domenica 22 settembre 2019



Victor Šklovskij
VIAGGIO SENTIMENTALE MEMORIE 1917-1922 Traduzione di Mario Caramitti Nota introduttiva di Serena Vitale
Adelphi eBook

Dì che sei di carta
Serena Vitale

Grigorij Semënov nacque nel 1891 a Jur’ev (oggi Tartu), ultimo rampollo di una nobile famiglia. Anarco-comunista, ospite abituale delle patrie carceri fin da quando aveva quattordici anni, si andò progressivamente accostando al Partito socialista rivoluzionario, che dopo la rivoluzione di Febbraio contava un milione d’iscritti. Alla fine del ’17 ne guidava l’organizzazione militare. A partire dal maggio ’18 Semënov organizzò una serie di attentati contro i capi di quella che per i socialrivoluzionari era l’aborrita, antidemocratica «dittatura bolscevica». Il 20 giugno 1918 fu ucciso Volodarskij, membro del Presidium del Comitato esecutivo centrale panrusso; il 30 agosto (lo stesso giorno in cui a Mosca Fanja Kaplan sparò a Lenin –di propria iniziativa, sostenne prima di essere giustiziata, ma la pistola apparteneva a Semënov) venne assassinato Urickij, capo della Čeka di Pietrogrado. Nelle fucilazioni che immediatamente seguirono, morì, tra l’altro, un fratello di Šklovskij. Il 2 settembre Sverdlov annunciò l’inizio del «terrore rosso». Abile politicante, coraggioso quanto spregiudicato guerrigliero, Semënov finì col richiamare la non disinteressata attenzione dei bolscevichi: i socialrivoluzionari gli portavano un grandissimo rispetto e mai nessuno ne avrebbe messo in dubbio l’integrità morale, la devozione alla causa. Indotto a tradire, entrò segretamente nel Partito comunista. L’uomo («ottuso», con il «vuoto torricelliano nell’anima»), che portava sempre una grossa Mauser infilata nella cintura, intorno alla metà del ’19 iniziò la sua nuova carriera di spia, di agente segreto. Era il febbraio del ’22 quando pubblicò a Berlino un libretto di quarantatré pagine, senza indicazione dell’editore: Attività militare e sovversiva del Partito socialista rivoluzionario nel 1917-18. Vi si leggeva, fra l’altro: «Capo della sezione Mezzi blindati era Šklovskij, suo assistente Bergman. Un po’per volta la sezione creò una divisione segreta di mezzi corazzati di riserva; ritenevamo che ci sarebbe servita quando fossimo passati all’azione. Approfittando delle conoscenze che aveva nell’ambiente, Šklovskij, che per molto tempo aveva prestato servizio come militare in un battaglione di mezzi corazzati, raccolse gli uomini ... Il centro militare operativo fu trasferito a Saratov ... Lì venne mandata anche la nostra divisione segreta con a capo Šklovskij...». Non a caso il libricino di Semënov, delatorio vademecum dell’opposizione armata clandestina, presto ripreso dalla stampa sovietica, vide la luce quando si stava preparando il processo ai «socialrivoluzionari di destra» –primo grande processo politico dimostrativo nella Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e primo processo, nella storia, in cui gli accusati erano divisi in «pentiti» e «non pentiti». Sarebbe stato celebrato a Mosca dall’8 giugno al 7 agosto 1922.     La sera del 4 marzo 1922, tornando alla Casa delle arti con lo slittino su cui trasportava la legna che l’indomani avrebbe consegnato ai genitori, Šklovskij notò che le luci alle finestre della sua stanza erano accese. Non poteva essere il fantasma di Eliseev, padrone del palazzo prima che venisse espropriato, né quello di Quarenghi, che oltre un secolo prima ci aveva abitato. Chiese a Efim Egorovič, unico custode rimasto dai vecchi tempi: «Efim, c’è qualcuno da me?». «Proprio così, Viktor Borisovič, avete ospiti». E Viktor Borisovič si dileguò nella notte. Portò ai genitori la legna, dormì non si sa dove, il giorno dopo andò a visitare Tynjanov: «Era un po’teso ma per nulla spaventato. Era più o meno quello di sempre, non particolarmente allegro, ma in grado di raccontare non solo che la Čeka lo stava cercando dappertutto –parlò anche delle forme prosodiche di Nekrasov, su cui in quel periodo Tynjanov stava lavorando...» (V. Kaverin). Nessuno sa dove trascorse le due settimane successive all’imboscata, al mancato arresto. Una notte, portandosi dietro quello stesso slittino, simbolo della nuova preistoria in cui era precipitata la Russia («... epoca tremenda, primordiale. È sotto i miei occhi che hanno inventato la slitta»), ripeté l’itinerario di Lenin nel 1907: sulle acque ghiacciate del golfo di Finlandia abbandonò clandestinamente la Russia. Il 16 marzo scrisse a Gor’kij da Raivola:   «Caro Aleksej Maksimovič, «su di me si è abbattuto un fulmine. «Nella brochure pubblicata a Berlino Semënov ha fatto il mio nome. «Volevano arrestarmi, mi hanno cercato dappertutto. Alla fine sono fuggito ... Non so come riuscirò a vivere senza la Russia. Ora sono nel posto di quarantena. Sto per scrivere il seguito di La rivoluzione e il fronte...».   In una lettera successiva (24 marzo) chiese a Gor’kij di offrire quel «seguito» all’editore Gržebin –«... poiché comunque Semënov ha reso pubblico molto di quello che ho fatto, voglio scriverne io». Così nacque Viaggio sentimentale. Talvolta la delazione giova alla letteratura.     