a chiave. Bussai, aspettai e bussai, e mio padre mi urlò di scendere nel giardino sul retro. Io invece passai dalla porta principale. Poco dopo una donna alta e bionda con una mantella uscí dalla nostra stanza. Non valeva una cicca rispetto a mia madre. Da come stava attenta a dove metteva i piedi, cosí alta e sprezzante, capii che si sentiva molto superiore a noi. Mi scoccò uno strano sorriso di sufficienza. Mio padre s’infuriò vedendo dov’ero. Non disse niente, si limitò a trascinarmi per i capelli in camera, mi calò le braghe e me le diede di santa ragione. Continuava a ripetere la stessa cosa all’infinito mentre mi prendeva a cinghiate: «Cosí impari… cosí impari cos’è l’onore… cosí impari cos’è l’ubbidienza… cosí impari cos’è il rispetto per quelli piú grandi di te. Cosí impari cosí impari cosí impari», fuori di sé perché l’avevo scoperto.


Mio padre era tornato a casa da un pezzo (continuò Rafferty) quando cominciai a frequentare il pub. Ormai mi sentivo piú indipendente. Andavo al caffè greco che avevamo ribattezzato Zorba a mangiare pancetta, uova e pane fritto. La cucina era alle spalle del bancone e i ragazzi irlandesi avevano insegnato a Zorba a lasciar perdere kebab e foglie di vite ripiene e a usare bene la padella per friggere. Dopodiché andavo dritto al pub The Aran, un vero paradiso, caldo, le lampade rosse sui tavoli, le chiacchiere e le battute, ti facevi una pinta, ti sedevi sullo sgabello, anche senza scambiare una parola. Le sere feriali erano tranquille mentre i fine settimana erano burrascosi, sempre una scazzottata, perché erano tutti ubriachi. Si faceva a cazzotti per niente, per una ragazza, per un levriero, per un risentimento, perché un caporale si era sbarazzato di sei uomini per assumerne altri della sua parrocchia, bastava una parola fuori posto e volavano i cazzotti. Prima dentro il pub, poi all’ingresso e alla fine in strada, i due pesi massimi che giuravano di scannarsi e noi a fare da spettatori ai due lati della strada, incitandoli, piú o meno come al tempo dei gladiatori. Quando le cose si mettevano veramente male e stavano per darsele a sangue qualcuno, di solito il proprietario, chiamava gli sbirri. Se arrivavano due sbirri a piedi non intervenivano. Restavano lí impalati, perché volevano vedere gli irlandesi massacrarsi fra loro. Odiavano i Paddy. Quando invece accostava un cellulare, i due che grondavano sangue venivano scaraventati nel retro, dove finivano di darsele prima di arrivare alla centrale. È cosí che ci siamo guadagnati la nomea di hooligan.


Bisognava essere tosti, sai (disse in tono di scuse), al lavoro e lontano dal lavoro, anche se dentro ti sentivi morire. La perdevamo a suon di sganassoni, la sensibilità. Anche se restava lí, in agguato. Una sera al bar (e la voce si fece solenne) vidi un adulto piangere. A una specie di veglia funebre. Erano una squadra di Hounslow, arrivarono scombussolati e si sedettero in silenzio, come fantasmi. Era successo qualcosa di catastrofico ed erano coinvolti tutti, perché l’avevano visto con i loro occhi. Un ragazzo che si chiamava Oranmore Joe era sulla scavatrice quando il montacarichi aveva ceduto ed era scivolata la leva. Lui se n’era accorto solo qualche secondo dopo, quando aveva visto il grosso secchio d’acciaio pieno di terra capitombolare nell’aria e schiantarsi su un tizio che stava di sotto. L’aveva stecchito mozzandogli la testa. Il finimondo. Caporali, ispettori edili, sbirri, un telo di plastica azzurra sul luogo dell’incidente, e agli uomini avevano detto di tornarsene a casa e di presentarsi al lavoro la mattina dopo. Non ci fu bisogno di vederlo (disse Rafferty), bastò sentirlo raccontare, dapprima a pezzi e bocconi e poi in modo dirompente, perché l’orribile spettacolo della testa recisa e degli occhi spalancati del ragazzo prendesse vita, spalancati, disse uno di loro, come quelli di una pecora dentro la pentola. La cosa peggiore era che Oranmore Joe e J. J., cosí si chiamava il ragazzo, venivano dallo stesso paesino, ed era stato proprio Joe a procurargli il lavoro. Per lui era come un fratello. Al pub si fece una colletta per mandare la salma a casa. I ragazzi diedero quello che potevano. All’epoca una sterlina era tanto ma nel berretto di tweed gettato sul bancone ne finirono varie. A partire da quella sera (disse Rafferty rammaricato) Oranmore Joe diventò un’altra persona. Non volle piú saperne di montare su un macchinario. La ditta ne comprò uno nuovo ma lui non volle saperne di salirci sopra. Faceva il lavoro a terra. Se ne stava seduto al pub, muto, con lo sguardo fisso. I ragazzi cercavano di tirarlo su, dicevano: «Sta’ tranquillo, Joe, sta’ tranquillo, non è colpa tua». Lui però era convinto del contrario. Lo vedevamo rimuginare all’infinito finché, una sera, eccolo che si presenta col vestito blu scuro e la valigia, e fischia, gira per il pub come uno che cerca il cane, chiama, guarda sotto gli sgabelli e sotto i tavoli, dopodiché sentiamo quello che sta dicendo. Sta dicendo: «Andiamo, J. J., ce ne torniamo a casa», e allora abbiamo capito, abbiamo capito che aveva perso la ragione, e che non l’avremmo piú rivisto. Era spacciato. – Non una, ma due vite perse, – disse Rafferty serissimo.


Nell’inverno del 1962, due anni dopo che il padre se n’era andato, per poco non fu costretto a seguirlo. La neve cominciò a cadere il giorno di Santo Stefano e continuò imperterrita per due settimane. Tutti i lavori all’aperto s’interruppero. Strade e marciapiedi erano ricoperti di ghiaccio, uno strato cosí spesso da rompere qualsiasi martello, e le trincee traboccavano di neve. Gli operai si ritrovarono a spasso senza salario e tanti decisero di riprendere il traghetto. La sua padrona di casa, una di Trinidad, lo graziò per qualche settimana e, mentre lui era al banco dei pegni a impegnare un paio di gemelli placcati in argento con una pietra viola, un colpo di fortuna gli fece incontrare Moleskin Muggavin. Moleskin cercava operai per ristrutturare un albergo giú a Kensington. Era un lavoro di ben altro tipo. Mettevi sabbia, terriccio, cemento e acqua nella tramoggia, e tutto stava a tirare fuori la miscela di cemento prima che sedimentasse, fintanto che era ancora fluida. Lui e Murph, un duo perfetto, piú facile, a sentire Rafferty, che spalare l’argilla blu di Londra, e senza caporali. Moleskin era il capo, girava con la matita dietro l’orecchio, ogni tanto faceva una scappata al pub dall’allibratore, convinto di avere l’estro per riconoscere un purosangue. Dopo il lavoro Rafferty accompagnava Moleskin in un cocktail bar accanto a un casinò. Lí, a suo dire, gli venne il debole per i cicchetti. Moleskin era pappa e ciccia con delinquenti d’ogni specie ed era pure amico di una divorziata che abitava in una grande casa intonacata di bianco con i gradini all’ingresso. Ogni sera verso le nove o le dieci riparavano lí, con le bottiglie di birra scura, trovando la divorziata che aspettava Moleskin in abiti verde pavone e fili di perle. Nell’ingresso c’erano le pattine di feltro marrone, perché avevano gli stivali incrostati di neve e ghiaccio bagnato. Quel feltro marrone (disse) gli ricordava un copriteiera che avevano a casa, dello stesso materiale, con sopra ricamato un cottage bianco dal tetto di paglia. Un’infilata di grandi stanze comunicanti, come tanti paradisi moquettati. Arrivavano sempre nel pieno di una festa, la gente che ballava e si sedeva in braccio agli altri, l’armadietto dei liquori spalancato, e il clou della serata era quando Moleskin si piazzava accanto al piano e si esibiva in un’interpretazione di I’m Burlington Bertie, I Rise at Ten Thirty. A mezzanotte entrava una ragazza vestita da pastorella suonando una campana che annunciava la cena. Prelibatezze austriache d’ogni genere: Wiener Schnitzel, gulasch, strudel di mele con marmellate speziate e, in onore dell’Irlanda, piedini di porco e cavoli bolliti.


