PROLOGO
PARIGI, 2011
PARIGI, 2011
1
Quella primavera ho collaborato alla sceneggiatura di una serie televisiva. Questo il soggetto: una notte, in un paese di montagna, tornano dei morti. Non si sa perché, né perché proprio quei morti e non altri. Loro stessi non sanno di essere morti. Lo capiscono dallo sguardo spaventato delle persone che amano, che li amavano, accanto alle quali vorrebbero riprendere il proprio posto. Non sono zombie, non sono fantasmi, non sono vampiri. Non siamo in un film fantastico ma nella realtà. Ci si chiede, seriamente: che cosa succederebbe se questo evento impossibile capitasse perdavvero? Se entrando in cucina trovaste vostra figlia adolescente, morta da tre anni, che si sta preparando una scodella di cereali con la paura di essere sgridata perché è tornata a casa tardi e non ricorda assolutamente nulla di ciò che è accaduto la sera prima, voi come reagireste? In concreto: quali gesti fareste? Quali parole direste?
È un pezzo che non scrivo un vero romanzo, ma so riconoscere un meccanismo narrativo efficace, quando me ne propongono uno, e questo era di gran lunga il più efficace che mi fosse mai stato proposto nella mia carriera di sceneggiatore. Per quattro mesi ho lavorato tutti i giorni, dalla mattina alla sera, insieme al regista Fabrice Gobert, con un entusiasmo misto spesso a sbalordimento davanti alle situazioni che creavamo e ai sentimenti che maneggiavamo. Poi, per quanto mi riguarda, i rapporti con i produttori si sono guastati. Ho quasi vent’anni più di Fabrice, e sopportavo meno bene di lui il fatto di essere messo continuamente sotto esame da un manipolo di fighetti con la barba di tre giorni che potevano essere miei figli e prendevano un’aria di sufficienza davanti a quello che avevamo scritto. La tentazione di dire: «Ragazzi, se sapete così bene che cosa bisogna fare, fatevelo da soli» era forte. E vi ho ceduto. Contro i saggi consigli di mia moglie Hélène e di François, il mio agente, non sono stato umile e me ne sono andato sbattendo la porta a metà della prima stagione.
Ho cominciato a pentirmene soltanto qualche mese dopo, più precisamente in occasione di una cena a cui avevo invitato Fabrice e il direttore della fotografia Patrick Blossier, che aveva lavorato nel mio film L’amore sospetto. Ero sicuro che Patrick sarebbe stata la persona giusta per occuparsi della fotografia dei Revenants, che lui e Fabrice si sarebbero capiti alla perfezione, e così è stato. Ma quella sera, intorno al tavolo della cucina, ascoltandoli parlare della serie in preparazione, delle storie che avevamo immaginato insieme io e Fabrice nel mio studio e che adesso prendevano forma nelle scelte di ambienti, di attori, di tecnici, sentivo quasi fisicamente mettersi in moto quella enorme ed eccitante macchina che sono le riprese, mi dicevo che avrei dovuto esserci anch’io, che per colpa mia non ci sarei stato, e a un tratto ho cominciato a essere triste, triste come quel tipo, Pete Best, per due anni batterista di un gruppetto di Liverpool chiamato The Beatles da cui è stato scaricato alla vigilia del primo contratto discografico, e che deve avere passato il resto della vita, immagino, a mangiarsi le mani. (Les Revenants ha avuto un successo planetario e, nel momento in cui sto scrivendo, ha appena ottenuto l’International Emmy Award per la miglior serie televisiva del mondo).
Durante la cena ho bevuto troppo. L’esperienza mi ha insegnato che è meglio non dilungarsi su quello che si sta scrivendo finché non si è finito di scriverlo, soprattutto quando si è sbronzi: le confidenze fatte in un momento di euforia si pagano sempre con una settimana di scoramento. Ma quella sera, probabilmente per combattere la stizza e dimostrare che anch’io facevo qualcosa d’interessante, ho parlato a Fabrice e Patrick del libro sui primi cristiani a cui lavoravo ormai da parecchi anni. L’avevo accantonato per dedicarmi ai Revenants, e l’avevo appena ripreso in mano. L’ho raccontato come si racconta una serie televisiva.
La scena si svolge a Corinto, in Grecia, verso il 50 dopo Cristo – anche se naturalmente, all’epoca, nessuno immagina di vivere «dopo Cristo». All’inizio si vede arrivare un predicatore itinerante che apre una modesta bottega di tessitore. Senza mai muoversi da dietro il suo telaio, quello che in seguito verrà chiamato san Paolo tesse la propria tela e a poco a poco la stende su tutta la città. Calvo, barbuto, sfiancato dai repentini attacchi di una misteriosa malattia, racconta a voce bassa e suadente la storia di un profeta crocifisso vent’anni prima in Giudea. Dice che quel profeta è tornato dal mondo dei morti e che il suo ritorno è il segno premonitore di qualcosa di straordinario: una trasformazione, allo stesso tempo radicale e invisibile, dell’umanità. Il contagio si diffonde. I seguaci della strana fede che si propaga attorno a Paolo nei bassifondi di Corinto arrivano ben presto a vedere se stessi come dei mutanti: mimetizzati da amici o da vicini di casa, impossibili da individuare.
A Fabrice brillano gli occhi: «Raccontata così, sembra Philip Dick!». Mentre lavoravamo alla sceneggiatura della serie, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick è stato uno dei nostri principali punti di riferimento; sento che ho il pubblico in pugno, rincaro la dose: sì, sembra Dick, e la storia degli inizi del cristianesimo è la stessa dei Revenants. Quello che LesRevenants racconta sono gli ultimi giorni prima della fine, quando i morti risorgeranno e avrà luogo il Giudizio universale, giorni che i seguaci di Paolo erano convinti di star vivendo. È la comunità di paria e di eletti che si forma attorno a questo evento stupefacente: una resurrezione. È la storia di un evento impossibile che pure accade. Mi scaldo, mi riempio un bicchiere dopo l’altro, insisto per riempire quello dei miei ospiti, e a questo punto Patrick dice una cosa in fondo abbastanza ovvia ma che mi colpisce perché si vede che gli è venuta in mente all’improvviso, che non ci aveva pensato prima e che sorprende anche lui.
Dice che, a pensarci, è curioso che persone normali, intelligenti, possano credere a una cosa tanto pazzesca come la religione cristiana, una cosa in tutto e per tutto identica alla mitologia greca o alle favole. Nei tempi andati, lo si può anche capire: la gente era ingenua e non esisteva la scienza. Ma oggi! Se oggi uno credesse a storie di dèi che diventano cigni per sedurre una donna mortale, o di principesse che baciano rospi e con il loro bacio li trasformano in principi azzurri, tutti direbbero: quello è matto. Fatto sta che un sacco di persone credono a una storia altrettanto assurda senza per questo essere considerate matte. Vengono prese sul serio, anche da chi non ne condivide la fede. Hanno un ruolo sociale, meno importante di un tempo, ma rispettato, e nel complesso abbastanza positivo. La loro fisima convive con attività assolutamente ragionevoli. Le più alte cariche dello Stato rendono visita al loro capo assumendo un contegno deferente. È per lo meno strano, no?
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Sì, è strano, e Nietzsche, di cui ogni mattina leggo qualche pagina al bar dopo aver accompagnato Jeanne a scuola, esprime lo stesso stupore di Patrick Blossier in questi termini:
«Quando in un mattino di domenica sentiamo rimbombare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è mai possibile! Ciò si fa per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere il figlio di Dio. La prova di una tale asserzione manca. Sicuramente nei nostri tempi la religione cristiana è un’antichità emergente da epoche remotissime, e che si creda a quell’asserzione – mentre per il resto si è così rigorosi nell’esaminare ogni pretesa – è forse il frammento più antico di quest’eredità. Un Dio che genera figli con una donna mortale; un saggio che incita a non lavorare più, a non pronunciare più sentenze, e a badare invece ai segni della prossima fine del mondo; una giustizia che accetta l’innocente come vittima vicaria; qualcuno che comanda ai suoi discepoli di bere il suo sangue; preghiere per interventi miracolosi; peccati commessi contro un Dio, espiati da un Dio; paura di un aldilà, la porta del quale è la morte; il segno della croce come simbolo in un tempo che non conosce più la condanna e l’ignominia della croce – qual gelido soffio ci manda tutto ciò, come dal sepolcro di un antichissimo passato! Chi crederebbe che una cosa simile viene ancora creduta?».
Eppure viene creduta. Sono in molti a crederci. Durante la messa recitano il Credo, ogni frase del quale è un insulto al buonsenso, e lo recitano nella loro lingua, che si presume capiscano. Quand’ero piccolo, la domenica mio padre mi portava in chiesa e gli dispiaceva che la messa non fosse più in latino, un po’ per passatismo, e un po’ perché, ricordo ancora le sue parole, «in latino non ci si accorgeva che scemenza fosse». Ci si può rassicurare dicendo: non ci credono. Come non credono a Babbo Natale. Fa parte di un retaggio, di abitudini secolari e belle alle quali sono attaccati. Tramandandole, affermano un legame, di cui vanno fieri, con ciò che ha ispirato le cattedrali e la musica di Bach. Borbottano quelle parole perché è la consuetudine, come noialtri radical-chic, per i quali il corso di yoga della domenica mattina ha preso il posto della messa, borbottiamo un mantra seguendo il maestro prima di cominciare la pratica. In questo mantra, tuttavia, ci auguriamo che la pioggia cada al momento giusto e tutti gli uomini vivano in pace, nient’altro che pii desideri, probabilmente, i quali però non offendono la ragione, e questa è una differenza sostanziale con il cristianesimo.
Comunque, tra i fedeli, accanto a quelli che si fanno cullare dalla musica senza preoccuparsi delle parole devono esserci anche quelli che le pronunciano con convinzione, con cognizione di causa, dopo averci riflettuto. A domanda, risponderanno che loro credono veramente che duemila anni fa un ebreo è nato da una vergine, risorto tre giorni dopo essere stato crocifisso, e che tornerà per giudicare i vivi e i morti. Risponderanno che loro stessi fanno di questi eventi il centro delle loro vite.
Sì, non c’è dubbio, è strano.
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Quando mi occupo di un argomento, mi piace aggredirlo su più fronti. Avevo cominciato a scrivere delle prime comunità cristiane quando mi è venuta l’idea di fare, in parallelo, un reportage su che cos’era diventata la loro fede duemila anni dopo, e a tal scopo di iscrivermi a una di quelle crociere «sulle orme di san Paolo» che organizzano le agenzie specializzate in turismo religioso.
Quand’erano vivi, i genitori della mia prima moglie sognavano di farne una, come sognavano di andare a Lourdes, ma a Lourdes ci sono andati diverse volte, mentre la crociera San Paolo è rimasta un sogno. Mi sembra che a un certo punto i figli abbiano pensato di fare una colletta per regalare a mia suocera, rimasta vedova, quel viaggio che, con suo marito, l’avrebbe riempita di gioia. Senza di lui, non ne aveva più voglia: i figli hanno insistito un po’, poi hanno lasciato perdere.
Io, naturalmente, non ho gli stessi gusti dei miei ex suoceri, e mi raffiguravo con un divertimento venato di apprensione gli scali di mezza giornata a Corinto o Efeso, il gruppo di pellegrini dietro la guida, un giovane prete che sventola una bandierina e manda in estasi il gregge con il suo humour. Ho notato che nelle associazioni cattoliche lo humour del prete è un motivo ricorrente; le barzellette da prete: al solo pensarci mi vengono i brividi. In una situazione del genere avevo poche speranze di incontrare una bella ragazza – e anche ammettendo che potesse succedere, mi domandavo che effetto mi avrebbe fatto una bella ragazza iscrittasi volontariamente a una crociera cattolica: ero o no abbastanza perverso da trovarlo eccitante? Il mio progetto però non era quello di rimorchiare ma di considerare i croceristi un campione di cristiani convinti e interrogarli sistematicamente per dieci giorni. Dovevo procedere a quella specie di inchiesta in incognito, fingendo di condividere la loro fede, come fanno i giornalisti che si infiltrano nei circoli neonazisti, o giocare invece a carte scoperte? Non ci ho messo molto a decidere. Il primo metodo non mi piace e il secondo, a mio parere, dà sempre risultati migliori. Avrei detto la pura verità: sono uno scrittore agnostico che cerca di sapere in che cosa credono, di preciso, alcuni cristiani d’oggi. Se avete voglia di parlarne con me, ne sarò felice, altrimenti non vi importuno oltre.
Mi conosco, so che sarebbe andata bene. Con il passare dei giorni, dei pasti, delle chiacchierate, avrei finito per trovare interessanti, commoventi, persone che in linea di principio mi erano estranee. Mi vedevo in mezzo a una tavolata di cattolici mentre me li lavoravo con tatto, citando per esempio il Credo riga per riga. «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra». Voi ci credete, ma come ve lo raffigurate? Come un uomo con la barba seduto su una nuvola? Come una forza superiore? Come un essere a cui facciamo lo stesso effetto che le formiche fanno a noi? Come un lago o una fiamma in fondo al vostro cuore? E Gesù Cristo, suo figlio unigenito, che «di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine»? Parlatemi di questa gloria, di questo giudizio, di questo regno. Per arrivare al nocciolo della questione: credete che Gesù sia veramente risorto?
Era l’anno paolino: sul transatlantico ci sarebbe stata una rappresentanza del clero in grande spolvero. Tra gli oratori in scaletta figurava monsignor Vingt-Trois, l’arcivescovo di Parigi. I pellegrini erano molti, parecchi viaggiavano in coppia, e chi non era accompagnato accettava in genere di condividere la cabina con uno sconosciuto dello stesso sesso – cosa che io non desideravo affatto. Con l’esigenza supplementare di una cabina singola, la crociera era piuttosto cara: poco meno di duemila euro. Ho versato la metà circa sei mesi prima. Già allora non c’erano quasi più posti.
A mano a mano che si avvicinava la scadenza, ho cominciato a sentirmi a disagio. Mi scocciava che in cima alla pila delle lettere, sul mobile all’ingresso, potesse spuntare una busta intestata delle crociere San Paolo. Hélène, che già mi sospettava di essere, parole sue, «un po’ cattolico», aveva dei dubbi su quel progetto. Io non ne parlavo con nessuno e ho capito che in realtà me ne vergognavo.
Ciò di cui mi vergognavo era il sospetto di volerci andare per farmi beffe, in qualche misura, di quelle persone, o comunque spinto dalla stessa curiosità non priva di sufficienza che è la molla di reportage televisivi in cui si mostrano nani lanciati in aria, psichiatri per maialini d’India o gare fra sosia di suor Sorriso, quell’infelice suora belga, con chitarra e codini, che cantava «Dominique nique nique» e dopo un quarto d’ora di celebrità è sprofondata nell’alcol e nei barbiturici. A vent’anni ho scritto qualche pezzo per un settimanale modaiolo e «urticante», il quale sul primo numero pubblicò un’inchiesta dal titolo I confessionali al banco di prova. Spacciandosi per credente, vale a dire vestendosi il peggio possibile, il giornalista aveva teso un tranello ai preti di diverse parrocchie parigine confessando loro peccati sempre più fantasiosi. Lo raccontava divertito, dando per scontato di essere infinitamente più libero e intelligente di quegli sfigati di preti e dei loro fedeli. Già all’epoca mi era parsa una trovata demenziale e scorretta – tanto più demenziale e scorretta perché, se qualcuno avesse osato fare lo stesso in una sinagoga o in una moschea, da tutti gli schieramenti politici si sarebbe levato un coro di proteste indignate: a quanto pare soltanto i cristiani si possono prendere in giro impunemente, contando sulla divertita complicità dei lettori. E ho cominciato a pensare che, nonostante i miei proclami di buonafede, l’idea del safari tra i cattolici non era niente di diverso.
Ero ancora in tempo per annullare l’iscrizione e anche per riavere indietro la caparra, ma non riuscivo a decidermi. Quando è arrivata la lettera che mi invitava a saldare la quota, l’ho buttata. Sono seguite altre sollecitazioni, che ho ignorato. Alla fine, l’agenzia mi ha telefonato e io ho risposto che avevo un impedimento e non ci sarei andato. La signora dell’agenzia mi ha gentilmente fatto notare che avrei dovuto informarli prima, perché ormai, a un mese dalla partenza, nessuno avrebbe preso la mia cabina: anche se non ci andavo, avrei dovuto versare l’intera somma. Mi sono arrabbiato, ho detto che la metà era già molto per una crociera che non avrei fatto. Lei mi ha ricordato i termini del contratto, che non lasciavano spazio a dubbi. Ho riagganciato. Per qualche giorno ho pensato di non dare segni di vita. Doveva pur esserci una lista d’attesa, uno scapolo devoto sarebbe stato felice di rilevare la mia cabina, a ogni modo non mi avrebbero fatto causa. O forse sì: l’agenzia aveva di sicuro un ufficio contenziosi, mi avrebbero spedito una raccomandata dopo l’altra e se non pagavo saremmo finiti davanti a un giudice. Improvvisamente sono andato in paranoia all’idea che, pur non essendo io molto noto, qualche giornalista ne avrebbe tratto spunto per un trafiletto ironico, e che da quel momento in poi il mio nome sarebbe stato associato a una ridicola storia di tentata frode in una crociera per baciapile. A essere onesti, ma la cosa non è necessariamente meno ridicola, dovrei dire che alla paura di essere preso con le mani nel sacco si aggiungeva la consapevolezza di aver progettato quella che mi sembrava sempre più una cattiva azione, e che era giusto pagare per questo. Conclusione, ho spedito il secondo assegno senza aspettare la prima raccomandata.
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A forza di girare intorno a questo libro, mi sono accorto che è molto difficile far parlare le persone della loro fede, e che la domanda «in che cosa crede, di preciso?» è una domanda sbagliata. Del resto, anche se per arrivarci ci ho messo un bel po’, alla fine ho capito che non aveva molto senso da parte mia cercare qualche cristiano da interrogare come avrei cercato la vittima di un sequestro, o uno colpito da un fulmine, o l’unico superstite di un disastro aereo. Perché un cristiano l’ho avuto a portata di mano per parecchi anni, più vicino di chiunque altro al mondo, ed ero io.
In poche parole: nell’autunno del 1990 sono stato «toccato dalla grazia» – dire che oggi provo imbarazzo a esprimermi così è un eufemismo, ma è così che mi esprimevo all’epoca. Il fervore prodotto da questa «conversione» – avrei voglia di mettere virgolette dovunque – è durato quasi tre anni, nel corso dei quali mi sono sposato in chiesa, ho fatto battezzare i miei due figli, sono andato a messa regolarmente – e con «regolarmente» non intendo una volta alla settimana, ma ogni giorno. Mi confessavo e mi comunicavo. Pregavo, ed esortavo i miei figli a farlo con me – cosa sulla quale, ora che sono grandi, non mi risparmiano battute sarcastiche.
Durante quegli anni ho commentato ogni giorno qualche versetto del Vangelo secondo Giovanni. Questi commenti riempiono una ventina di quaderni, che da allora non ho mai più aperto. Non ho un bellissimo ricordo di quel periodo, e ho cercato in tutti i modi di dimenticarlo. Miracolo dell’inconscio: ci sono riuscito così bene che ho potuto mettermi a scrivere sulle origini del cristianesimo senza fare il collegamento. Senza ricordarmi che, a quella storia che oggi m’interessa tanto, c’è stato un momento della mia vita in cui ho creduto.
Ora ci sono, me lo ricordo. E anche se mi fa paura, so che è venuto il momento di rileggere quei quaderni.
Ma dove sono?
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L’ultima volta che li ho visti era il 2005, e stavo male, malissimo. È stata, finora, l’ultima delle grandi crisi che ho attraversato, e una delle più dure. Si può parlare, per comodità, di depressione, ma non penso si trattasse di questo. Neanche lo psichiatra che mi seguiva all’epoca lo pensava, né riteneva che gli antidepressivi mi sarebbero stati di qualche aiuto. Aveva ragione; ne ho provati parecchi che hanno avuto soltanto gli effetti collaterali indesiderati. L’unica cura che mi abbia dato un po’ di sollievo è stato un farmaco per psicotici che, secondo l’avvertenza, guariva dalle «convinzioni infondate». Poche cose a quell’epoca mi facevano ridere, ma queste «convinzioni infondate» sì, di un riso non propriamente allegro.
In Vite che non sono la mia ho raccontato la seduta che ho avuto allora con il vecchio psicoanalista François Roustang, ma ho raccontato solamente il finale. Racconto ora l’inizio – quell’unico incontro è stato denso. Ho tirato fuori tutto: il dolore incessante alla bocca dello stomaco, che io paragonavo alla volpe che divora le viscere del piccolo spartano nei miti e nelle leggende dell’antica Grecia; la sensazione, o piuttosto la certezza, di essere un fallimento totale, di non riuscire né ad amare né a lavorare, di fare soltanto del male a chi mi stava intorno. Ho detto che pensavo al suicidio e poiché, nonostante tutto, ero andato da lui nella speranza che mi proponesse un’altra soluzione, ma con mia grande sorpresa lui non sembrava intenzionato a propormi niente, gli ho chiesto se avrebbe accettato, come ultimo tentativo, di prendermi in analisi. Avevo già passato dieci anni sui divani di due suoi colleghi, senza risultati apprezzabili – o almeno è ciò che pensavo in quel momento. Roustang ha risposto di no, che non mi avrebbe preso. Innanzitutto perché era troppo vecchio, e poi perché secondo lui l’unica cosa che mi interessava nell’analisi era mettere in scacco l’analista; perché evidentemente ero diventato bravissimo, e se volevo dimostrare per la terza volta la mia bravura lui non me l’avrebbe impedito, ma, ha aggiunto, «non con me. E, se fossi in lei, proverei con qualcos’altro». «Che cosa?» ho chiesto, con la superiorità dell’incurabile. «Be’,» ha risposto Roustang «lei ha parlato di suicidio. Oggi non gode di ottima fama, ma qualche volta è una soluzione».
Detto ciò, è rimasto in silenzio. Anch’io. Poi ha soggiunto: «In alternativa, può vivere».
Con quelle due frasi Roustang ha mandato in frantumi il sistema che mi aveva permesso di tenere in scacco i miei due precedenti analisti. Era audace da parte sua, era quel genere di audacia che probabilmente si poteva permettere Lacan, grazie a una analoga lucidità diagnostica. Roustang aveva capito che, al contrario di quello che pensavo io, non mi sarei suicidato e, a poco a poco, senza che l’abbia mai più rivisto, le cose hanno cominciato ad andare meglio. Comunque, sono tornato a casa nello stesso stato d’animo di quando ero uscito per andare da lui, vale a dire non proprio deciso a suicidarmi ma convinto che lo avrei fatto. Sul soffitto, proprio sopra il letto dove rimanevo prostrato giornate intere, c’era un gancio di cui ho saggiato la resistenza salendo su uno sgabello. Ho scritto una lettera a Hélène, un’altra ai miei figli, una terza ai miei genitori. Ho ripulito il computer, cancellando senza esitare qualche file che non volevo fosse trovato dopo la mia morte. Ho esitato, invece, davanti a uno scatolone che mi aveva seguito in parecchi traslochi ma che non avevo mai riaperto. Era lo scatolone in cui avevo riposto i quaderni che risalivano al mio periodo cristiano: quelli in cui scrivevo, ogni mattina, i miei commenti al Vangelo secondo Giovanni.
Avevo sempre detto a me stesso che un giorno li avrei riletti e forse ne avrei ricavato qualcosa. In fondo non capita spesso di avere a disposizione documenti di prima mano su un periodo della propria vita in cui eravamo completamente diversi da quello che siamo diventati poi, in cui avevamo certezze granitiche che ora consideriamo assurde. Da un lato non avevo nessuna voglia di lasciarmi dietro quei documenti se morivo. Dall’altro, se non mi fossi suicidato, mi sarei certamente pentito di averli distrutti.
Miracoli dell’inconscio, parte seconda: non mi ricordo che cosa ho fatto. Insomma, sì: la depressione è durata ancora qualche mese, poi ho cominciato a scrivere quello che è divenuto La vita come un romanzo russo e questo mi ha tirato fuori dal baratro. Ma per quanto riguarda quello scatolone, l’ultima immagine che ne ho è che mi sta davanti, sul tappeto del mio studio, ancora chiuso, e io mi chiedo che cosa farne.