Nel Punteggio di Amburgo Šklovskij raccontò: «Ho scritto Viaggio sentimentale in Finlandia; in dieci giorni, credo, perché avevo davvero bisogno di soldi. Non è che io sia capace di scrivere un libro ogni dieci giorni –il libro ovviamente era già pronto dentro di me e si è risvegliato in soli dieci giorni». In realtà Viaggio sentimentale si compone di almeno tre testi scritti in epoche diverse: 1) La rivoluzione e il fronte (giugno-agosto 1919), pubblicato nel 1921 dall’editore Gržebin, che però non volle far comparire il proprio nome. Autobiografia di un intellettuale russo inquieto, insofferente, in ogni senso nemico dell’immobilismo. Il giovane ricciuto che non ha portato a termine gli studi di filologia all’università ma ha già pubblicato La resurrezione della parola («Oggi le parole sono morte e la lingua somiglia a un cimitero...»), sodale dei cubofuturisti e dei membri di quello che sarà l’OPOJAZ, nel ’14 parte volontario per il fronte. L’anno successivo torna a Pietrogrado e, «spinto dalla fame», diventa istruttore in una scuola per autieri. Riparte –per il fronte sud-occidentale, questa volta; il coraggio gli vale una Croce di San Giorgio. Mosso da un’angosciosa malinconia, un malessere che lo incalza «come la luna spinge un sonnambulo sul tetto», incapace di restare per lungo tempo fermo nello stesso luogo, riesce a farsi mandare in Persia, dove sta per iniziare l’evacuazione delle truppe russe. Ciò che ogni volta vede al fronte, russo o sovietico (nell’estate del ’20 combatte con l’Armata Rossa nel Sud), lo conferma nell’idea che l’esercito del suo paese sia da tempo, da ancor prima della rivoluzione, gravemente malato. Avrebbe bisogno di delicati interventi chirurgici, ma i nuovi padroni della Russia sono chiaramente più inclini alla vivisezione. 2) Epilogo, pubblicato nel febbraio 1922. Sulla copertina del piccolo libro sono indicati due autori: Viktor Šklovskij e Lazar’Zervandov. Racconto, dalle cadenze a tratti bibliche, di un tragico esodo –quello degli assiri dalla Persia, dove i più sanguinosi massacri erano ormai routine quotidiana. 3) La scrivania. Paralipomeni dolenti, qua e là risentiti, del libricino di Semënov. Il lavoro –brutto, sporco, pericoloso –cospirativo. Il fallimento della congiura antibolscevica di Saratov, dove Šklovskij è costretto a nascondersi in un manicomio. L’amnistia. Il tentativo di abbattere Skoropadskij, autoproclamatosi «etmano di tutta l’Ucraina», in una caotica e opulenta Kiev (quella della Guardia bianca, dove Bulgakov ritrae beffardamente Šklovskij come il «fantasmista-futurista Špoljanskij»), che sembra abitata soltanto dai fuoriusciti russi in attesa degli «alleati» e dagli occupanti tedeschi. Di nuovo Pietrogrado: la fame, il gelo, le infinite code ovunque si vendesse o «distribuisse» qualcosa da mangiare, da ardere. La Casa delle arti, stultifera navis (O. Forš) e salvifico rifugio per molti grandi –poeti, prosatori, studiosi di letteratura –del tempo. I «Serapionidi», i «fratelli» di cui Šklovskij era anche l’amato maestro. La morte di Aleksandr Blok –fine di un’intera epoca, di una civiltà. Sempre in movimento, spesso in fuga, ora con i capelli viola, ora giallo come un canarino per l’itterizia, Šklovskij viaggia anche sui tetti o sui pavimenti dei treni, si lancia dai vagoni in corsa, con i suoi racconti da «narratore professionista» incanta come Shahrazad i funzionari della Čeka e torna in libertà, si sposa, si batte in duello per una donna che non è sua moglie... E legge, scrive. Lavora essenzialmente al Legame tra i procedimenti di composizione dell’intreccio e i procedimenti generali dello stile. È infatti «il fondatore della scuola russa del metodo formale (o morfologico)».     L’«eroe» del Viaggio sentimentale: quanto di meno eroico si possa immaginare. È audace fino alla spericolatezza, intelligente, ingegnoso, astuto, capace di adattarsi alle più ingrate circostanze (non lo fermano la povertà, la fame, la devastazione –nulla: «Posso scorrere come acqua e trasformarmi...»), eppure la sua storia è una quasi ininterrotta teoria di insuccessi. Dal fallimento della congiura socialrivoluzionaria di Saratov al sabotaggio delle autoblindo di Skoropadskij, che finisce per risolversi a favore dei nazionalisti di Petljura, dal vano tentativo di arrestare lo sfacelo dell’esercito russo in Persia alla tragicomica disavventura dell’esperto artificiere che per poco non si ammazza facendo esplodere il detonatore a cui ha incautamente avvicinato la sigaretta accesa. Il vero eroismo di Šklovskij è altrove –nella sua inafferrabilità. Non soltanto la Čeka è incapace di catturarlo. Perché il Percy Blakeney russo vive negli intervalli, nelle lacune, negli spazi vuoti, «nei buchi delle ciambelle». Una sera, nascondendolo in una stanza del Circolo linguistico di Mosca, Roman Jakobson gli disse: «Se stanotte ci sarà una perquisizione, tu fruscia, e di’che sei carta». Consiglio quasi superfluo. Šklovskij era «carta»: la sua vita si trasformava immediatamente in testo. Un testo, una pagina «ironica e distruttiva», come è sempre l’arte che ridà vita all’esistente. Nella Mosca postrivoluzionaria alcuni soldati occupano il secondo piano di un edificio ormai deserto. Chiuso a chiave l’appartamento al primo piano, aprono un largo foro nel pavimento e lo usano come latrina: «Più che una porcheria era un utilizzo delle cose da un nuovo punto di vista»... Significativa benché non olezzante variazione sul tema dell’arte e del fin troppo famoso, citato, «straniamento» šklovskiano: guardare le cose da un nuovo punto di vista, semplicemente. E poi scriverne. Con frasi essenziali, brevissime, in cui i legami sintattici sono ridotti al minimo. Con molti spazi vuoti, bianchi. Tutto il resto –anche le lacrime –è andato a finire nel piano inferiore della vita. 
    P.S. Accusato di crimini immaginari, l’8 ottobre del funesto anno 1937 Grigorij Semënov venne giustiziato.

Abbiamo usato la cosiddetta traslitterazione scientifica dal russo oggi di uso comune. La c si legge come la z sorda di «zucchero», č come la c di «cibo», ch come ch nel tedesco ich, š come la sc di «scimmia», ž come la j nel francese jamais, ë come il dittongo io in «rivoluzione». Delle località citate nel testo si è mantenuto il nome con cui erano note all’epoca degli eventi narrati. Ciò non vale per Pietroburgo: benché ribattezzata Pietrogrado nel 1914, Šklovskij continua a chiamarla prevalentemente col suo vecchio nome (o, talvolta, con l’affettuoso, familiare Piter). Quanto ai toponimi ucraini e dei territori che allo scoppio della prima guerra mondiale facevano parte dell’Impero russo, si è sempre adottata la grafia russa. 


