martedì 10 settembre 2019


LE LACRIME DI MIO PADRE

Estratto da:“Le lacrime di mio padre.”
John Updike

" Ho visto piangere mio padre solo una volta. Fu alla stazione ferroviariadi Alton, quando ancora ci passavano i treni. Io stavo andando a Filadelfia: un viaggio di un'ora fino al terminal della Trentesima strada, per poi prendere, dalla stazione di Market Street, il treno che mi avrebbe riportato a Boston, all'università. Ero ansioso di partire, perché la mia casa e i miei genitori mi sembravano già in qualche modo irreali, mentre Harvard, con i suoi corsi pieni di speranze per il futuro e la ragazza con cui mi ero messo a partire dal secondo anno, diventava a ogni semestre più reale; rimasi sconvolto (uscii dai binari, per così dire) nel notare che mio padre, stringendomi la mano per salutarmi, aveva gli occhi lucidi di lacrime. Diedi la colpa alla stretta di mano: in diciotto anni non ci era maicapitata l'occasione di scambiarci un gesto simile, di indulgere in quel genere di contatto virile, cui eravamo arrivati con un po' d'incertezza solo di recente. Papà era più alto di me, sebbene io non fossi basso di statura, e tenendo la sua mano calda nella mia, mentre lui si sforzava di sorridere, mi resi conto che vedeva le cose da una prospettiva diversa. Io ero quello che se ne andava; lui mi guardava andar via. Io crescevo nella mia idea di me stesso; e per lui diventavo più piccolo. Mi aveva voluto bene, mi fu chiaro come non mai. Prima di allora non c'era mai stato bisogno di dirlo, e ora me lo dicevano le sue lacrime. “In precedenza, in tutti gli anni e in tutte le modeste avventure che avevamo condiviso, dominava la sensazione, nata da lui, che la vita fosse un imbroglio, un imbroglio nel quale, per un certo periodo, ci eravamo trovati insieme”.

LE LACRIME DI MIO PADRE

Marocco
 La litoranea saliva e scendeva con dolcezza, ma rispetto alle
autostrade americane era stranamente vuota. Le altre macchine comparivano minacciose e si avvicinavano come proiettili a cavallo della linea di mezzeria. Ai margini della carreggiata, isolate in tutto quello spazio inondato dal sole, bambinette in variopinti costumi berberi offrivano mazzi di fiori (viole? papaveri?) che noi non osavamo fermarci ad accettare. Di cosa avevamo paura? Una trappola. Banditi. Il rischio di pagare troppo o troppo poco. La nostra scarsa conoscenza del francese e l'ignoranza totale dell'arabo e del berbero. «Non fermarti, papà, non fermarti!» era il grido di prammatica; e in effetti, quando ci decidevamo a sostare in qualche mercato, incuriositi abitanti del luogo emergevano dal paesaggio circostante e si raggruppavano intorno alla nostra Renault a noleggio, scrutandoci e rivolgendoci inviti inintelligibili. Era il 1969, e noi eravamo una famiglia americana residente in
Inghilterra, partita per il Marocco nell'ingenua convinzione che quella meta, in aprile, ci avrebbe offerto la stessa autentica fuga verso il sole di un giro nei Caraibi dagli Stati Uniti orientali nello stesso periodo dell'anno. Ma Restinga, dove ci aveva mandati un'agenzia di viaggi britannica ignara quanto noi delle realtà climatiche, era deserta e ventosa. L'albergo, costruito di recente per decreto del re, progressista e favorevole al turismo, aveva una forma semicircolare. Di notte sbattevano le porte nei corridoi curvi, e un guardiano solitario in burnus vigilava sulle stanze vuote e sulla strana famiglia di americani giunti in anticipo sulla stagione. Di giorno c'erano troppe onde per fare il bagno, e il Mediterraneo, più che essere color del vino, aveva la tinta nera del petrolio. Camminando lungo la battigia ci sporcavamo i piedi di catrame. Quando ci sdraiavamo sulla spiaggia, il vento ci soffiava la sabbia nelle orecchie. In lontananza, venivano assemblati lentamente condomini di calcestruzzo rosa, e non mancavano i segni che di lì a un mese villeggianti arrivati da chissà dove avrebbero gremito le derelitte zone commerciali e i negozi sprangati. Ma per il momento c'erano solo il vento sferzante, un sole inutile e, isolati, oziosi e taciturni sullo sfondo, gli arabi. O si trattava di berberi? Uomini scuri, in ogni caso, con ampie vesti lunghe, che spaventavano Genevieve, la nostra bambina più piccola. Per quanto possa apparire incredibile, adesso che è così alta e bella nella sua luccicante tenuta da discoteca, all'epoca era una ragazzina sovrappeso di otto anni. Caleb ne aveva dieci, Mark dodici e Judith era una quattordicenne in boccio. «Je le regrette beaucoup» dissi al direttore dell'hotel di Restinga, un
giovanotto in maglione azzurro che vagava per l'albergo chiudendo le porte spalancate dal vento, «mais il faut que nous partirons. Trop de vent, e pas de bain de la mer.» «Trop de vent» concordò lui con unarisata, quasi rassicurato nello scoprirci meno folli di quel che eravamo sembrati.
«Les enfants sont malheureux, aussi ma femme. Je regrette beaucoup de partir. L'hotel, c'est beau, en été.» Avrei dovuto usare il congiuntivo o
il futuro, e smetterla con quei tentativi di giustificarmi.
Il direttore accordò la propria stoica benedizione alla nostra partenza, ma spiegò con una valanga di francese finanziario il motivo per cui non poteva rifonderci l'acconto pagato a Londra.
Perciò mi ritrovai con pochi contanti, una carta di credito della Hertz, quattro figli, una moglie e dei biglietti aerei che ci costringevano a
rimanere in Marocco per altri dieci giorni.
Andammo a prendere il pullman per Tangeri. Lo aspettammo in piedi,
a mezzogiorno, ai bordi di una strada deserta: sei americani smarriti, tozzi e vulnerabili nei loro abiti inglesi di lana, con le valigie piene di
indumenti estivi continentali comprati da Lilywhite e di libri Penguin da leggere in vacanza. I raggi del sole e il vento ci investivano in pieno. In entrambe le direzioni, la strada si dissolveva in un luccichio roseo. «Non riesco a crederci » disse mia moglie. «Mi viene da piangere.» «Non
spaventare i bambini» ribattei. «Cos'altro possiamo fare?» le domandai.
«Non ci sono taxi. E non abbiamo soldi.» «Ci deve pur essere un'alternativa» insisté lei. Per qualche ragione, il mio ricordo di quel momento l'ha immortalata con un berretto blu scuro che le stava malissimo.
«Ho paura» annunciò Genevieve abbracciando lo zaino, penosamente rossa e accaldata nello spesso cappotto grigio.
«Poppante» la schernì la sorella maggiore, che attirava gli sguardi dei
locali dovunque ci trovassimo e si sentiva dotata di un certo potere.
«Il pullman arriverà» promise Papà, scrutando al di sopra delle loro
teste il punto di fuga in cui la strada confluiva nella rosea confusione dei
nuovi edifici che il re stava facendo erigere con grande lentezza.
Un uomo magro e scuro, con un caftano sporco, si materializzò dal
nulla e ci parlò a lungo in una lingua dal suono nasale.
Protese i palmi delle mani come per farceli leggere.
«Papà, quel tizio si sta rivolgendo a te» disse Mark molto imbarazzato,
allora preadolescente e oggi specializzando in informatica.
«Lo so» replicai inerme.
«Che sta dicendo, papà?» chiese Genevieve.
«Vuol sapere se questa è la fermata dell'autobus» mentii.
Lo sconosciuto, continuando a parlare, si avvicinò, rivelando un alito
ricco di aromi musulmani: spezie del luogo, denti marci, membrane
inaridite da pii digiuni. Le sue osservazioni divennero più rapide e
incalzanti, ma la luce negli occhi iniettati di sangue si stava spegnendo.
«Digli di andarsene.» Il consiglio venne da Caleb, il nostro bambino
silenzioso, saggio, stoico, attualmente al terzo anno della facoltà di
zoologia.
«Credo che lo farà» azzardai, e in effetti l'uomo si allontanò, scuotendo
il capo scheletrito di fronte alla nostra apatica idiozia.
Sollevata, la nostra famigliola si strinse in un gruppo più compatto. Ilvento ci soffiava la sabbia nelle scarpe, e i corridoi semicircolari
dell'albergo abbandonato, la nostra unica dimora in quella terra
straniera, ci ululavano alle spalle come un rozzo strumento musicale dal
timbro profondo.
L'autobus! L'autobus per Tangeri! Ci sbracciammo, eccome se ci
sbracciammo, e il veicolo si fermò con un incredulo colpo di clacson. Era
dello stesso verde dell'erba avvizzita e mostrava, legati sul tetto, rotoli di
tappeti e polli dentro gabbie di assicelle.
Nell'abitacolo c'erano i marocchini: sconosciuti coperti di polvere, curvi
e pazienti, che portavano in capo minuscoli berretti lavorati a maglia e ai
piedi minuscole babbucce lavorate a maglia, i corpi mescolati ai fagotti,
le donne avvolte in drappi neri, alcune con il velo, tutte con gli occhi
accesi sollevati in allarmato stupore a guardare quell'irruzione di
americani grossi, paonazzi, puerili.
Il prezzo della corsa, pochi dirham, fu incassato con aria evasiva
dall'autista, che esibiva baffi alla Nasser e una mascella adeguata. C'era
spazio nelle ultime file. Mentre lottavamo per far passare le ingombranti
valigie lungo il corridoio, l'autobus sbandò, e io ebbi paura che potessimo
schiacciare con la nostra massiccia innocenza il fragile veicolo e il suo
carico in precario equilibrio. Verso il fondo dell'autobus, si faceva sempre
più intenso un odore indigeno, come di corda bruciata.
A Tangeri scambiammo il pullman barcollante con un unico taxi
sovraccarico, il cui autista, nell'ansia di sbarazzarsi di noi, entrò
nell'ufficio della Hertz e cercò di agevolare le trattative.
Il suo aiuto, sia lode ad Allah, non fu necessario: la targhetta di plastica
gialla della Hertz risolse tutto. Se fossi stato in grado di far balenare
anche il verde pallido di un'American Express, la nostra corsa piena di
suspense lungo la costa, da Tangeri a Rabat a Casablanca, e poi
attraverso le vie più anguste di El Jadida, Essaouira e Tafraout, sarebbe
stata assai più facile: in ogni albergo fummo costretti a implorare
l'impiegato perché accettasse un assegno personale emesso da una
banca di Londra, e nessun hotel, a parte i più cari, era disposto ad
assumersi il rischio; di qui i bizzarri intermezzi di lusso che punteggiarono
la nostra parsimoniosa fuga dai venti del Mediterraneo.
I viali di Rabat erano festonati di rosso mentre noi procedevamo verso
il centro. Accantonammo l'idea che gli striscioni scarlatti fossero un
benvenuto per noi quando notammo le falci e i martelli e i manifesti di
Lenin. Il sovrano, uomo di aperte vedute, si apprestava a ricevere una
delegazione sovietica di alto livello, di cui facevano parte anche Kosygin
e Podgorny, scoprimmo all'Hilton della città. L'albergo era così gremito di
comunisti da non poter ospitare nemmeno i più bisognosi tra i figli della
libera iniziativa.
Ma un hotel meno richiesto dai sovietici ci diede accoglienza, e a cena,
affamati, fummo messi a sedere in circolo su una pila di tappeti, intorno
a quello che nella memoria assume le forme di un immenso vassoio di
ottone, mentre una ridente ragazza scalza camminava in punta di piedi
alle nostre spalle spruzzandoci acqua di rose sui capelli. Mark, solleticato,
fece la sua smorfia da scimmia.Riprovammo la sensazione di essere serviti in modo magnifico con un
sottofondo di divertimento su un'alta prateria che dominava il mare,
dove, dopo chilometri di paesaggio deserto e stomaci vuoti, avvistammo
un piccolo ristorante, poco più di una tettoia, reclamizzato da un cartello
in legno a forma di freccia.
Parcheggiammo la Renault a noleggio e attraversammo il prato con
trepidazione, in fila indiana, sentendoci di nuovo enormi come quando ci
eravamo inoltrati nell'autobus odoroso.
Quando vedemmo uscire dalla baracca un uomo che reggeva un
tavolo, seguito da un ragazzo carico di sedie, ci fermammo. In un clima di
allegria generale, quegli arredi furono disposti sullo spiazzo erboso, nel
punto che noi indicammo con un gesto spensierato. Al momento giusto,
dalla capanna emersero vino, riso, kebab e Coca-Cola: li consumammo di
fronte all'Atlantico, davanti alle scogliere dorate e ai vasti pascoli in cui
brucava un solo asino. Per quanto ne sapevamo, eravamo gli unici
avventori mai ospitati in quel bellissimo ristorante sul mare.
Persino lungo l'accidentata strada secondaria per Tafraout, in mezzo
alle alture pietrose del Basso Atlante, con la spia della benzina che
segnava zero e non una casa, una pecora o una capra tra noi e l'orizzonte, una bimba in una cunetta della pista di terra battuta protese il braccio per offrirci una manciata di fiori.
In quel tratto il percorso della carrozzabile coincideva con il fondo sassoso di un corso d'acqua asciutto, perciò la nostra Renault procedeva
adagio, tanto che la piccola, quando si rese conto che non ci saremmo fermati, ebbe il tempo di frustare i paraurti con i fiori e di gettarli verso il
finestrino aperto dell'auto.
Uno o due caddero all'interno e ci piovvero in grembo. Il resto finì suiciottoli ai piedi della bambina. Nello specchietto retrovisore, la vidi
battere un piede a terra con rabbia. Forse si era messa a piangere.
Aveva all'incirca l'età di Genevieve, la quale espresse empatia e tristezza mentre la sua coetanea rimpiccioliva dietro di noi e spariva alla vista.
A Tafraout, Caleb non riusciva a smettere di fissare un uomo così deforme da sembrare un ragno: sgattaiolava sul terriccio compatto facendo leva sulle braccia e trascinando in mezzo a esse il corpo minuscolo. Non chiedeva l'elemosina, anzi, si aggirava come se fosse un
personaggio locale di una certa importanza, con degli affari urgenti da sbrigare.
A nord di Agadir, eravamo nelle stanze del nostro motel a tenere d'occhio il lento scivolare dei minuti che ci separavano dalla cena quando
ci rendemmo conto che fuori, lungo la strada, il traffico si era fermato. poliziotti prontamente arrivati stavano parlando con l'autista di un
camion polveroso, un giovane in abiti da lavoro a colori tenui, accasciato a testa bassa contro la cabina, che continuava ad annuire mentre gli agenti lo interrogavano. Il traffico era bloccato in entrambe le direzioni.
Rimanemmo sul nostro lato della carreggiata, semplici turisti, ma interessati all'accaduto. Era difficile capire cosa fosse successo.
Una delle ruote del camion nascondeva una specie di fagotto.
Approfittando della confusione scoppiata quando la polizia si mise incerca della madre, Mark attraversò la strada e guardò.
Quando tornò accanto a noi era pallido. Non fece la sua buffa smorfia da scimmia. Gli domandammo cosa ci fosse da vedere.
«Non un bello spettacolo» fu la sua risposta.
«Era una bambina» ci disse più tardi.
La madre, piccola di statura, con un vestito nero e senza il velo, si precipitava su e giù per i brulli pendii al di là della strada, squarciando il
cielo con i suoi strani gemiti, i suoi ululati, mentre gli uomini la rincorrevano per cercare di immobilizzarla.
Poiché non riuscivano a raggiungerla, gli inseguitori eccitati crebbero di numero, un codazzo di corpi maldestri che il dolore della donna, nella
sua forza sovrumana, le rimorchiava dietro.
Nessun americano sarebbe stato capace di urlare come lei; tutto il fiato contenuto nei suoi polmoni veniva scagliato all'insù, verso il firmamento che le aveva appena sferrato un colpo così poderoso e
improvviso. Le antiche tecniche della lamentazione la sorreggevano. Era un'esibizione talmente schietta e pura che distogliemmo lo sguardo. Non
avremmo dovuto assistere a quella scena in Marocco. Quando alla fine
due degli uomini afferrarono e bloccarono la poveretta prendendola per le braccia, lei crollò svenuta.
Trovammo il clima in cui avevamo sperato ad Agadir. Lì la spiaggia era ampia, ma sebbene il sole e il mare fossero caldi a sufficienza, quasi deserta. Cercammo altri vacanzieri per sistemarci vicino a loro, e non vedendone nemmeno uno, stendemmo i nostri asciugamani poco lontano dalla diga foranea. Judith vagabondò a qualche passo da noi, impacciata
e color bianco perla nel suo bikini, raccogliendo conchiglie e contemplando il mare, a una certa distanza dalla compagnia di genitori e fratelli.
Genevieve e Caleb si misero a costruire un castello di sabbia.
Mark si coricò supino con aria accigliata, concentrato sulla propria abbronzatura.
Ci accorgemmo solo in seguito dell'arabo sdraiato a una trentina di metri da noi, avviluppato in un'ampia veste, con il viso rivolto verso il
nostro gruppetto. La faccia scura e pentagonale rimase puntata nella nostra direzione: l'uomo ci fissava, incalzato da qualche silenziosa sofferenza, in preda a una congestionata avidità, dal mucchietto stropicciato e scorciato del suo abito. Genevieve e Caleb si zittirono
davanti al loro castello.
Judith si spostò più vicino a noi. Nessuno osò avventurarsi sulla riva invitante, in fondo alla desolata distesa di sabbia, attraversando il muto
scintillio dello sguardo dell'arabo. In un tono abbastanza sommesso perché i bambini non potessero sentirla, Mamma mi sussurrò: «Non guardarlo, ma quel tizio si sta masturbando».
Era proprio così. Tra le pieghe del vestito. Adocchiando Judith e noi.
Mi alzai con le ginocchia tremanti e organizzai una rapida ritirata dalla spiaggia. Quel pomeriggio stesso individuammo la piscina privata (l'ingresso costava appena un dirham) in cui tutti gli occidentali nuotavano e si abbronzavano, al sicuro dalla cultura circostante. Neicinque giorni che trascorremmo ad Agadir, andammo sempre in piscina.
Splendeva il sole e c'era poco vento. Avevamo scovato un piccolo albergo gestito da una vecchia coppia di francesi, ricoperto di buganvillea, con un pappagallo nel cortile e un menu all'europea.
Meno di dieci anni prima, il 29 febbraio del 1960, un terremoto aveva ucciso circa dodicimila persone e devastato gran parte della città. Non vedemmo tracce del disastro. Ad Agadir tornammo a far parte della classe media. Possedevamo di nuovo denaro contante. Avevo mandato un cablogramma alla mia banca di Londra, e loro avevano organizzato uno degli «accordi » tanto amati dagli inglesi con un istituto di Agadir. La sede della banca aveva una dignitosa facciata di granito, costruita dopo il 1960, ma l'atmosfera all'interno somigliava di più a quella di un recinto per il bestiame. Mercanti in abiti da pastori borbottavano aspettando di
fronte a una lunga e caotica serie di sportelli. Man mano che le transazioni giungevano al termine venivano gridati nomi in arabo.
Quando fu annunciato il mio, fu evidentemente specificato anche l'ammontare della cifra trasferita da Londra. I borbottii cessarono. Bruni
sguardi esterrefatti saettarono verso di me dal gruppo in attesa davanti al bancone.
Ero cresciuto fino a proporzioni immense, un portento, un mostro di
ricchezza. Arrossendo mentre infilavo le banconote color pastello nel mio logoro portafogli, volli giustificarmi: «Ho dei figli da sfamare».
A Genevieve piaceva dar da mangiare ai cani che bazzicavano il nostro albergo. Gli animali domestici forestieri sono strane creature: a pensarci bene, capiscono il francese o l'arabo meglio di noi. E non somigliano mai molto ai loro simili americani: hanno gli occhi inclinati in modo differente, camminano in maniera diversa. La maggior parte delle nostre diapositive, scoprimmo poi, ritraeva quelle bestiole in immagini sfuocate.
I bambini si erano impadroniti della Nikon.
Riuscimmo a fuggire da Agadir, dal Marocco, per un pelo. Su un mappamondo grande come un pallone da basket, la distanza che
superammo l'ultimo giorno corrisponderebbe alla larghezza dell'unghia di un pollice. Nell'ufficio della Air Maroc ci dissero che non c'era posto per sei persone su nessun volo tra Agadir e Tangeri, dove avevamo un
albergo pagato per la notte e prenotazioni sull'aereo per Parigi della mattina dopo. Non potevamo far altro che ripercorrere in automobile il
tragitto che avevamo impiegato giorni a compiere, cinquecento miglia, ottocento chilometri, lungo il margine nordoccidentale dell'Africa.
