martedì 19 settembre 2023

CRITICA DELLA RAGION CINICA Peter Sloterdijk

 




CRITICA DELLA RAGION CINICA

Peter Sloterdijk

Superare il cinismo di oggi? 

[...] Nella nostra cultura il disagio ha assunto una nuova qualità: quella di un cinismo diffuso, universale. La tradizionale critica all'ideologia gli sta innanzi, perplessa: né vede dove inserire - nella desta coscienza cinica - una leva illuminista. Il moderno cinismo è posto come quello stato di coscienza che segue le ideologie ingenue e il loro «superamento» illuminista.[...]

Il cinico oggi, secondo il filosofo P. Sloterdijk ( Critica della ragion cinica, trad. it. Garzanti, Milano 1992) è colui che riveste una posizione di potere: “Il cinismo diffuso ha ormai conquistato le posizioni chiave della società: presidenze, parlamenti, comitati di controllo, direzioni aziendali, lettorati, studi professionali, facoltà universitarie, segreterie di produzione e redazioni”.  Cinico è colui che ammanta la propria azione (improntata al più duro, privo di scrupoli, calcolatore, realismo) con una giustificazione moralistica relativa al suo fine. Cinico sarebbe chi, in nome dell’Ideale, piega il proprio agire ai principi più bassi e brutali della realtà. Secondo il filosofo la salvezza e' tornare agli antichi, a quell’antico cinismo che dileggiava i potenti e irrideva il potere. Tornare al cinismo contro il moralismo dei fini: irriderli come ci suggerisce Ivan Illich (I. Illich, La convivialità, trad. it. Boroli, Milano 2005) raggiungere una nuova condizione di convivialità che si collega all'antico Convivio di Platone). Criticare e andare oltre agli strumenti della morale e del potere: lo sviluppo industriale selvaggio, un sistema scolastico ed educativo fallimentare, una crescita economica giunta ormai ai suoi limiti. Essere liberi, autonomi e creativi, dice Illich. Tornare allo spirito cinico del Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata (II secolo d. C.) per far sopravvivere lo spirito cinico antico, incarnato nel personaggio del filosofo Menippo di Gadara. Nell’Ade, di fronte ai lamenti di coloro che erano, da vivi, ricchi e potenti, Menippo oppone la sua risata di feroce cinismo «Menippo [...] se hai deriso a sufficienza le cose della Terra [...] qui non cesserai sicuramente di ridere, come ora faccio io, e soprattutto quando vedrai che i ricchi, i satrapi, i tiranni sono tanto insignificanti e anonimi, distinguibili solo per i loro gemiti, e che sono deboli e vili quando ricordano le cose di lassù […]» (Dialoghi dei morti, I, 1).

CRITICA DELLA RAGION CINICA

 


Argomento 

"Cinismo" è oggi sinonimo di insensibilità, di un'amara disponibilità a farsi complice di qualsiasi cosa a qualunque prezzo. Ben altra natura possedeva il cinismo degli antichi, o quello che Nietzssche chiamava "cynismus": una forma esterna di autodifesa che opponeva alla minaccia dell'insensatezza sociale un nucleo irrinunciabile di sopravvivenza, la sfrontatezza vitale di una filosofia vissuta. Se il "cynicus" Diogene viveva in una botte, il "cinico" moderno aspira invece al potere o al successo. La critica della ragion cinica parte da questa contrapposizione per rileggere l'intera storia della filosofia, sottoponendo a una serrata analisi il rapporto tra intellettuali e apparati di potere, e il relativo strascico di sangue e di ideologie. Dalle esilaranti fracciate di Diogene contro Platone alla rivisitazione del Grande Inquisitore dostoevskijano, da Nietzsche e Heidegger alle drammatiche parabole della Repubblica di Weimar e della rivoluzione russa, Sloterdijk mette a nudo i rischi estremi della falsa coscienza. Sostenuto da un'inesauribile e travolgente forza satirica, intreccia provocatoriamente storia del pensiero e costumi sessuali, moda, arte e pulsioni scettiche, ideologia e mass media, tramonto dell'Occidente e tentazioni misticheggianti. E dopo aver tracciato una lucidissima diagnosi della catastrofe politico-morale del nostro secolo, ci indica una possibile terapia, attraverso il coraggio sereno e consapevole di un nuovo "cynismus".


 


Peter Sloterdisjk (Karlsruhe 1947) vive attualmente tra Monaco e la Francia meridionale. Ha insegnato tra l'altro nelle università di Zurigo, Francoforte, Vienna. E' autore di numerosi saggi filosofici e di estetica, tra cui Der Denker auf der Bühne. Nietzsches Materialismus (Il pensatore sulla scena. Il materialismo di Nietzsche), 1986; zur Welt komen - zur Sprache komen (Giunge al mondo - giunge al linguaggio), 1988 e Versprechen auf Deutsch (promettere in tedesco) 1990. Critica della ragione cinica, pubblicato originariamente nel 1983, è stato accolto da Jügern Habermas come "un capolavoro di lettura filosofica".

 

PRESENTAZIONE

Il volume di Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, pubblicato in Germania nel 1983 e salutato da Jürgen Habermas come un'opera fondamentale del pensiero contemporaneo, è l'esempio di un best-seller filosofico, venduto a decine di migliaia di esemplari, che suscita ricerche che si interrogano sulle ragioni di questo successo e ne sviluppano le prospettive. (1)

Esso tuttavia non nasce dal nulla: infatti sul rapporto tra il cynismus antico (in tedesco Kynismus) e il cinismo moderno (in tedesco Zynismus) si era già soffermata nel corso dei decenni precedenti l'attenzione di molti autori, da Paul Tillich (2) ad Arnold Gehlen, (3) da Klaus Heinrich (4) ad Irving Fetscher. (5) E' tuttavia allo studio di Heinrich Niehues-Pròbsting, Der Kynismus des Diogenes und der Begriff des Zynismus, (6) che è debitore Sloterdijk, in particolare per ciò che concerne la documentazione sul cynismus antico e l'esame della presenza di Diogene di Sinope nella letteratura tedesca.

Ma chi era Diogene e perché mai suscita tanto interesse?

Come scrive il suo biografo antico, era un uomo «senza città, senza tetto, bandito dalla patria, mendico, errante, alla ricerca quotidiana di un tozzo di pane». Era il rappresentante antico di quella Lumpenintellighenzia, che nel corso degli ultimi trent'anni si è manifestata in modo tanto ampio ovunque.

1 AA.VV., Peter Sloterdijks «Kritik der zynischen Vernunft», Frankfurt a. M. 1987.

2 P. Tillich, The Courage to Be, New Haven 1952.

3 A. Gehlen, Moral und Hypermoral, Frankfurt a.M. 1969.

4 K. Heinrich, Parmenide e Giona, Napoli 1988 (1966).

5 I. Fetscher, Reflexionen über den Zynismus als Krankheit unserer Zeit, in AA.VV., Denken im Schatten des Nihilismus, Darmstadt 1975.

