Melchor irruppe nel locale e, facendosi largo tra i clienti, si diresse al bancone, si sedette su uno sgabello e ordinò un whisky. Il cameriere lo guardò come se fosse un extraterrestre.
«Cosa ci fai qui?» domandò.
«Tranquillo» rispose Melchor. «Vengo in pace.»
«In pace?»
«Già. Mi versi questo whisky, sì o no?»
Il cameriere tardò a rispondere.
«Liscio o con ghiaccio?»
«Liscio.»
Erano le tre di notte passate, ma il locale era ancora abbastanza affollato. Diverse ragazze ballavano nude o seminude sulla passerella illuminata che percorreva il centro della sala principale, crivellate da luci stroboscopiche, mentre alcuni uomini le osservavano con occhi avidi; qui e là, altre ragazze, sole, a coppie o in gruppi, aspettavano l’arrivo degli ultimi clienti. O la fine della nottata. Dagli altoparlanti suonava Like a Virgin, una vecchia canzone di Madonna.
«Se non lo vedo, non ci credo» sentì Melchor alle sue spalle.
Mentre il cameriere gli serviva il whisky, l’uomo che aveva appena parlato si sedette su uno sgabello accanto al poliziotto. Era un mulatto vestito di scuro, calvo e robusto, alto non meno di due metri. Melchor bevve un lungo sorso e il mulatto indicò il bicchiere.
«Hai chiuso con la Coca-Cola?»
«Sì» rispose Melchor. «Sto festeggiando.»
Il mulatto mostrò una doppia fila di denti bianchissimi.
«Non mi dire. E cosa festeggi? Che il giudice ci ha dato ragione e ti ha lasciato con il culo all’aria?»
«Il giudice non vi ha dato ragione, stronzo» lo corresse Melchor. «Ha detto soltanto che non c’erano prove contro di voi. Ma non preoccuparti: le troverò. Dammi un altro whisky.»
Il cameriere, che non si era allontanato e aveva ancora la bottiglia in mano, lo servì di nuovo. Senza smettere di sorridere, il mulatto fece girare lo sgabello fino a dare le spalle al cameriere e, con i gomiti appoggiati al bancone, osservò le ballerine sulla passerella. Melchor bevve un altro sorso di whisky.
«Sai perché mi piace tanto questo posto?» domandò.
Il mulatto non disse nulla. Melchor si riportò il bicchiere alle labbra.
«Perché mi ricorda la mia infanzia» disse, dopo aver bevuto. «Mia madre faceva la puttana, sai? Perciò sono cresciuto in posti come questo, circondato da puttane come lei e da magnaccia come te. È questo che sto festeggiando: il ritorno a casa.»
La canzone di Madonna stava finendo e la risata del mulatto risuonò con fragore nel silenzio crescente del postribolo. Negli altoparlanti, Rosalía sostituì subito Madonna, e due o tre ragazze si mossero per ballare fra i clienti e le colleghe. Il mulatto appoggiò una manona sulla spalla di Melchor.
«Così mi piace, sbirro» disse. «Bisogna saper perdere.» Si alzò e, facendo l’occhiolino al cameriere e indicando Melchor, aggiunse: «Offre la ditta».
Melchor continuò a bere senza alzare lo sguardo dal bicchiere. Sebbene tutte le ragazze lo conoscessero, nessuna gli si avvicinò. Quando ordinò il terzo whisky, però, una di loro si sedette accanto a lui. Era spagnola, bruna, matura, bene in carne, e portava un corsetto nero con i seni al vento. Gli passò una mano sul collo e ordinò una coppa di spumante. Il cameriere avvertì Melchor:
«Le consumazioni delle ragazze non sono comprese nell’invito».
Melchor fece un cenno di assenso e il cameriere servì lo spumante. Bevvero aspettando che il ragazzo si allontanasse. Quando andò a servire all’altra estremità del bancone, Melchor domandò:
«Andiamo avanti?»
«Certo» rispose lei.
«Sicura?» insisté Melchor. «Se ci beccano, finirai nei guai.»
La donna fece una smorfia di indifferenza.
«Io non mi tiro indietro, ragazzino.»
Melchor annuì senza guardarla.
«D’accordo» disse. «Aspettiamo un po’. Quando mi vedi salire, vai dalle ragazze. Lascia la porta aperta e di’ che arrivo subito.»
«Sono molto spaventate. Vuoi che rimanga lì finché non arrivi?»