Sette anni dopo sono nello stesso studio, nello stesso appartamento, e mi chiedo che cosa ne ho fatto. Se lo avessi distrutto, credo che me ne ricorderei. Soprattutto se lo avessi distrutto in maniera teatrale, dandogli fuoco; ma può darsi che me ne sia liberato in maniera più prosaica, gettandolo nella spazzatura. E se l’ho conservato, dove l’ho messo? In una cassetta di sicurezza, è come con il fuoco: me ne ricorderei. No, dev’essere rimasto nell’appartamento, e se è ancora nell’appartamento...
Ci sono quasi.
6
Proprio accanto al mio studio c’è un ripostiglio in cui mettiamo valigie, utensili da lavoro, materassi in gommapiuma che usiamo quando si fermano a dormire le amiche di nostra figlia Jeanne: cose che ci servono abbastanza spesso. Ma è come nel libro per bambini, Una storia scura, molto scura, in cui nel castello scuro, molto scuro, c’è un corridoio scuro, molto scuro, che porta a una stanza scura, molto scura, che ha un armadio scuro, molto scuro, e così via: in fondo a quel ripostiglio ce n’è un altro, più piccolo, più basso, non illuminato, chiaramente di più difficile accesso, in cui mettiamo quello che non usiamo mai e che resterà lì, praticamente irraggiungibile, finché un nuovo trasloco ci costringerà a decidere che cosa farne. Dentro c’è grossomodo lo stesso materiale assortito di tutti i ripostigli: vecchi tappeti arrotolati, impianti stereo fuori uso, valigie piene di audiocassette, sacchi della spazzatura contenenti kimono, colpitori e guantoni da pugilato, testimonianze del succedersi delle passioni mie e dei miei due figli per gli sport di combattimento. Una buona metà dello spazio, tuttavia, è occupata da qualcosa di più insolito: il fascicolo dell’istruttoria di Jean-Claude Romand, che nel gennaio del 1993 ha ucciso la moglie, i figli e i genitori dopo aver fatto credere per più di quindici anni di essere un medico mentre in realtà non era niente: passava le sue giornate in macchina, nelle aree di servizio autostradali, o camminando nei boschi del Giura.
La parola «fascicolo» è ingannevole. Non è un fascicolo, sono una quindicina, cartonati e chiusi da cinghie; ognuno è molto voluminoso e contiene documenti che vanno da interrogatori fiume a consulenze di esperti passando per chilometri di estratti conto. Chiunque abbia scritto su un fatto di cronaca ha avuto come me, penso, l’intuizione che quelle decine di migliaia di pagine raccontano una storia, e che questa storia bisogna estrarla da lì dentro come uno scultore estrae una statua da un blocco di marmo. Nei difficili anni che ho passato a documentarmi e poi a scrivere sul caso Romand, quel fascicolo è stato per me un oggetto del desiderio. Il materiale dell’istruttoria è in linea di principio inaccessibile al pubblico finché il processo non si è concluso; di conseguenza, l’ho consultato soltanto, in via eccezionale, nell’ufficio di Lione dell’avvocato di Romand. Me lo lasciavano per un’ora o due, in una stanzetta senza finestre. Potevo prendere appunti, ma non fare fotocopie. Mi è capitato di andare appositamente a Lione da Parigi e di sentirmi dire dall’avvocato: «No, oggi non è possibile, e domani nemmeno. Le conviene tornare fra un paio di settimane». Credo che si divertisse a farmi pagare caro quel privilegio.
Dopo il processo, terminato con la condanna all’ergastolo di Jean-Claude Romand, è stato più semplice: come prevede la legge, Romand è diventato proprietario del suo fascicolo, e mi ha autorizzato a consultarlo liberamente. Non potendo tenerlo con sé in prigione, l’aveva affidato a una volontaria cattolica che lavorava nelle carceri e che era diventata sua amica. Sono andato a prenderlo da lei, vicino a Lione. Ho stipato gli scatoloni nel bagagliaio della mia auto e, tornato a Parigi, li ho depositati nello studio in cui lavoravo allora, in rue du Temple. Cinque anni dopo è uscito L’Avversario, il mio libro sul caso Romand. La volontaria mi ha telefonato per dirmi di aver apprezzato la mia onestà, ma di essere rimasta dispiaciuta per una cosa: avevo scritto che lei sembrava sollevata al pensiero di avermi sbolognato quel macabro fardello e che questo si trovasse ormai sotto il mio tetto anziché sotto il suo. «A me non dava nessun fastidio. Se a te dà fastidio, non devi far altro che riportarmelo. A casa abbiamo tutto lo spazio che vogliamo».
Ho pensato che l’avrei fatto alla prima occasione, ma l’occasione non si è presentata. Non avevo più la macchina, non avevo ragioni particolari per andare a Lione, non era mai il momento giusto, e così nel 2000 ho trasferito da rue du Temple a rue Blanche, poi nel 2005 da rue Blanche a rue des Petits-Hôtels, i tre enormi scatoloni in cui avevo sistemato i fascicoli. Sbarazzarsene era fuori discussione: Romand me li ha affidati, e io devo essere in grado di restituirglieli, se li vorrà, il giorno in cui uscirà dal carcere. Probabilmente, poiché è stato condannato a ventidue anni di reclusione senza benefici e si mostra un prigioniero modello, potrà uscire nel 2015. Nel frattempo, il posto migliore per quegli scatoloni che non avevo alcun motivo né alcun desiderio di aprire di nuovo era in fondo al ripostiglio accanto al mio studio, che Hélène e io abbiamo finito per chiamare «la stanza di Jean-Claude Romand». E a un tratto mi è parso chiaro che il posto migliore per i taccuini del mio periodo cristiano, se non li avevo distrutti al tempo in cui pensavo di suicidarmi, era accanto al fascicolo dell’istruttoria, nella stanza di Jean-Claude Romand.
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UNA CRISI
Parigi, 1990-1993
UNA CRISI
Parigi, 1990-1993
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Nelle memorie di Casanova c’è un passaggio che trovo fantastico. Rinchiuso nella tetra e umida prigione dei Piombi, a Venezia, Casanova architetta un piano per evadere. Per metterlo in pratica non gli manca nulla, tranne una cosa: un po’ di stoppa. Non ricordo più se gli serve per farsi una corda o la miccia per un esplosivo, ma quel che conta è che se trova la stoppa è salvo, se non la trova è spacciato. Trovare della stoppa in prigione non è mica facile, ma a un tratto Casanova si ricorda che, per assorbire il sudore delle ascelle, aveva chiesto al sarto di rinforzare la sua marsina con... indovinato? Della stoppa! Casanova, che ha maledetto il freddo della prigione, contro il quale la sua giacchetta estiva può ben poco, capisce ora che è stata la Provvidenza a farlo arrestare con quella addosso. È lì, davanti a lui, appesa a un chiodo piantato nel muro scrostato. Casanova la guarda, con il cuore che batte all’impazzata. Tra un istante strapperà le cuciture, frugherà nella fodera, e sarà di nuovo libero. Ma, proprio quando sta per lanciarsi sulla giacca, un dubbio lo trattiene: e se il sarto, negligente, non avesse fatto come lui gli aveva chiesto? In tempi normali, non sarebbe stato grave. Ora, sarebbe una tragedia. La posta in gioco è così importante che Casanova si inginocchia e inizia a pregare. Con il fervore di quand’era bambino prega Dio che il sarto abbia messo la stoppa nella giacca. Ma il cervello continua a funzionare, e gli dice che quel che è fatto è fatto. O il sarto ha messo la stoppa, o non ce l’ha messa. O la stoppa c’è, o non c’è, e se non c’è le sue preghiere non potranno cambiare le cose. Non sarà Dio a mettercela, né a far sì che retroattivamente il sarto abbia agito con scrupolo. Obiezioni simili, per quanto logiche, non impediscono al prigioniero di pregare come un disperato. Casanova non saprà mai se la sua preghiera è servita a qualcosa, ma alla fine nella giacca la stoppa c’è. E lui evade.
Nel mio caso la posta in gioco non era così alta, e io non ho pregato in ginocchio di trovarli nella stanza di Jean-Claude Romand, ma alla fine gli archivi del mio periodo cristiano erano proprio lì. Li ho tirati fuori dallo scatolone, e ho girato con circospezione intorno a quei diciotto quaderni cartonati, verdi o rossi. Quando finalmente mi sono deciso ad aprire il primo, sono caduti due fogli battuti a macchina, piegati a metà, dove c’era scritto:
«Dichiarazione d’intenti di Emmanuel Carrère per il suo matrimonio con Anne D., il 23 dicembre 1990.
«Io e Anne conviviamo da quattro anni. Abbiamo due figli. Ci amiamo, e siamo sicuri del nostro amore quanto è possibile esserlo.
«Lo eravamo anche qualche mese fa, quando non vedevamo la necessità del matrimonio religioso. Non lo prendevamo in considerazione, ma non credo fosse un modo per rifiutare o rinviare un impegno. Al contrario, ci sentivamo impegnati l’uno verso l’altro, destinati a vivere, crescere e invecchiare insieme, nella buona come nella cattiva sorte, e di conseguenza ad accettare che uno dei due soffrisse per la morte dell’altro.
«Ero convinto, al di là di ogni fede, che il senso della vita di coppia si fondasse sullo scoprire se stessi nel momento in cui si scopre l’altro, e sull’aiutare l’altro a fare la stessa scoperta. Pensavo che la crescita dell’uno fosse condizione della crescita dell’altro, che volere il bene di Anne significasse lavorare per il mio – e lo tenevo sempre presente. Cominciavo anche a intuire che questa crescita comune segue una legge particolare, quella dell’amore quale è stata espressa da Giovanni Battista: “Lui” (nella fattispecie: lei) “deve crescere; io, invece, diminuire”.
«Non vedevo più in questa formula il segno di una specie di masochismo incapace di esaltare l’altro senza umiliare se stessi, e avevo capito che dovevo pensare ad Anne, alla sua felicità, alla sua realizzazione, più che a me stesso, e che più pensavo a lei, più avrei fatto del bene a me stesso. Scoprivo insomma uno dei paradossi di cui il cristianesimo è pieno e sulla base dei quali taccia di follia la saggezza del mondo, il fatto cioè che abbiamo tutto l’interesse a disprezzare il nostro interesse e, per amare noi stessi, a non pensare a noi.
«Mi riusciva difficile. Le nostre miserie nascono tutte dall’amor proprio, e il mio è particolarmente dispotico, pungolato com’è dal mio mestiere (scrivo romanzi – una “professione delirante”, secondo Valéry, nella quale si fa leva sull’immagine che abbiamo e diamo di noi stessi). Naturalmente cercavo di strapparmi a quella palude di paura, vanità, odio e “cura di sé”, ma ero come il barone di Münchhausen che vuole uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli da solo.
«Avevo sempre creduto di poter contare solo su me stesso. La fede, di cui ho ricevuto la grazia soltanto qualche mese fa, mi ha liberato da questa illusione estenuante. All’improvviso ho capito che possiamo scegliere fra la vita e la morte, che la vita è Cristo e che il suo giogo è leggero. Da allora sperimento uno stato di perenne leggerezza, aspetto che ne sia contagiata anche Anne e che segua, come vorrei fare io, il comandamento di san Paolo che ci dice di essere sempre lieti.
«In passato credevo che la nostra unione si fondasse soltanto su di noi: sulla nostra libera scelta, sulla nostra buona volontà. Che dipendesse soltanto da noi farla durare. Tutto quello che desideravo era costruire una vita d’amore con Anne, ma per farlo mi basavo solo sulle nostre forze, e naturalmente la loro inconsistenza mi spaventava. Ora so che quello che costruiamo non lo costruiamo noi, ma Cristo che è in noi.
«Per questo oggi voglio mettere il nostro amore nelle sue mani e chiedergli la grazia di farlo crescere.
«Per questo, inoltre, considero il nostro matrimonio il mio vero debutto sulla via sacramentale, da cui mi sono allontanato dopo una prima comunione ricevuta, diciamo così, distrattamente.
«Per questo, infine, mi sembra importante che a sposarci sia un sacerdote che ho conosciuto nel momento della mia conversione. Proprio assistendo alla sua messa, la prima per me dopo vent’anni, ho capito che non potevo rinviare oltre il mio matrimonio, e così ho pensato che sarebbe stato bello ricevere la benedizione nuziale da lui, al Cairo. Sono molto grato alla parrocchia e al vescovo da cui ormai dipendo, per la loro comprensione nei riguardi di un progetto che, per quanto sentimentale, è tutt’altro che un capriccio».
2
Naturalmente rileggere questa lettera mi ha scosso. La prima cosa che mi colpisce è che, pur consapevole che suona falsa dalla prima all’ultima riga, non posso metterne in dubbio la sincerità. Poi che, fervore religioso a parte, chi l’ha scritta più di vent’anni fa non è tanto diverso da quello che sono oggi; il suo stile è un po’ più solenne, ma è ancora il mio, e se mi dessero l’inizio di una sua frase, la terminerei allo stesso modo. E soprattutto che il desiderio di impegnarsi in un amore duraturo è sempre lo stesso. È cambiato solo il suo oggetto. Quello attuale è più adatto a me, devo fare meno violenza su me stesso per credere che io e Hélène invecchieremo insieme, con affetto e armonia, ma tutto sommato ciò in cui credo o in cui voglio credere oggi, ciò che costituisce la spina dorsale della mia vita, è lo stesso in cui credevo o in cui volevo credere vent’anni fa, in termini pressoché identici.
E tuttavia c’è una cosa, una cosa essenziale, che non dico in questa lettera, e cioè che Anne e io eravamo molto infelici. Ci amavamo, è vero, ma ci amavamo male. Sia lei che io avevamo paura della vita, eravamo entrambi terribilmente nevrotici. Bevevamo troppo, facevamo l’amore come due che stanno annegando, e ciascuno di noi tendeva a dare all’altro la colpa della propria infelicità. Da tre anni non riuscivo più a scrivere – all’epoca consideravo la scrittura l’unica mia ragione di vita. Mi sentivo impotente, esiliato in quella periferia dell’esistenza che è un matrimonio infelice, destinato a una lunga e deprimente stagnazione. Mi dicevo che avrei dovuto andarmene, ma temevo di provocare un disastro: distruggere Anne, distruggere i nostri due figli, distruggere me stesso. Per giustificare la mia paralisi, mi dicevo anche che stavo affrontando una prova, e che la mia vita, la nostra vita, poteva funzionare se riuscivo a tenere duro in quella situazione apparentemente senza uscita invece di gettare la spugna come consigliava il buonsenso. Il buonsenso era il mio nemico. Preferivo dare retta a quell’intuizione misteriosa che, pensavo, un giorno avrebbe manifestato un senso completamente nuovo, e molto migliore.
3
È arrivato il momento di parlare di Jacqueline, la mia madrina. Poche persone hanno avuto tanta influenza su di me. Rimasta vedova quand’era ancora giovanissima, e bellissima, non si è mai risposata. Negli anni Sessanta ha pubblicato con editori prestigiosi parecchi volumi di poesie tra l’amoroso e il mistico, che potevano far pensare a Catherine Pozzi – se non conoscete Catherine Pozzi, che è stata l’amante di Paul Valéry e una via di mezzo fra Simone Weil e Louise Labé, trovate e leggete una sua poesia intitolata Ave. In seguito la mia madrina ha abbandonato il lirismo profano per dedicarsi soltanto a inni liturgici. Una parte non trascurabile dei canti religiosi che si sentono nelle chiese francesi dopo il Concilio Vaticano II è stata composta da lei. Jacqueline abitava in un bell’appartamento in rue Vaneau, nel palazzo in cui aveva vissuto Gide, e intorno a lei era rimasta un po’ dell’atmosfera laboriosa, quasi austera, che doveva regnare alla «NRF» negli anni tra le due guerre. Conosceva molto bene le dottrine orientali, a quel tempo non diffuse come oggi, e praticava lo yoga – che le ha consentito di mantenere un’agilità felina fino a tarda età.
Un giorno, dovevo avere fra i tredici e i quindici anni, mi ha ordinato di sdraiarmi sul tappeto del suo salotto, chiudere gli occhi e concentrarmi sulla radice della mia lingua. Quel comando mi ha disorientato, quasi scioccato. Ero un adolescente troppo colto, fissato con la paura di essere preso in giro. Avevo adottato ben presto la tattica di giudicare «divertente» – il mio aggettivo preferito – tutto ciò che in realtà mi attirava e mi impauriva: gli altri, le ragazze, l’entusiasmo per la vita. Il mio ideale era osservare l’assurda agitazione del mondo restandomene in disparte, con il sorriso di superiorità di chi non può essere toccato da nulla. In realtà, ero terrorizzato. La poesia e il misticismo della mia madrina erano facili bersagli delle mie continue ironie, ma sentivo anche che lei mi voleva bene e, per quanto mi fosse possibile allora fidarmi di qualcuno, di lei mi fidavo. Lì per lì, naturalmente, ho scelto di trovare molto ridicolo il fatto di dovermi sdraiare a terra per pensare alla mia lingua. Comunque ho obbedito, e ho cercato di lasciar vagare i miei pensieri, come mi chiedeva lei, senza trattenerli o giudicarli, e quel giorno ho fatto il primo passo sulla strada che in futuro mi avrebbe portato alle arti marziali, allo yoga, alla meditazione.
È uno dei tanti motivi per cui ancora oggi sono grato alla mia madrina. Lei mi ha trasmesso qualcosa che mi ha evitato gli sbagli peggiori. Mi ha insegnato che il tempo era dalla mia parte. Forse, quando sono nato, mia madre ha intuito che, pur potendo darmi molto a livello culturale e intellettuale, doveva affidarsi a un’altra persona per tutta un’altra dimensione del vivere, di cui non ignorava l’importanza, e questa persona era quella donna più grande di lei, al tempo stesso eccentrica e saldamente ancorata a un centro, che l’aveva presa sotto la propria ala quando aveva vent’anni. Mia madre ha perso presto i genitori, è cresciuta in un ambiente povero e la sua più grande paura era quella di essere una nullità. Jacqueline è stata per lei una specie di mentore, l’immagine di una donna realizzata, e soprattutto la testimone di quella dimensione, come dire? Spirituale? La parola non mi piace, ma non importa: si capisce più o meno che cosa significa. Mia madre sapeva che questa dimensione esisteva – o meglio: lei sa che esiste, che questo regno interiore è l’unico veramente desiderabile, il tesoro per cui il Vangelo consiglia di rinunciare a tutte le ricchezze. Ma la sua difficile storia personale ha fatto sì che tali ricchezze – il successo, il prestigio sociale, un sempre più ampio riconoscimento pubblico – fossero per lei infinitamente desiderabili e abbia dedicato la sua vita a conquistarle. Ce l’ha fatta, ha ottenuto tutto quello che voleva, non si è mai detta: «Ora posso fermarmi». Io non sono la persona più indicata per criticarla: sono come lei. Ho sempre bisogno di altra gloria, di occupare uno spazio sempre più grande nella coscienza degli altri. Ma credo che nella coscienza di mia madre ci sia sempre stata una voce a ricordarle che altrove si combatte un’altra lotta, la vera lotta. Per sentire questa voce ha letto tutta la vita sant’Agostino, quasi di nascosto, e andava a trovare Jacqueline. E per farla sentire anche a me mi ha, per così dire, affidato a Jacqueline. Ci scherzava su, per pudore. Mi chiedeva: «Sei andato a trovare Jacqueline ultimamente? Ti ha parlato della tua anima?». Io rispondevo, con lo stesso tono di scherzo affettuoso: «Certo, di cos’altro vuoi parlare con Jacqueline?».
Era quello il suo ruolo: lei ti parlava della tua anima. Si andava a trovarla – dico «si» perché ad andarla a trovare in rue Vaneau non eravamo soltanto io e mia madre, o qualche volta anche mio padre, ma decine di persone, di ogni età ed estrazione sociale, non per forza credenti, ed erano sempre visite a tu per tu, come dallo psicoanalista o dal confessore. Di fronte a lei, cadeva ogni maschera. Con lei si poteva parlare soltanto a cuore aperto. Si sapeva che da quel salotto non sarebbe uscita una parola. Lei ti guardava, ti ascoltava. Tu ti sentivi guardato, ascoltato, come mai prima, e poi lei ti parlava di te come nessun altro, mai, te ne aveva parlato.
La mia madrina ha vissuto i suoi ultimi anni convinta che la fine del mondo fosse imminente. Era una situazione che mi faceva soffrire. La logica avrebbe voluto che la sua vita terminasse in un tripudio di luce; invece Jacqueline è sprofondata nelle tenebre, e non è una cosa che ricordo con piacere. Ma fino agli ottant’anni è stata una delle persone più eccezionali che abbia conosciuto, e il suo modo di esserlo stravolgeva tutti i miei punti di riferimento. A quel tempo, ammiravo e invidiavo una sola categoria di esseri umani: i creatori. Per me, l’unico modo per realizzarsi nella vita era diventare un grande artista – e odiavo me stesso perché pensavo che nel migliore dei casi sarei stato un artista mediocre. Le poesie di Jacqueline non mi dicevano granché, ma se cercavo attorno a me un essere umano che potessi considerare realizzato questo era lei. I pochi scrittori o registi di mia conoscenza non reggevano il paragone. Il loro talento, il loro genio, la posizione invidiabile che avevano nella vita erano meriti molto specifici, limitati e, anche se non sapevo di preciso su quale strada, saltava comunque agli occhi che Jacqueline era più avanti. Non voglio dire soltanto che era superiore sul piano morale, ma soprattutto che ne sapeva di più, che nella sua coscienza si instauravano connessioni più numerose. Proprio così, non saprei come dirlo in un’altra maniera: Jacqueline era più avanti – allo stesso modo in cui in biologia si dice che un organismo è più evoluto e di conseguenza più complesso di un altro.
Questo non faceva che rendere ancora più inspiegabile, ai miei occhi, il suo cattolicesimo fervente. Non soltanto io non credevo in Dio, ma nell’ambiente in cui ho passato la maggior parte della mia vita era naturale non crederci. È vero, da bambino sono andato al catechismo e ho fatto la prima comunione, ma la mia educazione cristiana era così formale e distratta che non avrebbe senso dire che a un certo punto ho perso la fede. Mia madre parlava raramente dell’anima, come del sesso, e quanto a mio padre ho già detto che rispettava le forme ma non risparmiava battute sulla sostanza. È un uomo della vecchia scuola, un po’ voltairiano, un po’ maurrassiano, tutto fuorché un marxista, ma su un punto voltairiani e maurrassiani si trovano d’accordo con i marxisti: la religione è l’oppio dei popoli. In seguito, ho evitato l’argomento con tutti i miei amici, le donne che ho amato e le conoscenze più o meno superficiali. La religione era persino al di là del rifiuto, era completamente estranea ai nostri pensieri e alla nostra esperienza. Poteva interessarmi la teologia, ma, citando Borges, come un ramo della letteratura fantastica. Chi credeva nella resurrezione di Cristo, lo giudicavo un tipo strano – strano come qualcuno che, per tornare all’osservazione di Patrick Blossier, non si limita a interessarsi alle divinità della mitologia greca, ci crede anche.
Ma allora che rapporto avevo con la fede di Jacqueline? Nessuno. Avevo deciso di considerare una stranezza che potevo ignorare quello che era il fulcro della sua persona e della sua vita, e di prendere dai suoi discorsi quello che mi stava bene. Andavo a trovarla perché mi parlasse di me, e lei lo faceva così bene da rendermi sopportabile che di sfuggita mi parlasse anche del mio Signore – era così che lei chiamava Dio. Un giorno gliel’ho detto, e lei mi ha risposto che era lo stesso. Parlandomi di me, mi parlava di Lui, e parlandomi di Lui, mi parlava di me. Un giorno avrei capito. Alzavo le spalle. Non m’interessava capire. Da piccolo, uno dei miei amici aveva sentito parlare di un coetaneo che era stato toccato dalla grazia e poi si era fatto prete. Il mio amico era terrorizzato da questa storia edificante. Aveva una paura folle che gli capitasse la stessa cosa e ogni sera pregava il buon Dio per non essere toccato dalla grazia e non farsi prete. Io ero come lui e me ne compiacevo. Jacqueline non si smontava. «Vedrai» diceva.