6 H. Niehues-Pröbsting, Der Kynismus des Diogenes und der Begriff des Zynismus, München 1979.

Da ciò deriva una prima ragione di attualità del cynismus antico: la situazione sociale di Diogene era affine a quella di tanti studenti e intellettuali dall'età dell'esistenzialismo e della contestazione fino ad oggi. Nei confronti della minaccia proveniente dalla universale insensatezza sociale, lo stile di vita di Diogene costituisce una forma di autodifesa, che oppone al mondo un nucleo estremo di resistenza individuato nel modello animale di sopravvivenza. Secondo un'etimologia non priva di ironia kynikós viene da kùòn, che in greco vuole dire «cane». Diogene si definiva appunto un cane «di quelli universalmente lodati», ma aggiungeva: «nessuno di coloro che lo lodavano, osava uscire con lui a caccia». La sua autodifesa si realizzava nel poter fare a meno di quasi tutto: di tale pratica la tradizione conserva tanti esempi notissimi, alcuni dei quali conservano a distanza di millenni una loro freschezza e un loro vigore.

Nel linguaggio moderno tuttavia il termine «cinismo» ha assunto un significato differente: è diventato sinonimo di insensibilità, di rassegnazione, di connivenza con l'insensatezza, di perenne disponibilità a farsi complice di qualunque cosa a qualunque prezzo. In questa accezione il cinico moderno sembra proprio l'opposto del cynicus antico: mentre quello era una forma estrema di affermazione della dignità e della sovranità della filosofia, il neocinismo sembra esprimere soltanto la rassegnazione, la frustrazione, l'avvilimento morale. L'analisi di Sloterdijk tuttavia va oltre questo significato corrente e tende a considerare il cinismo contemporaneo come un fenomeno molto più complesso e non privo di una sua dignità paradossale di «falsa coscienza illuminata». Questa definizione è a prima vista una contraddizione in termini: come può la «falsa coscienza» essere «illuminata»? L'originalità dell'analisi di Sloterdijk sta proprio in questo paradosso: i neocinici non si fanno illusioni di nessun genere. Proprio questo disincanto li rende così efficaci sul piano pratico.

Il neocinico è «un caso limite di melanconico che riesce a controllare i suoi sintomi depressivi conservando una certa capacità di lavorare». Questo in effetti conta per lui: «lavorare malgrado tutto, dopo tutto e a maggior ragione». Alla base di tale atteggiamento sta una negatività completamente priva di speranze, la quale ha nei confronti di se stessa al massimo un po' di ironia e di commiserazione. Nei confronti di questo fénomeno le armi dell'illuminismo si rivelano spuntate, perché il neocinico sa benissimo come stanno le cose: anzi lo sa meglio di chiunque altro, perché è privo di illusioni e perché è pronto a cogliere le occasioni al volo, sotto qualsiasi aspetto e in qualsiasi modo si presentino. Come già rilevava Klaus Heinrich, il punto di arrivo del cinico moderno non è la botte di Diogene, bensì un'ordinata carriera.

Il volume di Sloterdijk reca un prezioso contributo alle motivazioni segrete che stanno alla base del comportamento cinico e di quello neocinico: cynismus antico e cinismo moderno presentano affinità e divergenze che possono essere comprese solo con riferimento alla situazione storico-sociale che il filosofo si trova costretto ad affrontare. Entrambi costituiscono una risposta alla catastrofe politica della filosofia.

Nell'antichità questa catastrofe è rappresentata dalla condanna a morte di Socrate nel 399 a.C. da parte della restaurata democrazia ateniese. Il fatto che la polis abbia giudicato colpevole di non credere negli dèi, di introdurre nuove divinità e di corrompere i giovani, il suo cittadino più saggio e più giusto, costituisce il punto di partenza del cynismus, di cui lungo il IV secolo a.C. Antistene, Diogene di Sinope, Cratete e Ipparchia furono i principali esponenti.

All'accusa di empietà il cynismus antico risponde assumendo Ercole come modello di vita; lo stesso nome della scuola filosofica deriva dal ginnasio Cinosarge, dedicato all'eroe divino, dove si esercitavano coloro che, come Antistene e Diogene, non erano di origine ateniese. Morto Socrate, costoro partono perciò dal presupposto che la polis ha dichiarato guerra alla filosofia. Il filosofo è diventato per la città uno straniero e un nemico: egli non è più considerato il successore di quei sapienti, di quei maestri di verità e re di giustizia che nelle arcaiche società indo-europee detenevano una sovranità magico-religiosa e un immenso potere spirituale. Non è nemmeno il portatore di un sapere che abbia valore commerciale, come pretendevano i sofisti. Il filosofo è piuttosto per i cinici un uomo solo cui tutti sono ostili, un guerriero che deve innanzitutto difendersi.

Perciò la virtù è considerata da Antistene come un'arma, la prudenza come un muro saldissimo, la pratica della filosofia come una lotta, un esercizio, una fatica.

Se Apollo è il protettore dell'esperienza socratica, è al suo nemico, Eracle, che si rivolge l'attenzione dei cynici antichi. Il processo e la condanna di Socrate hanno costretto la filosofia ad entrare, suo malgrado, in un orizzonte da cui essa si era precedentemente mantenuta lontana, quello dei rapporti di forza, del potere temporale, della pratica della giustizia e dell'esecuzione della pena. Il cynismus antico è una risposta a questa criminalizzazione della filosofia: prendendo Eracle come esempio, questi filosofi accettano la sfida e decidono di battersi proprio sul terreno scelto dalla polis. Come Eracle fu oggetto dell'ostilità e della persecuzione di Era, la matrigna, così il filosofo è accusato e condannato dalla madre-patria che non lo riconosce come figlio: ma entrambi non hanno più bisogno di questo riconoscimento, sono cosmopoliti e autarchici, pronti a ogni rinuncia e a ogni fatica. Il vantaggio che i cinici traggono dalla filosofia consiste essenzialmente nell'essere, come Eracle, preparati ad ogni sforzo.

A questa attitudine puramente difensiva si combina, a partire da Diogene, una componente aggressiva che si manifesta, non sul piano della giustizia, della Dike, ma sul piano del rispetto umano, dell'aidós: è la famosa anaideia, l'impudenza e la sfrontatezza che costituisce la caratteristica più appariscente del comportamento di questi filosofi. Aidós e Dike era la coppia di concetti che nella Grecia arcaica regolava i rapporti sociali: in Esiodo essi sono considerati come divinità e ancora nel discorso tenuto da Protagora nel dialogo platonico che porta il suo nome sono ritenuti le basi di ogni ordine politico. Mentre il secondo termine indica la giustizia, come essa si manifesta soprattutto nel giudizio e nella sentenza, il primo termine designa un sentimento di rispetto e di obbligo nei confronti di qualcuno al quale si è legati da rapporti di parentela e di amicizia a causa dei benefici ricevuti o in ragione dell'eminente dignità che rappresenta: (1) sull'aidós sono fondati tutti i legami sociali che riguardano relazioni non strettamente giuridiche, in cui cioè si prescinde da ciò che a ciascuno è dovuto secondo la legge. Perciò esso è sembrato agli studiosi moderni come affine al rapporto sociale instaurato dal dono, dal potlatch, dallo scambio per eccesso, o più in generale da un dare mosso non da costrizione, ma da liberalità. La nozione di aidós prescinde completamente dallo scambio mercantile, dall'equivalenza e implica l'esistenza di rapporti di reciprocità le cui manifestazioni sono indipendenti dal calcolo e dalla misura, perché coinvolgono la fiducia e l'onore.

