venerdì 6 settembre 2019


COME UN ROMANZO
Daniel Pennac

Titolo dell'opera originale:
COMME UN ROMAN.

I. Nascita dell'alchimista.
1.

Il verbo leggere non sopporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo "amare"... il verbo "sognare"...
Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: "Amami! " "Sogna! " "Leggi! " "Leggi! Ma insomma, leggi, diamine, ti ordino di leggere!
" Sali in camera tua e leggi! "
Risultato?
Niente.
Si è addormentato sul libro. All'improvviso la finestra gli è apparsa spalancata su qualcosa di desiderabile, e da lì è volato via, per sfuggire al libro. Ma è un sonno vigile, il libro è ancora aperto davanti a lui e se aprissimo la porta della sua camera, lo troveremmo seduto alla scrivania tutto preso dalla lettura. Anche se siamo saliti con passo felpato, dalla superficie del sonno ci avrà sentiti arrivare.
"Allora, ti piace?"
Non ci risponderà di no, sarebbe un delitto di lesa maestà. Il libro è sacro, come può non piacergli leggere? No, ci dirà che le descrizioni sono troppo lunghe.
Tranquillizzati, torneremo alla nostra televisione. E magari la sua osservazione susciterà un appassionante dibattito fra noi e gli altri di casa...
"Trova le descrizioni troppo lunghe. Bisogna capirlo, siamo nel secolo dell'audiovisivo, in fondo i romanzieri del XIX secolo dovevano descrivere tutto..."
"Non è una buona ragione per lasciargli saltare metà delle pagine!"
Non stanchiamoci, si è riaddormentato.

2.
Tanto più inconcepibile, questa avversione per la lettura, se apparteniamo a una generazione, a un'epoca, a un ambiente, a una famiglia dove la tendenza era piuttosto quella di impedirci di leggere.
"Ma smettila di leggere, insomma, ti rovinerai gli occhi! "
"Vai fuori a giocare, piuttosto, che c'è un tempo stupendo."
"Spegni la luce! É tardi!"
Sì, allora il tempo era sempre troppo bello per leggere, e la notte troppo buia.
Se ci fate caso, leggere o non leggere, il verbo era già coniugato all'imperativo. Anche nel passato, la musica è sempre quella. Cosicché leggere era a quei tempi un atto sovversivo. Alla scoperta del romanzo si univa l'eccitazione di disobbedire alla famiglia. Duplice incanto! Oh, il ricordo di quelle ore di lettura rubate sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica! Come correva Anna Karenina verso il suo Vronskij in quelle ore della notte! Si amavano, quei due, ed era già bello, ma si amavano contro la proibizione di leggere e questo era ancora più bello! Si amavano contro mamma e papà, si amavano contro i compiti di matematica da finire, contro l'esercizio di francese da consegnare, contro la stanza da mettere in ordine, si amavano invece di andare a tavola, si amavano prima del dolce, si preferivano alla partita di calcio e alla raccolta dei funghi... si erano scelti e si preferivano a tutto... Dio, che passione!
E com'era corto il romanzo.

3.
Siamo giusti: non abbiamo pensato subito di imporgli la lettura come un dovere. All'inizio abbiamo pensato solo al suo piacere. I suoi primi anni ci hanno messo in uno stato di grazia e l'assoluto stupore dinanzi a questa nuova vita ci ha conferito una sorta di genialità. Per lui siamo diventati narratori. Dal primo sbocciare in lui del linguaggio abbiamo incominciato a raccontargli delle storie. Era un talento che ignoravamo di avere. Ma il suo piacere ci ispirava, la sua felicità ci dava le ali. Per lui abbiamo moltiplicato i personaggi, concatenato gli episodi, raffinato gli accorgimenti. Come il vecchio Tolkien con i suoi nipotini, gli abbiamo inventato un mondo. Al confine fra il giorno e la notte, siamo diventati il suo romanziere.
Se invece non abbiamo avuto questo talento, se gli abbiamo raccontato le storie degli altri, e anche piuttosto male, cercando le parole, storpiando i nomi propri, confondendo gli episodi, unendo l'inizio di un racconto con la fine di un altro, poco importa... E anche se non abbiamo raccontato affatto, se ci siamo limitati a leggere a voce alta, eravamo il suo romanziere, il narratore unico grazie al quale ogni sera lui si infilava nel pigiama del sogno prima di scomparire sotto le lenzuola della notte. O meglio, eravamo il Libro.
Ricordatevi di quell'intimità così ineguagliabile.
Come ci piaceva spaventarlo per il puro piacere di consolarlo! E lui, come chiedeva quello spavento! Già così poco credulone, eppure tutto tremante di paura. Un vero lettore, insomma. Questa era la coppia che formavamo allora, lui, il lettore, così astuto, e noi, il libro, così complice!

