mercoledì 20 settembre 2023

LE CITTÀ INVISIBILI di Italo Calvino



LE CITTÀ INVISIBILI 

di Italo Calvino

RECENSIONE
[...]Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
  E Polo: - L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.[...]
"Le città invisibili” è una raccolta di pensieri che prendono la forma di città, o di città che prendono forma di pensieri. Calvino riesce a materializzare città assurde, che tuttavia ci appaiono quasi reali, assolutamente possibili, e cariche di una suggestione che nessuna città terrestre potrebbe avere. Dalle immagini di quelle città Calvino ci porta a pensieri che le forme di quelle città fanno nascere, con i  suoi abitanti, che  rappresentano i vari lati della natura umana.
È un esperimento audace, unico, che va  letto con l’attenzione che riserviamo a dei componimenti poetici. 


Il viaggiatore visionario secondo Italo Calvino

Ginevra Ripa

Italo Calvino aveva l’abitudine di tenere sempre in tasca un foglietto piegato in quattro parti. Ogni volta che sentiva il bisogno di annotare un pensiero, una riflessione o un’idea utilizzava un quarto di quel foglietto: quando esso era zeppo di parole e non vi era più alcuno spazio lo riponeva in una cartella, e passava ad un altro.

In questo modo, per sua stessa ammissione, sono nate anno dopo anno Le città invisibili, una serie di descrizioni brevissime di città tutte inventate che si susseguono una dietro l’altra come fotografie in un album; l’autore le ha immaginate a gruppi, ogni gruppo legato da un elemento comune – la memoria, il desiderio, i segni, gli occhi, gli scambi… – e poi le ha sparpagliate e alternate tra di loro, come fossero fili di colori diversi che si intrecciano senza confondersi. Il racconto avviene attraverso la voce di Marco Polo, che dialogando con l’Imperatore dei Tartari Kublai Kan gli descrive il suo stesso impero, visitato nel corso di lunghi viaggi.

Se Calvino fosse vissuto oggi, si sarebbe probabilmente stupito di quanto ciò che per lui era un’intuizione letteraria abbia scavalcato gli steccati dell’immaginazione per irrompere nel quotidiano, nel reale – seppure certo, un reale parallelo: intere città invisibili sono infatti state costruite da allora, città globali e virtuali di cui Facebook e Twitter rappresentano solo gli esempi più famosi. Due sono, secondo me, le componenti che accomunano le città di cui parla Calvino alle “città” di cui abbiamo conoscenza diretta oggi, parlando di social network: una attiene al concetto di spazio, e l’altra al concetto di felicità.

Comincerò dalla seconda. Gli agglomerati urbani immaginati nel libro non hanno un umore costante, si può dire che non siano né città contente, né città tristi: lo stesso Kan, parlando con Marco Polo, si dimostra ora consapevole della decadenza del suo impero – che “marcisce come un cadavere nella palude” – ora sopraffatto dall’euforia – “Eppure io so”, dice, “che il mio impero è fatto della materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto”. Questa ambiguità, questa oscillazione di giudizio esprime un dubbio di fondo sulla bontà dell’impero immaginato, di questo fenomeno di realtà “surreale”: e tale medesimo dubbio può essere esteso alle nostre città invisibili, che ugualmente contengono angoli luminosi e zone squallide, anticipi della fine della civiltà e residui ostinati di grandezza.

Lo spazio che intendo, invece, è uno spazio vuoto: è ciò che resta tutt’intorno sia alle città di Calvino sia ai nostri social. Di questo spazio si può fare ciò che si vuole, poiché esso non è fisico ma mentale, costruito della loro stessa materia immaginifica: una sorta di prolungamento offerto in dote a ciascun “abitante”, che può girarci in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a riflettere o a riposare, scappar via di corsa.

Le città narrate da Marco Polo e così attentamente ascoltate dal Gran Kan sono il simbolo di una realtà – non solo urbana evidentemente – complessa e disordinata, che l’autore cerca di strutturare con l’aiuto del lettore; quest’ultimo si trova dunque a giocare con un’opera dai molti piani di lettura, e per la quale “il senso è come un’eco in una valle piena di grotte che suona ora qua ora là, pur essendo sempre lo stesso”, come scriverà Pier Paolo Pasolini in Descrizioni di descrizioni: c’è un ordine, un sentiero nascosto per ciascuno, e ognuno è libero di scegliere il proprio.

Anche lo stile è giocoso, fluido e cristallino: non una increspatura si trova in questo fiume di parole che scorre senza mai incontrare ostacoli.

E a proposito di leggerezza di stile, essa suggerisce una piccola considerazione finale. La conclusione del libro è certo magnifica: Kublai Kan, avvilito per le molte città che già minacciano la stabilità del suo impero, si lascia andare all’amarezza: “L’ultimo approdo”, dice, “non può essere che la città infernale”. E Marco Polo risponde: “ L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Tuttavia, un altro punto del libro è altrettanto interessante: nel capitolo quinto, proprio a metà, tira una certa aria di leggerezza, le città sono sottili, aeree. E lì, forse, c’è un’altra “morale”: quella che di lì a pochi anni verrà raccontata nel bellissimo capitolo dedicato proprio alla leggerezza, nelle Lezioni americane; quella “leggerezza della pensosità” che si oppone alla “leggerezza della frivolezza” e “fa apparire quest’ultima come pesante e opaca” trova una anticipazione qui, ne Le città invisibili. E rappresenta una delle eredità letterarie migliori di Italo Calvino.



LE CITTÀ INVISIBILI

1

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con piú curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le me- raviglie è uno sfacelo senza fine né forma che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno cosí sottile da sfuggire al morso delle termiti.


Le città e la memoria. 1.

Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viag- giatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.


Le città e la memoria. 2.

All’uomo che cavalcava lungamente per terreni selva- tici viene desiderio d’una città. Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incro- state di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, do- ve le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventú; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.


Le città e il desiderio. 1.

Della città di Dorotea si può parlare in due maniere: dire che quattro torri d’alluminio s’elevano dalle sue mura fiancheggiando sette porte dal ponte levatoio a molla che scavalca il fossato la cui acqua alimenta quattro verdi canali che attraversano la città e la dividono in nove quartieri, ognuno di trecento case e settecento fu- maioli; e tenendo conto che le ragazze da marito di ciascun quartiere si sposano con giovani di altri quartieri e le loro famiglie si scambiano le mercanzie che ognuna ha in privativa: bergamotti, uova di storione, astrolabi, ametiste, fare calcoli in base a questi dati fino a sapere tutto quello che si vuole della città nel passato nel pre- sente nel futuro; oppure dire come il cammelliere che mi condusse laggiú: “Vi arrivai nella prima giovinezza, una mattina, molta gente andava svelta per le vie verso il mercato, le donne avevano bei denti e guardavano dritto negli occhi, tre soldati sopra un palco suonavano il clarino, dappertutto intorno giravano ruote e sventolavano scritte colorate. Prima d’allora non avevo conosciuto che il deserto e le piste delle carovane. Quella mattina a Dorotea sentii che non c’era bene della vita che non po- tessi aspettarmi. Nel seguito degli anni i miei occhi sono tornati a contemplare le distese del deserto e le piste delle carovane; ma ora so che questa è solo una delle tante vie che mi si aprivano quella mattina a Dorotea”.


Le città e la memoria. 3.

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tet- ti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usur- patore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del cor- teo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che si infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che di- strugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si rac- contano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lí sul molo.

Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la citta s’imbe- ve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zai- ra. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, inta- gli, svirgole.


Le città e il desiderio. 2.

Di capo a tre giornate, andando verso mezzodí, l’uo- mo si incontra ad Anastasia, città bagnata da canali con- centrici e sorvolata da aquiloni. Dovrei ora enumerare le merci che qui si comprano con vantaggio: agata onice crisopazio e altre varietà di calcedonio; lodare la carne del fagiano dorato che qui si cucina sulla fiamma di le- gno di ciliegio stagionato e si cosparge con molto origa- no; dire delle donne che ho visto fare il bagno nella va- sca d’un giardino e che talvolta invitano – si racconta – il passeggero a spogliarsi con loro e a rincorrerle nell’ac- qua. Ma con queste notizie non ti direi la vera essenza della città: perché mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbli- garti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abi- tare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come ta- gliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà for- ma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e cre- di di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.


Le città e i segni. 1.

L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pie- tre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quan- do l’ha riconosciuta per il segno d’un altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. Tutto il resto è muto e intercambia- bile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.

Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara. Ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai mu- ri. L’occhio non vede cose ma figure di cose che signifi- cano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la sta- dera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segna- li avvertono di ciò che in un luogo è proibito – entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò che è lecito – abbevera- re le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei pa- renti. Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indi- carne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuo- la pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i ven- ditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia vo- luttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.

Come veramente sia la città sotto questo fitto involu- cro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nu- vole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un velie- ro, una mano, un elefante...


Le città e la memoria. 4.

Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorge Zora, città che chi l’ha vista una volta non può piú di- menticare. Ma non perché essa lasci come altre città me- morabili un’immagine fuor del comune nei ricordi. Zora ha la proprietà di restare nella memoria punto per pun- to, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non mostran- do in esse bellezze o rarità particolari. Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare una sola nota. L’uomo che sa a memoria com’è fatta Zora, la notte quando non può dormi- re immagina di camminare per le sue vie e ricorda l’ordi- ne in cui si succedono l’orologio di rame, la tenda a stri- sce del barbiere, lo zampillo dai nove schizzi, la torre di vetro dell’astronomo, la edicola del venditore di coco- meri, la statua dell’eremita e del leone, il bagno turco, il caffè all’angolo, la traversa che va al porto. Questa città che non si cancella dalla mente e come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare: nomi di uomini illustri, virtú, nu- meri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie, costellazioni, parti del discorso. Tra ogni nozione e ogni punto dell’itinerario potrà stabilire un nesso d’affinità o di contrasto che serva da richiamo istantaneo alla me- moria. Cosicché gli uomini piú sapienti del mondo sono quelli che sanno a mente Zora.

Ma inutilmente mi sono messo in viaggio per visitare la città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languí, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata.


Le città e il desiderio. 3.

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare.

Il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte dell’al- tipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbat- tere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pen- sa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle merci d’oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pianterre- no, ognuna con una donna che si pettina.

Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d’una gobba di cammello, d’una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondo- lando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vi- no di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa ad una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d’acqua dolce all’ombra seghettata delle pal- me, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le dannzatrici, e muovono le braccia un po’ nel velo e un po’ fuori dal velo.

Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si op- pone; e cosí il cammelliere e il marinaio vedono Despi- na, città di confine tra due deserti.


Le città e i segni. 2.

Dalla città di Zirma i viaggiatori tornano con ricordi ben distinti: un negro cieco che grida nella folla, un paz- zo che si sporge dal cornicione d’un grattacielo, una ra- gazza che passeggia con un puma legato al guinzaglio. In realtà molti dei ciechi che battono il bastone sui selciati di Zirma sono negri, in ogni grattacielo c’è qualcuno che impazzisce, tutti i pazzi passano le ore sui cornicioni, non c’è puma che non sia allevato per un capriccio di ra- gazza. La città è ridondante: si ripete perché qualcosa arrivi a fissarsi nella mente.

Torno anch’io da Zirma: il mio ricordo comprende dirigibili che volano in tutti i sensi all’altezza delle fine- stre, vie di botteghe dove si disegnano tatuaggi sulla pel- le ai marinai, treni sotterranei stipati di donne obese in preda all’afa. I compagni che erano con me nel viaggio invece giurano d’aver visto un solo dirigibile librarsi tra le guglie della città, un solo tatuatore disporre sul suo panchetto aghi e inchiostri e disegni traforati, una sola donna–cannone farsi vento sulla piattaforma d’un vago- ne. La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere.


Le città sottili. 1.

Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abi- tanti scavando nella terra lunghi buchi verticali sono riu- sciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa la città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle ri- ve buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condi- ziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della roccia.

Di conseguenza religioni di due specie si dànno a Isaura. Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene sotterrranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono ap- pesi alla fune quando appaiono fuori della vera dei poz- zi, nelle carrucole che girano, negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento che tirano su l’acqua delle trivellazioni, nei castelli di tralic- cio che reggono l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pen- sili sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi sottili de- gli  acquedotti,  in  tutte  le  colonne  d’acqua,  i  tubi verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girando- le che sormontano le aeree impalcature d’Isaura, città che si muove tutta verso l’alto.

Inviati a ispezionare le remote province, i messi e gli esattori del Gran Kan facevano ritorno puntualmente alla reggia di Kemenfú e ai giardini di magnolie alla cui ombra Kublai passeggiava ascoltando le loro lunghe relazioni. Gli ambasciatori erano persiani armeni siriani copti turcoman- ni; l’imperatore è colui che è straniero a ciascuno dei suoi sudditi e solo attraverso occhi e orecchi stranieri l’impero poteva manifestare la sua esistenza a Kublai. In lingue in- comprensibili al Kan i messi riferivano notizie intese in lin- gue a loro incomprensibili: da questo opaco spessore sonoro emergevano le cifre introitate dal fisco imperiale, i nomi e i patronimici dei funzionari deposti e decapitati, le dimensio- ni dei canali d’irrigazione che i magri fiumi nutrivano in tempi di siccità. Ma quando a fare il suo resoconto era il giovane veneziano, una comunicazione diversa si stabiliva tra lui e l’imperatore. Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Levante, Marco Polo non poteva esprimersi altri- menti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, la- trati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi, e di- sponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi. Di ritorno dalle missioni cui Kublai lo destinava, l’ingegnoso straniero improvvisava pantomime che il sovrano doveva interpreta- re: una città era designata dal salto d’un pesce che sfuggiva al becco del cormorano per cadere in una rete, un’altra città da un uomo nudo che attraversava il fuoco senza bruciarsi, una terza da un teschio che stringeva tra i denti verdi di muffa una perla candida e rotonda. Il Gran Kan decifrava i segni, però il nesso tra questi e i luoghi visitati rimaneva in- certo: non sapeva mai se Marco volesse rappresentare un’avventura occorsagli in viaggio, una impresa del fonda- tore della città, la profezia d’un astrologo, un rebus o una sciarada per indicare un nome. Ma, palese o oscuro che fos- se, tutto quello che Marco mostrava aveva il potere degli emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né confondere. Nella mente del Kan l’impero si rifletteva in un deserto di dati labili e intercambiabili come grani di sab- bia da cui emergevano per ogni città e provincia le figure evocate dai logogrifi del veneziano.