Partimmo all'alba. Ci eravamo procurati una grossa borsa di arance e delle bottiglie di Perrier. Guidavo io, Papà, un'ora dopo l'altra; Mamma si
rifiutava di prendere il volante in Marocco, o forse le condizioni del noleggio glielo impedivano. Voi ragazzi, pigiati sul sedile posteriore della piccola Renault, ve ne stavate in silenzio, consapevoli, alla maniera dei
bambini, del vero pericolo, della reale emergenza.
In qualche cittadina minuscola e polverosa, forse a Safi, mi sfuggì un semaforo e attraversai l'incrocio con il rosso. Echeggiò un fischio, e nello specchietto retrovisore, con la stessa nitidezza con cui avevo visto la bambina dei fiori battere il piede a terra, scorsi un vigile col casco biancoche annotava con calma il nostro numero di targa. La chiazza bianca del
copricapo rimpicciolì alle nostre spalle. Lo sguardo dell'uomo ci seguì. Mi si strinse lo stomaco. Ma la strada proseguiva diritta, e i pedoni nei polverosi costumi locali continuavano a occuparsi con indifferenza delle loro faccende. Ancora un giorno e saremmo stati sani e salvi a Parigi; inoltre il semaforo era piazzato in una posizione assai infelice, molto di lato, e nascosto da alcuni cartelli pubblicitari. Continuai criminosamente a guidare. I maschi di casa acclamarono; la parte femminile della
famiglia rimase incerta.
«Magari si sarebbe limitato a sgridarti un po'» disse Genevieve.
«Nemmeno per sogno» dissentì Mark. «Avrebbe sbattuto papà in chissà quale orribile gattabuia infestata dai topi e dai pidocchi.» «Io il
semaforo l'ho visto» soggiunse Mamma in tono mansueto «e pensavo l'avessi visto anche tu, caro.» «Grazie tante» feci io, con voce meno mansueta.
«Io non l'ho visto» intervenne Caleb, il nostro consolatore nato, maestro nell'arte del compromesso. «Forse era giallo, e poi è scattato.»
«Chi l'ha visto e pensa che fosse giallo?» domandai pieno di speranza.
L'unica risposta fu il silenzio.
«Chi l'ha visto e ha notato di che colore era?» «Rosso» esclamarono in coro tre voci.
«Ma cosa volete che faccia? Che torni indietro a cercare di giustificarmi con quel poliziotto? Je regrette beaucoup, monsieur, mais je n ai pas vu le, la lumi...» «No!» proclamò un secondo coro, dal quale Mamma si astenne.
«Hai già preso la tua decisione» disse Judith, quasi con un accento da adulta.
«Premi l'acceleratore, papà» mi esortò Mark.
Eravamo già nella periferia della cittadina, e non si vedevano automobili della polizia lanciate all'inseguimento. I verdi pascoli deserti e la strada liscia e vuota ci reclamavano. La lunga lotta per percorrere la costa si ripeteva all'inverso. Ecco il piccolo ristorante nel prato sulla scogliera. Ecco il punto dove nessuno aveva voluto mangiare i panini al
fegato preparati per noi da un tizio guercio su una graticola a carbone ai bordi della carreggiata. Ecco Casablanca, che non somigliava affatto alle
immagini del film. Ed ecco Rabat. Avevano tolto gli striscioni rossi; i russi se n'erano andati. Ormai era tardo pomeriggio, e Papà aveva i muscoli del collo indolenziti, si sentiva gli occhi pieni di sabbia ed era sicuro che il numero di targa della macchina fosse stato telegrafato a tutte le località
della costa attraverso la rete di polizia segreta mantenuta da ogni monarchia.
Da un momento all'altro le sirene si sarebbero messe a strepitare e le autorità l'avrebbero arrestato, e gettato fino al collo nell'amara realtà del Marocco, una realtà che aveva tentato di ignorare
rubacchiando il sole e l'esotismo del luogo.
Oppure i poliziotti lo stavano aspettando alla reception dell'albergo di Tangeri, dopo aver seguito le tracce del suo nome da Restinga,
attraverso una serie di soste di una notte, fino alla ricevuta firmata allabanca di Agadir. O magari la scena melodrammatica si sarebbe svolta all'aeroporto: manette al controllo passaporti. Oh, perché non mi ero fermato al suono del fischietto?
Se il mio francese non fosse stato tanto rudimentale, forse mi sarei fermato.
Se non avessimo letto pochi giorni prima, su una copia di «Newsweek» trovata all'albergo del pappagallo, un articolo sugli americani innocenti che marcivano nelle prigioni dell'Africa e dell'Asia, forse mi sarei fermato.
Se gli Stati Uniti non fossero stati impegnati in una guerra così insostenibile, eppure così inestricabile, contro il Vietnam, forse mi sarei fermato.
Se non fosse stato per le bandiere rosse a Rabat, per l'uomo che sinmasturbava sulla spiaggia, per la bambina morta accanto alla ruota del
camion... il mio errore, diniego o atto di vigliaccheria continua a sussistere, ed è una macchia sui miei ricordi del Marocco.
Era buio quando entrammo a Tangeri, e per arrivare all'hotel bisognava superare un labirinto di viuzze a senso unico, ma l'impiegato
della reception aveva le nostre prenotazioni debitamente registrate, e nessun mandato d'arresto da consegnarmi.
Il re in persona non avrebbe potuto dimostrarsi più affabile con dei turisti; il fattorino con i capelli grigi (che sembrava Omar Sharif) sorrise
nell'accettare la mia insalatina di banconote locali; i camerieri al ristorante dell'albergo si profondevano in inchini, come se fossimo gli
unici clienti. Il che, a quell'ora, era quasi vero: per compiere il tragitto avevamo impiegato quindici ore. Ci eravamo mangiati tutte le arance e
bevuti l'intera scorta di Perrier. L'indomani mattina ci separammo con una certa tristezza dalla nostra fedele Renault, che non ci aveva mai
tradito e che restituimmo coperta di polvere. I dipendenti della Hertz,
contro la cui targa era stato commesso un peccato così enorme, alzaron a malapena lo sguardo dal conto destinato ad arrivare a Londra un mese
dopo, trasmesso dall'ozono di numeri che ammanta il nostro globo.
L'avevamo scampata.
Ricordate Parigi, ragazzi? Alle Tuileries, nella fredda primavera dei giardini in boccio, ci stringevamo ancora gli uni agli altri.
Sul sedile posteriore della Renault non c'era posto a sufficienza per quattro, e perciò uno di voi, di solito Genevieve, doveva stare piegato in avanti, alitandomi nell'orecchio. Mamma, vicino a me con la cintura allacciata, distribuiva acqua e arance; Caleb e Mark discutevano
instancabilmente su chi «stritolava» chi; Judith, accanto al finestrino, si
sforzava di perdersi nelle proprie fantasticherie. In Marocco avevamo raggiunto il massimo della compressione familiare, e da quel momento in poi potevamo solo disperderci. Siete cresciuti, ve ne siete andati, avete
assistito al divorzio dei vostri genitori: nel decennio successivo è accaduto tutto questo. Ma su un'alta piattaforma sfolgorante della Torre Eiffel sentivo che eravamo ancora uniti, destinati, mi sembrava, a
rimanere insieme per sempre.Archeologia personale
Nel suo crescente isolamento - anziani compagni di golf morti o moribondi, i vecchi contatti d'affari ormai sfilacciati, nessun ufficio dove
andare, la moglie sempre fuori per il bridge o per qualche comitato, i figli
indaffarati e preoccupati come lui quand'era un uomo di mezza età -
Craig Martin cominciò a interessarsi alle tracce lasciate dai precedenti
proprietari della sua tenuta. Nella fase più attiva della vita, il periodo in cui durante la settimana lavorava dieci o dodici ore al giorno e passava
l'intero weekend a socializzare, aveva quasi ignorato quei terreni. Erano
passati anni senza che neppure mettesse piede in certi angoli. I dieci acri
di terra servivano a isolare la casa dalle intromissioni dei vicini e costituivano un investimento per il giorno in cui sarebbero stati venduti,
con ogni probabilità a un imprenditore immobiliare, e il profitto sarebbe
andato alla vedova di Craig, Grace, di sei anni più giovane di lui.
Il luogo, a quanto aveva capito Martin, era rimasto fino al 1900 circa un'altura boscosa in fondo a una proprietà terriera.
Poi un uomo ricco e non più giovane, approdato tardi al matrimonio, aveva costruito un'ampia dimora di campagna per sé e la sua sposa su
quella che in passato era una meta di picnic attorniata da rocce e macigni, facendo abbattere abbastanza alberi da garantire la vista sull'Atlantico, lontano cinquecento metri.
C'erano vecchie strade nella tenuta, sorrette da muri di contenimento costruiti con grosse pietre grezze, strade troppo ripide e dalle curve
troppo strette per qualsiasi automezzo a motore. Dovevano essere stati i cavalli a trainare i veicoli su per quei tornanti, attraverso quei tenaci tunnel di vegetazione; gli alberi sono restii, persino dopo decenni, a mettere radici nel terreno compattato dalle ruote. In piedi sull'orlo di uno
dei numerosi dirupi di granito in suo possesso, Craig immaginava di veder procedere verso di sé scricchiolanti barrocci di campagna e sferraglianti carretti tirati dai pony, con le sottili ruote raggiate che
arrancavano a fatica lungo gli avvallamenti, ormai invasi dalla salsapariglia, in cui lui credeva di riconoscere le tracce di vecchi tracciati
stradali, per portare a un picnic nei boschi più alti, lassù, oltre il punto
dove si trovava, ragazze in mussoline estive e copricapi adorni di fiocchi
e giovanotti in pantaloni di tela bianca e cappelli di paglia.
Ma un secolo prima il territorio del Massachusetts era per lo più brullo,
esposto al sole e al vento, rasato da pecore e mucche al pascolo. Forse Craig immaginava scenari del tutto sbagliati.
La strada tortuosa finiva dritta contro una parete irta di monoliti rocciosi; come avrebbe fatto a inerpicarsi sul resto dell'altura?
Nei pressi della casa, gli affioramenti di granito offrivano testimonianze
enigmatiche. Qui e là si scorgevano fori artificiali, praticati, si sarebbe
detto, per ancorare cancelli di ferro o robusti tendoni. Una veranda con vista mare era marcita molto tempo prima, e lo stesso Craig aveva sostituito il fatiscente portico a colonne sulla facciata della casa, di fronteal vialetto asfaltato circolare che una volta, coperto di ghiaia, serviva a
far girare le carrozze.
Nei boschi si trovavano ammassi di rocce scabre seminascoste dai rampicanti: quanto restava, a parere di Craig, dei detriti prodotti dalle
esplosioni per scavare le fondamenta dell'edificio.
Nei primi anni del ventesimo secolo giravano da quelle parti squadre di muratori appena arrivati dall'Italia, impegnati a costruire muri giganteschi che stavano crollando a poco a poco, pietra dopo pietra. Una
notte era franato un intero settore della parete di contenimento che sosteneva le più ambiziose aiuole fiorite di sua moglie, spargendo, oltre
a terra e fiori, anche cenere, di quella prodotta dalle caldaie a carbone, e un cumulo di vecchi barattoli e lattine. Il sottosuolo del giardino era una discarica di immondizia e residui di combustione. E allora, quando era stato creato il giardino? Più tardi di quanto pensasse Craig, forse, nello
stesso periodo a cui risalivano le colate di cemento per le basi delle serre, ormai affossate e coperte da strutture di legno marcio, da pezzi di stucco sgretolato e vetri frantumati.
Secondo Craig, la proprietà era passata per quattro fasi prima della sua. All'inizio c'era stato il periodo della creazione e della manutenzione perfetta, quando era ancora vivo il novello sposo ricco ed entusiasta:
all'epoca, domestici carichi di cesti pieni di biancheria fumante andavano e venivano tra i lavatoi di pietra dello scantinato e il cortile esterno in mattoni dove stendere i panni, e le gronde di cedro ben oliate convogliavano l'acqua piovana nelle docce gorgoglianti verso tubature
interrate perfettamente funzionanti. Poi quell'uomo felice era morto, e la
vedova, assai più giovane di lui e più attratta dal bel mondo di Boston che dalla solitaria casa sulla collina, aveva imposto alla tenuta un
dominio assenteista, durante il quale una parete della sala da pranzo ricoperta di una pittoresca tappezzeria francese stampata a mano si era rovinata per via delle infiltrazioni d'acqua invernali e le graziose verande,
appendici esposte alle intemperie con le loro colonne e balaustre, avevano ceduto pian piano alle bufere e ai venti di nord-est. Quindi era
seguita un'era in cui, morta anche la vedova, la casa era rimasta vuota.
Forse l'incuria e i guasti andavano attribuiti soprattutto a quell'interregno, conclusosi alla vigilia della Seconda guerra mondiale,
quando una giovane famiglia in crescita aveva preso possesso dell'edificio, trasformandolo in una residenza stabile. I nuovi proprietari avevano installato un impianto di riscaldamento centrale, ricavato uno
studio rivestito in legno di pino da un angolo del grandioso salone anteriore, fatto ristuccare i camini di mattoni e sostituire le assicelle del tetto che perdevano.
Lo scoppio del conflitto aveva interrotto le migliorie. Il capofamiglia si era arruolato in marina ed era salpato per l'oceano, visibile dalle finestre
finché non erano state schermate con la carta dell'oscuramento.
L'eroe, tornato con il grado di contrammiraglio, aveva vissuto in quella casa fino a ottant'anni, quando ormai tutti e cinque i figli si erano
trasferiti con le loro famiglie in abitazioni proprie.
Craig datava a quest'epoca lunga e animata la maggioranza delle cianfrusaglie che trovava nei boschi: barattoli da conserva della Mason; vasi da fiori; cartucce di fucile; copertoni semiaffondati nel pacciame, con una piccola pozza oblunga di acqua sporca e giallastra all'interno; pezzi di tubi metallici sepolti; tratti di fil di ferro arrugginito, a testimonianza di qualche remoto progetto di recinzione. Le capanne costruite sugli alberi erano state poi abbandonate tra le rocce e i rami. Isolatori di porcellana e
cavi di rame chiusi nella guaina isolante evocavano il fantasma dell'elettricità; parti del motore di una motocicletta, velate di grasso
annerito, ricordavano gli anni in cui le vecchie e ripide strade facevano
da circuito per un giovane centauro.
Quegli acri di terra avevano assorbito molte fatiche: in mezzo a coppie di alberi ancora vivi, si sgretolavano cataste di ceppi tagliati per il fuoco, coperti di funghi e muffa; le scarpe di Craig, sfregando il suolo, riportavano in superficie sotto le foglie un lucente strato di carbonella,
residuo di antichi fuochi. C'erano fosse che sembravano scavate di proposito e dossi troppo regolari per essere naturali. Sopra i binari della
ferrovia, lungo una pista tracciata dagli intrusi a ridosso di un muro un
tempo squadrato in modo impeccabile e ora pericolosamente inclinato
all'infuori sul terrapieno aggredito dall'erosione, Craig aveva raccolto lattine di birra, involucri per le confezioni da sei bibite, schegge di vetro,
bottiglie di plastica indistruttibile. Nelle zone più basse della tenuta, dove
un ampio sentiero serpeggiava all'ingiù tra gli aghi di pino verso una
strada rialzata che alla fine avrebbe condotto i visitatori abusivi, attraverso varie proprietà private, fino alla spiaggia, si vedeva una vera e
propria nevicata di pallidi rifiuti in plastica: coperchi per i bicchieri di polistirolo, cannucce pieghevoli, contenitori per il latte. Nei suoi occasionali giri di raccolta con un sacco della spazzatura, Craig veniva
ricompensato dalla scoperta di bottiglie nostalgicamente spesse, nascoste tra i rovi e le erbe palustri, identiche a quelle da cui, nell'infanzia, beveva bibite di radici e gazzosa alla salsapariglia.
Intrusi, proprietari e ospiti avevano camminato su quella terra, per quanto scoscesa: vi avevano camminato e avevano lasciato il segno. Un
vecchio amico del precedente padrone di casa aveva raccontato a Craig un incidente avvenuto in una gelida serata di grandi bevute. Uno degli invitati a cena, malfermo sulle gambe, era salito in automobile e si era
subito schiantato contro il muro di grosse pietre che fiancheggiava una curva del vialetto d'asfalto. Il paraurti aveva scalzato un macigno a forma di molare (che ora giaceva nei boschi a qualche decina di metri di distanza), come se avesse estratto dal muro un unico dente, durevole testimonianza dell'errore di un attimo: un blocco troppo massiccio per
essere ricollocato al suo posto in quest'epoca smidollata. Quando Craig si era informato sui macchinari necessari per riparare il danno, gli avevano
detto che il peso della scavatrice avrebbe potuto distruggere il vialetto.
Lungo un pendio poco frequentato al di là di quel grande masso di granito, raccogliendo rami secchi, Craig aveva rinvenuto un guanto da lavoro semicarbonizzato, rigido come uno scoiattolo morto: sul retro si leggeva la parola SARGE, scritta con un tipo di pennarello che non era usato prima degli anni Sessanta.Chi era questo Sarge? Un membro di una squadra di operai, ipotizzava Craig, che aveva lasciato cadere sbadatamente il guanto ai margini una zona erbosa incendiata. Oppure un boscaiolo che, alimentando un
falò con la sterpaglia, si era accorto di avere una mano in fiamme e, in preda al dolore, si era liberato del guanto scagliandolo lontano. Più vicino alla casa, mentre rastrellava detriti di origine organica durante una pulizia primaverile, Craig aveva scorto la lucida curva bianca di un pezzo di ceramica sotto una forsizia troppo cresciuta e, scavando con le dita, si
era reso conto che si trattava del manico di una tazza da tè.
Ne aveva recuperati all'incirca sei frammenti; il delicato oggetto di porcellana, con il bordo d'oro, era stato rotto o lasciato cadere, magari da
un bambino che, per il timore o il senso di colpa, aveva poi seppellito le prove nel terriccio di una bordura di arbusti.
La qualità della tazza faceva pensare a una delle epoche più antiche, forse la quasi mitica era iniziale. La ceramica, a differenza del metallo o del legno, resiste al tempo e all'umidità.
Ma la terra, con il suo ciclo annuale di gelo e disgelo, può infine riportare alla luce ciò che il colpevole credeva di aver sepolto al sicuro e
nascosto per sempre.
I sogni di Craig, quelli che lo turbavano abbastanza da essere ricordati al risveglio, tendevano a tornare, come un cane torna a una preda
sotterrata, al periodo piuttosto breve della sua vita nel quale era rimasto impegolato in una sorta di duplicità domestica, di bigamia sentimentale.
C'erano la sua prima moglie, che in quelle visioni notturne assumeva una certa levigatezza di porcellana, e la donna che Craig avrebbe sposato in seguito, il cui disagio sembrava occupare parecchi angoli dello schermo
onirico mentre lui si affannava per restare aggrappato a tutti i pezzi del
puzzle umano. Curiosamente, nei sogni finiva sempre per perdere la seconda donna (la vedeva allontanarsi e svanire), e perciò provava un lieve shock riaprendo gli occhi e rendendosi conto che era Grace, e non Gloria, la sua prima moglie, a giacere accanto a lui nel letto dove
dormiva già da vent'anni. La confusione si dissolveva pian piano nel sollievo, e lui ricadeva nel sonno, come una benda vivente che si posa su
una ferita. I figli, ormai di mezza età, erano figure indistinte nel teatro dei
sogni, proteiformi presenze a una specie di festa affollata che si svolgeva a metà di una scala; il principale ingrediente del party, peraltro, non era
l'allegria, ma la sofferenza, una sofferenza cui si mescolava un'appiccicaticcia mistura di indecisione, messaggi stentati, scuse
inespresse e suspense a malapena tollerabile.
Craig si svegliava e scopriva che la festa era finita da un pezzo e che lui era un vecchio, i cui giorni inoffensivi trascorrevano su dieci acri di
terreno coperti dal pacciame irregolare delle precedenti generazioni. Di rado veniva invitato da qualche parte.
I party erano stati opportunità di corteggiamento e di esplorazione, una sequela di fine settimana legati gli uni agli altri che trascinavano
tutti i partecipanti in una baraonda vertiginosa; lui e i suoi amici erano nel fiore degli anni, e per quanto conducessero vite splendide e
divertenti, si aspettavano dal futuro novità ancora più meravigliose. Ineffetti esistevano due feste simultanee, a due livelli diversi: il livello esplicito, nel quale gli invitati discorrevano da adulti di politica locale,
problemi nazionali (correlati di solito a Richard Nixon), automobili, scuole per i figli, commissioni urbanistiche e ristrutturazioni domestiche, e il livello occulto, in cui uomini e donne comunicavano per mezzo di occhiate e sussurri, strette di mano ed esagerati scoppi di ilarità. Questo
secondo livello minava a volte quello superiore, e con esso la struttura in apparenza solida dei rapporti tra famiglie legate da intrecci profondi.