4.
Insomma, gli abbiamo insegnato tutto del libro all'epoca in cui non sapeva leggere. Gli abbiamo rivelato l'infinita diversità delle cose immaginarie, l'abbiamo iniziato alle gioie del viaggio verticale, l'abbiamo dotato dell'ubiquità, liberato da Crono, immerso nella solitudine favolosamente affollata del lettore... Le storie che gli leggevamo brulicavano di fratelli, sorelle, doppi ideali, squadriglie di angeli custodi, schiere di amici tutelari che si facevano carico delle sue pene, ma che, lottando contro i propri orchi, trovavano anch'essi rifugio fra i battiti inquieti del suo cuore. Era diventato il loro angelo reciproco: un lettore. Senza di lui, il loro mondo non esisteva. Senza di loro, lui rimaneva imprigionato nello spessore del suo. Così scoprì la virtù paradossale della lettura, che è quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso.
Da quei viaggi tornava muto. Era mattino, e si passava ad altro. In verità, non cercavamo di sapere che cosa avesse conquistato laggiù e lui, innocentemente, alimentava questo mistero. Era, come Si usa dire, il suo universo. I suoi rapporti personali con Biancaneve o con uno qualsiasi dei sette nani rientravano nella sfera dell'intimità, che esige il segreto. Grande piacere di lettore, questo silenzio dopo la lettura!
Sì, gli abbiamo insegnato tutto del libro.
E abbiamo meravigliosamente stimolato il suo appetito di lettore.
Al punto, ricordate, al punto che aveva fretta di imparare a leggere!




5.



Che pedagoghi eravamo, quando non ci curavamo della pedagogia !




6.



E ora eccolo, adolescente chiuso nella sua stanza, di fronte a un libro che non legge. Tutta la sua voglia di essere altrove forma tra lui e le pagine aperte uno schermo opaco che confonde le righe. É seduto davanti alla finestra, con la porta chiusa alle spalle. Pagina 48. Non ha il coraggio di contare le ore passate per arrivare a questa quarantottesima pagina. Il libro ne conta esattamente quattrocentoquarantasei. Come dire cinquecento. 500 pagine! Se almeno ci fossero dei dialoghi. Figurati! Pagine zeppe di righe compresse fra margini strettissimi, neri paragrafi ammassati gli uni sugli altri, e, qua e là, l'elemosina di un dialogo - due virgolette, come un'oasi, a indicare che un personaggio parla a un altro personaggio. Ma l'altro non gli risponde. Segue un blocco compatto di dodici pagine! Dodici pagine di inchiostro nero! Manca l'aria! Uh, se manca l'aria! Puttana merda! Gli scappa una parolaccia. Spiacente, ma gli scappa una parolaccia. Puttana merda che libro del cazzo! Pagina quarantotto... Se almeno si ricordasse del contenuto delle prime quarantasette pagine! Non osa neanche pensarci e invece, inevitabilmente, glielo chiederanno. E scesa la notte d'inverno. Dalle profondità della casa sale fino a lui la sigla del telegiornale. C'è ancora una mezz'ora da passare prima della cena. E straordinariamente compatto, un libro, non si lascia intaccare e d'altronde dicono che faccia fatica a bruciare, il fuoco non riesce a insinuarsi fra le pagine. Mancanza di ossigeno. Tutte riflessioni che lui fa a margine. E i suoi margini sono enormi. E spesso, è compatto, è denso, è un oggetto contundente, un libro. Pagina quarantotto o centoquarantotto, che differenza fa? Il paesaggio è lo stesso. Rivede le labbra del professore annunciare il titolo. Sente la domanda unanime dei compagni: "Quante pagine?" "Tre o quattrocento..." (Bugiardo. ..) "Per quando?"
L'annuncio della data fatidica scatena un concerto di proteste:
"Quindici giorni? Quattrocento pagine (cinquecento) da leggere in quindici giorni! Ma, prof, non ce la faremo mai! "
Il prof è inflessibile.
Un libro è un oggetto contundente ed è un blocco di eternità. E la materializzazione della noia. E il libro. "Il libro." Non lo chiama mai in altro modo nei suoi temi: il libro, un libro, i libri, dei libri.
"Nel suo libro, I Pensieri, Pascal ci dice che..."
Il professore ha un bel protestare in rosso che questa non è la denominazione esatta, che si deve parlare di romanzo, di saggio, di raccolta di novelle, di libretto di poesie, che la parola "libro", in sé, nella sua attitudine a designare qualsiasi cosa non dice niente di preciso, che una guida del telefono è un libro, allo stesso modo di un dizionario, di una guida turistica, di un album di francobolli, di un libro contabile...
Niente da fare, la parola si imporrà di nuovo alla sua penna nel prossimo tema:
"Nel suo libro, Madame Bovary, Flaubert ci dice che..."
Perché dal punto di vista della sua attuale solitudine un libro è un libro. E ogni libro pesa come un'enciclopedia. Per esempio come quell'enciclopedia dalla copertina cartonata di cui, non molto tempo fa, gli mettevano i volumi sotto il sedere di bambino perché fosse all'altezza della tavola familiare.
E il peso di ogni libro è di quelli che ti tirano verso il basso. Si era seduto relativamente leggero sulla sedia - la leggerezza delle decisioni prese. Ma dopo qualche pagina si è sentito invaso da quella pesantezza dolorosamente familiare, il peso del libro, il peso della noia, l'insopportabile fardello dello sforzo che non ha portato a niente. Le palpebre gli annunciano l'imminenza del naufragio.
Lo scoglio della pagina 48 ha aperto una falla sotto la sua linea di risoluzioni.
Il libro lo trascina.
Affondano.