PARTE PRIMA LA RIVOLUZIONE E IL FRONTE
Prima della rivoluzione ero istruttore in un battaglione corazzato di riserva: una posizione privilegiata nell’esercito. Non dimenticherò mai il tremendo senso di oppressione che provavamo io e mio fratello, scritturale allo stato maggiore. Ricordo le corse furtive per strada dopo le otto di sera, i tre mesi di fila chiusi in caserma, ma soprattutto i tram. La città era stata trasformata in un accampamento militare. I «duesoldi», così chiamavano i soldati delle ronde, che, si diceva, ricevevano due copechi per ogni arrestato, ci davano la caccia, ci inseguivano nei cortili, ci portavano davanti alla commissione di disciplina. Causa di quella guerra erano i tram stracarichi di soldati che si rifiutavano di pagare il biglietto. Gli alti gradi ne facevano una questione d’onore. Noi, la massa dei soldati, li ricambiavamo con un sabotaggio sordo e incattivito. Sarà infantile, ma sono convinto che quel tenerci nelle caserme, strappati a casa e lavoro, senza mai una licenza, a far nulla e marcire sulle brande, l’accidia da caserma, la cupa estenuazione e la rabbia dei soldati ai quali si dava la caccia per le strade, hanno, tutt’insieme, alimentato la rivolta nella guarnigione di Pietroburgo più che le continue disfatte al fronte e le insistenti, sempre più diffuse voci sul «tradimento della corte». Attorno ai tram si andava creando uno specifico folklore, squallido e inconfondibile. Ad esempio: una crocerossina viaggia con dei feriti, un generale se la prende con i feriti, offende pure la crocerossina. Allora quella getta via il mantello e si scopre che ha l’uniforme da granduchessa; dicevano proprio così: «uniforme». Il generale si mette in ginocchio e chiede perdono, ma lei non lo perdona. Un folklore, come vedete, ancora a tutti gli effetti monarchico. L’episodio veniva ambientato ora a Varsavia, ora a Pietroburgo. C’era anche la storia del cosacco che ammazza un generale perché quello voleva tirarlo giù dal tram e strappargli le onorificenze. Un omicidio per via del tram sembra ci sia stato davvero da noi in città, anche se il generale lo ricondurrei piuttosto a una rielaborazione epicizzante; a quell’epoca i generali ancora non andavano in tram, salvo alcuni a riposo e in miseria. Nei reparti non si faceva propaganda politica; almeno non nel mio, dove passavo tutto il tempo con i soldati, dalle cinque-sei del mattino fino alla sera. Non si faceva, cioè, propaganda di partito, ma indipendentemente da quella la rivoluzione era comunque data per certa: si sapeva che ci sarebbe stata, solo ci si aspettava che sarebbe scoppiata dopo la guerra. Chi potesse fare propaganda nei reparti proprio non c’era: gli iscritti ai partiti erano pochissimi e, se anche c’erano, si trattava di operai che non avevano quasi nessun legame coi soldati; l’intelligencija, nel senso più elementare della parola, cioè chiunque avesse fatto almeno due classi di ginnasio, era finita tutta tra gli ufficiali, che si comportavano, per lo meno nella guarnigione di Pietroburgo, non meglio, o forse peggio, degli ufficiali di carriera. I sottotenenti erano impopolari, soprattutto nelle retrovie, attaccati com’erano coi denti al battaglione di riserva. Di loro i soldati cantavano: Prima «razza di pezzente», ora «sì, signor tenente». Molti di loro avevano l’unica colpa di essersi lasciati attrarre con troppa leggerezza dall’aura sontuosa di cui era ammantata l’estenuante disciplina delle scuole militari. In gran numero questi stessi hanno poi sposato la causa della rivoluzione, pur se, va detto, con troppo facile trasporto, analogo a quello con cui erano diventati ottusi e brutali esecutori di ordini. Non meno diffusa era la storia di Rasputin; storia che a me non piaceva, perché nel modo in cui veniva raccontata era evidente lo sfacelo spirituale della popolazione. Il successo dei libelli postrivoluzionari della serie «Grigorij: brogli e onori» mi ha fatto capire che, per le più vaste masse, Rasputin era una specie di eroe nazionale, un po’come il Van’ka dei canti popolari, quello che va a letto con la principessa. Ma ecco che per effetto di tutta una serie di cause, alcune delle quali laceravano i nervi e innescavano scintille, mentre altre agivano dall’interno, modificando progressivamente la psiche del popolo, le catene arrugginite che imprigionavano la Russia si sono tese oltre ogni limite. La città era sempre peggio approvvigionata, c’era penuria di tutto, almeno per come eravamo abituati allora. Il pane scarseggiava, davanti ai negozi si formavano lunghe file, al canale Obvodnyj avevano cominciato a saccheggiare i forni, e i fortunati che erano riusciti a procurarsi il pane lo portavano a casa tenendolo ben stretto, rimirandolo deliziati. Rivendevano il pane anche i soldati, nelle caserme erano scomparsi i tozzi secchi e le croste, prima marchio di fabbrica, assieme all’aria inacidita, di quei luoghi di costrizione. Il grido «pane!» risuonava sotto le finestre e davanti ai portoni delle caserme, dove si era di molto allentata la vigilanza di sentinelle e sottufficiali di picchetto, che ormai lasciavano uscire liberamente i commilitoni. Senza più alcuna fiducia nel vecchio ordinamento, schiacciata dalla mano crudele ma ormai titubante dei superiori, la caserma era in fermento. All’epoca non solo i soldati di carriera, ma qualunque coscritto che raggiungesse i ventidue-venticinque anni era una rarità. Tanto spietato e insulso era stato il massacro della guerra. I sottufficiali di carriera erano stati inseriti come soldati semplici nei primi contingenti ed erano morti in Prussia, a L’vov e durante la celebre «grande» ritirata, quando l’esercito russo aveva lastricato la terra di cadaveri. Il soldato pietroburghese di quei giorni era un contadino insoddisfatto o un borghesuccio. Non li avevano neanche vestiti di pastrani grigi: glieli avevano gettati addosso, formando quella marmaglia, quelle bande e combriccole che venivano chiamate battaglioni di riserva. In sostanza, le caserme erano diventate stalle dove a suon di cartoline precetto venivano rinchiuse mandrie di uomini. In termini di percentuale numerica, rispetto alla massa dei soldati, i graduati probabilmente non erano più numerosi degli aguzzini che sorvegliavano gli schiavi imbarcati sulle navi negriere. Ma dietro le pareti delle caserme le voci correvano: «Gli operai si preparano a scendere in piazza», «quelli di Kolpino vogliono marciare sulla Duma il 18 febbraio». Metà contadini, metà popolino, i soldati nel loro insieme avevano scarsi legami con gli operai, ma le circostanze andavano delineandosi in modo da favorire una deflagrazione. Ricordo i giorni della vigilia. Gli istruttori autieri e i carristi che andavano fantasticando di rubare un blindato, sparare contro la polizia e poi abbandonarlo fuori porta con il biglietto: «Da riportare al maneggio». Un tratto molto caratteristico: non veniva meno l’attaccamento ai mezzi. Evidentemente non c’era ancora la convinzione di poter abbattere il vecchio regime, volevano soltanto fare gazzarra. E con i poliziotti ce l’avevano da un pezzo, in primo luogo perché quelli avevano scampato il fronte. Ricordo che un paio di settimane prima della rivoluzione, mentre marciavamo a ranghi compatti per la strada (almeno in duecento), abbiamo incontrato un drappello di poliziotti di quartiere, e li abbiamo sfottuti subissandoli di grida: «Scagnozzi! Scagnozzi!». Gli ultimi giorni di febbraio la gente saltava letteralmente addosso alla polizia, i reparti di cosacchi mandati di rinforzo giravano a cavallo per le strade senza toccare nessuno, scherzando allegramente. Il che rinfocolava ancora di più gli umori insurrezionali della folla. Sul Nevskij prospekt ci sono stati degli spari, anche dei morti, un cavallo morto è restato a lungo sulla strada, non lontano dall’incrocio con il Litejnyj. Mi è rimasto impresso, tanto allora era uno spettacolo insolito. In piazza Znamenskaja un cosacco ha ucciso un ispettore di polizia che aveva dato una sciabolata a una dimostrante. Le pattuglie sulle strade non sapevano che cosa fare. Ricordo la perplessità di un plotone con piccole mitragliatrici a rotelle (l’affusto Sokolov) e le cartuccere nelle bisacce dei cavalli: evidentemente un plotone di mitraglieri con il supporto di animali da soma. Erano fermi in via Bassejnaja, all’angolo con via Baskovaja. Una mitragliatrice, come una bestiolina, se ne stava afflosciata sul selciato, pure lei perplessa, circondata da una folla che non l’attaccava ma spingeva con le spalle, come priva di mani. Sul Vladimirskij prospekt c’erano le pattuglie del reggimento Semënovskij, di famigerata crudeltà. Titubanti anche loro: «Non c’entriamo niente, facciamo come tutti gli altri». Il poderoso apparato repressivo predisposto dal governo si era bloccato. Durante la notte ha rotto i freni il reggimento di Volinia: si sono messi d’accordo tra loro, e al comando: «Tutti alla preghiera!» si sono precipitati ai fucili, hanno assaltato l’armeria per rifornirsi di munizioni, sono corsi in strada e, dopo aver coinvolto alcuni piccoli reparti lì nei pressi, hanno cominciato a piazzare pattuglie nella loro zona, il Litejnyj prospekt. Tra l’altro i voliniani hanno dato l’assalto pure alle nostre celle di rigore, che stavano vicino alla loro caserma. I soldati liberati si sono presentati ai superiori. I nostri ufficiali avevano assunto una posizione neutrale, anche loro nella moderata forma di opposizione del giornale «Večernee vremja». La caserma era in subbuglio, aspettavano che arrivasse qualcuno per farli uscire. I nostri ufficiali dicevano: «Fate quello che volete». Per strada, nel mio quartiere, gli ufficiali già venivano disarmati da uomini in borghese che saltavano fuori a gruppetti dai portoni. Benché di tanto in tanto si sentissero degli spari, davanti ai palazzi c’era molta gente, anche donne e bambini. Sembravano aspettare un matrimonio, o un funerale solenne. Già tre o quattro giorni prima, per ordine dei superiori, erano stati resi inservibili tutti i nostri mezzi. Nel nostro garage Belinkin, un ingegnere, volontario nell’esercito, ha restituito ai soldati e agli operai i pezzi che erano stati smontati. Ma i blindati del nostro garage li avevano trasferiti al maneggio del castello Michajlovskij. Sono andato al deposito, già pieno di gente che portava via le macchine. Per i blindati mancavano i pezzi. La prima cosa che mi è sembrato opportuno fare è stato rimettere in sesto un’autoblindo Lanchester armata di cannoncino. I pezzi di ricambio li avevamo noi alla scuola. Dove subito sono tornato. I sottufficiali di picchetto e i soldati di turno, pur in grande agitazione, erano ai loro posti. La cosa in quel momento mi ha sorpreso. Più tardi, quando alla fine del 1918 a Kiev ho provato a sollevare un battaglione di blindati contro l’etmano, ho visto che quasi tutti i soldati si tiravano indietro dicendosi di picchetto o di turno, ma per me non era già più una sorpresa. Alla scuola ero molto amato. Il soldato che ha aperto la porta mi ha chiesto: «Lei, Viktor Borisovič, è per il popolo?», e alla mia risposta affermativa ha cominciato a baciarmi. Era un momento in cui ci si baciava tutti. Mi hanno dato i pezzi, promettendo anche che non avrebbero detto chi li aveva presi. Da lì sono tornato al mio reparto: ancora adesso non saprei dire se erano venuti a ordinare lo scioglimento o se era stata un’iniziativa spontanea. I nostri vagavano attorno alla caserma. Ho preso due capisquadra del garage, Gnutov e Bliznjakov, e con gli strumenti siamo andati a riparare il blindato.



  • Tutto questo è successo di mattina, due o tre ore dopo che il battaglione di Volinia si era sollevato: il primo giorno della rivoluzione. Fatico a rendermi conto di come tanti eventi abbiano potuto concentrarsi in una sola giornata. Abbiamo preso il blindato e lo abbiamo rimorchiato fino a un garage in vicolo Kovenskij, dove, occupati i locali e staccato il telefono, abbiamo cominciato a ripararlo, trafficando fino a sera. Il serbatoio era stato riempito d’acqua, che si era ghiacciata. Ci è toccato rimuovere il ghiaccio e asciugare il serbatoio con degli stracci. In una pausa dal lavoro ho fatto un salto da un amico letterato. Nelle sue stanze non ci si muoveva e mancava l’aria, cibo ovunque, una muraglia di fumo, tutti che giocavano a carte e avrebbero continuato a giocare per due giorni di fila. In seguito quest’uomo è diventato –molto presto e con piena convinzione –bolscevico e membro del partito. Così come sono divenuti comunisti quasi tutti quelli che giocavano a quel tavolo. A me però resta ancora nitidamente impressa nella memoria la loro altezzosa ironia nei confronti dei «disordini di strada». Prima ancora di tutto questo, in città era stato proclamato lo sciopero. I tram non andavano. I vetturini che non avevano aderito allo sciopero venivano fermati. All’angolo tra il Nevskij e via Sadovaja ho incontrato un mio conoscente, professore universitario, uomo tanto dotato di talento quanto sconclusionato, un tempo vicino ai membri dell’antirivoluzionaria Unione accademica, perché quelli, evidentemente, gli pagavano da bere. Urlava, e comandava un gruppo di persone che fermava le carrozze. Era sobrio, ma completamente fuori di sé. Tutto il quartiere intorno alla Duma era in preda alla rivolta. La vicinanza al Palazzo di Tauride della caserma dei voliniani, ma anche di quelle di altri reggimenti –Preobraženskij, di Lituania, del genio (in via Špalernaja) –, molto più che la memoria dei discorsi parlamentari, avevano fatto della Duma il centro dell’insurrezione. Sembra che il primo a guidare un distaccamento alla Duma sia stato il compagno Linde, che poi sarebbe stato ucciso dai soldati dell’Armata Speciale, dove era commissario. Si tratta dello stesso Linde che in aprile ha portato in piazza il reggimento di Finlandia e ha provato a mettere agli arresti il Governo provvisorio dopo la celebre nota di Miljukov. Il nostro blindato è sceso in strada e si è messo a scorrazzare per la città. Le vie buie erano animate da gruppetti non molto folti di persone. Dicevano che qua e là c’erano poliziotti che sparavano. Sul ponte Sampsonievskij abbiamo visto dei poliziotti, ma non siamo riusciti a sparargli perché sono corsi via prima. C’era già chi saccheggiava le cantine, i miei compagni volevano prendere il vino che veniva distribuito, ma, quando gli ho detto di non farlo, non hanno obiettato. Nello stesso tempo erano avanzati dei blindati anche da via Dvorjanskaja, guidati dai compagni Anardovič e Ogon’nec. Hanno subito occupato la zona della Peterburgskaja storona e sono andati verso la Duma. Non so chi ce l’abbia detto, ma ci siamo diretti alla Duma anche noi. Davanti all’ingresso c’era già, mi sembra, un blindato Garford. Alle porte della Duma