I lavori all’albergo sarebbero dovuti durare come minimo nove mesi, invece purtroppo s’interruppero bruscamente il giorno in cui Moleskin menò Dudley, il figlio del capo, spedendolo in un letto di macerie fra due travicelli del pavimento. Dudley, con il cappotto Crombie e la sciarpa scozzese, si presentava senza preavviso per assicurarsi che non battessimo la fiacca. Era una pappamolla capace solo di osannare il paparino, tutto paparino di qua e paparino di là. Paparino era un grand’uomo, un buono. Paparino amava l’Irlanda al punto da prendere ogni giovedí sera un aereo e tornare a casa, dove calpestava il suolo irlandese riunendosi alla moglie e al resto della famiglia. Quel giorno in particolare, quando disse che paparino meritava una targa eretta in suo onore accanto al liberatore Daniel O’Connell e ai poeti famosi defunti, Moleskin sbottò dicendogli di piantarla con quelle fesserie.


Dopo la zuffa che ne seguí lui e Moleskin si tennero alla larga da Londra per svariate settimane. Moleskin conosceva uno che aveva una roulotte sulla spiaggia di Hove e si rifugiarono lí, sopravvivendo a pane e sardine. Spacciandosi per giardiniere paesaggista, Moleskin procurò a tutti e due un lavoro a cottimo e Rafferty (disse) si ritrovò di nuovo alla mercé della pala.


L’ultima volta che vide Moleskin fu una sera all’Aran dopo che il terreno gelato si era sciolto e lui lavorava per tutt’altra serie di appaltatori, salendo su un carro merci blu anziché marrone (disse). Moleskin si presentò con un impermeabile verde e dichiarò che stava andando via da Londra per occuparsi di una certa signora nel Lincolnshire, poi chiese soldi in prestito a tutti quelli che aveva davanti e promise di invitarli a un fine settimana di caccia.


Nel corso degli anni a Rafferty capitò di essere mandato a lavorare fuori Londra. Una volta vicino Birmingham, dove stavano facendo un’autostrada, e una volta fuori Sheffield, per la costruzione di una centrale elettrica. Gli operai vivevano in enormi campeggi, dormivano su materassi di paglia e si arrangiavano in una cucina comune. Io, però (disse con una certa timidezza), sentivo sempre la mancanza di Camden. Era a Camden che ero arrivato la prima volta e, anche se all’inizio mi consumavo gli occhi a furia di piangere e camminavo per quelle strade di una tristezza sconfortante, era lí che avevo messo radici. È strano, ma puoi attaccarti a un posto, o a una persona, anche se non ti piace particolarmente, e lui questa cosa l’attribuiva a un vizio per le abitudini tipico del genere umano.


Soltanto quando mi salutò per andarsene mi resi conto che ormai era buio. Le nuvole bianche di qualche ora prima avevano preso la fuga e una stella scintillava fievole nel cielo. La gente a piedi, in macchina e in bicicletta correva alla velocità folle che l’assale all’ora di punta, e Rafferty non aveva altro da dispensare. Gli offrii da bere ma né allora, né nel corso di tutto quell’anno in cui ebbi modo di conoscerlo, accettò mai il ruolo dell’ospite. Un ultimo vestigio d’orgoglio.


Dopo Natale, al pub, Rafferty era tutto allegro. Si era tagliato i capelli e sfoggiava un fazzoletto di seta bordò nel taschino della giacca. Era stato «via», per dirla con le sue parole. «Via» era appena qualche chilometro a nord, solo che per lui, confinato in quel raggio circoscritto, ogni spostamento era un’avventura. Ormai conoscevo un po’ i suoi movimenti. Ogni mattina beveva una pinta al Biddy Mulligan’s e la sera si ripresentava raddoppiando la dose. Durante il giorno camminava, avrebbe potuto raccogliere i moduli dei censimenti, diceva, se qualcuno l’avesse stipendiato. A mezzogiorno andava al Centro dove, insieme a tanti altri, riceveva un pasto caldo e un caffè. Roisin, la responsabile, era sua amica fidata e ogni tanto gli regalava una giacca o un pullover quando da un istituto di beneficenza di Dublino arrivava una partita per aiutare gli irlandesi bisognosi di Londra. Lui certe volte dava una mano in giardino e Roisin l’aveva arruolato per fornire consigli saggi ai ragazzi che rischiavano di finire male.


Natale l’aveva passato con Donal e Aisling al loro pub di Burnt Oak. Erano, disse, amici valorosi. La vigilia di Natale il pub aveva chiuso presto per intrattenere gli ospiti, ovvero lui, Clare Mick, che viveva sulla strada per Fulham, e Whiskey Tipp, che aveva avuto un ictus, ma per fortuna il cervello era rimasto illeso. C’erano anche gli inquilini del piano di sopra, tre irlandesi, un mongolo e un nero. Un vero paradiso, a suo dire. Andavi dietro il banco e ti spillavi da solo una pinta o quello che ti pareva. Le luci soffuse, le persiane d’acciaio chiuse, i canti natalizi alla radio – A Partridge in a Pear Tree –, bacon e cavolo per la cena della vigilia e poi, il giorno di Natale, a suo dire, un banchetto. Prima di mangiare Donal aveva piazzato una bottiglia di champagne davanti a ciascun ospite, anche se lui e Aisling non ne avevano toccato un goccio. Tra l’oca al forno, lo sformato di patate, quello di salvia e cipolle, le patate arrosto, i bambini che giocavano, i petardi, i cappellini di carta, le barzellette, gli indovinelli, le battute, quelle cene erano la quintessenza della felicità. Era cosí che t’immaginavi una casa, disse Rafferty, una malcelata mestizia nella voce.


Un appuntamento di marzo con il mio dottore venne spostato alla sera. Uscii che era buio e c’era la nebbia e le luci calde del pub erano proprio invitanti. Tutt’altra atmosfera rispetto a quella diurna. Era cosí animato e brioso che, entrando, mi sentii già un po’ ciucca. E poi era pieno di gente. A un grande tavolo rotondo c’era una festa di compleanno in pieno fermento e una ragazza obesa letteralmente sommersa di mazzi di fiori si gustava il ruolo di ospite d’onore. Mi feci largo verso il bancone dove c’era Rafferty in piedi e ordinai un bicchiere di vino bianco. Quando me lo diedero lui mi fece spostare a un altro bancone, dove nessuno beveva, per evitare la calca. Per un po’ non scambiammo una parola. Esaminammo invece lo schieramento di bottiglie ammassate sullo scaffale piú alto, le fiere etichette oro, nere o ruggine solcate da laboriose scritte e da blasoni, a conferma del loro lungo lignaggio. Sullo scaffale piú basso c’erano le bottiglie a testa in giú, il collo infilato nei dosatori di plastica trasparente. Ogni pub, disse Rafferty, usava misure diverse e Biddy’s era famoso perché su un bicchierino di whiskey o di vodka dava cinque millimetri in piú. Dopo averci riflettuto un attimo disse che bere ti spalancava un ventaglio infinito di possibilità, ti permetteva di fare qualsiasi cosa, almeno in teoria. E poi il tempo finiva nel nulla o piú precisamente, a suo dire, svaniva.


Il padre era tornato a casa da qualche anno quando la madre morí. Lui era convinto che fosse stato il padre a ucciderla, che l’avesse consumata. Il giorno in cui arrivò il telegramma con la brutta notizia, disse, lui uscí per andare a Victoria Station a prendere il pullman della Slattery’s che portava i passeggeri all’imbarco del traghetto a Holyhead. Non arrivò mai a destinazione. Lungo la strada si fermò a bere in vari pub, e i ragazzi gli facevano le condoglianze e gli dicevano cose sdolcinate, finché il giorno non diventò notte e il pullman partí senza di lui. Mi pentirò in eterno di non esserci andato, disse.