7.



Intanto, di sotto, davanti alla televisione, la tesi della televisione corruttrice fa adepti:
"La stupidità, la volgarità, la violenza dei programmi... E inaudito! Uno non può più accendere la televisione senza vedere..."
"I cartoni animati giapponesi... Avete mai provato a guardare uno di quei cartoni animati giapponesi?"
"Non è solo una questione di programmi... E la tivù in sé... questa facilità... questa passività del telespettatore..."
"Sì, uno accende, si siede..."
"Fa un po' di zapping..."
"Questa dispersione..."
"Ma almeno ti permette di evitare la pubblicità."
"Neanche. Hanno messo a punto dei programmi sincroni: lasci una pubblicità e subito ti ritrovi su un'altra."
"A volte la stessa! "
A questo punto, silenzio: brusca scoperta di uno di quegli ambiti "consensuali" illuminati dall'accecante riverbero della nostra intelligenza adulta.
Allora qualcuno, a mezza voce:
"Leggere, ovviamente, è un'altra cosa, leggere è un atto! "
"Hai detto una cosa giustissima, leggere è un atto, 'l'atto di leggere', è verissimo..."
"Viceversa la tivù, e anche il cinema a pensarci bene... tutto è già dato, in un film, non c'è niente da conquistare, tutto è già preconfezionato, l'immagine, il suono, le scene, la musica d'atmosfera se per caso uno non avesse capito le intenzioni del regista..."
"La porta che cigola per indicarti che è il momento di aver paura. . . "
"Nella lettura tutto questo bisogna immaginarselo... La lettura è un atto di creazione permanente."
Altro silenzio.
(Questa volta, fra "creatori permanenti".)
Poi:
"Quel che mi colpisce è il numero di ore che in media un bambino passa davanti alla tivù rispetto alle ore di lettere a scuola. Ho letto delle statistiche, al riguardo".
"Dev'essere qualcosa di incredibile!"
"Un'ora di lettere per sei o sette ore di tivù. Senza contare le ore passate al cinema. Un bambino (non parlo del nostro) passa in media - media minima - due ore al giorno davanti a un apparecchio televisivo e dalle otto alle dieci ore durante il week-end. Cioè un totale di trentasei ore, contro le cinque ore settimanali di lettere."
"Evidentemente, la scuola non è all'altezza."
Terzo silenzio.
Quello degli abissi insondabili.




8.



Si sarebbero potute dire molte cose, insomma, per misurare la distanza fra lui e il libro.
Le abbiamo dette tutte.
Per esempio che la televisione non è l'unica responsabile.
Che fra la generazione dei nostri figli e la nostra giovinezza di lettori, i decenni sono stati secoli.
Così se ci sentiamo psicologicamente più vicini ai nostri figli di quanto i nostri genitori non lo fossero rispetto a noi, siamo rimasti, intellettualmente parlando, più vicini ai nostri genitori.
A questo punto, controversia, discussione, definizione degli avverbi "psicologicamente" e "intellettualmente". Rinforzo di un altro avverbio:
"Affettivamente più vicini, se preferisci".
"Effettivamente? "
"Non ho detto effettivamente, ho detto affettivamente."
"In altri termini, affettivamente siamo più vicini ai nostri figli, ma effettivamente ai nostri genitori, è così?"
"E un 'dato sociale'. Una somma di 'dati sociali' che potrebbero riassumersi in questo: i nostri figli sono anche i figli della loro epoca mentre noi eravamo solo i figli dei nostri genitori. "
" ...? "
"Ma sì! Quando eravamo adolescenti non eravamo i clienti della nostra società. Commercialmente e culturalmente parlando, era una società di adulti. Vestiti comuni, cibi comuni, cultura comune, il fratellino ereditava i vestiti del maggiore, mangiavamo le stesse cose, alle stesse ore, alla stessa tavola, la domenica facevamo le stesse gite, la televisione inchiodava la famiglia a un unico e identico canale (migliore, peraltro, di tutti quelli odierni...) e in materia di letture l'unica preoccupazione dei nostri genitori era di mettere certi libri su scaffali inaccessibili."
"Quanto alla generazione precedente, quella dei nostri nonni, si limitava semplicemente a proibire la lettura alle ragazze. "
"E vero! Soprattutto quella dei romanzi: 'l'immaginazione, la pazza di casa'. Deleteria per il matrimonio..."
"Mentre oggi... gli adolescenti sono clienti a pieno titolo di una società che li veste, li distrae, li nutre, li educa; nella quale spuntano macdonald, paninoteche e jeanserie varie. Noi andavamo alle 'festicciole', loro vanno 'in disco', noi leggevamo un libro, loro si sparano delle cassette... A noi piaceva comunicare sotto l'egida dei Beatles, loro si rinchiudono nell'autismo del walkman... E assistiamo anche a questa cosa inaudita, di vedere interi quartieri colonizzati dagli adolescenti, giganteschi territori urbani destinati ai loro vagabondaggi."
A questo punto, evocazione di Beaubourg.
Beaubourg...
La Barbarie-Beaubourg...
Beaubourg, l'incubo brulicante, Beaubourg-vagabondaggio-droga-violenza... Beaubourg, e la voragine della metropolitana... il Buco delle Halles !
"Da cui emergono orde di illetterati ai piedi della più grande biblioteca pubblica di Francia!"
Nuovo silenzio... uno dei più belli: quello dell"angelo paradossale'.
"I suoi figli frequentano Beaubourg?"
"Molto di rado. Fortunatamente abitiamo nel Quindicesimo. "
Silenzio...
Silenzio..
"Insomma, non leggono più."
"No."
"Troppo sollecitati da altre cose."
"Sì."