ho incontrato L., un volontario, mio vecchio commilitone, allora sottotenente d’artiglieria. Ci siamo baciati. Sono stati momenti molto belli. Un unico fiume trasportava tutti, e la saggezza stava nell’abbandonarsi alla corrente. È scesa la notte. Nel Palazzo di Tauride il caos era assoluto. Portavano armi, arrivava gente, ancora alla spicciolata, trascinavano provviste requisite non si sa dove; in una camera vicino all’ingresso erano stati sistemati dei sacchi. Già arrivavano, sotto scorta, i primi arrestati. Alla Duma una signorina mi ha nominato comandante del blindato e mi ha persino dato delle disposizioni militari. Munizioni per il cannone ne avevo, non so dove me le fossi procurate, forse ancora al deposito del maneggio. Le disposizioni naturalmente non le ho eseguite: chi, del resto, in quel momento eseguiva qualcosa? Ho dormito un’ora o due dietro a una colonna, avvolto nella pelliccia. Alla Duma ho incontrato Suchanov. Lo avevo conosciuto alla redazione della rivista «Letopis’», con cui avevo collaborato pubblicando note bibliografiche nella rubrica letteraria. Ma in redazione avevo anche tenuto una lezione sulla poetica, spiegando l’arte come forma pura, il che aveva scatenato un’aspra discussione con i marxisti. Per questo, forse, Suchanov si è stupito di vedermi lì: io e l’insurrezione, per lui, eravamo due cose inconciliabili. E anch’io, per via della mia ingenuità politica, mi sono stupito della sua presenza: non sapevo nemmeno che già si fossero formati e strutturati i centri politici bolscevichi. Che certo però, in quel momento, non potevano ancora influenzare gli eventi. La massa andava per conto suo, come aringhe a deporre le uova, obbedendo all’istinto. Nella notte hanno portato il tenente D., comandante delle officine dei mezzi corazzati, in stato d’arresto. I soldati che gli facevano da scorta non sembravano molto convinti, e l’arrestato mi ha detto, con aria di riprovazione: «Stava così male agli ordini del capitano Sokolichin che gli si è messo contro?». Gli ho risposto che non avevo nulla contro il capitano Sokolichin. Tempo una mezz’ora e il tenente è uscito tutto allegro. La commissione militare della Duma, avendolo riconosciuto tra i primi ufficiali autieri lì «convenuti», gli aveva assegnato l’incarico di organizzare tutto quanto riguardava i mezzi di trasporto a Pietroburgo. Era una persona furba e a suo modo intelligente, avida, se non di potere, almeno di carriera; in seguito sarebbe figurata tra i comunisti anarchici. Mi ci sono soffermato in quanto è stato il primo fantino che io abbia visto lanciarsi nella corsa alle cariche. In seguito di persone così ne ho incontrate a frotte. Di mattino presto siamo nuovamente usciti in città. Qualcuno mi aveva anche dato un incarico militare e un artigliere per comandante. Questo comandante me lo sono perso, o è lui che si è perso me, e mi sono mescolato all’allegro carosello del popolo insorto. Mi sono diretto alle caserme del reggimento Preobraženskij, in via Millionnaja. Qualcuno aveva detto che stavano facendo resistenza. Siamo arrivati. Era un mattino di sole del più fenomenale azzurro. Sparando allegre salve, correvano fuori dalle caserme gli insorti del reggimento Preobraženskij, indossando pastrani nuovi con mostrine di un rosso fiammante. Qua e là c’erano stati tentativi di resistenza. Sembra che a sparare fossero stati gli allievi del 6° battaglione del genio e del reggimento di Mosca. La compagnia ciclisti del Lesnoj prospekt ha resistito abbastanza a lungo. Penso che sia successo perché ci sono andati solo gli operai, senza soldati, e quelli hanno avuto paura a unirsi a loro. Gli hanno mandato contro alcune autoblindo Fiat, che hanno fatto saltare un’ala in legno della caserma, con tutta la gente che c’era dentro. Quella notte è morto uno dei nostri carristi, Fëdor Bogdanov. Si è imbattuto, con la torretta del blindato aperta, in un appostamento di poliziotti (l’unico in cui, correttamente, avessero piazzato la mitragliatrice alla finestra di una cantina e non sul tetto, da dove la mitragliatrice fa solo rumore e le traiettorie sono incontrollabili). Il corpo di Bogdanov non è sepolto al Campo di Marte, i parenti sono venuti a prenderlo e lo hanno portato fuori città. Qualcosa in più a proposito delle mitragliatrici sui tetti. Per quasi due settimane mi hanno chiamato a toglierle di mezzo. Di solito, quando sembrava che ci sparassero dalle finestre, cominciavamo a sparare scompostamente con i fucili contro i palazzi, scambiando per fuoco di risposta la polvere che si sollevava dagli intonaci. Sono convinto che la maggior parte dei morti della rivoluzione di Febbraio vada imputata alle nostre stesse pallottole, che letteralmente ci piovevano in testa dall’alto. La mia compagnia ha perlustrato quasi per intero i quartieri Vladimirskij, Kuznečnyj, Jamskoj e Nikolaevskij, e non ho trovato alcuna conferma alle segnalazioni di mitragliatrici sui tetti. In aria invece si sparava molto, anche cannonate. Sul mio blindato sono capitati cannonieri di varia estrazione. Ricordo soprattutto il primo, che, ferito a un braccio, era rimasto al pezzo. Era un gendarme delle caserme di via Kiročnaja. Diceva che i gendarmi erano stati tra i primi a passare dalla parte degli insorti. E non c’è stato cannoniere che non mi abbia chiesto l’autorizzazione a sparare per far vedere che avevamo persino un cannone, e si sparava in aria sul Nevskij prospekt. Quel giorno l’ho passato quasi tutto stando in vedetta davanti alla stazione Nikolaevskij. La stazione era priva di ogni difesa, e io proponevo (all’aria, perché non c’era nessuno a cui proporre) di occupare l’ultimo piano degli alberghi Severnaja e Znamenskaja per tenere l’intera stazione sotto tiro, ma le nostre forze erano assolutamente insufficienti. Se pure si mettevano di sentinella dei soldati che passavano di lì, quelli o andavano via, o provavano a resistere fino allo svenimento, e comunque non arrivavano al cambio della guardia. Responsabili del comando erano –o così mi sembrava –uno studente senza un braccio e un ufficiale di marina molto anziano, in uniforme, se ricordo bene, da guardiamarina. Era stravolto dalla stanchezza. Arrivavano convogli che trasportavano truppe –non era chiaro da dove venissero né dove andassero –, noi ci avvicinavamo al treno con il blindato e quattro o cinque fanti, e l’esausto guardiamarina chiedeva agli ufficiali al comando: «La città è nelle mani del popolo insorto: voi volete unirvi al popolo insorto?». Dai vagoni sgranavano gli occhi uomini e cavalli. Gli ufficiali rispondevano che non c’entravano nulla, che erano lì di passaggio; i soldati ci guardavano, e non sapevamo se sarebbero scesi o no dal loro alto vagone. Venivano in supporto autoblindo con carristi che conoscevo. Stavano un po’lì, poi se ne andavano. La città era percorsa in lungo e in largo dalle muse e dalle erinni della rivoluzione di Febbraio: camion e automobili, straripanti e rigurgitanti soldati, che andavano non si sa dove, trovavano la benzina non si sa come, e si aveva l’impressione di campane suonate a festa in tutta la città. Sfrecciavano in lungo e in largo, giravano in tondo, ronzavano come api. Era la strage delle macchine innocenti. Per reintegrare le compagnie autotrasportate, un numero sterminato di autoscuole militari aveva sfornato a nugoli autieri con appena mezz’ora di pratica. Ed ecco arrivato il momento