I cocktail erano arene letali, dove agli amanti bastava un mormorio per cancellare convegni e concordare aborti. Craig vedeva ancora con gli
occhi della mente la donna più giovane di lui, con la faccia e le braccia lisce, che in un corridoio del primo piano, davanti a un bagno, gli andava
incontro con le labbra protese in un bacio e gli diceva sottovoce «codardo» quando lui si ritraeva. Ma per ogni istante di quel tempo
remoto registrato in un ricordo consapevole, ce n'erano centinaia scivolati nell'oblio, che lottavano per riemergere alla coscienza nel
groviglio dei ricorrenti sogni sulle feste. Provava sempre la stessa sensazione: la paura del palcoscenico, un timore da scolaretto che il ruolo in cui stava recitando fosse troppo grande per lui, troppo eterno
nella sua portata.
Si svegliava con un senso di sollievo: il tumulto interiore scivolava via, mentre l'attuale moglie, assente dal letto, gironzolava già al pianterreno.
A volte Craig apriva gli occhi in un letto separato, perché in vecchiaia non poteva fare a meno di russare in modo disgustoso, e così si ritrovava
confinato nella stanza degli ospiti. Nel destarsi in quella camera, posa lo sguardo su un quadro appeso alla parete di fronte, un quadro che veniva dalla casa della sua infanzia, o meglio dalle numerose case
occupate in Pennsylvania dalla sua famiglia. Il dipinto, patetico e prezioso segno di cultura che la madre, se ricordava bene, aveva
comprato da un corniciaio per trentacinque dollari, raffigurava un paesaggio del Massachusetts, una serie di alte dune a Provincetown, con
un piatto triangolo d'acqua, un barlume di mare, incuneato tra i due pendii di sabbia più lontani. Era stata forse quell'immagine a condurlo da
quello stato a questo, a questa casa sulla cima di una collina con il suo modesto panorama dell'oceano a cinquecento metri di distanza?
Vari altri residui dell'infanzia erano approdati lì con lui: la ciotola per la schiuma da barba del nonno, con la sua iscrizione in caratteri gotici; un posacenere di rame ammaccato in cui il piccolo Craig aveva visto spesso
il padre spegnere i mozziconi delle sigarette Old Gold; una coppia di candelabri d'ottone, simili a rigidi tratti di corda, che la madre soleva disporre sul tavolo della sala da pranzo quando ospitava i suoceri giunti in visita dal New Jersey. Quegli oggetti erano stati insieme a Craig nell'abisso del tempo perduto, e sopravvivevano più inalterati di lui. Cosa significavano? Dovevano pur voler dire qualcosa, gravidi e carichi
com'erano del mistero della sua stessa effimera esistenza.
«Darei qualsiasi cosa per non averti sposato» diceva talvolta Grace nei momenti di rabbia o di cattivo umore. Nutriva rancore nei suoi confronti,
pensava Craig, e lo covava dentro di sé nel corso della giornata, per ilfatto che lui russava, sebbene evitarlo gli fosse impossibile quanto tenere a bada i propri sogni.
«Se solo avessi dato ascolto alla mia coscienza.» «La tua coscienza?» esclamava Craig. Codardo, gli tornava in mente. «Non so tu, ma io sono
molto felice. Sei stata una moglie meravigliosa. Meravigliosa.» «Grazie,
caro. Ma era tutto così sbagliato. Quella volta dai Ross, al piano di sopra,
il modo in cui mi sei piombato addosso nel corridoio: facevi paura, come un grosso lupo balzato fuori dall'ombra. Ti luccicavano i denti.»
«Luccicavano?» Non riusciva a immaginarselo. Aveva una dentatura
opaca e chiazzata dal tè; ma riconosceva che quello scintillio era un  particolare autentico e prezioso emerso dal profondo di Grace, che
forniva al suo passato una stella polare, un principio guida.
«Non dovrei dirtelo» soggiungeva lei arrossendo a occhi bassi «ma a volte penso di odiarti.» Ti odio: Grace ogni tanto lo dichiarava, per poi
rinnegarlo con il respiro successivo; ma Craig considerava sincera
quell'affermazione, strappata a fatica dall'accumulo compatto delle finzioni e dei compromessi quotidiani. Oltre ad amarci, ci odiamo a
vicenda, e odiamo persino noi stessi.
Un giorno, dopo la scuola, il suo ultimogenito gli aveva riferito in tono triste il colloquio in cui il figlio di Grace, un anno indietro rispetto a lui, gli
aveva confidato che i genitori si sarebbero separati. Craig si era sentito
male per quella noncurante rivelazione, sapendo che la notizia annunciata dal piccolo avrebbe presto coinvolto anche lui; quel figlio
fiducioso si trovava sull'orlo di un baratro pronto a spalancarsi, si accingeva ad affrontare una catastrofe provocata dal suo stesso padre.
Nel periodo che continuava a sognare, Craig non aveva paura del palcoscenico. Per quanto nel ricordo gli sembrasse strano, allora si
sentiva bizzarramente calmo e padrone di sé in mezzo allo scandalo, alle proteste, alle sofferenze. C'era uno psichiatra che lo incoraggiava. Sua madre, all'inizio indignata, aveva poi assunto un atteggiamento
filosofico, mettendo a frutto l'ironia postmoderna e la tolleranza da talk
show apprese guardando per ore la televisione. I figli si consolavano
pensando che un giorno, divenuti adulti, non sarebbero stati più così
inermi.
Quando abbandona la propria famiglia, un uomo guadagna una corroborante quantità di tempo. Craig si era trovato proiettato in una serie di situazioni nuove (risvegli all'alba in un letto sconosciuto, visite a uffici legali, soggiorni in albergo a centinaia di chilometri da casa) e aveva reagito come un attore che, dopo aver provato a lungo le battute ed essersi coscienziosamente preparato per il suo antipatico
personaggio, era in grado di interpretare il ruolo in modo egregio, a prescindere dal giudizio dei critici. Dunque perché adesso certi timori lo
assalivano nel sonno? Erano sempre esistiti in lui, e ora sollevavano il capo, come la sua morte.
Aveva fatto visita di recente a un vecchio amico, un robusto compagno di golf, ricoverato in ospedale per un attacco cardiaco.
Al giaceva a letto con dei tubi in bocca e nel naso che respiravano per lui. Il torace si alzava e si abbassava con meccanica regolarità, registratadai balzi delle linee verdi sul monitor appeso alla parete: uno show
televisivo, Le ultime ore di Al. Era avvincente, pur nell'esilità della trama,
con quelle linee di un luminoso verde sorbetto che saltellavano su e giù.
Le ciglia di Al, pallide e incrostate, palpitarono quando Craig parlò a voce
troppo alta, quasi si stesse rivolgendo all'amico dall'orlo di un precipizio.
«Grazie per tutte le risate, Al. Fai quello che ti dicono dottori e infermiere
e te la caverai.» La mano del malato, tumefatta come un guanto di
gomma gonfio d'aria, si era mossa al suo fianco sul lenzuolo candido.
Craig l'aveva presa nella propria, cercando di non spostare i tubi delle
flebo infilati nel polso. Era calda e serica come quella di una donna, non
avendo più impugnato una mazza da golf ormai da qualche anno, ma
sembrava inanimata persino mentre restituiva la stretta. I nostri corpi,
aveva pensato Craig, sono un residuo ponderoso che lo spirito si lascia
indietro.
Una delle case della sua infanzia era in campagna, con alcuni acri di
terreno intorno, e Craig, esplorando quei boschetti per conto proprio in
un pomeriggio solitario, aveva scoperto una vecchia discarica familiare:
un monacello, seminascosto dalla vegetazione, di bottiglie in vetro
stampigliate da scritte in rilievo solenni e durature come le epigrafi sulle
pietre tombali. Molte delle bottiglie erano rotte, sebbene il vetro fosse
spesso in misura sorprendente per gli standard moderni, una specie di
zucchero candito i cui bordi frastagliati creavano una terza superficie tra
interno ed esterno. Color malto, azzurro mare, verde berillo, giallo
ambra, di un bianco lattiginoso, i frammenti riportavano i nomi in rilievo
di bottiglierie locali ormai scomparse.
I liquidi racchiusi un tempo in quei frantumi non c'erano più, evaporati
o bevuti da qualcuno. Per quanto bene o male potessero fare quelle
bibite e quelle medicine, non ne era rimasto neppure l'equivalente di una
minuscola pozza sudicia dentro un vecchio copertone. Con la sua
testimonianza delle profondità del tempo, la catasta aveva suscitato in
Craig bambino lo stesso timore di un cumulo d'ossa; eppure,
nell'isolamento rurale in cui viveva allora, gli aveva anche offerto, in
quell'angolo poco frequentato del bosco, una sorta di compagnia
scintillante, piena di un'inconsapevole allegria.
Nella tenuta di sua proprietà, vagando armato di sacco per
l'immondizia tra i bassopiani al di là della roccia fuori posto e del guanto
carbonizzato, Craig scovò un certo numero di palline da golf semisepolte,
con la parte inferiore macchiata dall'immersione nella terra acida e il
rivestimento antigraffio che cominciava a imputridire. Ricordava come,
poco dopo essersi trasferito lì, quando ancora nutriva qualche speranza
nelle proprie capacità di giocatore, si metteva sul bordo del prato e tirava
qualche vecchia pallina (mai più di tre, per parsimonia) verso i boschi
sottostanti. Le piccole sfere sembravano librarsi all'infinito prima di
sparire tra gli alberi. Non si sarebbe mai aspettato di ritrovarle.
Segnavano, supponeva, l'inizio della sua era.Libero
«Ha degli occhi così belli.» Il giudizio l'aveva espresso la madre di
Henry, durante una delle sue visite nella città dove all'epoca vivevano il
figlio e Leila, entrambi sposati con altri.
Non poteva sapere della relazione tra i due, un rapporto che, come il
fuoco appiccato a un campo e sfuggito al controllo, tornava a divampare
ogni volta che credevano di averlo spento.
Ma Leila sapeva che lei era la madre del suo amante, e quella
consapevolezza doveva aver infuso una particolare vivacità, una luce
speciale dello sguardo, nei convenevoli scambiati con l'anziana signora.
Una volta era stata la madre di Leila a visitare la loro animatissima
cittadina, e Henry, guardando il profilo di quella robusta
ultrasessantenne alla festicciola organizzata per lei dalla figlia, si era
stupito che una persona tanto scialba e asessuata avesse potuto mettere
al mondo una simile bellezza, una dispensatrice di beatitudine maschile
così flessuosa e provocante.
La frase della madre di Henry aveva dato una specie di arcano
beneplacito alla passione del figlio, e in effetti le due donne
condividevano l'amore per la natura: entrambe conoscevano i nomi di
fiori e uccelli, e gli incontri tra Henry e Leila avvenivano spesso in un
posto disabitato, ai margini boscosi di una città poco lontana, un cottage
in riva al lago prestatole da un'amica spregiudicata e più vecchia di lei.
L'aria fresca di fine stagione e l'odore di muffa dei mobili estivi in tela e
giunco, del nudo materasso e del frigorifero spento cedevano il posto agli
aromi della loro calda nudità, mentre il lago scintillava fuori dalla finestra
e gli scoiattoli zampettavano sul tetto. Con Leila sotto di sé, Henry
riversava lo sguardo nei suoi occhi spalancati, che erano davvero belli:
iridi nocciola con pagliuzze verdi e di un bruno rossiccio a circondare le
nere pupille dilatate dall'ombra della testa di lui. C'era un lucernario nel
cottage, e Henry ne vedeva il contorno rettangolare, frastagliato dai
rametti e dagli aghi di pino caduti, riflesso nell'umida convessità degli
occhi di Leila, sbigottiti e affascinati.
La madre di Henry non aveva mai avuto molta simpatia per la nuora:
Irene era troppo sofisticata, troppo rispettabile, troppo stoica. Per lui
aveva rappresentato un passo avanti, l'ingresso in una famiglia di ricchi
avvocati, funzionari di banca e professori, ma nella persistente società in
miniatura del nido coniugale le concessioni di intimità da parte di Irene
erano misurate, e lo divennero sempre più. Henry cercò di frenare
altrettanto i suoi appetiti, godendosi la propria crescente freddezza, la
propria interpretazione via via più spontanea di un individuo ben
allevato. La madre, le cui ambizioni per il figlio traevano forza dalle
speranze irrealizzate per se stessa, vedeva quella limitazione domestica
e se ne risentiva; il suo rancore incoraggiava Henry quando, più
intensamente con Leila che con parecchie altre, deviava dal cammino
della fedeltà e inalava a pieni polmoni l'aria umida e selvaggia della vitaall'aria aperta.
Umidità: Henry non aveva mai dimenticato la giornata di ottobre piena
di sole, ma fredda, in cui Leila, dopo essersi di colpo spogliata, si era
esibita in un perfetto tuffo in avanti nel lago (il sedere un repentino cuore
bianco, diviso a metà, al centro del campo visivo di lui), lanciandosi dal
pontile con piattaforma galleggiante non ancora smantellato. Era
riemersa con la testa minuscola e fradicia come quella di una lontra,
battendo le ciglia ed esclamando: «Uuuuh !» «Non sei morta?» le aveva
domandato Henry, in piedi tutto vestito sulla piattaforma traballante,
guardandosi intorno ansioso alla ricerca degli sconosciuti intenti a spiarli
che i molti alberi autunnali potevano nascondere.
«E pura estasi!» aveva risposto lei, facendo una smorfia per non
battere i denti. «Se hai il coraggio di buttarti. Avanti. Vieni, Henry.»
Fendendo l'acqua, aveva allargato le braccia e inarcato il corpo all'insù in
modo da esporre i lucenti seni nudi.
«Oh, no» si era schermito lui «ti prego.» Eppure, per come vedeva
quella competizione erotica, non gli restava altra scelta che sfilarsi gli
abiti, lasciandoli piegati in un punto ben lontano dagli spruzzi, e
arrischiarsi a un goffo balzo, capace di fermargli il cuore, nell'acqua nera
del lago. Quando tornò a galla, le rosee foglie degli aceri rossi,
accartocciate a forma di piatte imbarcazioni, gli fluttuavano accanto agli
occhi; sentiva il corpo sommerso gonfio e ardente, quasi l'avesse colpito
un fulmine. Con un efficace crawl, Leila si stava allontanando da lui verso
il centro del lago, i piedi dai tendini in evidenza che scalciavano verso
l'alto una schiuma bianca. Henry, ansimando per riprendere fiato, nuotò
a cagnolino fino al pontile, e dalla sua prospettiva ribassata vide gli alberi
intorno a sé come le pareti di un pozzo d'oro, un cerchio che lo
racchiudeva nel punto centrale di quel cielo circoscritto. Era uno dei
momenti, aveva l'impressione, in cui la vita raccoglie i frutti messi in
serbo dalla natura. Ecco la vera salute: quella testolina bagnata, quei
luminosi occhi da lontra, quel corpo di donna a sua disposizione, seni
piccoli e soffice cespuglietto, una volta che l'elettricità gli defluì dalle
vene e i teli di spugna portati dalla previdente Leila asciugarono loro la
pelle.
Ma persino allora si intromise un mondo meno salubre.
Henry si chiese se Irene gli avrebbe annusato addosso l'acqua nera del
lago con i suoi detriti di foglie morte. Si sarebbe chiesta perché aveva i
capelli umidi. Henry non era tagliato per l'adulterio, non quanto Leila,
perché non sapeva abbandonarsi al presente senza riserve, buttandosi in
avanti per afferrarlo. Il beneplacito della madre non lo salvò dalla
gastrite, e da un'infausta diagnosi del suo medico: «Qualcosa la sta
divorando».
L'esattezza della frase sbigottì Henry; il suo desiderio di Leila era una
sorta di bestia feroce. Gli balzava addosso nei momenti più inaspettati, e
lo rosicchiava nel buio. «Il lavoro» mentì.
«Non può rallentare un po'?» «Non ancora. Devo arrivare al prossimo
livello.» Il dottore sospirò (non c'era modo di capire, dalle labbra strette e
stanche, quanto sapeva o ipotizzava) e soggiunse: «Nel frattempo,Henry, deve sforzarsi di vivere a questo livello. Rinunci a qualcosa. Si sta
dando troppo da fare». Le ultime parole furono pronunciate con un'enfasi
in cui Henry percepì un che di misterioso, come nell'inattesa benedizione
di sua madre.
L'aria stessa, si illudeva a volte, si librava sollecita sopra di lui,
sovrintendendo al suo destino, mentre lui brancolava nella nebbia.
Si ritirò dalla raccolta fondi organizzata dalla sua chiesa, di cui era uno
dei responsabili. Questo e la rinuncia al caffè e alle sigarette gli
alleviarono leggermente i disturbi allo stomaco, ma il fastidio non cessò
fino a quando Leila all'improvviso, per motivi che non spiegò mai,
confessò l'adulterio al marito Pete. Prima della fine dell'anno, i due
coniugi si trasferirono in Florida; nel giro di qualche altro anno, arrivò la
notizia del loro divorzio.
Il matrimonio di Leila era sempre stato un mistero per Henry. «Mio
marito non ha bisogno di me» aveva detto lei una volta, con gli occhi
pieni di rare lacrime, fissando lo sguardo su un punto dietro di lui. «Ha
bisogno del mio buco del culo.» Henry non era riuscito a credere fino in
fondo a quanto aveva sentito, e non aveva osato chiedere chiarimenti.
C'erano molte cose, gli sovvenne in seguito, che non voleva sapere.
Sebbene la vita gli avesse accordato promozioni sul lavoro, vacanze in
Florida e nel Maine, nipotini, e, con l'aiuto di Irene, un'interpretazione
ancora più convincente dell'individuo ben allevato, non ci fu più un altro
amore ferino; certi fuochi lasciano solo terra bruciata.
Poi Irene morì di cancro non ancora settantenne, e lui si ritrovò libero.
Grazie agli amici, gli amici bene informati ai quali non si può sfuggire,
aveva seguito le tracce di Leila, e sapeva che era di nuovo nubile, dopo
altri due matrimoni: il primo con un uomo più vecchio di lei da cui aveva
ereditato un po' di denaro, il secondo con uno più giovane che
naturalmente si era rivelato inadeguato. Henry si procurò il suo indirizzo
e le scrisse un biglietto proponendole di andarla a trovare. Lui e Irene
avevano l'abitudine di trascorrere due settimane in Florida a metà
dell'inverno, alloggiando presso la loro locanda preferita (più amata da
Irene che da lui) su un'isola al largo della costa del Golfo. La locanda
profumava di pino, di teak e di vernice, e nei lunghi corridoi erano appesi
tarponi atlantici e pesci spada impagliati insieme a fotografie di vecchie
battute di pesca e danni provocati dagli uragani; sugli ampi pianerottoli
esposti al sole c'erano bacheche con collezioni di conchiglie i cui cartellini
curvi e riarsi mostravano scritte dall'inchiostro assai sbiadito.
Quel posto emanava l'odore dell'epoca in cui la Florida era un luogo
remoto, il paradiso un po' spartano dei ricchi, e non ancora la casa di
riposo e il luna park della grande democrazia americana. Eppure, dalla
morte di Irene, dopo i due anni di agonia condivisa, di peregrinazioni da
un ospedale all'altro, di speranze alimentate, disattese e infine sostituite
da una risoluta disperazione, dopo i mesi postumi di sollievo, dolore e
stordimento indotto dal persistere dell'assenza, Henry esitava ad
abbandonare gli itinerari tracciati dalla moglie per i loro viaggi.
La locanda si trovava sulla costa ovest, sotto Port Charlotte, e il
condominio di Leila sul litorale est, a Deerfield Beach, sopra FortLauderdale: perciò fu un viaggio difficile, prima verso sud e poi verso est
in direzione del sole, portato a termine a costo di enormi sforzi nel
paesaggio ammantato dalla boscaglia delle Everglades. Il traffico e la
ressa della costa orientale (i numerosi automobilisti aggressivi con la
pelle scura, i quartieri di case a un solo piano col tetto bianco che si
stendevano per chilometri sui piatti acri di sabbia) lo disorientavano. La
vecchiaia, stava scoprendo, portava con sé un aumento delle incertezze.