Ci mise un bel po’ a diventare schiavo del bicchiere, ma lo sapeva che era tutto collegato, era tutta la stessa pappa. Lavorava sei settimane e poi si sbronzava. Poi lavorava qualche giorno, rimediava gli spiccioli per il sidro e di lí a poco si ritrovò a spasso. Materassi sotto i ponti, uomini venuti da ogni angolo dell’Irlanda che la notte sproloquiavano, che col bicchiere in mano si credevano chissà chi e poi la mattina litigavano, vomitavano, avevano il delirium tremens, vedevano topi e serpenti, si attaccavano alle bottiglie vuote.


Una mattina (continuò Rafferty), strisciai fuori dalla trapunta per procurarmi una dose. Di solito in strada trovavi qualcuno che andava al lavoro o tornava dal turno di notte e ti dava qualcosa, specie se era una donna, le donne avevano il cuore piú tenero. Sul marciapiede di fronte vidi una con l’impermeabile bianco legato in vita che mi guardava. Era Madge, che aveva sposato Billy.


Venne verso di me, mi sembra ancora di averla davanti mentre pensa ma non dice: «Dovresti vederti, Rafferty, senza piú un briciolo di dignità, i denti mezzi andati, i bei capelli neri ingrigiti, gli occhi vitrei».


Dissi: – Come sta Billy? – e lei: – Billy ce lo siamo giocato, – e le si riempirono gli occhi di lacrime. Non riuscivo a crederci, Bill Fisarmonica e quant’era stato spaccone, loro due cosí spacconi sulla pista da ballo, che vincevano medaglie e scolavano vino rosé. Billy aveva lasciato il lavoro edile dopo che avevano preso in gestione un pub di St Martin’s Lane e quella, a detta di Madge, era stata la sua rovina, la loro rovina. Di punto in bianco si sfilò di tasca un quadernetto e me lo mise in mano. Secondo lui Madge non aspettava altro che l’incontro casuale con uno dei vecchi tempi a cui mostrare quel quadernetto. La sua storia, annotata in momenti diversi, spesso con una calligrafia illeggibile e con inchiostri di vari colori.


Massacrata di nuovo di botte. Emorragia interna, corsa in ospedale, per poco non perdo il bambino.

Bill fuori casa per tre giorni e tre notti, cercato in lungo e in largo, trovato che beveva sidro da quattro soldi in un campetto con certi altri, non mi ha nemmeno riconosciuto, portato a casa, pulito, lavato, sbarbato, promesso di comprargli vestiti nuovi appena prendo la paga.

Billy ha pianto metà della notte fra le mie braccia e io ho preso il coraggio a due mani e gli ho chiesto perché beve cosí e lui mi ha risposto per cancellare le cose. Quali cose, ho detto. Lui ha detto che ne è successa una di cosa, senza aggiungere altro. È successa una cosa. Se l’è portata nella tomba, ecco dove.

Un’altra volta mi sono svegliata che mi ficcava pillole e whiskey in gola, semincosciente stavolta. Voleva morire e voleva che ce ne andassimo insieme perché ci amavamo. – Ma quale insieme, – ho urlato, – con due figli piccoli nella stanza accanto.

Sua madre era un Ariete. Per il suo settantesimo compleanno gli ho comprato un biglietto per andare a casa. Ho detto fatti un bicchiere, fattene pure di piú ma promettimi di non sbronzarti, se mi ami promettimelo, e lui me l’ha promesso e ci siamo abbracciati. È arrivato a casa della sorella la mattina prestissimo e la nipotina lo tirava per fargli sentire un cd e la sorella è andata in cucina a mettere l’acqua sul fuoco quando lui è collassato sulla soglia. Non si è piú svegliato.

Glielo restituii e lei disse: – Lo amo ancora… Me lo sai dire perché lo amo ancora, Rafferty? – Non gliel’ho saputo dire. Correndo per andare a prendere l’autobus si è voltata e ha urlato: – Non ti dànno la vita per buttarla via –. Mi ha colpito. Tornai nella stanza minuscola dietro Holloway che mi aveva procurato un prete. Raramente ci mettevo piede, preferivo stare sotto i ponti con i barboni ma quella mattina ci andai. C’era uno specchio che avevo sgraffignato sul traghetto e vedendo com’ero caduto in basso lo girai contro il muro. Mi misi a pulire, a buttare cose, tubetti di dentifricio vuoti, colliri, calzini vecchi, maglioni, ficcai tutto in un sacco della spazzatura. Poi presi l’aspirapolvere dal sottoscala e lo passai in terra, versai la candeggina in un secchio d’acqua e sfregai davanzali e infissi di legno. Sotto la doccia, guardando gli ombrellini neri sulla tenda di plastica, feci un patto con me stesso. Smettere di bere era impossibile. Diciamo che per metà ho vinto e per metà ho perso. Mi sono prefisso un obiettivo: una pinta la mattina e due la sera, non un goccio di piú, mai, fuorché, magari, per il brindisi a un matrimonio.


– Una donna, – disse guardandomi quasi con timidezza, – una donna è capace di segnare un uomo nel profondo. Madge ci è riuscita, e anche mia madre.


La sera prima che andassi via di casa per sempre (proseguí) mia madre decise che saremmo andati a raccogliere i fraughan per la crostata. Sono bacche color mirtillo, piú aspre però, e crescono in posti segreti nel cuore del bosco. Era una di quelle serate estive meravigliose, il bosco brulicava di luce, di vita, di uccelli, api, grilli, dava la sensazione che non ci sarebbe mai piú stato un giorno grigio o piovoso. La fortuna era dalla nostra. Riempimmo due barattoli fino all’orlo, le mani tinte di indaco scuro. Mia madre chissà perché s’imbrattò il viso con le mani, io la imitai ed eccoci lí, due svitati viola che sembravano clown e ridevano a crepapelle. Non so se furono le risate o quel gesto inconsulto a darle il coraggio, fatto sta che mi strinse le nocche e disse che doveva dirmi una cosa, che mi voleva bene piú che a chiunque altro sulla faccia della terra, piú che a quella testa calda del marito e alle due care figlie femmine. Era troppo. Era troppo sentire una cosa cosí alla mia età, un attimo prima di andarmene per sempre.


Certe volte, disse dopo un lungo silenzio, si era trastullato con l’idea di tornare a casa, di andare a trovarla al cimitero, quando vedeva gli addobbi natalizi nelle vetrine e le lotterie per il dolce di Natale o riceveva biglietti d’auguri dalle sorelle, che oramai erano grandi e dopo essersi sposate giovani si erano trasferite altrove. Ma non ci era mai andato. – Se fossi tornato a casa l’avrei ucciso, – disse, i tristi occhi grigi piantati nei miei, irremovibile.


Una domenica d’estate mi assoldarono per dare una mano in un mercatino dell’usato allestito in un deposito fuori Londra. L’aveva organizzato Adrian, voleva raccogliere i fondi per mandare una settimana al mare i bambini poveri. A me affidarono la bancarella dei libri, per lo piú tascabili malconci con la copertina strappata, una manciata di romanzi e un libro sugli alberi e le piante in Terrasanta, le foto panoramiche accompagnate da bellissime citazioni dalla Bibbia. Rafferty faceva da impresario, guidava le persone ai vari tavoli pieghevoli a rovistare in cerca dell’affare. L’offerta era variegata: vestiti estivi e invernali, coperte logore, trapunte, camicie da uomo, vasellame, pneumatici e pile di vecchi dischi.


Una giovane suora, il velo di nylon azzurro che le sventolava sulla schiena, tirò su un bel po’ di quattrini vendendo torte, crostate, pagnotte e marmellate artigianali fatte, dichiarò tutta fiera, nella casa madre del suo ordine. L’altra bancarella che attirava un mucchio di gente aveva in una profonda scatola di cartone una nidiata di cuccioli che uggiolavano e zampettavano per uscire. Erano cocker e non so che altra razza. Un bambino che compiva gli anni tirò fuori il suo preferito, un cucciolo bianco e nero con uno sfregio ruggine sulla fronte, e appena il padre allungò due monete, tanti altri bambini si misero a sbraitare perché volevano un cucciolo anche loro.