1 L. Gernet, Anthropologie de la Grece antique, Paris 1968.

Ora il comportamento dei cynici antichi infrange l'aidós. A partire dal momento in cui la città ha fatto ingiustizia al suo figlio più giusto, essa non merita più rispetto. Inoltre l'importanza assegnata alla forza induce questi filosofi a perseguire un ideale di autarchia e di autosufficienza, che spezza ogni legame familiare e sociale. Nella Grecia arcaica anche il guerriero era animato dall'aidós: con questa esclamazione egli infatti incitava i suoi compagni attizzando così il sentimento di coscienza collettiva e solidarietà del gruppo per cui combatteva. (1)

Ma il cinico è come Eracle un guerriero solo, che non vuole fare assegnamento su null'altro che sulla propria forza, che spezza il patto politico basato sulla distinzione tra amici e nemici, che non si fida dell'altrui alleanza, ospitalità e generosità. Una psicoanalisi di Eracle ha considerato questo atteggiamento come la negazione dell'ostilità materna; e, certamente, tanto Eracle, sempre errante di luogo in luogo, quanto i cinici, per definizione senza patria, sono costretti all'esercizio di una costante diffidenza nei confronti di tutti. Già Eracle è in fondo il prototipo del guerriero anaidés, senza aidós: l'esercizio esagerato, illimitato e delirante della forza lo induce ad ammazzare i propri figli, scambiandoli per i figli del suo nemico, a sopprimere suo malgrado Ifito che gli era alleato e che l'ospitava, infine ad uccidere il padre della propria concubina, Iole. (2) Il suo destino di sventura, di malattia e di morte sarebbe l'espiazione di questi tre peccati compiuti contro l'aidós, che si deve alla propria discendenza, al proprio ospite e alla propria famiglia. (3)

Del resto tutta la vicenda di Eracle è costellata da omicidi più o meno involontari e accidentali. Già nel mito di Eracle è così presente l'idea che per vincere mostri bisogna diventare un po' simili a loro: il meccanismo di difesa definito dalla psicoanalisi come «identificazione con l'aggressore» (4) sembra perciò costituire la chiave di volta del comportamento eracleo. L'estrema alterigia, l'inverecondia, la sfacciataggine, l'esercizio deliberato e programmatico della provocazione e dell'intolleranza tipico del comportamento cinico, tratti che fanno parte di una conformazione psichica, alla base della quale sta la necessità di difendersi soprattutto dal senso di colpa.

1 E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1976.

2 P.E. Slater, The Glory of Hera, Boston 1968.

3 G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero, Torino 1974.

4 S. Freud, Opere, Torino 1985.

L'aggressività dell'antico cynicus verso il mondo esterno affonda le sue radici nel presupposto che il filosofo è stato riconosciuto colpevole e condannato a morte. Agendo sul terreno scelto dai suoi persecutori, quello della forza, anziché mantenersi su quello tradizionale della sovranità spirituale, egli è più affine ai propri carnefici di quanto possa ammettere. In un altro punto ancora Eracle e il filosofo cinico mostrano singolari affinità, nel difficile rapporto che entrambi hanno con la propria veste. Nel mito Eracle muore cercando invano di strapparsi di dosso la tunica bagnata dal sangue del centauro Nesso, la quale al contatto del suo corpo si è incendiata procurandogli sofferenze insopportabili. Per gli antichi cynici l'autodenudamento costituisce invece una sfida, una trasgressione ingiuriosa delle convenzioni, un attentato all'aidós, al senso del pudore. In entrambi i casi la veste è considerata qualcosa di troppo, di inessenziale, di nocivo: è venuto meno il rapporto omerico di coappartenenza tra la veste e colui che la indossa: alla base di questa spudoratezza non vi è tuttavia la celebrazione della nudità come bellezza, che costituisce un altro topos tradizionale del modo di essere ellenico. La pelle di leone, che nell'iconografia classica Eracle porta sulle spalle, è la spoglia del leone nemeo, il primo mostro da lui vinto; il vestito di Cratete è una pelle d'animale. Il cynismus antico rappresenta una totale rottura con quella concezione pregiuridica dei rapporti umani, fondata sulla philia, sull'ospitalità, sull'aidós, per la quale il vestito è il primo involucro di un ben più vasto sistema di protezione. Il riferimento dei cynici alla natura non è ancora, come poi sarà per gli stoici, l'inserimento in un contesto benigno e provvidenziale, ma soltanto l'identificazione con una forza maggiore delle leggi e delle convenzioni umane.

Il secondo punto nel quale il cynismus si allontana dalla tradizione ellenica, è costituito dal suo rifiuto della paideia, dell'educazione, della cultura. Anche qui la tragica vicenda socratica deve aver giocato un ruolo decisivo: oltre all'accusa di empietà, infatti, Socrate era stato incolpato di corrompere i giovani. I cinici perciò rifiutano di costituire una vera scuola filosofica: alla filosofia intesa come dialogo, Antistene oppone un'idea della filosofia fondata sul poter parlare con se stessi; quanto agli allievi, egli era noto per il fatto di cacciarli via con una verga d'argento. Si riusciva ad essere accettati come alunni dai cynici solo dopo aver compiuto molti tentativi falliti: solo chi aveva la costanza di perseverare in questa richiesta, nonostante i rifiuti, dimostrava di avere le qualità in tal senso necessarie. Il rapporto con gli altri si fondava su una pratica anti-seduttiva: Ipparchia, l'unico filosofo di sesso femminile di cui parla Diogene Laerzio, innamoratasi di Cratete e volendolo sposare, viene distolta da lui in tutti i modi possibili e infine viene posta dinanzi alla nuda evidenza della sua bruttezza e povertà; solo superando questa prova e facendo proprio il modo di vita del cynicus ella viene accolta.

Il rifiuto della scuola si accompagna molto significativamente col rifiuto della cultura letteraria, artistica e scientifica.

I cinici ritengono perfino la dimensione speculativa della filosofia come qualcosa di estraneo che distoglie dall'essenziale.

Vi è in questa esclusione della paideia un aspetto non privo di connessione con il loro privilegiare la forza rispetto all'incanto della parola poetica e all'entusiasmo del conoscere. I cynici spezzano la connessione tra areté e paideia, tra eccellenza e sapere che, implicita nell'esperienza greca arcaica, si era venuta manifestando pienamente nel corso del V secolo a.C: (1) la virtù è per loro indipendente dalla conoscenza e dal sapere. Vi è nel loro modo di essere qualcosa di esageratamente rigido, statico e sclerotico che impedisce l'emergenza del nuovo, il sempre nascente schiudersi della vita: la loro concezione della natura risente di questi limiti. Quel che basta a se stesso e di nulla ha bisogno è l'inorganico, la pietra. L'esclusione del mondo storico, di ciò che incessantemente muta e si trasforma, preclude in ultima analisi la possibilità dell'esperienza.

Non è un caso che la fecondità del cynismus si esaurisca nelle sue prime figure: sebbene il suo modello di vita trovi imitatori fino al II secolo d.C, nessun tratto originale emerge nella turba dei seguaci di Diogene. Il fatto è che la comparazione del filosofo al guerriero lo inserisce in un orizzonte di rapporti umani caratterizzati dalla violenza, nei quali viene completamente meno la specificità maieutica della relazione educativa.

1 W.Jaeger, Paideia, Firenze 1959.

 Invece di promuovere e di favorire la nascita delle differenze, il guerriero sollecita soltanto un'imitazione che si trasforma inevitabilmente in rivalità: (1) il cinismo relega la filosofia nell'inesorabilità di una competizione mimetica, di un antagonismo generato dal riferimento ad un'unica forma di eccellenza.