Non ci si poteva più fidare di strade, cartelli, specchietti retrovisori, né
della propria capacità di improvvisare. Henry chiese indicazioni tre volte,
tenendosi alla larga dai giovani nelle vie assolate e accostando la
macchina ad anziani cauti e scontrosi, prima di rintracciare il condominio
di Leila; strizzando gli occhi individuò l'ingresso giusto e il punto dov'era
nascosto il parcheggio dei visitatori. Si ritrovò in una corte quadrangolare
circondata da edifici a tre piani; ogni palazzina si affacciava sull'interno
con un solarium schermato da zanzariere. Stringendo in mano il foglietto
dove aveva scarabocchiato l'indirizzo, lesse su una porta a pianterreno il
numero corrispondente a quello appuntato. Quando l'uscio si aprì allo
squillo del campanello, Henry ebbe qualche difficoltà a collegare la Leila
dei suoi ricordi e della sua immaginazione alla donna minuta, con il viso
color nocciola solcato dalle rughe, apparsa sulla soglia.
Aveva preso parecchio sole negli ultimi trent'anni.
«Henry caro» esclamò Leila in un tono di conferma più che di saluto.
«Sei in ritardo di oltre un'ora.» «Il viaggio è stato più lungo di quel che
pensassi e ho continuato a girare e girare a un paio di isolati da qui.
Scusami tanto.
Lo dicevi sempre che non sapevo organizzarmi.» Dal modo in cui Leila
teneva la faccia immobile e rivolta all'insù, dedusse che avrebbe dovuto
baciarla; si rese conto all'improvviso di non averle portato nemmeno un
regalo. La natura della loro vecchia relazione prevedeva che lui le offrisse
solo il proprio corpo, e lo stesso valeva per lei. La guancia di Leila era
secca e ghiaiosa sotto le labbra, ma calda, come il cuscinetto della
zampa di un cane.
«Non posso lamentarmi perché si è raffreddato il pranzo» osservò Leila
«visto che c'è insalata di pollo, nel frigorifero.
Cominciavo a pensare che non saresti più venuto.» Più di una volta in
passato Henry le aveva dato buca, per qualche contrattempo improvviso
sul lavoro o per i suoi doveri domestici. Il fatto che l'ira di Leila non
durasse a lungo, né avesse mai provocato una rottura definitiva,
denotava che stranamente Henry esercitava su di lei un potere non
diverso da quello che lei aveva su di lui. Quante cose erano cambiate da
allora? Nella voce di Leila non percepì quasi alcuna traccia di accento
meridionale, solo una lieve erosione della spigolosità tipica del New
England. I suoi modi, invece, sembravano alquanto spigolosi. Era
diventata una di quelle donne viziate, reduci da troppi matrimoni, pronte
a dire la prima battuta brusca e sgarbata che salta loro in mente,
prendere o lasciare, come se la sfrontatezza fosse un vezzo piacevole? I
suoi vestiti (pantaloni lavanda, camicia di seta color pesca con i primi
due bottoni slacciati, sandali bianchi con la zeppa, unghie magenta)avevano la spavalderia della Florida, uno stile che una sua coetanea non
avrebbe osato adottare da nessun'altra parte.
«Ti prego di perdonarmi» ripeté Henry, deciso a giocare la carta della
cortesia finché l'andamento del gioco non fosse stato più chiaro. Per
tutto il lungo tragitto aveva continuato a battergli forte il cuore, al punto
da fargli temere un attacco di fibrillazione, e il suo panico era andato
crescendo mentre perlustrava i quartieri di Deerfield Beach, con i loro
prati di un verde innaturale e le piante ornamentali di limoni. Adesso, in
presenza di Leila, lo pervadeva una sorta di lucida calma, un senso di
sospensione, come gli succedeva quando Irene peggiorava di colpo, o
durante le ultime notti interminabili, in cui non poteva fare altro che
stare sveglio, tenerle la mano e somministrarle morfina e frammenti di
ghiaccio. Si era comportato in modo davvero meraviglioso, gli avevano
confidato gli amici una volta finita quell'agonia. Dal suo punto di vista
aveva semplicemente agito in modo corretto, obbedendo a una delle
poche frasi rimaste tuttora immutate nei voti nuziali: «nella salute e nella
malattia».
Si rese conto dello sciabordio alle sue spalle. C'era una piscina al
centro della corte attorniata dai condomini, e le portefinestre aperte
della casa di Leila ne lasciavano entrare i rumori insieme a quelli dei
piattelli che scivolavano sul cemento, dei motori d'automobile mandati
su di giri, delle palme mormoranti nella loro trance antidiluviana, dei
bicchieri e del ghiaccio che tintinnavano su un vassoio da qualche parte,
in un'altra stanza protetta dalle zanzariere e affacciata sugli ampi spazi
comuni. Il ricordo del piccolo lago di Leila, del suo corpo bianco che
fendeva l'acqua fredda, indusse Henry, mentre la guardava ondeggiare
davanti a sé sulle calzature sgraziate verso la zona pranzo, a riconoscere
che era rimasta snella, sebbene gli anni avessero ridistribuito il peso a
metà della figura e allentato i muscoli delle braccia abbronzate. Portava i
capelli sale e pepe tagliati corti in quel clima caldo, aderenti al capo
ordinato, al collo agile da nuotatrice. La bestia di un tempo era ancora
viva e si agitò pigramente dentro di lui, irritandogli lo stomaco; in
un'improvvisa dissoluzione del resto delle loro vite, Henry si sentì a
proprio agio con quella donna, mentre i loro corpi si muovevano in modo
quasi irreale tra le sedie impagliate, i tavolini dai ripiani di vetro, i mobili
che esalavano il lieve sentore di muffa di un'estate perpetua. «Ti ho
sempre perdonato» disse Leila. Perdonato per cosa? Perché se la
scopava? Perché dopo se ne andava sulla propria macchina, sollevando
la polvere della strada silvestre, quasi in preda al panico?
Davanti all'insalata di pollo innaffiata con il vino bianco e alla torta di
limetta della Florida accompagnata dal tè freddo, si aggiornarono a
vicenda su buona parte dei decenni di separazione.
I mariti di lei, la tragedia coniugale di lui, i figli di entrambi dispersi da
una parte e dall'altra, gli inevitabili acciacchi, le prevedibili rinunce con
cui cercavano di rimanere in forma e conservare il più a lungo possibile
la sensazione di stare bene. Li accomunava una forma di vanità, pensò
Henry, in merito alla propria salute fisica.
«Perché hai raccontato tutto a Pete e ti sei trasferita al Sud?» ledomandò infine. «Lo hai fatto per sfuggirmi? Non c'era altro modo?» Leila
reagì come se avesse dimenticato l'episodio e le costasse fatica
rievocare un'epoca così lontana. «Oh... avevamo parlato spesso della
Florida, e poi capitò il lavoro adatto per lui. Io dovevo fare piazza pulita.
Tu eri il sudiciume sotto il letto. Caro Henry, non guardarmi con quell'aria
così triste. Era il momento giusto.» Quando la vide girarsi, gli tornò in
mente il profilo della madre di lei; quello di Leila era ormai identico.
Leila, notò Henry osservandola parlare e muoversi, si era involgarita,
come accade alle donne che non hanno granché di cui occuparsi se non il
proprio corpo e il proprio denaro. Eppure una certa volgare bramosia per
la vita faceva parte di ciò che un tempo amava in lei. Aveva desideri
semplici e immediati. Bastarono due ore per dirsi tutto: né lui né lei
erano mai stati inclini a lunghe confidenze o complicate confessioni. Le
rispettive situazioni apparivano ovvie a entrambi, e il loro tempo insieme
era stato troppo intenso, troppo raro, troppo scandalosamente rubato per
lasciare posto a molto più della meraviglia e del possesso.
Ora, mentre le ombre si infittivano nel patetico appartamento,
arredato con mobili di metallo e acquerelli comprati al centro
commerciale, mentre il sole calante filtrava tra le tende di giunco,
illuminando la stanza dove Leila e il suo ospite sedevano immobili al
tavolo di vetro davanti ai bicchieri di nuovo pieni di vino bianco, Henry fu
pervaso da un invisibile disagio; non era abituato a restare solo con lei
così a lungo, fino al pomeriggio inoltrato. Il suo stile era stato scopa e
fuggi.
Leila si alzò e rimase saldamente in piedi, scalza. Si era sfilata gli
scomodi sandali, e i cinturini le avevano lasciato segni rossi sulle caviglie
ossute e tramate di vene azzurre. Trent'anni prima erano tramate di
vene azzurre e con i tendini in evidenza. «Che ne dici di una nuotata?»
gli propose.
«Così tardi?» «E il momento migliore del pomeriggio» replicò lei.
«L'aria è ancora tiepida, i bambini sono rientrati, le sedute di idroterapia
per i disabili sono finite.» Si portò la mano alla spalla, come per
cominciare a spogliarsi.
«Non ho il costume.» «Ne puoi usare uno di Jim. Ne ha lasciati qui tre o
quattro.» Leila rise. «Dovrai allentare un po' l'elastico della cintura. Jim
era solo un ragazzo. Si tamburellava gli addominali con le nocche
aspettandosi che io ne fossi estasiata.» Anche Henry si alzò, lieto di
essere, una volta di più e senza fretta, accanto a Leila, con la sua piccola
bocca seria, il labbro superiore invecchiato e ridotto a un ventaglio di
minuscole rughe, e i begli occhi, scintillanti come gemme su un foglio
stropicciato, vivide testimonianze nocciola del desiderio della madre di
far vivere il figlio, di farlo essere uomo, in vece sua. L'invito lo colmò di
panico. «Io...» Anche lui era stato infedele, non meno di Leila con gli
addominali di Jim, con i soldi del marito precedente, con Pete e il suo
modo di usarla. Per due anni si era coricato al fianco di Irene, sentendo
crescere la malattia come se fosse uno dei loro figli. Era rimasto sveglio
nell'ombra del silenzio di lei, stupito dalla pura, inaccessibile bellezza del
suo stoicismo. Nel buio le sofferenze di Irene sembravano emanare unaluce incandescente.
Verso la fine, negli intervalli in cui la nebbia degli analgesici si
dissipava, gli rivolgeva la parola con un tono che non aveva mai usato
con lui, con leggerezza, quasi stesse parlando a un bambino poco
conosciuto con il quale fosse destinata a trascorrere un lungo
pomeriggio. «Penso che forse ci hanno solo preso in giro» gli aveva
confidato una volta. «E se non ci fosse una gita in Paradiso ad
attenderci?» Oppure ancora: «So che ti annoiavo, ma non sapevo come
altro comportarmi». Nel suo sconcerto per le lacrime del marito, gli
sfiorava i capelli, non osando carezzargli il volto.
«Farò meglio a tornare» annunciò Henry a Leila.
«Dove?» domandò lei.
Alla locanda che Irene aveva amato, con i pesci impagliati e le
conchiglie senza nome conservate con cura, alla sua spartana comodità.
Alla sensazione di pace che provava nell'immaginare la moglie ancora
accanto a sé. Dal giorno della sua morte se la sentiva avviluppata
addosso come un sudario intessuto d'oro e d'argento.
«Dovevi sempre tornare» disse Leila. Pronunciò la frase senza rancore,
con un tono pensieroso, inclinando vivacemente il capo dalla chioma
ordinata quasi per mettere in risalto la persona che era: una vecchietta
tuttora decisa a cogliere le sue opportunità, a giocare le proprie carte.
«Ma adesso sei libero.» Nel soggiorno di Leila, Henry si vedeva già fuori
dalla porta, sotto un cielo circoscritto, rettangolare questa volta. Lo
aspettava un lungo viaggio, con il sole del tramonto negli occhi,
attraverso la grande palude della Florida meridionale. «Be', cos'è la
libertà, in fondo?» domandò. «Suppongo sia sempre stata una
disposizione d'animo. Ripensando a noi due, forse eravamo liberi quanto
più non si potrebbe.»La passeggiata con Elizanne
La loro classe si era diplomata alla scuola superiore di Olinger nel
1950, pochi anni prima che il nome dell'istituto venisse cancellato in
seguito al nuovo ordinamento regionale. Sebbene il 2000 comparisse,
com'era inevitabile, nelle previsioni e nelle battute dell'annuario
scolastico, nessuno credeva davvero che un'epoca così futuristica
sarebbe mai divenuta il presente. Ai loro occhi di diciassettenni e
diciottenni, la cinquantesima riunione di classe appariva incredibilmente
remota. E adesso eccola lì, invece, nella sala per ricevimenti del
Fiorvante, un ristorante nella zona ovest di Alton, a meno di un
chilometro dal maestoso ospedale cittadino dove molti di loro erano nati
e dove una loro compagna era ricoverata per una grave malattia.
David Kern e la sua seconda moglie Andrea, sposata con lui da
abbastanza tempo per non essere più un'estranea a quei raduni
scolastici, andarono a visitare l'inferma, Mamie Kauffman, nella stanza in
cui si trovava da sei settimane con le ossa troppo crivellate dal cancro
per poter camminare. Viveva da sola in una casa acquistata quarantanni
prima insieme a un marito defilatosi da un bel pezzo, nella quale aveva
allevato tre figli con il suo salario di maestra elementare. Biglietti di
pronta guarigione e disegni firmati da varie generazioni di alunni
riempivano le pareti e i davanzali della camera. Mamie era com'era
sempre stata, vivace ed espansiva, sebbene non fosse neppure in grado
di mettersi a sedere.
«Che valanga di affetto ha suscitato la mia situazione» dichiarò alla
coppia. «Mi autocommiseravo, immagino si dovrebbe dire, e non mi
sentivo abbastanza amata finché non mi è successo tutto questo.»
Raccontò di essere scesa dal letto e di aver avvertito uno schiocco
all'anca, e poi di essere andata a schiantarsi in un angolo come una
bambola di pezza: di là aveva cercato di raggiungere il telefono, che per
fortuna era sul pavimento, con il bastone. Lo usava già da un po', per
rimediare a quella che i medici avevano definito artrite reumatoide.
All'inizio voleva chiamare la figlia, Dorothy, a due città di distanza.
«Ero così arrabbiata con me stessa: non ricordavo più il numero di Dot,
anche se lo faccio un giorno sì e uno no; e poi mi sono detta: "Mamie,
sono le due e mezza del mattino, non ti serve il numero di Dot, quello
che ti occorre è il numero delle emergenze. Hai bisogno di
un'ambulanza". Sono arrivati nel giro di dieci minuti, e non potevano
essere più gentili. Uno dei paramedici, ho scoperto, era stato mio allievo
vent'anni fa.» Andrea sorrise e osservò: «Che bella cosa». In quella
camera d'ospedale iperdecorata, Andrea appariva giovane, energica,
efficiente, affabile; David era orgoglioso di lei. L'aveva portata via a
un'altra tribù, in uno stato diverso dalla Pennsylvania.
Mamie cercò di parlare delle proprie sofferenze. «A volte mi sento un
po' irritata con il Signore, ma poi me ne vergogno. Dio non ci manda
tribolazioni senza darci la forza di sopportarle.» Nella devotaPennsylvania, si rese conto David, la gente elaborava teorie filosofiche.
Dove abitava lui, un ateismo incontrastato lasciava le persone ad
affrontare il dolore con lo stoicismo muto e chiuso in se stesso degli
animali. Più erano intelligenti, meno avevano da dire in punto di morte.
«Sto rileggendo Shirley MacLaine» continuò Mamie «dove dice che la
vita è come un libro, e il nostro compito è capire in quale capitolo ci
troviamo. Se questo è il mio ultimo capitolo, devo prenderlo per quello
che è, ma sapete, ho un sacco di tempo per riflettere standomene qui
sdraiata e...» Nel viso largo e gentile, pallido quasi quanto la federa del
cuscino, gli acquosi occhi azzurri di Mamie vacillarono, facendosi mobili e
asciutti. «Ma io non credo che sia così» terminò con coraggio.
Persino costretta a letto, rimaneva una maestra, meglio informata del
suo uditorio e desiderosa, per un'abitudine di tutta la vita, di impartire
una lezione. «Non ho paura della morte» disse ai due coniugi in visita,
tutti in ghingheri negli abiti eleganti scelti per l'incontro con gli ex
compagni. «Sento nel profondo del cuore che... che...» Che cosa? pensò
David, ansioso di scoprirlo, ma pur sempre consapevole del tempo che
passava. Veniva da quelle parti così di rado, ormai, che a volte si
perdeva sulle strade nuove, anche se doveva spostarsi solo di un paio di
chilometri. La riunione non li avrebbe aspettati.
«Che le cose si risolveranno» concluse Mamie. Percepì l'anticlimax, se
non addirittura il senso di delusione, e agitò la mano in un circolo
esasperato, con il braccialetto color carne dell'ospedale e il tubo
dell'endovenosa. «Che quando arriverà il momento, io sarò ancora lì. Qui.
Capite ciò che intendo?» I coniugi in visita annuirono in un fervido
unisono.
«È di arrivarci» ammise Mamie «che non sono troppo impaziente.
» «No» concordò Andrea, rivolgendole il suo vivido sorriso pieno di
salute. Portava un completo di lana grigia, i cui ampi risvolti la facevano
sembrare più formosa del solito.
David frugò dentro di sé alla ricerca di qualcosa da dire, ma aveva la
lingua intorpidita dai ricordi di Mamie, dai tempi dell'asilo in poi: la bimba
dal faccino tondo accompagnata al campo giochi asfaltato dalla madre
altrettanto paffuta, sebbene le altre mamme avessero ormai rinunciato a
scortare i figlioletti; la studentessa solerte che sapeva tutte le risposte,
ma non le imponeva mai all'insegnante o ai compagni, che non esigeva
attenzione, ma era pronta a brillare quando veniva interpellata; la
ragazza pompon e la rappresentante di classe; la giovane donna
semplice e vivace. Come David, era figlia unica, frutto dello scarso
raccolto della Depressione. Come lui, aveva imparato a intrattenersi da
sé con i passatempi tipici dei figli unici: il disegno, la lettura, gli album di
ritagli. Nelle recite di classe e negli spettacoli scolastici, Mamie
impersonava sempre la parte della sorella minore birichina, mentre
David, per qualche motivo, interpretava il ruolo del padre, con i capelli
cosparsi di borotalco.
Adesso non ce ne sarebbe stato bisogno; era ingrigito e poi incanutito
presto, come sua madre.
Mamie aveva ripreso a parlare: «Perciò mi dico: "Mamie, smettila dilamentarti. Hai avuto una vita meravigliosa, e tre figli splendidi, e non è
ancora finita". Dot si è offerta di prendermi a vivere con sé, però io non
voglio imporle la mia presenza, non nello stato in cui sono. Anche Jake mi
ha proposto di trasferirmi da lui in Arizona. Pensa che il clima secco mi
gioverebbe, ma cosa ci farei là a guardare il deserto dalle finestre senza
poterle aprire per via dell'aria condizionata? La cosa buffa - questo ti
divertirà, David, ti è sempre piaciuta l'ironia - è che il centro di
riabilitazione in cui entrerò è proprio quello dove sta mia madre.
Non saremo nello stesso reparto, ma non è ironico? Ho abitato a due
isolati da lei per quasi tutta la vita, e adesso starò al piano subito sotto il
suo».
L'annuario del 1950 non aveva previsto che qualcuno dei loro genitori
sarebbe stato ancora vivo nel 2000. «Santo cielo... tua madre deve avere
almeno novant"anni» osservò David.
«Novanta e rotti. Chi l'avrebbe detto, sapendo quanto fumava?
E non le dispiaceva nemmeno bere, di tanto in tanto.» «E sempre stata
molto gentile con me» ricordò lui. «Anche se tu non c'eri, potevo
fermarmi a casa tua ad aspettare che mio padre avesse finito con le sue
attività extracurricolari a scuola.
Giocavamo a ramino insieme.» «Diceva sempre: "David farà strada, e
arriverà lontano".» Nella memoria, David rivide la madre di Mamie
seduta al tavolo della cucina come la solitaria abitatrice di una casa
popolare scorta di sfuggita da un treno in corsa: un pennacchio di fumo
che saliva dalla Chesterfield nel posacenere di vetro, un ventaglio di
carte in mano, un bicchiere con un liquido colorato vicino all'altro gomito.
Aveva gomiti pallidi e segnati da profonde fossette, e con la figlia aveva
in comune i capelli ricci castani e le labbra piene, loquaci, dagli angoli
girati all'insù. Nonostante l'allegro benvenuto con cui entrambe
accoglievano le visite di David, c'era una specie di polvere malinconica
sui mobili, una sorta di tristezza nascosta. Vivevano in una villetta
bifamiliare con un lato privo di finestre: quelle sul fianco opposto davano
sulla casa dei vicini, a meno di due metri di distanza. Il capofamiglia, un
gracile operaio addetto al tornio, taciturno al punto da rasentare la
scortesia, tornava dal lavoro tardi, alla sera. Il temperamento solare di
Mamie, la sua affaccendata letizia al liceo (lunghi corridoi lucidi, attività
organizzate, il flusso della giovinezza regolato dal suono della
campanella) esprimevano anche il sollievo della fuga. Come il padre di
David, che insegnava lì, Mamie si era creata una seconda casa nell'ampio
e casto ambiente comune. La simpatia di David per lei non era mai
sconfinata neppure nel più blando degli approcci sessuali.