Gli affari furono magri ma Adrian lo definí un successo senza precedenti. Impacchettammo l’invenduto e spazzammo il pavimento per dare una parvenza di pulito. Mentre ci riaccompagnavano a Londra con un furgone Rafferty ebbe la gentilezza di chiedermi se volevo bere qualcosa prima di rientrare a casa. Ci lasciarono in una zona che nessuno dei due conosceva e che era tutt’altro che invitante. I palazzoni alti di un colore grigiastro sfioravano il cielo. Erano di una bruttezza cosí sfrontata che gli urbanisti dovevano aver deciso che i futuri inquilini ci avrebbero vissuto nella tetraggine piú assoluta. Sopra ci volava un aquilone scarlatto, volteggiando senza soluzione di continuità, a guizzi alterni, come preda di improvvise ventate, e noi ci augurammo soltanto che non tornasse mai nell’orribile baratro da cui qualcuno, forse un bambino, l’aveva spedito. Non lontano c’era un campo da gioco, piú simile a un cortile, circondato da un filare di pioppi giovani oltre il quale i ragazzi urlavano e sbraitavano mentre facevano vari giochi con la palla, i piú alti convergendo intorno a un canestro. I cani correvano a destra e a manca, abbaiando ininterrottamente.


Vedevamo l’insegna di un pub, ma l’ingresso ci sfuggiva. Era incassato fra una chiesa cattolica, che riconoscemmo dalla croce sulla guglia grigio azzurra, e un circolo giovanile, ma anche se salimmo e scendemmo varie rampe di scale di cemento, passando sotto arcate di cemento buie e puzzolenti, ci ritrovavamo sempre al punto di partenza. Un giovane irlandese in bermuda si offrí di aiutarci ma disse che prima dovevamo dare un’occhiata dalla finestra della chiesa cattolica perché l’altare, portato dall’Europa secoli prima, era impagabile. La chiesa, dopo la messa della sera, era chiusa a chiave. Guardando dalla lunga vetrata colorata vedemmo una stanza vuota con pochissime panche. L’altare, ben discosto dal muro, aveva tortuose fronde dorate e due massicce colonne d’oro ai lati. Il giovanotto aveva la lingua sciolta e, indicando il panorama di palazzoni, elencò i crimini piú diffusi. Lui lavorava ai servizi sociali e dava una mano al prete del quartiere, che definiva il suo eroe. Nella foga tirò fuori una cartina della zona dov’erano evidenziati con delle puntine da disegno verdi i luoghi di tre omicidi, tutti legati alla droga. Poi dissertò con fare esperto sui vari tipi di droga in vendita, sulla qualità e il prezzo astronomico. Ci chiese di indovinare quante lingue si parlavano nel circondario e rispondendo al nostro posto disse piú di venti, gli irlandesi ormai ridotti a una minoranza perché tanti erano tornati in patria e tanti altri erano diventati milionari.


Lo ringraziammo per averci accompagnato ma lui ripartí subito in tromba raccontandoci di un delinquente che si spacciava per cieco mentre invece era un borseggiatore di prima categoria. Dentro il pub riuscimmo a sbarazzarci di lui solo quando Rafferty gli bisbigliò che avevamo una questione importante da discutere, allora si decise a sgombrare il campo, non prima però di averci dato il suo biglietto da visita, che riportava il nome, la laurea in Ecologia e la disponibilità a organizzare visite guidate della zona.


Il pub era deserto. I fievoli raggi del sole al tramonto entravano alla spicciolata dalla finestra lunga e bassa mentre dalla cucina trapelava una musica di violino. Rafferty ascoltandola batteva il piede, ascoltava cosí attentamente che sembrava sentirla sia lí sia da una grande distanza, accordi travolgenti che lo riportavano alla periferia al neon del Galtymore, la sala da ballo di Cricklewood, dove suonavano musica moderna e tradizionale. Il sabato sera. Ingresso due scellini e sei pence. Giovanotti a bizzeffe, lui incluso, agghindati in giacca blu, camicia bianca e cravatta malandrina, tutti a bordo pista a inquadrare la situazione. Una ragazza si chiamava Grania, come la regina dei pirati. Le altre indossavano abiti colorati e scintillanti o gonne con la crinolina, mentre Grania aveva un vestito nero con il colletto bianco e la pettorina intarsiata bianca che le dava un’aria da infermiera. In seguito Rafferty avrebbe scoperto che lavorava come sarta in un negozio di Oxford Street, dove cuciva le tende e faceva riparazioni. A colpirlo sulle prime, a parte il bianco puro della pelle e i folti capelli castani con i riflessi rossi e oro come una palude d’autunno, fu la sua semplicità. Fra un ballo e l’altro si sedeva, calciava via le scarpe e si massaggiava i piedi in vista della sfida seguente. Al bar dove servivano solo bibite gassate gli altri le offrivano limonata e la incalzavano per il ballo successivo e per quello dopo ancora, ma lei faceva sempre l’impertinente. Rafferty, che era un timido inguaribile, sulla pista da ballo non ci metteva mai piede. Passarono sei mesi e piú prima che lei gli rivolgesse la parola, e altrettanti prima che gli permettesse di accompagnarla a casa. Abitava a cinque chilometri da Cricklewood, vicino Holloway Fields. Rafferty ricordò di essere rimasto fuori dalla camera ammobiliata di lei fino all’una o alle due del mattino ad ascoltare la sua voce sommessa che lo stregava di racconti. Ascoltarla era come lasciarsi trasportare. Il padre era un sarto che aveva anche un pub con drogheria annessa, dove la gente beveva rimuginando sui pettegolezzi dell’ultima ora. Lei personalmente era piú contenta quando capitava qualche vecchio campagnolo che raccontava storie dei bei tempi andati, cure e fatture, verruche debellate sfregandole con le pietre nere raccolte dal letto del fiume e i prodigi di Biddy Early, la strega che, scrutando dentro la sua bottiglia azzurra, diventava chiaroveggente.


Lui nelle sere feriali beveva mentre il sabato si manteneva abbastanza sobrio da tenere lo sguardo fisso su Grania, offrirle le bibite gassate e accompagnarla a casa. Una sera erano sul punto di separarsi quando lei gli diede un regalo avvolto in un foglio di carta, sussurrandogli qualche parola in irlandese. Un modo per dirgli che era sua.


La mattina dopo lui studiò e ristudiò il regalo. Era una conchiglia liscia e piatta, le nervature nella parte sottostante, bianchissima, curvata a ventaglio e negli interstizi aveva piccole sfumature vermiglie simili a pennellate, come se qualcuno le avesse dipinte.


Trovarono un appartamentino sopra un negozio di ferramenta a parecchi chilometri da Camden. Gli amici regalarono di tutto: lenzuola, cuscini e un portamarmellate con appeso un cucchiaino su cui era stampato il ritratto a colori di Sua Santità il papa. Lui scoprí ben presto che Grania era una cuoca sopraffina ma era anche molto pignola. Per la loro passeggiata domenicale non gli permetteva di uscire se sulla camicia aveva una sola grinza e questo non prima di avergli tolto con un uncinetto l’argilla da sotto le unghie. Il fatto era (disse in tono mesto) che Grania reggeva l’alcol meglio di qualsiasi maschio, però sapeva quand’era il momento di fermarsi. La sera, quando lui rientrava a casa, insieme alla cena gli faceva trovare sul tavolo due bicchieri di latte. A Rafferty però mancavano il pub, il rumore, le chiacchiere, e di lí a poco cominciò a fare sosta all’Aran per qualche cicchetto e a rincasare tardi. Poi piú tardi. Poi finse di fare gli straordinari non rincasando mai prima di mezzanotte. Questo era spesso motivo di discussione, oppure Grania se ne andava a letto lasciandogli la cena, coperta da un piatto, sopra il fornello spento. Una sera rincasando lui trovò un biglietto sul tavolo della cucina: «Fai pure tutti gli straordinari che vuoi, adesso e per sempre», non diceva altro. Pensò che sarebbe tornata la sera dopo, o quella dopo ancora, ma si sbagliava.


– Non ha portato via niente, nemmeno il portamarmellate con il cucchiaino appeso e il ritratto del papa, – disse, poi s’interruppe di botto. Era entrato un cane venuto dal campo da gioco e ci fissava, ansimando a piú non posso. Rafferty gli mise una mano sul muso e la lasciò finché il respiro dell’animale non si fu placato e, in quel silenzio, mi accorsi per la prima volta del ticchettio di un orologio sulla parete.


Considerata la pletora di crimini dai quali ci avevano messo in guardia, proposi a Rafferty di prendere un taxi offrendomi di accompagnarlo a casa.