Col succedersi delle stagioni e delle ambascerie, Marco s’impratichí della lingua tartara e di molti idiomi di nazio- ni e dialetti di tribú. I suoi racconti erano adesso i piú pre- cisi e minuziosi che il Gran Kan potesse desiderare e non v’era quesito o curiosità cui non rispondessero. Eppure ogni notizia su di un luogo richiamava alla mente dell’im- peratore quel primo gesto o oggetto con cui il luogo era stato designato da Marco. Il nuovo dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso. Forse l’impero, pensò Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente.

– Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi, – chiese a

Marco, – riuscirò a possedere il mio impero, finalmente? E il veneziano: – Sire, non lo credere: quel giorno sarai

tu stesso emblema tra gli emblemi.


II

– Gli altri ambasciatori mi avvertono di carestie, di concussioni, di congiure, oppure mi segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nelle pelli di martora, proposte di forniture di lame damascate. E tu? – chiese a Polo il Gran Kan. – Torni da paesi altret- tanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla so- glia di casa. A che ti serve, allora, tanto viaggiare?

– È sera, siamo seduti sulla scalinata del tuo palazzo, spira un po’ di vento, – rispose Marco Polo. – Qualsiasi paese le mie parole evochino intorno a te, lo vedrai da un osservatorio situato come il tuo, anche se al posto della reggia c’è un villaggio di palafitte e se la brezza porta l’odore d’un estuario fangoso.

– Il mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita, lo ammetto. Ma il tuo? Tu attraversi arcipelaghi, tundre, cate- ne di montagne. Tanto varrebbe che non ti muovessi di qui.

Il veneziano sapeva che quando Kublai se la prendeva con lui era per seguire meglio il filo d’un suo ragionamen- to; e che le sue risposte e obiezioni trovavano il loro posto in un discorso che già si svolgeva per conto suo, nella testa del Gran Kan. Ossia, tra loro era indifferente che quesiti e soluzioni fossero enunciati ad alta voce o che ognuno dei due continuasse a rimurginarli in silenzio. Difatti stavano muti, a occhi socchiusi, adagiati su cuscini, dondolando su amache, fumando lunghe pipe d’ambra.

Marco Polo immaginava di rispondere (o Kublai im- maginava la sua risposta) che piú si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, piú capiva le altre città che aveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove corre- va da bambino.

A questo punto Kublai Kan l’interrompeva o immagi- nava d’interromperlo, o Marco Polo immmaginava d’esse- re interrotto, con una domanda come: – Avanzi col capo voltato sempre all’indietro? – oppure: – Ciò che vedi è sempre alle tue spalle? – o meglio: – Il tuo viaggio si svol- ge solo nel passato?

Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immagi- nare di spiegare o essere immaginato spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui cerca- va era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si tratta- va del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viag- giatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa ag- giunge un giorno, ma il passato piú remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva piú d’avere: l’estraneità di ciò che non sei piú o non possiedi piú t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.

Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vi- vere una vita o un istante che potevano essere suoi; al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fer- mato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un crocevia invece di prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fer- marsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.

– Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo pun- to la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata cosí: – Viaggi per ritrovare il tuo futuro?

E la risposta di Marco: – L’altrove è uno specchio in ne- gativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scopren- do il molto che non ha avuto e non avrà.


Le città e la memoria. 5.

A Maurilia, il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline il- lustrate che la rappresentano com’era prima: la stessa identica piazza con una gallina al posto della stazione degli autobus, il chiosco della musica al posto del caval- cavia, due signorine col parasole bianco al posto della fabbrica di esplosivi. Per non deludere gli abitanti oc- corre che il viaggiatore lodi la città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, avendo però cura di conte- nere il suo rammarico per i cambiamenti entro regole precise: riconoscendo che la magnificenza a prosperità di Maurilia diventata metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale, non ripagano d’una certa grazia perduta, la quale può tuttavia essere goduta soltanto adesso nella vecchie cartoline, mentre prima, con la Maurilia provinciale sotto gli occhi, di grazioso non ci si vedeva proprio nulla, e men che meno ce lo si vedreb- be oggi, se Maurilia fosse rimasta tale e quale, e che co- munque la metropoli ha questa attrattiva in piú, che at- traverso  ciò  che  è  diventata  si  può  ripensare  con nostalgia a quella che era.

Guardatevi dal dir loro che talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomuni- cabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti re- stano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamen- ti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. È vano chiedersi se essi so- no migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun rapporto, cosí come le vecchie cartoline non rappresentano Maurilia com’era, ma un’altra città che per caso si chiamava Maurilia come questa.


Le città e il desiderio. 4.

Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ra- gione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era piú la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro.

Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di per- correre dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spi- rale del minareto a chiocciola (che non trovò piú la base su cui sorgere).

Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmen- te reali, ma perche tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è an- cora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è piú.


Le città e i segni. 3.

L’uomo che viaggia e non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reg- gia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni città dell’impero ogni edificio è differente e disposto in un di- verso ordine: ma appena il forestiero arriva alla città sco- nosciuta e getta lo sguardo in mezzo a quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di cana- li orti immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi dei grandi sacerdoti, la locan- da, la prigione, la suburra. Cosí – dice qualcuno – si conferma l’ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono.

Non cosí a Zoe. In ogni luogo di questa città si po- trebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d’oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli. Qualsiasi tetto a piramide potrebbe coprire tanto il lazzaretto dei lebbrosi quanto le terme delle odalische. Il viaggiatore gira gira e non ha che dub- bi: non riuscendo a distinguere i punti della città, anche i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescola- no. Ne inferisce questo: se l’esistenza in tutti i suoi mo- menti è tutta se stessa, la città di Zoe è il luogo dell’esi- stenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale linea separa il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall’ululo dei lupi?


Le città sottili. 2.

Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mira- bile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altis- sime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su tram- poli che si scavalcano l’un l’altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi co- perti da tettoie a cono, barili di serbatoi d’acqua, giran- dole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla lo- ro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vedia- mo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è cer- to è che chi abita a Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, svento- lante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello.

Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da clas- sificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non e in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le muta- zioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desi- deri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.


Le città e gli scambi. 1.

A ottanta miglia incontro al vento di maestro l’uomo raggiunge la città di Eufemia, dove i mercanti di sette nazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio. La barca che vi approda con un carico di zenzero e bamba- gia tornerà a salpare con la stiva colma di pistacchi e se- mi di papavero, e la carovana che ha appena scaricato sacchi di noce moscata e di zibibbo già affastella i suoi basti per il ritorno con rotoli di mussola dorata. Ma ciò che spinge a risalire fiumi e attraversare deserti per venire fin qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l’impero del Gran Kan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stesse stuoie gialle, all’ombra delle stesse tende scacciamosche, offerte con gli stessi ribassi di prezzo menzogneri. Non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma an- che perché la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mer- cato, seduti sui sacchi o sui barili, o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come “lupo”, “so- rella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “aman- ti” – gli altri raccontano ognuno la sua storiadi lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per re- stare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una so- rella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio.

...Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Le- vante, Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che estraendo oggetti dalle sue valigie: tamburi, pesci salati, collane di denti di facocero, e indicandoli con gesti, salti, grida di meraviglia o d’orrore, o imitando il latrato dello sciacallo e il chiurlio del barbagianni.

Non sempre le connessioni tra un elemento e l’altro del racconto risultavano evidenti all’imperatore; gli oggetti pote- vano voler dire cose diverse: un turcasso pieno di freccie in- dicava ora l’approssimarsi d’una guerra, ora abbondanza di cacciagione, oppure la bottega d’un armaiolo; una clessidra poteva significare il tempo che passa o che è passato, oppure la sabbia, o un’officina in cui si fabbricano clessidre.

Ma ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto o notizia riferito dal suo inarticolato informatore era lo spazio che re- stava loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le de- scrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa do- te: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa.

Col passare del tempo, nei racconti di Marco le parole andarono sostituendosi agli oggetti e ai gesti: dapprima esclamazioni, nomi isolati, secchi verbi, poi giri di frase, discorsi ramificati e frondosi, metafore e traslati. Lo stra- niero aveva imparato a parlare la lingua dell’imperatore, o l’imperatore a capire la lingua dello straniero.

Ma si sarebbe detto che la comunicazione fra loro fosse meno felice d’una volta: certo le parole servivano meglio degli oggetti e dei gesti per elencare le cose piú importanti d’ogni provincia e città: monumenti, mercati, costumi, fauna e flora; tuttavia quando Polo cominciava a dire di come doveva essere la vita in quei luoghi, giorno per gior- no, sera dopo sera, le parole gli venivano meno, e a poco a poco tornava a ricorrere a gesti, a smorfie, a occhiate.

Cosí, per ogni città, alle notizie fondamentali enunciate in vocaboli precisi, egli faceva seguire un commento muto, alzando le mani di palma, di dorso, o di taglio, in mosse diritte o oblique, spasmodiche o lente. Una nuova specie di dialogo si stabilì tra loro: le bianche mani del Gran Kan, cariche di anelli, rispondevano con movimenti com- posti a quelle agili e nodose del mercante. Col crescere d’un intesa tra loro, le mani presero ad assumere atteggia- menti stabili, che corrispondevano ognuno a un movimen- to dell’animo, nel loro alternarsi e ripetersi. E mentre il vocabolario delle cose si rinnovava con i campionari delle mercanzie, il repertorio dei commenti muti tendeva a chiudersi e a fissarsi. Anche il piacere a ricorrervi diminui- va in entranbi; nelle loro conversazioni restavano il piú del tempo zitti e immobili.


III

Kublai Kan s’era accorto che le città di Marco Polo s’as- somigliavano, come se il passaggio dall’una all’altra non implicasse un viaggio ma uno scambio d’elementi. Ades- so, da ogni città che Marco gli descriveva, la mente del Gran Kan partiva per suo conto, e smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo in- gredienti, spostandoli, invertendoli.

Marco intanto continuava a riferire del suo viaggio, ma l’imperatore non lo stava piú a sentire,lo interrompeva:

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città e tu verifi- cherai se esistono e se sono come io le ho pensate. Comin- cerò a chiederti d’una città a scale, esposta a scirocco, su un golfo a mezza luna. Ora dirò qualcuna delle meraviglie che contiene: una vasca di vetro alta come un duomo per seguire il nuoto e il volo dei pesci–rondine e trarne auspi- ci; una palma che con le foglie al vento suona l’arpa; una piazza con intorno una tavola di marmo a ferro di cavallo, con la tovaglia pure in marmo, imbandita con cibi e be- vande tutti in marmo.

– Sire, eri distratto. Di questa città appunto ti stavo racccontando quando m’hai interrotto.

– La conosci? Dov’è? Qual è il suo nome?

– Non ha nome né luogo. Ti ripeto la ragione per cui la descrivevo: dal numero delle città immaginabili occorre escludere quelle i cui elementi si sommano senza un filo che li connetta, senza una regola interna, una prospettiva, un discorso. È delle città come dei sogni: tutto l’immagi- nabile può essere sognato ma anche il sogno piú inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rove- scio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di de- sideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.

– Io non ho desideri né paure, – dichiarò il Kan, – e i miei sogni sono composti o dalla mente o dal caso.

– Anche le città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o le settantasette me- raviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.

– O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge.


Le città e il desiderio. 5.

Di là, dopo sei giorni e sette notti, l’uomo arriva a Zo- beide, città bianca, ben esposta alla luna, con vie che gi- rano su se stesse come in un gomitolo. Questo si raccon- ta della sua fondazione: uomini di nazioni diverse ebbero un sogno uguale, videro una donna correre di notte per una città sconosciuta, da dietro, coi capelli lunghi, ed era nuda. Sognarono d’inseguirla. Gira gira oguno la perdette. Dopo il sogno andarono cercando quella città; non la trovarono ma si trovarono tra loro; decisero di costruire una città come nel sogno. Nella disposizione delle strade ognuno rifece il percorso del suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce del- la fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse piú scappare.

Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilirono aspettando che una notte si ripetesse quella scena. Nes- suno di loro, né nel sonno né da sveglio, vide mai piú la donna. Le vie della città erano quelle in cui essi andava- no al lavoro tutti i giorni, senza piú nessun rapporto con l’inseguimento sognato. Che del resto era già dimentica- to da tempo.

Nuovi uomini arrivarono da altri paesi, avendo avuto un sogno come il loro, e nella città di Zobeide ricono- scevano qualcosa delle vie del sogno, e cambiavano di posto a porticati e a scale perché somigliassero di piú al cammino della donna inseguita e perché nel punto in cui era sparita non le restasse via di scampo.

I primi arrivati non capivano che cosa attraesse que- sta gente a Zobeide, in qusta brutta città, in questa trap- pola.


Le città e i segni. 4.

Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardi- no di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io anda- vo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fa- re il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i ca- pelli verdi d’alghe.

Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sulta- no. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole piú alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra.

Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca mi persi tra scaffali che crollavano sot- to le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico d’alfabeti scomparsi, su e giú per corridoi, scalette e ponti. Nel piú remoto gabinetto dei papiri, in una nuvo- la di fumo, mi appervero gli occhi inebetiti d’un adole- scente sdaiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d’oppio.

– Dov’è il sapiente? – Il fumatore indicò fuori della fi- nestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’alta- lena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I se- gni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere –. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: so- lo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia. Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fru- ste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e apppena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura

e lo premono con i saldi capezzoli.

E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’al- tra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe.

Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo piú alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassú. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.


Le città sottili. 3.