«A proposito di strade e di posti dove arrivare...» disse David.
«Sì» concordò in fretta Mamie, riprendendo il suo tono vivace «dovete
andare. Mi sento morire all'idea di non esserci; avevo giurato che sarei
venuta a costo di presentarmi sulla sedia a rotelle. Ma i medici dicono
che non è possibile. Divertitevi un sacco, voi due. David, non dimenticare
di complimentarti con Sarah Beth per le decorazioni e le coccarde. Ha
lavorato come una schiava per procurarsi tutte quelle cose nei colori
della nostra classe.» Sarah Beth, una ragazza timida e ossutatrasformatasi in una vecchia rinsecchita e aggressiva, aveva davvero
sgobbato come una schiava. L'effetto era abbagliante: una profusione di
bordò e giallo canarino, composizioni floreali negli stessi colori su ogni
tavolo, le pareti stipate di foto ingrandite scattate più di cinquant'anni
prima, che ritraevano scolaretti in pantaloni alla zuava e bambine coi
codini, e poi adolescenti in scarpe bicolori e gonne a pieghe e ragazzi in
giubbotti di pelle e camicie di velluto a coste. I maschi avevano un'aria
vagamente minacciosa, con le loro pettinature gonfie e imbrillantinate e
le sigarette esibite con ostentazione, una senza filtro infilata dietro
l'orecchio e il pacchetto dal contorno squadrato che traspariva dalla
tasca della camicia. Anche le ragazze, con lo spesso strato di rossetto e i
capelli striati di biondo, mostravano una grinta da vamp, il fermo
proposito di conquistarsi la loro parte nella vita.
Adesso, sebbene quella vita si fosse pressoché conclusa, la sala della
festa riecheggiava del chiasso degli esseri umani, di saluti allegri e
battute antiquate: «Dio, sei brutto come sempre!
E il tuo amico chi è? O è una pancia, questa?» Sarah Beth, che in
assenza di Mamie si ritrovava investita del ruolo di organizzatrice
principale, si avvicinò a David e lo prese per un braccio, distogliendolo
dallo studio delle fotografie appese alle pareti per condurlo di fronte a
una donna elegante, con gli occhi neri lucidi e i capelli della stessa tinta,
tagliati corti e illuminati da raffinati colpi di sole.
«Lo sai chi è questa?» domandò Sarah Beth. Pronunciò le parole in
tono così aggressivo che a David si bloccò il cervello.
I lineamenti della donna misteriosa, nel volto liscio e paffuto, avevano
una nitidezza da gufo, e le sopracciglia corvine, modellate in una linea
decisa, le davano un cipiglio corrucciato, anche se sorrideva con aria
speranzosa, cercando di suggerirgli in silenzio la propria identità
attraverso i decenni. A David tornarono in mente i tragitti a piedi verso la
scuola elementare, quando Barbara Moyer e Linda Rickenbacker gli
rubavano il berretto e la cartella foderata di plastica per poi tenere
entrambi con destrezza fuori dalla sua portata, finché le lacrime non gli
bruciavano gli occhi e lui si precipitava nella direzione opposta in preda
alla collera; e allora le due ragazzine lo rincorrevano per restituirgli il
maltolto.
Adesso, una volta di più, le femmine facevano comunella contro di lui. I
secondi trascorrevano lenti. Le sessantasettenni o sessantottenni dal
viso florido hanno tutte una vaga somiglianza familiare. Balbettò (un suo
vecchio problema, superato ormai da un pezzo) cominciando a sillabare il
nome di una ragazza, Loretta Haldeman, che non poteva essere quello
giusto, si rese conto a metà della risposta farfugliata, perché alla
riunione di cinque anni prima Loretta portava degli occhiali montati in
metallo con una lente opaca; un occhio non le funzionava più. Questa
donna dallo sguardo austero e luminoso gli veniva presentata come una
delizia, una leccornia, una rarità. Sarah Beth gli fornì un indizio: «E la
prima volta che viene a una delle nostre riunioni». David si sforzò di
ricordare quale, tra le compagne più popolari, avesse sempre esasperato
le organizzatrici dei raduni disertandoli regolarmente, non presentandosiper cinquant'anni, e così, grazie alla capacità di deduzione più che
all'abilità nel riconoscere una fisionomia, individuò il suo nome:
«Elizanne!» Era un nome diverso da tutti gli altri, che bisognava
pronunciare, avevano imparato da bambini, cominciando con una E,
come l'enigmatica sillaba «et» nella parola «Chevrolet». Rivelava una
madre ambiziosa e volitiva, incurante di stigmatizzare la figlia con un
nome del genere in una contea tanto conservatrice.
Elizanne fece un passo avanti per essere baciata; David mirò alla gota,
anche se lei sporse le labbra come per ricevere il bacio sulla bocca. «Che
bello averti qui» le disse con aria un po' vacua.
Elizanne non era una delle ragazze più appariscenti della classe,
sebbene fosse invecchiata meglio della maggior parte delle compagne.
Indossava un abito di seta color petrolio, sobrio, costoso e dallo stile
cittadino; il marito, l'accessorio più importante, era alto e socievole, con
un vago accento del Sud: un uomo d'affari, in pensione o quasi. I due si
avviavano insieme, immaginava David, verso un meritato viale del
tramonto pieno di viaggi programmati all'estero, cure ai nipotini e
soggiorni in centri benessere: gli agi dell'americano laborioso, modellati
su quelli delle coppie anziane di bell'aspetto nelle pubblicità per il Viagra
e gli integratori a base di ferro. Elizanne, gli diceva il suo intuito, aveva
fatto strada. Il volto di lei mostrava, insieme al rapido sorriso riservato di
cui ora gli sovveniva il ricordo (un sorriso che balenava e subito si
spegneva), una sicura consapevolezza di sé, una solida identità sociale
momentaneamente accantonata per l'occasione, come una giacca
maschile ripiegata e riposta nel vano superiore di un aereo. Per quanto
fosse lieto di rivederla, David aveva ben poco da dirle, e meno ancora da
raccontare al suo abbronzato consorte dalle inflessioni strascicate, al
quale tutti loro dovevano apparire, supponeva, bifolchi olandesi della
Pennsylvania. La presenza condiscendente di quell'uomo aveva un
effetto inibitorio, e David, ansioso di godersi l'antiquata allegria dei suoi
compagni di scuola, si allontanò alla svelta.
Solo verso la fine della serata, con i rispettivi coniugi dispersi nella
folla, Elizanne tornò accanto a lui. Nel frattempo c'era stato il goffo
monologo del clown non ufficiale della classe, l'email di saluti dalla
Florida inviata dal presidente degli ex alunni, impossibilitato ad assistere
alla riunione, e il commovente messaggio di Mamie letto forte da Sarah
Beth. Il microfono aveva amplificato il tremito della voce. «Abbiamo
avuto il meglio» aveva scritto Mamie. «Niente droga, niente gang, niente
sparatorie nelle scuole, ma rispetto per gli insegnanti e fede
nell'America.» Poi i gemelli Frankhauser, ormai curvi e con il passo
pesante, si erano cimentati nel numero di tip tap che avevano presentato
allo spettacolo scolastico dell'ultimo anno.
Sarah Beth si era profusa in metodici ringraziamenti a tutti i membri
del comitato, avvertendo che avrebbe fatto girare un cappello dove
raccogliere le mance per i bravissimi camerieri del Fiorvante. Butch Fogel
aveva spiegato come raggiungere il luogo del picnic organizzato per
l'indomani a Schumacher's Grove, sebbene le previsioni del tempo alla tv
preannunciassero pioggia. Il gruppo musicale ingaggiato per l'occasione,una donna alla tastiera accompagnata da un bassista, si era esibito in
vecchie melodie, senza dubbio cariche di una compiaciuta nostalgia per
qualcuno, ma non per i presenti. Le loro canzoni erano state trascurabili
motivetti incuneati tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni
Cinquanta, subito prima che Elvis Presley, il doo-wop e il rock rendessero
obsoleto tutto quello che li aveva preceduti: le bande di swing, i cantanti
sdolcinati, le vocaliste con la messa in piega, le canzonette popolari e le
trasognate composizioni romantiche al ritmo delle quali si danzava con
mosse pigre, in uno stile da sonnambuli.
C'era una piccola pista da ballo al Fiorvante, e cinque anni prima una
coppia aveva osato lanciarsi in una propria versione del jitterbug, poi
imitata da altri. Questa volta nessuno osò. La classe 1950 della scuola
superiore di Olinger aveva rinunciato alle danze.
Mentre gli ex compagni iniziavano a trascinarsi, in una sorta di
timoroso unisono, verso l'uscita e verso qualsiasi destino avrebbe loro
riservato il quinquennio successivo, Elizanne si avvicinò a David, gli posò
una mano sull'avambraccio e gli parlò in tono fermo, con una sorta di
vivace urgenza, come se si stesse rivolgendo a se stessa. «David»
cominciò in quel rapido sussurro «c'è una cosa che desidero dirti da anni.
Tu eri molto importante per me. Sei stato il primo ragazzo ad
accompagnarmi a casa e... e a baciarmi.» Nella luce fioca della stanza,
gli occhi di lei, il cui bagliore severo era ammorbidito ed esaltato dalla
confessione, cercarono i suoi, facendo sollevare le palpebre con il loro
lucente profluvio di ciglia nere. Il cipiglio della fronte si spianò. Il suo viso,
così vicino e scorciato, pareva arrivare da una grande distanza.
Forse Elizanne aveva bevuto un paio di bicchieri (il bar del Fiorvante si
trovava appena fuori dalla sala per i ricevimenti), ma era sobria a
sufficienza, e lo era anche lui adesso, per sentirsi turbata, in mezzo ai
convenevoli da adulti scambiati ad alta voce alla fine della riunione, da
quel ricordo di loro due da giovani, dei loro io autentici, maldestri e
svaniti nel nulla.
«Mi ricordo di quella passeggiata» disse David. Ma era vero?
Elizanne rise, con un filo di sguaiataggine: la risata saputa di una
donna moderna dei quartieri alti. «Fu l'inizio, devo ammetterlo, di un
sacco di... chiamali come preferisci. Diciamo sbaciucchiamenti.» La loro
ingenua generazione era maturata negli anni della rivoluzione sessuale,
affrettandosi a recuperare il tempo perduto.
David cercò di ignorare la donna esperta e beffarda in cui si era
trasformata Elizanne. L'episodio dimenticato gli stava tornando alla
memoria. La camminata lenta e impacciata, nella luce morente,
attraverso Olinger, e loro due vicini, ancora immersi nei loro discorsi,
sulla porta di casa dei genitori di lei, e poi il suo buttarsi nel bacio, e
l'accoglienza ricevuta da Elizanne, non meno goffa, ma piena di ardore.
L'aveva amata, per una stagione. Quando? E perché quella stagione era
stata così breve? Avevano calpestato le foglie cadute mentre
percorrevano le vie della cittadina, l'Alton Pike con i lucidi binari del tram
e le strade rettilinee fiancheggiate dalle villette a schiera in mattoni, e
poi le curve dei viali nella zona di Elmdale, dove le case sorgevanoisolate in mezzo a giardini privi di erbacce, case costose, con la struttura
di legno a vista e il tetto di ardesia, fino a raggiungere quella in cui
viveva Elizanne? Era primavera, con improvvisi sprazzi di verde e di
giallo, o estate, il periodo degli insetti ronzanti e delle ragazze in
pantaloncini corti, oppure inverno, quando il freddo punge le gote? Lo
feriva che lei avesse lasciato intendere, con la risata di chi la sa lunga, di
aver continuato a baciare altri, in seguito. Elizanne aveva aggiunto
qualcosa che lui non era riuscito a decifrare, per il chiasso dei saluti o per
la sua crescente sordità, a proposito di «quello che volevate tutti quanti»:
un sarcasmo banale e trito, gli parve, sulla sessualità maschile, a
quell'epoca e in quel luogo una forza enorme e poco pubblicizzata con
cui quasi tutti i ragazzi se la sbrigavano da soli. Ma il tono di scherno
suonava antiquato, e li riportò indietro nel tempo.
«Eri così...» mormorò David, annaspando per trovare la parola giusta
«...fresca.» Questo ricordava, tra le tante cose che aveva dimenticato: la
rugiadosa freschezza, una sorta di umidità quieta e impalpabile legata
alla sua pelle, alla sua vicinanza.
«Sono lieto» soggiunse, passando a un tono distaccato da adulti «che
sia stata un'iniziazione di successo.» L'oscuro sguardo di lei sostenne il
suo per un secondo, poi guizzò via in cerca del marito tra la folla che
andava disperdendosi.
Elizanne capì che David non era in grado di tradurre in parole quanto
c'era da esprimere; gli strinse il braccio attraverso la manica della giacca
e poi tolse la mano. Arrivederci tra altri cinquant'anni. «Volevo solo che
lo sapessi» concluse.
Aspetta, pensò lui, ma invece disse, piuttosto stupidamente: «Grazie,
Elizanne. Che cosa carina da ricordare. Ehi, hai un aspetto magnifico. A
differenza di parecchi di noi».
Durante la notte, mentre sdraiato accanto ad Andrea si rigirava in
preda all'emozione della rimpatriata nel letto del Marriott di Alton, e poi
per vari giorni successivi, David si sforzò di rievocare quella passeggiata
conclusa da un bacio. La casa e il quartiere di Elizanne, più lussuosi dei
suoi, l'avevano intimidito.
Non era adatta a lui. Presto si era procurato la prima vera ragazza, di
un anno più giovane, che gli permetteva di carezzarle i seni e di
spogliarla parzialmente, liscia come un pesce nella macchina
parcheggiata. Quanti anni avevano allora, lui ed Elizanne?
Sedici, forse quindici. Era successo alla fine di una partita di football, o
dopo un ballo scolastico? David non era molto socievole, e dopo essersi
trasferito in campagna a quattordici anni, non aveva neppure la libertà di
girare per Olinger a suo piacimento, sebbene avesse continuato a
frequentare la scuola superiore della cittadina, andando avanti e indietro
insieme al padre.
Elizanne faceva parte della banda musicale, ricordò. Gli sembrava
ancora di vederla in uniforme, con i capelli raccolti sotto il berretto, e le
forme femminili racchiuse, in un modo che aveva qualcosa di eccitante,
nei pantaloni e nella giacca bordò a strisce dorate. Le majorette con gli
alti stivali bianchi e le corte gonne scampanate erano seguite daun'asessuata massa bordò, ed Elizanne si trovava in quella falange. Cosa
suonava?
Il clarinetto, pensò David, ma forse era solo un'eco dei suoi colori; a
differenza delle altre ragazze brune della classe, con i loro ricci castani
illuminati dai colpi di sole, lei aveva autentici capelli neri, e ciglia e
sopracciglia della stessa tinta. Per contrasto, la carnagione del volto era
di un bianco luminoso. La peluria sopra il labbro superiore le disegnava
due lievi chiazze sulla pelle.
Il ricordo di quella peluria scura, più evidente se guardata dall'alto, gli
riportò alla memoria un'altra scheggia di passato: si rammentò di aver
ballato con lei, di averla tenuta stretta scivolando sulla pista, rivide il suo
corpetto di taffetà senza spalline e le piccole pieghe del tessuto sulla
schiena, all'altezza della vita; rivide i propri piedi, risentì le ascelle e le
scapole che si scioglievano in un flusso continuo di sudore sotto lo
smoking noleggiato, mentre le stelle filanti penzolavano dal soffitto, la
sfera di specchietti proiettava sul pavimento riflessi privi d'attrito e
l'orchestra, tra i singhiozzi dei tromboni smorzati dalle sordine,
concludeva la sua versione di Stardust o di Goodnight Irene. Percepiva la
gota di Elizanne incollata alla propria, eppure alla fine del pezzo, non
voleva staccarsi da lei; continuava, ansimando, a saziarsi della sua
immagine: il volto schivo dal labbro superiore offuscato, il rugiadoso
décolleté, il bordo bianco del reggiseno privo di bretelline che le
delineava il petto delicato.
Quanto spesso avevano danzato così? Perché non ne era nato
qualcosa di più? Fin dai suoi primi ricordi, l'altro sesso gli aveva mandato
incontro formidabili avanguardie: madri, nonne e insegnanti, Barbara e
Linda che gli rubavano il berretto lungo la strada verso la scuola,
compagne ligie e secchione come Mamie e Sarah Beth, ansiose di
confrontare i loro compiti con il suo. Poi la superficie della femminilità,
quel mistero torreggiarne in presenza del quale doveva vivere la propria
vita, aveva ceduto a una lieve pressione. Senza una parola, una parola di
cui David riuscisse a rammentarsi, Elizanne si era sottomessa alle sue
inette attenzioni, manifestando una pudica curiosità per ciò che lui
avrebbe potuto fare per lei.
La passeggiata: per giorni dopo la riunione, David non riuscì a togliersi
dalla testa la passeggiata che Elizanne gli aveva ricordato.
Nella lente deformante della vecchiaia, l'episodio incombeva come uno
degli atti più significativi della sua esistenza. La geografia di Olinger si
era intessuta nelle fibre del suo essere, nei muscoli che spingevano la
bicicletta e trainavano la slitta.
La domenica pomeriggio i suoi genitori uscivano a camminare, e lui li
seguiva finché le gambe non lo reggevano più. Uno degli itinerari
piegava a sinistra, lungo il viottolo a fianco della loro siepe, e sboccava
nelle strade nuove, in mezzo agli isolati dalle forme regolari che si
stendevano oltre l'arteria principale, l'Alton Pike con i suoi lucidi binari
del tram. La città era più vecchia nell'area a sud del Pike, dove si trovava
la casa di David, in un quartiere disorganico, tra edifici dall'architettura
eterogenea e terreni liberi, alcuni coltivati a granturco. Lui preferiva lezone fittamente costruite a nord del Pike, in cui negli anni Venti erano
sorte schiere di bifamiliari in mattoni tutte identiche, con portici sorretti
da pilastri quadrangolari e giardini anteriori a terrazza, una strada dopo
l'altra. Amiche come Mamie vivevano in quegli accoglienti rioni
armoniosi, nei quali le stanze sulla strada ospitavano drogherie, negozi di
articoli per il tempo libero, botteghe di barbiere e gelaterie. David amava
la compattezza delle case, la loro uniformità, in cui vedeva una garanzia
di ordine e unità d'intenti che mancavano nel suo frammentario
quartiere.
Oltre quella zona, nei sessanta acri un tempo occupati dalla pista per il
trotto, gli imprenditori edili avevano eretto negli anni prima della guerra
una serie di belle ville singole in arenaria e mattoni di clinker, lungo vie
che s'incurvavano su per il declivio di Shale Hill. La passeggiata di David
con Elizanne doveva averlo condotto dalla scuola superiore, o dal terreno
che la circondava, al Pike, e poi tra le casette bifamiliari, sopra i cui
portici le finestre panoramiche adorne di decori stagionali (zucche di
carta arancione e pipistrelli di cartoncino nero a Halloween, fili d'argento
a Natale, cestini di uova a Pasqua) attestavano la fedeltà dei residenti al
calendario cristiano. Gli alberi lungo il tragitto cambiavano, passando
dagli ippocastani della zona vecchia dove viveva lui ai fitti filari di aceri
rossi delle solide strade rettilinee, e infine agli olmi piumosi dai rami
penduli e ai platani dalla corteccia chiazzata delle vie in curva.
Questi ultimi erano più alti e più belli; c'era più spazio e più luce nel
quartiere dove abitava Elizanne, quasi che per giungere da lei fosse
necessario salire su una collina, come in effetti bisognava fare, ma non
una collina qualsiasi, bensì un dolce pendio di denaro e arioso privilegio.
Eppure lei gli aveva permesso di baciarla, davanti alla massiccia porta di
legno con il campanello a due toni, e aveva conservato il ricordo
dell'episodio per oltre cinquant'anni, definendolo il suo biglietto di
ammissione nel meraviglioso mondo del sesso.