– Molto gentile, – disse lui. Era cosí che declinava un invito, lo sapevo, e subito dopo sollevava la grande mano con il largo cinturino nero al polso.


Eravamo all’aperto, seduti, guarda caso, sulla panchina di un cimitero tutt’altro che tetro. Un ampio viale costeggiato di aiole correva da un cancello a quello dell’ingresso opposto, offrendo una scorciatoia a pedoni e ciclisti e rendendolo un posto frequentato tanto dai vivi quanto dai morti. Le tombe erano ben tenute, l’erba sul terrapieno all’altro capo tagliata di fresco, e la primavera londinese aggiungeva una nota di allegria. I tulipani erano pronti a esplodere nelle aiole, il giardino anteriore e quello posteriore rivaleggiavano nello sfoggiare ogni possibile ben di Dio e il glicine, una festa a sé stante, ricadeva in massa a grandi balze, l’azzurro cosí intenso da azzurrare perfino gli occhi. Adrian aveva detto che se era possibile Rafferty sarebbe stato felice di passare qualche minuto con me, lasciando intendere che bolliva qualcosa di grosso in pentola.


Rafferty non stava nella pelle. Tornava in patria. Per sempre. Basta bollette. Basta grattacapi. Dopodiché sfilò dal portafoglio di pelle una lettera lisa e spiegazzata, ma esitò a darmela perché prima doveva spiegarmi come stavano le cose. Un benefattore, che aveva cominciato con la pala ma poi aveva fatto strada accumulando una grande fortuna, si era rivolto al Centro chiedendo se qualcuno con un buon carattere voleva tornare in Irlanda a prendersi cura di un parente anziano. Roisin, da quell’amica fidata che era, aveva fatto il nome di Rafferty e, dopo un infinito viavai di lettere con le credenziali e tutto il resto, era stato preso. Roisin gli aveva regalato anche un vestito di tweed e un pullover nuovi nuovi, attinti dall’ultima consegna arrivata dall’istituto di beneficenza.


Rafferty avrebbe diviso la casa o la villetta dei sogni che lo attendeva con l’anziano in questione ma ogni giorno sarebbe andata una donna a preparare da mangiare e a provvedere ai bisogni dell’anziano, affetto da una forma di diabete contratta in tarda età. Rafferty doveva aver letto la lettera del benefattore decine di volte, piegandola e ripiegandola. Quarant’anni prima, quando era partito dall’Irlanda, la madre, l’adorata madre, gli aveva messo le sue cose in una valigia marrone e lui svuotandola aveva lasciato dentro soltanto tre oggetti sacri: un messale, un crocifisso che la madre aveva fatto benedire e un pigiama a righe, conservato intatto nell’eventualità di un ricovero in ospedale. Quello per fortuna se l’era risparmiato, a differenza di tanti suoi compagni inchiodati a letto da malattie croniche, asma, disturbi polmonari, malattie della pelle e infortuni d’ogni genere. Disse che avrebbe tenuto di buonumore l’anziano, il quale probabilmente avrebbe passato metà della giornata a dormire, o quantomeno a sonnecchiare. Avrebbero giocato a carte o fatto le parole crociate. Rinvigorito, accarezzava l’idea di riprendere la pala per fare un piccolo orto – cavolfiori, cavolini di Bruxelles, scalogno, lattuga – e di scoprire quali patate fossero adatte a quel particolare terreno. – Al pub ci andrò, – disse, – è ovvio, ma mi darò una regolata; Rafferty coi bassifondi ha chiuso –. La villetta non era nella zona dell’Irlanda dov’era nato lui, ma si trattava pur sempre della madrepatria e si domandò ad alta voce se avrebbe sentito di nuovo il richiamo del re di quaglie, quel verso particolarissimo che non era mai sbiadito nel ricordo.


Girovaghi e balzani, alcuni uccelli scendevano in picchiata e svolazzavano fra le tombe, mentre un paio dei piú pugnaci erano convogliati su un portapranzo di plastica dove c’erano gli avanzi di un’insalata e conducevano un’aspra battaglia brandendo lacerti di lattuga molliccia. I becchi di un arancione duro e sgargiante.


Quando mi accomoderò su una sedia a dondolo laggiú, al confine tra la contea di Leitrim e quella di Roscommon (proseguí), e mi chiederanno com’era lavorare nell’edilizia, dirò che era magnifico, veramente magnifico, e racconterò di Paddy Pancake. Il martedí grasso eravamo tutti di turno e fremevamo per andare via in anticipo perché avevamo giurato che per la quaresima avremmo smesso di bere. Paddy Pancake ci fece una sorpresa. Lui, che non aveva mai toccato un goccio, il nostro portabandiera dell’astinenza totale. La sera faceva il cuoco dalle parti di Ealing. Sfilò da una borsa di tela cerata farina, uova, latte, zucchero semolato, sale e una bottiglietta di liquore azzurro dall’aria pericolosa. Aveva portato perfino una ciotola per preparare l’impasto. Poi, guardandosi attorno, prese una grossa pala, la lavò un paio di volte con la pompa ed ecco pronta la padella per friggere. Disse a due ragazzi di accendere un bel fuoco con i pezzi di trave e di vecchie porte disseminati a profusione in un cantiere a due passi da lí. Paddy lanciava i pancake sulla pala con consumata maestria. Un aiutante ci metteva una spolverata di zucchero e qualche goccia di liquore e i ragazzi li agguantavano divorandoli come lupi. A coronare il tutto, un giovincello timido di Galway balzò in piedi e si mise a cantare a squarciagola un canto di protesta: Roddy McCorley Goes to Die on the Bridge of Toome Today. Le parole e la sua voce erano cosí belle, cosí appassionate.


Gli si riempirono gli occhi di lacrime ricordando quella bisboccia, una sera d’inverno, il bagliore del fuoco, il guizzo delle fiamme rosse e azzurre, e loro che ballavano nell’aperta campagna di Londra come in un anfiteatro romano.


Rimettendo a posto la lettera, dal portafoglio gli cadde una sua foto. Era un’istantanea, scattata sull’argine di un fiume dove lui e gli amici dovevano aver fatto il bagno. La vita pura e semplice che sprizzava dalla sua espressione lasciava senza fiato. I capelli arruffati. Gli occhi giovani e lucidi di ogni ragazzo. In quella foto non c’era un lineamento che ricordasse l’uomo seduto accanto a me.


– Beata giovinezza, – disse, tutt’a un tratto ritroso, come mi aspettavo, un addio sbrigativo.


Meno di due settimane dopo, entrando nel pub per un attimo pensai di avere le allucinazioni. Seduto al solito tavolo, una pinta di birra davanti, c’era uno che era la copia sputata di Rafferty. Stesso cappello nero con la tesa larga, stessa giacca stropicciata e stessa pinta. Distolsi lo sguardo ma Adrian mi fece un cenno con la testa e guardai di nuovo. Era Rafferty. Era proprio lui. Rimase in silenzio e se la prese comoda prima di salutarmi, senza un briciolo del calore che aveva dimostrato quel giorno al cimitero. – Capita, – disse, e poi, congedandosi, la pinta lasciata a metà sul tavolo, aggiunse che pietra smossa non fa muschio.


Adrian mi raccontò cos’era successo. La villetta era nuova e pulita, troppo nuova e troppo pulita. Denny, il vecchio, passava la giornata in poltrona a guardare la spianata dei campi immancabilmente ammantati di nebbia, a controllarsi la glicemia ogni qualche ora, a fare un’iniezione di insulina e a prendere ben quattro gruppetti di pillole. Una certa signorina Moroney andava a preparare da mangiare, facendoli impazzire. Sul pianerottolo aveva allestito una specie di santuario con tanto di statue, e nel frattempo sciorinava predicozzi sui danni del bere scroccando a tutti e due l’elemosina per i bambini del Terzo Mondo. Nemmeno al pub Rafferty si sentiva a casa. Era confusionario e chiassoso, con un gran viavai di ragazzi, non un angolino tranquillo dove starsene a rimuginare, e poi i suoi racconti non interessavano a nessuno. Quanto all’orto che intendeva fare, il terreno intorno alla casa era tutto un’architettura di cespugli e arbusti dai fiori gialli. Non c’era niente che non andasse, aveva detto a Adrian, ma non c’era nemmeno niente che andasse. Il benefattore aveva preso bene la notizia della sua improvvisa partenza, dicendogli che volendo poteva tornare una settimana in estate, che non ce l’aveva con lui. Lo stesso tassista che l’aveva prelevato all’aeroporto l’aveva poi riportato indietro, guidando come un pazzo mentre conduceva una transazione commerciale al cellulare e diceva al potenziale acquirente di andare a quel paese, che duecento non li avrebbe accettati manco morto. Qualche istante dopo aveva telefonato a qualcun altro per riferire come stavano le cose, dicendo che sarebbero stati pazzi a darlo per meno, che dovevano cercare di ottenere il massimo. Stando a Adrian, Rafferty ne aveva dedotto che oggetto della vendita fosse una motocicletta o un vecchio catorcio. All’aeroporto il tassista si era sperticato nei saluti stritolandogli la mano e dicendosi dispiaciuto che la vacanza fosse durata cosí poco.