Penso di essere stato un adolescente, e poi un giovane adulto, molto infelice, ma non volevo saperlo e, di fatto, non lo sapevo. Il mio sistema di difesa, basato sull’ironia e al tempo stesso sull’orgoglio di essere uno scrittore, funzionava piuttosto bene. Dopo la trentina questo sistema si è inceppato. Non riuscivo più a scrivere, non sapevo amare, ed ero consapevole di non essere amabile. Mi era diventato letteralmente intollerabile essere me stesso. Quando mi sono mostrato a lei in quello stato di profonda disperazione, Jacqueline non è rimasta particolarmente sorpresa. Ci vedeva un progresso. Mi sembra persino che abbia detto: «Finalmente!». Una volta crollate le sovrastrutture mentali che mi avevano permesso di tirare avanti in qualche modo, ero nudo, scorticato, e il mio Signore poteva avere libero accesso. Solo poco tempo prima avrei protestato con veemenza. Avrei detto che me ne infischiavo altamente del mio Signore, che non mi interessavano le consolazioni per inetti e falliti. Ora soffrivo a tal punto, ogni momento in più che passavo nella mia pelle era diventato una tale tortura, che ero pronto per capire le parole rivolte dal Vangelo a chi è piegato da un fardello troppo pesante e non ce la fa ad andare avanti.
«Prova a leggerlo, adesso» mi ha detto Jacqueline, regalandomi il Nuovo Testamento della Bibbia di Gerusalemme – quello che ho ancora sulla mia scrivania e apro venti volte al giorno da quando ho cominciato questo libro. «Prova anche» ha soggiunto «a non essere troppo intelligente».
4
All’inizio dell’estate del 1990 Jacqueline mi ha fatto un altro regalo. Da tanto tempo mi parlava dell’altro suo figlioccio, e diceva che sarebbe stata una bella cosa se un giorno ci fossimo conosciuti. Ma non faceva in tempo a finire la frase che scuoteva la testa, cambiava idea. Sarebbe davvero una bella cosa? Avreste qualcosa da dirvi? Probabilmente no. È troppo presto.
Quell’estate atroce, Jacqueline ha deciso che non era più troppo presto e mi ha consigliato di chiamarlo. Due giorni dopo suonava alla porta del nostro appartamento, in rue de l’École-de-Médecine, un ragazzo poco più grande di me, con gli occhi azzurri e i capelli rossi che cominciavano a imbiancare – oggi sono completamente bianchi, Hervé ha appena compiuto sessant’anni. Il tipo che ha a lungo l’aspetto di un ragazzino, poi di colpo quello di un vecchio, e mai quello dell’adulto. Il tipo che all’inizio non si nota: anonimo, quasi scialbo. Abbiamo cominciato a parlare – cioè io ho cominciato a parlare, di me e della crisi che stavo attraversando. Ero petulante, agitato, confuso, caustico. Accendevo una sigaretta dopo l’altra. Correggevo la frase ancora prima di cominciarla, la sfumavo, avvertivo Hervé che sarebbe stata imprecisa, che quello che volevo dire era in realtà molto più ampio e complicato. Lui invece parlava poco e con pacatezza. In seguito ho imparato a capire il suo senso dell’umorismo, ma nel corso del nostro primo incontro sono rimasto sconcertato dalla sua totale mancanza di ironia. All’epoca, tutto quello che dicevo e pensavo, anche lo sfogo più disperato e sincero, era imbevuto di ironia e di sarcasmo. Mi sembra che fosse una caratteristica molto diffusa nel piccolo mondo in cui vivevo, quello del giornalismo e dell’editoria parigini di fine anni Ottanta. Parlavamo sempre e soltanto con un mezzo sorriso all’angolo della bocca. Era sfiancante e stupido, ma non ce ne rendevamo conto. Me ne sono reso conto soltanto quando ho fatto amicizia con Hervé. Lui non era ironico, né pettegolo. Non se la tirava, non gli interessava quello che diceva la gente di lui. Non recitava una parte. Cercava di dire ciò che pensava con calma e precisione. Non vorrei che da queste righe venisse fuori l’immagine di un saggio che guarda dall’alto le piccole vicende terrestri. Hervé ha avuto, e ha ancora, la sua bella quota di sventure, contrarietà e segreti. Da piccolo ha tentato di morire. Da giovane ha preso molto LSD che ha alterato per sempre la sua percezione della realtà. Ha avuto la fortuna di incontrare una donna che lo ama così com’è, per quello che è, di costruire con lei una famiglia, e anche quella di trovare un posto – ha sempre lavorato all’Agenzia France-Presse. Senza queste due fortune, che non erano per niente scontate, avrebbe potuto diventare un autentico disadattato. Si è adattato il minimo indispensabile. L’unica preoccupazione della sua vita è di ordine... ancora una volta, faccio fatica a dire «spirituale», parola terribile che si tira dietro tutta una sequela di idiozie religiose e di retorica sublime. Diciamo che Hervé appartiene a quella categoria di persone per le quali essere non è un fatto ovvio. Da quand’era piccolo, si chiede: che ci faccio io qui? E che cos’è «io»? E che cos’è «qui»?
Molte persone possono passare tutta la vita senza essere sfiorate da queste domande – o, in caso, solo di striscio, per poi continuare per la loro solita strada. Fabbricano e guidano macchine, fanno l’amore, chiacchierano accanto al distributore del caffè, si scaldano perché ci sono troppi stranieri in Francia, o troppa gente che pensa che ci siano troppi stranieri in Francia, programmano le vacanze, si preoccupano per i figli, vogliono cambiare il mondo, avere successo, quando l’hanno avuto temono di perderlo, fanno la guerra, sanno che moriranno ma ci pensano il meno possibile, e tutto questo, non c’è che dire, basta e avanza per riempire una vita. Ma per un altro tipo di persone non basta. O è troppo. In ogni caso per loro non funziona così. Si potrebbe discutere all’infinito se siano più o meno sagge delle prime, ma il punto non è questo, è che non si sono mai riprese da una sorta di stupore che impedisce loro di vivere senza chiedersi perché vivono, qual è il senso di tutto ciò, ammesso che ci sia. Per queste persone l’esistenza è un punto di domanda e anche se non escludono che a questa domanda non ci sia risposta, loro la cercano, non possono farne a meno. Dato che altri l’hanno cercata in passato, e alcuni sostengono addirittura di averla trovata, si interessano alle loro testimonianze. Leggono Platone e i mistici, diventando dei cosiddetti «esseri religiosi» – senza rapporti con nessuna Chiesa, nel caso di Hervé, anche se quando l’ho conosciuto era influenzato come me dalla nostra madrina e perciò orientato al cristianesimo.
Alla fine di quel primo pranzo, io e Hervé abbiamo deciso di diventare amici e lo siamo diventati. Nel momento in cui scrivo quest’amicizia dura da ventitré anni, e in ventitré anni stranamente non ha cambiato forma. È un’amicizia intima: scrivevo poco fa che Hervé ha, come tutti, i suoi segreti, ma penso che non ne abbia per me, e se lo penso è perché io non ne ho per lui. Non c’è nulla di così vergognoso da farmi vergognare a parlarne con lui: potete pure non credermi, ma io so che è così. È un’amicizia tranquilla, che non ha avuto né crisi né eclissi, e si è sviluppata al riparo da ogni interferenza sociale. Le nostre vite sono molto diverse, come i nostri caratteri, e ci vediamo soltanto a tu per tu. Non abbiamo amici comuni. Non abitiamo nella stessa città. Da quando ci conosciamo, Hervé è stato prima corrispondente, poi caporedattore, della France-Presse a Madrid, Islamabad, Lione, L’Aia e Nizza. Io sono andato a trovarlo in tutte queste sedi, lui di tanto in tanto viene da me a Parigi, ma il vero luogo della nostra amicizia è un paesino del Vallese dove sua madre ha un appartamento in uno chalet e dove, dopo il nostro primo incontro, Hervé mi ha proposto di raggiungerlo alla fine dell’estate.
5
E così, da ventitré anni, io e Hervé ci ritroviamo, ogni primavera e ogni autunno, in questo paesino che si chiama Le Levron. Conosciamo tutti i sentieri delle valli circostanti. Una volta uscivamo di casa prima dell’alba e stavamo fuori un’intera giornata per fare lunghissime camminate, con dislivelli di più di mille metri. Oggi siamo meno ambiziosi, ci accontentiamo di poche ore. Gli appassionati di tauromachia chiamano querencia la zona in cui, nella spaventosa confusione dell’arena, il toro si sente al sicuro. Con il passare del tempo, Le Levron e l’amicizia di Hervé sono diventati la mia querencia più sicura. Vado lassù con le mie ansie, ne discendo rasserenato.
Quando sono arrivato a Le Levron quella prima estate, ero stravolto. Le vacanze erano state un disastro. Su consiglio di Jacqueline, avevo deciso di abbandonare ogni progetto letterario per dedicarmi anima e corpo a mia moglie e a mio figlio. Di usare tutta l’energia che di solito riversavo nel mio lavoro per mostrarmi disponibile, attento, premuroso – per vivere bene, insomma, tanto per cambiare, anziché scrivere male. Avrei trovato il sostegno di cui avevo bisogno nella lettura quotidiana del Vangelo. Ci ho provato, non ha funzionato. Anne era incinta, sempre affettuosa ma abbattuta e inquieta; ne aveva tutte le ragioni, perché io non riuscivo a nascondere il panico che provavo all’idea dell’arrivo del nostro secondo figlio. Era capitato lo stesso con il primo, sarebbe capitato lo stesso quindici anni dopo, con la nascita di Jeanne. Tutto sommato, non credo di essere un cattivo padre, ma l’attesa di un figlio mi spaventa. Anne e io sprofondavamo in lunghe sieste da cui Gabriel, che aveva tre anni, cercava di strapparci facendo un baccano infernale. Mi scuotevo da quel torpore depressivo soltanto per rimuginare sulla mia pena, mettere ancora una volta uno di fronte all’altro i poli del conflitto: da una parte il dato innegabile che io e Anne insieme eravamo infelici, dall’altra la convinzione che ormai avevo fatto la mia scelta e che la mia vita poteva andar bene solo se insistevo in quella scelta. Prima dell’estate ero stato parecchie volte da una psicoanalista e avevo deciso che al ritorno dalle vacanze avrei cominciato una terapia. Era una prospettiva che avrebbe dovuto darmi qualche speranza. Invece non faceva che aumentare la mia angoscia, perché avevo paura di dover ammettere che quello che desideravo realmente era il contrario di quello che avevo deciso. Quanto al Vangelo, mi imponevo di leggerlo, come avevo promesso a Jacqueline. Mi piaceva abbastanza, ma pensavo con presunzione di essere troppo infelice per poter trovare aiuto in un insegnamento filosofico o morale, e men che meno in una fede religiosa. Sono stato sul punto di cancellare il viaggio a Le Levron programmato per fine agosto. L’idea di andare a trovare in Svizzera, da sua madre, un tizio con cui non avevo condiviso altro che un pranzo mi sembrava un’assurdità. L’altra possibilità era farmi ricoverare in un ospedale psichiatrico e farmi imbottire di farmaci. Avrei dormito, non ci sarei stato più: che cosa augurarsi di meglio?
Alla fine sono andato a Le Levron, e contro ogni mia previsione mi sono trovato quasi bene. Hervé non mi giudicava, non mi dava consigli. Sa benissimo che siamo tutti zoppicanti e stonati, che facciamo quel che possiamo – ma possiamo poco – e viviamo male, e dunque con lui la smettevo di giustificarmi e spiegarmi di continuo. Del resto, parlavamo poco.
6
Un sentiero che passava sopra il nostro paesino portava a un minuscolo chalet di legno nero, di proprietà di un vecchio sacerdote belga che ci andava ogni estate a riposarsi, fuggendo dalla fornace del Cairo, dove guidava una parrocchia poverissima e, il resto dell’anno, spendeva le forze rimastegli per aiutare gli indigenti. È morto poco tempo fa, ma sembrava già molto vecchio e molto malato quando l’ho conosciuto. Il suo viso solcato da rughe aveva assunto lo stesso colore bluastro che cerchiava gli occhi neri, sfavillanti, indagatori, quasi sardonici. Nello chalet c’erano soltanto due stanze; quella in basso, che un tempo serviva da fienile, era stata trasformata in cappella, e le pareti erano coperte di immagini sacre. Padre Xavier era un sacerdote melchita, obbedienza che unisce il dogma cattolico e il rito bizantino, e sopravvive sempre più emarginata nel Vicino Oriente. Come mai l’erede di una grande famiglia vallona fosse finito a fare il sacerdote melchita, mi è stato raccontato, ma non lo ricordo più. Diceva messa ogni mattina presto; vi assistevano quattro o cinque persone del paesino, tra cui un ragazzo mongoloide – all’epoca si diceva mongoloide, non down – che faceva il chierichetto. Dalla madre, che lo accompagnava, ho saputo che Pascal – questo il nome del ragazzo – era molto orgoglioso della responsabilità affidatagli dal vecchio sacerdote. Ogni estate Pascal aspettava con impazienza il ritorno di padre Xavier, ed era bello vederlo spiare lo sguardo del prete, senza mai abbandonarlo un istante, in attesa del battito di palpebre che gli avrebbe intimato di agitare la campanella o far dondolare il turibolo.
Le messe della mia infanzia mi avevano lasciato soltanto ricordi di oppressione e noia. Questa, celebrata da un uomo stremato per una manciata di montanari del Vallese e un mongoloide che rivelava a ogni gesto come quello fosse il suo posto e come non lo avrebbe scambiato con nessun altro, mi ha commosso a tal punto da tornarci i giorni successivi. In quel fienile trasformato in cappella mi sentivo al sicuro. Vagavo con la mente, ascoltavo. Ricordavo il mio ultimo incontro con Jacqueline, prima dell’estate. Avevo smesso di dire che la sua fede non mi interessava. Mi interessava qualsiasi cosa potesse farmi stare meglio. Ma dicevo che quella fede non era alla mia portata. «Chiedi» mi aveva risposto lei. «Chiedi, e vedrai. È un mistero, ma è la verità: tutto ciò che chiederai ti sarà concesso. Bussa alla porta. Abbi il coraggio di bussare». Che cosa mi costava provare?
Un giorno padre Xavier ha letto un brano che si trova alla fine del Vangelo secondo Giovanni. La scena si svolge dopo la morte di Gesù. Pietro e i suoi amici sono tornati a fare i pescatori sul lago di Tiberiade. Sono demoralizzati. La grande avventura della loro vita è finita male e anche il suo ricordo sta sbiadendo. Hanno gettato le reti tutta la notte ma non hanno preso niente. All’alba, li chiama dalla riva uno sconosciuto. «Figlioli, avete preso qualcosa?». «No». «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Loro lo fanno, e devono mettercisi in tre per tirarla a bordo, perché è stracolma di pesci. «È il Signore» mormora il discepolo che Gesù amava, l’autore di questo Vangelo. «È il Signore» ripete sgomento Pietro, e fa allora una cosa deliziosa, una cosa che avrebbe potuto fare Buster Keaton: era nudo, si mette la tunica e si tuffa vestito nel lago per raggiungere Gesù a riva. Gesù dice: «Venite a mangiare». Mettono qualche pesce sulla griglia, lo mangiano con il pane. «E nessuno dei discepoli» dice l’evangelista «osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore». Per tre volte Gesù chiede a Pietro se lo ama, Pietro giura di sì, e Gesù gli ordina di pascolare i suoi agnelli e le sue pecore – ordine che non mi tocca più di tanto perché non ho la vocazione del pastore. Ma alla fine aggiunge qualcosa di misterioso:
In verità io ti dico:
quando eri più giovane ti vestivi da solo
e andavi dove volevi;
ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani,
e un altro ti vestirà
e ti porterà dove tu non vuoi.
Penso che dietro ogni conversione a Cristo ci sia una frase e che ognuno abbia la propria, fatta per lui, che lo sta aspettando. La mia è stata questa. Dice, per prima cosa: lasciati portare, non sei più tu che decidi dove andare, e quello che può sembrare un atto di rinuncia può anche essere, una volta mollati gli ormeggi, un immenso sollievo. È ciò che si chiama abbandono, e la mia unica aspirazione era abbandonarmi. Ma dice anche: ciò a cui ti abbandoni – Colui al quale ti abbandoni – ti porterà dove tu non vuoi. Ed è questa parte della frase che sentivo rivolta a me in modo particolare. Non l’ho capita bene – chi potrebbe? –, ma ho avuto l’oscura certezza che fosse per me. Il mio desiderio più grande era proprio questo: essere portato dove non volevo.
7
Da Le Levron ho scritto questa lettera alla mia madrina:
«Cara Jacqueline,
«so che hai pregato per quanto mi sta accadendo, e questa lettera ti darà una grande gioia. Per tutta l’estate ho cercato di convincermi che se continuavo a bussare mi sarebbe stato aperto – anche se non ero molto sicuro di voler entrare. In montagna, con Hervé, le parole del Vangelo sono diventate improvvisamente vive per me. Ora so dove sono la Verità e la Vita. Sono quasi trentatré anni che faccio affidamento solo su me stesso, e non ho mai smesso di avere paura, mentre oggi scopro che si può vivere senza paura – non senza sofferenze, ma senza paura – e sono ancora scombussolato da questa bella notizia. Mi sembra di essere una tovaglia sgualcita, piena di briciole e avanzi di cibo più o meno invitante, che a un tratto viene scrollata e sbatte gioiosamente al vento. Vorrei che questa gioia non svanisse; so bene che non è così semplice, che il buio ritornerà, che la scorza indurita del vecchio uomo mi resterà attaccata addosso, ma ho fiducia: ora è Cristo a guidarmi. La sua croce è un peso troppo grande per le mie povere forze, ma solo a pensarci mi sembra così leggera! Ecco, volevo che tu lo sapessi subito, e che sapessi quanto ti sono grato per avermi indicato la strada con tanta pazienza. Un abbraccio».
Avevo completamente dimenticato questa lettera, di cui ho tenuto una brutta copia nel mio primo quaderno. A rileggerla oggi provo imbarazzo. Mi sembra che anch’essa suoni falsa. Intendiamoci, quando l’ho scritta ero sincero, è fuor di dubbio, ma faccio fatica a credere che una parte di me, nel profondo, non pensasse ciò che penso ora: che è tutto frutto di autosuggestione, metodo Coué, retorica cattolica, e che questa marea di punti esclamativi e di maiuscole, questa tovaglia che sbatte gioiosamente al vento non sono da me. Ma proprio questo mi affascinava: che tutto ciò non fosse da me. Che venisse zittito il tipetto ansioso e mordace che non sopportavo più di essere, che da dentro di me si facesse sentire un’altra voce. E pensavo che più questa voce fosse stata diversa dalla mia, più sarebbe stata veramente la mia.
Scendo dalla montagna felice, consapevole di iniziare una nuova vita. Il giorno dopo il mio ritorno dico ad Anne che devo parlarle, ma non le dico di cosa, e la porto a pranzo nel ristorante thailandese dove andiamo spesso, vicino a place Maubert. Probabilmente ho un’aria diversa, un po’ strana, ma non imbarazzata come chi stia per comunicare alla sua compagna che ha, come si dice, «conosciuto qualcuno». Eppure è proprio così, ho conosciuto qualcuno, ma non lascerò Anne per questo qualcuno, al contrario: questo qualcuno è suo alleato, nostro alleato. Il meno che si possa dire è che Anne rimane di stucco, ma tutto sommato la prende bene. Certo meglio di quanto farei oggi io se un bel giorno la donna che amo venisse a dirmi, con gli occhi che brillano, il sorriso pervaso da una soavità allarmante, che ha capito dove sono la Verità e la Vita, e che d’ora in poi ci ameremo in Nostro Signore Gesù Cristo. Credo che se succedesse a me una cosa del genere andrei nel panico, e per andare nel panico Anne ha motivi migliori della maggior parte delle persone. Al contrario di me, lei è cresciuta in una famiglia cattolica fino al bigottismo; la più grande speranza dei suoi genitori era che si facesse suora e, idealmente, che morisse precocemente come Teresa di Lisieux, la sua santa protettrice – il primo nome di Anne è Thérèse. Anne ha sperimentato la nevrosi religiosa in tutti i suoi aspetti: la sessuofobia, i sensi di colpa, la tristezza che avvolge ogni cosa. Appena raggiunta l’età della ribellione, è scappata da quell’incubo a gambe levate; da adolescente è stata una fricchettona, da giovane donna una discotecara. Quando l’ho conosciuta, i suoi amici bazzicavano il Palace o i Bains-Douches e i loro rapporti con il cristianesimo consistevano nell’aver riso a crepapelle guardando Brian di Nazareth, la geniale parodia dei Monty Python. Da quando conviviamo, Anne può rimproverarmi molte cose, ma non certo di attirarla verso le lugubri sacrestie della sua infanzia. Da quel lato, in linea di principio può dormire sonni tranquilli con me. E invece no. Può succedere veramente di tutto, persino che l’egocentrico e caustico Emmanuel Carrère si metta a parlare di Gesù con quella bocca a culo di gallina che siamo costretti a fare quando pronunciamo la seconda sillaba (provateci, a dire Jésus in francese in un modo diverso) – e che spiega perché, anche nel mio periodo di massima devozione, ho sempre trovato qualcosa d’indecente nel pronunciare quel nome. A distanza di tempo penso che per non reagire con sarcasmo all’annuncio della mia conversione, Anne doveva tenere molto a me, e a una per quanto debole speranza di salvare il nostro rapporto. Probabilmente ha scommesso che ne sarebbe venuto fuori qualcosa di buono. E all’inizio così è stato.
8
Per consolidare la mia neonata fede, padre Xavier mi ha consigliato di leggere ogni giorno un versetto del Vangelo, di meditarci sopra e, dato che sono uno scrittore, di sintetizzare in qualche riga il frutto della meditazione. Da Gibert Jeune, in boulevard Saint-Michel, compro un grosso quaderno, parecchi grossi quaderni, non voglio restare senza – in due anni ne riempirò diciotto. Quanto al Vangelo, scelgo di affrontare quello di Giovanni perché il brano in cui si parla di andare dove non si vuole andare si trova in Giovanni. Ho anche la vaga idea che sia il più mistico e profondo della banda dei quattro. Già al primo versetto trovo pane per i miei denti: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». È tosto, soprattutto se uno, più che illuminazioni metafisiche, cerca norme di condotta, e mi chiedo se non sia meglio cambiare cavallo prima di uscire dalla scuderia. In confronto a questo purosangue che mi riceve scalciando, Marco, Matteo e Luca sembrano gagliarde bestie da tiro più adatte a un principiante. Eppure resisto a quella che giudico una tentazione. Non voglio più scegliere quello che mi piace, non voglio più dirigermi verso ciò che mi attira istintivamente. Vedo nel mio impulso di abbandonare Giovanni il chiaro segnale che devo continuare con Giovanni.
Un versetto al giorno, non di più. Alcuni brillano di una luce straordinaria, e giustificano la frase dei soldati romani incaricati di arrestare Gesù: «Mai un uomo ha parlato così!». Altri a prima vista sembrano poveri di significato: semplici zeppe narrative, ossicini con poco da rosicchiare intorno. Viene voglia di passare subito al successivo, e invece è proprio su questi che bisogna soffermarsi. Esercizio di attenzione, pazienza e umiltà. Soprattutto di umiltà. Perché se si ammette, come io decido di ammettere quell’autunno, che il Vangelo non è soltanto un testo affascinante sul piano storico, letterario e filosofico, ma è la parola di Dio, allora bisogna ammettere anche che nel Vangelo non c’è nulla di superfluo o casuale. Che nel frammento di versetto in apparenza più banale sono nascosti tesori più grandi che in Omero, Shakespeare e Proust messi insieme. Se per esempio Giovanni ci dice che Gesù è andato da Nazareth a Cafarnao ci dà ben altro che una notizia curiosa: ci offre un prezioso viatico in quel combattuto percorso che è la vita dell’anima. Anche se del Vangelo rimanesse solo quel modesto versetto, tutta una vita da cristiano non basterebbe a esaurirne il significato.
Accanto a questi versetti che all’inizio non sembrano granché, presto ne trovo altri che francamente mi urtano, a cui si ribellano la mia coscienza e il mio spirito critico. Mi riprometto di non saltare neanche questi, soprattutto non questi. Di analizzarli finché mi apparirà chiara la loro verità. Dico tra me: molte cose che oggi credo vere e di vitale importanza – no, non «che credo»: che so essere vere e di vitale importanza –, molte di queste cose solo poche settimane fa mi sarebbero sembrate grottesche. È un buon motivo per sospendere il giudizio e pensare che tutto quanto adesso non riesco ad afferrare o addirittura mi sconvolge lo capirò in seguito, se mi verrà concessa la grazia di perseverare. Fra la parola di Dio e la mia capacità di capire, è la parola di Dio che conta, e sarebbe assurdo se ne prendessi soltanto quello che è alla portata del mio povero comprendonio. Mai dimenticarlo: è il Vangelo a giudicare me, non il contrario. Tra ciò che penso io e ciò che dice il Vangelo, ci guadagnerò sempre a scegliere il Vangelo.