Proprio l'imporsi del rapporto mimetico come unico tipo di legame sociale consente di spiegare il passaggio dal cynismus antico al cinismo moderno, di cui Sloterdijk fornisce una fenomenologia così penetrante. Anche il cinico moderno infatti è un guerriero. I maestri del cinismo moderno - soprattutto Nietzsche e Heidegger - sono infatti coloro che hanno trasformato la filosofia in una macchina da guerra nella quale le figure dei singoli belligeranti scompaiono nel vortice di rapporti mimetici sempre più ravvicinati. Nel cynismus antico l'identità del combattente è affermata in modo assoluto fino alla caricatura: nel cinismo moderno invece il combattente diventa invisibile, perché l'inapparenza è la sua difesa più forte. Al filosofo come Eracle succede il filosofo come Zelig; il personaggio del film di Woody Allen è infatti la figura simbolica di un processo di identificazione con l'avversario spinto all'estremo.

Anche all'origine del cinismo moderno c'è una catastrofe politica della filosofia. Ma questa, a differenza di quella antica determinata dalla condanna di Socrate, non può essere individuata in un singolo evento. Nei tempi moderni la filosofia non è condannata a morte, ma soppiantata da una copia che pretende di prendere il suo posto, l'ideologia. Quest'ultima, presentandosi come un complesso dottrinario che fornisce una risposta ad ogni domanda e che risulta dotato di una grande effettività pratica, rimpiazza la filosofia senza per lo più venire » con essa ad un conflitto aperto. Ancora una volta il filosofo si trova costretto, come nell'antichità, ad una guerra per la propria sopravvivenza; questa volta tuttavia il conflitto non ha il carattere di una lotta vis-à-vis, ma fin dall'inizio è invischiato nella logica tendenziosa e subdola delle rivalità mimetiche. Il neocinismo nasce dalla scelta di combattere l'avversario con le sue stesse armi: se l'ideologia vince facendosi portatrice dei valori e degli ideali, la filosofia avrà qualche possibilità di contrastarla soltanto attraverso una buona coscienza della menzogna e la costruzione di apparati di simulazione.

1 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano 1983.

Alla verità, al bene, al bello non è più possibile arrivare direttamente, ma attraverso un percorso tortuoso e ambiguo: nel capitolo dedicato alla storia dostoevskijana del Grande Inquisitore, Sloterdijk ci fornisce una eccellente illustrazione del carattere indiretto e paradossale tipico del comportamento neocinico.

Nel concepire il filosofo come un guerriero, il pensiero moderno è la continuazione del cynismus antico. La preoccupazione fondamentale che anima Nietzsche è la stessa che determina il comportamento di Diogene: il problema della forza della filosofia. L'imperativo è lo stesso: vincere ad ogni costo e nonostante tutto. L'appello dei cynici antichi alla natura intesa come massima forza reale è uguale all'appello nietzscheano alla vita, intesa come massima potenza reale. Tuttavia, mentre la natura fornisce una sola indicazione, la vita può suggerire tutto e il contrario di tutto.

Comincia con Nietzsche un gioco strategico a tutto campo, nel quale gli opposti si rincorrono e si capovolgono l'uno nell'altro: Zarathustra è insieme il fondatore della morale e lo spirito libero; Dioniso e Gesù Cristo, il paganesimo e il cristianesimo sono entrambi manifestazioni di una volontà di potenza che può assumere qualsiasi aspetto. L'essenziale è usare, contro l'ideologia, il meccanismo strategico che le ha consentito di trionfare sul pensiero filosofico: il mimetismo. Quanto più ci si dissimula sotto i valori e gli ideali opposti ai propri, tanto più si ha la possibilità di vincere: il criterio della forza dice Nietzsche - è riuscire a vivere sotto il dominio dei valori contrari e volerli sempre di nuovo. (1) In Zarathustra è già implicito Zelig!

L'avere colto l'aspetto neocinico del pensiero heideggeriano è ancora uno dei meriti di Sloterdijk. Esso risulta evidentissimo nel rapporto di Heidegger col nazismo: ma in questa circostanza il neocinismo non deve essere interpretato come sinonimo di conformismo, di opportunismo, di servilità. Alla sua base c'è una volontà di opposizione che tuttavia non si manifesta come lotta, ma mediante un rapporto di rivalità mimetica col nemico. Heidegger stesso spiega molto chiaramente questo tipo di relazione: esso non è rissa, alterco, dissenso, ma Auseinandersetzung, esposizione reciproca che implica un confronto caratterizzato da rivalità.

1 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, Milano 1974.

Molto significativo è il fatto che per Heidegger il concetto di pólemos, guerra, voglia dire éris, contesa, che appunto rimanda allo zèlos, cioè alla gelosia, al rapporto competitivo nel quale i due contendenti si confrontano in un gioco di emulazione e di simulazione reciproca. (1) C'è da chiedersi se l'intero pensiero heideggeriano non possa essere interpretato come un gigantesco apparato di duplicazione concorrenziale della filosofia classica, nel quale ogni nozione proposta come alternativa (per esempio, l'essere, l'ontologia, l'essenza della tecnica...) nasce dalla necessità di soppiantare la nozione tradizionale (rispettivamente l'ente, la metafisica, la scienza). L'appello all'origine serve appunto a legittimare le prime rispetto alle seconde.

Forse non è un caso che con Nietzsche e con Heidegger la filosofia diventi estremamente prossima all'arte, la quale già nell'esperienza della Grecia antica contiene aspetti cinici. Nel protoartista della mitologia greca, Dedalo, sono già presenti i caratteri della rivalità mimetica e della sagacità simulatoria.

Dedalo inizia la sua carriera gettando dall'Acropoli il nipote, che lo superava in abilità tecnica, e la continua inventando una serie di macchine ingegnose (come la famosa vacca di legno che consente a Pasifae di unirsi al toro) o di astuti artifici (come il Labirinto). Pronto a mettersi al servizio di tutti i padroni e privo di qualsiasi scrupolo, egli conduce una propria guerra individuale, fatta di stratagemmi e di tattiche, la quale afferma in modo paradossale l'assoluta autonomia e indipendenza della téchne.

Se il cynismus antico è accompagnato dall'impudenza, un'aura di scandalo circonda i cinici moderni. Ora - come osserva René Girard «l'essenza dello scandalo consiste nel suscitare una fascinazione mimetica, nella quale i contenuti oggettivi del volere vanno perduti a favore del modello soggettivo che s'impone come unico punto di riferimento del desiderio; colui che dà scandalo provoca appunto un desiderio di emulazione violenta: si scatena così quella pulsione di rivalità e di gelosia alla base della quale sta ogni violenza. Essenzialmente scandalosa è forse proprio quella «ragione soggettiva» con la cui critica Sloterdijk termina il suo libro.

1 M. Heidegger, L'autoaffermazione dell'università tedesca. Il rettorato 1933-4, Genova 1988.

Non sarebbe difficile collegare il rifiuto neocinico della trasparenza con la negazione che i cynici antichi opposero alla cultura: su ambedue pesa un'ipoteca che conduce a fare cattiva moneta di se stessi. Ciò è evidentissimo nel processo d'identificazione e di mimetismo con gli strumenti di comunicazione di massa, che anima tanto pensiero postmoderno; per prevenire l'altrui tendenziosità, il neocinico tende a presentarsi molto spesso come l'opposto di ciò che è: per riuscire vincitori ad ogni costo Eracle e Zelig si scambiano le parti in un processo infinito di simulazione in cui la differenza tra gli avversari si annulla. Ma forse già Diogene di Sinope faceva cattiva moneta di se stesso, quando catturato dai pirati e venduto schiavo si presentava come esperto nel «comandare gli uomini».