«No. Tranquillizzale. Di’ loro che non succederà niente. Di’ che arrivo subito. E poi apri le altre due porte, quelle del balcone, e te ne vai a casa o torni qui. No, meglio che te ne vai a casa.» Si fermò un momento. «Hai capito?»
«Sì.»
Melchor annuì di nuovo, ma stavolta la guardò.
«Stai attento» disse lei.
«Anche tu» disse Melchor.
La donna si alzò dallo sgabello e, lasciando sul bancone il bicchiere ancora mezzo pieno, si allontanò.
Melchor continuò a bere senza parlare con nessuno tranne che con il cameriere, senza alzarsi tranne che per orinare. Quando il locale era ormai quasi vuoto, ricomparve il mulatto, che vedendolo sorrise con fastidio.
«Sei ancora qua?» domandò.
«Si è già fatto sei whisky» rispose per lui il cameriere. «Peccato che non fossero Coca-Cola: sarebbe già morto.»
«Devo vedere il tuo capo» annunciò Melchor.
Il mulatto corrugò la fronte; il sorriso gli era sparito di colpo, inghiottito dalla carnosità violacea delle labbra.
«Non c’è.»
Melchor fece schioccare la lingua.
«Mi prendi per scemo? Certo che c’è. Non se ne va finché non chiudete: non sia mai che gli rubiate il portafoglio.»
Il mulatto lo osservò con un misto di curiosità e di diffidenza.
«Perché vuoi vedere il capo?»
«Questo a te non interessa.»
«Certo che mi interessa.»
«Dice che viene in pace» intervenne il cameriere.
Lo sguardo del mulatto saltò dal cameriere a Melchor e da Melchor al cameriere, che alla fine si strinse nelle spalle.
«Voglio chiedergli scusa» disse Melchor. «Per il processo. Per il disturbo. Insomma, hai capito.»
Il mulatto sembrò rilassarsi.
«Certo. Mi sembra una buona cosa. Però per questo non c’è bisogno che lo incontri. Glielo dico io: considerati scusato.»
«Voglio anche fargli una proposta.»
Il mulatto si mise di nuovo in guardia.
«Che proposta?»
«Questo sì che non te lo dico.»
«Allora scordati di parlare con lui.»
«Come vuoi. Però la proposta è buona, gli interesserà.» Guardò il cameriere e aggiunse: «Non credo che gli farà piacere sapere che mi hai impedito di parlargliene».
Ora il mulatto parve esitare; guardò di nuovo il cameriere e, scrutando Melchor, dopo alcuni secondi si allontanò un poco, quanto bastava per parlare al telefono senza il rischio di essere ascoltato. Alla fine della chiamata, con aria svogliata fece cenno al poliziotto di seguirlo.
Attraversarono la pista deserta, salirono due piani lungo una scalinata stretta, poi, arrivati al secondo pianerottolo, il mulatto gli aprì una porta e lo invitò a entrare. Dall’altra parte lo attendeva l’ufficio del capo, che non si alzò quando vide Melchor. Non gli tese nemmeno la mano. Era seduto dietro una scrivania un po’ scalcinata, con le mani in vista e un luccichio beffardo negli occhi.
«Perché non mi hai detto che eri qui?» domandò, indicandogli una poltrona davanti a lui. «Sarei sceso a salutarti.»
Melchor non si sedette. Il capo era un uomo laboriosamente agghindato, sulla cinquantina, con i capelli imbrillantinati, la barba curata e venata di bianco, le mani ribollenti di anelli; era in maniche di camicia, portava le bretelle e gli brillava sul petto una collana d’argento, con un gran medaglione dorato. Si chiamava Eugenio Fernández, però, per ragioni che Melchor ignorava, tutti lo conoscevano come Papà Moon.
«Mi hanno detto che vuoi scusarti» aggiunse. «Mi hanno anche detto che hai annegato i dispiaceri nel whisky. Ben fatto. Comunque, ti avevo avvertito che ti stavi infilando in un casino. È il vantaggio di vivere in una democrazia, ragazzo: qui siamo tutti innocenti finché non si dimostra il contrario. Perfino io, che non leggo libri come fai tu. Però fin lì ci arrivo. Non hai intenzione di sederti?»