della festa per questi semiautisti che finalmente avevano messo le mani sulle macchine. In città uno schianto dopo l’altro. Non saprei dire quanti incidenti ho visto in quei giorni. In poche parole, tutti i miei allievi avevano imparato a guidare in due giorni. Dopo di che la città si è riempita di autovetture abbandonate al loro destino. Erano stati organizzati dei punti di ristoro, dove con oche e salame preparavano piatti mostruosamente grassi. Ero felice in mezzo a quella marea di gente. Era insieme Pasqua e un allegro, carnascialesco, ingenuo, sgangherato paradiso. Nel frattempo quasi tutti si erano armati a spese degli ufficiali e soprattutto saccheggiando i depositi. Le armi erano tante, passavano di mano in mano, non venivano vendute, ma circolavano liberamente. C’erano molte splendide Colt. Non eravamo in alcun modo una reale unità di combattimento, ma non ce ne preoccupavamo. C’erano notti di panico, notti in cui aspettavamo l’attacco di non si sa quali contingenti. Ma intanto la guarnigione di Pietroburgo si andava sempre più infoltendo. Erano arrivati, tirandosi dietro le mitragliatrici con le corde, trasportando mitragliatrici senza affusti gettate come legna da ardere su un furgone, drappeggiandosi nelle cartuccere, soldati dei reggimenti di mitraglieri e delle Accademie di Strel’na e di Oranienbaum. Nei pressi di Strel’na un gruppo dei nostri in esplorazione ha incontrato un colonnello che viaggiava in macchina e somigliava vagamente allo zar. È stato accolto, prima che si chiarisse l’equivoco, con impetuoso, frenetico entusiasmo. Le mitragliatrici che arrivavano a Pietroburgo erano per lo più inutilizzabili, la maggioranza, ad esempio, non aveva manicotti di raffreddamento, di modo che era impossibile versarci l’acqua. Ce n’erano fin troppe, ma la quantità non aumentava il nostro potenziale bellico. Ricordo che attorno alle stazioni Baltijskij e Varšavskij c’erano mitragliatrici piazzate quasi a ogni passo. È ovvio che, con quella dislocazione, sparare sarebbe stato tremendamente scomodo. Ma il potenziale bellico non aveva importanza. Stava ormai diventando chiaro che la Pietroburgo insorta non aveva avversari. Dalla parte degli insorti erano comparsi gli ufficiali, era passata a ranghi compatti l’Accademia d’Artiglieria Michajlovskoe. Un po’più tardi si è unito a noi anche il 1° reggimento di riserva con tutti gli ufficiali. I nostri ufficiali è andato a prenderli casa per casa un ingegnere ebreo molto energico, un volontario che di fatto ormai da un anno e mezzo dirigeva la scuola. Gli ufficiali si sono radunati. Avevano trovato anche il comandante del battaglione; in quel periodo di comandanti temporanei ne avevamo già avuti ben tre, ma tutti quanti si facevano dare l’autorizzazione scritta della Duma e sparivano non si sa dove. Gli ufficiali, dunque, si sono radunati. Senza troppa convinzione hanno deciso di unirsi agli insorti, perfino di opporre resistenza alle truppe governative. Il Governo provvisorio era già stato formato. Hanno deciso anche di indossare, a differenza di chi non partecipava all’insurrezione, delle fasce rosse –all’inizio le volevano cremisi –sulle maniche. I reparti ormai non esistevano praticamente più. Non funzionavano più nemmeno le mense. Le compagnie erano disperse. Il maneggio era occupato. I mezzi erano andati a finire chissà dove. Un po’migliore era la situazione della nostra compagnia. I plotoni si erano organizzati in turni di vigilanza, in caso di allarme accorrevano tutti, anche di notte. Abbiamo organizzato delle pattuglie che fermavano le vetture in giro senza meta e le radunavano nel cortile della caserma. In questo modo si sono salvate un gran numero di macchine. Ma alle macchine abbandonate e congelate già avevano tolto le dinamo, il cui costo era molto diminuito dopo la rivoluzione. Per effetto dello strano, eterogeneo assortimento di armi, la compagnia aveva assunto il variopinto aspetto di un gruppo di liceali in armi. Di quei giorni restano due pellicole cinematografiche. In una si vede come diamo da mangiare ai piccioni nel cortile della compagnia, nell’altra un’uscita della compagnia in assetto da combattimento, con un’autoblindo Austin in testa e dietro i soldati e gli ufficiali con le sciabole sguainate. Con gli ufficiali non c’erano particolari tensioni. Il nostro comandante, il capitano Sokolichin, lo amavano tutti perché non maltrattava la compagnia e si dava un gran da fare per rifornirci di scarpe. Il primo giorno della rivoluzione gli avevano dato una pelliccia da autista senza gradi e una scorta armata di cinque persone, perché nessun estraneo gli facesse del male. A un altro nostro ufficiale, per strada, non avevano tolto le armi perché aveva la spada di San Giorgio conferita al coraggio. Sono cominciate le elezioni degli ufficiali, la compagnia delle autofficine ha chiesto la rimozione del comandante del battaglione. Sono cominciati gli intrighi per ottenere posti con l’aiuto dei soldati. Ma continuava, senza posa, il flusso delle truppe verso il Palazzo di Tauride, dal rumore dei passi sembrava che dovesse sfondarsi il selciato, il colore rosso era un luccichio ininterrotto. Il Soviet di Pietrogrado già si riuniva, ma ancora non c’era stato l’Ordine n. 1, e Rodzjanko era popolare tra i soldati. Ma erano riunioni in armi, tra grida e invettive. Per molti dei reparti arrivati al Palazzo di Tauride, quelli di Čcheidze e di altri erano i primi discorsi rivoluzionari che sentivano. Cosa pensavano della guerra? Mi sembra che credessero che sarebbe finita da sé; era una convinzione generale al momento dell’appello ai popoli di tutto il mondo. Ricordo che i soldati di ritorno dall’Operazione Albion, nell’arcipelago di Moonsund, dicevano che lì era già stato trovato un accordo con i tedeschi: non avrebbero sparato né loro né noi. Insomma, dominava l’euforia, si stava bene e c’era fiducia che quello fosse solo l’inizio della pace e del benessere. I volantini con l’Ordine n. 1 sono stati lanciati tra i soldati schierati nella piazza del Maneggio per una parata. Tutti hanno cominciato a salutare con: «Buongiorno, signor colonnello!» invece del vecchio «eccellenza», e lo facevano con lo spirito giusto, in tono cordiale e amichevole. Penso che l’Ordine n. 1, per quanto sembrasse anticipare gli eventi –di comitati politico-militari nei reparti ancora non ce n’erano –, sia stato assolutamente tempestivo e necessario. Non si potevano lasciare i reparti in mano ai soli ufficiali, che si erano appena ripresentati dopo una lunga assenza. I comitati, è vero, sono del tutto inadatti all’esercito, ancor più che i comandanti eletti, eppure erano l’unico modo per tenere in piedi l’esercito. L’aspetto più negativo dei comitati era che in brevissimo tempo perdevano il contatto con chi li aveva eletti. E i delegati al Soviet non si facevano vedere nei loro reparti per mesi. I soldati non erano minimamente informati di quello che succedeva nei Soviet. Giovava alla causa solo la fiducia enorme e non ancora sperperata di cui godeva la rappresentanza diretta dei soldati. Nel primo Soviet di Pietrogrado sono stati eletti in gran numero volontari e soldati istruiti, il che evidentemente accentuava il distacco. D’altra parte nelle caserme non lavorava quasi più nessuno, l’intelligencija si era data alla fuga, e non c’erano uomini disposti a occuparsi delle attività formative. In uno dei