Se Armilla sia cosí perché incompiuta o perché demo- lita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffiti, né pa- vimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbe- ro esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in ru- binetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo bian- cheggia  qualche  lavabo  o  vasca  da  bagno  o  altra maiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami. Si di- rebbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro e se ne siano andati prima dell’arrivo dei muratori; oppu- re che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito a una catastrofe, terremoto o corrosione di termiti.

Abbandonata prima o dopo essere stata abitata, Ar- milla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogio- lano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le doc- ce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s’asciu- gano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.

La spigazione cui sono arrivato è questa: dei corsi d’ac- qua incanalati nelle tubature d’Armilla sono rimaste pa- drone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterra- nee,  è  stato  loro  facile  inoltrarsi  nel  nuovo  regno acquatico, sgorgare da fonti moltiplicate, trovare nuovi specchi, nuovi giochi, nuovi modi di godere dell’acqua. Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini come un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque. Comunque, adesso sembrano contente, queste donnine: al mattino si sentono cantare.


Le città e gli scambi. 2.

A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano.

Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggia- to alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche. Pas- sa una donna nerovestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti. Passa un gigante tatuato; un uomo giovane coi capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo. Qual- cosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come linee che collegano una figura all’altra e disegnano frecce, stelle, triangoli, finché tutte le combinazioni in un atti- mo sono esaurite, e altri personagi entrano in scena: un cieco con un ghepardo alla catena, una cortigiana col ventaglio di piume di struzzo, un efebo, una donna–can- none. Cosí tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendo- ne del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.

Una vibrazione lussuriosa muove continuamente Cloe, la piú casta delle città. Se uomini e donne comin- ciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma di- venterebbe una persona con cui cominciare una storia d’inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d’urti, di op- pressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe.


Le città e gli occhi. 1.

Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra l’altra e vie alte che af- facciano sull’acqua i parapetti a balaustra. Cosí il viag- giatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosa nell’una Valdrada che l’altra Valdrada non ripeta, per- ché la città fu costruita in modo che ogni suo punto fos- se riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giú nell’acqua contiene non solo tutte le scanalature e gli sbalzi delle facciate che s’elevano sopra il lago ma anche l’interno delle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei corridoi, gli specchi degli armadi.

Gli abitanti di Valdrada sanno che tutti i loro atti so- no insieme quell’atto e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità delle immagini, e questa loro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istante al caso e all’oblio. Anche quando gli amanti dànno volta ai corpi nudi pelle contro pelle cercando come mettersi per prendere l’uno dall’altro piú piacere, anche quando gli assassini spingono il coltello nelle vene nere del collo e piú sangue grumoso trabocca piú affondano la lama che scivola tra i tendini, non è tanto il loro accoppiarsi o trucidarsi che importa quanto l’accoppiarsi o trucidarsi delle loro immagini limpide e fredde nello specchio.

Lo specchio ora accresce il valore alle cose, ora lo ne- ga. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdra- da è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano.

Il Gran Kan ha sognato una città: la descrive a Marco Polo:

– Il porto è esposto a settentrione, in ombra. Le banchi- ne sono alte sull’acqua nera che sbatte contro le murate; vi scendono scale di pietra scivolose d’alghe. Barche spalma- te di catrame aspettano all’ormeggio i partenti che s’attar- dano sulla calata a dire addio alle famiglie. I commiati si svolgono in silenzio ma con lacrime. Fa freddo; tutti por- tano scialli sulla testa. Un richiamo del barcaiolo tronca gli indugi; il viaggiatore si rannicchia a prua, s’allontana guardando verso il capannello dei rimasti; da riva già non si distinguono i lineamenti; c’è foschia; la barca accosta un bastimento all’ancora; sulla scaletta sale una figura rim- picciolita; sparisce; si sente alzare la catena arrugginita che raschia contro la cubia. I rimasti s’affacciano agli spalti so- pra la scogliera del molo, per seguire con gli occhi la nave fino a che doppia il capo; agitano un’ultima volta un cen- cio bianco.

– Mettiti in viaggio, esplora tutte le coste e cerca questa città, – dice il Kan a Marco. – Poi torna a dirmi se il mio sogno risponde al vero.

– Perdonami, signore: non c’è dubbio che presto o tardi m’imbarcherò a quel molo, – dice Marco, – ma non tor- nerò a riferirtelo. La città esiste e ha un semplice segreto: conosce solo partenze e non ritorni.


IV

Le labbra strette sul cannello d’ambra della pipa, la barba schiacciata contro la gorgera d’ametiste, gli alluci inarcati nervosamente nelle pantofole di seta, Kublai Kan ascoltava i resoconti di Marco Polo senza sollevare le ci- glia. Erano le sere in cui un vapore ipocondriaco gravava sul suo cuore.

– Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite. Per certo non esisteranno piú. Perché ti trastulli con favo- le consolanti? So bene che il mio impero marcisce come un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto i corvi che lo beccano quanto i bambú che crescono conci- mati dal suo liquame. Perché non mi parli di questo? Per- ché menti all’imperatore dei tartari, straniero?

Polo sapeva secondare l’umore nero del sovrano. – sí, l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai in- torno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane. Alle volte il Kan era invece visitato da soprassalti d’euforia. Si sollevava sui cuscini, misurava a lunghi passi i tappeti stesi sotto i suoi piedi sulle aiole, s’affacciava alle balaustre delle terrazze per dominare con occhio allucina- to la distesa dei giardini della reggia rischiarati dalle lanterne appese ai cedri.

– Eppure io so, – diceva, – che il mio impero è fatto del- la materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto. In mezzo al ribollire degli elementi prende forma un diamante splendido e durissimo, un’im- mensa montagna sfaccettata e trasparente. Perché le tue impressioni di viaggio si fermano alle delusive apparenze e non colgono questo processo inarrestabile? Perché indu- gi in malinconie inessenziali? Perché nascondi all’impera- tore la grandezza del suo destino?

E Marco: – Mentre al tuo cenno, sire, la città una e ulti- ma innalza le sue mura senza macchia, io raccolgo le cene- ri delle altre città possibili che scompaiono per farle posto e non potranno piú essere ricostruite né ricordate. Solo se conoscerai il residuo d’infelicità che nessuna pietra prezio- sa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio.


Le città e i segni. 5.

Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si de- ve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto. Se ti descrivo Olivia, città ricca di prodotti e guadagni, per significare la sua prosperità non ho altro mezzo che parlare di pa- lazzi di filigrana con cuscini frangiati ai davanzali delle bifore; oltre la grata d’un patio una girandola di zampilli innaffia un prato dove un pavone bianco fa la ruota. Ma da questo discorso tu subito comprendi come Olivia è avvolta in una nuvola di fuliggine e d’unto che s’attacca alle pareti delle case; che nella ressa delle vie i rimorchi in manovra schiacciano i pedoni contro i muri. Se devo dirti dell’operosità degli abitanti, parlo delle botteghe dei sellai odorose di cuoio, delle donne che cicalano in- trecciando tappeti di rafia, dei canali pensili le cui casca- te muovono le pale dei mulini: ma l’immagine che que- ste parole evocano nella tua coscienza illuminata è il gesto che accompagna il mandrino contro i denti della fresa ripetuto da migliaia di mani per migliaia di volte al tempo fissato per i turni di squadra. Se devo spiegarti come lo spirito di Olivia tenda a una vita libera e a una civiltà sopraffina, ti parlerò di dame che navigano, can- tando la notte su canoe illuminate tra le rive d’un verde estuario; ma è soltanto per ricordarti che nei sobborghi dove sbarcano ogni sera uomini e donne come file di sonnambuli, c’è sempre chi nel buio scoppia a ridere, dà la stura agli scherzi e ai sarcasmi.

Questo forse non sai: che per dire d’Olivia non potrai tenere altro discorso. Se ci fosse un’Olivia davvero di bifore e pavoni, di sellai e tessitori di tappeti e canoe e estuari, sarebbe un misero buco nero di mosche, e per descrivertelo dovrei fare ricorso alle metafore della fu- liggine, dello stridere di ruote, dei gesti ripetuti, dei sar- casmi. La menzogna non è nel discorso, è nelle cose.


Le città sottili. 4.

La città di Sofronia si compone di due mezze città. In una c’è il grande ottovolante dalle ripide gobbe, la gio- stra con la raggiera di catene, la ruota delle gabbie gire- voli, il pozzo della morte con i motociclisti a testa in giù, la cupola del circo col grappolo dei trapezi che pende in mezzo. L’altra mezza città è di pietra e marmo e cemen- to, con la banca, gli opifici, i palazzi, il mattatoio, la scuola e tutto il resto. Una delle mezze città è fissa, l’al- tra è provvisoria e quando il tempo della sua sosta è fini- to la schiodano, la smontano e la portano via, per tra- piantarla nei terreni vaghi d’un’altra mezza città.

Cosí ogni anno arriva il giorno in cui i manovali stac- cano i frontoni di marmo, calano i muri di pietra, i pilo- ni di cemento, smontano il ministero, il monumento, i docks, la raffineria di petrolio, l’ospedale, li caricano sui rimorchi, per seguire di piazza in piazza l’itinerario d’ogni anno. Qui resta la mezza Sofronia dei tirassegni e delle giostre, con il grido sospeso dalla navicella dell’ot- tovolante a capofitto, e comincia a contare quanti mesi, quanti giorni dovrà aspettare prima che ritorni la caro- vana e la vita intera ricominci.


Le città e gli scambi. 3.

Entrato nel territorio che ha Eutropia per capitale, il viaggiatore vede non una città ma molte, di eguale gran- dezza e non dissimili tra loro, sparse per un vasto e on- dulato altopiano. Eutropia è non una ma tutte queste città insieme; una sola è abitata, le altre vuote; e questo si fa a turno. Vi dirò ora come. Il giorno in cui gli abi- tanti di Eutropia si sentono assalire dalla stanchezza, e nessuno sopporta piú il suo mestiere, i suoi parenti, la sua casa e la sua via, i debiti, la gente da salutare o che saluta, allora tutta la cittadinanza decide di spostarsi nella città vicina che è lí ad aspettarli, vuota e come nuo- va, dove ognuno prenderà un altro mestiere, un’altra moglie, vedrà un altro paesaggio aprendo la finestra, passerà le sere in altri passatempi amicizie maldicenze. Cosí la loro vita si rinnova di trasloco in trasloco, tra città che per l’esposizione o la pendenza o i corsi d’ac- qua o i venti si presentano ognuna con qualche differen- za dalle altre. Essendo la loro società ordinata senza grandi differenze di ricchezza o di autorità, i passaggi da una funzione all’altra avvengono quasi senza scosse; la varietà è assicurata dalle molteplici incombenze, tali che nello spazio d’una vita raramente uno ritorna a un me- stiere che già era stato il suo.

Cosí la città ripete la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla sua scacchiera vuota. Gli abitanti tornano a recitare le stesse scene con attori cambiati; ridicono le stesse battute con accenti variamente combinati; spalan- cano bocche alternate in uguali sbadigli. Sola tra tutte le città dell’impero, Eutropia permane identica a se stessa. Mercurio, dio dei volubili, al quale la città è sacra, fece questo ambiguo miracolo.


Le città e gli occhi. 2.

È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemru- de la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguar- di s’impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia. Non puoi dire che un aspetto della città sia piú vero dell’altro, però della Zem- rude d’in su senti parlare sopratutto da chi se la ricorda affondando nella Zemrude d’in giù, percorrendo tutti i giorni gli stessi tratti di strada e ritrovando al mattino il malumore del giorno prima incrostato a piè dei muri. Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamo lo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamo piú a staccarlo dal selciato. Il caso inverso non è escluso, ma è piú raro: perciò continuiamo a girare per le vie di Zemrude con gli occhi che ormai scavano sotto alle can- tine, alle fondamenta, ai pozzi.


Le città e il nome. 1.

Poco saprei dirti d’Aglaura fuori delle cose che gli abitanti stessi della città ripetono da sempre: una serie di virtù proverbiali, d’altrettanto proverbiali difetti, qualche bizzarria, qualche puntiglioso ossequio alle re- gole. Antichi osservatori, che non c’è ragione di non supporre veritieri, attribuirono ad Aglaura il suo dure- vole assortimento di qualità, certo confrontandole con quelle d’altre città dei loro tempi. Né l’Aglaura che si di- ce né l’Aglaura che si vede sono forse molto cambiate da allora, ma ciò che era eccentrico è diventato usuale, stra- nezza quello che passava per norma, e le virtù e i difetti hanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtù e difetti diversamente distribuiti. In questo senso nulla è vero di quanto si dice d’Aglaura, eppure se ne trae un’immagine solida e compatta di città, mentre minor consistenza raggiungono gli sparsi giudizi che se ne pos- sono trarre a viverci. Il risultato è questo: la città che di- cono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno.

Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi a quanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che è una città sbiadita, senza carattere, messa lí come vien viene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore, in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifi- co; vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire.

Perciò gli abitanti credono sempre d’abitare un’Aglau- ra che cresce solo sul nome Aglaura e non s’accorgono dell’Aglaura che cresce in terra. E anche a me che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell’una, perché il ricordo dell’altra, mancando di parole per fissarlo, s’è disperso.

– D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, – aveva detto il Kan. – Tu nei tuoi viaggi verificherai se esistono. Ma le città visitate da Marco Polo erano sempre diverse

da quelle pensate dall’imperatore.

– Eppure io ho costruito nella mia mente un modello di città da cui dedurre tutte le città possibili, – disse Kublai.

– Esso racchiude tutto quello che risponde alla norma. Sic- come le città che esistono s’allontanano in vario grado dalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla norma e calcolarne le combinazioni piú probabili.

– Anch’io ho pensato un modello di città da cui deduco tutte le altre, – rispose Marco. – È una città fatta solo d’ec- cezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze, contro- sensi. Se una città cosí è quanto c’è di piú improbabile, di- minuendo il numero degli elementi abnormi si accrescono le probabilità che la città ci sia veramente. Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi or- dine proceda arriverò a trovarmi davanti una delle città che, pur sempre in via d’eccezione, esistono. Ma non pos- sono spingere la mia operazione oltre un certo limite: ot- terrei delle città troppo verosimili per essere vere.