Melchor non rispose. Papà Moon interrogò con lo sguardo il mulatto, che era dietro al poliziotto, e che si strinse nelle spalle. Dietro di lui c’era una lampada a stelo accesa, e davanti, sulla scrivania, una lampada da tavolo; fra tutte e due, illuminavano tenuemente la stanza. Incassato nella parete di fondo, di fronte alla scrivania, un televisore al plasma trasmetteva a volume molto basso una vecchia partita di pallacanestro del campionato americano.
«Non dici niente?» chiese di nuovo Papà Moon.
«Devo farti una proposta» disse finalmente Melchor.
«È quello che mi aveva detto Samuel» replicò Papà Moon. Fece girare un po’ la sedia su cui era seduto e aprì due braccia accoglienti. «Sono tutt’orecchi.»
Melchor si voltò un istante verso il mulatto e poi di nuovo verso il capo.
«Non preoccuparti» cercò di tranquillizzarlo Papà Moon. «Puoi dire quello che vuoi: Samuel è una persona di assoluta fiducia.»
Melchor non distolse lo sguardo da Papà Moon, che dopo un paio di secondi sospirò e, muovendo leggermente la testa, fece cenno al mulatto di andarsene. Dopo un istante di esitazione, il mulatto perquisì Melchor, che lo lasciò fare: non era armato; in tasca aveva soltanto un paio di manette. Poi domandò: «È sicuro, capo?»
Papà Moon annuì.
«Comincia a chiudere» ordinò. «Io scendo subito.»
Di malavoglia, lo scagnozzo uscì e si tirò la porta dietro le spalle.
«Bene.» Il capo si abbandonò sulla poltrona. «Dimmi tutto.»
Melchor fece due passi avanti, appoggiò le nocche delle mani sulla scrivania e, allungandosi col busto, si avvicinò molto a Papà Moon, come se volesse sussurrargli qualcosa all’orecchio.
«Si tratta delle ragazzine» annunciò.
Il capo fece una faccia annoiata.
«Ancora su quello sei?»
Melchor lo fissò. Papà Moon chiese:
«Che succede con le ragazzine?» Ci fu un altro silenzio, finché sul viso dell’uomo cominciò a farsi largo un sorriso complice. «Ora ho capito» disse. «Piacciono anche a te, non è vero?»
Stava per aggiungere qualcosa, ma non ci riuscì: Melchor gli mollò una capocciata secca sulla fronte e, senza dargli il tempo di reagire, lo prese per la nuca e gli sbatté il cranio sul tavolo, facendolo scricchiolare come se si fosse rotto. Poi girò intorno alla scrivania, prendendolo per il collo lo sollevò e lo colpì di nuovo, prima con un pugno allo stomaco e poi con un calcio nei testicoli. Papà Moon cadde a terra con un urlo.
«Non gridare» lo avvertì Melchor: gli aveva afferrato la collana d’argento e la tirava tenendogliela stretta sul pomo d’Adamo, come se volesse strangolarlo. «Se gridi ancora, ti faccio a pezzi.»
Papà Moon era in ginocchio e cercava aria da respirare.
«Sei impazzito?» riuscì a gemere, rosso come un pomodoro.
Melchor tornò a sbattergli la testa, stavolta contro il fianco della scrivania, lo prese a schiaffi, con la stessa mano con cui reggeva la collana gli afferrò le braccia e gliele torse dietro la schiena mentre con l’altra mano lo perquisiva finché trovò il suo cellulare. Lo sfracellò contro il pavimento.
«Dove ce l’hai la pistola?» domandò.
«Mi spezzi il braccio.»
«Ti ho chiesto dove tieni la pistola.»
«Quale pistola?»
Ora la faccia di Papà Moon andò a stamparsi sul pavimento. Quando Melchor gliela risollevò, una scia di sangue gli colava lungo il naso e gli bagnava la barba. Melchor ripeté la domanda. Il capo rispose e, senza mollarlo, Melchor aprì un cassetto, prese la pistola e si assicurò che il caricatore fosse pieno. Poi costrinse Papà Moon ad alzarsi.
«Stavolta sei andato fuori di testa, sbirro» bofonchiò a fatica. «Qui finisce la tua carriera.»
Melchor gli torse con più forza il braccio e gli mise la canna della pistola sulla mandibola.
«Poi ne parliamo, capo» disse. «Adesso usciamo da qui e tu ti comporti per benino.» Poi lo avvertì, premendogli contro la pistola: «Se gridi, questa spara. Se fai una qualunque stupidaggine, questa spara. È chiaro?» Papà Moon rimase in silenzio. Melchor gli torse ancora il braccio e l’uomo annuì. «Molto bene» disse Melchor. «Forza, cammina.»