9.



E se non è il processo alla televisione o al consumismo selvaggio, sarà quello all'invasione elettronica. E se la colpa non è dei piccoli giochi ipnotici, sarà della scuola: gli aberranti metodi di apprendimento della lettura, l'anacronismo dei programmi, l'incompetenza dei maestri, la vetustà dei locali, la mancanza di biblioteche.
Cos'altro ancora?
Ah, sì ! I fondi del ministero della Cultura. .. una miseria! E l'infima percentuale riservata al "Libro" di questa cifra già irrisoria.
Come vuole che in queste condizioni mio figlio, mia figlia, i nostri ragazzi, i giovani, leggano?
"D'altronde i francesi leggono sempre meno..."
"E vero."




10.



Così procedono i nostri discorsi, eterna vittoria del linguaggio sull'opacità delle cose, silenzi luminosi che dicono più di quel che tacciono. Siamo persone attente e informate, non ci facciamo certo infinocchiare dalla nostra epoca. Il mondo intero è in quel che diciamo - e tutto illuminato da quel che omettiamo. Siamo lucidi. O meglio, abbiamo la passione della lucidità.
Da dove viene allora questa vaga tristezza da dopo conversazione? Questo silenzio di mezzanotte, nella casa di nuovo restituita a se stessa? E solo la prospettiva dei piatti da lavare? Oppure... A qualche centinaio di metri da lì - semaforo rosso - i nostri amici sono immersi nello stesso silenzio che, passata l'ebbrezza della lucidità, prende le coppie di ritorno da una serata, nelle auto immobili. E come un retrogusto di sbronza, la fine di un'anestesia, una lenta risalita verso la coscienza, il ritorno a se stessi e la sensazione vagamente dolorosa di non riconoscerci in quel che abbiamo detto. Non c'eravamo. Tutto il resto c'era, sicuro, gli argomenti erano giusti - e da questo punto di vista avevamo ragione - ma noi non c'eravamo. E indubbio, ancora una serata sacrificata alla pratica anestetizzante della lucidità.
E così... uno crede di tornare a casa e invece torna in se stesso.
Quel che dicevamo prima, intorno al tavolo, era agli antipodi di quello che veniva detto in noi. Parlavamo della necessità di leggere, ma eravamo vicini a lui, lassù, nella sua camera, lui che non legge. Enumeravamo le buone ragioni che quest'epoca fornisce per non amare la lettura, ma cercavamo di attraversare il libro muraglia che ci separa da lui. Parlavamo del libro, ma non pensavamo che a lui.
Lui che non ha migliorato le cose scendendo a tavola all'ultimo momento, sedendosi senza una parola di scusa con la sua pesantezza adolescenziale, non facendo il minimo sforzo per partecipare alla conversazione, e che, alla fine, si è alzato senza aspettare il dolce:
"Scusate, devo andare a leggere!"




11.