V

Dall’alta balaustra della reggia il Gran Kan guarda cre- scere l’impero. Prima era stata la linea dei confini a dila- tarsi inglobando i territori conquistati, ma l’avanzata dei reggimenti incontrava plaghe semideserte, stentati villag- gi di capanne, acquitrini dove attecchiva male il riso, po- polazioni magre, fiumi in secca, canne. “È tempo che il mio impero, già troppo cresciuto verso il fuori, – pensava il Kan, – cominci a crescere al di dentro”, e sognava boschi di melegranate mature che spaccano la scorza, zebú rosola- ti allo spiedo e gocciolanti lardo, vene metallifere che sgorgano in frane di pepite luccicanti.

Ora molte stagioni d’abbondanza hanno colmato i gra- nai. I fiumi in piena hanno trascinato foreste di travi de- stinate a sostenere tetti di bronzo di templi e palazzi. Ca- rovane di schiavi hanno spostato montagne di marmo serpentino attraverso il continente. Il Gran Kan contem- pla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e su- gli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico d’ornamenti e d’incombenze, complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve.

“È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero”, pensa Kublai, e nei suoi sogni ora appaiono città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore.

– Ti racconterò cosa ho sognato stanotte, – dice a Mar- co. – In mezzo a una terra piatta e gialla, cosparsa di me- teoriti e massi erratici, vedevo di lontano elevarsi le guglie d’una città dai pinnacoli sottili, fatti in modo che la Luna nel suo viaggio possa posarsi ora sull’uno ora sull’ altro, o dondolare appesa ai cavi delle gru.

E Polo: – La città che hai sognato è Lalage. Questi invi- ti alla sosta nel cielo notturno i suoi abitanti disposero perché la Luna conceda a ogni cosa nella città di crescere e ricrescere senza fine.

– C’è qualcosa che tu non sai, – aggiunse il Kan. – Ri- conoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privile- gio piú raro: crescere in leggerezza.


Le città sottili. 5.

Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Otta- via, città–ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’ intravede piú in basso il fondo del bur- rone.

Questa è la base della città: una rete che serve da pas- saggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi so- pra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’ac- qua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, telefe- riche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo. Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che piú di tanto la rete non regge.


Le città e gli scambi. 4.

A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli del- le case, bianchi o neri o grigi o bianco–e–neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non ci si può piú passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case ven- gono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili.

Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e pali che s’innalza nella pianura. È quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente.

Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figu- ra simile che vorrebbero piú complicata e insieme piú regolare dell’altra. Poi l’ abbandonano e trasportano an- cora piú lontano sé e le case.

Cosí viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le ro- vine delle città abbandonate, senza le mura che non du- rano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ra- gnatele di rapporti intricati che cercano una forma.


Le città e gli occhi. 3.

Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I sottili trampoli che s’alzano dal suolo a gran distanza l’uno dall’altro e si perdono sopra le nubi sostengono la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto l’occorrente lassú e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un’ombra traforata e angolosa che si disegna sul fogliame.

Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odi- no la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giú non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la pro- pria assenza.


Le città e il nome. 2.

Dèi di due specie proteggono la città di Leandra. Gli uni e gli altri sono cosí piccoli che non si vedono e cosí numerosi che non si possono contare. Gli uni stanno sulle porte delle case, all’interno, vicino all’attaccapanni e al portaombrelli; nei traslochi seguono le famiglie e s’installano nei nuovi alloggi alla consegna delle chiavi. Gli altri stanno in cucina, si nascondono di preferenza sotto le pentole, o nella cappa del camino, o nel riposti- glio delle scope: fanno parte della casa e quando la fami- glia che ci abitava se ne va, loro restano coi nuovi inqui- lini; forse erano già lí quando la casa non c’era ancora, tra l’erbaccia dell’area fabbricabile, nascosti in un barat- tolo arrugginito; se si butta giú la casa e al suo posto si costruisce un casermone per cinquanta famiglie, ce li si ritrova moltiplicati, nella cucina d’altrettanti apparta- menti. Per distinguerli, chiameremo Penati gli uni e gli altri Lari.

In una casa, non è detto che i Lari stiano sempre coi Lari e i Penati coi Penati: si frequentano, passeggiano insieme sulle cornici di stucco, sui tubi dei termosifoni, commentano i fatti della famiglia, è facile che litighino, ma possono pure andar d’accordo per degli anni; a ve- derli tutti in fila non si distingue quale è l’uno e quale è l’altro. I Lari hanno visto passare tra le loro mura Penati delle piú diverse provenienze e abitudini; ai Penati tocca farsi un posto gomito a gomito coi Lari d’illustri palazzi decaduti, pieni di sussiego, o coi Lari di baracche di lat- ta, permalosi e diffidenti.

La vera essenza di Leandra è argomento di discussioni senza fine. I Penati credono d’essere loro l’anima della città, anche se ci sono arrivati l’anno scorso, e di portarsi Leandra con sé quando emigrano. I Lari considerano i Penati ospiti provvisori, importuni, invadenti; la vera Leandra è la loro, che dà forma a tutto quello che contiene, la Leandra che era lí prima che tutti questi intrusi ar- rivassero e resterà quando tutti se ne saranno andati.

In comune hanno questo: che su quanto succede in famiglia e in città trovano sempre da ridire, i Penati ti- rando in ballo i vecchi, i bisnonni, le prozie, la famiglia d’una volta, i Lari l’ambiente com’era prima che lo rovi- nassero. Ma non è detto che vivano solo di ricordi: alma- naccano progetti sulla carriera che faranno i bambini da grandi (i Penati), su cosa potrebbe diventare quella casa o quella zona (i Lari) se fosse in buone mani. A tendere l’orecchio, specie di notte, nelle case di Leandra, li senti parlottare fitto fitto, darsi sulla voce, rimandarsi motteg- gi, sbuffi, risatine ironiche.


Le città e i morti. 1.

A Melania, ogni volta che si entra nella piazza, ci si trova in mezzo a un dialogo: il soldato millantatore e il parassita uscendo da una porta s’incontrano col giovane scialacquatore e la meretrice; oppure il padre avaro dal- la soglia fa le ultime raccomandazioni alla figlia amorosa ed è interrotto dal servo sciocco che va a portare un bi- glietto alla mezzana. Si ritorna a Melania dopo anni e si ritrova lo stesso dialogo che continua; nel frattempo so- no morti il parassita, la mezzana, il padre avaro; ma il soldato millantatore, la figlia amorosa, il servo sciocco hanno preso il loro posto, sostituiti alla loro volta dall’ipocrita, dalla confidente, dall’astrologo.

La popolazione di Melania si rinnova: i dialoganti muoiono a uno a uno e intanto nascono quelli che pren- deranno posto a loro volta nel dialogo, chi in una parte chi nell’altra. Quando qualcuno cambia di parte o ab- bandona la piazza per sempre o vi fa il suo primo ingres- so, si producono cambiamenti a catena, finché tutte le parti non sono distribuite di nuovo; ma intanto al vecchio irato continua a rispondere la servetta spiritosa, l’usuraio non smette d’inseguire il giovane diseredato, la nutrice di consolare la figliastra, anche se nessuno di lo- ro conserva gli occhi e la voce che aveva nella scena pre- cedente.

Capita alle volte che un solo dialogante sostenga nello stesso tempo due o piú parti: tiranno, benefattore, mes- saggero; o che una parte sia sdoppiata, moltiplicata, at- tribuita a cento, a mille abitanti di Melania: tremila per l’ipocrita, trentamila per lo scroccone, centomila figli di re caduti in bassa fortuna che attendono il riconosci- mento.

Col passare del tempo anche le parti non sono piú esattamente le stesse di prima; certamente l’azione che esse mandano avanti attraverso intrighi e colpi di scena porta verso un qualche scioglimento finale, cui continua ad avvicinarsi anche quando la matassa pare ingarbu- gliarsi di piú e gli ostacoli aumentare. Chi s’affaccia alla piazza in momenti successivi sente che d’atto in atto il dialogo cambia, anche se le vite degli abitanti di Melania sono troppo brevi per accorgersene.

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede

Kublai Kan.

– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – ri- sponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiun- ge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.

Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.


VI

– Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli a questa? – chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la ma- no inanellata fuori dal baldacchino di seta del bucintoro imperiale, a indicare i ponti che s’incurvano sui canali, i palazzi principeschi le cui soglie di marmo s’immergono nell’acqua, l’andirivieni di battelli leggeri che volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ce- ste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane, le cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggia- no nel grigio della laguna.

L’imperatore, accompagnato dal suo dignitario forestie- ro, visitava Quinsai, antica capitale di spodestate dinastie, ultima perla incastonata nella corona del Gran Kan.

– No, sire, – rispose Marco,– mai avrei immaginato che potesse esistere una città simile a questa.

L’imperatore cercò di scrutarlo negli occhi. Lo straniero abbassò lo sguardo. Kublai restò silenzioso per tutto il giorno.

Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Po- lo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporan- do a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sba- diglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città,– insisteva.

– ...Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare no- mi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.

– Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo.

– Venezia, – disse il Kan.

Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai

sentito fare il suo nome.

E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualco- sa di Venezia.

– Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.

– Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.

– Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia cosí com’è, tut- ta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di ra- me dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano.

– Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a poco.


Le città e gli scambi. 5.

A Smeraldina, città acquatica, un reticolo di canali e un reticolo di strade si sovrappongono e s’intersecano. Per andare da un posto a un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la li- nea piú breve tra due punti a Smeraldina non è una retta ma uno zigzag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che s’aprono a ogni passante non sono soltanto due ma molte, e ancora aumentano per chi alterna traghetti in barca e trasbordi all’asciutto.

Cosí la noia a percorrere ogni giorno le stesse strade è risparmiata agli abitanti di Smeraldina. E non è tutto: la rete dei passaggi non è disposta su un solo strato, ma segue un saliscendi di scalette, ballatoi, ponti a schiena d’asino, vie pensili. Combinando segmenti dei diversi tragitti sopraelevati o in superficie, ogni abitante si dà ogni giorno lo svago d’un nuovo itinerario per andare negli stessi luoghi. Le vite piú abitudinarie e tranquille a Smeraldina trascorrono senza ripetersi.

A maggiori costrizioni sono esposte, qui come altro- ve, le vite segrete e avventurose. I gatti di Smeraldina, i ladri, gli amanti clandestini si spostano per vie piú alte e discontinue, saltando da un tetto all’altro, calandosi da un’altana a un verone, contornando grondaie con passo da funamboli. Piú in basso, i topi corrono nel buio delle cloache l’uno dietro la coda dell’altro insieme ai congiu- rati e ai contabbandieri: fanno capolino da tombini e da chiaviche, svicolano per intercapedini e chiassuoli, tra- scinano da un nascondiglio all’altro croste di formaggio, mercanzie proibite, barili di polvere da sparo, attraver- sano la compattezza della città traforata dalla raggera dei cunicoli sotterranei.

Una mappa di Smeraldina dovrebbe comprendere, segnati in inchiostri di diverso colore, tutti questi trac- ciati, solidi e liquidi, palesi e nascosti. Piú difficile è fis- sare sulla carta le vie delle rondini, che tagliano l’aria so- pra i tetti, calano lungo parabole invisibili ad ali ferme, scartano per inghiottire una zanzara, risalgono a spirale rasente un pinnacolo, sovrastano da ogni punto dei loro sentieri d’aria tutti i punti della città.


Le città e gli occhi. 4.

Giunto a Fillide, ti compiaci d’osservare quanti ponti diversi uno dall’altro attraversano i canali: ponti a schie- na d’asino, coperti, su pilastri, su barche, sospesi, con i parapetti traforati; quante varietà di finestre s’affacciano sulle vie: a bifora, moresche, lanceolate, a sesto acuto, sormontate da lunette o da rosoni; quante specie di pa- vimenti coprano il suolo: a ciottoli, a lastroni, d’imbrec- ciata, a piastrelle bianche e blu. In ogni suo punto la città offre sorprese alla vista: un cespo di capperi che sporge dalle mura della fortezza, le statue di tre regine su una mensola, una cupola a cipolla con tre cipolline infilzate sulla guglia. “Felice chi ha ogni giorno Fillide sotto gli occhi e non finisce mai di vedere le cose che contiene”, esclami, col rimpianto di dover lasciare la città dopo averla solo sfiorata con lo sguardo.

Ti accade invece di fermarti a Fillide e passarvi il re- sto dei tuoi giorni. Presto la città sbiadisce ai tuoi occhi, si cancellano i rosoni, le statue sulle mensole, le cupole. Come tutti gli abitanti di Fillide, segui linee a zigzag da una via all’altra, distingui zone di sole e zone d’ombra, qua una porta, là una scala, una panca dove puoi posare il cesto, una cunetta dove il piede inciampa se non ci ba- di. Tutto il resto della città è invisibile. Fillide è uno spa- zio in cui si tracciano percorsi tra punti sospesi nel vuo- to, la via piú breve per raggiungere la tenda di quel mercante evitando lo sportello di quel creditore. I tuoi passi rincorrono ciò che non si trova fuori degli occhi ma dentro, sepolto e cancellato: se tra due portici uno continua a sembrarti piú gaio è perché è quello in cui passava trent’anni fa una ragazza dalle larghe maniche ricamate, oppure è solo perché riceve la luce a una cert’ora come quel portico, che non ricordi piú dov’era. Milioni d’occhi s’alzano su finestre ponti capperi ed è come scorressero su una pagina bianca. Molte sono le città come Fillide che si sottraggono agli sguardi tranne che se le cogli di sorpresa.


Le città e il nome. 3.

A lungo Pirra è stata per me una città incastellata sul- le pendici d’un golfo, con finestre alte e torri, chiusa co- me una coppa, con al centro una piazza profonda come un pozzo e con un pozzo al centro. Non l’avevo mai vi- sta. Era una delle tante città dove non sono mai arrivato, che m’immagino soltanto attraverso il nome: Eufrasia, Odile, Margara, Getullia. Pirra aveva il suo posto in mezzo a loro, diversa da ognuna di loro, come ognuna di loro inconfondibile agli occhi della mente.