9
Quando vado a trovarla, Jacqueline non si profonde in rallegramenti per la mia conversione. Mi mette subito in guardia. Dice: «Quella che stai vivendo adesso è la primavera dell’anima. Il ghiaccio si scioglie, l’acqua riprende a scorrere, gli alberi rinverdiscono, sei felice. Vedi la tua vita in un modo totalmente nuovo. Sai di essere amato, sai di essere salvo, e hai ragione: è la verità, che ora si mostra in piena luce. Approfittane. Ma sappi che non durerà. Prima o poi, e certamente prima di quanto pensi, questa luce si offuscherà, si oscurerà. Oggi sei come un bambino che il padre tiene per mano e si sente perfettamente al sicuro. Arriverà il momento in cui tuo padre ti lascerà la mano. Ti sentirai smarrito, solo nel buio. Chiamerai aiuto, non risponderà nessuno. Meglio che ti prepari a quel momento, anche se per quanto ti prepari sarai sempre colto di sorpresa e barcollerai. Questo è ciò che si chiama la croce. Non c’è gioia dietro la quale non si scorga l’ombra della croce. Dietro la gioia c’è la croce, te ne accorgerai presto, del resto lo sai già. Quello che ci metterai più tempo a scoprire, forse tutta la vita, ma ne vale la pena, è che dietro la croce c’è la gioia, e una gioia inespugnabile. La strada è lunga. Non avere paura, ma non stupirti se ne avrai. Non stupirti se dubiterai, ti dispererai, accuserai il Signore di essere ingiusto e di chiederti troppo. Quando lo penserai, ricordati questa storia: c’è un uomo che si ribella e si lamenta, come hai fatto e farai ancora tu, perché gli tocca portare una croce più pesante di quella degli altri. Un angelo lo sente, e sulle sue ali lo conduce nella parte del cielo dove sono conservate le croci di tutti gli uomini. Milioni, miliardi di croci, di ogni misura. L’angelo gli dice: “Scegli quella che vuoi”. L’uomo ne saggia alcune, le confronta, prende quella che gli sembra più leggera. L’angelo sorride e dice: “Era la tua”.
«Nessuno» conclude la mia madrina «viene mai messo davanti a una tentazione più grande delle sue forze. Ma occorre che tu sia pronto. Occorre che tu conosca i sacramenti».
Jacqueline esce dal salotto e va nel suo studio a prendere un libro sull’eucaristia. La seguo in quella stanza un po’ buia, accogliente, in cui spesso lei lavora a notte fonda e che mi sembra di aver sempre conosciuto. Mi ci trovo bene. Mi siedo sul divano mentre Jacqueline cerca il volume nella libreria che tappezza le pareti dal pavimento al soffitto. Da lei gli oggetti non cambiano quasi mai di posto. Per trent’anni ho visto sempre la stessa coppa, probabilmente un ciborio, all’ingresso, lo stesso cofanetto con il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi accanto al giradischi, e sugli scaffali dello studio le stesse riproduzioni di Madonne italiane e fiamminghe. Questa stabilità mi dà sicurezza, come la sua presenza nella mia vita. Ma quel giorno il mio sguardo è calamitato da un’immagine che non ho mai visto prima: alcune macchie nere su uno sfondo bianco, distribuite in maniera irregolare, e che mi sembrano formare un volto. O forse no: dipende dalla prospettiva, come nei disegni in cui bisogna riuscire a scoprire il cacciatore nascosto nel paesaggio.
Chiudo gli occhi e li riapro, due o tre volte. Chiedo a Jacqueline: «Che cos’è?». Lei guarda quello che sto guardando io e, dopo un attimo di silenzio, dice: «Mi fa piacere».
Poi mi racconta la storia di quell’immagine.
Due donne, la prima molto credente, la seconda no, stanno facendo una passeggiata in campagna. La non credente dice all’amica che piacerebbe anche a lei avere la fede ma, purtroppo, non ce l’ha. Per credere avrebbe bisogno di un segno. Qualche istante dopo si ferma di colpo e indica con il dito le foglie di un albero. Il suo sguardo è fisso, la sua espressione oscilla tra spavento ed estasi. L’altra la guarda senza capire. Siccome ha con sé una macchina fotografica, le viene in mente, chissà perché, di puntarla nella direzione indicata dalla sua amica e scatta. Qualche mese dopo, l’atea entra in un convento di carmelitane.
La foto, una volta sviluppata, cattura i giochi di luce tra le foglie dell’albero. Macchie in forte contrasto, quasi astratte, in cui qualcuno vede quello che ha visto la donna toccata così improvvisamente dalla grazia. Lo vede Jacqueline, e lo vedono anche alcuni di quelli che vanno da lei, altri no. La riproduzione della foto è lì, sullo scaffale della libreria, da vent’anni. Sono entrato una ventina di volte in quella stanza senza notarla, ma ora è successo, mi sono cadute le squame dagli occhi. Ho visto la faccia di un uomo nascosta tra le foglie. È magro, con la barba. Somiglia molto all’altro suo ritratto quasi fotografico: quello che si vede sulla sindone di Torino.
«Bene» dice semplicemente Jacqueline.
Quasi spaventato, mormoro: «Quando l’hai visto una volta, non puoi più fare a meno di vederlo».
«Non farti illusioni» risponde lei. «Puoi benissimo. Ma puoi anche pregare per continuare a vederlo, per vedere soltanto lui».
Chiedo: «Pregare come?».
«Come vuoi, come ti viene. La preghiera più grande, quella a cui tornerai sempre, è quella che ci ha regalato proprio il Signore: il Padre nostro. E poi nella Bibbia c’è il libro dei Salmi, che contiene ogni possibile preghiera, per ogni situazione, per ogni stato d’animo. Per esempio...» – Jacqueline apre la Bibbia e legge:
Non nascondermi il tuo volto:
che io non sia come chi scende nella fossa.
Annuisco, mi ci riconosco. Io sono come chi scende nella fossa. La fossa, a dire il vero, è il mio habitat naturale.
Ma altrove è scritto che proprio quando non lo vedi Dio è più vicino a te.
10
Esco da casa di Jacqueline con la foto misteriosa – lei ne ha sempre qualche copia da parte, per ogni evenienza. La metto, come se la poggiassi sopra un altare, su uno scaffale del mio studio in rue du Temple, dove trascorro la maggior parte delle mie giornate.
Mi sono sempre guadagnato da vivere scrivendo, prima come giornalista, poi come autore di libri e sceneggiature televisive, e sono abbastanza orgoglioso di mantenere me e la mia famiglia senza dipendere da nessuno, rimanendo padrone assoluto del mio tempo. Pur augurandomi di essere un artista, mi piace vedermi come un artigiano che sta incollato al suo banco di lavoro, consegna le ordinazioni alla data stabilita e accontenta il cliente. Negli ultimi due anni questa discreta immagine che avevo di me stesso si era deteriorata. Non riuscivo più a scrivere romanzi, e pensavo che non ci sarei riuscito mai più. Grazie alle sceneggiature portavo ancora a casa la pagnotta, ma ormai la mia vita aveva imboccato la strada dell’inettitudine e del fallimento. Mi ritenevo uno scrittore mancato, ne davo la colpa al mio matrimonio infelice, mi ripetevo la tremenda frase di Céline: «Non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita...». Io non l’avevo mai fatta ballare benissimo, la vita, ma un po’ di musica, per quanto flebile, non travolgente, da me era comunque uscita – e ora tutto era finito. Il meccanismo si era rotto. Quand’ero allo studio sembrava che il tempo non passasse mai. Un lavoro di sopravvivenza, svolto senza convinzione. Lunghi periodi di torpore, interrotti da masturbazioni. Romanzi letti come ci si droga, per anestetizzarsi, non esserci.
Tutto questo avveniva prima del soggiorno a Le Levron. Prima della conversione. Adesso mi alzo di buonumore, accompagno Gabriel a scuola, vado un’ora in piscina a nuotare e poi, dopo aver fatto a piedi i miei sette piani, mi ritrovo nel mio studio tranquillo dove, come in un’effigie di quel Colbert che la mia generazione dev’essere stata l’ultima a conoscere, mi frego le mani pensando con piacere al lavoro che mi aspetta.
La prima ora la dedico a san Giovanni. Un versetto alla volta, badando bene a non trasformare il mio commento in un diario intimo inquinato da introspezioni psicologiche e dal desiderio di conservarne traccia. Voglio procedere impavido e farmi guidare dalla parola di Dio senza cedere alla mia solita ossessione che da quello che mi succede verrà fuori un libro. Faccio del mio meglio per scacciare l’idea di un libro futuro e mi concentro risolutamente su quello che leggo. Anche se nel Vangelo Cristo parla di me, è a lui ormai e non a me che voglio interessarmi.
(Rileggendo oggi i miei quaderni, salto queste riflessioni teologiche, che allora mi sembravano tanto importanti, come nei romanzi di Jules Verne si saltano le descrizioni geografiche. Quello che m’interessa, e spesso mi lascia sbigottito, è ovviamente ciò che dico di me).
Poi viene la preghiera. Mi sono chiesto spesso se fosse meglio pregare prima o dopo la lettura del Vangelo – come qualche anno più tardi mi sarei chiesto se sia meglio dedicarsi alla meditazione prima o dopo le posizioni yoga. La preghiera, del resto, somiglia molto alla meditazione. Stessa postura: gambe incrociate, schiena ben dritta. Innanzitutto, stesso sforzo per concentrarsi. Stesso tentativo, in genere inutile, ma è il tentativo che conta, di controllare i pensieri che vagano senza sosta e di trovare anche un solo istante di calma. La differenza, se c’è, è che nella preghiera ci rivolgiamo a qualcuno – colui del quale ho messo la foto misteriosa sullo scaffale di fronte a me. A lui recito quei mantra chiamati «salmi» che ho scoperto grazie alla mia madrina, oppure – dipende dall’umore – parlo a cuore aperto. Di Lui, di me – nel quaderno, uso per Lui la maiuscola. Gli chiedo di insegnarmi a conoscerLo meglio. Gli dico che voglio fare la Sua volontà e che va benissimo se è contraria alla mia. So che così Lui plasma quelli che ha scelto.
Prima mi capitava spesso di andare a pranzo con qualche amico. Il menù fisso di quei pranzi prevedeva discussioni sulla letteratura, che andavano dal commento di capolavori ai pettegolezzi editoriali, e sempre troppo vino. Si cominciava ordinando un bicchiere, per non esagerare, e bicchiere dopo bicchiere si finiva per dire che sarebbe stato meglio prendere direttamente una bottiglia. Dopo pranzo, appena tornato in studio, l’euforia etilica si trasformava in depressione angosciosa. Passavo il pomeriggio a giurare a me stesso di non cascarci mai più, e due giorni dopo ci ricascavo. Di punto in bianco, ho dato un taglio a questa consuetudine avvilente. Ormai declino tutti gli inviti a pranzo; me ne resto nel mio eremo a mangiare lentamente una scodella di riso integrale, stando attento a masticare sette volte ogni boccone, e leggendo con non minore concentrazione, io che sono un lettore bulimico, un libro edificante: le Confessioni di sant’Agostino, i Racconti di un pellegrino russo, l’Introduzione alla vita devota di san Francesco di Sales. Alcune frasi di Agostino mi fanno venire i brividi lungo la schiena. Le mormoro per me stesso, come se mi parlassi all’orecchio: «Che cosa pensavo, Signore, quando non pensavo a te? Dov’ero quando non ero con te?». Questo libro, antesignano di quelli di Montaigne e Rousseau, il primo in cui un uomo cerca di spiegare com’era e perché era così e non diversamente, è scritto tutto al vocativo, e quel folgorante uso della seconda persona ha su di me, che da anni ho intuito vagamente che prima o poi dovrò passare dalla terza persona del singolare alla prima, l’effetto di una rivelazione. Il suo esempio mi dà coraggio, e ormai nei miei quaderni non faccio che parlare con il Signore. Mi rivolgo direttamente a lui, gli do del «tu». Il risultato sono riflessioni quotidiane sul Vangelo che si confondono sempre più con la preghiera – ma anche, se si guardano le cose con gli occhi di un non credente, un tono al tempo stesso enfatico e ricercato che quando mi rileggo mi mette tremendamente a disagio.
Il pomeriggio è dedicato alla sceneggiatura che mi è stata commissionata. Non lo considero più un compito ingrato, a cui rassegnarsi in mancanza di meglio, ma il dovere del mio stato, che adempio con scrupolo e buonumore. Se un giorno Dio mi concederà ancora la grazia di scrivere libri, bene. Ma non dipende da me. Quel che dipende da me, visto che lui vuole che faccia lo sceneggiatore televisivo, è fare al meglio lo sceneggiatore televisivo. Che sollievo!
11
In realtà non è proprio così semplice. Lo testimoniano alcune pagine abbastanza gustose del mio secondo quaderno, in cui do un taglio alle solite preghiere per raccontare un giro alla libreria La Procure. Per uno scrittore che non riesce più a scrivere le librerie sono un campo minato. Consapevole del pericolo, dopo la mia conversione le evito – come evito i ricevimenti offerti da editori, i supplementi letterari dei quotidiani, le anticipazioni dei romanzi della nuova stagione, tutte cose che mi fanno male. Ma La Procure, di fronte alla chiesa di Saint-Sulpice, è una libreria religiosa: voglio comprare un libro su san Giovanni, e così corro il rischio. Mi fermo un momento nel settore «Bibbia. Esegesi. Padri della Chiesa». Do una scorsa ad alcuni grossi volumi sull’«ambito giovanneo». Al di sopra del tavolo, il mio sguardo incrocia quello di un sacerdote che sfoglia anche lui libri del genere e mi sento al sicuro, mi piace essere un tipo fervente e austero che s’interessa, con discrezione, senza tirarsela, all’«ambito giovanneo». Oltre a un commento a san Giovanni, prendo le lettere e i diari di Teresa di Lisieux, che mi sono stati raccomandati da Jacqueline. Personalmente sarei andato piuttosto su Teresa d’Ávila, che immagino come il non plus ultra del misticismo, mentre associo Teresa di Lisieux ai miei suoceri, alla paccottiglia religiosa di fine Ottocento, a tutto ciò che sta dentro il sostantivo baciapile, ma quando l’ho detto a Jacqueline lei mi ha guardato con la faccia impietosita che faceva qualche volta: «Povero caro, è terribile dire cose del genere. Non c’è niente di più bello di santa Teresa di Lisieux». Non vorrei che qualcuno pensasse che a Jacqueline non piaceva Teresa d’Ávila, al contrario, stravedeva per lei, tanto che nelle sue preghiere le parlava confidenzialmente in castigliano. Ma, secondo Jacqueline, Teresa di Lisieux, «la piccola via», l’obbedienza e l’umiltà più pure sono la ricetta ideale per farmi abbassare la cresta da intellettuale che tende a giudicare tutto dall’alto. Teresa, e forse anche un pellegrinaggio a Lourdes. Invece di andare in estasi davanti a Rembrandt e Piero della Francesca, come potrebbe fare il primo esteta che passa per strada, mi gioverebbe scoprire quanto splendore e amore di Dio ci siano nella più brutta crosta in gesso della Santa Vergine. Per farla breve: con santa Teresa di Lisieux e san Giovanni sotto il braccio mi dirigo alla cassa. Il problema è che per raggiungerla bisogna attraversare il settore non religioso e affrontare un tavolo pieno di romanzi della nuova stagione. Non ci avevo pensato. Vorrei andare oltre rapidamente, come un seminarista tormentato dalla carne accelera il passo davanti al manifesto di un cinema porno, ma è più forte di me: rallento, do un’occhiata, allungo la mano, ed eccomi lì a sfogliare libri e a leggere quarte di copertina, precipitato in un attimo in quell’inferno, tanto più infernale in quanto ridicolo. Il mio inferno personale: quel miscuglio di inettitudine, risentimento, invidia divorante e umiliante per tutti quelli che fanno ciò che anch’io ho così fortemente desiderato fare, ho saputo fare, e ora non riesco più a fare. Resto lì un’ora, due, ipnotizzato. L’idea di Cristo, della vita in Cristo, diventa irreale. E se la realtà fosse questa? Quest’agitazione inutile, queste ambizioni frustrate? Se invece l’illusione fossero il grande Tu delle Confessioni e il fervore della preghiera? Non soltanto la mia, così stentata, ma quella delle due Terese, di Agostino, del pellegrino russo? Se l’illusione fosse Cristo?
Esco dalla libreria frastornato. Mentre cammino per strada, cerco di riprendermi, di tappare le falle. Rispondo all’attacco dicendomi, innanzitutto, che la maggior parte dei libri che mi hanno appena fatto stare tanto male sono brutti, poi che se io non riesco più a scriverne è perché sono destinato ad altro. A qualcosa di più elevato, che mi immagino come un grande libro nato da questi durissimi anni di maggese, con il quale stupirò il mondo intero e restituirò alla loro insignificanza i prodotti stagionali che oggi sono ridotto a invidiare. Ma forse non è questo che Dio ha in serbo per me. Forse vuole che smetta davvero di fare lo scrittore e per servirlo meglio diventi, chissà, barelliere a Lourdes.
Tutti i mistici concordano nel dire che Dio ci chiede proprio quello che meno vogliamo dare. Non dobbiamo far altro che cercare in noi stessi quello che ci costa di più sacrificare. Per Abramo, il figlio Isacco. Per me, il lavoro, la fama, l’eco del mio nome nella coscienza degli altri. Avrei volentieri venduto l’anima al diavolo per questo, ma il diavolo non l’ha voluta, e non mi resta che regalarla al Signore.
Come che sia, sono un po’ riluttante.
Mi rifugio nella chiesa di Saint-Séverin, ultima tappa della mia giornata prima di tornare a casa. Ci vado ogni sera per la messa delle sette. Siccome non richiama molta gente, la funzione non si svolge nella navata centrale ma in una cappella laterale. Un pubblico di habitué, molto fervente, molto diverso da quello della messa domenicale. Fanno quasi tutti la comunione; io no, benché Jacqueline mi abbia assicurato che il modo migliore per entrare subito in profonda intimità con il Signore sia prendere parte al mistero dell’eucaristia. Resterai sbalordito, mi assicura. Le credo, ma non mi sento pronto. I miei scrupoli la irritano: se uno dovesse aspettare di essere pronto per aprirsi a Lui, non lo farebbe mai. Del resto, nel celebrare il mistero, lo riconosciamo: «O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato». Non importa, preferisco aspettare finché sentirò di desiderarlo veramente. So che quando sarà il momento succederà. Rimango in disparte, accanto a una colonna. Mi chiedo come prima potessi trovare noioso tutto questo. Oggi lo trovo, o mi convinco di trovarlo, mille volte più avvincente di qualsiasi libro, di qualsiasi film. Sembra sempre uguale; è ogni volta diverso.
12
Sono rimasto d’accordo con Madame C. di sdraiarmi sul suo divano al ritorno dalle vacanze, ma prima di arrivare a lei ho visto parecchi suoi colleghi, e scoperto in ognuno di loro almeno un difetto imperdonabile. Uno aveva all’entrata del palazzo una targhetta con il cognome prima del nome – Dott. L., Jean-Paul –, l’altro degli sgorbi tremendi appesi alle pareti dello studio, un terzo in sala d’attesa libri che mi sarei vergognata di avere a casa mia. Si può pensare che una mancanza di buon gusto o di cultura non comprometta le capacità di un analista, ma non era quello che pensavo io, e non sarei mai riuscito a sviluppare un transfert positivo su uno che dentro di me consideravo un buzzurro. Non ho trovato nulla da ridire sull’arredamento dello studio di Madame C., né sul suo modo di parlare, né sul suo aspetto fisico. È una donna sulla sessantina, pacata, rassicurante, gradevolmente distaccata. Ma più si avvicina il giorno della nostra prima vera seduta, più vorrei annullare l’appuntamento. Non lo faccio un po’ per educazione, ma soprattutto grazie all’intervento di Hervé. Perché, mi dice, rinunciare a qualcosa che potrebbe esserti di aiuto senza prima averlo provato?
Invece di sdraiarmi sul divano, come avrei dovuto, mi siedo di fronte a Madame C. sulla poltrona che ho occupato durante i nostri incontri preliminari. Lei non raccoglie il gesto di sfida, aspetta il seguito. Mi butto. Le dico che, insomma, dall’ultima volta che ci siamo visti mi è successa una cosa. Ho incontrato Cristo.
Sganciata una bomba del genere, ritengo che la mossa successiva tocchi a lei. Aspetto, osservo la sua espressione. Lei rimane impassibile. Dopo un momento di silenzio emette un piccolo «mmm?», un tipico piccolo «mmm?» da analista, che io commento con una certa aggressività.
Dico: «È questo il problema della psicoanalisi. Potrebbe venire san Paolo in persona a raccontarle che cosa gli è successo sulla via di Damasco, e lei non si chiederebbe se è vero o no, ma soltanto di che cosa è il sintomo. Perché è questo che si sta chiedendo, giusto?».
Nessuna risposta. Come da copione. Vado avanti. Le spiego che per tutta l’estate ho avuto paura che l’analisi, anziché migliorare la mia vita di coppia, mi costringesse a riconoscerne il fallimento. Ora è diverso. Non vedo più a cosa possa servirmi, perché mi considero guarito. Insomma, non proprio guarito: non sono così presuntuoso. Diciamo in via di guarigione. Prima di andare da lei, stavo leggendo come ogni giorno il Vangelo secondo Giovanni e sono capitato su una frase che mi è piaciuta. La dice Gesù a un certo Natanaele, venuto ad ascoltarlo per curiosità: «Ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». Non si sa che cosa facesse Natanaele sotto l’albero di fichi. Forse si faceva una sega, forse quello che faceva sotto l’albero di fichi racchiude tutti i suoi segreti, tutte le sue vergogne, tutto ciò che lo fa soffrire. Tutto questo Gesù lo ha visto, e Natanaele è contento che lo abbia visto: per questo decide di seguire Gesù.
«Io» dico a Madame C. «sono come Natanaele. Cristo mi ha visto sotto l’albero di fichi. Sa su di me molto più di quanto non sappia io stesso, molto più di quanto potrà mai insegnarmi l’analisi. Allora a che mi serve?».
Madame C. non dice nulla, nemmeno «mmm?». Sembra un po’ triste, ma è la sua espressione normale, e mi sorprendo a parlare anch’io con un po’ di tristezza. Tutta la mia aggressività iniziale è sparita.
«Lei non dice niente, è ovvio. Non deve lasciarmi capire quel che pensa, ma io un sospetto ce l’ho. Io credo che Cristo sia la verità e la vita. Lei, invece, crede che sia un’illusione consolatoria. E se io resto qui, lei cercherà, con le migliori intenzioni del mondo e forse con molta abilità professionale, di guarirmi dalla mia illusione. Ma, vede, io non voglio questa guarigione. Anche se lei mi dimostrasse che è una malattia, io preferirei restare con Cristo».
«E perché mai dovrebbe scegliere?».
Non mi aspettavo più che parlasse. Ciò che dice mi sorprende, e mi sorprende in maniera positiva. Sorrido, come si fa in una partita a scacchi di fronte a una bella mossa dell’avversario. Mi viene in mente un aneddoto su Teresa di Lisieux; glielo racconto. Alla piccola Teresa chiedono di scegliere tra vari regali di Natale; lei risponde con una frase che può far pensare a una bambina viziata ma in cui i commentatori cattolici vedono il segno del suo insaziabile appetito spirituale: «Non voglio scegliere. Voglio tutto».
«Voglio tutto?» ripete pensosa Madame C.
Con un gesto mi indica il divano.
Mi sdraio.