Se aveva ragione Mamie, se siamo destinati a vivere per sempre,
pensò David, non riusciva a immaginare un modo migliore di trascorrere
l'eternità che ripetere la passeggiata con Elizanne ancora e ancora,
finché quello che si erano detti, il loro modo di toccarsi, il fatto che lui
avesse osato o meno tenerle la mano, e ogni singolo pelo della morbida
lanugine scura che le velava gli avambracci non fossero apparsi chiari
quanto un'iscrizione profondamente scolpita nel marmo. Avrebbe avuto il
tempo di rivolgerle tutte le domande che era stato troppo ottuso per
porle al cinquantenario del diploma. Il marito venuto con lei era il primo o
l'ultimo di una serie? Aveva avuto delle relazioni nel quartiere elegante
dove aveva scelto di vivere? Si pomiciava molto, come David aveva
sentito dire, sul pullman della banda al ritorno dalle partite di football?
Era stato a bordo di quel pullman che lei aveva proseguito con i baci, e
poi con i palpeggiamenti che li accompagnano e con i rossori e gli ansiti
innescati dai palpeggiamenti? Chi era il suo ragazzo nel penultimo e
nell'ultimo anno della scuola superiore? Aveva un vago ricordo di un
legame con Lennie Lesher, il campione di corsa capace di percorrere un
miglio in cinque minuti, un ragazzo con le gote scavate e deturpatedall'acne e rigide ciocche di capelli imbevute di brillantina Vitalis. Come
aveva potuto tradire David in quel modo? O l'aveva fatto invece con i
membri senza volto della banda? Perché lei e David erano andati
ciascuno per la propria strada dopo aver attraversato Olinger e averne
raggiunto la zona più luminosa? Oppure era successo tutto a tarda sera,
al termine di un ballo o di una partita di pallacanestro, con il volto bianco
di lei, sopracciglia folte e rapido sorriso, confuso in una sfuocata sagoma
notturna?
Elizanne, avrebbe voluto domandarle, cosa significa questa
mostruosità di essere stati bambini e adesso ritrovarci vecchi, sulla soglia
della morte? Al tempo della passeggiata David aveva la stessa età dei
suoi nipoti. Nel corso della vita, si era reso conto che per un uomo il solo
antidoto alla morte è una donna; ma le donne, avrebbe voluto chiedere a
Elizanne, da dove attingono quell'antidoto, quel balsamo cosmico? E
funziona anche per loro?
Per giorni, David non era riuscito a togliersi dalla mente l'immagine di
Elizanne, ma con il tempo se ne sarebbe liberato, lo sapeva. Non poteva
scriverle né telefonarle, nemmeno se Mamie o Sarah Beth gli avessero
dato l'indirizzo e il numero, perché c'erano coniugi, realtà accumulate,
limiti. Anche all'epoca, ovviamente, non erano mancati i limiti al loro
rapporto.
Lui aveva ben poco da offrirle se non il proprio futuro successo di
persona destinata ad arrivare lontano, una prospettiva vaga e remota. Le
domande che ardeva dal desiderio di rivolgerle avrebbero ricevuto
risposte banali. L'attrazione adolescenziale che li aveva uniti era sfociata
nel nulla, come succede alla maggior parte dei sentimenti di quel genere.
«Bene, eccoci arrivati» annunciò lei. I lampioni lungo la strada si erano
appena accesi.
«Così presto!» esclamò lui. «La tua casa è f-f-fantastica.» «Alla
mamma non è mai piaciuta la cucina. Dice che è deprimente, con tutti
quegli armadietti di legno così scuro. Vorrebbe che ci trasferissimo nella
zona ovest di Alton.» «Oh, no! Non andare via, Elizanne.» «Io non voglio,
lo sa il cielo se non voglio. Ma lei è convinta che ad Alton ci siano scuole
migliori. E studenti più preparati.» «Mia m-madre ci ha costretti a
traslocare in campagna, e io detesto stare laggiù.» «Non puoi rimanere a
Olinger per sempre, David.» «Perché no? C'è chi ci rimane.» «Per te non
sarà così.» Lo sguardo serio di lei si fissò nei suoi occhi. Elizanne aggrottò
un poco le sopracciglia. David si aspettava che si girasse ed entrasse in
casa, al di là della porta massiccia, ma lei non lo fece. «Devo tornare a
scuola» le spiegò «il mio p-povero papà p-probabilmente mi starà
cercando. Saranno già le cinque passate.» La luce calava ogni giorno più
presto. Era ottobre; le foglie degli aceri cambiavano lentamente colore,
man mano che il marrone dell'autunno le invadeva a cominciare dai
bordi.
«Sii sincero con me» disse lei in fretta, come rivolgendosi a se stessa.
«Ho parlato troppo? Poco fa, mentre camminavamo.» «No, per niente.
Per niente affatto.» «Mi capita quando mi rilasso in compagnia di
qualcuno.Chiacchiero. E non la smetto più.» «Non hai parlato troppo. Era come
se mi stessi cantando una canzone.» Il viso della ragazza non si era
esattamente accostato al suo, ma non essendosi girato né allontanato
dava l'impressione di essere più vicino. David si chinò con cautela verso
di lei, il capo un po' inclinato, e la baciò. Le labbra di Elizanne si
adattarono alle sue con un calore accogliente; esercitarono una lieve
pressione nel bacio, dal basso, quasi in cerca di qualcosa. David si sentì
travolto da un flusso che procedeva in senso contrario rispetto a quello
degli eventi quotidiani, e cominciò a mancargli il respiro. Si staccò da lei
e indietreggiò. Si guardarono: gli occhi neri di Elizanne brillavano nella
luce al sodio dei lampioni, tra leggere ombre inquiete proiettate dalle
grandi foglie semibrune degli aceri. Poi lui la baciò di nuovo, penetrando
in quel caldo punto immobile intorno al quale ruotava l'universo, la cui
miriade di stelle non si vedeva ancora nel cielo rimasto azzurro sopra la
strada illuminata. Questa volta fu lei a tirarsi indietro.
Passò una macchina con una faccia intenta a fissarli dal finestrino del
passeggero, forse una persona che conoscevano: una spia, una
malalingua. «E c'erano molte altre cose» disse Elizanne ridacchiando, per
sottolineare che si stava prendendo gioco di sé «che avrei voluto
raccontarti.» «Me le racconterai» le assicurò lui con il fiato corto. Aveva
le guance in fiamme come dopo una lezione di ginnastica. Era
preoccupato di far aspettare il padre; l'ansia gli agitava lo stomaco.
Provava le stesse sensazioni di quando, nel suo unico fine settimana
trascorso l'estate prima sulla costa atlantica, un'onda da cui si stava
lasciando trasportare si era rotta troppo presto e aveva rischiato di
mandarlo a sbattere contro la dura sabbia della riva. «Voglio sapere
tutto» disse a Elizanne. «Abbiamo un s-sacco di tempo.»I guardiani
Il tenero cervellino del piccolo Lee affiorò alla consapevolezza di sé in
una casa con quattro adulti, dove i tappeti sapevano di suola di scarpe,
in cantina sbuffava una caldaia a carbone e le polverose finestre del
soggiorno si affacciavano sul retro di una siepe di ligustro e su una
strada lungo la quale a volte, in mezzo alle automobili che sfrecciavano
via sibilando, passavano carri trainati dai cavalli, con un clop clop di
zoccoli. Lee li sentiva al mattino presto: contadini diretti al mercato. Sul
lato opposto della strada, al di sopra dei muri di contenimento in
calcestruzzo, sorgevano villette a schiera con i tetti ricoperti di tegole
d'asfalto, che guardavano dall'alto la casa di Lee come i cori degli angeli
nei canti natalizi. Il Natale era il periodo in cui una luce fredda e colma di
aspettativa invadeva le stanze e rendeva molto nitide le persone che ci
vivevano: Nonnino, Nonnina, Papà e la mamma di Lee, troppo
importante, per così dire, per avere un nome.
Nonnino era straordinariamente vecchio, persino quando Lee era
piccolissimo. Si sedeva sul divano dallo schienale di giunco e di là
pronunciava solenni discorsi rivolgendosi a un visitatore altrettanto
anziano, accavallando e scavallando le gambe, e scoprendo così un
pezzo di stinco glabro e bianco e la nera sommità di una scarpa alta
chiusa da bottoni. A volte, oltre il bordo della scarpa, Lee non vedeva il
bianco della pelle, ma quello dei lunghi mutandoni di cotone indossati
solo dai campagnoli molto antiquati. A differenza di Papà, Nonnino
portava il cappello: un cappello grigio, con all'interno una fascia scurita
dal sudore e due grossi incavi sul cocuzzolo nei punti in cui lo reggeva
con le dita. Quando entrava in casa, se lo toglieva e lo reggeva con
delicatezza tra indice e pollice; tenendolo in mano, gesticolava adagio,
come se lo considerasse una preziosa estensione di sé, non diversa dalla
voce o dai soldi. Un tempo, Lee lo aveva imparato presto, Nonnino aveva
molto più denaro di adesso. Quello attuale era un periodo difficile, un
periodo di crisi, sebbene la casa fosse grande e lunga, nel suo vasto
giardino cinto dalla siepe: cespugli fioriti sul davanti e sui lati e una
distesa erbosa sul retro, un prato interrotto dai ciliegi e da un noce, oltre
che da un orto, un pero, un bidone per bruciare i rifiuti e un pollaio. Era
stato Nonnino a far costruire il pollaio dopo essersi trasferito qui. Fumava
i sigari, ma la figlia, la madre di Lee, non sopportava l'odore in casa, e
così lui fumava all'aperto, seduto su una sedia da giardino, o in piedi
sotto un albero, con indosso un maglione e il gomito appoggiato a una
mano, osservando il mondo intorno a sé, un mondo del quale aveva
perso il controllo.
Anche Nonnina aveva perduto il controllo; le sue mani erano sempre
curve come se stringessero un oggetto invisibile e tremavano per colpa
della malattia di cui soffriva. Ma lei si teneva comunque occupata:
cucinava i pasti, strappava le erbacce, zappava il giardino e badava al
benessere di Lee. Quando Lee, a forza di crescere un centimetro allavolta, riuscì finalmente ad arrampicarsi sul ramo più basso del noce, lei si
piazzò proprio sotto di lui e lo esortò a scendere. Gli occhiali le stavano di
sghimbescio sul piccolo naso a becco e brillavano nella luce del
pomeriggio, sollevati verso Lee, mentre lui si chiedeva se dovesse dirle
che, sebbene avesse scoperto come salire sull'albero, non aveva ancora
imparato la tecnica della discesa.
La nonna sembrava lontanissima sotto di lui. I capelli bianchi le
svolazzavano intorno al viso minuto come i semi di un soffione nel vento.
Era lei a decapitare le galline, su un ceppo sistemato in verticale nel
recinto del pollaio. Il giorno in cui Lee, incalzato da un irrefrenabile
impulso nelle viscere, se l'era fatta nelle mutande mentre si affrettava
lungo il vicolo dietro il giardino, era stata lei a pulirgli le gambe dagli
escrementi giallastri e a dirgli che non valeva la pena di piangerci tanto
sopra. Ed era ancora lei a sottolineare come alcuni tra i bambini del
vicinato (soprattutto i fratelli Halloran e la loro sorella) non fossero
compagni di gioco adeguati. Nonnina, gli aveva spiegato la madre, non
era sempre stata così debole: aveva diretto lei le piantagioni di tabacco
di Nonnino all'epoca in cui vivevano entrambi in campagna, ed era stata
una delle prime donne della contea a prendere la patente.
Quando era nato Lee, la famiglia possedeva un'automobile, una Ford
verde modello A, ma prima che lui fosse cresciuto abbastanza per
frequentare l'asilo, quella macchina era sparita, senza essere rimpiazzata
da un'altra. Ecco quanto erano diventati poveri. Così poveri che Nonnino
andava a lavorare con le squadre di cantonieri del comune e Nonnina
faceva le pulizie nelle case dei parenti (ne aveva molti, essendo la più
piccola di dodici figli) per raggranellare qualche dollaro in più.
Anche Papà lavorava, naturalmente. Quasi ogni giorno della settimana
si metteva in giacca e cravatta e si avventurava nel mondo al di là della
siepe. Ma l'attività che vi svolgeva (sommare cifre per altre persone,
tenere la contabilità per una fabbrica di calze di seta finissima) non
procurava molti soldi. Guadagnavano di più gli operai, gli addetti alle
macchine e i maglieristi, scoprì Lee appena cominciò a frequentare la
scuola insieme ai loro figli. I padri di quei bambini erano uomini robusti e
rudemente allegri, con lo sguardo soddisfatto e la bocca atteggiata a una
piega beffarda che Papà non aveva.
Papà non aveva nemmeno la pancia sporgente degli operai e degli
agricoltori. Persino Nonnino ce l'aveva, e ci appoggiava sopra il polso
della mano con cui reggeva il sigaro quando se ne stava a fumare in
piedi sul prato. Spesso Lee e il nonno erano gli unici membri della
famiglia a rimanere fuori al calare della tiepida notte primaverile.
Nell'aria c'era una pesantezza rugiadosa, che spremeva un'ondata di
fragranza dalla buia aiuola dei mughetti e faceva cadere dai rami una
manciata di fiori di ciliegio.
Il vecchio sollevava il capo, ascoltando gli ultimi canti degli uccelli.
Quando gettava il sigaro tra le peonie, la punta ardente roteava nell'aria.
A Lee non veniva in mente che era lui il motivo per cui il nonno si trovava
là, «a tener d'occhio il ragazzo».
Si rendeva conto, invece, sebbene non fosse in grado di esprimerlo aparole, di essere una fonte di gioia in una casa demoralizzata.
Negli edifici al di là della strada - le anguste villette a schiera allineate
come sparuti angeli coronati di tegole d'asfalto - i bambini erano più
numerosi dei genitori, e gli echi di urla e pianti che filtravano dalle pareti
testimoniavano della continua battaglia condotta pressoché ad armi pari
entro quelle mura.
A casa di Lee, gli unici rumori di battaglia venivano dal padre e dalla
madre. Tra loro c'era un certo risentimento, o una serie di risentimenti.
Per il resto, Lee percepiva i quattro adulti come i lati di un quadrato
perfetto, dai cui angoli partivano diagonali che si incrociavano al centro.
Quel punto focale era lui, protetto da ogni parte, amato da tutte le
direzioni.
Eppure non mancavano screzi, sgridate, capricci puerili, proponimenti
di uccidersi per far soffrire gli altri, e varie maniere in cui Lee veniva
meno alle aspettative dei suoi guardiani. Una volta, irritato dai capelli
che continuavano a spiovergli sugli occhi mentre lui, coricato sul
pavimento, cercava di copiare un fumetto, aveva preso le forbicine
giocattolo di latta e se li era tagliati; la madre aveva reagito come se si
fosse amputato un dito o il naso. I tagli di capelli in generale
comportavano dei rischi. Prima di tutto il capo barbiere della bottega
dove andavano odiava ferocemente Roosevelt, e raffiche di stridule
dispute sfioravano le orecchie in fiamme di Lee, rannicchiato a disagio
sull'assicella appoggiata ai larghi braccioli di ceramica della sedia.
Inoltre, quando il figlio tornava a casa, la madre si mostrava per lo più
insoddisfatta del risultato. Dei tre barbieri all'opera nella bottega, solo
Jake, l'accanito avversario di Roosevelt, sapeva tagliare i capelli di Lee in
modo tale da accontentarla.
Quando il bambino le faceva notare che Jake aveva opinioni politiche
opposte alle loro, lei si dichiarava d'accordo, ma diceva che era un
artista.
La madre era fissata con quest'idea dell'arte e dell'abilità artistica.
Si sedeva sul pavimento a colorare con i pastelli insieme a Lee, il peso
del corpo appoggiato con grazia a un braccio, le gambe ripiegate
nascoste sotto la gonna di lana boucle, a eccezione delle ginocchia,
bianche e tonde, che spuntavano dall'orlo.
Elogiava i piccoli disegni del figlio, pensava Lee, più di quanto
meritassero: o, meglio, riusciva a penetrare nel luogo segreto dentro di
lui dove avevano un valore altissimo.
C'era qualcosa di eccessivo in sua madre, un calore troppo forte per
essere confortevole. Aveva i capelli color rame, le lentiggini e un'indole
focosa. A volte, dopo un litigio infuriato nelle stanze della casa per
l'intero pomeriggio della domenica, il padre diceva a Lee, con un certo
timido orgoglio: «Tua madre.
È un'autentica rossa». Se Lee rientrava per la cena anche solo
lievemente in ritardo dai suoi giochi all'aperto nel quartiere, l'ira le
disegnava una v scarlatta tra le sopracciglia. La pelle ai lati del collo
s'imporporava. Più di una volta lo frustò sulla parte posteriore delle
gambe con una verga tagliata dalla base del pero. Oltre a essere unapunizione dolorosa, gli sembrava una pratica forzata e innaturale; gli
faceva venir voglia di tenersi a distanza. A Lee la madre piaceva
soprattutto quando stava seduta da sola al tavolo da pranzo, impegnata
in un solitario, sotto la lampada di vetro colorato, concentrandosi
sull'avvicendarsi delle carte e parlando tra sé, oppure quando spingeva il
tosaerba in giro per il giardino come un uomo. Il giardino gli pareva
enorme, con i suoi ispidi arbusti profumati (ortensie, spiree, viburni) che
si allargavano avidamente gli uni sugli altri e sul prato, formando segreti
anfratti ombrosi, grotte dal fondo terroso dove non riuscivano a crescere
neppure le erbacce. Lee amava nascondersi in quelle caverne,
sporcandosi i pantaloncini.
A circa sei anni, quando in prima elementare gli stavano insegnando a
leggere, creò un capolavoro d'arte comica: un disegno della loro siepe di
confine, il punto in cui c'era un varco nella cinta di mattoni, riprodotto sul
foglio con una fessura dai bordi fronzuti nella quale andava infilata la
sagoma di una faccia in cima a un lungo collo, da muovere avanti e
indietro per imitare Betty Jean Halloran che faceva capolino per vedere
se lui era in casa, disponibile a giocare. La piccola Halloran era alta per la
sua età, e timida. Forse intuiva la disapprovazione della nonna di Lee per
la sua famiglia, che abitava più avanti lungo la strada in un edificio
senz'acqua corrente, dotato solo di una pompa sulla veranda posteriore.
Quel giochetto di carta, si aspettava Lee, sarebbe stato apprezzato da
entrambe le sue guardiane di sesso femminile, ma la madre, osservando
il disegno e azionando la sagoma un paio di volte, gli aveva fatto capire
in silenzio che si trattava di uno scherzo crudele, perché in fin dei conti
Betty Jean era un'amica sincera, una delle sue poche amiche.
Il fatto che Lee fosse figlio unico era parte del rancore, del dissidio
borbottante tra padre e madre. Forse lei sarebbe stata più felice se
avesse sposato uno dei maglieristi panciuti del calzificio; almeno non si
sarebbe dovuta preoccupare tanto per i soldi. Ma no, c'era qualcosa di
irritabile e circospetto nella sua natura che rifuggiva dal mondo
circostante. Papà non evitava il mondo intorno a sé (nei giorni liberi dalla
contabilità, la domenica andava a insegnare catechismo oppure, il
sabato, si recava ad assistere a una partita di softball al campo sportivo
della scuola), però tornava sempre, e assecondava la moglie e il figlio
nella loro cospirazione artistica, un modo di respingere il mondo senza
toccarlo. Quando li sentiva parlare di arte, diceva: «È di gran lunga
troppo complicata per me»; ma era ovvio che non lo pensava davvero, e
la considerava invece indegna di chi, come lui, dimorava nell'universo
limpido ed elevato dei numeri.
Ciò che il padre ignorava, ma Lee sapeva bene e la madre intuiva, era
che il disegno rappresentava il modo per allontanarsi da lei e dagli altri
suoi guardiani, per rifugiarsi in un regno tutto suo, dove l'amore, anziché
discendere su di lui, proveniva da lui e si irradiava sulle piccole creature
tracciate sul foglio, sugli animali dai tratti umani, sui personaggi dei
fumetti, comicamente immutabili, di cui copiava i contorni, con il naso a
pochi centimetri dal tappeto odoroso di cuoio di scarpe.
Quando Nonnino intratteneva i suoi ospiti sul divano dallo schienale digiunco, a volte, nel reciproco piacere della conversazione, agitavano i
piedi e smuovevano minuscoli batuffoli di lanugine da quel tappeto
scolorito. La madre se ne lamentava, benché la faccia non le
s'imporporasse come per l'odore dei sigari. Il suo calore, il bagliore delle
sue passioni imprevedibili, Lee lo percepiva al massimo dell'intensità
nella stanza del pianoforte, collegata al soggiorno mediante un arco
sorretto da pilastri laterali e ornato nella parte superiore da un'elaborata
fascia di listelli e piccole sfere. Tale opera di carpenteria era il dettaglio
più raffinato della casa, e l'incapacità di Lee di imparare a suonare il
piano, malgrado gli anni di lezioni, costituiva la delusione più grossa che
avesse inflitto alla madre. La zona del pianoforte, con gli spartiti e i
candelabri di ottone sulla cassa verticale, apparteneva a lei; la cucina,
con il linoleum gibboso e il lavandino di pietra nera, a Nonnina; il
soggiorno, con il divano infossato e il polveroso panorama dei vicini, a
Nonnino; e l'anticamera e la porta a Papà, sempre intento a entrare e
uscire.