Venne il giorno in cui i miei viaggi mi portarono a Pirra. Appena vi misi piede tutto quello che immagina- vo era dimenticato; Pirra era diventata ciò che è Pirra; e io credevo d’aver sempre saputo che il mare non è in vi- sta della città, nascosto da una duna della costa bassa e ondulata; che le vie corrono lunghe e diritte; che le case sono raggruppate a intervalli, non alte, e le separano spiazzi di depositi di legname e segherie; che il vento muove le girandole delle pompe idrauliche. Da quel mo- mento in poi il nome Pirra richiama alla mia mente que- sta vista, questa luce, questo ronzio, quest’aria in cui vo- la una polvere giallina: è evidente che significa e non poteva significare altro che questo.

La mia mente continua a contenere un gran numero di città che non ho visto né vedrò, nomi che portano con sé una figura o frammento o barbaglio di figura immaginata: Getullia, Odile, Eufrasia, Margara. Anche la città alta sul golfo è sempre là, con la piazza chiusa intorno al pozzo, ma non posso piú chiamarla con un nome, né ricordare come potevo darle un nome che significa tutt’altro.


Le città e i morti. 2.

Mai nei miei viaggi m’ero spinto fino a Adelma. Era l’imbrunire quando vi sbarcai. Sulla banchina il mari- naio che prese al volo la cima e la legò alla bitta somi- gliava a uno che era stato soldato con me, ed era morto. Era l’ora del mercato del pesce all’ingrosso. Un vecchio caricava una cesta di ricci su un carretto; credetti di ri- conoscerlo; quando mi voltai era sparito in un vicolo, ma avevo capito che somigliava a un pescatore che, già vecchio quando io ero bambino, non poteva piú essere tra i vivi. Mi turbò la vista d’un malato di febbri rannic- chiato per terra con una coperta sulla testa: mio padre pochi giorni prima di morire aveva gli occhi gialli e la barba ispida come lui tal quale. Girai lo sguardo; non osavo fissare piú nessuno in viso.

Pensai: “Se Adelma è una città che vedo in sogno, do- ve non s’incontrano che morti, il sogno mi fa paura. Se Adelma è una città vera, abitata da vivi, basterà conti- nuare a fissarli perché le somiglianze si dissolvano e ap- paiano facce estranee, apportatrici d’angoscia. In un ca- so o nell’altro è meglio che non insista a guardarli”. Un’erbivendola pesava una verza sulla stadera e la metteva in un paniere appeso a una cordicella che una ragazza calava da un balcone. La ragazza era uguale a una del mio paese che era impazzita d’amore e s’era uccisa. L’erbivendola alzò il viso: era mia nonna.

Pensai: “Si arriva a un momento nella vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono piú dei vivi. E la mente si rifiuta d’accettare altre fisionomie, altre espres- sioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s’adatta di piú”.

Gli scaricatori salivano le scale in fila, curvi sotto da- migiane e barili; le facce erano nascoste da cappucci di sacco; “Ora si tirano su e li riconosco”, pensavo, con impazienza e con paura. Ma non staccavo gli occhi da loro; per poco che girassi lo sguardo sulla folla che gremiva quelle straducole, mi vedevo assalito da facce inaspetta- te, riapparse da lontano, che mi fissavano come per farsi riconoscere, come per riconoscermi, come se mi avessero riconosciuto. Forse anch’io assomigliavo per ognuno di loro a qualcuno che era morto. Ero appena arrivato ad Adelma e già ero uno di loro, ero passato dalla loro par- te, confuso in quel fluttuare d’occhi, di rughe, di smorfie. Pensai: “Forse Adelma è la città cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto. È segno che sono morto anch’io”. Pensai anche: “È segno

che l’aldilà non è felice “.


Le città e il cielo. 1.

A Eudossia, che si estende in alto e in basso, con vico- li tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima vista nulla sembra assomigliare meno a Eudossia che il disegno del tappeto, ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l’alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo tutto l’or- dito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti per- suadi che a ogni luogo del tappeto corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rap- porti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall’andiri- vieni dal brulichio dal pigia–pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l’odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva par- ziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo sche- ma geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio.

Perdersi a Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero pun- to d’arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all’ordine immobile del tappeto una sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino. Sul rapporto misterioso di due oggetti cosí diversi co- me il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Uno dei due oggetti, – fu il responso, – ha la forma che gli dei diedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano i mondi; l’altro ne è un approssimativo riflesso, come

ogni opera umana.

Gli àuguri già da tempo erano certi che l’armonico di- segno del tappeto fosse di fattura divina; in questo senso fu interpretato l’oracolo, senza dar luogo a controversie. Ma nello stesso modo tu puoi trarne la conclusione op- posta: che la vera mappa dell’universo sia la città d’Eu- dossia cosí com’è, una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zigzag, case che franano una sull’altra nel polverone, incendi, urla nel buio.

– ... Dunque è davvero un viaggio nella memoria, il tuo! – Il Gran Kan, sempre a orecchie tese, sobbalzava sull’amaca ogni volta che coglieva nel discorso di Marco un’inflessione sospirosa. – È per smaltire un carico di no- stalgia che sei andato tanto lontano! – esclamava, oppure:

– Con la stiva piena di rimpianti fai ritorno dalle tue spe- dizioni! – e soggiungeva, con sarcasmo: – Magri acquisti, a dire il vero, per un mercante della Serenissima!

Era questo il punto cui tendevano tutte le domande di Kublai sul passato e sul futuro, era da un’ora che ci gioca- va come il gatto col topo, e finalmente metteva Marco alle strette, piombandogli addosso, piantandogli un ginocchio dul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie!

Frasi e atti forse soltanto pensati, mentre i due, silen- ziosi e immobili, guardavano salire lentamente il fumo delle loro pipe. La nuvola ora si dissolveva su un filo di vento, ora restava sospesa a mezz’aria; e la risposta era in quella nuvola. Al soffio che portava via il fumo Marco pensava ai vapori che annebbiano la distesa del mare e le catene delle montagne e al diradarsi lasciano l’aria secca e diafana svelando città lontane. Era al di là di quello scher- mo d’umori volatili che il suo sguardo voleva giungere: la forma delle cose si distingue meglio in lontananza.

Oppure, la nuvola si fermava appena uscita dalle lab- bra, densa e lenta, e rimandava a un’altra visione: le esala- zioni che ristagnano sui tetti delle metropoli, il fumo opa- co che non si disperde, la cappa di miasmi che pesa sulle vie bituminose. Non le labili nebbie della memoria né l’asciutta trasparenza, ma il bruciaticcio delle vite bruciate che forma una crosta sulle città, la spugna gonfia di mate- ria vitale che non scorre piú, l’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento: questo trovavi al termine del viaggio.


VII

KUBLAI:– Non so quando hai avuto il tempo di visita- re tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.

POLO:– Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ri- trovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.

KUBLAI:– Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a pas- seggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu do- vrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che sca- lano le mura d’una fortezza assediata.

POLO:– Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrat- tare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a con- siderare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.

KUBLAI:– Forse questo nostro dialogo si sta svolgen- do tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente.

POLO:– Forse del mondo è rimasto un terreno vago ri- coperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.


Le città gli occhi. 5.

Guadato il fiume, valicato il passo, l’uomo si trova di fronte tutt’a un tratto la città di Moriana, con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpenti- na, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i.lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l’uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vi- sta la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio.

Da una parte all’altra la città sembra continui in pro- spettiva moltiplicando il suo repertorio d’immagini: in- vece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.


Le città e il nome. 4.

Clarice, città gloriosa, ha una storia travagliata. Piú volte decadde e rifiorí, sempre tenendo la prima Clarice come modello ineguagliabile d’ogni splendore, al cui confronto lo stato presente della città non manca di suscitare nuovi sospiri a ogni volgere di stelle.

Nei secoli di degradazione, la città, svuotata dalle pesti- lenze, abbassata di statura dai crolli di travature e corni- cioni e dagli smottamenti di terriccio, arrugginita e intasa- ta per incuria o vacanza degli addetti alla manutenzione, si ripopolava lentamente al riemergere da scantinati e tane d’orde di sopravvissuti che come topi brulicavano mossi dalla smania di rovistare e rodere, e pure di racimolare e raffazzonare, come uccelli che nidificano. S’attaccavano a tutto quel che poteva essere tolto di dov’era e messo in un altro posto per servire a un altro uso: i tendaggi di brocca- to finivano a fare da lenzuola; nelle urne cinerarie di mar- mo piantavano il basilico; le griglie in ferro battuto sradi- cate dalle finestre dei ginecei servivano ad arrostire carne di gatto su fuochi di legna intarsiata. Messa su coi pezziscompagnati della Clarice inservibile, prendeva forma una Clarice della sopravvivenza, tutta tuguri e catapecchie, ri- gagnoli infetti, gabbie di conigli. Eppure, dell’antico splendore di Clarice non s’era perso quasi nulla, era tutto lí, disposto solamente in un ordine diverso ma appropria- to alle esigenze degli abitanti non meno di prima.

Ai tempi d’indigenza succedevano epoche piú giulive: una Clarice farfalla suntuosa sgusciava dalla Clarice cri- salide pezzente; la nuova abbondanza faceva traboccare la città di materiali edifici oggetti nuovi; affluiva nuova gente di fuori; niente e nessuno aveva piú a che vedere con la Clarice o le Clarici di prima; e piú la nuova città s’insediava trionfalmente nel luogo e nel nome della pri- ma Clarice, piú s’accorgeva d’allontanarsi da quella, di distruggerla non meno rapidamente dei topi e della muffa: nonostante l’orgoglio del nuovo fasto, in fondo al cuore si sentiva estranea, incongrua, usurpatrice.

Ecco allora i frantumi del primo splendore che si era- no salvati adattandosi a bisogne piú oscure venivano nuovamente spostati, eccoli custoditi sotto campane di vetro, chiusi in bacheche, posati su cuscini di velluto, e non piú perché potevano servire ancora a qualcosa ma perché attraverso di loro si sarebbe voluto ricomporre una città di cui nessuno sapeva piú nulla.

Altri deterioramenti, altri rigogli si susseguirono a Clarice. Le popolazioni e le costumanze cambiarono piú volte; restano il nome, l’ubicazione, e gli oggetti piú dif- ficili da rompere. Ogni nuova Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e morte. Non si sa quando i capitelli co- rinzi siano stati in cima alle loro colonne: solo si ricorda d’uno d’essi che per molti anni in un pollaio sostenne la cesta dove le galline facevano le uova, e di lí passò al Museo dei Capitelli, in fila con gli altri esemplari della collezione. L’ordine di successione delle ere s’è perso; che ci sia stata una prima Clarice è credenza diffusa, ma non ci sono prove che lo dimostrino; i capitelli potreb- bero essere stati prima nei pollai che nei templi, le urne di marmo essere state seminate prima a basilico che a ossa di defunti. Di sicuro si sa solo questo: un certo nu- mero d’oggetti si sposta in un certo spazio, ora sommer- so da una quantità d’oggetti nuovi, ora consumandosi senza ricambio; la regola è mescolarli ogni volta e ripro- vare a metterli insieme. Forse Clarice è sempre stata solo un tramestio di carabattole sbrecciate, male assortite, fuori uso.


Le città e i morti. 3.

Non c’è città piú di Eusapia propensa a godere la vita e a sfuggire gli affanni. E perché il salto dalla vita alla morte sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito una copia identica della loro città sottoterra. I cadaveri, sec- cati in modo che ne resti lo scheletro rivestito di pelle gialla, vengono portati là sotto a continuare le occupa- zioni di prima. Di queste, sono i momenti spensierati ad avere la preferenza: i piú di loro vengono seduti attorno a tavole imbandite, o atteggiati in posizioni di danza o nel gesto di suonare trombette. Ma pure tutti i commer- ci e i mestieri dell’Eusapia dei vivi sono all’opera sotto- terra, o almeno quelli cui i vivi hanno adempiuto con piú soddisfazione che fastidio: l’orologiaio, in mezzo a tutti gli orologi fermi della sua bottega, accosta un’orec- chia incartapecorita a una pendola scordata; un barbiere insapona con il pennello secco l’osso degli zigomi d’un attore mentre questi ripassa la parte scrutando il copio- ne con le occhiaie vuote; una ragazza dal teschio ridente munge una carcassa di giovenca.

Certo molti sono i vivi che domandano per dopo morti un destino diverso da quello che già toccò loro: la necropoli è affollata di cacciatori di leoni, mezzesopra- no, banchieri, violinisti, duchesse, mantenute, generali, piú di quanti mai ne contò città vivente.L’incombenza di accompagnare giú i morti e sistemarli al posto voluto è affidata a una confraternita di incappucciati. Nessun altro ha accesso all’Eusapia dei morti e tutto quello che si sa di laggiú si sa di loro.

Dicono che la stessa confraternita esiste tra i morti e che non manca di dar loro una mano; gli incappucciati dopo morti continueranno nello stesso ufficio anche nell’altra Eusapia; lasciano credere che alcuni di loro siano già morti e continuino a andare su e giú. Certo, l’autorità di questa congregazione sull’Eusapia dei vivi è molto estesa.

Dicono che ogni volta che scendono trovano qualcosa di cambiato nell’Eusapia di sotto; i morti apportano in- novazioni alla loro città; non molte, ma certo frutto di ri- flessione ponderata, non di capricci passeggeri. Da un anno all’altro, dicono, l’Eusapia dei morti non si ricono- sce. E i vivi, per non essere da meno, tutto quello che gli incappucciati raccontano delle novità dei morti, voglio- no farlo anche loro. Cosí l’Eusapia dei vivi ha preso a copiare la sua copia sotterranea.

Dicono che questo non è solo adesso che accade: in realtà sarebbero stati i morti a costruire l’Eusapia di so- pra a somiglianza della loro città. Dicono che nelle due città gemelle non ci sia piú modo di sapere quali sono i vivi e quali i morti.


Le città e il cielo. 2.

Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtú e i sentimenti piú elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa. L’immagine che la tradizione ne di- vulga è quella d’una città d’oro massiccio, con chiavarde d’argento e porte di diamante, una città–gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo di studio labo- rioso può produrre applicandosi a materie di massimo pregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste: accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di composita com- postezza.