Cinque anni dopo, alla fine di quella che più avanti ancora avrei chiamato la mia prima tranche di analisi, Madame C. mi accenna alla massima secondo cui ogni terapia si riassume nella prima seduta. Dice che il mio è stato un caso da manuale. Ho dovuto ricostruirla a memoria perché i diciotto quaderni che ho riempito nei primi due anni di analisi non ne parlano praticamente mai. In quegli anni sono andato in villa du Danube, nel XIX arrondissement, due volte alla settimana a raccontare per circa tre quarti d’ora d’orologio – Madame C. era una freudiana di vecchia scuola – tutto quello che mi passava per la testa. Nello stesso periodo ho trascorso almeno un’ora al giorno a scrivere sul Vangelo e sui moti della mia anima. Erano entrambe attività di vitale importanza per me, ma ho fatto in modo di tenerle separate con una paratia stagna, e a distanza di tempo capisco benissimo perché. In realtà avrei dovuto capirlo subito, ci sarebbe riuscito anche un bambino, fatto sta che io non l’ho capito. Avevo una paura fottuta che l’analisi demolisse la mia fede, e ho fatto quel che potevo per metterla al riparo. Ricordo una volta di aver detto chiaro e tondo a Madame C. che si togliesse dalla testa di parlare della mia conversione nel corso delle sedute. Tutto il resto, sì, ma non quello. Era come se le avessi detto: tutto quello che vuole, ma desidero mantenere il riserbo sulla mia vita privata.
Guardando le cose dal suo punto di vista, credo di averle dato filo da torcere – soprattutto perché ho un’intelligenza spaventosa. Non fraintendetemi. Non sto peccando di orgoglio. Al contrario, lo intendo in senso negativo, come lo intendeva la mia madrina e come l’ho inteso io quando Madame C., seduta sulla sua poltrona dietro di me, si è lasciata sfuggire con voce afflitta: «Ma perché dev’essere a tutti i costi così intelligente?». Voleva dire complicato, contorto, sempre pronto a spaccare il capello in quattro, a prevenire obiezioni che nessuno aveva in mente di farmi, incapace di pensare qualcosa senza pensare al tempo stesso il suo contrario, e poi il contrario del contrario, sfiancandomi in questo inutile girare a vuoto.
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Quell’autunno è nato il nostro secondo figlio, Jean Baptiste. Anne non aveva nessuna voglia di chiamarlo come un irsuto imprecatore, noto sostanzialmente per le abitudini selvatiche, la vita ascetica nel deserto, il soggiorno nelle prigioni del crudele re Erode e, infine, per essere stato decapitato. Inoltre, quel nome suonava fin troppo cattolico. Divenuto adulto, l’interessato ha dato ragione alla madre e, tranne in famiglia, si fa chiamare Jean. Ma io non mi sono arreso. Nella mia lettura del Vangelo secondo Giovanni ero arrivato proprio alla testimonianza di Giovanni Battista, che è al tempo stesso l’ultimo dei profeti d’Israele e il precursore di Gesù. Il più grande nell’antica alleanza, il più piccolo nella nuova. Colui che ha concentrato l’amore secondo Cristo in questa formula fulminante, quasi inaccettabile: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire». Ho voluto che il giorno del battesimo Hervé, il padrino, leggesse il cantico di ringraziamento che intona il vecchio Zaccaria, padre di Giovanni Battista, il giorno della circoncisione del figlio. Il cantico si trova nel Vangelo secondo Luca ed è noto come il Benedictus:
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,
per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre
e nell’ombra di morte,
e dirigere i nostri passi
sulla via della pace.
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Qualche giorno dopo il battesimo la nostra ragazza alla pari ci pianta. Brutta tegola. Anne lavora molto, a mio modo anch’io, siamo entrambi fuori casa tutto il giorno. Abbiamo assoluto bisogno di qualcuno che vada a prendere Gabriel all’asilo e ora si occupi anche di Jean Baptiste. Presi dall’ansia, mettiamo degli annunci e cominciamo a incontrare le candidate. L’anno scolastico è già iniziato, non possiamo avere troppe pretese. Le studentesse simpatiche e piene di iniziativa sono tutte sistemate, restano sul mercato soltanto quelle che non hanno trovato acquirenti: le ragazze che se la prendono comoda, che fanno le baby-sitter solo in mancanza di meglio e aspettano la prima occasione per sparire senza preavviso. È una processione sconfortante, con momenti quasi comici, e crediamo di aver toccato il fondo quando un tetro pomeriggio di dicembre apriamo la porta a Jamie Ottomanelli.
Le altre aspiranti al posto di ragazza alla pari, se non altro, sono delle ragazze. Questa ha cinquant’anni suonati, è grande e grossa, ha i capelli unti e porta una vecchia tuta da ginnastica da cui esala un discreto tanfo. A dirla tutta, sembra una barbona. Io e Anne ci siamo inventati una specie di codice per scambiarci con discrezione le nostre impressioni e non prolungare i colloqui inutili. Nel caso di questa visitatrice, la sentenza è chiara – neanche per sogno –, ma non possiamo rimandarla fuori sotto la pioggia senza farle almeno un paio di domande. Le offriamo una tazza di tè. Lei si stravacca su una poltrona accanto al caminetto a gambe spalancate, come se avesse intenzione di passare lì il resto della giornata. Dopo un momento di silenzio, nota un libro posato sul tavolino e dice, in un francese dal forte accento americano: «Oh, Philip K. Dick...».
Alzo le sopracciglia: «Lo conosce?».
«L’ho conosciuto a San Francisco, tanto tempo fa. Sono stata la baby-sitter della più piccola delle sue figlie. Adesso è morto. Prego spesso per la sua povera anima».
Da adolescente sono stato un lettore appassionato di Dick e, a differenza della maggior parte delle passioni adolescenziali, questa non si è mai affievolita. Ho riletto a intervalli regolari Ubik, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Un oscuro scrutare, Noi marziani, La svastica sul sole. Consideravo – e considero tuttora – il loro autore una specie di Dostoevskij della nostra epoca. Però, come la maggior parte dei suoi fan, non sapevo che cosa pensare dei libri del suo ultimo periodo – come i fan di Dostoevskij non sanno che cosa pensare del Diario di uno scrittore, quelli di Tolstoj di Resurrezione e quelli di Gogol’ di Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici. Per farla breve, verso la fine della sua caotica esistenza Dick ha avuto una specie di esperienza mistica, ma lui stesso non sapeva se fosse una vera esperienza mistica o l’ultima forma assunta dalla sua leggendaria paranoia. Ha cercato di spiegarla in libri strani, pieni di citazioni della Bibbia e dei Padri della Chiesa; per molto tempo non ho saputo da che parte prenderli ma da qualche mese li rileggo con occhi nuovi. Detto questo, tutto mi aspettavo tranne che un colloquio per il posto di ragazza alla pari si trasformasse in una discussione su Philip K. Dick.
Durante la discussione viene fuori che Jamie, nata a Berkeley come lui, è cresciuta in una comunità hippy ed è passata per tutto quello che andava forte negli anni Sessanta e Settanta: sesso, droga, rock’n’roll e soprattutto religioni orientali. Dopo aver attraversato momenti sui quali preferisce sorvolare, Jamie si è convertita al cristianesimo. Ha deciso di prendere i voti, fatto lunghi ritiri in convento, scoperto che non aveva la vocazione, e da vent’anni conduce una vita randagia, guidata dalla frase del Vangelo sugli uccelli del cielo che non costruiscono nidi, non accumulano provviste e si affidano al Padre per soddisfare i propri bisogni. Il Padre, a essere sinceri, provvede con molta parsimonia. Jamie è poverissima, per non dire sul lastrico. Del resto, se è venuta da noi è perché il nostro annuncio dice che forniamo anche l’alloggio, ed è questo che le interessa. L’ingenua confessione spinge Anne a tornare al motivo del colloquio, che già da un’ora ruota attorno a Dick, all’I Ching e a san Francesco d’Assisi. Oltre ad avere urgente bisogno di un tetto, Jamie si è già presa cura di bambini?
Oh sì, certo, spesso. Ultimamente di quelli di un diplomatico americano. «Bene, perfetto!» dico io con entusiasmo. Fosse per me, l’assumerei subito, ma Anne chiede con fermezza il tempo per pensarci, si fa dare il numero di telefono del diplomatico americano e, dopo che Jamie se n’è andata, passiamo la serata a discutere – io estasiato, Anne ammettendo che Jamie è un tipo interessante, originale, ma sembra comunque molto smarrita. Io sono abbastanza prudente da non lasciarmi sfuggire quello che penso davvero, e cioè che quella donna che prega per lapovera anima di Philip K. Dick ci è stata mandata da Dio. Invece, parlo ad Anne della njanja che si occupava di me e delle mie sorelle quand’eravamo piccoli. Per i russi, la njanja è molto più di una domestica: è una balia, una governante che fa parte della famiglia e ci resta in genere fino alla fine dei suoi giorni. Io stravedevo per la nostra – le mie sorelle meno, perché lei aveva una spudorata preferenza per me. Sono sicuro che quella Jamie strapazzata dalla vita, ma candida e schietta, con il suo mite sguardo azzurro, diventerà per i nostri figli quello che la mia njanja è stata per me. Che darà a tutti noi preziose lezioni di gioia e di distacco. La mia convinzione smuove Anne che chiama il diplomatico americano, il quale non lesina elogi. Jamie è una donna meravigliosa. Non una semplice dipendente, ma un’amica di vecchia data. I bambini sono pazzi di lei, da quando se n’è andata non fanno che piangere ogni sera. Ma allora perché se n’è andata? In realtà, risponde il diplomatico americano, è lui che se ne va con tutta la famiglia. Dopo quattro anni di servizio a Parigi, torna negli Stati Uniti.
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Jamie non abita più a casa del diplomatico americano ma ci ha lasciato le sue cose, e andiamo a prenderle insieme. La portinaia di un bel palazzo haussmanniano, nel VII arrondissement, ci riceve molto sgarbatamente, e seguendoci come un’ombra, come fossimo due potenziali ladri, ci accompagna alla cantina in cui si trovano gli averi di Jamie. Stanno tutti dentro un enorme baule di ferro che carichiamo in macchina e poi portiamo su nella stanza destinata a Jamie, non senza difficoltà dato che è molto pesante. A quel punto la lascio sola perché possa sistemarsi, ma prima ancora che sia uscito lei apre il baule, dove ci sono pochissimi vestiti e, più che altro, pile di scartoffie, foto strappate e ingiallite, materiale per dipingere – perché lei dipinge icone, mi informa. Tira fuori dal baule un grosso manoscritto: visto che faccio lo scrittore, potrebbe interessarmi.
Mentre Jamie mette in ordine le sue cose, io passo il pomeriggio a giocare con Jean Baptiste e poi, quando lui si addormenta, a sfogliare Tribulations of a child of God (by Jamie O.). Non è proprio un’autobiografia, piuttosto un diario intramezzato da poesie, illustrato da disegni di ogni tipo, collage fotografici e pubblicità parodiate, tipicamente seventies. I disegni, stile copertina di disco psichedelico, sono al tempo stesso orrendi e manierati, ma la mia madrina mi ha già fatto la lezione su come quel che conta nell’arte sia la purezza di cuore e su quanto sia angusta la visione dei sedicenti intenditori: mi ha assicurato sorridendo che all’inferno, per punizione, saranno circondati dalle croste che hanno disprezzato in vita e passeranno l’eternità a entusiasmarsi per la loro meravigliosa bellezza. In una serie di fototessere Jamie, più giovane ma già grassa, fa delle smorfie con un uomo scheletrico con la barba e gli occhialetti tondi. Capisco che il tizio con la barba era suo marito e che ora è morto. Questo insieme caotico e assolutamente indigesto è percorso da una rabbia sorda contro il mondo intero che mi preoccupa un po’.
La sera prima avevamo amici a cena e abbiamo parlato della nostra nuova bambinaia, così originale, e poiché ho avuto la pessima idea di dire che somigliava in modo impressionante a Kathy Bates, la protagonista di Misery non deve morire, tutti si sono divertiti a immaginare la versione Stephen King della storia: l’adorabile grassa signora che, a forza di premure e gentilezze, assume a poco a poco un controllo tirannico, mostruoso, sulla giovane coppia e la distrugge. Pur collaborando volentieri allo sviluppo di questa sceneggiatura horror, sostenevo con più serietà – una serietà che i nostri invitati, non sapendo nulla della mia conversione, hanno sicuramente giudicato canzonatoria – che Jamie era una specie di santa, una che i casi della vita e probabilmente una vocazione segreta avevano spinto, una privazione dopo l’altra, a rinunciare al proprio ego, e nel bene e nel male a mettere il proprio destino nelle mani della Provvidenza. In realtà, basta un’occhiata al suo patetico manoscritto per accorgersi che la povera donna non ha affatto rinunciato al proprio ego, il quale, al contrario, si agita come un ossesso; e che, lungi dall’avere raggiunto la gioia francescana che io le attribuisco, Jamie soffre terribilmente per le umiliazioni che la vita non ha cessato di infliggerle, per il fallimento delle sue ambizioni letterarie e fotografiche, per lo shock di vedersi allo specchio così corpulenta, così poco desiderabile. Ma deciso come sono a considerare la sua vita e il suo ingresso nella nostra da un punto di vista spirituale, preferisco leggere nelle sue profezie amare e assetate di rivalsa l’eco di quei tanti salmi in cui Israele, pur lamentandosi dell’ingiustizia presente, esprime la propria fiducia nella venuta del Messia che darà ai potenti quello che si meritano ed esalterà i poveri, gli umiliati, i reietti di sempre. Al tempo stesso, sono imbarazzato. Jamie mi ha dato il suo manoscritto da autore ad autore, e aspetta una risposta: mi chiedo che cosa posso dirle di non troppo ipocrita per tirarla su di morale.
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Il primo giorno in cui lasciamo Jamie da sola con i bambini, tornando a casa troviamo l’appartamento pieno di ghirlande colorate, ritagliate con la collaborazione di Gabriel che sembra molto soddisfatto del risultato. Bene. Va meno bene che tutte le stanze, non solo quella dei bambini, siano in un disordine indescrivibile e che Jean Baptiste strilli perché da ore non viene cambiato. Io e Anne avevamo programmato per la sera una specie di cena di benvenuto e abbiamo detto a Jamie di non occuparsi di niente. Lei prende la nostra raccomandazione alla lettera e si lascia servire senza muovere un dito per aiutarci. I nostri – non «rimproveri», sarebbe dire troppo, e neppure «osservazioni» –, diciamo i nostri discreti suggerimenti su come ci piacerebbe trovare la casa quando rientriamo, Jamie li ascolta con un sorriso benevolo, buddhistico, un po’ troppo distaccato per i gusti di Anne, e anche per i miei, dalle vicende di questo mondo. Quando se ne va a letto, lasciandoci le stoviglie da lavare, io e Anne cominciamo a litigare. Mi sento responsabile, e ammetto scocciato che bisogna cambiare registro. Trattarla da amica, ma non troppo. Non domandarle, è chiaro, di servire a tavola, ma nemmeno ritrovarci noi nell’assurda situazione di servire lei – checché ne dica Gesù al riguardo. Mi impegno a parlarle, e passo il giorno successivo a provare il mio discorsetto. Alle cinque mi telefonano in studio dall’asilo: la sua bambinaia non è venuta a prendere Gabriel.
Aggrotto la fronte, non capisco. Quella mattina stessa ho fatto un sopralluogo insieme a Jamie, l’ho presentata al personale scolastico, doveva filare tutto liscio. Doveva filare tutto liscio, ma la realtà è questa: Jamie non si è fatta vedere. Telefono a casa nostra, non risponde nessuno. Neanche Anne in ufficio risponde – ricordo che questa vicenda si svolge nel lontano passato in cui non esistevano i cellulari. Corro a scuola a prendere Gabriel, poi torno a casa con lui. Jean Baptiste e Jamie non ci sono. Il tempo è troppo brutto perché Jamie lo abbia portato ai giardinetti; comincio a essere seriamente preoccupato.
Salgo al piano della stanza di Jamie e trovo la porta spalancata. Jean Baptiste dorme beato nella sua culla – tiro un respiro di sollievo: questo è l’importante. Lei invece è intenta a impiastricciare la parete con una specie di affresco che probabilmente rappresenta il Giudizio universale: il paradiso è in camera sua, mentre l’inferno con la folla dei dannati deborda nel corridoio. Non sono un iracondo, forse non abbastanza, ma stavolta esplodo. Il discorsetto deciso e sorridente che ho preparato si trasforma in un fiume di rimproveri. Dimenticare come un pacco postale uno dei bambini che le sono stati affidati! Già il primo giorno! Non faccio in tempo a passare alla seconda rimostranza, cioè che nessuno di noi, né soprattutto il proprietario dello stabile, l’ha incaricata di decorare le parti comuni, che con mia grande sorpresa, invece di chinare il capo, riconoscere i propri errori o balbettare una scusa, Jamie comincia a gridare molto più forte di me, mi accusa di essere una persona cattiva e, peggio ancora, uno che nella vita si diverte a mandare la gente fuori di testa. Eretta in tutta la sua altezza e corpulenza nella vecchia tuta da ginnastica, afferra dal tavolo una copia del mio romanzo Baffi, la agita mandando fulmini dagli occhi e urla fra schizzi di saliva: «Lo so che tipo è lei! Ho letto questo libro! So quali giochi perversi le piace fare! Ma con me non attacca. Ho conosciuto demoni più forti di lei, e lei non riuscirà a mandarmi fuori di testa!».
Come dice Michel Simon nello Strano dramma del dottor Molyneux: «A forza di scrivere cose orribili, le cose orribili finiscono per succedere».
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La cosa più saggia da fare, dopo questo tentativo disastroso, sarebbe fermarsi lì e separarsi alla meno peggio. Il problema è che Jamie ha trovato qualche metro quadrato per il suo baule e per se stessa, e non ha nessuna intenzione di andarsene. Non scende più da noi, siamo io e Anne a salire da lei. Dal corridoio decorato da diavoletti, cerchiamo inutilmente di convincerla parlandole attraverso la porta ormai chiusa a chiave. Ci appelliamo al suo buonsenso, le facciamo presente che dobbiamo trovare una sostituta e darle anche l’alloggio, le offriamo un mese, due, tre di paga. Fatica sprecata. Il più delle volte non risponde. Non sappiamo nemmeno se è in camera. Altre volte ci urla di andare a fare in culo. E precisa che non ce l’ha tanto con Anne ma con me. Anne si comporta come la padrona che bada ai suoi interessi: pago, voglio essere servita, è coerente. Dei due, sono io la vera carogna. Un finto buono, un fariseo, uno che vuole la botte piena e la moglie ubriaca: non solo buttare la gente fuori di casa in pieno inverno ma anche godere come un riccio per i tormenti che gli fa soffrire la sua sensibile coscienza.
Ha fatto centro, e i miei quaderni sono pieni di accorati esami di coscienza. Ricopio frasi del Vangelo come: «Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?». Mi sento come uno di quelli che Gesù condanna con queste parole: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». «Come, come?» chiede stupita la gente perbene. «Quando mai, Signore, ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo, in carcere?». Allora Gesù risponde: «Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me. E tutto quello che avete fatto a uno solo di questi più piccoli, l’avete fatto a me».
Impeccabile logica evangelica. Al tempo stesso, però, cerco di giustificarmi: abbiamo bisogno di una persona affidabile, non possiamo più andare avanti così e, come se non bastasse, il peso della situazione ricade su Anne più che su di me; quindi per proteggere mia moglie devo riuscire a mostrarmi deciso, brutale se necessario. Ma questa è la saggezza del mondo, quella del padrone che vuole essere servito e avere quello che ha pagato. Cristo chiede un’altra cosa: vedere l’interesse dell’altro e non il proprio; riconoscerlo, Cristo, in Jamie Ottomanelli, nella sua povertà, nella sua confusione, nella sua follia sempre più minacciosa. So che Jamie prega, barricata nella sua cameretta tre piani sopra di noi, e mi dico che nella sua preghiera lei è più vicina di me a Cristo. «Cercate il Regno di Dio,» dice Gesù «e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Cercare il Regno di Dio, in questa vicenda, non significa restare fedeli allo slancio fiducioso che ci ha fatto assumere Jamie, invece di tradirlo in nome della ragione? È possibile, per chi vuole vivere secondo il Vangelo, essere troppo fiduciosi?
Mentre io mi occupo dei miei scrupoli, Anne si occupa di cose più concrete. Come estremo rimedio, sarebbe disposta a chiedere l’intervento della polizia, ma non abbiamo messo Jamie in regola, pensavamo di pagarla in nero, insomma è una situazione delicata. Anne cerca di trovare il diplomatico americano, che però è introvabile. Lascia messaggi sempre più insistenti a casa sua, alla sua segreteria, lui non richiama mai. Che sia già tornato negli Stati Uniti? All’ambasciata rimangono interdetti: non è affatto previsto che torni negli Stati Uniti. Alla fine, la moglie del diplomatico richiama, dà appuntamento ad Anne in un caffè, arriva con un paio di occhiali da sole – siamo in dicembre e piove – e vuota il sacco.
Che Jamie sia più o meno un’amica, è vero. Roger, suo marito, l’ha conosciuta all’università. L’ha rincontrata per caso a Parigi. Jamie era completamente alla deriva, ma così particolare, così commovente, che Roger ha voluto darle una mano in ricordo dei bei vecchi tempi. Le hanno offerto la stanza in cui ospitano gli amici di passaggio, e lei in cambio doveva aiutare la loro figlia nei compiti per casa. «È una persona colta, sa, avrebbe potuto cavarsela benissimo nella vita, se non fosse stata così sfortunata. Dopo qualche giorno, la situazione è diventata assolutamente insopportabile. Inutile che le racconti, è capitato lo stesso con voi, credo capiti così con chiunque». Susan ha intimato a Roger di liberarsi di Jamie a qualsiasi costo, e «a qualsiasi costo» ha voluto dire fare questa cosa schifosa: acconsentire a dare buone referenze, quando Jamie ha risposto a un annuncio. «Schifosa» ripete Susan con il suo accento americano, e Anne non riesce a capire se la donna si renda conto di imitare Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro. Lei e il marito erano disposti a tutto pur di sbarazzarsi di Jamie, ora si pentono di aver messo in quella situazione una giovane coppia che sembra carina. Insomma, Susan si pente. Roger è un po’ vigliacco, come tutti gli uomini – immagino che Anne annuisca. Susan chiederà a Roger di fare qualcosa, di trovare una soluzione. Se c’è qualcuno che riesce, nonostante tutto, a farsi ascoltare un po’ da Jamie, quello è Roger.
Anne torna a casa scettica, anche se l’onestà di Susan l’ha colpita. Non sappiamo che cosa si sia inventato Roger, ma tre giorni dopo, quando salgo per cercare ancora una volta di trattare con Jamie, la stanza è vuota, pulita, e la chiave è nella toppa. Unica traccia del passaggio di Jamie: il Giudizio universale sulla parete, che io e Anne passiamo il weekend a strofinare con il detersivo. Prendiamo una capoverdiana apatica, che non si ammazza di lavoro, non parla francese e male l’inglese. Dopo l’incubo da cui usciamo, ci sembra una perla. Anne chiama Susan per ringraziarla. Susan non risponde, non richiama – come quegli agenti dell’FBI che al termine della loro missione spariscono senza lasciare traccia, e io dico scherzando ma non troppo che se telefoniamo all’ambasciata ci risponderanno che non esiste, non è mai esistito un diplomatico di nome Roger X.
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A Natale, Anne e io andiamo al Cairo per sposarci nella povera parrocchia di padre Xavier. La lettura che ho scelto è la più classica in queste circostanze: l’inno all’amore della prima lettera ai corinzi di san Paolo. Per motivi che in analisi ho lungamente e vanamente sostenuto, non voglio le nostre famiglie alla cerimonia. Sono presenti soltanto il sacrestano e uno spazzino. Siccome non abbiamo portato nemmeno una bottiglia di vino per offrire loro un bicchiere, padre Xavier va nella sua stanza a prendere una bottiglia di Porto svanito, regalo di una parrocchiana. È una cosa triste, fatta quasi di nascosto: come se ci vergognassimo di sposarci. La sera Anne piange. Attraversiamo in macchina il deserto del Sinai, guardiamo sorgere il sole dal monastero di Santa Caterina. Io leggo l’Esodo. Mi immagino il popolo d’Israele, uscito dall’Egitto ma ancora lontano dalla terra promessa, vagare fra quei sassi per quarant’anni, e paragono la sua prova alla mia. Le parole «traversata del deserto» mi consolano. Benché mi pieghi alla volontà divina, non smetto di chiedermi se e quando potrò scrivere un nuovo libro. Ho un’idea vaga, molto vaga. Fare il ritratto di una specie di mistico selvaggio che avrebbe qualcosa di Philip K. Dick e insieme di Jamie Ottomanelli: un vecchio hippy, o meglio una vecchia hippy, travolta dalle droghe e dalla sfortuna, che un giorno ha un’illuminazione mistica e passa il resto della vita a chiedersi se ha incontrato Dio o se è pazza, e se fra le due cose c’è qualche differenza.