Roisin aveva convinto il Comune a ridargli la sua stanzetta nell’edificio popolare e cosí, disse Adrian, la valigia marrone con il messale, il crocifisso e il pigiama a righe era finita di nuovo sotto il letto a una piazza.


– In Inghilterra è fuori posto e in Irlanda pure, – disse Adrian e, battendosi l’indice sulla tempia per farsi capire meglio, aggiunse che l’esilio sta dentro la testa e non c’è cura che tenga.


Rimasi di sale il giorno in cui il mio analista mi comunicò che lasciava Londra per andare a lavorare in un ospedale di Bristol. Si era premurato di procurarmi un orario ferroviario e mi fece vedere che i treni erano frequentissimi, dicendo che potevamo vederci due volte al mese e fare una seduta doppia.


Tornai al pub, per una specie di addio. Adrian mi offrí un Irish coffee e Rafferty ci raggiunse mentre Adrian raccontava la sua gran serata alle corse dei levrieri di Wimbledon, dove aveva imbroccato quattro vincite grazie alle dritte della barista, una ragazza del Connemara che sperava di rivedere.


– Stammi bene –. Queste le ultime parole che mi disse Rafferty. Niente strette di mano e, come la prima mattina, sollevò la destra callosa in un congedo che era gentile e tassativo. Mi aveva tagliato fuori, come aveva tagliato fuori sua madre e i pochi a cui voleva bene, non perché avesse il cuore duro ma perché lo aveva incommensurabilmente spezzato.


Sotto il selciato correvano i cavi che collegavano le luci delle strade grandi e di quelle meno grandi di Londra, spingendosi fino al Kent. Io pensai ai Re della Pala e i loro nomi mi si materializzarono improvvisamente davanti, come in una litania: Haulie, Murph, Moleskin Muggavin, Rapa O’Mara, Whiskey Tipp, Oranmore Joe, Teddy Teiera, Paddy Pancake, Bill Fisarmonica, Rafferty e innumerevoli altri, ridotti in polvere.

Fiore nero


– È una stamberga, – disse Mona.


– È magnifica, – disse Shane, guardandosi attorno.


Avevano girato in macchina per piú di un’ora, sotto gli spunzoni di una catena montuosa, alla ricerca di un ristorante che fosse tranquillo ma anche allegro, finendo per approdare in quello stanzone disadorno che sembrava avere il doppio ruolo di sala da ballo e di sala da pranzo. Un microfono su un sostegno di metallo occupava il posto d’onore e sul palco dell’orchestra c’era un pezzo di tenda arancione sgualcito, come se qualcuno l’avesse tirato giú in un moto di rabbia. All’estremità di un lungo tavolo da refettorio era stesa una tovaglia di pizzo bianco con sotto una striscia di carta crespata rossa, e con ogni probabilità era lí che si sarebbero seduti.


Era primavera inoltrata e scorgendo dalla strada il cancello di ferro arrugginito e il viale d’accesso lungo e sinuoso l’avevano trovato perfetto oltre che incantevole. E poi l’albergo aveva un nome bellissimo: Glasheen. Avevano risalito il lungo viale costeggiato di alberi, querce, sicomori e frassini, tutti affiatati, quasi in fraterna lotta per la supremazia, e poi gli uccelli nelle sortite serali, piú indaffarati dei piccioni che tubavano sommessamente sugli ampi posatoi.


Una bagnarola scassata con la scritta «Vendesi» stazionava nel parcheggio separato con un cavo verde dal prato accanto. A un palo era attaccato il cartello: «Pericolo – Alta tensione» e una scatola di metallo emetteva un rutto che ogni qualche secondo si elevava a ringhio.


Vicino all’ingresso c’era il furgone di un macellaio con il nome del proprietario stampato in eleganti lettere marrone e sul gradino davanti alla porta un trattore giocattolo pieno di soldatini e blocchetti di legno. Nell’atrio, un nido di candele scintillava su un’alta scansia e una rigogliosa pianta fiorita strisciava spiattellata sul pavimento come un’ameba. I petali erano morbidi, di un nero vellutato con minuscoli occhietti verdi, punte di spillo, e avevano un che di bellissimo e di sinistro. Lei un fiore nero non l’aveva mai visto. Non trovando nessuno ad accoglierli, Mona andò nella stanza accanto, dove un tizio che sembrava chiacchierare con lo schermo del televisore, tanto ci teneva la faccia vicina, non si accorse di lei. Due cani sonnecchiavano su una poltrona di cuoio lacero. Poco dopo arrivò una ragazzina corpulenta che non seppe dire se servivano o meno la cena, essendo ancora bassa stagione. Li fece accomodare lo stesso nella sala da pranzo disadorna e triste.


Avevano percorso tantissimi chilometri, passando prima per una cittadina con un lago e una torre rotonda dove avevano fatto una passeggiata e poi si erano seduti sugli sgabelli da picnic umidicci di legno grezzo, trovando strano che gli altri avessero guidato fin lí per restarsene seduti in macchina a fissare il lago. A Shane piaceva stare con lei, Mona lo sentiva. Non lo conosceva troppo bene. Aveva dato lezioni di pittura come volontaria in un carcere delle Midlands dove lui scontava una lunga condanna. Dopo le prime lezioni si erano ritirati in tanti e alla fine era rimasto solo Shane. Vedendolo seduto di spalle a ultimare un autoritratto, tutto oro viscoso e gialli senape, gli aveva chiesto se avesse mai visto i quadri di Van Gogh e lui aveva risposto di no. A ricordarle Van Gogh era stata la suola di una scarpa rovesciata che brulicava di vernice secca.


Passeggiando nel cimitero accanto alla torre rotonda gli aveva chiesto sottovoce: – Come ti sembra il mondo, Shane? – perché era uscito di prigione da pochissime settimane.


– Affollato, – aveva detto lui con un mezzo sorriso.


Durante la prigionia gli avevano ucciso la moglie mentre faceva il bagnetto al bambino, l’avevano uccisa al posto suo e poco dopo era morto anche il figlio, affidato a certi parenti, di meningite. La sera in cui gli avevano ucciso la moglie lui era andato a letto che non era ancora buio e non aveva nemmeno sentito i secondini che battevano i pugni sulla porta della cella per comunicarglielo. Secondo lui si era servito del sonno per posticipare una notizia che non era in grado di reggere, ma che avrebbe dovuto imparare a reggere. Come fosse riuscito a non impazzire per Mona restava un mistero.


Qualche giorno prima di Natale il direttore della prigione le aveva telefonato per dirle che gli avevano lasciato in ufficio un pacco per lei. Era il ritratto avvolto in una varietà di buste per la spesa, e sul biglietto d’auguri lui aveva scritto: «Per Mona… scusa se è un po’ rudimentale». Il messaggio aveva un che di incompiuto, come se volesse dire di piú, ed era stata proprio quell’esitazione a darle il coraggio di chiedergli se, una volta uscito, gli avrebbe fatto piacere rivederla a Dublino. La scarcerazione era prevista per quella primavera ma lo tenevano segreto per evitare il battage mediatico. Lei sapeva che Shane era riservatissimo, le aveva detto lui stesso che, anche se mangiava al refettorio e giocava a tennis tre volte a settimana, stava molto per conto suo, e niente gli piaceva quanto ascoltare le cassette di musica e canzoni irlandesi la sera in cella. Secondo Mona in quelle sere rimuginava sul passato, e anche sul futuro, immaginando come fosse cambiato il mondo nei quindici anni trascorsi dalla sua cattura. Una cattura da brividi che aveva catalizzato l’attenzione del Paese, confermando la sua nomea di pericoloso fuorilegge.