Credono pure, questi abitanti, che un’altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d’ingegno, ed è costante loro cura can- cellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa. Al posto dei tetti ci si immagina che la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cui franano croste di formaggio, carte unte, resche, risciac- quatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende. O che addirittura la sua sostanza sia quella oscura e duttile e densa come pece che cala giú per le cloache prolun- gando il percorso delle viscere umane, di nero buco in nero buco, fino a spiaccicarsi sull’ultimo fondo sotterra- neo, e che proprio dai pigri boli acciambellati laggiú si elevino giro sopra giro gli edifici d’una città fecale, dalle guglie tortili.

Nelle credenze di Bersabea c’è una parte di vero e una d’errore. Vero è che due proiezioni di se stessa ac- compagnino la città, una celeste e una infernale; ma sul- la loro consistenza ci si sbaglia. L’inferno che cova nel piú profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegna- ta dai piú autorevoli architetti, costruita coi materiali piú cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno e orologeria e ingranaggio, pavesata di nappe e frange e falpalà appesi a tutti i tubi e le bielle.

Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Ber- sabea crede virtú ciò che è ormai un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi soli momenti d’abbandono generoso sono quelli dello stac- care da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit di Bersabea gravita un corpo celeste che risplende di tutto il bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttate via: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bot- toni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del tram, ritagli d’unghie e di calli, gusci d’uovo. La città celeste è questa e nel suo cielo scorrono comete dalla lunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto li- bero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea, città che solo quando caca non è avara calcolatrice inte- ressata.


Le città continue. 1.

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mat- tina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si la- va con saponette appena sgusciate dall’involucro, indos- sa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal piú perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazza- turaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadi- ne fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballag- gio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: piú che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chie- de se la vera passione di Leonia sia davvero come dico- no il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell’esistenza di ieri è circondato d’un rispetto silenzio- so, come un rito che ispira devozione, o forse solo per- ché una volta buttata via la roba nessuno vuole piú aver- ci da pensare.

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni an- no la città s’espande, e gli immondezzai devono arretra- re piú lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le ca- taste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro piú vasto. Aggiungi che piú l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, piú la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intempe- rie, a fermentazioni e combustioni. E’una fortezza di ri- masugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.

Il risultato è questo: che piú Leonia espelle roba piú ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammuc- chiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi gior- ni e anni e lustri.

Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni in- fetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vi- cenda, si sovrastano, si mescolano.

Piú ne cresce l’altezza, piú incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una va- langa di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che inva- no tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spia- nerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stes- se, allontanare i nuovi immondezzai.

POLO:– ... Forse questo giardino affaccia le sue terraz- ze sul lago della nostra mente...

KUBLAI:– ... e per lontano che ci portino le nostre tra- vagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi cu- stodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre uguale.

POLO: – A meno che non si dia l’ipotesi opposta: che quelli che s’arrabbattano negli accampamenti e nei porti esistano solo perché li pensiamo noi due, chiusi tra queste siepi di bambú, immobili da sempre.

KUBLAI: – Che non esistano la fatica, gli urli, le pia- ghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.

POLO: – Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perché noi li pensiamo.

KUBLAI: – A dire il vero, io non li penso mai.

POLO: – Allora non esistono.

KUBLAI: – Questa non mi pare una congettura che ci convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolar- ci imbozzoliti nelle nostre amache.

POLO: – L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque sarà vera l’altra: che ci siano loro e non noi.

KUBLAI: – Abbiamo dimostrato che se noi ci fossimo, non ci saremmo.

POLO: – Eccoci qui, difatti.


VIII

Ai piedi del trono del Gran Kan s’estendeva un pavi- mento di maiolica. Marco Polo, informatore muto, vi scio- rinava il campionario delle mercanzie riportate dai suoi viaggi ai confini dell’impero: un elmo, una conchiglia, una noce di cocco, un ventaglio. Disponendo in un certo ordi- ne gli oggetti sulle piastrelle bianche e nere e via via spo- standoli con mosse studiate, l’ambasciatore cercava di rap- presentare agli occhi del monarca le vicissitudini del suo viaggio, lo stato dell’impero, le prerogative dei remoti ca- poluoghi.

Kublai era un attento giocatore di scacchi; seguendo i gesti di Marco osservava che certi pezzi implicavano o escludevano la vicinanza d’altri pezzi e si spostavano se- condo certe linee. Trascurando la varietà di forme degli oggetti, ne definiva il modo di disporsi gli uni rispetto agli altri sul pavimento di maiolica. Pensò:”Se ogni città è co- me una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a cono- scerne le regole possiederò finalmente il mio impero, an- che se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene”. In fondo, era inutile che Marco per parlargli delle sue città ricorresse a tante cianfrusaglie: bastava una scacchie- ra coi suoi pezzi dalle forme esattamente classificabili. A ogni pezzo si poteva volta a volta attribuire un significato appropriato: un cavallo poteva rappresentare tanto un ve- ro cavallo quanto un corteo di carrozze, un esercito in marcia, un monumento equestre; e una regina poteva es- sere una dama affacciata al balcone, una fontana, una chiesa dalla cupola cuspidata, una pianta di mele cotogne. Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trov• il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descri- vergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visita- to. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi del Gran Kan erano grandi pezzi d’avorio levigato: disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombro- si, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l’incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna.

Al contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai ri- fletteva sull’ordine invisibile che regge le città, sulle rego- le cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperare e adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina. Alle volte gli sembrava d’essere sul punto di scoprire un siste- ma coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anzi- ché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avo- rio visioni comunque destinate all’oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successi- vo stato della scacchiera come una delle innumerevoli for- me che il sistema delle forme mette insieme e distrugge. Ormai Kublai Kan non aveva piú bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursioni dell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell’umile pedone, dalle alternative inesorabili d’ogni partita.

Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual’era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbal- zato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla...


Le città e il nome. 5.

Irene è la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell’altipiano nell’ora che le luci s’accendono e per l’aria limpida si distingue laggiú in fondo la rosa dell’abitato: dov’è piú densa di finestre, dove si dirada in viottoli ap- pena illuminati, dove ammassa ombre di giardini, dove innalza torri con i fuochi dei segnali; e se la sera è bru- mosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna lattigginosa al piede dei calanchi.

I viaggiatori dell’altipiano, i pastori che transumano gli armenti, gli uccellatori che sorvegliano le reti, gli ere- miti che colgono radicchi, tutti guardano in basso e par- lano di Irene. Il vento porta a volte una musica di gran- casse e trombe, lo scoppiettio dei mortaretti nella luminaria d’una festa; a volte lo sgranare della mitraglia, l’esplosione d’una polveriera nel cielo giallo degli incen- di appiccati dalla guerra civile. Quelli che guardano di lassù fanno congetture su quanto sta accadendo nella città, si domandano se sarebbe bello o brutto trovarsi a Irene quella sera. Non che abbiano intenzione d’andarci – e comunque le strade che calano a valle sono cattive – ma Irene calamita sguardi e pensieri di chi sta là in alto. A questo punto Kublai Kan s’aspetta che Marco parli d’Irene com’è vista da dentro. E Marco non può farlo: quale sia la città che quelli dell’altipiano chiamano Irene non è riuscito a saperlo; d’altronde poco importa: a ve- derla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia.

La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già par- lato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene.

Le città e i morti. 4.

Ciò che fa Argia diversa dalle altre città è che invece d’aria ha terra. Le vie sono completamente interrate, le stanze sono piene d’argilla fino al soffitto, sulle scale si posa un’altra scala in negativo, sopra i tetti delle case gravano strati di terreno roccioso come cieli con le nu- vole. Se gli abitanti possono girare per la città allargan- do i cunicoli dei vermi e le fessure in cui s’insinuano le radici non lo sappiamo: l’umidità sfascia i corpi e lascia loro poche forze; conviene che restino fermi e distesi, tanto è buio.

Di Argia, da qua sopra, non si vede nulla; c’è chi dice:

“È là sotto” e non resta che crederci; i luoghi sono de- serti. Di notte, accostando l’orecchio al suolo, alle volte si sente una porta che sbatte.


Le città e il cielo. 3.

Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla do- manda: – Perché la costruzione di Tecla continua cosí a lungo? – gli abitanti senza smettere d’issare secchi, di calare fili a piombo, di muovere in su e giù lunghi pen- nelli. – Perché non cominci la distruzione, – rispondo- no. E richiesti se temono che appena tolte le impalcatu- re la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce: – Non soltanto la città. Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l’oc- chio alla fessura d’una staccionata, vede gru che tirano su altre gru, incastellature che rivestono altre incastella- ture, travi che puntellano altre travi. – Che senso ha il vostro costruire? – domanda. – Qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che se- guite, il progetto?

– Te lo mostreremo appena terminata la giornata; ora non possiamo interrompere, – rispondono.

Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantie- re. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono.


Le città continue. 2.

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sob- borghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Se- guendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stes- se piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mer- canzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferra- glia; altre giornate uguali a quella erano finite guardan- do attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.

Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire.

– Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aereoporto.


Le città nascoste. 1.

A Olinda, chi ci va con una lente e cerca con attenzio- ne può trovare da qualche parte un punto non piú grande d’una capocchia di spillo che a guardarlo un po’ in- grandito ci si vede dentro i tetti le antenne i lucernari i giardini le vasche, gli striscioni attraverso le vie, i chio- schi nelle piazze, il campo per le corse dei cavalli. Quel punto non resta lí: dopo un anno lo si trova grande co- me un mezzo limone, poi come un fungo porcino, poi come un piatto da minestra. Ed ecco che diventa una città grandezza naturale, racchiusa dentro la città di pri- ma: una nuova città che si fa largo in mezzo alla città di prima e la spinge verso il fuori.

Olinda non è certo la sola città a crescere in cerchi concentrici, come i tronchi degli alberi che ogni anno aumentano d’un giro. Ma alle altre città resta nel mezzo la vecchia cerchia delle mura stretta stretta, da cui spun- tano rinsecchiti i campanili le torri i tetti d’embrici le cu- pole, mentre i quartieri nuovi si spanciano intorno come da una cintura che si slaccia. A Olinda no: le vecchie mura si dilatano portandosi con sé i quartieri antichi, in- granditi mantenendo le proporzioni su un piú largo orizzonte ai confini della città; essi circondano i quartie- ri un po’ meno vecchi, pure cresciuti di perimetro e as- sottigliati per far posto a quelli piú recenti che premono da dentro; e cosí via fino al cuore della città: un’Olinda tutta nuova che nelle sue dimensioni ridotte conserva i tratti e il flusso di linfa della prima Olinda e di tutte le Olinde che sono spuntate una dall’altra; e dentro a que- sto cerchio piú interno già spuntano – ma è difficile di- stinguerle – l’Olinda ventura e quelle che cresceranno in seguito.

... Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbal- zato via dalla mano del vincitore, resta il nulla: un qua- drato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato.

Allora Marco Polo parlò: – La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si di- spongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accenna- to: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primave- ra precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere –. Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo stranie- ro sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. – Ecco un poro piú grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che ro- sicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, piú spor- gente...

La quantità di cose che si potevano leggere in un pez- zetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre...


IX

Il Gran Kan possiede un atlante dove tutte le città dell’impero e dei reami circonvicini sono disegnate palaz- zo per palazzo e strada per strada, con le mura, i fiumi, i ponti, i porti, le scogliere. Sa che dai resoconti di Marco Polo è inutile aspettarsi notizie di quei luoghi che del re- sto ben conosce: come a Cambaluc, capitale della China, tre città quadrate stiano l’una dentro l’altra, con quattro templi ognuna e quattro porte che s’aprono seguendo le stagioni; come all’isola di Giava infuri il rinoceronte alla carica col corno micidiale; come si peschino le perle in fon- do al mare sulle coste di Maabar.

Kublai domanda a Marco: – Quando ritornerai al Po- nente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? – Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ri- tiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fon- damenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto pri- gioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi co- manda al racconto non è la voce: è l’orecchio. – Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d’un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro ciclo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivi- vranno.

Il Gran Kan possiede un atlante i cui disegni figurano l’orbe terracqueo tutt’insieme e continente per continen- te, i confini dei regni piú lontani, le rotte delle navi, i con- torni delle coste, le mappe delle metropoli piú illustri e dei porti piú opulenti. Ne sfoglia le carte sotto gli occhi di Marco Polo per metter alla prova il suo sapere. Il viaggia- tore riconosce Costantinopoli nella città che incorona da tre rive un lungo stretto, un golfo sottile e un mare chiuso; ricorda che Gerusalem sovra duo colli è posta, d’impari al- tezza, e volti fronte a fronte; non esita nell’indicare Sa- marcanda e i suoi giardini.

Per altre città fa ricorso a descrizioni tramandate di bocca in bocca, o tira a indovinare basandosi su scarsi in- dizi: cosí Granada, iridata perla dei Califfi, Lubecca lindo porto boreale, Timbuctú che nereggia d’ebano e biancheggia d’avorio, Parigi dove milioni d’uomini rincasano ogni giorno impugnando un filone di pane. In miniature colo- rate l’atlante raffigura luoghi abitati di forma insolita: un’oasi nascosta in una piega del deserto da cui spuntano solo le cime delle palme è di sicuro Nefta; un castello tra le sabbie mobili e le mucche che brucano prati salati dalle maree non può non ricordare il Monte San Michele; e non può essere che Urbino un palazzo che anziché sorgere en- tro le mura d’una città contiene una città tra le sue mura. L’atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geo- grafi sanno se ci sono e dove sono, ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili: una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l’ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bul- bo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nu- voloso del mondo. Anche per queste Marco dice un nome, non importa quale, e accenna a un itinerario per andarci. Si sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere rag- giunto da altri luoghi, per le strade e le rotte piú diverse,

da chi cavalca carreggia rema vola.

– Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull’atlante che a visitarle di persona, – dice a Marco l’imperatore ri- chiudendo il libro di scatto.