Poco dopo il nostro ritorno dall’Egitto, in boulevard Saint-Michel un tizio mi rifila un volantino stampato male su quella che lui chiama la Rivelazione di Arès. Paccottiglia da setta, che leggo per qualche riga con lo sdegno misto a compassione di chi frequenta Meister Eckhart e i Padri della Chiesa. C’è un ragionamento che mi fa sorridere: «Se quest’uomo non fosse il profeta che è stato mandato agli uomini del ventesimo secolo, l’equivalente di Abramo, Mosè, Gesù e Maometto, allora tutto ciò che dice la Rivelazione di Arès sarebbe falso. Il che è impossibile». Alzo le spalle, poi mi accorgo che queste righe riprendono parola per parola un ragionamento di san Paolo: «Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è resurrezione dei morti? Se non vi è resurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede». Sono turbato. Cerco di restare lucido: se crediamo come io credo che Dio esista, non c’è dubbio che un abisso separa ciò che diceva san Paolo da ciò che dice il tipo della Rivelazione di Arès, o lo stesso Dick quando era impantanato nel misticismo degli ultimi anni. Paolo era ispirato, gli altri due erano chiaramente fuori strada. Il primo ha avuto a che fare con l’originale, gli altri due con penose contraffazioni. Ma se non ci fosse nessun originale? Se Dio non esistesse? Se Cristo non fosse risorto? Tutto quello che possiamo dire è che l’iniziativa di Paolo ha avuto più successo di quella degli altri due e gode di maggior credito culturale e filosofico – ma in fondo è la stessa menata.
19
Una sera Anne torna a casa agitatissima. Ha incrociato Jamie sulle scale del palazzo. Sì, Jamie, con la sua tuta da ginnastica sformata e in mano un sacchetto del supermercato. Che ci fa qui? Anne è rimasta imbambolata come davanti a un fantasma, e non ha avuto la presenza di spirito di chiederglielo, così Jamie è sgattaiolata via guardando dall’altra parte. Interviene Gabriel, che ci sta ascoltando. Anche lui ha visto Jamie. «In casa?». «Sì, in casa. Torna ad abitare con noi?» chiede speranzoso, perché ha un ottimo ricordo del giorno in cui ha ritagliato le ghirlande di carta.
Vado in ricognizione al piano delle stanze di servizio. Proprio in fondo al corridoio, dopo la toilette che qualche mese prima abbiamo ridipinto per offrire alla nostra dipendente servizi dignitosi, scopro una specie di stamberga mansardata. Non una stanza, piuttosto uno sgabuzzino di cui ignoravo l’esistenza, molto semplicemente perché non mi ero mai spinto fin là: in quel vecchio palazzo poco funzionale non c’è motivo per spingersi fin là. Quel posto non ha neanche una porta, soltanto un pezzo di tessuto fissato con qualche puntina. In un film tratto da un romanzo di Stephen King, la musica diventerebbe sempre più angosciosa, noi vorremmo gridare all’incauto visitatore di tagliare la corda invece di tirare la tenda come, chiaramente, sta per fare, come faccio, e in quel minuscolo tugurio, simile a quello in cui i Thénardier fanno dormire Cosette nei Miserabili, c’è, avete indovinato, il baule di Jamie. Sul baule, una vaschetta di cartone con gli avanzi di un pasto da asporto. Una candela, per fortuna spenta, davanti a una delle icone di Jamie. Il materiale per dipingere e, sulla parete scrostata, già in corso di esecuzione uno dei suoi orripilanti affreschi psichedelici.
Carrellata in avanti su un diavolo che ride. La cinepresa penetra nella sua bocca nera, mentre rullano i timpani del Dies irae. Fine della sequenza: di solito, il pubblico ne ha avuto abbastanza.
Non abbiamo mai saputo come siano andate le cose. Forse Jamie aveva già individuato da molto quella soluzione di ripiego, e dopo essersene andata per ordine di Roger è ritornata alla chetichella? Oppure Roger, che aveva promesso alla moglie di far liberare la nostra stanza, ha preso quell’impegno alla lettera e ha consigliato a Jamie di nascondersi quindici metri più in là, in quella topaia inutilizzata – dopodiché, arrangiatevi, io ho fatto quel che potevo, non venite più a chiedermi niente? Comunque sia, Jamie vive da abusiva tre piani sopra di noi, è matta da legare, disperata, ci odia a morte – è una situazione davvero angosciante. Che fare? Chiamare la polizia? Avvisare il proprietario? Siamo stati noi a introdurla nel palazzo, e corriamo il rischio che lui se la prenda con noi. Peggio: corriamo il rischio che lei se la prenda con noi. Che voglia vendicarsi. Mettendo di mezzo i bambini. Rapendo Jean Baptiste nella culla. Attirando nel suo antro Gabriel, che la adora. Scappando con lui. Non rivedremo mai più il nostro povero bambino e lui crescerà Dio solo sa dove. Tirato su da quella pazza, rovisterà insieme a lei nei bidoni dell’immondizia, litigherà con i cani per il cibo, tornerà allo stato selvaggio. Imponiamo alla capoverdiana misure di sicurezza degne di due paranoici gravi. Facciamo promettere a Gabriel di non parlare con Jamie, di non accettare niente da lei, di non andare con lei da nessuna parte.
«Ma perché?» chiede lui. «È cattiva?». «No, non è cattiva, non proprio, ma, sai, è molto infelice, e qualche volta le persone molto infelici fanno cose... come posso spiegarti?... cose che non bisogna fare...». «Quali cose?». «Non so, per esempio... cose che potrebbero farti male». «Allora non bisogna parlare con le persone molto infelici? Non bisogna accettare niente da loro?».
Volevo crescere nostro figlio insegnandogli la fiducia e l’apertura verso il prossimo: ogni parola di questo dialogo è per me un supplizio.
Dopo questo climax, il film finisce di colpo. Immagino che per il lettore sia una delusione: per noi che ci aspettavamo un’escalation di terrore è un sollievo. Invece di perseguitarci, Jamie ci evita. Probabilmente approfitta degli orari in cui c’è poco movimento, se ne va all’alba, ritorna con il buio. Nonostante il suo fisico, è un fantasma inafferrabile, così discreto che ci viene il dubbio di essercelo sognato. No, il suo baule è sempre là. Ho la sensazione che la sventura si aggiri per casa, che una minaccia aleggi su di noi, ma a poco a poco questa sensazione si dissolve. Era diventata un’ossessione per noi, mentre ora riusciamo a trascorrere parecchie ore, e dopo un po’ di tempo parecchi giorni di fila, senza pensare a lei. Una sera la vedo a messa, a Saint-Séverin. Ho paura che mi faccia una scenata, ma quando i nostri sguardi s’incrociano io accenno un saluto con la testa, e lei risponde. Vedo che va a fare la comunione, mentre io ancora non la faccio. Penso alle parole di Cristo: «Quando presenti la tua offerta all’altare, se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono e va’ a riconciliarti con tuo fratello». All’uscita le vado incontro. Scambiamo qualche parola, senza astio. Le chiedo come va, lei mi risponde che è dura. Sospiro: capisco. Possiamo fare qualcosa per lei? Non so più bene com’è andata a finire, ricordo vagamente che ci siamo rivolti alla parrocchia per aiutarla, che le abbiamo dato un po’ di soldi e anche che prima di partire lei è venuta a salutarci. Non l’ho più rivista, non so se sia ancora viva.
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Superato il momento critico, i miei quaderni non parlano più di lei. O meglio sì, ma non è più veramente lei, Jamie Ottomanelli, è il personaggio del libro al quale ho pensato tutto quell’inverno. In realtà non ci ho pensato e basta, ci ho lavorato; il guaio è che non mi è rimasto niente. Oggi, che sempre più spesso scriviamo, e addirittura leggiamo, a video e sempre meno su carta, ho un’ottima ragione per preferire la seconda: uso il computer da più di vent’anni, e tutto quello che ho scritto a mano ce l’ho ancora – per esempio i quaderni da cui ricavo il contenuto di questo resoconto –, mentre tutto, ma proprio tutto quello che ho scritto direttamente a video è sparito. Ho fatto, come mi supplicavano, ogni sorta di backup, e di backup dei backup, ma è sopravvissuto soltanto quello che è stato stampato su carta. Il resto era su dischetti, chiavette, hard disk esterni, considerati molto più sicuri ma diventati obsoleti l’uno dopo l’altro, e ormai inutilizzabili come le audiocassette di quand’eravamo giovani. In poche parole: nelle viscere di un computer da molto tempo defunto, c’è l’abbozzo di un romanzo che potrebbe servire per integrare i miei quaderni, se lo ritrovassi. Avevo scelto come titolo una frase del regista Billy Wilder, prolifico inventore di battute, l’equivalente negli Stati Uniti di Sacha Guitry in Francia. Quando è uscito il film tratto dal Diario di Anna Frank, hanno chiesto a Wilder un parere: «Splendido» aveva risposto, serio. «Davvero splendido... Molto commovente. (Pausa). Ma comunque sarebbe interessante conoscere il punto di vista dell’avversario».
Da quanto ricordo,«Il punto di vista dell’avversario» metteva in scena Jamie che monologava nel suo tugurio come Giobbe sul suo mucchio di rifiuti, come lui grattandosi le piaghe infette e ripetendo ossessivamente gli stessi discorsi: il destino ingiusto, che si abbatte con le sue disgrazie sugli uomini di buona volontà mentre i cattivi trionfano e fanno la bella vita; la rivolta contro Dio, che viene elogiato per la sua giustizia anche se poi tollera quelle orrende ingiustizie; gli sforzi per piegarsi, nonostante tutto, alla sua volontà, e credere che in quel caos ci sia un senso, e che un giorno questo senso diventerà chiaro: allora finalmente ci sarà gioia per i buoni e stridore di denti per i cattivi.
Per comporre il monologo di Jamie avevo fatto un montaggio di quello che ricordavo della sua autobiografia, Tribulations of a child of God, con citazioni dei Salmi e dei Profeti. Il montaggio funzionava piuttosto bene perché le suppliche del salmista sono universali e i profeti, che Israele ha venerato solo da morti, in vita dovevano essere invasati molesti sul tipo di Jamie, che non la finivano di lamentarsi, mostravano le loro piaghe senza pudore, rompevano le scatole al mondo intero con le loro pretese e le loro miserie – non per niente dal nome Geremia è derivata la parola di uso comune «geremiade». Comunque, la mia grande idea, quella che giustificava il titolo, non si limitava a rappresentare Jamie come una di quelle povere creature umiliate e piagnucolose alle quali Gesù promette il Regno dei cieli, ma consisteva nel ritrarre anche me stesso visto da lei, e pur avendo perduto quel testo e non ricordandomene quasi niente, non faccio fatica a immaginare che in quell’esercizio il mio gusto per l’autoflagellazione deve aver dato il meglio di sé. Benché intessuto di riferimenti biblici, era un racconto realistico che ricostruiva la lenta deriva di Jamie tra la California degli anni Sessanta – dove, naturalmente, incontrava Philip K. Dick – e la Parigi degli anni Novanta, dove finiva al servizio di una coppia di giovani intellettuali tanto pieni di buone intenzioni quanto insopportabili. La donna era frenetica, non stava ferma un attimo, era perennemente in ansia. Soltanto trovarsi nella stessa stanza con lei era uno stress, ma questo era ancora niente in confronto al marito. Ah, il marito! Il giovane scrittore dal ciuffo romantico, concentrato sul proprio ombelico, intento a coccolare le proprie nevrosi, tutto preso dalla propria importanza e da un po’ di tempo, e questo era il peggio, dalla propria umiltà. Uno che si era inventato un nuovo sistema per rendersi interessante ai propri occhi: convertirsi al cristianesimo, commentare con devozione il Vangelo, assumere un’aria dolce, benevola e comprensiva, mentre tramava con la sua brava mogliettina per chiamare la polizia e sbattere in pieno inverno fuori da quella stanza di otto metri quadrati con il cesso sul pianerottolo una povera grassa vecchia giramondo allo sbando, e ci rinunciava non per carità ma perché aveva paura che il proprietario venisse a sapere che il loro bell’appartamento pieno di libri lui e la moglie lo subaffittavano, allora meglio evitare scandali, meglio evitare storie. C’era da chiedersi che cosa avrebbero fatto quei due ai tempi dell’Occupazione, se lei fosse stata un’ebrea...
Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando nell’anima mia addenserò pensieri,
tristezza nel mio cuore tutto il giorno?
Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico?
Io sono sazio di sventure,
la mia vita è sull’orlo degli inferi.
Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa.
Perché, Signore, mi respingi?
Perché mi nascondi il tuo volto?
Sin dall’infanzia sono povero e vicino alla morte,
sfinito sotto il peso dei tuoi terrori,
mi fanno compagnia soltanto le tenebre.
Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me.
Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.
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I miei quaderni del 1991 ruotano essenzialmente attorno all’eucaristia, a cui mi preparo con fervore. Nella lettura del Vangelo secondo Giovanni sono arrivato al racconto della moltiplicazione dei pani e al grande discorso di Gesù sul «pane della vita». Ci sono frasi sbalorditive, e a dire il vero anche scioccanti, come «Chi mangia me vivrà in me» o «se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita». Cosa vuol dire avere in sé la vita? Non lo so, ma so che è ciò a cui aspiro. Aspiro a un modo di essere presente al mondo, ad altri, a me stesso che non conosco, ma che sia diverso da questo miscuglio di paura, ignoranza, meschino egocentrismo, inclinazione verso il male anche quando si vorrebbe il bene, che è la malattia di tutti noi e che la Chiesa racchiude in una sola parola: peccato. Da non molto so che contro il peccato c’è un rimedio, efficace come l’aspirina contro il mal di testa. Lo garantisce Cristo, almeno nel Vangelo secondo Giovanni, e Jacqueline non si stanca di ripetermelo. Se è davvero così, strano che la gente non faccia a botte per averlo. Io decido di provarlo.
Sappiamo come funziona la cosa. È cominciata duemila anni fa e non si è mai fermata. Un tempo si usava pane vero: il pane più comune, quello impastato dal fornaio. Alcuni riti fanno ancora così. I cattolici invece usano dei dischetti bianchi che hanno la consistenza e il sapore del cartone e si chiamano ostie. A un certo punto della messa, il sacerdote dichiara che quei dischetti sono diventati il corpo di Cristo. I fedeli si mettono in coda per riceverne uno ciascuno, sulla lingua o nel cavo della mano. Tornano al loro posto con lo sguardo basso, pensosi, e, se ci credono, trasformati nell’intimo. Questo rito incredibilmente strano, che si riferisce a un preciso avvenimento accaduto intorno all’anno 30 della nostra èra e che è il cuore del culto cristiano, viene celebrato ancor oggi nel mondo intero da centinaia di milioni di persone che, come direbbe Patrick Blossier, per il resto non sono pazze. Alcune, come mia suocera o la mia madrina, vi partecipano tutti i giorni senza saltarne uno, e se per caso stanno così male da non poter andare a messa si fanno portare il sacramento a casa. La cosa più strana è che, dal punto di vista chimico, l’ostia non è altro che pane. Sarebbe quasi rassicurante se fosse un fungo allucinogeno o una carta assorbente imbevuta di LSD, e invece no: è soltanto pane. E, al tempo stesso, è Cristo.
Naturalmente si può dare a questo rituale il significato di un simbolo, di una rievocazione. Gesù stesso ha detto: «Fate questo in memoria di me». È la versione light della faccenda, quella che non scandalizza la ragione. Ma il cristiano hard crede nella realtà della Transustanziazione – nome che la Chiesa dà a questo fenomeno soprannaturale. Crede che nell’ostia ci sia realmente Cristo. E questo è lo spartiacque tra due famiglie spirituali. Credere che l’eucaristia sia soltanto un simbolo è come credere che Gesù sia soltanto un maestro di saggezza, la grazia una specie di metodo Coué e Dio il nome che diamo a una nostra esigenza spirituale. In questo momento della mia vita io la penso diversamente: voglio far parte dell’altra famiglia.
In un momento abbastanza simile della sua vita – aveva la mia stessa età, era sposato con una donna che aveva lo stesso nome di mia moglie, non riusciva più a scrivere e aveva paura di diventare pazzo – anche Philip K. Dick ha abbracciato la fede cristiana, e anche lui in una forma massimalista. Ha convinto la sua Anne a sposarlo con rito religioso, ha fatto battezzare le figlie, si è dedicato a letture devote – con una preferenza per i Vangeli apocrifi, mentre quelli canonici li conosceva appena. Alcuni anni dopo ho scritto la sua biografia, e oggi non sono in grado di dire che cosa, nel capitolo dedicato a quegli anni, sia veramente suo, e che cosa sia proiezione della mia esperienza. Comunque nel libro c’è una scena che mi piace molto, ed è quella in cui Philip Dick spiega che cos’è l’eucaristia.
Il principio dell’eucaristia non è molto chiaro alle figlie della moglie Anne. Trovano rivoltante che Gesù esorti a mangiare il suo corpo e a bere il suo sangue; ci vedono una forma di cannibalismo. Per tranquillizzarle, la madre dice loro che si tratta di un’immagine, un po’ come nell’espressione «bere le parole di qualcuno». Phil protesta: è inutile diventare cattolici se poi devi trovare una banale spiegazione razionale a tutti i misteri.
«È anche inutile diventare cattolici» ribatte acida Anne «per trasformare la religione in una delle tue storie di fantascienza».
«Stavo appunto per arrivarci» dice Phil. «Se prendiamo sul serio quello che racconta il Nuovo Testamento, dobbiamo credere che da più di diciannove secoli, dalla morte di Cristo, l’umanità sta subendo una specie di mutazione. Forse non si vede ma è così, e se non mi credi allora, molto semplicemente, non sei cristiana. Non lo dico io, lo dice san Paolo, e non è colpa mia se sembra proprio una storia di fantascienza. Il mezzo con cui avviene la mutazione è il sacramento dell’eucaristia, dunque non presentarlo alle tue povere bimbe come una specie di insulsa rievocazione. Ascoltatemi, bambine: vi racconto la storia della bistecca. Una signora ha ospiti a cena. Ha lasciato una magnifica bistecca da due chili sulla credenza in cucina. Quando arrivano gli ospiti, si ferma in salotto a chiacchierare e bere qualche Martini con loro, poi si scusa, corre in cucina per preparare la bistecca e... la bistecca non c’è più. A quel punto chi vede in un angolino, a leccarsi tranquillamente i baffi? Il suo gatto».
«Io lo so che cos’è successo» dice la figlia più grande.
«Sì? Che cosa?».
«Il gatto ha mangiato la bistecca».
«Dici? Sei in gamba, ma aspetta. Gli ospiti corrono in cucina. Discutono. I due chili di bistecca sono spariti, e il gatto ha un’aria sazia e beata. Arrivano tutti alla stessa tua conclusione. Un ospite suggerisce: “Perché per toglierci ogni dubbio non pesiamo il gatto?”. Hanno tutti alzato un po’ il gomito, e convengono che è un’ottima idea. Portano il gatto in bagno, lo mettono sulla bilancia. Il gatto pesa due chili esatti. L’ospite che ha suggerito di pesare il gatto dice: “Perfetto, questo spiega tutto. Ora sappiamo cos’è successo”. Ma a questo punto un altro invitato si gratta la testa e dice: “D’accordo, abbiamo scoperto dove sono i due chili di bistecca. Ma allora, dov’è il gatto?”».
Blaise Pascal, irritato: «Odio gli stupidi che si fanno tanti problemi per credere nell’eucaristia! Se Gesù Cristo è proprio figlio di Dio, dov’è la difficoltà?».
(Si potrebbe chiamarlo il ragionamento «al punto in cui siamo...»).
E Simone Weil: «Le certezze di questa specie sono sperimentali. Ma se a tali certezze non si crede prima di averle esperite, o, almeno, non ci si comporta come se vi si credesse, non si farà mai l’esperienza che permette di accedervi ... A partire da un certo livello accade così per tutte le conoscenze utili al progresso spirituale. Se non le si adotta come regole di comportamento prima di averle verificate, se non vi si aderisce a lungo soltanto per fede – una fede dapprima tenebrosa, priva di luce – non si muteranno mai in certezze. La condizione indispensabile è la fede».
Simone Weil, che leggo molto in questo periodo ricopiandone pagine intere nei miei quaderni, desiderava ardentemente accostarsi all’eucaristia. Ma mentre il più insignificante dei cristiani ritiene di essere stato invitato alla mensa del Signore – e con tanto più calore quanto più è insignificante –, e io stesso mi preparo a questo momento senza farmi scrupoli e prego soltanto perché il desiderio che mi guida sia sincero, quella donna geniale che era anche una santa è stata convinta per tutta la vita che la sua vocazione fosse quella di restarne esclusa. Per restare insieme a quelli che non possono avvicinarsi al sacramento. Insieme – sono le sue parole – all’«immensa e sventurata massa dei non credenti».
22
Eppure... Sulle prime veniamo conquistati da certe frasi folgoranti di Gesù. Ammettiamo, come le guardie incaricate di arrestarlo, che «mai un uomo ha parlato così!». Poi passiamo a credere che sia resuscitato il terzo giorno e, perché no, nato da una vergine. Decidiamo di improntare tutta la nostra vita a questa folle credenza: che la Verità con la «V» maiuscola si è incarnata in Galilea duemila anni fa. Siamo orgogliosi di questa follia, perché non ci somiglia, perché facendola nostra sorprendiamo noi stessi e rinunciamo a noi stessi, perché nessuno attorno a noi la condivide. Scacciamo come empia l’idea che il Vangelo contenga sciocchezze contingenti, che l’insegnamento di Cristo e i racconti che ne fanno i quattro ispirati non siano tutto oro colato. Al punto in cui siamo, arriveremo dunque a credere anche nella Trinità, nel peccato originale, nell’Immacolata Concezione e nell’infallibilità del papa? È ciò su cui mi interrogo allora, influenzato da Jacqueline, ed è sconvolgente ritrovare nei miei quaderni azzardate riflessioni come queste:
«L’unica ragione per accettare che Gesù sia la verità e la vita è che lo dice Lui, e siccome Lui è la verità e la vita bisogna crederGli. Chi ha creduto crederà. A chi ha molto, sarà dato di più».
«Un ateo crede che Dio non esista. Un credente sa che Dio esiste. Il primo ha un’opinione, il secondo un sapere». (Nota a margine, con la mia grafia, di cui mi piacerebbe conoscere la data: «però!»).
«La fede consiste nel credere in ciò in cui non si crede, nel non credere in ciò in cui si crede». (Questa non è mia ma di Lanza del Vasto, discepolo cristiano di Gandhi che allora leggevo molto. L’ho ricopiata con rispetto. Oggi mi accorgo che somiglia a una frase di Mark Twain, solo un po’ meno divertente: «La fede è credere in qualcosa che si sa non essere vero»).
Forza, il bicchiere della staffa: «Devo imparare a essere veramente cattolico, cioè a non escludere niente: nemmeno i dogmi più indigesti del cattolicesimo, nemmeno la ribellione a questi dogmi». (Il terzo membro della frase trasforma il ragionamento in un circolo vizioso. Mi somiglia più del resto, e mi tranquillizza un po’).
Leggo un libro di Henri Guillemin, cristiano fervente e al tempo stesso vecchio libertario. Il tipo capace di dire, come Bernanos: «Dovete ammettere che c’è da ridere a diventare la bestia nera dei poveri e degli uomini liberi con un programma come quello del Vangelo». Il suo amore per Cristo lo induce a battersi contro Roma, l’immobilismo cattolico, tutti i catechismi. Per fare un solo esempio, scrive, il dogma della Trinità è un’invenzione tarda, arzigogolata, che non ha nessun fondamento nei Vangeli, e il suo valore spirituale non è molto superiore a quello di una mozione di sintesi faticosamente votata al termine di un congresso del Partito socialista. Istintivamente sono d’accordo con lui. Sono addirittura contento di essere d’accordo con lui. Ma pochi giorni dopo leggo il testo di una carmelitana del ventesimo secolo che mi è stato consigliato da Jacqueline, Elisabetta della Trinità, e ne concludo gravemente che io e Guillemin abbiamo torto. Scrivo: «È come quella donna che dice convinta: “L’arte moderna non vale niente, glielo dico io, eccezion fatta per Buffet e Dalí”. Questa signora non dice nulla dell’arte moderna, dice soltanto ingenuamente: “Non so di che cosa sto parlando”. È più o meno quello che capita a molte persone che pensano di avere spirito critico e banalizzano tutti i misteri in nome del buonsenso e della libertà di pensiero. Non sanno di che cosa stanno parlando. Elisabetta della Trinità sapeva di che cosa stava parlando. Tutti i mistici lo sanno. E, voglio credere, anche la Chiesa».