Mentre Lee se ne stava sdraiato sul tappeto, i suoi guardiani, nei loro
atteggiamenti di malessere sospeso, gli sembravano i quattro angoli del
soffitto alti sopra di lui. Il riparo che formavano aveva resistito durante la
Depressione e la guerra mondiale, e neppure l'adolescenza di Lee e il suo
continuo diventare troppo grande per i vestiti ne avevano disturbato la
struttura, sebbene Nonnino avesse subito un intervento di cataratta che,
quando il nipote gli leggeva i titoli dei giornali, gli faceva tenere il capo
perfettamente immobile, Nonnina si fosse ingobbita, avesse le mani
sempre più tremanti e fosse stata pian piano ridotta al silenzio dal morbo
di Parkinson, il padre si fosse incanutito e avesse dovuto cercarsi un altro
posto di contabile quando il calzificio si era trasferito a sud dopo la
guerra, la madre fosse ingrassata, i cespugli del giardino fossero cresciuti
e inselvatichiti e Betty Jean Halloran si fosse trasformata in una bellezza
dalla dubbia reputazione e avesse smesso da un pezzo di affacciarsi alla
siepe.
Lee aveva sempre avuto il timore che uno dei suoi guardiani morisse,
scomparendo in un nulla inconcepibile, strappando uno dei vertici del suo
riparo infantile. Quasi consapevoli di quelle paure, genitori e nonni
riuscirono a rimanere vivi finché lui non fu approdato sano e salvo
all'università e oltre, proteggendolo sino all'ultimo da qualsiasi minaccia
troppo brutta o troppo spaventosa. Morirono, a intervalli distanziati con
tatto nel tempo, in ordine di nascita. Nonnino aveva più di novantanni,
godeva di buona salute e camminava ancora sulle proprie gambe a due
giorni dalla fine; poi si sentì poco bene e andò a coricarsi, e l'indomani,
convinto che il letto fosse in fiamme, cadde stecchito sul pavimento nel
tentativo di sfuggire al fuoco.
Lee era all'università quando seppe la notizia. Nonnina indugiò a letto
per un altro anno, incapace alla fine di parlare o sedersi da sola: una
mattina la figlia la trovò addormentata per sempre, il naso affilato e le
profonde occhiaie levigati nella bellezza giovanile delle ossa. All'epoca
Lee stava frequentando il corso di specializzazione in arte ad Iowa City.
Per alcuni anni Papà entrò e uscì dagli ospedali, sofferente di angina e divari attacchi di cuore non fatali; il suo giovane medico confidò alla
vedova che nelle ultime ore «aveva dato a tutti loro del filo da torcere».
Lee in quel periodo viveva a San Francisco, inseguendo la vocazione
artistica e la propria identità nel mondo dell'arte, e si sentì sollevato di
non essere giunto al capezzale del padre in tempo per vederlo lottare per
la vita e per l'aria. La madre, come il nonno, si accasciò a terra
all'improvviso: sul pavimento della cucina, con le stoviglie appena lavate
disposte in bell'ordine sullo scolapiatti. Aveva lasciato la vecchia casa,
grande e lunga, per traslocare in una più nuova e più piccola, a un solo
piano; un bianco candido aveva sostituito il rosso dei capelli, e lei era
diventata mite, stravagante e amabile nella sua solitudine, e non
rimproverava mai Lee perché andava a trovarla così di rado.
Fu la donna che faceva le pulizie una volta alla settimana a scorgere il
corpo dal vetro della porta sul retro, e poi la polizia, le pompe funebri e i
preti fecero il resto mentre Lee arrivava in aereo da Taos, dove si era
trasferito dopo che San Francisco non aveva dato i frutti sperati.
Adesso erano usciti di scena tutti e quattro. Di quella famiglia d'inizio
Novecento rimaneva solo Lee. La cassa del carbone in cantina, gli scaffali
pieni di marmellate fatte in casa, la ghiacciaia di legno di noce, l'acquaio
di pietra nera, il linoleum deformato della cucina con il suo motivo di
minuscole mattonelle intrecciate, il lampadario di vetro colorato del
soggiorno, il montante dei gradini dell'ingresso con le sue scanalature
simili agli anelli di Saturno o alle strisce rivelatrici di Plastic Man, la
stretta scala posteriore mai usata e divenuta una sorta di deposito
ingombro di scatole di cartone e di elettrodomestici da riparare, il
pianerottolo senza finestre dove gli abitanti della casa si rifugiavano nel
buio pesto degli attacchi aerei simulati, la lunga veranda laterale a cui
bussavano i vagabondi per chiedere la carità, la gatta tricolore dal muso
timido che si affacciava al portico per mendicare un po' di cibo ma era
troppo selvatica per avventurarsi all'interno, la sedia da giardino di
giunco rossiccio sulla quale si sedeva Nonnino al crepuscolo a fumare il
sigaro e a guardare le lucciole: restava soltanto Lee a ricordarsi di tutto
questo.
Riflettendo su se stesso, mentre la vecchiaia si impossessava del suo
cervello un tempo infantile, Lee ogni tanto si sforzava di visualizzare la
realtà secondo i parametri dimostrati veri dalla scienza. Guardava la
mezza luna e cercava di non vedervi la dea Diana o la decalcomania di
un giornalino a fumetti, ma una sfera sospesa nel cosmo, un satellite il
cui lato luminoso offriva un'infallibile indicazione del punto ove splendeva
il sole al di là dell'enorme massa tonda della terra. Cercava di
immaginare la superficie del globo curva sotto i piedi e in corsa
precipitosa all'indietro verso l'alba. Con uno sforzo ancora maggiore,
tentava di raffigurarsi lo spazio in una dimensione paragonabile alla sua
effettiva vastità, ciascun astro ad anni luce dal successivo, e di concepire
il vuoto quasi assoluto degli intervalli tra le stelle, contenenti particelle
virtuali che in qualche modo producono un'energia inversa alla gravità e
spingono corpi celesti e galassie ad allontanarsi sempre più in fretta gli
uni dalle altre, finché l'universo non diverrà invisibile a se stesso, freddoe buio per tutti i secoli dei secoli, amen. Cercava di dipingersi la vita
come l'avevano descritta Darwin e i suoi seguaci: non una scala
gerarchica dell'essere in ascesa verso forme via via più complesse e più
spirituali, ma un piatto pantano, una diffusa brodaglia di geni
inconsapevoli la cui semplice esistenza entro una creatura qualsiasi, per
quanto ignobile, grottesca, assassina e parassitica, tendeva alla
perpetuazione della creatura stessa senza la benché minima ombra di
uno scopo o di qualche finalità elevata. Era solo questione di numeri,
come diceva il padre di Lee. Ciò che esisteva, esisteva, e mirava a
preservarsi uguale a se stesso, una generazione dopo l'altra.
C'era un che di confortante in questo, pensava Lee. I suoi guardiani
erano ancora con lui. Se li portava dentro, e di là seguitavano a prestargli
le loro cure e la loro tutela. Da Nonnino, con il suo caratteristico modo
incerto di alzare la mano dalla pelle sottile come per impartire una
benedizione o per chiedere un attimo di tregua alle autorità costituite,
aveva ereditato la longevità, e da Nonnina la rustica tenacia e la tempra
robusta che avevano ceduto solo lentamente agli assalti degli anni e
della malattia. Gli appartenevano anche l'elusivo realismo del padre e il
calore intenso e insoddisfatto della madre. I suoi guardiani vivevano in
lui, manovrandolo come una sorta di minuscolo equipaggio umano
racchiuso in un'alta armatura di DNA deambulante. Non l'avrebbero
guidato nella direzione sbagliata; la morte l'avrebbe raggiunto con garbo,
ed era ancora molto lontana.La risata degli dei
Dopo la morte del padre, Benjamin Foster (un nome goffo, che persino
alle orecchie del proprietario evocava una certa risonanza formale e
distante, quasi da figlio adottivo) cominciò a interessarsi alle circostanze
in cui i genitori si erano conosciuti, corteggiati e, l'evento sepolto più a
fondo nelle tenebre, l'avevano concepito. «Ci siamo incontrati il
primissimo giorno dell'università» gli disse la madre «mentre eravamo in
coda per iscriverci, e nell'attimo in cui ci siamo guardati abbiamo
cominciato a ridere. E non abbiamo più smesso per tutti e quattro gli
anni di corso.» «Non siete mai usciti con nessun altro?» «"Uscire" sembra
più importante adesso che negli anni Venti, ma in effetti no. Non c'era
nessuno disposto ad avere qualcosa a che fare con noi. Era questa la
nostra impressione. La nostra paura. Fu la paura a tenerci insieme, a me
e tuo padre, la paura che nessun altro ci avrebbe voluti. Eravamo tipi
bizzarri, Benjy.» Alzò gli occhi senza sorridere, ma con un'aria maliziosa.
La vecchiaia le aveva reso la lingua più sciolta che mai, come se volesse
sperimentare l'eco della propria voce tra le pareti della casa in cui viveva
con un vecchio collie sordo e zoppo.
In passato Benjamin, figlio unico della coppia, aveva cercato di
rassicurarsi sul fatto che i genitori non fossero troppo strambi ai tempi
dell'università sfogliando il loro annuario, intitolato L'ametista e rilegato
con una copertina viola imbottita: risaliva all'anno 1925 ed era edito da
un piccolo ateneo luterano sul fiume Delaware, dalla parte della
Pennsylvania. Si chiamava Agricola, in onore di Johann Agricola, alleato
della prima ora di Lutero e poi divenuto per un certo periodo suo
avversario sulla scottante questione dell'antinomismo.
Foto e descrizioni dei laureandi non erano riportate in ordine
alfabetico, ma a coppie, come per un ballo, ogni studente abbinato a una
ragazza su due pagine contigue. I genitori di Benjamin erano appaiati in
questo modo, e così pure i loro fedeli amici Mentzer, sebbene all'epoca la
signora Mentzer si chiamasse Spangler. La madre, sotto il nome da
nubile di Verna Rahn, compariva con una frangia folta e lucida. Altri punti
dell'annuario la mostravano in tenuta da cavallerizza, con gli stivali e i
pantaloni da equitazione, in tubino da sera e fascia per capelli
scintillante, e con la blusa dal colletto alla marinara e il foulard scuro che
costituivano la divisa della squadra di hockey, di cui veniva definita co-
capitana e «attaccante interna destra».
Era rappresentante di classe, aveva scoperto il figlio in giovane età, e
presidentessa del Circolo degli escursionisti, «una certa damigella con gli
occhi azzurri originaria di Firetown, Pennsylvania», «dotata di un
autentico amore innato per la natura», che sapeva «montare un cavallo
lanciato a rotta di collo». Il motto assegnatole dai redattori era:
«Incantevole quanto una stella quando ce n'è una sola a splendere nel
firmamento».
Il motto del padre di Benjamin recitava: «La causa dell'arguzia altrui»,il suo soprannome era «Foss», e il brano a lui dedicato aveva un tono
alquanto canzonatorio: lo definiva «raggio di sole» e dichiarava che «ben
più di una dozzina di appartenenti al gentil sesso era caduta vittima della
sua personalità ilare e fascinosa». Con un'affermazione ancora più
inverosimile, gli autori sostenevano che la città del New Jersey dov'era
nato «era diventata famosa grazie alla sua genialità».
Eppure sulle fotocopie del libretto universitario infilate nell'annuario
comparivano per lo più C e persino D, mentre Verna Rahn si aggiudicava
tutte A e B; era brava specialmente in latino, sebbene Benjamin non le
avesse mai sentito pronunciare nemmeno una frase in quella lingua. Lo
scopo dell'ateneo, a quanto sembrava, era quello di produrre ministri del
culto e matrimoni; le pagine finali erano dedicate a una cronaca sugli
amori e i rapporti di coppia dell'annata. In testa a una pagina intitolata
Barzellette, si leggeva questa battuta: Una matricola (dopo aver
frequentato la lezione di igiene del dottor Rutter): «Si possono prendere
cose spaventose baciandosi».
Un'altra matricola: «Verissimo! Dovresti vedere l'allocco che ha preso
mia sorella».
«Però» osservò Benjamin parlando con la madre ormai settantenne «tu
e papà non vi siete sposati subito dopo la laurea.
Quanti anni avete aspettato?» «Tre. Volevamo concederci un po' di
tempo per cambiare rotta, ma non ci sono venute in mente alternative
migliori. Non avevamo immaginazione, Benjy. Eravamo dei codardi.» Nel
tentativo di comprendere l'attrazione tra i genitori, il loro bisogno di
formare una coppia, Benjamin iniziava dal fatto che erano entrambi alti,
il padre un metro e ottantotto e la madre non meno di un metro e
settantacinque, una statura imbarazzante per una donna della sua
generazione. Con gli anni aveva messo su peso, ma nell'annuario
appariva snella; da giovane gli somigliava, pensò Benjamin, e lui,
invecchiando, diventava sempre più simile a lei, con un viso un po'
amorfo e una piega maliziosa e civettuola sulle labbra, come se fosse
pronto a rimangiarsi ciò che aveva appena detto. Dalla madre aveva
appreso le arti sociali del canzonare e dell'eludere.
Nei suoi primi ricordi i genitori avevano un aspetto imponente: giganti
in biancheria intima, con fianchi pallidi e strane chiazze di pelo, che
camminavano a passo strascicato verso il bagno e tornavano indietro. La
sua cameretta si trovava dietro la loro, nel retro della casa, ma lui a
quanto pareva dormiva spesso nel letto matrimoniale, per qualche
malattia o perché aveva paura del buio. Era un letto a quattro colonne, in
acero verniciato di grigioazzurro, con una decorazione a stencil: una falce
di luna d'argento e parecchie stelle dalla forma approssimativa. Le
avevano dipinte insieme Benjamin e la madre; lei aveva preparato le
mascherine, che il bambino reggeva durante l'applicazione della vernice.
All'inizio il letto era troppo alto perché Benjy riuscisse ad arrampicarcisi
da solo; una volta in grado di farlo, ci saliva spesso, quasi per piazzarsi in
un osservatorio, mentre i genitori si muovevano seminudi intorno a lui,
con un'aria docile e silenziosa che da vestiti non avevano.
Finché non crebbe tanto da rendere la vasca troppo affollata, fece ilbagno con la madre, per risparmiare acqua calda. Più di sessant'anni
dopo, ricordava ancora l'immagine delle proprie gambe distese
nell'angusta striscia d'acqua accanto a lei, dei piedi schiacciati tra il
bacino della donna e la parete di porcellana.
Per sciacquargli lo shampoo dai capelli, la madre gli teneva la testa
sotto il rubinetto, così a lungo che lui credeva di affogare. I suoi genitori,
capì quando fu grande abbastanza per comprendere un po' di storia della
società, erano prodotti culturali del progressismo anni Venti, indotti ad
aspettarsi la rivoluzione socialista e a non vergognarsi del proprio corpo.
Tutto quanto è naturale, credeva la madre, è buono e sano, sebbene
fosse innegabile che germi e parassiti facevano parte della natura non
meno, si potrebbe dire, delle cucchiaiate d'olio di fegato di merluzzo.
L'orribile e persistente retrogusto del denso liquido trasparente che gli
colava nell'esofago, ecco cos'era la natura per il piccolo Benjamin:
questo e la febbre da fieno, e il gatto che acchiappava i pettirossi intorno
alla vaschetta per gli uccelli, dove poi lui trovava le piume delle vittime
sparpagliate sull'erba. Si sentiva attratto solo dalle realtà artificiali: la
radio, il cinema, i giornali, i dirigibili o l'aereo che compariva ogni tanto
nel cielo della loro piccola città per scrivere un messaggio di fumo.
Quando Benjamin aveva tredici anni, la famiglia si trasferì in una
fattoria lontana diciotto chilometri dal centro abitato; in quell'edificio più
piccolo si viveva in una maggiore prossimità fisica. I nonni occupavano
una delle stanze al piano di sopra e i genitori l'altra, relegando lui in un
letto sistemato in un angolo accanto alla scala; al mattino, scendendo al
pianterreno, il nonno gli tirava l'alluce, se lo vedeva spuntare dalle
coperte. Le pareti erano sottili, e Benjamin sentiva i genitori mormorare,
sospirare e girarsi sulle molle cigolanti. Udiva un rumore come di lievi
pacche, e la voce di suo padre che si lasciava sfuggire un suono, «Uuu-
uuh», di apprezzamento, arguiva lui nelle tenebre, per la mole della
moglie. «Tua madre avrebbe dovuto darsi alla commedia» diceva al figlio
durante il tragitto in macchina verso la città «invece di sposarmi. Aveva
la figura adatta, ma non il temperamento giusto. Una persona migliore di
me l'avrebbe convinta a farlo.» Fu sotto la coltre in qualche modo
permissiva della loro intimità agreste che Benjamin cominciò a
masturbarsi. Accadde una notte in cui, per colpa delle rudimentali
attrezzature di lavaggio nel seminterrato, dovette andare a dormire in
mutande perché non aveva pigiami puliti. L'insolita sensazione delle
lenzuola sulla pelle lo spinse alla scoperta. Gli si aprirono le porte di un
regno magico, teso e fresco; al culmine, aveva l'impressione di fare un
salto mortale, come se la consapevolezza dentro di lui si capovolgesse di
colpo. Se quell'esperienza fosse stata un suono, avrebbe avuto un timbro
stridulo, capace di perforare il nostro mondo e di penetrare in un altro:
non un mondo sudicio, ma limpido e pulito come il suono di un diapason.
Benjamin era troppo ingenuo per pensare alle macchie lasciate sulle
lenzuola: una volta la madre le menzionò in un accesso di collera, ma tra
la figura materna e quelle sensazioni vertiginose c'era un abisso così
vasto che la sua mente non seppe colmarlo e invasa da un vuoto totale
lo lasciò senza parole. In seguito, Benjamin non riuscì più, né da solo nédentro il corpo di una donna, a ritrovare quella stessa intensità iniziale da
capogiro: il senso di una tensione sempre più dolce e concentrata, che
sboccava, per così dire, in un barlume di luce gelida e annichilente sotto i
suoi piedi.
Benjamin non dubitò mai che la madre volesse più bene a lui che al
marito. Questa consapevolezza gli consentiva di trattare il padre con
l'indulgente bonomia riservata a un rivale sconfitto.
Dopo la morte del padre, Benjamin, ormai di mezza età, tendeva a
tagliar corto o a rifiutarsi di stare a sentire quando la madre si
abbandonava a qualche sfogo di rancore coniugale.
Persino il gran numero di biglietti di condoglianze (Earl Foster era stato
un impiegato del tribunale, insegnava catechismo la domenica ed era un
uomo di buona volontà impegnato in varie opere buone) aveva
rinfocolato il suo risentimento, così come una ricchezza tardiva esaspera
il senso d'ingiustizia di chi è sempre stato a corto di denaro. La vedova
lasciò che le buste internografate, molte ancora chiuse, si
ammucchiassero su un vecchio vassoio d'ottone posato su un tavolino, e
nei giorni successivi al funerale non prese alcuna iniziativa per
rispondere: «Cosa potrei dire se non concordare che era un santo? E se
lui era un santo, allora io cos'ero?» «Una santa come lui?» suggerì
Benjamin con cautela, avendo imparato da un pezzo a riconoscere certi
umori pericolosi della madre.
«Niente affatto. Hai mai sentito l'espressione "Angelo fuori, diavolo in
casa"? Tuo padre era proprio così.» «E cosa faceva di tanto diabolico?»
«Meglio che tu non lo sappia. O magari vorresti saperlo?
Forse dovresti.»
«No, hai ragione, mamma, preferisco non saperlo.» Seduta al tavolo
della cucina, nell'abito nero da vedova con la spilla di giada verde, lei
continuò con aria ostinata: «Quando ci conoscemmo, all'università, mio
padre aveva ancora dei soldi e mi comprava vestiti allora considerati di
gran moda, che il tuo giudicava sgargianti, con fantasie troppo vistose e
fiocchi al collo troppo vivaci. Veniva dal New Jersey, lui, e i suoi erano
terribilmente conservatori, come tu sai bene: presbiteriani fino all'osso».