E Polo: – Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo infor- me invade i continenti. Il tuo atlante custodice intatte le differenze: quell’assortimento di qualità che sono come le lettere del nome.

Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura su salde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furono inghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cui posto ancora non s’aprono che le tane delle lepri.

Marco Polo sfoglia le carte, riconosce Gerico, Ur, Car- tagine, indica gli approdi alla foce dello Scamandro dove le navi achee per dieci anni attesero il reimbarco degli as- sedianti, fino a che il cavallo inchiavardato da Ulisse non fu trainato a forza d’argani per le porte Scee. Ma parlando di Troia, gli veniva d’attribuirle la forma di Costantinopo- li e prevedere l’assedio con cui per lunghi mesi la stringe- rebbe Maometto, che astuto come Ulisse avrebbe fatto trainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforo al Corno d’Oro, aggirando Pera e Galata. E dalla mesco- lanza di quelle due città ne risultava una terza, che potreb- be chiamarsi San Francisco e protendere ponti lunghissimi sul Cancello d’Oro e sulla baia, e arrampicare tramvai a cremagliera per vie tutte in salita, e fiorire come capitale del Pacifico di lí a un millennio, dopo il lungo assedio di trecento anni che porterebbe le razze dei gialli e dei neri e dei rossi a fondersi insieme alla superstite progenie dei bianchi in un impero piú vasto di quello del Gran Kan. L’atlante ha queste qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. C’è la città a forma di Amsterdam, semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi, dell’Imperatore, dei Si- gnori; c’è la città a forma di York, incassata tra le alte bru- ghiere, murata, irta di torri; c’è la città a forma di Nuova Amsterdam detta anche Nuova York, stipata di torri di vetro e acciaio su un’isola oblunga tra due fiumi, con le vie come profondi canali tutti diritti tranne Brodway.

Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime carte dell’atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto–Osaka, senza forma.


Le città e i morti. 5.

Ogni città, come Laudomia, ha al suo fianco un’altra città i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è la Laudomia dei morti, il cimitero. Ma la speciale dote di Ludomia è d’essere, oltre che doppia, tripla, cioè di comprendere una terza Ludomia che è quella dei non nati.

Le proprietà della città doppia sono note. Piú la Lau- domia dei vivi s’affolla e si dilata, piú cresce la distesa delle tombe fuori dalle mura. Le vie della Laudomia dei morti sono larghe appena quanto basta perché vi giri il carro del becchino, e vi s’affacciano edifici senza fine- stre; ma il tracciato delle vie e l’ordine delle dimore ripe- te quello della Laudomia viva, e come in essa le famiglie stanno sempre piú pigiate, in fitti loculi sovrapposti. Nei pomeriggi di bel tempo la popolazione vivente rende vi- sita ai morti e decifra i propri nomi sulle loro lastre di pietra: a somiglianza della città dei vivi questa comunica una storia di fatiche, arrabbiature, illusioni, sentimenti; solo che qui tutto è diventato necessario, sottratto al ca- so, incasellato, messo in ordine. E per sentirsi sicura la Laudomia viva ha bisogno di cercare nella Laudomia dei morti la spiegazione di se stessa, anche a rischio di trovarvi di piú o di meno: spiegazioni per piú d’una Laudomia, per città diverse che potevano essere e non sono state, o ragioni parziali, contraddittorie, delusive. Giustamente Laudomia assegna una residenza altret- tanto vasta a coloro che ancora devono nascere; certo lo spazio non è in proporzione al loro numero che si sup- pone sterminato, ma essendo un luogo vuoto, circonda- to da un’architettura tutta nicchie e rientranze e scanala- ture, e potendosi attribuire ai non nati la dimensione che si vuole, pensarli grandi come topi o come bachi da seta o come formiche o uova di formica, nulla vieta d’immaginarli ritti o accoccolati su ogni aggetto o mensola che sporge dalle pareti, su ogni capitello o plinto, in fila oppure sparpagliati, intenti alle incombenze delle lo- ro vite future, e contemplare in una sbavatura del mar- mo l’intera Laudomia di qui a cento o mille anni, gremi- ta di moltitudini vestite in fogge mai viste, tutti per esempio in barracano color melanzana, o tutti con piu- me di tacchino sul turbante, e riconoscervi i discendenti propri e quelli delle famiglie alleate e nemiche, dei debi- tori e creditori, che vanno e vengono perpetuando i traf- fici, le vendette, i fidanzamenti d’amore o d’interesse. I viventi di Laudomia frequentano la casa dei non nati in- terrogandoli; i passi risuonano sotto le volte vuote; le domande si formulano in silenzio: ed è sempre di sé che chiedono i vivi, e non di quelli che verranno; chi si preoccupa di lasciare illustre memoria di sé, chi di far dimenticare le sue vergogne; tutti vorrebbero seguire il filo delle conseguenze dei propri atti; ma piú aguzzano lo sguardo, meno riconoscono una traccia continua; i nascituri di Laudomia appaiono puntiformi come gra- nelli di polvere, staccati dal prima e dal poi.

La Laudomia dei non nati non trasmette, come quella dei morti, una qualche sicurezza agli abitanti della Lau- domia viva, ma solo sgomento. Ai pensieri dei visitatori finiscono per aprirsi due strade, e non si sa quale riserbi piú angoscia: o si pensa che il numero dei nascituri su- peri di gran lunga quello di tutti i vivi e tutti i morti, e al- lora in ogni poro della pietra s’accalcano folle invisibili, stipate sulle pendici dell’imbuto come sulle gradinate d’uno stadio, e poiché a ogni generazione la discenden- za di Laudomia si moltiplica, in ogni imbuto s’aprono centinaia d’imbuti ognuno con milioni di persone che devono nascere e protendono i colli e aprono la bocca per non soffocare; oppure si pensa che anche Laudomia scomparirà, non si sa quando, e tutti i suoi cittadini con lei, cioè le generazioni si succederanno fino a raggiunge- re una cifra e non andranno piú in la, e allora la Laudomia dei morti e quella dei non nati sono come le due ampolle d’una clessidra che non si rovescia, ogni passag- gio tra la nascita e la morte è un granello di sabbia che attraversa la strozzatura, e ci sarà un ultimo abitante di Laudomia a nascere, un ultimo granello a cadere che ora è qui che aspetta in cima al mucchio.


Le città e il cielo. 4.

Chiamati a dettare le norme per la fondazione di Pe- rinzia gli astronomi stabilirono il luogo e il giorno secon- do la posizione delle stelle, tracciarono le linee incrocia- te del decumano e del cardo orientate l’una come il corso del sole e l’altra come l’asse attorno a cui ruotano i cieli, divisero la mappa secondo le dodici case dello zo- diaco in modo che ogni tempio e ogni quartiere riceves- se il giusto influsso dalle costellazioni opportune, fissa- rono  il  punto  delle  mura  in  cui  aprire  le  porte prevedendo che ognuna inquadrasse un’eclisse di luna nei prossimi mille anni. Perinzia – assicurarono – avreb- be rispecchiato l’armonia del firmamento; la ragione della natura e la grazia degli dei avrebbero dato forma ai destini degli abitanti.

Seguendo con esattezza i calcoli degli astronomi, Pe- rinzia fu edificata; genti diverse vennero a popolarla; la prima generazione dei nati a Perinzia prese a crescere tra le sue mura; e questi alla loro volta raggiunsero l’età di sposarsi e avere figli.

Nelle vie e piazze di Perinzia oggi incontri storpi, na- ni, gobbi, obesi, donne con la barba. Ma il peggio non si vede; urli gutturali si levano dalle cantine e dai granai, dove le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe.

Gli astronomi di Perinzia si trovano di fronte a una difficile scelta: o ammettere che tutti i loro calcoli sono sbagliati e le loro cifre non riescono a descrivere il cielo, o rivelare che l’ordine degli dei è proprio quello che si rispecchia nella città dei mostri.


Le città continue. 3.

Ogni anno nei miei viaggi faccio sosta a Procopia e prendo alloggio nella stessa stanza della stessa locanda. Fin dalla prima volta mi sono soffermato a contemplare il paesaggio che si vede spostando la tendina della fine- stra: un fosso, un ponte, un muretto, un albero di sorbo, un campo di pannocchie, un roveto con le more, un pol- laio, un dosso di collina giallo, una nuvola bianca, un pezzo di cielo azzurro a forma di trapezio. Sono sicuro che la prima volta non si vedeva nessuno; è stato solo l’anno dopo che, a un movimento tra le foglie, ho potu- to distinguere una faccia tonda e piatta che rosicchiava una pannocchia. Dopo un anno erano in tre sul muretto, e al mio ritorno ce ne vidi sei, seduti in fila, con le mani sui ginocchi e qualche sorba in un piatto. Ogni anno, appena entrato nella stanza, alzavo la tendina e contavo alcune facce in piú: sedici, compresi quelli giù nel fosso; ventinove,di cui otto appollaiati sul sorbo; quarantasette senza contare quelli nel pollaio. Si somigliano, sembra- no gentili, hanno lentiggini sulle guance, sorridono, qualcuno con la bocca sporca di more. Presto vidi tutto il ponte pieno di tipi dalla faccia tonda, accoccolati per- ché non avevano piú posto per muoversi; sgranocchia- vano le pannocchie, poi rodevano i torsoli.

Cosí, un anno dopo l’altro ho visto sparire il fosso, l’albero , il roveto, nascosti da siepi di sorrisi tranquilli, tra le guance tonde che si muovono masticando foglie. Non si ha idea, in uno spazio ristretto come quel campi- cello di granturco, quanta gente ci può stare, specie se messi seduti con le braccia intorno ai ginocchi, fermi.

Devono essercene molti di piú di quanto sembra: il dos- so della collina l’ho visto coprirsi d’una folla sempre piú fitta; ma da quando quelli sul ponte hanno preso l’abitu- dine di stare a cavalcioni l’uno sulle spalle dell’altro non riesco piú a spingere lo sguardo tanto in là.

Quest’anno, infine, a alzare la tendina, la finestra in- quadra solo una distesa di facce: da un angolo all’altro, a tutti i livelli e a tutte le distanze, si vedono questi visi tondi, fermi, piatti piatti, con un accenno di sorriso, e in mezzo molte mani, che si tengono alle spalle di quelli che stanno davanti. Anche il cielo è sparito. Tanto vale che mi allontani dalla finestra.

Non che i movimenti mi siano facili. Nella mia stanza siamo alloggiati in ventisei: per spostare i piedi devo di- sturbare quelli che stanno accoccolati sul pavimento, mi faccio largo tra i ginocchi di quelli seduti sul cassettone e i gomiti di quelli che si dànno il turno per appoggiarsi al letto: tutte persone gentili, per fortuna.


Le città nascoste. 2.

Non è felice, la vita a Raissa. Per le strade la gente cammina torcendosi le mani, impreca ai bambini che piangono, s’appoggia ai parapetti del fiume con le tem- pie tra i pugni, alla mattina si sveglia da un brutto sogno e ne comincia un altro. Tra i banconi dove ci si schiaccia tutti i momenti le dita col martello o ci si punge con l’ago, o sulle colonne di numeri tutti storti nei registri dei negozianti e dei banchieri, o davanti alle file di bic- chieri vuoti sullo zinco delle bettole, meno male che le teste chine ti risparmiano dagli sguardi torvi. Dentro le case è peggio, e non occorre entrarci per saperlo: d’esta- te le finestre rintronano di litigi e piatti rotti.

Eppure, a Raissa, a ogni momento c’è un bambino che da una finestra ride a un cane che è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un muratore che dall’ alto dell’impalcatura ha esclamato: – Gioia mia, lasciami intingere! – a una giovane ostessa che solleva un piatto di ragú sotto la pergola, contenta di servirlo all’ombrellaio che festeggia un buon affare, un parasole di pizzo bianco comprato da una gran dama per pavoneggiarsi alle corse, innamorata d’un ufficiale che le ha sorriso nel saltare l’ultima siepe, felice lui ma piú felice ancora il suo cavallo che volava sugli ostacoli vedendo volare in cielo un francolino, felice uccello li- berato dalla gabbia da un pittore felice d’averlo dipinto piuma per piuma picchiettato di rosso e di giallo nella miniatura di quella pagina del libro in cui il filosofo di- ce: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento di- segnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere”.


Le città e il cielo. 5.

Con tale arte fu costruita Andria, che ogni sua via corre seguendo l’orbita d’un pianeta e gli edifici e i luo- ghi della vita in comune ripetono l’ordine delle costella- zioni e la posizione degli astri piú luminosi: Antares, Alpheratz, Capella, le Cefeidi. Il calendario della città è regolato in modo che lavori e uffici e cerimonie si di- spongono in una mappa che corrisponde al firmamento in quella data: cosí i giorni in terra e le notti in cielo si ri- specchiano.

Pur attraverso una regolamentazione minuziosa, la vi- ta della città scorre calma come il moto dei corpi celesti e acquista la necessità dei fenomeni non sottoposti all’arbitrio umano. Ai cittadini d’Andria, lodandone le produzioni industriose e l’agio dello spirito, m’indussi a dichiarare: – Bene comprendo come voi, sentendovi parte d’un cielo immutabile, ingranaggi d’una meticolo- sa orologeria, vi guardiate dall’apportare alla vostra città e ai vostri costumi il piú lieve cambiamento. Andria è la sola città che io conosca cui convenga restare immobile nel tempo.

Si guardarono interdetti. – Ma perché mai? E chi l’ha detto? – E mi condussero a visitare una via pensile aperta di recente sopra un bosco di bambú, un teatro delle om- bre in costruzione al posto del canile municipale, ora tra- slocato nei padiglioni dell’ antico lazzaretto, abolito per la guarigione degli ultimi appestati, e – appena inaugura- ti – un porto fluviale, un statua di Talete, un toboga.

– E queste innovazioni non turbano il ritmo astrale della vostra città? – domandai.