battaglioni del genio, mi pare il 6°, tra alcune centinaia di volontari se ne sono trovati meno di dieci che hanno dato la disponibilità a lavorare nelle scuole di alfabetizzazione. Per i più la rivoluzione non era che una licenza fuori programma. Nel comitato politico-militare del nostro reparto sono stati eletti dei comandanti di plotone e capomeccanici: il comitato aveva carattere essenzialmente pratico. Intanto, reggimento dopo reggimento, i soldati continuavano ad attraversare la Sala di Caterina del Palazzo di Tauride. Sui manifesti c’era ancora: «Fiducia al Governo provvisorio», e persino: «In guerra fino alla vittoria finale». Ma di combattere non eravamo più in grado. Mi riferisco, per il momento, alla sola guarnigione di Pietroburgo. Gli enormi reparti della riserva, che contavano fino a decine di migliaia di effettivi, ormai non mandavano più contingenti al fronte, ma anche in città avevano ben poco da fare, e senza armi non potevano difendere la rivoluzione: così se ne restavano a marcire e putrefarsi nelle caserme. Ancora nessuno pronunciava lo slogan: «Pace a ogni costo». Ancora non era tornato Lenin, i bolscevichi dicevano ancora che bisognava tenere il fucile pronto, ma la guarnigione ormai non c’era più, era solo un deposito di soldati. Tra le masse ancora divampava il fuoco della rivoluzione, ma non era la calda fiamma del carbone, piuttosto il focherello dell’alcol che non riesce a far bruciare la legna su cui è stato versato. Un focherello del genere era Kerenskij. La prima volta che ho visto Kerenskij era in preda alla sua isteria generalesca, quando, dopo un articolo delle «Izvestija» che lo attaccava, si è precipitato al Soviet dei soldati per chiedere se «avevano fiducia in lui». Urlava frasi incomprensibili, e davvero sembrava brillare con secche, lunghe, crepitanti scintille. Urlava con la faccia stravolta di un uomo che ha giorni contati, poi, sfinito, si è lasciato cadere su una poltrona. Ha suscitato un’impressione tremenda. La seconda volta ho visto Kerenskij dopo la mia nomina a commissario. Lo cercavo per consultarlo, e l’ho finalmente individuato davanti all’Accademia Navale. C’era la sua Locomobile grigia parcheggiata, così mi sono messo ad aspettarlo parlando con l’autista. «Adesso lo portano» mi ha detto quello. E in effetti, dopo qualche minuto, dall’Accademia hanno portato fuori Kerenskij. Era seduto, nella sua consueta posa esausta, su una sedia tenuta in alto sopra la folla. Sono salito con lui in macchina e ho cominciato a parlare. Labbra secche ed esangui, viso magro e livido, voce roca, ha detto stringendo debolmente i pugni: «Più di tutto contano la determinazione e la costanza». Mi ha fatto l’impressione di una persona ormai allo stremo delle forze, conscia di non avere scampo. Mi affretto a smettere di scrivere di quello che è già noto a tutti, per passare il prima possibile alla guerra. Come sono finito al fronte? È arrivato Lenin. Nelle officine del battaglione corazzato c’erano dei bolscevichi, iscritti al partito; hanno messo a disposizione di Lenin un blindato, che dalla stazione lo ha portato al palazzo della Kšesinskaja, occupato dal nostro reparto come residenza. Una parte del battaglione aveva simpatie molto marcate per i bolscevichi. Allora ero membro del comitato di battaglione, e con la mia scuola rappresentavo l’ala più propensa a una guerra difensiva contro i tedeschi. A questo punto devo introdurre un nuovo personaggio, Maksimilian Filonenko. A suo tempo era stato comandante delle officine dei mezzi corazzati, rivelandosi uomo di generosità impulsiva e a suo modo molto umano; poi era andato al fronte, pieno d’entusiasmo. Là non aveva avuto successo, si sentiva escluso, era incupito e non vedeva l’ora di tornare. È rientrato a Pietroburgo dopo la rivoluzione e ci ha messo radici. Quello che avveniva in città lo interessava enormemente di più che un ruolo di poco conto al fronte. Era un ometto con la casacca militare, i capelli corti, la testa piuttosto grande e rotonda che lo faceva assomigliare a un gattino. Ingegnere per formazione, sapevaquattro o cinque lingue straniere, ma soprattutto si compiaceva della sua pronuncia francese. Figlio di un importante ingegnere, aveva più volte ricoperto incarichi di responsabilità in grandi cantieri navali, e ogni volta li aveva lasciati dopo aver compromesso la sua posizione. Aveva buone qualità intellettuali, senza, però, il profumo del talento. Un primo della classe che avrebbe voluto essere genio. Il suo cuore non lo conosco, nei miei confronti nutriva sentimenti di amicizia e di affetto. Ma per fine non aveva altro che il proprio fine, e la sua stella era lui stesso. Tuttavia, non c’era una stella nel suo cielo, e invano lui continuava a cercarla. All’inizio aveva preso a frequentare il comitato di battaglione come ospite, e non c’è dubbio che nel deserto di uomini che era allora la Russia, in mezzo agli altri del comitato, apatici come pesci, lui avesse ogni agio di brillare. Poi ha iniziato ad accettare mansioni su richiesta di qualche compagnia, in prevalenza officine di mezzi corazzati, dove lo stimavano per il suo passato di servizio e da lui tolleravano quello che non avrebbero tollerato da nessun altro. Nella cupa penombra delle officine di montaggio, piene di blindati in condizioni mostruose, sopra ai quali, in mezzo ai fumi dei gas di scarico, si accalcavano gli stessi che nei giorni dell’insurrezione di luglio avrebbero abbandonato il proprio mezzo alla prima difficoltà, Filonenko intesseva i suoi viluppi dialettici, intelligenti e oculati, prensili e seducenti. Alla fine è riuscito a farsi mettere a capo di tutta l’area tecnica. Al fronte, nonostante glielo proponessero, non aveva nessuna voglia di tornare. Era stato coinvolto, come in seguito ho scoperto, in una brutta storia: un soldato frustato. Là era un uomo finito. Qui invece aveva scelto il giusto «angolo di attacco» e si preparava a decollare, come un aeroplano. La fiducia concessagli dal comitato di battaglione aveva del prodigioso: era stato eletto –a nome del comitato, non del reparto –al Soviet dei deputati. Va detto che di delegati al Soviet ce n’erano di ben più strani. Una volta tra loro ho incontrato un ebreo non privo di talento, il violoncellista Č., prima in servizio presso la banda musicale del reggimento Preobraženskij e ora rappresentante dei cosacchi del Don. Al Soviet Filonenko si è distinto per alcuni efficaci discorsi in polemica con Zinov’ev, e all’assemblea della guarnigione, dopo la sollevazione del reggimento di Finlandia, in aprile, ha difeso il governo di coalizione. Aveva apprezzabili qualità: immagine, volontà, chiarezza. E si capiva che avrebbe avuto un ruolo di peso. Allora il suo atteggiamento nei confronti del Soviet era della più assoluta lealtà. Ma aveva bisogno di una sua invenzione, di un’idea da brevettare; l’idea era quella di mandare al fronte commissari che prendessero parte di persona ai combattimenti. La proposta l’ha fatta a me e al compagno Anardovič. Ho accettato. Ero inquieto, mi mancava l’azione vera, e Filonenko mi si prospettava come persona competente e fedele alla rivoluzione. Ora qualcosa su Anardovič. Il compagno Anardovič, futuro commissario dell’Armata Speciale, era un operaio dei cantieri navali Sormovo di Nižnij Novgorod, ferito sulle barricate nel 1905. Di provata fede socialrivoluzionaria, aveva una grande