Perciò il cynismus antico potrebbe essere considerato la malattia infantile dello stoicismo. Con Zenone di Cizio, che fu in un primo tempo discepolo del cinico Cratete, il filosofo cerca di sottrarsi alla rivalità mimetica col guerriero: la filosofia ritorna innocente e si mette di nuovo, secondo la sua vocazione più profonda, sotto il segno della persuasione e non della forza. Essa inoltre riafferma nel modo più energico la sua intima connessione con la paideia, con il sapere e con la civiltà cosmopolita, senza tuttavia ricadere nella metafisica platonica o aristotelica. Infine, separando nettamente la figura del saggio dall'individualità del filosofo stoico, essa rifiuta ogni genere di competizione e di imitazione violenta.

Il compito storico dinanzi a cui si trova la filosofia oggi presenta sorprendenti analogie con quel momento della filosofia antica. Anche sotto questo aspetto l'opera di Sloterdijk si raccomanda come una propedeutica che, affondando le sue radici nelle pieghe più riposte del sentire e del pensare contemporaneo, sollecita un proseguimento e uno sviluppo.

Mario Perniola


  


AVVERTENZA

È opportuno richiamare l'attenzione del lettore italiano sulla distinzione del lessico tedesco intercorrente tra «Kyniker» (che designa il kynikos o cynicus, ossia il seguace dell'antica scuola filosofica ateniese di cui Diogene fu esponente di spicco) e «Zyniker» (che invece rimanda sommariamente al cinico inteso come tipo umano assai spregiudicato). Tale coppia terminologica è stata qui analogizzata restituendo Kyniker con l'espressione «kinico» e Zyniker con «cinico» (per i paronimi - cinismo/kinismo, cinicamente/kinicamente ecc. - ci si è regolati di conseguenza). Il conio di un neologismo trova giustificazione nella natura concettuale e sistematica che la distinzione assume in Sloterdijk.

Il presente volume si rifa alla Kritik der zynischen Vernunft (Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1983), opera dalla quale l'autore ha tratto per l'edizione italiana il testo che qui presentiamo e che possiede, in certa misura, un impianto proprio. Questa edizione italiana vuole offrire un essenziale percorso di lettura nella ponderosa summa cynica di Peter Sloterdijk. All'edizione di lingua tedesca, ove necessario, si è qui rinviato in nota con l'abbreviatura KzV, seguita da indicazione del volume e delle pagine (in cifre, rispettivamente, romane e arabe).

 


PREMESSA

Suona il tamburo e non temere e bacia la salmerista Ecco, questa è la scienza completa Ecco, è questo dei libri il senso più fondo.

Heinrich Heine, Dottrina (1)

Il grande difetto delle teste tedesche sta nel fatto, che codeste teste non sanno cosa sia il cinismo, il grottesco, lo spregio e la beffa.

Otto Flake, Tedesco-Francese, 1912 (2)

«Da un secolo la filosofia giace in stato di coma e non può morire perché il suo dovere non è adempiuto. Si vede così costretta a tirar per le lunghe torturanti congedi. Ove non sia già decaduta a mera amministrazione delle idee, essa si trascina, rimembrando d'un tratto, nei barbagli dell'agonia, le cose che per tutta una vita s'era scordata di dire. Davanti alla Fine vorrebbe farsi sincera, svelare l'ultimo segreto. I grandi temi — si confessa - altro non erano se non fughe, mezze verità. E quegli svoli, alti... Belli, inutilmente belli: Dio, Universo, Teoria, Prassi, Oggetto, Corpo, Spirito, Senso, Nulla... Tutte cose che non ci sono. Sono sostantivi per liceali, per emarginati, per chierici, per sociologi.

«Parole, parole, sostantivi... gli basta spalancar l'ali che già i millenni sfuggono al lor volo».

Gottfried Benn, Epilogo e Io lirico.

1 «Schlage die Trommel und furente dich nicht / Und kusse die Marketenderin! / Das ist die ganze Wissenschaft, / Das ist der Biicher tiefster Sinn», Heinrich Heine, Doktrin.

2 «Der grosse Mangel deutscher Köpfe besteht / darin, dass sie für Ironie, Zynismus, Groteskes, / Verachtung und Spott keinen Sinn haben», Otto Flake, Deutsch-Franzosisches , 1912.

Incline alla confessione, questa nostra ultima filosofia cataloga tali argomenti sub voce historica, come «peccati di gioventù». Il tempo è scaduto. Estasi della comprensione? Elevazione concettuale? Nelle nostre menti non ne troveremo nemmeno un barlume. Siamo illuministi... illuminati e apatici. Sul fantomatico «amor» di sapienza, meglio sarebbe poi tacere.

Non c'è più una sapienza (sophia) di cui essere innamorati (philoi). Di ciò che sappiamo, non ci salta davvero in mente di provare amore; anzi ci domandiamo come fare a viverci insieme senza finirne pietrificati.

Ciò che - alludendo a un testo della grande tradizione - viene qui presentato, vuol essere un iter meditativo sulla proposizione: «Sapere è potere». È stato il primo atto di confessione della filosofia; poi, durante il XIX secolo, ha finito col diventarne il becchino, dando così inizio a quest'agonia dei cent'anni.

Va, invece, a concludersi la tradizione di un sapere, amor di verità (che - come è del resto suggerito dal nome stesso - è in qualche misura anche teoria erotica, verità d'amore). Dal corpo morto della filosofia, nel secolo XIX, sono sbucate le scienze moderne e le teorie del potere (politologie, teorie delle lotte di classe, tecnocrazie, vitalismi); buone per tutti i gusti, tutte armate fino ai denti. Sapere è potere: ecco, il fatale politicizzarsi del pensiero è compiuto. Pronunciando la proposizione, la verità è svelata.

Nel pronunciarla, tuttavia, quel che si vuol ottenere, più della verità, è intervenire nel gioco del potere.

Mentre Nietzsche iniziava a metter in luce la «volontà di potenza» sottesa a ogni volontà di sapienza, la vecchia socialdemocrazia tedesca si diede a esortare tutti i propri membri affinché partecipassero alla battaglia per il sapere, che è potere... Dove le vedute nietzscheane volevano esser «pericolose», fredde e disilluse, la socialdemocrazia venne sfoggiando invece la propria allegrezza creativa stile Biedermeier. Entrambi parlavano della stessa cosa, del potere: Nietzsche sottraendo vitalisticamente terreno all'idealismo borghese, i socialdemocratici cercando, per mezzo dell'istruzione, di annettersi le opportunità offerte dal potere della borghesia. Nietzsche insegnava già quel realismo che avrebbe dovuto aiutare le nuove generazioni di piccola e media borghesia a prendere congedo da tutte le minuzie che frenano la volontà di potenza; la socialdemocrazia agognava a compartecipazioni di quell'idealismo, che (fin lì) aveva celato in sé promesse di potere. Con Nietzsche la borghesia potè finalmente dedicarsi ai piaceri raffinati e alle astute rusticherie di una volontà di potenza ormai scevra da idealità. Mentre il movimento dei lavoratori, quanto a volontà da potenza, si strambiva ancora con idealismi più consoni alle sue ingenuità.