«Lo so.» Anche se in effetti il padre, a quanto lui riusciva a ricordare,
era sempre stato diacono luterano; aveva fatto del suo meglio per
integrarsi nell'ambiente della moglie.
«Ecco perché rideva di me; sembravo l'attricetta di una rivista di
Ziegfeld a un ballo di campagna, diceva. E poi» proseguì «il fine
settimana in cui ci sposammo, l'ultimo giorno di agosto, con un caldo
terribile, papà era ormai sceso di qualche gradino nella scala sociale, e
per un motivo o per l'altro non trovai niente di meglio da mettermi che
un completo di lana che si rivelò soffocante: per poco non persi i sensi
sul treno e bagnai l'abito di grosse chiazze di sudore. Mia suocera, mi fu
riferito, osservò che a quel che ne sapeva lei, solo le persone di colore si
sposavano in agosto. Soffriva già di diabete: l'intera cerimonia era stata
organizzata in fretta perché lei non subodorasse nulla in anticipo, e
quando scoprì la cosa, svenne lunga e tirata. Almeno così dissero gli altri
Foster. Tuo padre era quello destinato a non sposarsi e ad assisterlanegli anni del declino. Quando me lo raccontarono (dev'essere stata mia
cognata, ha sempre avuto la lingua lunga, lei), capii che ci sono due tipi
di donne, quelle che svengono sul serio e quelle che arrivano sul punto di
svenire, come me. Mentre entravamo nella nostra piccola cabina sul
vagone letto, tuo padre disse che puzzavo come un maiale.» «Oh, no!» si
sentì obbligato a protestare Benjamin, con il rischio di far precipitare la
madre in una rabbia ancora più minacciosa e imprevedibile.
«Aveva ragione» commentò lei. «Ero fradicia, e rovinai il vestito.
"Maiale" non era la parola peggiore che usava con me.
Durante la nostra cosiddetta luna di miele, in quell'intero primo anno in
cui lo seguii, insieme alla squadra di topografi, per tutta la zona delle
miniere di carbone, alloggiammo sempre in pensioncine a buon mercato
che in realtà erano dei veri e propri bordelli. Lungo le scale incrociavamo
le ragazze che si trascinavano dietro clienti ubriachi quasi al punto di non
reggersi in piedi. Di giorno dormivano tutti tranne me. Lessi un sacco di
libri in quel periodo: tutti i russi, Balzac, Flaubert. Dickens non mi è mai
piaciuto: troppo spiritoso. Quello che bisogna guardare in una donna, mi
disse una delle madame, è l'arcata plantare.
Se è alta, non occorre sapere altro. Io avevo i piedi piatti, anche se lei
era troppo educata per sottolinearlo. Non potevo competere con le idee
di tuo padre su quelle ragazze lungo le scale: grazie al cielo rimasi
incinta di te e potei tornare a casa dei miei.
Vorrei che tutte le persone pronte a sproloquiare sulla santità di tuo
padre avessero sentito cosa diceva quando eravamo noi due soli,
appiccicati l'uno all'altra come cani in calore.» Indicò con disprezzo il
mucchio di biglietti di condoglianze sul vassoio di ottone; l'indomani,
all'ora in cui Benjamin uscì di casa, erano spariti senza che la madre
avesse risposto a nessuno.
Da bambino, Benjamin aveva sempre cercato con ansia nel padre e
nella madre gli stessi segni di un'unione felice che vedeva nei genitori
degli amici, una sorta di segreta prosperità fisica che trapelava nei
rapporti sociali come la gioia faticosamente conquistata della
rispettabilità. I suoi non partecipavano quasi mai alle feste, e quando ci
andavano, di solito il padre stava male per il cibo troppo grasso o per
l'alcol, al quale non era abituato. Aveva lo stomaco di un presbiteriano.
Ma i loro vecchi amici ed ex compagni d'università, i Mentzer,
organizzavano regolarmente una festa di capodanno cui partecipavano
altre coppie formatesi all'Agricola, ed ecco che i genitori di Benjamin si
avviavano nell'oscurità verso il luogo di ritrovo con quella che lui
immaginava fosse la loro antica gaiezza di studenti. In altre rimpatriate,
aveva sentito la signora Mentzer, la bellissima Ethel Spangler di un
tempo, chiamare suo padre «Fossie» con un tenero sussurro che riusciva
quasi a materializzare l'inimmaginabile conquistatore di «ben più di una
dozzina di appartenenti al gentil sesso».
Fu con una ragazza del gruppo, non la figlia dei Mentzer, ma quella dei
Reifsneider, che Benjamin ebbe il suo primo vero appuntamento galante,
il primo contatto approvato dai genitori con il gentil sesso. Sapeva
guidare da pochi mesi, e uscì con la giacca sportiva, la cravatta e lacamicia pulita abbinate con cura dalla madre, sensibile all'eleganza. Lui e
Ada Reifsneider andarono al cinema e poi al ristorantino aperto tutta la
notte nella zona ovest di Alton, dove mangiarono hamburger e gelati con
soda e sciroppo di frutta. Frequentavano scuole superiori diverse e non
avevano molto di cui parlare, a parte i genitori e il film appena visto,
eppure se la cavarono piuttosto bene, tanto che, a bordo dell'auto
parcheggiata davanti alla casa buia di Ada, Benjamin si sentì autorizzato
a baciare la ragazza, un'iniziativa che lei sembrava aspettarsi. Aveva un
viso olivastro dai lineamenti regolari, ma labbra rigide e fredde, con un
fremito di studiata disponibilità che lui non riteneva di essersi
guadagnato.
Si sentiva goffo, vestito in modo troppo formale e non proprio
all'altezza della situazione, e diede per scontato che lei condividesse
quell'impressione. Non la chiamò più, sebbene fosse abbastanza carina.
Qualsiasi cosa ci fosse da scoprire sulle donne, la strada giusta non
passava attraverso l'ambiente universitario dei suoi genitori.
Da quando la conosceva, la madre non si era mai tagliata i capelli né
aveva mai messo piede in un negozio di parrucchiere.
A quanto riusciva a ricordare Benjamin, aveva sempre avuto la
capigliatura striata di grigio; se la raccoglieva all'indietro in una crocchia
trattenuta dalle forcine, che spesso, nella fase dell'infanzia in cui viveva
in grande prossimità con i tappeti, lui trovava sul pavimento. Da
bambina, gli aveva detto lei più di una volta (gli diceva tutto più di una
volta), era sua madre a pettinarla, acconciandole i capelli sulla sommità
del capo in trecce così strette da farle venir voglia di urlare. Alla sera
Benjamin si spaventava quando la vedeva togliersi le forcine per
sciogliere lo chignon e poi girare al piano di sopra in sottoveste, come
una strega brizzolata, con solo il naso e gli occhi a sbucare dalla cortina
della chioma. Tempo dopo, verso la fine degli anni Sessanta, Benjamin
aveva rimorchiato una giovane prostituta grassoccia nel bar di un
albergo di Chicago. Al termine dell'incontro, la ragazza si era rinfilata il
miniabito color argento e si era messa a passeggiare per la stanza
pettinandosi i capelli, lunghi e incolti secondo lo stile di allora: così,
aveva pensato lui, dovrebbe apparire una donna, come Eva, o come
Maria Maddalena in qualche vecchia xilografia destinata a ispirare
pentimento.
C'era un che di punitivo anche nel cassetto della biancheria del comò
di sua madre, col suo intrico di fettucce color carne ed elaborati ganci di
metallo simili agli strumenti di una camera di tortura. Il busto con i
fermagli per reggere le calze - bottoncini tinta pelle e occhielli metallici a
forma di pupazzo di neve - le lasciava segni crudeli sul corpo, e dopo
anni di costrizione entro minuscole scarpette a punta i mignoli le si
incurvavano sulle altre dita.
Di notte, al piano di sopra della casa di campagna, il marito le
descriveva mormorando le avventure della propria giornata nel mondo
della città, e lei scoppiava a ridere; un nuovo mormorio, e l'ilarità veniva
solleticata al punto da trasformarsi in uno strillo semisoffocato, un sibilo
come quello di un getto di vapore, che terminava in un gemito perimplorare pietà; un altro mormorio e poi, contagiato dalle nuove risate
della moglie, rideva anche il padre, con qualche sogghigno riluttante per
concludere la storia. L'indomani mattina, quando Benjamin chiedeva alla
madre cosa l'avesse divertita fino a quel punto, si sentiva rispondere
così: «E troppo difficile da spiegare. Non è tanto quello che dice papà,
quanto il modo in cui lo dice a scatenarmi, certe volte. All'inizio non
credo neppure che intenda fare lo spiritoso; ha avuto una vita davvero
triste».
Eppure i suoi genitori non irradiavano tristezza, sebbene infelicità e
impotenza (il fatto di trovarsi in trappola) fossero temi frequenti nei loro
discorsi. Dopo la morte dei nonni, fu collocato un letto nuovo nella stanza
rimasta libera, ma a quanto ne sapeva Benjamin, i suoi lo usavano di
rado e preferivano dormire su quello troppo alto, con le molle rumorose e
la luna e le stelle dipinte a stencil sulla testiera grigioazzurra. D'estate,
quando tornava a trovarli insieme alla famiglia in crescita, c'erano più
persone che letti disponibili, e perciò il padre e la madre passavano la
notte sul carro dal fondo piatto parcheggiato nel fienile. Avevano un'aria
così buffa lassù, sopra le enormi ruote a raggi, in mezzo ai mucchi di
balle di paglia e agli attrezzi arrugginiti, sotto un variopinto strato di
coperte e trapunte di riserva, che i figli di Benjamin si precipitavano fuori
appena svegli nell'umidità del prato per sorprendere i nonni ancora
coricati sul carretto e rallegrarsi con quello spettacolo comico e
confortante. I due anziani coniugi, entrambi con un copricapo da
marinaio di lana nera indossato per stare al caldo e proteggersi i capelli
dalla polvere e dagli escrementi dei colombi, si rizzavano a sedere per
salutare i nipoti. I piccioni tubavano e svolazzavano sotto il tetto del
fienile come avanzi dei loro sogni.
Con il protrarsi della vedovanza, durata ben più di un decennio ed
entrata nel quindicesimo anno, era come se Benjamin, che cercava di
andare a trovare la madre per qualche giorno ogni mese, fosse sempre
stato l'unico uomo della sua vita. Quando gli parlava del marito, lo faceva
nello stesso tono di meravigliata reminiscenza con cui le capitava di
rievocare all'improvviso il bambino dagli occhi neri degli Schlouck,
insieme al quale camminava verso la scuola di una sola aula lungo il
viottolo sabbioso che costeggiava la fattoria dei genitori, superava
l'altura e sboccava sulla strada principale. «Mia madre pensava che i suoi
avessero la pelle troppo scura» diceva. Oppure, riferendosi al marito,
osservava: «Quando cominciò ad avere fastidi al cuore, era così
entusiasta di versare un migliaio di dollari in più nel fondo pensione della
contea. Vedo la luce del giorno per la prima volta in vita mia, ripeteva».
«La luce del giorno?» «Non so quanta luce del giorno pensava gli
rimanesse. Ma voleva lasciare me ben sistemata. Come con la faccenda
dell'automobile.
Non mi ero più messa al volante da quando mio padre aveva venduto
la nostra Biddle e si era trasferito in città.
Lui però mi costrinse a ricominciare a guidare: mi iscrisse persino a un
corso tenuto da un istruttore della scuola superiore e mi fece prendere la
patente. Sapeva che senza la macchina non avrei potuto resistere qui.»«Allora era davvero un santo» osservò Benjamin in tono ironico.
Lei non colse l'ironia. Soggiunse con aria solenne: «Voleva esserlo. Sua
madre era spaventosamente religiosa, così assorta nelle buone azioni
che a volte si dimenticava di dare da mangiare alla famiglia. Ma lui aveva
dei dubbi. Li avevamo tutti all'epoca.
Leggevamo Mencken, Shaw, H.G. Wells, Sinclair Lewis. Non c'era più
niente di sacro. Ridevamo di tutto, persino a scuola, dove metà dei
professori aveva preso i voti e metà dei maschi era avviata sulla stessa
strada. Eravamo giovani, certo: potevamo permetterci di ridere. Tuo
padre era un tale burlone, sempre così gioviale con gli estranei, che
all'inizio rimasi scioccata dai suoi terribili accessi di depressione. I miei
momenti di umor nero, li chiamava lui. Si piazzava su una seggiola e non
si muoveva più. Qualsiasi cosa lo deludeva, specialmente io».
«Oh, no, non ci credo!» La frase di protesta fu pronunciata come un
atto di cortesia; Benjamin era cresciuto con l'impressione che il
matrimonio dei genitori fosse stato un errore, riscattato in parte dalla sua
nascita.
«Tutti tranne mia madre» continuò lei, puntando lo sguardo oltre il
figlio dalla logora poltrona con le alette laterali dove trascorreva la
maggior parte delle sue giornate, alzandosi solo per nutrire gli animali
domestici e cambiare canale. «La ammirava, perché possedeva un
acume che io non avevo; sapeva guadagnare denaro. Era stata la sua
gestione della fattoria a far arricchire mio padre, almeno per un certo
periodo, finché lui non aveva perso il patrimonio seguendo i consigli di
borsa degli amici. Ecco la nostra tragedia, se si può parlare di tragedia
per me e tuo padre: non eravamo capaci di far soldi. Eppure lui fu l'unico
dei miei corteggiatori a ricevere l'approvazione di mia madre. Il buffo è
che era scuro di carnagione, come Sammy Schlouck. Si abbronzava, tuo
padre, a differenza di te e di me.
Noi abbiamo una pelle che riesce solo a scottarsi.» «Forse è questo il
segreto dell'attrazione tra voi. Incarnati opposti.» Lei ignorò il
suggerimento. «Ma c'era attrazione? O stavamo solo cercando qualcuno
capace di infliggerci le sofferenze che immaginavamo di meritare? Tutti e
due ci sentivamo a disagio per il fatto di essere venuti al mondo. I miei
genitori volevano un maschio, e tuo padre, il più giovane di quattro figli,
si è sempre considerato 'una bocca di troppo da sfamare'. Né lui né io
avevamo avuto un'infanzia felice. Tu sì, invece. Constatarlo ci
meravigliava entrambi. Non capivamo come facessi.» «Ho avuto dei
genitori affettuosi» suggerì lui per farle un complimento. Genitori, ma
non lo disse, che non avevano nessun altro da amare.
«No» dissentì la madre con caparbietà «c'era qualcosa dentro di te, lo
producevi da solo, nonostante l'infelicità della nostra famiglia. Ethel
Spangler, dopo il matrimonio con Howard Mentzer, ma prima di avere un
figlio, venne a trovarci un pomeriggio, e quando se ne andò mi disse:
"Spero che questo bambino riceva un po' d'amore, un giorno, nella sua
vita".» Benjamin rise, incredulo e compiaciuto. «Che razza di commento !
E malgrado ciò tu e papà avete continuato a essere suoi amici per tanti
anni.» «Allora si restava fedeli alle persone» osservò la madre «per paurache non ci fossero alternative. Adesso la gente si lascia e si lega ad altri
come se fosse la prima volta.» Questa era una frecciata (Benjamin aveva
divorziato e si era risposato due volte), ma lui lasciò correre. Vedeva
nella madre una dispensatrice di verità che superavano i limiti di quanto
riusciva a tollerare. A sette o otto anni, ormai emancipato dalla vasca
condivisa, era stato invitato a soddisfare la propria curiosità sui fatti della
vita, e aveva chiesto se nelle donne la pipì uscisse dallo stesso posto da
cui nascevano i bambini. Con garbo e franchezza, da spirito progressista
qual era, lei gliel'aveva spiegato, ma l'imbarazzo di Benjamin era stato
così profondo da cancellare la risposta, lasciando la domanda ad
aleggiargli nella memoria come una perpetua umiliazione.
Quando la madre morì, la sua lunga vita continuò a sgorgare da ciò
che aveva lasciato. In un piccolo baule di cedro aperto da una chiave
conservata nel cassetto della scrivania, Benjamin trovò il fascio di lettere,
legate con un nastro scolorito dal rosso al rosa, che il padre le aveva
scritto nei tre anni tra la laurea e il matrimonio. Erano ardenti, rigorose,
sincere. Le frasi affioravano dalla sottile carta sgualcita, odorosa non solo
di cedro, ma anche dell'aria salmastra della Florida, immaginava
Benjamin, dove il padre aveva vissuto per diciotto mesi: voglio fare la
cosa giusta per tutte le persone coinvolte... tu sei senza dubbio la
compagna che il buon Dio mi ha destinato... la mamma ha i suoi alti e
bassi, e un coraggio straordinario... secondo Ed il clima economico finirà
per cambiare da queste parti, la gente tira sempre i remi in barca dopo
una bufera... mi manchi ogni giorno, soprattutto dopo il lavoro... se, Dio non voglia, dovesse peggiorare... essere vicino a te sul vecchio divano di Olinger con lo schienale di giunco, rilassarmi e condividere una bella risata ... sono stato lì lì per piantare tutto e tornare su al Nord a bordo del primo treno merci, ma... i medici dicono che ha la determinazione di un
santo o di un mulo... sento la tua voce chiara come il sole... i tramonti
sono così rapidi per via della latitudine... resto sempre il tuo sceicco e tu
la mia Agnes Ayres... trentasette gradi all'ombra dalle parti di Arcadia... o
morire provandoci... Benjamin non se la sentiva di leggere con
continuità: quei fogli erano come la risposta troppo dettagliata della
madre alla sua domanda infantile, e la sua mente si ritraeva. Già allora il
padre, prima di prendere la laurea di secondo grado e diventare
professore, aveva una calligrafia caratterizzata dalla meticolosa
leggibilità degli insegnanti; tracciava ciascuna lettera con cura,
sollevando la penna a metà di una parola. Quando infine sua madre era
morta, lui aveva già fatto ritorno al Nord. Il salmone contro corrente: o
morire provandoci.
Una scatola di cioccolatini sbalzata, a forma di cuore, conteneva la
prova che almeno una volta la madre di Benjamin si era tagliata i capelli.
Il taglio di capelli di Verna Rahn, aveva annotato lei nella sua scrittura
minuta e inclinata all'indietro, 18 giugno 1926. (Le tarme ne hanno
mangiato una parte.) Quello, perciò, non era l'imballaggio originale; le
ciocche legate con il filo nero erano così lunghe che Benjamin non osò
toglierle dalla loro custodia, da cui esalava ancora un lievissimo aroma di
cioccolato. Lasciò la folta chioma arrotolata nel suo nido di carta velina.Aveva una pallida sfumatura innocente di castano, senza tracce di grigio:
castano chiaro, come i capelli di Jeannie nella canzone jeannie With The
Light Brown Hair. Un colore agreste, gli parve. Provò a toccarla, e ritrasse
in fretta la mano, quasi avesse creduto di carezzare una creatura viva.
Benjamin trovò anche, piegato in fondo al baule, sotto coperte lavorate
all'uncinetto, tovaglie di pizzo e una bandierina dell'Agricola in feltro
bordò e oro, una cosa che lui non avrebbe mai potuto dare alla madre,
ma che lei aveva ricevuto in regalo dal futuro sposo: un pullover della
squadra di football dell'università, di una pesante maglia bianca
ingiallita, il davanti irrigidito dalle grandi lettere applicate, le maniche
accorciate con grosse spille da balia rimaste dov'erano, con la ruggine
che chiazzava lo spesso filato. Un'altra spilla serviva a creare una pince
sul dietro. Il maglione, e le spille che lo avevano adattato al corpo snello
di lei, emanavano calore ed evocavano il freddo di stagioni svanite: miti,
umidi inverni della Pennsylvania, giovani coppie con le galosce slacciate
e il cappotto sbottonato, che se ne andavano a spasso per il campus
producendo minuscole nuvolette bianche con le loro risa.
Il padre di Benjamin era arrivato all'università grazie a una borsa di
studio come giocatore di football, per quanto avesse sempre sostenuto di
essere troppo alto e magro per quello sport. Aveva continuato a
praticarlo passando attraverso una serie di fratture al naso divenute una
caratteristica della sua faccia pesta e malinconica. Rimanevano ancora le
fotografie di lui curvo in atteggiamento deciso, con il casco di cuoio non
imbottito dell'epoca. Sotto il pullover ripiegato c'era un programma con
le partite dell'Agricola: incredibilmente, la squadra aveva affrontato la
Cornell, la Columbia e la Rutgers. Il piccolo ateneo, carne da macello, era
stato surclassato. Il padre aveva dato alla madre di Benjamin tutto ciò
che aveva. L'aveva vestita del proprio dolore, e il figlio si era accodato,
incerto su cosa ci fosse di tanto buffo, ma felice di essere geloso.

Varietà di esperienze religiose