influenza sui soldati delle officine e da solo aveva fatto uscire sedici o diciassette blindati pronti a combattere, quando compagni che si sono in seguito collocati ben più a sinistra di lui erano rimasti nella più assoluta inattività. Quest’uomo dal naso aquilino e dal volto energico era di una semplicità ed essenzialità commoventi. Scriveva versi strappalacrime alla maniera di Nadson, credeva alla missione del primo Soviet come un prete di campagna al messale, e alla rivoluzione era dedito senza timori né incertezze. La sua frase preferita era: «Semplice e chiaro ». Era capace di parlare per tre o quattro ore di fila, senza che niente potesse distrarlo. Come ho poi avuto occasione di constatare, sapeva gestire in modo eccellente le masse, senza alcuna paura, e sapeva imporre anche a una folla in subbuglio le proprie posizioni. Merita, fra l’altro, che ci si soffermi su di lui perché, nell’insieme dei commissari dell’esercito, Anardovič era l’unico di chiara estrazione operaia, un vero operaio appena prelevato dal banco di lavoro. Il comitato di battaglione aveva già esaminato e accettato la proposta di mandare al fronte persone che si impegnassero a prendere parte alla guerra, testimoni viventi delle capacità difensive della Russia democratica. Si erano proposti di partire tutti i non bolscevichi del battaglione. Ricordo come me ne stavo con la testa china, in pieno scoramento. Provavo la stessa sensazione di un operaio che, impigliato con un lembo della giubba alla cinghia di trasmissione, si sente trascinare via: oppone ancora resistenza, ma il cuore si è già rassegnato all’inevitabilità della morte. Sono stato mandato al fronte come terzo della lista: Filonenko, Anardovič, Šklovskij. Il battaglione ci ha sempre considerato, fino agli ultimi giorni di ottobre, suoi emissari, con un mandato preciso. Così mi consideravo anch’io, mentre Filonenko si è presto allontanato dal battaglione che gli aveva permesso di ottenere quell’incarico. È cominciata la complessa trafila per far approvare il nostro mandato dal Governo provvisorio, che mai su nulla aveva da ridire, e dal Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado –riverita accademia del tipo Fabio Massimo il Temporeggiatore –, che aveva sempre da ridire, ma non sapeva assolutamente cosa voleva. Il Comitato esecutivo non aveva la minima idea di che cosa fare dell’esercito. Essendosi contrapposto al Governo provvisorio –o meglio, avendolo esso stesso creato e a sé contrapposto –, non poteva né prendere provvedimenti né non prenderli, aveva in mano tutto il potere reale ma chissà in testa cosa aveva. L’esercito non poteva capire questa situazione, intricata nella miglior tradizione del socialismo scientifico: esigeva un comando, degli ordini. Al Comitato esecutivo di Čcheidze frotte di uomini accorrevano dai vari reparti chiedendo ordini. Per questo il Comitato esecutivo era già pronto ad accettare l’idea di commissari con duplice mandato. Quando ripenso a quello stato di cose, mi convinco che l’istituzione dei commissari militari si debba a Filonenko. Era passato molto in fretta dall’idea di persone mandate a dare il proprio esempio a quella di persone che comandassero –commissari militari. Perché la sezione militare del Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado ha accettato la candidatura di Filonenko? Penso che, per la totale mancanza di alternative, abbia dovuto chiudere un occhio e farselo andar bene. Sembra che un tempo fosse stato socialrivoluzionario, ma all’epoca della rivoluzione non aveva più legami col partito. Come suoi vice si sono messi in viaggio Anardovič e l’ingegner Cipkevič, anche lui con un passato da socialrivoluzionario, ma ormai, in sostanza, uomo «fuori dalla politica». Di Cipkevič ancora non ho parlato. Ne parlerò più avanti. Con il tempo ho avuto modo di convincermi del suo enorme talento organizzativo. Era un ingegnere, coordinatore dei processi produttivi. La rivoluzione, sovvertendo tutti gli schemi e i grafici, lo aveva turbato, e lui pensava di poterla regolare come se si trattasse di un motore o di una ferrovia. Io invece sono stato mandato come responsabile della propaganda. Ora spiegherò perché sono andato al fronte, perché ritenevo necessaria l’offensiva e perché all’offensiva ho partecipato. Ero a favore dell’offensiva perché consideravo la rivoluzione stessa un’offensiva. Per le mie convinzioni di allora, l’offensiva era possibile. Bisognava passare all’attacco, oppure piantare le baionette in terra e tornarsene a casa fischiettando. All’affratellamento col nemico non credevo, e avevo ragione. Il mio errore stava nel non capire l’impossibilità di un’offensiva avendo alle spalle questa sirena: un governo democratico con una coda borghese. Non si può combattere quando ci si combatte nelle retrovie. Ritenevo necessaria l’offensiva perché una vittoria delle forze repubblicane avrebbe rapidamente provocato la rivoluzione in Germania. Prospettiva ben più rosea che una rivoluzione sotto la scure della revanche. Bisognava attaccare finché ancora esisteva un esercito, ma sarebbe servito un governo unito, impegnato nella rapida attuazione di un programma minimo. E un’altra cosa. Gli alleati, che siano maledetti, non davano il loro assenso al nostro progetto di «pace senza annessioni né indennità»: parole abusate sui giornali, ma posso ben dire quanto sacre per ogni uomo in trincea, con i piedi spappolati dal fango e il collo roso dai pidocchi. Erano parole autenticamente sacre per i soldati scalzi. Quelli che le hanno rifiutate sono responsabili del sangue versato, delle lordure e delle crudeltà. Oh, se alla testa dei reggimenti di giugno avessimo potuto dispiegare il sacro vessillo di una guerra giusta, non dovrei adesso, miei cari compagni, piangere sulle vostre tombe. Ma sto tradendo i miei propositi: non voglio essere un critico degli eventi, voglio solo fornire un po’di materiale per i critici. Racconto gli eventi, e di me stesso faccio, per le generazioni a venire, un campione da laboratorio. Dunque, siamo partiti. Mi dispiaceva separarmi dalla mia compagnia, dalla nostra scuola, che avevamo portato a una perfezione senza precedenti per la Russia. La mia compagnia rimaneva in città, a logorarsi come tutta la guarnigione rivoluzionaria. Solo un po’più lentamente degli altri reparti. L’armeria, almeno, l’aveva conservata intatta. Ancora un ultimo ricordo su Pietroburgo. Il Soviet minore della sezione militare, che con un suo giornaletto assai moralistico si opponeva a Lenin di ritorno in patria, aveva pubblicato una risoluzione in cui si affermava che la propaganda leninista era nociva al pari della propaganda controrivoluzionaria. Lenin allora è venuto a spiegarsi al Soviet. È stato un giorno di grande turbamento. La sala era piena di delegati. Presiedeva il volontario Zavad’e. Lenin ha pronunciato il suo discorso con impeto elementare: i pensieri rotolavano come enormi ciottoli. Spiegando quanto fosse facile avviare una rivoluzione sociale, schiantava i dubbi innanzi a sé come un cinghiale abbatte i giunchi. Gli astanti, così incalzati, concordavano con lui e si sentivano invasi da qualcosa di simile all’angoscia. Ricordo un soldato barbuto che gridava all’indirizzo del Soviet minore: «Borghesucci!», «Figli di papà!», e reclamava: «Čcheidze presidente! Čcheidze!». Posso immaginare che guazzabuglio d’idee avesse in testa quel soldato.