Incollati l’uno all’altro, uscirono dall’ufficio di Papà Moon, scesero le scale che prima Melchor aveva salito e, sul primo pianerottolo, il poliziotto socchiuse una porta e si affacciò dall’altro lato. C’era una specie di balcone, in realtà un corridoio esterno che percorreva la facciata del postribolo e da cui si vedevano l’entrata e il parcheggio, dove c’erano ancora diverse auto. Lo percorsero in tutta fretta, si lasciarono alle spalle una scala che scendeva al parcheggio e, giunti in fondo, Melchor socchiuse un’altra porta e si assicurò ancora che non ci fosse nessuno dall’altra parte. Poi la aprì del tutto e si inoltrarono in un nuovo corridoio, stavolta interno e illuminato da una luce cruda, su cui si affacciava una serie di porte, da alcune delle quali provenivano voci, rumori, qualche risata. Melchor aprì l’ultima. Dentro c’erano tre ragazze: due erano rannicchiate su un letto e la terza in piedi in mezzo alla stanza; tutte e tre erano nere come il carbone e guardavano i nuovi arrivati con occhi di attesa e di panico. Melchor chiuse la porta, le guardò e chiese se erano pronte.
Soltanto quella che era già in piedi annuì, ma le altre due si alzarono immediatamente. Melchor le conosceva. Erano nate a Lagos, in Nigeria, e le loro storie non erano sostanzialmente diverse. Erano arrivate tutte e tre a Madrid anni prima, fuggendo dalla miseria e con la promessa che in Spagna avrebbero potuto studiare. Lì erano state private di passaporto e cellulare, avevano proibito loro di mettersi in contatto con le famiglie e di uscire in strada, avevano preteso che pagassero sessantamila euro per le spese del viaggio e, per terrorizzarle, le avevano sottoposte a un rituale che prevedeva taglio di unghie e capelli, rasatura del sesso e delle ascelle e la somministrazione forzata di un beverone allucinogeno. A partire da quel momento le avevano costrette a prostituirsi. Ed era stato così che avevano iniziato un periplo per i bordelli di mezza Spagna, in cui lavoravano dalle cinque del pomeriggio alle quattro di notte per pagare il debito che, in teoria, avevano contratto con l’organizzazione che in pratica le teneva sequestrate. Un periplo che Melchor aveva deciso di interrompere lì, quella notte.
Costrinse Papà Moon a sedersi a terra, contro il letto delle ragazze, tirò fuori le manette e con una gli imprigionò il polso destro a una gamba del letto e con l’altra il polso sinistro all’altra gamba.
«Sei impazzito, sbirro.» Papà Moon parlò con tutta la rabbia sorda che quella vagonata di botte gli aveva insufflato. «Questa me la paghi.»
Fu l’ultima cosa che disse: Melchor gli tappò la bocca con un fazzoletto e glielo infilò fino in gola. Le tre ragazze osservavano l’operazione dalla porta della stanza, tremando di paura.
«Adesso ascoltami con attenzione, pezzo di merda» disse Melchor, accovacciato davanti a Papà Moon. «Non si è potuto fare con le buone, lo si farà con le cattive. Queste ragazzine me le porto via. Che non ti passi per la testa di farne arrivare altre. E che non ti passi per la testa neanche di denunciarmi. Sai che succederà se mi denunci? Ascolta bene, perché te lo dirò soltanto una volta. Se mi denunci brucerò questa topaia. Ucciderò i tuoi figli e tua moglie. Ucciderò tutta la tua famiglia. E poi ucciderò te. È questo che succederà. Hai capito, vero?» Negli occhi di Papà Moon la rabbia si era trasformata in una paura animalesca, incontrollata. Melchor avvicinò ancora di più la faccia per aggiungere: «Dimmelo, hai capito, sì o no?» Papà Moon mosse in su e in giù la testa; Melchor gli diede un buffetto soddisfatto sulla guancia e disse: «Fantastico».
Si alzò e si rivolse alle ragazze. L’effetto del whisky gli era passato; aveva la mente limpida, e si sentiva leggero e felice.
«Pronte?» domandò.