L'intimità perduta...
A ripensarci in quest'inizio di insonnia, il rituale della lettura, ogni sera, ai piedi del suo letto, quando era piccolo orario fisso e gesti immutabili - aveva qualcosa della preghiera. Quell'improvviso armistizio dopo il frastuono della giornata, quell'incontro al di là di ogni contingenza, quel momento di silenzio raccolto che precede le prime parole del racconto, la nostra voce finalmente identica a se stessa, la liturgia degli episodi... Sì, la storia letta ogni sera assolveva la più bella funzione della preghiera, la più disinteressata, la meno speculativa, e che concerne solamente gli uomini: il perdono delle offese. Non confessavamo nessun peccato, non cercavamo di conquistarci nessuna fetta di eternità, era un momento di comunione, tra di noi, l'assoluzione del testo, un ritorno all'unico paradiso che valga: l'intimità. Senza saperlo, scoprivamo una delle funzioni essenziali del racconto e più in generale dell'arte, che è quella di imporre una tregua alla lotta degli uomini.
L'amore ne usciva rinato.
Era gratis.




12.



Gratis. Proprio così lo intendeva. Un regalo, un momento fuori da qualsiasi momento. A dispetto di tutto. La storia notturna lo sgravava dal peso della giornata. Mollàti gli ormeggi, lui si faceva portare dal vento, infinitamente leggero, e il vento era la nostra voce.
In cambio di questo viaggio, non pretendevamo niente da lui, neanche un soldo, non gli chiedevamo la minima contropartita. Non era neanche una ricompensa. (Ah! le ricompense... come ci si doveva mostrare degni di essere stati ricompensati!) Qui tutto avveniva all'insegna della gratuità.
La gratuità, che è la sola moneta dell'arte.




13.



Cos'è dunque accaduto fra l'intimità di allora e lui adesso, arenato davanti a un libro-scogliera, mentre noi cerchiamo di capirlo (cioè di tranquillizzarci) incolpando il secolo e la televisione - che forse abbiamo dimenticato di spegnere?
É colpa della tivù?
Il ventesimo secolo troppo "visivo"? Il diciannovesimo troppo descrittivo? E perché no il diciottesimo troppo razionale, il diciassettesimo troppo classico, il sedicesimo troppo rinascimentale, Puskin troppo russo e Sofocle troppo morto? Come se i rapporti fra l'uomo e il libro avessero bisogno di secoli per diradarsi.
Basta qualche anno.
Qualche settimana.
Il tempo di un malinteso.
All'epoca in cui, ai piedi del suo letto, evocavamo la mantellina di Cappuccetto rosso, e, fin nei minimi dettagli, il contenuto del suo cestino, senza dimenticare le profondità del bosco, le orecchie della nonna divenute d'un tratto stranamente pelose, e il paletto dell'uscio, non ricordo che trovasse le nostre descrizioni troppo lunghe.
Da allora non sono passati secoli. Ma momenti che chiamiamo la vita, a cui diamo un'andatura di eternità a forza di princìpi intangibili: "Bisogna leggere".




14.



In questo come in altri casi la vita si manifestò con l'erosione del nostro piacere. Un anno di storie ai piedi del letto. Facciamo due anni. Tre, se proprio vogliamo. In tutto fanno 1095 storie, in ragione di una per sera. 1095 è una bella cifretta! E ci fosse solo il quarto d'ora del racconto... no, c'è anche quello che precede. Cosa gli racconterò stasera? Cosa gli leggerò?
Abbiamo conosciuto i tormenti dell'ispirazione.
All'inizio, lui ci fu di aiuto. Quel che il suo stupore ci chiedeva non era una storia, ma la stessa storia.
"Pollicino, ancora Pollicino! Ma, micio, santo cielo, non c'è solo Pollicino! C'è anche..."
Pollicino, nient'altro.
Chi avrebbe mai detto che un giorno avremmo rimpianto l'epoca felice in cui il suo bosco era abitato solo da Pollicino? Quasi ci malediremmo di avergli insegnato la diversità, dandogli la scelta.
"No, questa me l'hai già raccontata! "
Pur senza diventare un incubo, il problema della scelta si trasformò in un rompicapo. Con brevi decisioni: correre sabato prossimo in una libreria specializzata e dare uno sguardo alla letteratura per l'infanzia. Il sabato mattina rimandavamo al sabato successivo. Quel che per lui rimaneva un'attesa sacra per noi era entrato a far parte dei problemi domestici. Problema minore, certo, ma che andava ad aggiungersi agli altri, di proporzioni più considerevoli. Minore o non minore, una preoccupazione ereditata da un piacere va tenuta d'occhio. E noi non l'abbiamo fatto. Abbiamo conosciuto momenti di rivolta.
"Perché io? Perché non tu? Stasera, mi spiace, ma la storia gliela racconti tu!"
"Ma lo sai che non ho fantasia..."
Ogni volta che se ne presentava l'occasione, delegavamo presso di lui un'altra voce, cugino, cugina, baby-sitter, zia di passaggio, una voce finora risparmiata, che trovava ancora qualche piacere nell'esercizio, ma che spesso si smontava di fronte alle sue esigenze di pubblico pignolo:
"Non è così che risponde la nonna!"
Abbiamo anche giocato vergognosamente d'astuzia. Più di una volta siamo stati tentati di trasformare in moneta di scambio il valore che lui attribuiva alla storia.
"Se continui così, stasera niente storia!"
Minaccia che raramente attuavamo. Fare un'urlata o privarlo del dolce non aveva gravi conseguenze. Ma mandarlo a letto senza raccontargli la storia voleva dire far precipitare la sua giornata in una notte troppo nera. E lasciarlo senza averlo ritrovato. Punizione intollerabile, sia per lui, sia per noi.
Rimane che quella minaccia l'abbiamo proferita... oh! una sciocchezza, solo un'espressione indiretta di stanchezza, la tentazione appena confessata di utilizzare una volta tanto quel quarto d'ora per qualcos'altro, un'altra incombenza domestica o semplicemente un momento di silenzio... una lettura per sé.
Il narratore in noi aveva il fiato corto, pronto a cedere il testimone.