La configurazione dominatoria del cinismo fu doppiata dall'ala radicale della sinistra intorno all'anno 1900. La rincorsa tra la coscienza cinico-difensiva dei vecchi detentori del potere e quella utopico-offensiva dei nuovi è la madre del dramma politico-morale che domina il XX secolo. Nella corsa alla coscienza più dura sui fatti più duri, Satana e Belzebù si sono fatti da maestri a vicenda; e da questa concorrenza, ecco venir fuori quella luce sospetta, tipica del nostro tempo, quella minacciosa, cagnesca fissità di sguardo delle ideologie, quel fagocitamento della contraddizione e quella modernizzazione del bidonismo, culminata nella classica situazione in cui i bugiardi accusano i bugiardi di falsità e il filosofo comincia a girare a vuoto.

Placatasi l'onda d'interesse fascista verso di lui, intuiamo in Nietzsche una seconda attualità. Diviene nuovamente chiaro l'abuso di costume cristiano da parte della civiltà occidentale.

Dopo i decenni della Ricostruzione e l'epoca delle utopie e delle «alternative», è come se un certo ingenuo slancio fosse d'improvviso scomparso. Qua e là si temono catastrofi; congiuntura favorevole per lo smercio di nuovi valori (e di tutti i tranquillanti in generale). I tempi sono cinici, e sanno bene che i nuovi valori hanno le gambe corte. Sensibilità, focolari domestici, salvaguardia della pace, qualità della vita, coscienza delle responsabilità, consapevolezza ecologica: non è roba che suoni come dovrebbe. C'era di che aspettarselo. Il cinismo se ne sta appiattato dietro le scene. Il chiacchiericcio passerà, le cose riprenderanno il loro corso... La nostra modernità senza slancio, se è capace senz'altro di pensiero storico, dubita grandemente, però, di trovarsi a vivere in una storia munita di qualche senso. E dunque: «Storia universale? No grazie».

In Nietzsche, l'eterno ritorno del medesimo (pensiero altamente sovversivo, sprovvisto di consistenza cosmologica, eppure fruttuosissimo sotto il profilo della morfologia culturale) coglie il reinsinuarsi di un motivo kinico già dispiegatosi prima d'allora nella vita consapevole durante l'ultima epoca imperiale romana e anche, ma con minor intensità, nel Rinascimento. Qui il medesimo consiste nei segni di una vita sobria e orientata verso il piacere, ma ammaestrata a fare i conti con i dati di fatto.

Essere pronti a tutto: questo rende l'intelligenza invulnerabile.

Vita malgrado Storia; riduzione esistenziale; socializzazione del come se; Ironia contro Politica; diffidenza nei confronti dei Progetti. Una cultura neo-eretica che non creda a una vita dopo la morte, a maggior ragione cercherà quella prima di questa.

Spesso trascurato, l'autoritratto decisivo di Nietzsche è quello di un Oyniker: in quanto tale egli divenne, insieme a Marx, il pensatore più influente del XIX secolo. Nel suo Cynismus viene alla luce una mutata relazione con il «dire la verità»: un rapporto accompagnato da strategie, tattiche, sospetti e disinibizioni, pragmatismi e strumentalizzazioni; il tutto nelle mani di un Io politico che, come causa prima e radice ultima, pensa a se stesso, barcamenandosi con la propria coscienza e corazzandosi verso il mondo.

Un forte impulso antirazionalistico reagisce, nei paesi dell'Occidente, a quello status spirituale in cui ogni forma di pensiero è divenuta strategia. È il senso annunciato di disgusto dinanzi a certe forme di autoconservazione. È un ritrarsi sensibile dall'alito gelido di una realtà nella quale potere è sapere e, viceversa, sapere è potere. Scrivendo, ho tenuto presente chi legge. Mi sono augurato lettori che sentano a questo modo.

Credo che a questi lettori il libro potrà forse dir qualcosa.

La vecchia socialdemocrazia aveva dunque uno slogan, «sapere è potere», che, propagandato così, alla buona, rivelava una sua qualche dose di ragionevolezza pratica. Si doveva imparare prima qualcosa per averla più facile poi. Fu un credo scolastico e piccolo-borghese a dettare quella parola d'ordine.

Cose, oggi, in via di smantellamento. Un iter chiaro che conduca dallo studio a un certo standard di vita, esiste ormai soltanto nelle menti dei medici più giovani e cinici. Quasi tutti gli altri vivono nel rischio di imparare a vuoto. E chi non ha brame di potere, è facile che non aspiri nemmeno al relativo armamentario di sapere. Ma: rifiutateli entrambi ed ecco che, dentro di voi, già non fate più parte del consorzio civile. Sono molti, innumerevoli, coloro i quali non credono più si debba «imparar-qualcosa-prima» per «averla-più-facile-poi». Ho fiducia che in costoro stia crescendo l'intuizione di un'antica cinica certezza: prima bisogna averla facile per poter imparare qualcosa di ragionevole poi. La «socializzazione» a colpi di scolarità di massa (se avviene così come avviene qui da noi) è istupidimento, e sarà difficile che «dopo» si prospettino vie di cognizione tramite le quali le cose possano migliorare. C'è aria di rovesciamento nel rapporto vivere/imparare: siamo alla fine del credo nell'istruzione, alla fine della scolastica europea.

Cosa che - vuoi i conservatori che i pragmatici, sia i voyeurs del crepuscolo che i benintenzionati - tutti in egual modo considerano tanto amara che poco è più morte. Fondamentalmente nessun essere umano crede che imparare oggi potrà risolvere i problemi di domani. Al contrario: quasi sicuramente li scatenerà.

Dissoltosi il movimento degli studenti, viviamo uno scadimento della teoria. C'è, è vero, più erudizione, e anche più livello di allora, ma le ispirazioni sono sorde. L'ottimismo di allora (che fosse cioè possibile mediare gli interessi individuali con l'impegno nella teoria sociale) è in larga misura estinto. In sua assenza ecco che d'improvviso ci appare quanto la sociologia possa divenir noiosa. Tra gli illuministi, dopo la débàcle dell'attivismo di sinistra, del terrorismo e relativa moltiplicazione in antiterrorismo, il mondo aveva cominciato ad attorcigliarsi. Qui da noi si volevano aprir a tutti i lavori d'esequie per la storia tedesca. E tutto si è concluso invece nella melanconia. La critica pare oggi ancor più impossibile di quanto pensasse Benjamin ai suoi tempi. Lo stato d'animo critico si introverte nostalgicamente in piccolo giardinaggio filologico, in cui coltivare i giaggioli di Benjamin, i fiori del male di P.P.P., la belladonna di Freud.

La critica, qualunque sia il senso di questo termine, sta traversando giorni oscuri. È suonata nuovamente l'ora di una critica dei costumi nella quale i singoli atteggiamenti vengono subordinati ai ruoli professionali. Criticismo a responsabilità limitata. Illuminismo come fattore di successo: un atteggiamento che giace sul punto d'intersezione tra i nuovi conformismi e le vecchie ambizioni. Ai tempi si poteva già in Tucholsky intravedere la vacuità di una critica determinata a strozzare la voce del proprio disinganno. Si sa che il successo non sortisce proprio nulla. Si capisce che la lucidità brillante della scrittura ha poca efficacia: e da questa esperienza, divenuta abbastanza generale, s'avanzano i cinismi latenti degli illuministi d'oggi.