Tutte e tre annuirono. Si chiamavano Alika, Joy e Doris. Alika e Joy avevano diciassette anni; Doris, diciotto. Sembravano essersi messe in divisa per partecipare a una corsa campestre o a una manifestazione politica: maglietta scura, jeans da pochi soldi e scarpette da ginnastica. Lo guardavano con occhi grandi, imploranti e spaventati, come se un meteorite fosse sul punto di cadere sul postribolo e soltanto lui potesse salvarle dalla catastrofe. Melchor socchiuse la porta, si assicurò che non ci fosse nessuno in corridoio, si infilò la pistola nella cintura e prese per mano Alika e Joy, che erano le più piccole.
«Tranquille» disse. «Non separatevi da me e andrà tutto bene.» Finì di aprire la porta e aggiunse: «Andiamo».
1
«Stavo pensando che non vado mai al cimitero» lo saluta la donna.
«Eppure lì è sepolta tutta la mia famiglia» aggiunge Rosa. «Dovrei sentirmi male?»
Ricordando il mausoleo degli Adell, Melchor risponde:
«No. Quello che c’è lì dentro non ha niente a che vedere con i tuoi genitori.»
«Giusto il tempo di prendere un caffè.»
«Mi hanno detto che le cose vi vanno bene» commenta Melchor, sedendosi di fronte a Rosa.
«Le notizie volano nella Terra Alta» constata. «Hai già saputo di Medellín?»
«Il signor Grau. È un sacco che non lo vedo.»
Rosa Adell socchiude gli occhi, abbozza un mezzo sorriso e beve un sorso di caffè.
«Be’, dovresti cominciare a pensarci» le consiglia Melchor.
La donna sorride apertamente: un sorriso ampio, beffardo, luminoso.
«Così alla fine ti hanno convinto a fare il giurato.»
Melchor distoglie lo sguardo, ma non trova un punto su cui posarlo.
«Bellissima. Solo che io non ho mai fatto un discorso in tutta la mia vita.»
Melchor si volta di nuovo verso Rosa.
«Paura no» confessa. «Panico.»
«Non essere scemo, sbirro» dice. «Farai un figurone.»
«Dico sul serio. Vuoi che ti aiuti a prepararlo?»
«Morirete di caldo» predice Rosa.
«Cose di lavoro?» indaga Rosa Adell.
«Io nei fine settimana lascio il cellulare in ufficio» ammette Rosa. «È importante?»
«Sicuramente no, però lo sembra.»
Quando alza lo sguardo dal cellulare, Rosa Adell ha appena aperto la portiera della sua macchina.
«Sei sicuro che non volete venire a pranzo a casa?» insiste.
«Sicuro. Saluta il signor Grau da parte mia.»
Si accomiatano con due baci sulle guance.
«Sai mantenere un segreto?» domanda l’ispettore.
«Hanno offerto l’incarico a me.»
Blai annuisce con aria afflitta. Melchor domanda:
«Sai qual è l’unica cosa che mi ricompensa un poco di tutta questa merda?»
No: la ricompensa di Blai è un’altra.
Melchor alza lo sguardo dal tavolo, coperto da una cerata a quadri, e scruta Blai.
«Non so niente di Salom» riconosce.
«Alla fine non sei andato a trovarlo a Quatre Camins, vero?» domanda.
Melchor nega scuotendo la testa.
«Non dovresti portare rancore. Dopo tutto, era il tuo migliore amico.»
«Non porto rancore. Semplicemente non ho niente da dirgli.»
«Che è successo con Salom?» domanda.
Le voci dei bambini si sono spente e un silenzio imbarazzante si impossessa della cucina.
«Sono contento per lui» dice Melchor. «E per le figlie.»
Blai sospira, scuote la testa da una parte all’altra, fa schioccare la lingua.
«Gliela abbiamo rovinata noi. O abbiamo finito di rovinargliela.»
«Stronzate. Chi gliel’ha rovinata è stato il padre, facendo quello che non doveva.»
«Un minuto fa lo stavi difendendo.»
Con aria scoraggiata, Melchor sposta contro il muro la scatola di Kellogg’s e si alza.
«Smettila con questa storia del pentimento» lo prega. «Vuoi un altro caffè?»
«Era questo che avevi tanta fretta di dirmi?» chiede.
«Che problema?» chiede senza voltarsi.
«Te lo dico se prometti di darmi una mano.»
«Vuoi che ti dia una mano con un caso?»
«Vuoi che torni alla Sequestri ed Estorsioni?»
«Sì. Solo per pochi giorni, il tempo sufficiente a risolvere la faccenda.»
«Non ti aiuterò» dice Melchor. «Sto per ritirarmi. E poi, lì non conosco più nessuno.»