– Cosí perfetta è la corrispondenza tra la nostra città e il cielo, – risposero, – che ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle –. Gli astronomi scrutano coi telescopi dopo ogni mutamento che ha luo- go in Andria, e segnalano l’esplosione d’una nova, o il passare dall’arancione al giallo d’un remoto punto del firmamento, l’espandersi di una nebula, il curvarsi d’una spira della via lattea. Ogni cambiamento implica una ca- tena d’altri cambiamenti, in Andria come tra le stelle: la città e il cielo non restano mai uguali.

Del carattere degli abitanti d’Andria meritano di esse- re ricordate due virtú: la sicurezza in se stessi e la pru- denza. Convinti che ogni innovazione nella città influisca sul disegno del cielo, prima d’ogni decisione calcolano i rischi e i vantaggi per loro e per l’insieme delle città e dei mondi.


Le città continue. 4.

Tu mi rimproveri perché ogni mio racconto ti tra- sporta nel bel mezzo d’una città senza dirti dello spazio che s’estende tra una città e l’altra: se lo coprano mari, campi di segale, foreste di larici, paludi. Ti risponderò con un racconto.

Per le vie di Cecilia, città illustre, incontrai una volta un capraio che spingeva rasente i muri un armento scampanante.

– Uomo benedetto dal cielo, – si fermò a chiedermi, –

sai dirmi il nome della città in cui ci troviamo?

– Che gli dei t’accompagnino! – esclamai. – Come puoi non riconoscere la molto illustre città di Cecilia?

– Compatiscimi, – rispose quello, – sono un pastore in transumanza. Tocca alle volte a me e alle capre di tra- versare città; ma non sappiamo distinguerle. Chiedimi il nome dei pascoli: li conosco tutti, il Prato tra le Rocce, il Pendio Verde, l’Erba in Ombra. Le città per me non hanno nome: sono luoghi senza foglie che separano un pascolo dall’altro, e dove le capre si spaventano ai croce- via e si sbandano. Io e il cane corriamo per tenere com- patto l’armento.

– Al contrario di te, – affermai, – io riconosco solo le città e non distinguo ciò che è fuori. Nei luoghi disabita- ti ogni pietra e ogni erba si confonde ai miei occhi con ogni pietra ed erba.

Molti anni sono passati da allora; io ho conosciuto molte città ancora e ho percorso continenti. Un giorno camminavo tra angoli di case tutte uguali: mi ero perso. Chiesi a un passante:– Che gli immortali ti proteggano, sai dirmi dove ci troviamo?

– A Cecilia, cosí non fosse! – mi rispose. – Da tanto camminiamo per le sue vie, io e le capre, e non s’arriva a uscirne...

Lo riconobbi, nonostante la lunga barba bianca: era il pastore di quella volta. Lo seguivano poche capre spela- te, che neppure piú puzzavano, tanto erano ridotte pelle e ossa. Brucavano cartaccia nei bidoni dei rifiuti.

– Non può essere! – gridai. – Anch’io, non so da quando, sono entrato in una città e da allora ho conti- nuato ad addentrarmi per le sue vie. Ma come ho fatto ad arrivare dove tu dici, se mi trovavo in un’altra città, lontanissima da Cecilia, e non ne sono ancora uscito?

– I luoghi si sono mescolati, – disse il capraio, – Ceci- lia è dappertutto; qui una volta doveva esserci il Prato della Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe del- lo spartitraffico.


Le città nascoste. 3.

Una Sibilla, interrogata sul destino di Marozia, disse:

– Vedo due città: una del topo, una della rondine. L’oracolo fu interpretato cosí: oggi Marozia è una

città dove tutti corrono in cunicoli di piombo come branchi di topi che si strappano di sotto i denti gli avan- zi caduti dai denti dei topi piú minacciosi; ma sta per co- minciare un nuovo secolo in cui tutti a Marozia voleran- no come le rondini nel cielo d’estate, chiamandosi come in un gioco, esibendosi in volteggi ad ali ferme, sgom- brando l’aria da zanzare e moscerini.

– È tempo che il secolo del topo abbia termine e co- minci quello della rondine, – dissero i piú risoluti. E di fatto già sotto il torvo e gretto predominio topesco si sentiva, tra la gente meno in vista, covare uno slancio da rondini, che puntano verso l’aria trasparente con un agi- le colpo di coda e disegnano con la lama delle ali la curva d’un orizzonte che s’allarga.

Sono tornato a Marozia dopo anni; la profezia della Sibilla si considera avverata da tempo; il vecchio secolo è sepolto; il nuovo è al culmine. La città certo è cambiata, e forse in meglio. Ma le ali che ho visto in giro sono quelle d’ombrelli diffidenti sotto i quali palpebre pesan- ti s’abbassano sugli sguardi; gente che crede di volare ce n’è, ma è tanto se si sollevano dal suolo sventolando pa- landrane da pipistrello.

Succede pure che, rasentando i compatti muri di Ma- rozia, quando meno t’aspetti vedi aprirsi uno spiraglio e apparire una città diversa, che dopo un istante è già spa- rita. Forse tutto sta a sapere quali parole pronunciare, quali gesti compiere, e in quale ordine e ritmo, oppure basta lo sguardo la risposta il cenno di qualcuno, basta che qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di farla, e perché il suo piacere diventi piacere altrui: in quel mo- mento tutti gli spazi cambiano, le altezze, le distanze, la città si trasfigura, diventa cristallina, trasparente come una libellula. Ma bisogna che tutto capiti come per caso, senza dargli troppa importanza, senza la pretesa di star compiendo una operazione decisiva, tenendo ben pre- sente che da un momento all’altro la Marozia di prima tornerà a saldare il suo soffitto di pietra ragnatele e muf- fa sulle teste.

L’oracolo sbagliava? Non è detto. Io lo interpreto in questo modo: Marozia consiste di due città: quella del topo e quella della rondine; entrambe cambiano nel tempo; ma non cambia il loro rapporto: la seconda è quella che sta per sprigionarsi dalla prima.


Le città continue. 5.

Per parlarti di Pentesilea dovrei cominciare a descri- verti l’ingresso nella città. Tu certo immagini di vedere levarsi dalla pianura polverosa una cinta di mura, d’avvi- cinarti passo passo alla porta, sorvegliata dai gabellieri che già guatano storto ai tuoi fagotti. Fino a che non l’hai raggiunta ne sei fuori; passi sotto un archivolto e ti ritrovi dentro la città; il suo spessore compatto ti circon- da; intagliato nella sua pietra c’è un disegno che ti si ri- velerà se ne segui il tracciato tutto spigoli.

Se credi questo, sbagli: a Pentesilea è diverso. Sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o ancora fuori. Come un lago dalle rive basse che si perde in acquitrini, cosí Pentesilea si spande per miglia intorno in una zuppa di città diluita nella pianura: casamenti pallidi che si dànno le spalle in prati ispidi, tra steccati di tavole e tettoie di lamiera. Ogni tanto ai margini della strada un in- fittirsi di costruzioni dalle magre facciate, alte alte o basse basse come in un pettine sdentato, sembra indicare che di là in poi le maglie della città si restringono. Invece tu prose- gui e ritrovi altri terreni vaghi, poi un sobborgo arruginito d’officine e depositi, un cimitero, una fiera con le giostre, un mattatoio, ti inoltri per una via di botteghe macilente che si perde tra chiazze di campagna spelacchiata.

La gente che s’incontra, se gli chiedi: – Per Pentesi- lea? – fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire:

“Qui”, oppure: “Piú in là”, o: “Tutt’in giro”, o ancora:

“Dalla parte opposta”.

– La città, – insisti a chiedere.

– Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine, – ti ri- spondono alcuni, e altri: – Noi torniamo qui a dormire.

– Ma la città dove si vive? – chiedi.

– Dev’essere, – dicono, – per lí, – e alcuni levano il braccio obliquamente verso una concrezione di poliedri opachi, all’orizzonte, mentre altri indicano alle tue spal- le lo spettro d’altre cuspidi.

– Allora l’ho oltrepassata senza accorgermene?

– No, prova a andare ancora avanti.

Cosí prosegui, passando da una periferia all’altra, e viene l’ora di partire da Pentesilea. Chiedi la strada per uscire dalla città; ripercorri la sfilza dei sobborghi spar- pagliati come un pigmento lattiginoso; viene notte; s’il- luminano le finestre ora piú rade ora piú dense.

Se nascosta in qualche sacca o ruga di questo slabbra- to circondario esista una Pentesilea riconoscibile e ricor- dabile da chi c’è stato, oppure se Pentesilea è solo peri- feria di se stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hai rinunciato a capirlo. La domanda che adesso comincia a rodere nella tua testa è piú angosciosa: fuori da Pentesi- lea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all’altro e non arrivi a uscirne?


Le città nascoste. 4.

Invasioni ricorrenti travagliarono la città di Teodora nei secoli della sua storia; a ogni nemico sgominato un’altro prendeva forza e minacciava la sopravvivenza degli abitanti. Sgombrato il cielo dai condor si dovette fronteggiare la crescita dei serpenti; lo sterminio dei ra- gni lasciò le mosche moltiplicarsi e nereggiare; la vittoria sulle termiti consegnò la città in balia dei tarli. A una a una le specie inconciliabili con la città dovettero soc- combere e si estinsero. A furia di sbranare scaglie e cara- paci, di svellere elitre e penne, gli uomini diedero a Teo- dora l’esclusiva immagine di città umana che ancora la distingue.

Ma prima, per lunghi anni, restò incerto se la vittoria finale non sarebbe stata dell’ultima specie rimasta a con- tendere agli uomini il possesso della città: i topi. D’ogni generazione di roditori che gli uomini riuscivano a stermi- nare, i pochi sopravvissuti davano luce a una progenie piú agguerrita, invulnerabile dalle trappole e refrattaria a ogni veleno. Nel giro di poche settimane, i sotterranei di Teo- dora si ripopolavano d’orde di ratti dilaganti. Finalmente, con un’estrema ecatombe, l’ingegno micidiale e versatile degli uomini l’ebbe vinta sulle soverchianti attitudini vita- li dei nemici.

La città, grande cimitero del regno animale, si richiu- se asettica sulle ultime carogne seppellite con le ultime loro pulci e gli ultimi microbi. L’uomo aveva finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto: nessun’altra specie vivente esisteva per rimetterlo in for- se. Per ricordo di quella che era stata la fauna, la biblio- teca di Teodora avrebbe custodito nei suoi scaffali i to- mi di Buffon e di Linneo.

Cosí almeno gli abitanti di Teodora credevano, lonta- ni dal supporre che una fauna dimenticata si stava risve- gliando dal letargo. Relegata per lunghe ere in nascondi- gli appartati, da quando era stata spodestata dal sistema delle specie ora estinte, l’altra fauna tornava alla luce da- gli scantinati della biblioteca dove si conservano gli in- cunaboli, spiccava salti dai capitelli e dai pluviali, s’ap- pollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, le chimere, i draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocor- ni, i basilischi riprendevano possesso della loro città.


Le città nascoste. 5.

Anziché dirti di Berenice, città ingiusta, che incorona con triglifi abachi metope gli ingranaggi dei suoi macchi- nari tritacarne (gli addetti al servizio di lucidatura quan- do alzano il mento sopra le balaustre e contemplano gli atri, le scalee, i pronai si sentono ancora piú prigionieri e bassi di statura), dovrei parlarti della Berenice nascosta, la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortuna nell’ombra di retrobotteghe e sottoscale, allacciando una rete di fili e tubi e carrucole e stantuffi e contrappesi che s’infiltra come una pianta rampicante tra le grandi ruote dentate (quando queste s’incepperanno, un ticchettio sommesso avvertirà che un nuovo esatto meccanismo go- verna la città); anziché rappresentarti le vasche profuma- te delle terme sdraiati sul cui bordo gli ingiusti di Berenice intessono con rotonda eloquenza i loro intrighi e os- servano con occhio proprietario le rotonde carni delle odalische che si bagnano, dovrei dirti di come i giusti, sempre guardinghi per sottrarsi alle spiate dei sicofanti e alle retate dei giannizzeri, si riconoscano dal modo di parlare, specialmente dalla pronuncia delle virgole e del- le parentesi; dai costumi che serbano austeri e innocenti eludendo gli stati d’animo complicati e ombrosi; dalla cucina sobria ma saporita, che rievoca un’antica età dell’oro: minestrone di riso e sedano, fave bollite, fiori di zucchino fritti.

Da questi dati è possibile dedurre un’immagine della Berenice futura, che ti avvicinerà alla conoscenza del ve- ro piú d’ogni notizia sulla città quale oggi si mostra. Sempre che tu tenga conto di ciò che sto per dirti: nel seme della città dei giusti sta nascosta a sua volta una se- menza maligna; la certezza e l’orgoglio d’essere nel giu- sto – e d’esserlo piú di tanti altri che si dicono giusti piú del giusto – fermentano in rancori rivalità ripicchi, e il naturale desiderio di rivalsa sugli ingiusti si tinge della smania d’essere al loro posto a far lo stesso di loro. Un’altra città ingiusta, pur sempre diversa dalla prima, sta dunque scavando il suo spazio dentro il doppio invo- lucro delle Berenici ingiusta e giusta.

Detto questo, se non voglio che il tuo sguardo colga un’immagine deformata, devo attrarre la tua attenzione su una qualità intrinseca di questa città ingiusta che ger- moglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possi- bile risveglio – come un concitato aprirsi di finestre – d’ un latente amore per il giusto, non ancora sottoposto a regole, capace di ricomporre una città piú giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia. Ma se si scruta ancora nell’interno di questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchio- lina che si dilata come la crescente inclinazione a imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe d’un’immensa metropoli...

Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la ve- ra Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui vo- levo avvertirti è un’altra: che tutte le Berenici future so- no già presenti in questo istante, avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili.

L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoper- te o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New–Lanark, Icaria.

Chiese a Marco Kublai:– Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali di questi futuri ci spingono i venti propizi.

– Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla car- ta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lí metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da inter- valli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora piú rada ora piú densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le car- te della città che minacciano negli incubi e nelle maledi- zioni:  Enoch,  Babilonia,  Yahoo,  Butua,  Brave  New World.

Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può es- sere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spi- rale sempre piú stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accet- tare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non ve- derlo piú. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e ap- prendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.