Un poco di pepe, in questa insipida minestra, l'ha gettato Pasolini proponendo un costume che, se non altro, ha la dote dell'evidenza: il corsaro. L'intellettuale come corsaro: un bel sogno. Da questo punto di vista la novità è palese: un omosessuale ha lanciato il segnale di battaglia contro l'effeminatezza della critica. Saltar di qua e di là, sulle attrezzature culturali, saltare come Douglas Fairbanks, con la sciabola sguainata, da vincitori una volta, da sconfitti un'altra, nel mare mondiale di uno straniamento profondo. Il costume è amorale e dunque calza, moralissimamente, a pennello. Il filibustiere non accetta, né può accettare, posizioni solide. Egli è in cammino tra fronti mutevoli. L'immagine «corsara» dell'intelligenza pasoliniana può essere retroattivamente riferita a Bertolt Brecht (intendo qui il «giovane e cattivo», non colui il quale, più avanti, crederà di dover tenere corsi scolastici nelle galere comuniste).

Ciò che, nel mito corsaro, pare più degno d'esser salutato con un benvenuto, è l'elemento aggressivo. Rimarrebbe da riflettere meglio solo sull'illusione che l'intelligenza possa trovare un suo fondamento nella rissa come tale. In realtà Pasolini, come Adorno, è uno sconfitto. Che finanche le cose più semplici della vita, tutto debba insomma essere reso così pesante, questo dolore a priori è ciò che aprì gli occhi alla sua critica.

Non esistono Grandi Critiche senza Grandi Difetti. Sono i feriti gravi della cultura, coloro i quali, con grande fatica, trova no lenimento nel far girar la ruota della critica. Un famoso scritto di Adorno dedicato a Heinrich Heine, La ferita Heine, altro non è se non un'opera di trivellazione applicata a tutte le specie di critica più significative. Tra le grandi prestazioni critiche moderne scorgiamo ovunque lo slabbrarsi di ferite: la ferita Rousseau, la ferita Schelling, la ferita Heine, la ferita Marx, la ferita Kierkegaard, la ferita Nietzsche, la ferita Spengler, la ferita Heidegger, la ferita Theodor Lessing, la ferita Freud, la ferita Adorno... Dall'autorimarginarsi delle grandi ferite nascono opzioni critiche che, nelle varie epoche, fungono da luogo di raccolta per i vissuti esistenziali. Ogni critica è lavoro pioniere nel dolore di un'epoca e parte di una guarigione esemplare.

Per quel che mi riguarda non ambisco ad andare a nutrire le file di questo pur onorevole lazzaretto. Sono tempi maturi, i nostri, per una nuova critica dei temperamenti. Apparendo nelle sembianze della «triste scienza», l'illuminismo solleciterebbe di nuovo immobilità melanconica, disaffezione. Perciò questa mia critica della ragion cinica punta a ottenere di più con un lavoro di rasserenamento, mentre va tenuto fermo, sin d'ora, che il lavoro non dovrà superare il rilassamento derivante.

Ora, riandando al luogo dei miei impulsi, vi trovo una puerile devozione per ciò che philosophia significava nel senso greco del termine. Qui è complice, del resto, una tradizione familiare fatta di timor sacro: mia nonna, figlia d'insegnanti, proveniente da una casa d'idealisti, ripeteva sempre, fiera e riverente, che «fu Kant colui il quale scrisse la Critica della ragion pura e Schopenhauer fu l'autore de Il mondo come volontà e rappresentazione». E forse c'erano al mondo altri libri magici, altri ancora che come questi, sebbene siano stati scritti, non si possono leggere poiché son troppo pesanti e, come tutte le cose veramente grandi, ci condannano ad ammirarli da fuori.

Mi chiedo se proprio non esista più alcuna filosofia nella quale la «vecchia mano ossuta» di musiliana memoria smetta di svitarci, con moto elicoidale, il cervello fuor di testa. Il sogno che seguo è veder fiorire, ancora per una volta, l'albero morente della filosofia: fioritura senza delusioni, florida, e col ma di pensieri bizzarri; fiori rossi, blu e bianchi, lucenti nei colori del principio, come quella volta, in quella prima luce greca, quando la theoria ebbe inizio e quando - incredibile e improvvisa come tutto ciò che è chiaro - la comprensione si congiunse al suo linguaggio. Davvero la nostra cultura è troppo vecchia per ripetere certe esperienze?


Il lettore è invitato a prender posto sotto quest'albero, che in effetti non esiste, né potrebbe. Prometto di non prometter nulla e soprattutto nessun Nuovo Valore. La critica della ragion cinica vuol indagare - citiamo dalla Caratteristica delle commedie aristofanee di Heinrich Heine (sulla quale si fonda la gaia scienza): L'idea profonda di distruzione del mondo, con tutti i suoi nidi cantanti d'usignolo, e gli scimmiotti che vi rampicano come su un albero incantato, fantastico e fantasticamente ironico: un albero che si slancia alto, nei suoi ornamenti di pensiero. (1)

1 Heinrich Heine, Sämtliche Schriften, München 1969, voi. II, p. 466.


  


CAPITOLO I


 


CONSIDERAZIONI PRELIMINARI


 


 


 


1


CINISMO: IL CREPUSCOLO DELLA FALSA COSCIENZA INFELICE


 


Son tempi duri, ma moderni.


Proverbio italiano


 


E proprio non si vide più nessuno che stesse dietro a tutto ciò. Ogni cosa continuamente si girava intorno... Cambiavano gli interessi, di ora in ora. In nessun luogo trovavi ancora una meta (...) I dirigenti perdettero la testa.


Erano spompati, al fondo, come istupiditi (...) Tutti nel paese cominciarono ad accorgersi: qui non la va più (...) Il differimento dello sfascio mostrava ancora una via (...)


Franz Jung, La conquista delle macchine, 1921


 


Nella nostra cultura il disagio ha assunto una nuova qualità: quella di un cinismo diffuso, universale. La tradizionale critica all'ideologia gli sta innanzi, perplessa: né vede dove inserire - nella desta coscienza cinica - una leva illuminista. Il moderno cinismo è posto come quello stato di coscienza che segue le ideologie ingenue e il loro «superamento» illuminista.


Qui risiede la ragione vera dell'eclatante esaurimento che affligge la critica dell'ideologia: è rimasta più ingenua della coscienza che avrebbe voluto esplicitare e, nella propria brava razionalità, non è riuscita a seguire le giravolte della coscienza moderna verso l'odierno realismo, astuto e multiplo. Nella sua versione finora vigente, la sequenza formale della falsa coscienza (errore, menzogna e ideologia) è incompleta: la mentalità attuale costringe all'aggiunta di una quarta struttura: il fenomeno cinico. Parlare di cinismo significa tentar di accedere al vecchio palazzo della critica dell'ideologia attraverso un ingresso nuovo.


Estendere il significato del termine «cinismo» fino a usarlo per denotare un fenomeno diffuso e universale, si scontra tuttavia con il senso comunemente accettato di questa parola. In generale, infatti, non ci si figura il cinismo come qualcosa di diffuso, bensì come qualcosa di caratteristico: non universale, dunque, ma esorbitante, eccentrico e ultraindividuale. «Universale», «diffuso»: aggettivi inconsueti servono qui a tradurre qualcosa nella sua nuova forma che rende il cinismo inaudito e inafferrabile al tempo stesso.