In realtà lo avevano rilasciato tre giorni prima del previsto, e lei non riusciva quasi a crederci quando le aveva telefonato nel suo studio a Dublino dicendo con una certa ritrosia: – Sono io… Sono libero.


Si erano dati appuntamento in un albergo e, aspettando sui gradini all’ingresso in un mattino gelido, i rami e i ramoscelli invernali nel parco di fronte ingioiellati di ghiaccio, lei aveva capito che non sarebbe arrivato, che qualcosa gliel’aveva impedito. Dopo quasi un’ora un ragazzo con i galloni sulla divisa era andato a dirle che la desideravano al telefono e aveva scandito senza ritegno il nome e il cognome di Shane. Lui era in un altro albergo, a un chilometro e mezzo di distanza, e Mona gli aveva imposto con una certa severità di aspettarla lí e di non muoversi.


Quando si sedette a prendere un tè con lui a un tavolino del secondo albergo, aleggiava un clima di incertezza. Era strano vederlo in jeans e camicia colorata perché alla prigione di Portakabin, dove andava a trovarlo, era tutto sottotono. E poi alle loro spalle c’era sempre un poliziotto con l’orecchio teso, a parte i rari casi in cui usciva a fare due passi, magari per fumarsi una sigaretta. Incontrandosi sui gradini dell’albergo non si strinsero la mano, ma da come lui la guardò si capiva che era contento di vederla e le disse anche che i capelli le stavano molto meglio cosí, sciolti sulle spalle. Alle lezioni di pittura li portava sempre legati, perché le davano un’aria piú austera.


– Allora sei libero, – disse lei.


– Mi hanno dato appena dieci minuti di preavviso, – disse lui.


– Come mai?


– Il direttore è sceso giú alla sartoria e ha detto: «Hai una macchina con l’autista a disposizione per ventiquattr’ore, ti porterà dove vuoi» –. A quelle parole lei ricordò di aver chiesto senza mezzi termini al direttore se Shane poteva stare tranquillo una volta fuori.


Mentre lui parlava le tornò in mente che era rabbrividita quando il direttore le aveva detto che erano in tanti a volere Shane morto.


«Si riferisce agli inglesi?»


«A loro e alle sue… faide… faide personali. Mettiamola cosí: sarà sempre un ricercato», e aveva alzato le braccia per evitare altre domande.


– Che cosa cucivi? – gli chiese, sorpresa.


– Oh, un po’ di tutto per i ragazzi… cerniere, toppe, rammendi… facevano la fila.


– Chi ti ha insegnato a cucire?


– A casa eravamo dieci figli… mia madre aveva tantissime altre cose da fare, – disse con timidezza.


– Allora i ragazzi sentiranno la tua mancanza?


– Può darsi, – disse lui, ma senza una parvenza di emozione, poi, guardando dritto davanti a sé, si mise a rollare una sigaretta, soprappensiero. Sembrava l’incarnazione della solitudine, dell’isolamento.


Alcuni amici unirono le forze per comprargli un’auto di seconda mano e qualche settimana dopo lui le propose di fare una gita in campagna una sera di quelle. Stabilirono che lei avrebbe preso il treno e si sarebbero incontrati in un paese una decina di chilometri a nord di Dublino, dove lui aveva preso una camera in affitto da una signora di colore che chiacchierava tutto il giorno con i suoi colibrí e non faceva tante domande.


Adesso erano nella grande sala da pranzo, affamati e in attesa che la proprietaria andasse a dire cosa potevano mangiare. Shane, come d’accordo, era andato a prenderla alla stazione e lei, trovandolo seduto contro il muro esterno a mangiare un gelato, si era chiesta perché un ricercato con uno stuolo di nemici se ne stesse lí, sotto gli occhi di tutti, con un paio di jeans e una camicia colorata nuovi di zecca.


L’auto era una piccola due posti con la capote fulva. Lungo la strada avevano provato in vari ristoranti, senza risultato. In uno quello scorbutico del proprietario aveva socchiuso appena la porta dicendo che un tè se lo sognavano, lui era a letto malato. Mona era scesa varie volte dalla macchina scoprendo che i ristoranti in cui si affacciava erano troppo chiassosi o troppo squallidi. Poi tornava a bordo e ci scherzava su, descrivendo i tavoli, l’illuminazione, i fiori avvizziti e via dicendo, e assegnava a ogni locale un voto da uno a dieci. Shane non parlava molto, ma gli piaceva lasciar parlare lei. Gli anni in prigione l’avevano reso taciturno. A giudicare dalle foto sul giornale scattate al momento della cattura era cambiato tanto da diventare irriconoscibile. Era entrato giovane e sprezzante ed era uscito quasi calvo, con un sottile baffetto color ruggine che sembrava incollato al labbro superiore. Una volta, e soltanto quella, le aveva detto di giudicare da sé le sue azioni. Aveva combattuto per ciò in cui credeva, e cioè perché il suo Paese fosse uno solo, una sola terra, un solo popolo, senza un’appendice tagliata fuori.


Arrivando davanti al cancello del Glasheen lei l’aveva trovato perfetto, cosí appartato, con l’edificio al fondo, soffocato da un folto d’alberi. Tenendo aperta una metà del cancello di ferro – l’altra l’aveva fermata con un sasso – aveva visto su un lato una cabina telefonica in evidente stato di abbandono, il pavimento cosparso di rifiuti. Gli ippocastani erano in fiore, una bellissima cascata di nappine bianche e rosa, e gli agnelli nel prato non la smettevano di belare. Era un pandemonio, tra i belati e le corse precipitose per paura di perdere le madri.


– Sembra un reparto maternità, – aveva detto Shane e lei si era domandata se ne avesse mai visto uno, essendo già in carcere quando la moglie aveva partorito. Soltanto la moglie lo conosceva per davvero, e adesso era morta.


Guardando quel microfono derelitto Mona disse che per fortuna non erano capitati in una serata danzante, perché lei non era una ballerina.


– Io nemmeno, – disse Shane.


– Ballereste eccome se vi costringessero, – disse la proprietaria entrando trafelata, poi si asciugò le mani con uno strofinaccio raccontando dello splendido ballo dei cacciatori che avevano dato quell’inverno, dov’erano andati tutti gli abitanti dei dintorni, i nobili, i contadini, i commercianti di bestiame, i briganti e chi piú ne ha piú ne metta.


– La disturbiamo? – disse Shane.


– Non aspettavo altro, – disse la donna e li accompagnò al lungo tavolo che si estendeva fin quasi alla finestra. Lui si accomodò e sorrise. Era quel modo di sorridere ad attirare le persone verso di lui e la proprietaria, che lo capí subito, si presentò dicendo di chiamarsi Wynne e aggiunse tutta fiera che erano fortunati perché quel buono a nulla di suo marito aveva preso un salmone che avrebbe fatto in umido con patate e cavolo. Nel frattempo, disse, potevano darci dentro con il vino, lei avrebbe portato il pane per assorbirlo. Ci fu un piccolo inconveniente perché aveva poca dimestichezza con l’apribottiglie: aprendo il vino che Mona aveva già ordinato il tappo si spezzò, disseminando frammenti di sughero sulla superficie del liquido ambrato.


– Godetevi il panorama e questa campagna cosí mossa, – disse Wynne, e se ne andò borbottando che Shane era una gran bella persona, che aveva un gran bel modo di fare e che è dal modo di fare che si riconosce un signore.


– Che bello, – disse lui. Il vino gli piaceva, anche se non ci era abituato. Mona capí che non ci era abituato perché gli si annebbiarono un po’ gli occhi, come la condensa sul vetro della cucina quando bollono le pentole. Sentivano Wynne parlare in cucina con la ragazza lenta di comprendonio, perché il loro arrivo aveva creato un po’ di scompiglio.


– Hai gli occhi color tabacco, – disse Mona.


– È una cosa bella o brutta? – chiese lui.


– Bella, – disse lei.


Rivolgendosi a Wynne, che era appena rientrata con una pagnotta, Shane chiese quanto costavano a notte le camere.


– Possiamo metterci d’accordo, – disse Wynne, e andandosene gli fece l’occhiolino.