15.



La scuola giunse a proposito. Prese in mano il futuro. Leggere, scrivere, contare... All'inizio, lui si buttò pieno di entusiasmo.
Era troppo bello che tutte quelle aste, quelle gambette, quei cerchi, quei piccoli ponti messi insieme formassero delle lettere. E quelle lettere delle sillabe, e quelle sillabe, testa a testa, delle parole. Non riusciva a capacitarsi! E che alcune parole gli fossero così familiari, era qualcosa di magico!
Mamma, per esempio, mamma, tre piccoli ponti, un cerchio, una gambetta, sei piccoli ponti, un altro cerchio, un'altra gambetta, risultato: mamma. Come riaversi da un simile prodigio?
Bisogna cercare di immaginarsi la cosa. Si è alzato presto. E uscito, accompagnato appunto dalla mamma, sotto una pioggerellina autunnale (sì, una pioggerellina autunnale e una luce da acquario abbandonato, non lesiniamo sulla drammatizzazione atmosferica), si è diretto verso la scuola ancora tutto avvolto dal calore del letto, in bocca un retrogusto di cioccolata, stringendo forte la mano sopra la sua testa, filando spedito, due passi per ogni passo della mamma, con la cartella che gli dondola sulle spalle, ed ecco il portone della scuola, il bacio frettoloso, il cortile di cemento e i castagni neri, i primi decibel... Si è rintanato sotto il portico, oppure si è buttato nella mischia, dipende, poi tutti si sono ritrovati seduti dietro a banchi lillipuziani, immobilità e silenzio, tutti i movimenti del corpo irrigiditi nel tentativo di controllare lo spostamento della penna in quel corridoio dal soffitto basso che è la riga! Lingua fuori, dita intorpidite e polso rigido... piccoli ponti, aste, gambette, cerchi e piccoli ponti... è a mille miglia dalla mamma, adesso, immerso nella strana solitudine chiamata sforzo, circondato da tutte le altre solitudini con la lingua fuori... ed ecco l'insieme delle prime lettere, righe di "a"... righe di "m"... righe di "t" (mica facile, la "t", con quella sbarretta trasversale, ma uno scherzo rispetto alla doppia rivoluzione della "f", o all'incredibile evoluzione della "z"...) difficoltà peraltro vinte una dopo l'altra... al punto che le lettere, calamitatesi a vicenda, finiscono per aggregarsi da sole in sillabe... righe di "ma"... righe di "pa" e a loro volta le sillabe...
Insomma un bel mattino o un pomeriggio, con le orecchie ancora ronzanti del frastuono della mensa, eccolo assistere al silenzioso sbocciare della parola sulla pagina bianca, lì davanti a lui: mamma.
Certo, l'aveva già vista alla lavagna, l'aveva riconosciuta più volte, ma lì, sotto i suoi occhi, scritta con le sue dita...
Con voce prima incerta, recita le due sillabe separatamente: "Mam-ma " .
E d'un tratto:
"Mamma!"
Questo grido di gioia celebra l'esito del più gigantesco viaggio intellettuale che Si possa immaginare, una sorta di primo passo sulla luna, il passaggio dall'assoluto arbitrario grafico al significato più carico di emozione! Piccoli ponti, gambette, cerchi... e... mamma! E scritto proprio lì davanti ai suoi occhi, ma è dentro di lui che sboccia! Non è una combinazione di sillabe, non è una parola, non è un concetto, non è una mamma, è la sua mamma, una trasmutazione magica, infinitamente più eloquente della più fedele fotografia, eppure nient'altro che qualche piccolo cerchio, qualche ponte... ma che d'un tratto - e per sempre - hanno smesso di essere se stessi, di essere niente, per trasformarsi in questa presenza, questa voce, questo profumo, questa mano, questo grembo, questa infinità di dettagli, questo tutto così intimamente assoluto, e così assolutamente estraneo a quel che è tracciato lì, sui binari della pagina, fra le quattro pareti dell'aula... La pietra filosofale. Né più né meno. Ha scoperto la pietra filosofale.




