Il grande scrittore non è un oracolo: non indica, ma svela
Marco ArchettiIl foglio
29 SETTEMBRE, 2019
“Una domenica” (Einaudi) è il nuovo romanzo di Fabio Geda. Un romanzo che sembrerebbe germinare – in senso letterale – dalla frase di Raymond Carver che l’autore, non a caso, affigge in esergo. La frase recita: “C’è da scriverci un racconto: prendiamo un uomo che vive da solo tranne nei fine settimana quando un paio di nipoti scendono da Spokane”. E così, grazie alla voce narrante della figlia Giulia, Geda ci racconta di un uomo, un vedovo, un ex costruttore di ponti in giro per il mondo, che un giorno, assalito dai ricordi intermittenti di quando era la moglie a farlo, per la prima volta si cimenta nella preparazione di un pranzo di famiglia (se vi interessa il menù: tagliatelle, pollo in gelatina, cipolle ripiene e budino di Seraiss). Ma all’ultimo momento, per sopraggiunte urgenze ospedaliere, la famiglia non si presenta. L’uomo è disorientato: grande l’amarezza, lunga la passeggiata per prenderne atto – passeggiata al termine della quale, in un parchetto frequentato da alcuni skater, l’uomo incontra Elena e suo figlio. E siccome da qui il racconto abbandona la strada vecchia per la nuova e una rampa “quarter pipe” sarà solo il primo passo verso nuove e insperate possibilità perfino per un uomo che sembrerebbe aver perso tutte le possibilità, a parte consigliarne la lettura, altro non si farà.
Un passo indietro, però, sì. E precisamente a pagina 42. Perché è lì che la scrittura di Geda, in un solo paragrafo, riesce a darci tanto quanto un intero corso di scrittura creativa. Facendo quel che dovrebbe fare sempre la scrittura, ossia: trattenere un istante e riempirlo di un significato. La scena è semplicissima. E vede un padre e un figlio che stanno parlando via Skype. La comunicazione è disturbata, a un certo punto si interrompe, e “l’immagine di Alessandro restò congelata sullo schermo in una smorfia in cui papà – e raccontandomelo, anni dopo, ha fatto una pausa e ha assunto un’espressione di delusione infantile, quella di un bambino cui a causa del maltempo è negato il permesso di andare al parco e scopre di dover passare a casa il resto della giornata – ecco, una smorfia in cui papà, dicevo, riconobbe qualcosa di mamma: le sopracciglia inarcate, forse, o le labbra invisibili, o la fossetta sulla guancia dove io, un milione di anni prima, lo avevo colpito con uno schiaffo”. Ecco: trattenere un istante – quello in cui occorre un contrattempo normalissimo, di quelli che capitano quotidianamente come una linea che salta – e riempirlo di qualcosa che non fugga, ma che resti; che resti sulla carta così come nell’animo di chi legge. Qualcosa che assomigli a un momento reale, breve come un respiro, affollato come un moto interiore.
Inevitabile ripensare a Primo Levi, il quale si riferiva sempre allo scrittore come a un cacciatore. Un cacciatore di dettagli, di inavvertiti accadimenti, e di tutti quei momenti che andrebbero perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, momenti in cui la vita solamente accenna e poi se ne va da un’altra parte senza spiegarci niente. Alla letteratura, il compito di rivelare. Alla letteratura il compito di farsi segno tangibile di ciò che è intangibile. Alla letteratura, l’onere di nominare. La letteratura, in fondo (ma anche in superficie), non è altro che la prosecuzione della vita con altri mezzi, non nel senso che ne sia un’appendice della vita o una sua verbosa didascalia, ma al contrario, il compimento di ciò che, nello srotolarsi irregolare delle cose e dei giorni, è a malapena accennato, oscuramente imbozzolato, pura allusione. La letteratura esiste per afferrare quei bozzoli e per svolgerli, per dispiegarli, perché li prende e li rigenera, dà loro un nome, un volto, il pensiero di un personaggio, li fa parlare, si fa acuto lirico del balbettio frettoloso delle cose. Ma sempre coi mezzi necessari – cioè i giusti mezzi. Basterebbe leggere anche solo un grande romanzo nella vita per godere di innumerevoli occasioni di comprensione della complessità dell’esistenza. È proprio per questo che leggere è un’esperienza che allarga la vita, la arricchisce e la moltiplica: laddove la vita, con la sua lallazione semi-incomprensibile, è avara, brutalmente sintetica, crudamente implicita, ecco che il grande scrittore (e Carver lo era, anche se è andato un po’ troppo di moda e nel suo fan club siedono, a volte, dei grandi insopportabili) – fa il contrario dell’oracolo di Delfi: non indica, ma svela. Non suggerisce, ma definisce. Non allude, ma conclude.
La vita è solo una scusa perché esista la letteratura