– Non vorrai fermarti in questa segreta, – disse lei.


– Qui non mi troverebbe nessuno, – disse lui serissimo.


– Dove vivrai, Shane?


– All’ovest, forse, – disse lui, ma distrattamente. Lei lo immaginò in un cottage freddo e isolato, da solo, avvolto in un cappotto, i nervi a fior di pelle, sempre all’erta, giorno e notte.


– Temi qualche… ritorsione? – gli chiese.


– Temo per gli altri, – disse lui, e la guardò con una tale premura, una tale tenerezza, dall’altra parte dell’ampio tavolo, le fiamme della robusta candela che gocciolava alla brezza proveniente dalla finestra aperta, metà viso in ombra.


– Pensi che tornerai a…


– La lotta non è finita… non è chiusa, – disse risoluto.


Mona non fece altre domande. C’era sempre una distanza a separarli, una parte di lui che era preclusa a lei e a tutti gli altri, un distacco. Due identità diversissime fra loro, il bucaniere giovane e invincibile e l’uomo che le sedeva davanti, anziano e canuto, le sue prodezze chiuse dentro di lui a doppia mandata.


– Va bene, – gli disse, senza sapere nemmeno lei cosa volesse dire.


– Sí, – fu la replica altrettanto dubbiosa.


Il salmone in umido era un solido tocco a cui avevano mozzato in modo sommario testa e coda. La pelle pendeva in un lungo brandello simile alla carta moschicida e anche se l’esterno era ben cotto, l’interno era mezzo crudo e gli umori intorno alla lisca erano di un color sangue chiaro. Wynne lo tagliò esultante con un vecchio coltello da scalco e trasferí spavaldamente i pezzi nel piatto di Shane. Poi prese a mani nude le patate bollenti e nella smania di compiacerlo gli riempí il piatto. Mona chiese una porzione piú piccola e Shane si scusò per la sua, che era enorme.


– Lasciate un po’ di posto per la gelatina e la crema pasticciera, – disse Wynne, e se ne andò tutta tronfia, canticchiando.


Un attimo dopo Shane tese l’orecchio come se avesse sentito qualcosa che non era piú il belato degli agnelli, perché col digradare della luce si erano placati.


– Che c’è? – chiese Mona.


– Una macchina.


La macchina entrò a velocità folle con gli abbaglianti sparati, poi se ne andò a rotta di collo.


– Qualche giovinastro che sperava di trovare una discoteca, – disse Wynne, tornata nel frattempo con la besciamella per il salmone. Lui però non le diede ascolto, ormai ascoltava solo i propri pensieri e gli era passata la fame. Mandò giú qualche altro sorso di vino e balzò in piedi.


– Vado in bagno, – disse e allungò la mano sfiorandole la spalla. Mona lo guardò allontanarsi scorgendo un che di cosí ferito in lui, gli abiti che aderivano al corpo sottile, le maniche arrotolate mentre strattonava il pomello allentato della porta. Poi, stranamente, tornò di corsa a prendere la giacca dalla spalliera della sedia.


Vedendo che l’assenza si prolungava Wynne, che intanto andava e veniva, portò un vecchio coprivivande ammaccato e lo mise sul piatto di Shane, tutte e due con lo sguardo rivolto al corridoio buio al di là della porta aperta. I due cani, cosí inerti un attimo prima, levarono un tremendo latrato crescente, come se sulla casa stesse per abbattersi la catastrofe. Wynne disse che era un presagio di temporale, perché non abbaiavano mai ai visitatori, e nemmeno ai fattorini, ma quando sentivano le avvisaglie di un temporale perdevano la bussola. Predisse che da un momento all’altro la luce dei lampi avrebbe illuminato il giardino e il prato a intermittenza. Aspettarono, ma i lampi estivi non arrivarono.


– Mi domando come mai ci mette tanto, – disse Wynne.


– Non è abituato a bere, – disse Mona sottovoce.


– Che bell’uomo… che bel sorriso, – disse Wynne e guardò di nuovo, aspettandosi di vederlo comparire con quel suo modo di fare rapido e furtivo.


Alla fine Wynne disse: – Secondo lei è il caso di mandare Jack a indagare?


Erano uscite dalla sala da pranzo ed erano nel corridoio davanti alla porta con su scritto «Uomini», la U in metallo di sghimbescio sul chiodo lento e arrugginito. Mona pensò che sarebbe stato orribile se fosse svenuto, si sarebbe vergognato da morire. Strapparono dalla sua postazione a un soffio dallo schermo televisivo Jack, che si alzò borbottando qualcosa, poi entrò nel bagno degli uomini e chiuse la porta. Wynne la riaprí subito, casomai potessero essere d’aiuto.


– Non c’è, – disse Jack.


– E allora dov’è? – urlò Wynne.


– È uscito… mi ha chiesto le monete per il telefono pubblico, – disse Jack e Mona immaginò subito che avesse telefonato a uno dei suoi compagni perché andasse a prenderla, visto che lui doveva sparire.


I cani erano già sul viale, correvano avanti e indietro schiumanti, pronti a sbranare chiunque.


Le due donne si misero a correre e Jack le seguí, chiamandole.


C’erano delle persone impalate al di là del cancello, ammutolite e sconvolte. Shane era steso a terra metà dentro e metà fuori dalla cabina telefonica, gli occhi, quei suoi occhi color tabacco, ancora aperti, fissavano il cielo e quelle sue poche stelle isolate. Annaspava cercando di dire qualcosa, ma le forze l’avevano quasi abbandonato. Non riuscí a dire quello che piú di tutto desiderava dire. Gli altri si accalcavano sconcertati, non sapevano chi stessero guardando né perché l’avessero ucciso mentre faceva una semplice telefonata. Avevano già chiamato la polizia e una donna, che era stata la prima a imbattersi nella scena, disse di avergli sentito ripetere piú volte: «O Gesú, o Madonna», ma il suo compagno la smentí con convinzione. Mona avrebbe tanto voluto inginocchiarsi accanto a lui e chiudergli gli occhi, ma era troppo spaventata per muoversi. Se solo qualcuno gli avesse chiuso gli occhi, ma lei non osava, per paura degli altri. Lui sembrava cosí solo e abbandonato, il respiro si affievoliva e, quando lo lasciò, lei cacciò un urlo terribile. Era morto. Morto per una causa in cui gli altri non credevano e, come a un’imbeccata, un ragazzo di passaggio si fermò, scese da una bestiale motocicletta nera, si tolse il casco e attraversò la strada con l’imperiosità di chi porta una bara. Guardò il cadavere, riconobbe Shane e scandí il suo nome sprizzando sdegno e disgusto. Sembrava sul punto di prenderlo a calci. Il gruppo si ritrasse, colpito, non solo per la paura ma anche per lo schifo. Il breve impeto di compassione aveva preso una brutta piega. Wynne urlò a Mona: – Un assassino… hai portato un assassino sotto il mio tetto, dove dormono i miei nipoti, – poi si scagliò in avanti con violenza, trattenuta da Jack che ripeteva di continuo le stesse parole: – Non preoccuparti… non preoccuparti… lui ormai appartiene al passato… non può piú farci del male.


Erano arrivate le auto della polizia e quegli omaccioni esaltati dalla curiosità e assetati di conferme corsero a guardare l’assassino, esultando per la sua morte sanguinosa.


– Chi la fa l’aspetti, – disse uno in tono compiaciuto.


I primi arrivati sulla scena del delitto furono convocati alla centrale di polizia mentre a Jack, Wynne e Mona ordinarono di tornare in albergo per farsi interrogare.


Jack e Wynne si sbrigarono, perché la ragazza lenta di comprendonio e un ragazzo gli erano andati incontro, stringendoli in un abbraccio alla ricerca di protezione. Mona se la prese comoda, paventando le domande e l’avversione degli altri. Aveva cominciato a piovigginare. Un silenzio meditabondo colmò l’intero paesaggio, gli alberi sorbivano l’umidità. Ci sarebbe stata un’altra morte per cancellare quella, poi un’altra e un’altra ancora nella lunga, feroce catena delle rappresaglie. Difficile pensare che in quelle valli covasse l’assassinio, perché dal prato non giungeva nemmeno un sussurro, gli agnelli addormentati in posizione fetale, innocenti del massacro.