Quando faccio l’avvocato difensore dei dogmi, Hervé non mi prende in giro, non alza le spalle: non è il tipo. No, mi ascolta, soppesa le mie parole, cerca di far emergere ciò che può esserci di vivo sotto il guscio di intolleranza che le ricopre. Non gli piace criticare per partito preso, ancor meno fare polemica, ma davanti ai miei ardori quasi fondamentalisti questo autentico amico di Dio finisce per interpretare la parte dello scettico. Potrebbe fare propria la frase rivolta da Husserl all’allieva Édith Stein – anche lei suora carmelitana, mistica, morta ad Auschwitz: «Mi prometta, mia cara, che non penserà mai qualcosa soltanto perché l’hanno pensato altri prima di lei». Quando, nell’entusiasmo della conversione, volevo annullare l’appuntamento preso molto tempo prima con l’analista, è stato Hervé a convincermi a non farlo: perché rinunciare a qualcosa che potrebbe esserti di aiuto? Se in te agisce davvero la grazia, l’analisi non potrà certo ostacolarla. E se ti libera da un’illusione, tanto meglio. Con la stessa calma, molto svizzera, mi trattiene quando sto per scivolare sulla china del dogmatismo. Lui non si piace come me al punto da odiarsi, e non si odia al punto da desiderare di credere in ciò in cui non crede. È l’uomo meno fanatico del mondo, il più libero da pregiudizi. Non ha nessun imbarazzo a prendere dal Vangelo quel che gli sta bene, a costruirsi un viatico personale in cui le frasi di Gesù stanno accanto a quelle di Lao-tzu e della Bhagavadgītā – che da più di vent’anni gli vedo infilare nello zaino prima di andare in montagna e tirare fuori a ogni sosta per leggerne qualche riga. È sempre lo stesso libretto azzurro, quasi quadrato. Quando cade a pezzi, ne prende un’altra copia dallo scaffale dell’armadio in cui ne ha una ventina di scorta, come ha una scorta di Kleenex perché soffre di sinusite.
Jacqueline, la nostra madrina, ci martella da un po’ di tempo con Medjugorje. Medjugorje è una borgata della Iugoslavia, a quell’epoca la Iugoslavia esiste ancora, laggiù cominciano a succedere cose terribili ma a me non interessano: serbi, croati, bosniaci si ammazzino pure fra di loro quanto vogliono, io leggo san Giovanni. A quanto si dice la Vergine è apparsa a Medjugorje negli anni Settanta, e secondo i contadinelli che l’hanno vista per primi ha avvisato il mondo che stava andando verso la rovina. Nel frattempo i contadinelli sono diventati predicatori molto richiesti, molto ricchi, che tengono conferenze in giro per il mondo, e una è in programma a Parigi. Jacqueline insiste perché ci andiamo. La mia reazione iniziale è quella del pregiudizio – o della ragione? Io voglio leggere il Vangelo, non cadere in quella religiosità kitsch. Bisogna tracciare un confine, altrimenti un bel giorno ci si ritrova a setacciare le librerie esoteriche in cerca di scritti su Nostradamus e il mistero dei Templari. Perciò: altolà! Seconda reazione: e se per caso fosse vero? Allora non sarebbe una cosa importantissima? Non bisognerebbe andarci di corsa lasciando perdere tutto il resto, e dedicare la propria vita a diffondere il messaggio di Medjugorje?
Una buona decina di pagine del mio quaderno registra queste oscillazioni, da cui invece Hervé è immune. Lui è per natura prudente, ma curioso: dopotutto, che cosa ci costa passare un’ora a quella conferenza? Sotto questo aspetto somiglia a quello strano personaggio che compare soltanto nel Vangelo secondo Giovanni: Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, e in quanto tale molto prevenuto nei riguardi di Gesù. In quello che ha sentito fiuta la superstizione, la setta equivoca, forse la truffa. Tuttavia Nicodemo non si accontenta di quello che ha sentito, vuole verificare di persona. Va a trovare Gesù, di notte. Una nota della Bibbia di Gerusalemme insinua che sia andato di notte per vigliaccheria, non volendo rovinarsi la reputazione: a me tale gesto di discrezione non dà fastidio, anzi. Mi colpisce l’apertura mentale di questo notabile. Nicodemo fa a Gesù le sue domande, lo interrompe, gli chiede di ripetere quello che non ha capito – bisogna ammettere che quello che Giovanni fa dire a Gesù non è facile da capire. Nicodemo torna a casa pensoso, se non convertito. «Venite e vedrete» dice spesso Gesù. Lui almeno è andato a vedere.
Alla fine anch’io e Hervé siamo andati a vedere il portavoce iugoslavo della Vergine. Quello che abbiamo sentito ci è sembrato al tempo stesso minaccioso e banale.
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Per entrare in quella che Jacqueline chiama «la vita sacramentale», devo fare una confessione generale, e prima della confessione generale un approfondito esame di coscienza. Per una di quelle coincidenze che cominciano a spuntare come funghi quando abbiamo deciso di vedere l’intervento della grazia nella nostra vita, Gabriel mi chiede: «Qual è la cosa più cattiva che hai fatto da quando sei nato?». In realtà non mi sembra di aver fatto molte cose cattive, se con questo si intende aver fatto del male di proposito. Il male che ho fatto, l’ho fatto soprattutto contro me stesso, malgrado me stesso, a me stesso, e in fondo mi sento malato più che colpevole. Il sacerdote al quale mi ha indirizzato Jacqueline non è molto entusiasta di questo modo di vedere le cose: si tratta soltanto del mio punto di vista, fortemente soggettivo, e la scommessa della confessione generale sta proprio nel liberarsi di quel punto di vista per mettersi sotto lo sguardo di Dio. A questo scopo bisogna tornare al Decalogo. Al Decalogo, sì, ai dieci comandamenti, alla luce dei quali nell’arco di una settimana passo al vaglio tutta la mia vita.
La passo al vaglio anche delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Per una grazia inaspettata, da poco mi è stata concessa la prima. Per il momento è soltanto un seme minuscolo, fragile, sempre a rischio di perdersi fra i rovi. Ma credo che questo seme diventerà un grande albero e che fra i rami dell’albero verranno gli uccelli a fare il nido. Credere nella possibilità della crescita: non è forse questa la speranza? Se sì, ne ho tanta. Anzi, ne ho così tanta da far sorgere qualche dubbio. Può darsi che sbagli a chiamare con il bel nome di speranza quella che è soltanto una confidente aspettativa: la vaga convinzione che tutto, anche il più grande dispiacere, finirà per tornare a mio vantaggio. Che dopo la prova della siccità, finirò per dare frutti – cioè, in concreto, scrivere un libro degno di questo nome. Forse, perché possa nascere l’autentica speranza, dovrei estirpare da me questa vile aspettativa. Resta la carità, che san Paolo considera la più importante delle tre, e lì c’è il vuoto. Nessuna carità. Nemmeno la minima propensione a fare anche soltanto quei piccoli gesti di riguardo che sono più importanti che spostare una montagna. Incontrare Dio ha cambiato la mia mente e le mie opinioni, non il mio cuore. Continuo ad amare soltanto me – e molto male. Ma il caso è contemplato. La preghiera che mi serve si trova, come molte preghiere, nei Profeti; questa è in Ezechiele. La ripeto in continuazione:
«Signore togli da me il cuore di pietra e dammi un cuore di carne».
Scrivo: «Signore, non sono degno di riceverti, eppure ti chiedo di fissare in me la tua dimora. Per farti spazio, devo diminuire, lo so. È una cosa che respingo con la stessa forza con cui la anelo. Non ci riuscirò da solo, non si diminuisce da soli. Fosse per noi, occuperemmo sempre tutto lo spazio disponibile. Aiutami a diminuire perché tu cresca in me.
«Signore, forse non vuoi che io diventi un grande scrittore, né che abbia una vita facile e felice, ma sono certo che vuoi darmi la carità. Io te la chiedo con mille reticenze, mille zavorre e incertezze che perdo troppo tempo ad analizzare, ma te la chiedo. Dammi le prove e le grazie che a poco a poco mi apriranno alla carità. Dammi il coraggio di sopportare le prime e cogliere le seconde, di sapere che lo stesso evento può essere contemporaneamente una prova e una grazia. Non sarei sincero se dicessi che non desidero altro. Desidero molto di più l’oggetto delle mie voglie. Desidero essere grande piuttosto che piccolo. Ma non ti chiedo ciò che desidero. Ti chiedo ciò che desidero desiderare, ciò di cui desidero che tu mi dia il desiderio.
«Fin da ora sono pronto ad accettare tutto. So che dicendolo parlo come Pietro, il tuo discepolo che era sicurissimo di non rinnegarti, eppure l’ha fatto. So che chi lo dice non fa altro che preparare il terreno per rinnegarti, ma lo dico lo stesso. Dammi quello che vuoi darmi, toglimi quello che vuoi togliermi, fa’ di me quello che vuoi».
Simone Weil: «Sul piano spirituale, tutte le preghiere vengono esaudite. Chi meno riceve meno ha chiesto».
E Ruysbroeck, il mistico fiammingo: «Siete santi nella misura in cui desiderate esserlo».
Butto giù l’elenco delle persone a cui ho fatto del male. Il primo che mi viene in mente è un compagno di classe delle superiori: un ragazzo segaligno, troppo cresciuto per la sua età, non proprio ritardato ma strano, che tutti prendevano in giro, e io con più spirito degli altri. Ho scritto su di lui alcuni brevi testi accompagnati da caricature, e li facevo girare. Lui è venuto a saperlo. Alla fine del primo trimestre ha mollato la scuola, ho sentito che lo avevano mandato in una casa di cura. Il mio dono per la scrittura è all’origine della prima cattiva azione di cui mi ricordi e, a pensarci bene, di molte altre venute dopo. Nell’ultimo romanzo che ho pubblicato, Fuori tiro, ho schizzato un ritratto crudele e meschino di una donna che mi ha amato, che io ho amato, e comincio a pensare che l’impotenza creativa che perdura da tre anni sia la punizione per avere fatto cattivo uso del mio talento. Prima di accostarmi alla sacra mensa, vorrei rappacificarmi con le mie vittime. Forse potrei rintracciare il capro espiatorio dei tempi della scuola. Aveva un cognome lunghissimo, strano come lui e di cui devono esserci ben pochi esemplari nell’elenco telefonico, ma è passato troppo tempo – e in fondo ho troppa paura di venire a sapere che è morto, morto in manicomio poco dopo aver mollato la scuola, morto per colpa mia. Di Caroline invece ho l’indirizzo. Le chiedo scusa con una lunga lettera alla quale lei non risponde, ma quando la rivedrò anni dopo mi dirà di avere letto con un misto di sgomento e compassione quella «pappardella di senso di colpa bacchettone» – parole sue – che mi dispiace di non poter allegare agli atti.
Una sera, quella del giorno in cui la Chiesa ricorda la conversione di san Paolo, vado come al solito alla messa delle sette nella chiesa di Saint-Séverin, e stavolta avanzo fra i banchi con quelli che vogliono fare la comunione. Sono distratto, ma non stupito di esserlo. Non sento niente. È normale: il Regno è come un granello di senape che cresce nell’oscurità della terra, in silenzio, a nostra insaputa. L’importante è che, ormai, fa parte della mia vita. Per più di un anno farò la comunione tutti i giorni, allo stesso modo in cui vado dall’analista due volte alla settimana.
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Nonostante l’eucaristia e la gioia che dovrebbe darmi, quando sono sul divano di Madame C. soffro. Mi lamento, accuso, punto i piedi. Nei miei quaderni non ne faccio cenno, come se a scriverli fosse qualcuno al di sopra di tutto ciò. Con un’eccezione però. Una mattina arrivo alla seduta dopo aver letto su «Libération» un trafiletto, che mi ha, non basta dire colpito, ma piuttosto letteralmente devastato. Parla di un bambino di quattro anni – Gabriel li ha appena compiuti. È entrato in sala operatoria per un piccolo intervento, ma mentre era sotto anestesia si è verificato un incidente che lo ha lasciato paralizzato, sordo, muto e cieco per il resto della vita. Ora ha sei anni. Da due è immerso nel buio. Murato vivo. I genitori, disperati, restano al suo capezzale. Gli parlano, lo toccano. I medici hanno detto loro che il bambino non può sentirli, ma forse si accorge di qualcosa, forse il contatto delle loro mani sulla sua pelle gli fa bene. Ogni altra comunicazione è impossibile. Si sa soltanto che non è in coma. È cosciente. Nessuno può immaginare cosa avvenga nella sua coscienza, come interpreti ciò che gli succede. Non ci sono parole per descrivere una cosa del genere. Io non ne ho. Io, così sagace e sottile, non sono in grado di esprimere le sensazioni provocate in me da questa notizia. Con la voce che mi trema, comincio frasi che non finisco. Un enorme singhiozzo si gonfia sotto il mio plesso solare, preme, esplode, e comincio a piangere come non ho pianto mai in vita mia. Piango, piango, senza riuscire a fermarmi. In quelle lacrime, non c’è voluttà, conforto o sollievo, sono lacrime di spavento e disperazione. Non so per quanto tempo vado avanti, dieci minuti, un quarto d’ora. Poi le parole ritornano. Non mi calmo, farfuglio tra i singhiozzi. Chiedo quale possa essere la preghiera di uno che come me vuole credere in Dio, dopo che ha letto una cosa simile. Che cosa possa chiedere a quel Padre di cui il figlio Gesù ha detto: «Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà». Un miracolo? Che quello che è successo non sia successo? O che egli riempia della sua presenza dolce, rassicurante, colma di amore quel bambino murato vivo? Che illumini le sue tenebre e faccia di quell’inferno inimmaginabile il suo Regno? Altrimenti, cosa resta? Altrimenti, bisogna ammettere che, gratta gratta, la realtà della realtà, l’ultima parola non è il suo amore infinito ma l’orrore assoluto, l’inesprimibile spavento di un ragazzino di quattro anni che riprende coscienza nel buio eterno.
«Per oggi basta» dice Madame C.
Passano tre giorni. Ricordo che andavo in villa du Danube il martedì e il venerdì, e il venerdì dopo era venerdì santo. Sono sicuro che in quei tre giorni Madame C. ha pensato molto a me. Torniamo sulla mia crisi di pianto, su cosa ha risvegliato in me quella terribile vicenda del bambino murato vivo, ma a lei interessa soprattutto quello che ho detto del Padre. Sono restio a seguirla, vorrei chiudere quella porta imprudentemente dischiusa l’ultima volta. Lei insiste. E va bene, parlo del Padre, anche se farlo in quel contesto mi sembra quasi indecente. Per un tacito accordo, dopo la nostra prima strana seduta non abbiamo più tirato in ballo la mia fede. Madame C. non ha mai detto né lasciato capire cosa ne pensasse. Stavolta mi invita, con molte cautele, a prendere in considerazione questa ipotesi: il Padre che tutto può, tutto ama e tutto guarisce, che è entrato nella mia vita nel preciso istante in cui ho cominciato la terapia, che mi sono portato dietro alla prima seduta come una specie di jolly ingombrante di cui rifiutavo di sbarazzarmi, non potrebbe essere soltanto una figura, transitoria, legata al processo dell’analisi, necessaria per questo limitato periodo? Una stampella a cui mi appoggio nel corso del viaggio che mi porterà a individuare il ruolo che ha nella mia vita il mio, di padre?
L’idea mi mette a disagio ma non riesco a respingerla con la stessa convinzione di sei mesi fa. Dev’essersi fatta strada, a mia insaputa. Me la cavo alzando le spalle, come se ci avessi già pensato centinaia di volte, come se fosse da molto tempo un capitolo chiuso che è davvero stucchevole riaprire. Dico: e con ciò? È ovvio che la fede ha una base nella psiche. È ovvio che, per toccarci, la grazia usa le nostre lacune, le nostre debolezze, il nostro desiderio infantile di essere consolati e protetti. Questo che cosa cambia?
Madame C. non apre bocca.
In metropolitana, dopo la seduta, ho cominciato a sudare freddo.
Forse a molti lettori questi dubbi sembreranno cerebrali, astratti, slegati dai veri problemi dell’esistenza. Io invece ne sono stato dilaniato, e scrivo questo resoconto per ricordarmelo. Sono tentato di ironizzare su quello che ero, ma non voglio ironizzare. Voglio ricordarmi il turbamento e la paura di quando ho capito che quella fede che cambiava la mia vita e mi stava a cuore più di tutto era in pericolo. Non per niente è venerdì santo, il giorno in cui Gesù ha esclamato: «Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?».
Sul piano intellettuale, niente di nuovo. Non sono mica nato ieri. Ho letto Dostoevskij, so cosa dice Ivan Karamazov, e Giobbe prima di lui, sulla sofferenza degli innocenti, questo scandalo che impedisce di credere in Dio. Ho letto Freud, so cosa ne pensa lui e cosa ne pensa di sicuro Madame C.: sarebbe stupendo, certo, se ci fossero un Padre onnipotente e una Provvidenza che si prendono cura di ciascuno di noi, ma ciò nondimeno è strano che questa costruzione si sovrapponga così perfettamente ai desideri che avevamo da piccoli. Che il desiderio religioso nasca dalla nostalgia della figura paterna e dal fantasma infantile di essere il centro del mondo. Ho letto Nietzsche, e non posso negare di essermi sentito chiamato in causa quando dice che il grande merito della religione è renderci interessanti ai nostri stessi occhi e permetterci di evadere dalla realtà. Tuttavia pensavo: certo, è ovvio, possiamo dire che Dio è la risposta che diamo alla nostra angoscia, ma possiamo anche dire che la nostra angoscia è il mezzo che usa Dio per farsi conoscere da noi. Certo, è ovvio, possiamo dire che mi sono convertito perché ero disperato, ma possiamo anche dire che Dio per convertirmi mi ha fatto la grazia della disperazione. È quello che voglio pensare, con tutte le mie forze: l’illusione non è la fede, come crede Freud, ma ciò che fa dubitare di lei, come sanno i mistici.
Questo è quello che voglio pensare, quello in cui voglio credere, ma ho paura di smettere di crederci. Mi chiedo se voler crederci così fortemente non sia la dimostrazione che già non ci credo più.
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Passiamo il weekend di Pasqua da mia suocera, in Normandia. La sera tardi alla televisione danno un documentario su Beatrix Beck, una scrittrice che mi piace molto e di cui ho adattato il romanzo Léon Morin, prete. È un libro autobiografico sulla sua conversione. Ne aveva già tratto un film Melville, con Jean-Paul Belmondo ed Emmanuelle Riva; era un ottimo film, ma hanno voluto rifarlo; meglio così, perché mi è piaciuto curarne l’adattamento. Guardandomi indietro, mi piace vedere in quel lavoro risalente a più di un anno prima della mia conversione una tappa di un percorso sotterraneo, e nel produttore che me l’ha proposto uno strumento della grazia. Il libro è stato scritto negli anni Cinquanta, e non vi è niente di stonato. La descrizione della crisi che vive la protagonista è credibile, soprattutto perché l’autrice evita la solita retorica cristiana, e la racconta senza fronzoli, in modo spesso molto divertente. Oggi Beatrix Beck è una donna molto anziana, libera e spiazzante. A un certo punto le chiedono se crede ancora in Dio e lei risponde di no. È stata una fase della sua vita, ora è finita. Ne parla come un ex comunista potrebbe parlare della sua militanza di un tempo, o come si rievoca un grande amore di gioventù. Una passione tumultuosa che in fin dei conti si è felici di aver vissuto, ma che ora è lontana. Lei affronta l’argomento soltanto perché gliel’hanno chiesto, ma la verità è che non ci pensa più.
Lo trovo terribile. Lei no, e si vede, ma io trovo terribile l’idea che la fede possa sparire senza che tutto vada a rotoli. Pensavo: la grazia che ci lasciamo sfuggire distrugge la vita. Se non la cambia da cima a fondo, la devasta. Rifiutarla, allontanarcene dopo averla intravista, significa condannarsi a una vita d’inferno.
Ma forse no.
Il giorno dopo è Pasqua. Cercheremo con i bambini le uova nascoste in giardino. Andremo a messa nella grande e bella abbazia dove si ritrovano tutte le prolifiche famiglie cattoliche del paese, in blazer blu marino e abiti pastello. Ci andrò anch’io, non ci penso nemmeno a schivare l’appuntamento, ma questo cristianesimo borghese, provinciale e sicuro di sé, questo cristianesimo da farmacisti e notai, che pure ho imparato a guardare con indulgente ironia, a un tratto mi disgusta. All’alba scivolo fuori dal letto in cui mi sono girato e rigirato tutta la notte senza chiudere occhio accanto ad Anne che dormiva. Esco di casa senza svegliare nessuno. Prendo la strada che porta al convento delle suore dove spesso mia suocera assiste alle funzioni, perché si trova a due passi. Qualche volta l’accompagno. Alle sette recitano il mattutino. La cappella è grigia e brutta, la luce livida, e le pareti di pietra grossa trasudano umidità normanna. Nel convento restano ormai solo una decina di suore, tutte vecchie e malconce. Una è nana. Cantano con voce tremante e stonata, ma non più del belato del giovane sacerdote con la faccia da scemo del paese che viene a portare loro la comunione. Letto da lui sembra stupido, orribile a dirsi, persino il grandioso racconto di san Giovanni su Maria Maddalena che il mattino di Pasqua scambia Cristo risorto per il giardiniere. Pare che nessuna di loro lo ascolti. Hanno sguardi velati da cupe fantasticherie, e fili di bava agli angoli della bocca: dev’essere la prospettiva della colazione. Come ammette quasi con allegria la mia devota suocera, la messa dalle suore è uno strazio, è così triste da stringere il cuore, e se mai ci fossi capitato qualche tempo prima me la sarei data a gambe. Anne, che è cresciuta all’ombra di questo gerontocomio, trova che ci sia qualcosa di perverso nell’andare ad annusare l’odore di pannoloni e disinfettante. Ma io dico tra me: ecco, questo è il Regno. Tutto ciò che è debole, disprezzato, menomato, ed è la dimora di Cristo.
Mentre la funzione si trascina, mi ripeto come un mantra il versetto di un salmo:
Voglio abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita.
Ma se ne venissi cacciato? Se, peggio ancora, fossi contento di abbandonarla? Se in futuro, ripensando a quando volevo come ora abitare la casa del Signore tutti i giorni della mia vita e non c’era nulla di più bello che partecipare a una messa con vecchie suore in buona parte rimbambite, giudicassi tutto questo un episodio imbarazzante della mia vita, un momento per certi aspetti sinistro e per altri un po’ comico? Una fissazione di cui per fortuna mi sarei liberato? Oppure no, non una fissazione: un’esperienza interessante, a patto di uscirne. Parlerei del mio periodo cristiano come un pittore del suo periodo rosa o blu. Sarei contento di essere cresciuto, di aver saputo andare oltre.
Sarebbe spaventoso, e nemmeno lo saprei.
È buffo: mentre scrivevo questo capitolo, mi è capitato sottomano nella biblioteca di una casa in campagna un libro che avrei potuto leggere a quell’epoca. S’intitola Per una iniziazione alla vita spirituale, è stato pubblicato nel 1962 dall’editore cattolico Desclée de Brouwer, ed è fornito del nihil obstat con cui l’autorità ecclesiastica dichiara di non opporsi alla pubblicazione. Non si capisce perché mai avrebbe dovuto, dato che si tratta di un polpettone sull’infinita saggezza della Chiesa, infallibile espressione dello Spirito Santo, e dunque immune da errori. L’autore, un gesuita, si chiama François Roustang. All’inizio ho pensato a una coincidenza, poi ho controllato: è lo stesso François Roustang che mi è stato di grande aiuto quando l’ho consultato quarantatré anni dopo la pubblicazione di questo libro, e che nel frattempo era diventato il più eterodosso psicoanalista francese. Per una iniziazione alla vita spirituale non compare fra i suoi libri alla pagina «dello stesso autore». Immagino che il vecchio Roustang se ne vergogni un po’, e non gli piaccia vedersi ricordare quel periodo della sua vita. Immagino anche il giovane Roustang che ha scritto questo libro così dogmatico, così sicuro di essere depositario della verità. Sarebbe rimasto molto sorpreso se gli avessero presentato lo scettico che era destinato a diventare. Non soltanto sorpreso: inorridito. Sono certo che avrebbe pregato con tutte le sue forze affinché quel cambiamento non avvenisse. E oggi dev’essere contento che sia avvenuto. Scommetto che a volte, come le persone che ad anni di distanza continuano a sognare ogni notte l’esame di maturità, quel vecchio maestro taoista sogna di essere ancora un gesuita, di parlare sempre molto seriamente del peccato e della Trinità, e al risveglio pensa: uff! Per fortuna era solo un incubo!