16.



Non si guarisce da questa metamorfosi. Non si torna indenni da un simile viaggio. A ogni lettura presiede, per quanto inibito, il piacere di leggere; e per la sua stessa natura - questa gioia da alchimista - il piacere di leggere non ha nulla da temere dall immagine, anche televisiva, e anche sotto forma di massicce dosi quotidiane.
Se però il piacere di leggere è andato perduto (se, come diciamo: mio figlio, mia figlia, i giovani non amano leggere) non si è perduto molto lontano.
Appena smarrito.
Facile da ritrovare.
Ma bisogna sapere lungo quali sentieri cercarlo, e, per fare questo, avere presenti alcune verità senza rapporto con gli effetti della modernità sui giovani. Alcune verità che riguardano solo noi... Noi che affermiamo di "amare leggere", e che sosteniamo di voler far condividere questo amore.




17.



Ancora tutto pieno di stupore se ne torna dunque da scuola, molto fiero se non addirittura contento di sé. Esibisce le macchie di inchiostro come altrettante medaglie, e sfoggia con orgoglio le ragnatele della biro a quattro colori.
Una felicità che può ancora ripagarlo dei primi tormenti della vita scolastica: lunghezza assurda delle ore di lezione, esigenze della maestra, baccano della mensa, prime pene d'amore...
Arriva, apre la cartella, mostra le sue prodezze, riproduce le parole sacre (e se non è "mamma", sarà "papà", o "casa", o "gatto" o il suo nome...).
In giro per la città si trasforma nell'instancabile doppio della grande epistola pubblicitaria... FORD, BANCA POPOLARE, COCA-COLA, le parole gli cadono dal cielo, le loro sillabe colorate gli esplodono in bocca. Non una sola marca di detersivo resiste alla sua passione per la decifrazione.
"'La-va-più-bian-co', cosa vuol dire 'lavapiùbianco?"'
Poiché è giunta l'ora delle domande cruciali.




18.



Ci siamo forse lasciati abbagliare da questo entusiasmo? Abbiamo creduto che a un bambino bastasse godere delle parole per padroneggiare i libri? Abbiamo forse pensato che l'apprendimento della lettura si facesse da solo, come l'andatura eretta o il linguaggio - un altro privilegio della specie, insomma? Comunque sia, è stato a questo punto che abbiamo deciso di porre fine alle nostre letture serali.
La scuola gli insegnava a leggere, lui lo faceva con passione, era una svolta della sua vita, una nuova autonomia, un'altra versione dei primi passi, ecco quel che ci siamo detti, molto confusamente, senza davvero dircelo, tanto l'avvenimento ci sembrò "naturale", una tappa come un'altra in un'evoluzione biologica senza scosse.
Adesso era "grande", poteva leggere da solo, camminare da solo nel territorio dei segni...
E lasciarci finalmente il nostro quarto d'ora di libertà.
Il suo recentissimo orgoglio non fece quasi nulla per smentirci. Si infilava nel letto, con il suo BABAR aperto sulle ginocchia e una ruga di concentrazione fra gli occhi: leggeva.
Rassicurati da questa pantomima, uscivamo dalla sua stanza senza capire - o senza voler confessare a noi stessi che la prima cosa che un bambino impara non è l'atto, ma il gesto dell'atto, e che se questa ostentazione può aiutare l'apprendimento, in realtà essa è soprattutto destinata a rassicurarlo, compiacendoci.




19.