«Ti sbagli. Vàzquez è tornato.»
Melchor si volta verso di lui inarcando un sopracciglio indagatore.
Melchor fa un gesto vago di approvazione e dà di nuovo le spalle all’ispettore.
«Non rompo. Ma non insistere: cercati qualcun altro.»
Anche lui con la sua tazza in mano, Melchor replica:
«Ma sei fuori di testa o che?»
Melchor beve il caffè d’un sorso, lascia la tazza nell’acquaio e spegne la macchinetta.
«Pensavo di averti detto che stavo studiando biblioteconomia alla UOC.»
«Mi stai prendendo in giro, vero?»
Adesso, nell’espressione di Blai il fastidio si aggiunge all’incredulità.
«Certo che no» risponde Melchor. «Come ti viene in mente?»
«Non più» riesce a interromperlo Melchor. «Quello era prima.»
«Ah, sì? E come funziona, che adesso la vocazione passa con il tempo, come la congiuntivite?»
«La vocazione è una favoletta, Blai.»
«Beviti quel caffè, dai» gli dice. «Si raffredda.»
«Vado a prendere Cosette» annuncia. «Mi accompagni?»
Blai afferra Melchor per un braccio.
«Sai perché ho bisogno che mi aiuti?»
Il caffè non ha rilassato Blai: le sue dita sono artigli.
«Invece non dovresti esserlo» commenta Melchor.
«Certo» risponde Melchor. «Sei sempre stato un bravissimo poliziotto.»
L’elogio fa gonfiare Blai come un tacchino, anche se cerca di dissimularlo.
Melchor capisce che la vanità dell’amico non è del tutto soddisfatta; e anche che non lo sarà mai.
«Be’, anche adesso» dice Blai.
«Non sei nemmeno curioso di sapere di cosa si tratta?»
«Stanno ricattando la sindaca di Barcellona».
«C’è una cosa che non capisco, papà».
«Se è così pericoloso arrivare a Irkutsk e avvisare il fratello dello zar, perché Michele lo fa?»
«Perché è suo dovere: glielo ha ordinato lo zar.»
«Sì, ma perché deve consegnarglielo Michele? Perché non può farlo un altro?»
«Te l’ho già detto: perché lo zar l’ha ordinato a lui.»
«E perché l’ha ordinato a lui?»
«Perché Michele è il miglior corriere che ha».
«Tu credi che Michele sia il miglior corriere dello zar?»
«Certo. Altrimenti, perché avrebbe affidato a lui questa missione?»
«Magari nessuno voleva farlo» azzarda.
«Per questo tu sei diventato poliziotto? Per non far vincere i cattivi?»
«Più o meno» risponde Melchor.
Cosette non lo guarda più. Adesso guarda nel vuoto.
«E se un giorno ti beccano i cattivi?» domanda.
«Certo che mi importa. Ma non vinceranno: ci sono poliziotti bravissimi. Blai, per esempio.»
«Lo so» dice Cosette, voltandosi di nuovo verso di lui. «Però tu sei il migliore.»
Sua figlia lo osserva con una serietà quasi adulta.
«Dai, su» replica Melchor. «Non fare la lecchina.»
«A casa di Vivales?» mormora lei.
«Dove sei?» chiede a sua volta.
«La bambina è lì? Falla venire al telefono, dai.»
«Sta dormendo. Lo sai che ora è?»
«Aspetta un altro istante, fammi il favore.»
«Scusa, Melchor.» Vivales è di nuovo all’apparecchio. «Cosa mi stavi dicendo?»
«Che è successo?» chiede a sua volta Melchor.
«Non c’è neanche bisogno di chiederlo. Quando venite?»
«Non è ancora sicuro. E poi, non sarebbe per molto tempo.»
«Grazie. Dimmi un’altra cosa. Conosci qualcuno al Comune?»
«Lui. Anche se non sapevo che Puig lavorava al Comune.»
«Non lavora lì. Però è architetto, e ogni tanto il suo studio fa progetti per loro.»
«Sarebbe perfetto. E di’ anche a Campà di venire.»
«Non ce n’è bisogno. Quei due vanno sempre insieme, come Ortega e Gasset.»
«Niente. Allora, per quando vi aspetto?»
«Presto. Magari domani pomeriggio siamo lì. Ti chiamo appena lo so.»
«Cazzo, che bella notizia. Vado subito a farmi una bevuta per festeggiare. Addio.»