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All’indomani della mia conversione, ho scritto nel quaderno che avevo appena comprato: «Che Cristo sia la verità e la vita è un fatto abbagliante – talvolta per vedere è necessario essere abbagliati. Ma è un fatto da cui molti non sono abbagliati. Questi hanno la vista e non vedono. Lo so, perché sono stato uno di loro, e vorrei poter parlare con quel piccolo io di qualche settimana fa, che si sta ritirando. Scrutando nella sua ignoranza spero di vedere meglio la verità».
Allora mi sentivo in una posizione di forza. Il piccolo io non credente che si ritirava in buon ordine non era un avversario temibile. Ma lo è l’avversario che si fa avanti: non più un io trapassato e sepolto, ma un io futuro, un io forse prossimo, che non crederà più e sarà ben contento di non credere più. Che cosa potrei dirgli per avvertirlo? Per impedirgli di abbandonare il sentiero della vita per quello della morte? Come posso farmi ascoltare quando so che è già così sicuro di essere superiore a me?
A partire da quel weekend di Pasqua, penso che la mia fede sia messa a repentaglio – all’epoca mi piaceva dire «repentaglio» invece di «pericolo», «caparbio» invece di «ostinato»: la mia è una fede non priva di enfasi, di esibizionismo stilistico. Per proteggerla, decreto lo stato di assedio. Coprifuoco e lavaggio del cervello. Vado in ritiro spirituale per una settimana nell’abbazia benedettina di Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire, in Borgogna. Mattutino alle due di notte, lodi alle sei, colazione alle sette, messa alle nove, yoga nella mia cella alle dieci, lettura e commento di Giovanni alle undici, pranzo alle tredici, passeggiata nella foresta alle quattordici, vespri alle diciotto, cena alle diciannove, compieta alle venti, a letto alle ventuno. Da buon ossessivo, sono felicissimo. Non salto niente. Ben presto non ho più bisogno di mettere la sveglia per alzarmi alle due meno un quarto, pronto per il mattutino. Tornato a Parigi, cerco di adattare la regola di san Benedetto alla mia vita in città. Basta giornale al bar dopo aver portato Gabriel a scuola: il giornale è una perdita di tempo. Appena arrivato in rue du Temple, un’ora di yoga, trenta minuti di preghiera, un’ora di san Giovanni, un’ora di lettura (devota) con il mio riso integrale e il mio yogurt. Cinque ore di lavoro a ritmo sostenuto nel pomeriggio – tra poco vi dico a cosa lavoro. Alle diciannove messa a Saint-Séverin, ritorno a casa alle venti. Ora viene il difficile: cercare di mettere in pratica i miei buoni propositi. Mai fare due cose alla volta. Lasciare le preoccupazioni fuori della porta di casa, per essere disponibile e di buonumore con la mia famiglia. Considerare la vita quotidiana come la continua opportunità di scegliere fra due vie: attenzione o distrazione, carità o egoismo, presenza o assenza, vita o morte. E, siccome soffro d’insonnia, seguire l’esempio di Charles de Foucauld che saltava fuori dal letto appena sveglio per mettersi al lavoro, qualsiasi ora fosse.
Non sono sicuro che questo programma draconiano mi abbia reso molto più gradevole come marito e come padre. Anzi, sono sicuro del contrario. Appunti inquietanti, che identificano la mia vita familiare con una croce che devo portare coraggiosamente, mi fanno sospettare di aver agito nel mio piccolo come uno di quei cupi puritani dei romanzi di Hawthorne che con spietata benevolenza costringono i familiari a vivere un autentico inferno domestico per il bene della loro anima.
Leggo molto, di preferenza autori del Grand Siècle francese come Fénelon, san Francesco di Sales, il gesuita Jean-Pierre de Caussade. Stilisti impeccabili, direttori di coscienza benevoli e accorti, tutti dicono che quanto mi succede è previsto, catalogato, rientra nel programma. È tranquillizzante, e non molto diverso dalla psicoanalisi. Se mi sembra di perdere la fede, è perché la mia fede si sta affinando. Se non avverto più la presenza di Dio che l’autunno precedente mi dava la sensazione di avanzare nella vita spirituale come quei magi tibetani che superano le montagne con salti di cinquecento metri di cui parla Alexandra David-Néel, è perché Dio mi sta educando. La siccità dell’anima è un segno di progresso. L’assenza, una presenza al quadrato. Ho copiato decine di variazioni sul tema; eccone un piccolo florilegio.
«Dio non lascia l’anima in pace se prima non l’ha resa duttile e malleabile piegandola da ogni lato. Più temiamo queste privazioni, più esse sono necessarie. Che la nostra saggezza e il nostro amor proprio le avversino è la dimostrazione che esse provengono dalla grazia» (Fénelon, Rimedi contro la tristezza).
«In questa guerra ci troviamo in una condizione di favore, perché, per vincere, ci basta la volontà di combattere» (san Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota).
«Alle anime di fede Dio dà delle grazie e dei favori proprio mediante un’apparente privazione. Istruisce il cuore non mediante idee, ma mediante sofferenze e avversità. Confonde i nostri piani e permette che, invece di questi progetti, noi troviamo in ogni cosa solo confusione, turbamento, vuoto, follia. Le tenebre, allora, servono da guida, e i dubbi da certezza» (Jean-Pierre de Caussade, L’abbandono alla Provvidenza divina).
Quando rileggo questi brani, mi sento combattuto, ma lo ero anche quando li leggevo per la prima volta. Ancor oggi li trovo magnifici, già all’epoca li trovavo deliranti. Mi sembra chiaro che nascono dall’esperienza, voglio dire che gli uomini che li hanno scritti non parlano a vanvera: sanno che cosa stanno dicendo. Al tempo stesso, insegnano ad avere per l’esperienza, la testimonianza dei sensi e il buonsenso un disprezzo assoluto, uguale a quello che il bolscevico Pjatakov ha sintetizzato in una frase immortale: «Se il partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero sia bianco e il bianco nero».
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Poiché Dio intende mettere alla prova la mia fede, decido di non sottrarmi alla prova. Voglio viverla pienamente. Voglio che si ripeta in me, con tutto quel che comporta, lo scontro fra Cristo e il Tentatore.
Nietzsche è un ottimo Tentatore. Il migliore. Viene voglia di stare dalla sua parte. Mi inorridisce e mi affascina sussurrandomi all’orecchio che gloria e potere, l’ammirazione dei propri simili, la ricchezza o l’abilità nel sedurre le donne sono forse aspirazioni grossolane – per le quali io rimprovero me stesso –, ma almeno riguardano cose reali. Giocano su un terreno su cui si può vincere o perdere, sconfiggere o essere sconfitti, mentre la vita interiore proposta dal cristianesimo è soprattutto una tecnica collaudata per raccontare a se stessi storie che non rischiano mai di essere contraddette e rendersi in ogni circostanza interessanti ai propri occhi. Ingenuità, vigliaccheria, presunzione di credere che tutto quanto ci accade abbia un senso. Vedere in ogni evento una prova imposta da un dio che vuole condurci alla salvezza attraverso una corsa a ostacoli. Secondo Nietzsche gli individui vengono giudicati – e, al contrario di quanto dice Gesù, bisogna giudicarli – in base alla capacità che hanno di non raccontarsi storie, di amare la realtà e non le consolatorie invenzioni di cui loro stessi la rivestono. Vengono giudicati in base alla quantità di verità che riescono a tollerare.
Ma Simone Weil: «Il Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere il Cristo è la verità. Se ci si distoglie da lui per volgersi alla verità, non si percorrerà molta strada senza cadere fra le sue braccia».
Perfetto. Accetto la scommessa. Corro il rischio. Apro un nuovo file, perso come il primo, e recupero un titolo che indubbiamente mi sta a cuore: «Il punto di vista dell’avversario». È a questo lavoro che dedico cinque ore ogni pomeriggio.
Un anno prima, parlando con il mio amico Luc Ferry, sostenevo che non soltanto non possiamo sapere quello che ci riserva il futuro, ma neanche che cosa saremo, che cosa penseremo. Luc invece ha detto di essere sicuro, per esempio, che non si sarebbe mai iscritto al Front National. Ho risposto che anch’io per quanto mi riguardava lo trovavo difficile ma non potevo esserne certo, e anche se l’esempio era sgradevole consideravo tale incertezza il prezzo della mia libertà. La fede cristiana non mi ispirava la stessa ostilità del Front National, ma sarei rimasto quasi altrettanto sorpreso se mi avessero detto che un giorno mi sarei convertito. Eppure è successo. Tutto sta avvenendo come se avessi preso una malattia – benché non rientrassi affatto in una categoria a rischio – e il suo primo sintomo è che la scambio per una guarigione. Decido allora di osservare questa malattia. Di tenerne un bollettino aggiornato, il più possibile obiettivo.
Pascal: «Siamo alla guerra aperta fra gli uomini, una guerra in cui si deve prendere posizione e decidere da che parte stare, se con il dogmatismo o il pirronismo. Chi pensa di potere restare neutrale sarà pirroniano per eccellenza».
Pirroniano, discepolo del filosofo Pirrone, vuol dire scettico. Come oggi diciamo relativista. Vuol dire alzare le spalle come Ponzio Pilato davanti a Gesù che assicura di essere la verità, e rispondere: «Che cos’è la verità?». Tanti pareri, tante verità. Va bene, d’accordo, non avrò la pretesa di essere neutrale. Guarderò il mio dogmatismo con occhio pirroniano. Racconterò la mia conversione come Flaubert ha descritto le aspirazioni di Madame Bovary. Mi metterò nei panni di colui che più di tutto temo di diventare: colui che, una volta perduta la fede, la osserva con distacco. Ricostruirò il groviglio di fallimenti, odio di sé e panico di fronte alla vita che mi ha spinto a credere in Dio. E può darsi che allora, soltanto allora, non mi racconterò più favole. Avrò forse il diritto di dire come Dostoevskij: «se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».
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Un giorno François Samuelson, il mio agente, mi dice: «Sono tre anni che non scrivi più niente, sembri a pezzi, devi fare qualcosa. Che ne dici di una biografia? È quello che fanno tutti gli scrittori in crisi. Alcuni così si sbloccano; certo, dipende dall’argomento, ma posso sicuramente farti avere un buon contratto».
Perché no? Una biografia è un progetto più umile del grande romanzo che non riesco a scrivere ma a cui non smetto di pensare, più eccitante che confezionare in serie sceneggiature televisive. Forse un buon modo di impiegare il talento che il Signore mi ha concesso, e che preferisce vederci scialacquare piuttosto che risparmiare. Annoto nel mio quaderno questa massima biblica: «Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo» (oggi mi accorgo che può essere letta anche come un invito alla masturbazione), e incarico François di trovare un editore interessato a una biografia di Philip K. Dick.
Scrivo una dichiarazione d’intenti che termina così: «È forte la voglia di vedere in Philip K. Dick un mistico farneticante. Ma parlare di un mistico farneticante sottintende che ci siano dei mistici autentici, e dunque un autentico oggetto di conoscenza mistica. Questo è un punto di vista religioso. Se una simile conclusione ci turba e preferiamo adottare un punto di vista agnostico, dobbiamo ammettere che tra san Paolo, Meister Eckhart o Simone Weil da un lato, e un povero hippy esaltato come Philip K. Dick dall’altro, ci sono forse differenze a livello umano e culturale, differenze di pubblico, di prestigio sociale, ma non di fondo. Lo stesso Dick era perfettamente consapevole del problema. Scrittore di narrativa, e del tipo più sfrenato, Dick era convinto di non scrivere altro che rapporti. Gli ultimi dieci anni della sua vita si è dannato l’anima su un rapporto interminabile e inclassificabile, che chiamava la sua Esegesi. Con l’Esegesi voleva spiegare un’esperienza che interpretava, a seconda dell’umore, come l’incontro con Dio (“È terribile” dice san Paolo “cadere nelle mani del Dio vivente!”), l’effetto ritardato delle droghe assunte per tutta la vita, l’invasione della sua mente da parte degli extraterrestri o una semplice costruzione paranoica. Nonostante i suoi sforzi non è mai riuscito a individuare un confine tra la fantasia e la rivelazione divina – ammesso che un confine esista. Ma esiste davvero? Su questo punto, a essere sinceri, non si può decidere, dunque chiaramente io non deciderò. Ma raccontare la vita di Philip K. Dick vuol dire costringersi ad avvicinarsi a questo punto. A girargli intorno, con la maggior attenzione possibile. È quello che mi piacerebbe fare».
Ci ho messo un po’ più di un anno a scrivere il libro su Philip K. Dick, e a pensarci oggi, data la sua lunghezza e la mole di informazioni che contiene, mi sembra un’impresa. Ho lavorato come un mulo, e mi è piaciuto da morire. Non c’è nulla di più bello al mondo che lavorare, poter lavorare, soprattutto dopo essere rimasti bloccati per molto tempo. Tutto ciò che avevo cercato inutilmente di fare durante quella penosa inattività acquistava un senso. Ho perso i due file intitolati «Il punto di vista dell’avversario», quello sulla vita di Jamie e quello sulla mia conversione raccontata da un io futuro che avrebbe perso la fede, ma in ogni caso li avevo abbandonati, e tutte le tematiche che erano al centro di quei tentativi abortiti hanno trovato posto spontaneamente nella biografia di Philip K. Dick. Invece di angosciarmi, quelle tematiche mi appassionavano e qualche volta mi divertivano perfino. La vita di Dick, nonostante o a causa del suo ingombrante talento, è stata un disastro, una sequela ininterrotta di eccessi, separazioni, ricoveri in manicomio e deragliamenti psichici, ma non ho mai smesso di provare affetto per lui. Non ho mai smesso di pensare che da dove si trovava, dieci anni dopo la sua morte, guardava da sopra la mia spalla quel che stavo facendo ed era contento che qualcuno parlasse di lui in quel modo.
Durante il lavoro mi ha fatto compagnia un altro prezioso consigliere: l’I Ching, l’antico libro cinese di saggezza e profezie, tanto amato da Confucio e dai fricchettoni della mia generazione – o meglio della generazione precedente, ma io ho sempre frequentato persone più grandi di me. Lo stesso Philip K. Dick lo ha usato mentre lavorava a uno dei suoi romanzi, La svastica sul sole. Quando non riusciva più ad andare avanti con la trama, consultava l’I Ching e l’I Ching lo tirava fuori dalle sabbie mobili. L’ho fatto anch’io, e mi è stato utile. Un giorno in cui mi sentivo sopraffatto da tutte le cose che dovevo tenere insieme, e pensavo che non sarei mai riuscito a farcela, l’I Ching mi ha regalato questa frase che ancora oggi mi serve da dichiarazione di poetica: «L’avvenenza suprema non consiste in un esteriore ornamento del materiale, bensì nella forma schietta e concreta che gli si è data».
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Naturalmente i miei quaderni di commento ai Vangeli risentono di questa svolta. Non che li abbia proprio abbandonati, ma il ritmo è diminuito. L’anno della mia conversione ne ho riempiti quindici, quello in cui ho lavorato al libro su Philip K. Dick soltanto tre, e a scorrere questi tre si vede bene che non c’è più entusiasmo, che sono concentrato su altro. Dal Vangelo prendo quello che mi può servire per il libro. Vado ancora a messa, non tutte le sere. Faccio ancora la comunione, sforzandomi un po’. Nei giorni buoni penso che non sia grave. Il Padre non è un padre padrone. Quando porto Gabriel e Jean Baptiste al Luxembourg, sono contento di vederli correre, arrampicarsi, andare sullo scivolo. Mi preoccuperei se invece di giocare restassero sempre con me, in attesa di un mio cenno, a chiedersi che cosa penso e se sono contento di loro. Mi piace che non badino a me, che vivano la loro vita di bambini. Se io, che sono cattivo, posso avere queste amorevoli attenzioni per i miei figli, quali attenzioni avrà il Padre nei miei riguardi? Ma ci sono giorni in cui mi assalgono il dubbio e gli scrupoli, e penso che lavorare alla biografia di Philip K. Dick con piacere e persino con passione sia un gesto di ingannevole protervia che mi allontana dalla verità. Una ricchezza, dunque una disgrazia: è quello che sembra dire Gesù nelle Beatitudini, che sono il vero cuore del suo insegnamento. Non sono più così sicuro che le Beatitudini corrispondano al vero. Non capisco più il senso della sistematica inversione di ogni cosa. Pensare, quando abbiamo toccato il fondo, che non poteva capitarci nulla di meglio magari non corrisponde alla verità, ma aiuta. Invece non vedo il vantaggio nel credere, appena le cose vanno benino, che in realtà vadano male, che quello sia male. Preferisco l’I Ching, che dice qualcosa di molto simile e al tempo stesso molto diverso. Non c’è motivo di cantar vittoria quando ci tocca un esagramma favorevole: se siamo in cima, scenderemo per forza; se siamo in basso, probabilmente risaliremo. Se abbiamo fatto la salita sul versante soleggiato, scenderemo su quello in ombra. Dopo il giorno viene la notte, dopo la notte il giorno, dopo i cicli negativi quelli positivi, e dopo quelli positivi i negativi. È, semplicemente, un fatto vero, non imbrattato di morale, direbbe Nietzsche. Vuol dire che quando le cose vanno bene è saggio attendersi l’infelicità, e viceversa, non che è male essere felici e bene essere infelici.
A Le Levron c’è un libro delle visite; alla madre di Hervé fa piacere che chi ci viene lasci un segno del suo passaggio. Anche a me. Vent’anni fa, m’immaginavo di sfogliarlo vent’anni dopo e ricordare le nostre vacanze di un tempo. I vent’anni sono passati, li abbiamo anzi superati, e ricordo le nostre vacanze di un tempo. Mi piace che la nostra amicizia duri da tanto. Mi piace guardare le nostre vite come, durante un’escursione, ci si ferma a guardare dal punto più alto di una montagna il cammino compiuto: il fondo della valle da cui siamo partiti; il bosco di abeti; la pietraia in cui ci siamo storti la caviglia; il nevaio che credevamo di non riuscire mai ad attraversare; l’alpeggio sul quale si allunga già l’ombra. Nell’autunno del 1992 sono arrivato a Le Levron da solo, ho lavorato dieci giorni a spron battuto, poi mi ha raggiunto Hervé. Lo testimonia, oltre al libro delle visite, il mio quaderno di commenti al Vangelo, troppo spesso trascurato, in cui riporto una delle nostre conversazioni.
Io, come al solito, mi lamento. Prima perché non riuscivo più a scrivere, ora perché lo faccio con troppo piacere e mi allontano da Cristo. Esitazioni, scrupoli, angosce mi torturano. Il desiderio di tranquillità mi mette in agitazione. Il Vangelo diventa lettera morta. Quella che mi sembrava l’unica realtà è ora solo una remota astrazione. Dopo una salita lunghissima, ripidissima, battuta dal sole, raggiungiamo un lago di altitudine; ci fermiamo sulla riva per uno spuntino. Su una macchia d’erba in mezzo alla neve, tiriamo fuori i nostri panini, Hervé la sua Bhagavadgītā. Restiamo in silenzio per un bel pezzo, poi, tutt’a un tratto, Hervé mi dice che da piccolo lo stupiva molto una cosa: il pappagallo di sua nonna, quando veniva aperta la porta della gabbia, non scappava mai. Invece di prendere il volo restava lì come un deficiente. La nonna gli aveva spiegato il trucco: basta mettere uno specchietto in fondo alla gabbia. Il pappagallo è così contento di guardarsi, è talmente preso da non vedere neanche la porta aperta e ciò che sta fuori, la libertà, raggiungibili con un colpo d’ala.
Hervé è fondamentalmente un platonico. Crede che noi viviamo in una gabbia, in una caverna, in un mare di guai, e che lo scopo del gioco sia venirne fuori. Io non sono sicuro che ci sia un fuori verso cui volare ad ali spiegate. È vero, non è sicuro che ci sia, dice Hervé, ma immagina se ci fosse: sarebbe un peccato non andare a vedere. E come andarci? Pregando. Hervé, che l’anno prima rispondeva al mio dogmatismo cattolico con una duttilità molto taoista e sosteneva che bisogna assecondare i moti spontanei del cuore, ora insiste sulla necessità di pregare. Anche se non ne abbiamo voglia, anche se non ne ricaviamo alcun vantaggio. Anche se veniamo subito assaliti dal flusso dei pensieri parassiti e centrifughi – scimmiette che non smettono mai di saltare da un ramo all’altro, dicono i buddhisti –, ogni momento di preghiera, ogni sforzo per pregare dà un senso alla giornata. È una luce nel tunnel, un minuscolo rifugio di eternità sottratto al nulla.
Vent’anni dopo io e Hervé camminiamo ancora insieme, sugli stessi sentieri, e i nostri discorsi girano sempre intorno agli stessi argomenti. Quella che prima chiamavamo preghiera ora la chiamiamo meditazione, ma la montagna a cui siamo diretti è sempre la stessa, e mi sembra sempre altrettanto lontana.
30
Sono arrivato alla fine dei quaderni. Il mio libro su Philip K. Dick è uscito. Non ha avuto il successo che speravo. Devo essere rimasto deluso ma non ne parlo. Sono di nuovo disoccupato e depresso. Cerco di tornare al Vangelo, alla preghiera. Ogni giorno cerco di stare almeno qualche istante davanti a ciò che ora sono riluttante a chiamare Dio, o anche Cristo. Sono nomi che non mi piacciono più, anche se vorrei continuare ad amare ciò che essi significano per me. È un desiderio che come sempre nasce in me dall’ansia. Ho l’impressione di sprecare la mia vita, che il tempo passi, trentacinque anni, trentasei, trentasette, senza che io mantenga le promesse di un talento ormai svaporato. Se cerco di pregare è per convincermi che nonostante le apparenze tutto va, misteriosamente, per il meglio. Faccio sempre più fatica a crederlo.
Ho finito il Vangelo secondo Giovanni, sono passato al Vangelo secondo Luca. Commento le Beatitudini senza convinzione. Che cosa possono dirmi, amareggiato e distante come sono adesso?
Non rispondo neanche: alzo le spalle.
Ho tolto dalla mensola la misteriosa immagine di Cristo tra le foglie. Non perché non vedo più il suo volto ma perché ho paura che qualcuno la noti, mi chieda che cos’è, e di vergognarmene. Do la colpa ai miei «difetti di costituzione», come dice Montaigne, quelli che non si possono correggere. Non ho stoffa, non ho ardore. Sono meschino, ignavo, povero di tutto e anche di povertà. Come risollevarsi quando si è fatti così? Quando non si riesce a far presa sulle cose e tutto scivola via?
Pasqua 1993, ultima pagina del mio ultimo quaderno:
«Vuol dire questo, perdere la fede? Non avere neanche più voglia di pregare per conservarla? Non vedere nel distacco che aumenta giorno dopo giorno una prova da superare, ma al contrario un processo normale? La fine di un’illusione?
«Secondo i mistici, è questo il momento in cui bisognerebbe pregare. È nella notte che bisognerebbe ricordarsi di avere intravisto la luce. Ma è proprio in questo momento che i mistici con i loro consigli sembrano manipolarti, e il coraggio sembra stare nel rifiutarsi di seguirli per affrontare la realtà.
«Qual è la realtà? Che Cristo non è risorto?
«Scrivo queste cose il venerdì santo, momento del dubbio più grande.
«Domani sera andrò alla messa della Pasqua ortodossa, con Anne e i miei genitori. Li bacerò dicendo Christos Voskres, “Cristo è risorto”, ma non ci crederò più.
«Ti abbandono, Signore. Tu, non abbandonarmi».
II
PAOLO
Grecia, 50-58
PAOLO
Grecia, 50-58