Non per questo siamo diventati genitori indegni. Non l'abbiamo abbandonato alla scuola. Al contrario, abbiamo seguito da vicino i suoi progressi. La maestra ci conosceva quali genitori attenti, presenti a tutte le riunioni, "aperti al dialogo".
Abbiamo aiutato l'apprendista a fare i compiti. E quando ha cominciato ad avere il fiato corto in materia di lettura abbiamo valorosamente insistito perché leggesse la sua pagina quotidiana, ad alta voce, e ne capisse il senso.
Non sempre facile.
Un parto per ogni sillaba.
Il significato della parola perso nello sforzo stesso della sua composizione.
Il senso della frase polverizzato dal numero delle parole.
Tornare indietro.
Ricominciare.
Instancabilmente.
"Allora, cos'hai letto, lì? Cosa vuol dire?"
E tutto ciò, nel momento peggiore della giornata. Al suo ritorno da scuola, o al nostro ritorno dal lavoro. All'apice della sua stanchezza o al minimo delle nostre forze.
"Non ti applichi!"
Nervosismo, urla, rinunce spettacolari, porte che sbattono o invece ostinazione.
"Ricominciamo, ricominciamo dall'inizio!"
E lui ricominciava, dall'inizio, ogni parola deformata dal tremito delle labbra.
"E non fare tutte queste scene!"
Ma quel magone non era un trucco per infinocchiarci. Era un magone vero, incontrollabile, che ci diceva appunto il dolore di non controllare più niente, di non recitare più la parte come piaceva a noi. Era un magone che si alimentava all'origine della nostra preoccupazione molto più che alle manifestazioni della nostra impazienza.
Perché eravamo preoccupati.
Preoccupati al punto da cominciare a confrontarlo con altri bambini della sua età, a interrogare i nostri amici Tal dei tali la cui figlia, no, no, andava molto bene a scuola, e divorava libri, sì.
Era sordo? O magari dislessico? Non aveva mica intenzione di farci un "rifiuto scolastico" ? O di accumulare un ritardo irrecuperabile?
Consultazioni varie: audiogrammi normalissimi, diagnosi rassicuranti degli ortofonisti, serenità degli psicologi...
Allora?
Pigro?
Semplicemente pigro?
No, seguiva il suo ritmo, ecco tutto, che non è necessariamente quello di un altro, e che non è necessariamente il ritmo uniforme di una vita. Il suo ritmo di apprendista lettore, che conosce accelerazioni e brusche regressioni, periodi di bulimia e lunghe sieste digestive, la sete di progredire e la paura di deludere...
Solo che noialtri "pedagoghi" siamo usurai impazienti. Detentori del Sapere, lo prestiamo contro interessi. E vogliamo che renda, e in fretta! Se ciò non accade, è di noi stessi che dubitiamo.




20.



Se, come usiamo dire, mio figlio, mia figlia, i giovani non amano leggere - e il verbo è giustissimo, poiché proprio di una ferita d'amore si tratta - non bisogna incolpare né la televisione, né i tempi moderni, né la scuola. Oppure, se vogliamo, tutte queste cose insieme, ma solo dopo esserci posti una domanda fondamentale: che cosa ne abbiamo fatto del lettore ideale che lui era all'epoca in cui noi stessi svolgevamo contemporaneamente il ruolo del narratore e quello del libro?
Quale enorme tradimento !
Lui, il racconto e noi formavamo una Trinità ogni sera riunificata. Adesso lui è solo, davanti a un libro ostile.
La leggerezza delle nostre frasi lo liberava dalla forza di gravità, ora l'indecifrabile brulichio delle lettere soffoca persino le sue tentazioni di sogno.
L'avevamo iniziato al viaggio verticale, ora è schiacciato dallo stupore dello sforzo.
L'avevamo dotato dell'ubiquità, eccolo imprigionato nella sua camera, nella sua classe, nel suo libro, in una riga, in una parola.
Dove mai si nascondono tutti quei personaggi magici, quei fratelli, quelle sorelle, quei re, quelle regine, quegli eroi, così perseguitati da così tanti cattivi, e che lo liberavano dalla preoccupazione di essere chiamandolo in loro aiuto? E possibile che abbiano qualcosa a che fare con le tracce d'inchiostro brutalmente schiacciate che chiamiamo lettere? E possibile che quei semidei siano stati a tal punto sbriciolati, ridotti a semplici segni di stampa? E che il libro sia diventato questo oggetto? Strana metamorfosi! Il rovescio della magia. Lui e i suoi eroi soffocati insieme dalla muta pesantezza del libro!
E non è la minore delle metamorfosi l'accanimento di papà e mamma a volere, come la maestra, che lui liberi quel sogno imprigionato.
"Allora, cos'è successo al principe, eh? Sto aspettando! "
Quei genitori che mai, mai, quando gli leggevano un libro, Si curavano di sapere se avesse capito che la Bella addormentata dormiva nel bosco perché si era punta con il fuso, e Biancaneve perché aveva mangiato la mela. (Le prime volte, d'altronde, non aveva veramente capito. C'erano così tante meraviglie, in quelle storie, così tante parole carine, tante di quelle emozioni! Con grande impegno si metteva ad aspettare il pezzo preferito, che recitava fra sé quand'era il momento; poi venivano gli altri, più oscuri, dove si intrecciavano tutti i misteri, ma pian piano lui capiva tutto, assolutamente tutto, e sapeva benissimo che se la Bella addormentata dormiva era per via del fuso, e Biancaneve per questioni di mela...)
"Ripeto la domanda: che cosa è successo alprincipe quando il padre l'ha cacciato dal castello?"
Noi insistiamo, insistiamo. Santo Dio, non è possibile che questo bambino non abbia capito il contenuto di quindici righe! Non sono poi la fine del mondo, quindici righe!
Eravamo il suo narratore, siamo diventati il suo contabile.
"Se è così, allora stasera niente tivù!"
Eh! Sì...
Sì... La televisione elevata alla dignità di ricompensa... e, come corollario, la lettura relegata al rango di corvé. E nostra, questa gran trovata...




21.