Gli antichi conobbero il kynikos nella sua veste di eccentrico barbagianni, moralista, provocatore testardo. Diogene nella botte vale da patriarca e paradigma. Nell'album dei caratteri sociali egli ha un suo posto di beffeggiatore distanziato e distanziante, di mordace, velenoso individualista che dà a intendere di non aver bisogno di nessuno e di essere inviso a tutti perché nulla e nessuno passa indenne sotto il suo sguardo crasso e disvelante, che ogni cosa brutalizza. Per provenienza sociale il kynikos è un personaggio della città; e nella città, nell'ingranaggio dell'antica metropoli, affina il carattere. È un prodotto, uno dei primi prodotti dell'intelligenza declassata e plebea. La rivolta del kynikos contro l'arroganza e i segreti di funzionamento morale tipici della civiltà altamente sviluppata presuppone la polis, la città, insieme ai successi e alle ombre che le sono propri. È con la polis che il kynikos, profilo negativo della città, può installarsi al centro delle dicerie muovendo di qui verso una potente opera di cristallizzazione dell'odio-amore generale. Solo la città può accogliere nel gruppo dei suoi eccentrici anche il kynikos, che ostentatamente le volta le spalle.


La città infatti nutre simpatia per i tipi come lui, che è un esempio caratteristico di individualità urbana.


In età più recente, l'humus cinico si riforma nella cultura cittadina e nella sfera di corte. Sia il cinismo borghese che quello cortese sono coni di un realismo malvagio dal quale gli esseri umani apprendono l'obliquo ghigno dell'amoralità aperta.


Nel «borgo» e nella «corte» si aggregano le teste d'uovo a corso internazionale, depositarie di quel sapere mondano che si destreggia con eleganza tra i nudi fatti e le facciate convenzionali. Dal margine inferiore dell'intelligenza metropolitana declassata e dal margine superiore della coscienza istituzionale, nel pensiero serio si fanno strada segnali che comprovano una ironizzazione radicale dell'etica e delle convenzioni sociali: è come se queste leggi generali in certo modo valessero solo per gli sciocchi (mentre sulle labbra dei sapienti trema fatalmente una sorta di sorriso). O meglio: il sorriso abbonda sulla bocca del potente, su quella del kynikos plebeo fa eco lo sghignazzo satirico. Nel vasto sapere cinico gli estremi si toccano: Eulenspiegel fa conoscenza con Richelieu, Machiavelli con il nipote di Rameau; i prodi condottieri del Rinascimento con eleganti cicisbei rococò; imprenditori senza scrupoli con ex alternativi disillusi; strateghi muniti di medagliere e varie spanne di pelo sullo stomaco con obiettori di coscienza ormai privi di ideali.


Dal momento in cui la società borghese iniziò a traversare il ponte che collega il sapere di quelli che appartengono alle classi elevate con il sapere di quelli dei bassifondi, annunciando l'ambizione di creare un'immagine del mondo esclusivamente fondata sul realismo, i due estremi si sciolsero l'uno nell'altro. Ecco perché il cinico entra in scena come figura di massa: è un carattere sociale mediocre assurto al piano più elevato della sovrastruttura. È una figura di massa, e non solo perché la civiltà industriale avanzata produce l'amaro individualista su scala industriale, ma piuttosto perché le metropoli divengono esse stesse ammassi diffusi che hanno ormai perduto l'energia necessaria a formare public characters generalmente accettati. Nel moderno clima delle città e dei media è fortemente diminuita la pressione a individualizzarsi. In tal modo, il cinico moderno non rappresenta più una figura marginale.


E oggi meno che mai egli entra in scena assumendo forme plasticamente evolute. Il moderno cinico di massa perde il mordente individuale e si concede l'ebbrezza di una posizione da osservatore. Ha rinunciato da un pezzo all'originalità di quelli che si espongono all'altrui attenzione ed eventuale ludibrio.


L'uomo con lo sguardo lucido e cattivo si nasconde ora nella folla, ed è proprio con l'anonimato che la deviazione cinica acquista ampio margine. Il cinico moderno è un asociale integrato. È capace di misurarsi, quanto a disillusione sublimata, con qualsiasi dropout: lo sguardo lucido e cattivo non gli pare più un suo vizio personale o un capriccio di amoralità, privato, di cui sentirsi responsabile. Istintivamente egli non concepisce più questo suo modo d'essere come qualcosa che abbia a che vedere con la malvagità: realisticamente intonata, la sua è anzi partecipazione al modo di essere collettivo. In generale, tra la bella gente illuminata, si usa badare bene a non far la figura dei fessi. Il che sembrerebbe cosa sana e conforme al principio di autoconservazione: è insomma l'atteggiamento di gente che ha capito quanto siano chiaramente sorpassati i tempi dell'ingenuità.


Sul piano psicologico, il cinico d'oggi può esser definito come un caso limite di melanconico ancora in grado di controllare i propri sintomi depressivi conservando una certa capacità produttiva. Fra i tratti del moderno cinismo, questo è l'essenziale. Nonostante tutto, dopo tutto e a maggior ragione, il suo portatore continua a «fare». Il cinismo diffuso ha ormai conquistato le posizioni chiave della società: presidenze, parlamenti, comitati di controllo, direzioni aziendali, lettorati, studi professionali, facoltà universitarie, segreterie di produzione e redazioni. Tutto ormai appartiene ai cinici, la loro azione è accompagnata da una certa amarezza chic (a tratti hanno ben presente il nulla a cui tutto ciò conduce... ma la loro anima si è fatta abbastanza elastica da reintegrare il dubbio perenne sul proprio agire imbozzolandolo tra i fattori di sopravvivenza).


Essi sanno quello che fanno. Ma lo fanno. Dal momento che necessità inderogabili e principi di autoconservazione parlano la stessa lingua (sulla breve prospettiva), i cinici riescono a persuadere se stessi del fatto che così dev'essere: e loro così fanno.


E se non lo facessero loro, lo farebbero «gli altri». Che forse sono anche peggiori... Così il nuovo cinismo integrato ha addirittura la sensazione di sacrificarsi, si sente una vittima. Sotto le scorze della dura efficienza, c'è in loro il portato di mille infelicità, facili a ferirsi, e di un grande, grande bisogno di lacrime. C'è il lutto per l'innocenza perduta, per quello che in fondo si sa, o si saprebbe, e contro cui sembra schierato tutto questo «fare».


Di qui la nostra prima definizione: cinismo e falsa coscienza illuminata, (1) ossia la modernizzazione infelice della coscienza alla quale l'illuminismo ha lavorato, a un tempo, con successo e inutilmente. La moderna coscienza infelice ha imparato la lezione illuminista, ma senza trarne le conseguenze (né del resto poteva). Insieme privilegiato e miserabile, questo stato di coscienza non può essere scalfito da alcuna critica dell'ideologia: la sua falsità viene ormai mediata dalla riflessione.


La formula «falsa coscienza illuminata» potrebbe sembrare


1 Un primo «superamento» di questa definizione si trova nel capitolo II, mentre nella parte fenomenologica se ne trova un secondo.


E' un attacco alla tradizione illuminista o quel cinismo allo stato cristallino che in realtà è. Nondimeno, rispetto al contenuto, questa definizione va intesa nella sua validità, che nel presente saggio si cercherà di dimostrare. In termini logici falsa coscienza illuminata configura un paradosso: come potrebbe infatti una coscienza «illuminata» essere anche «falsa»? Proprio qui sta il punto.


 


Agire contro ciò che, in santa coscienza, pur si sa, caratterizza oggi la situazione sovrastrutturale generale: assenza completa di illusioni e attrazione irresistibile della «forza delle cose». Così, ciò che appariva come paradosso nello spazio logico e come motto di spirito in campo letterario, nella realtà si configura come lo status che produce un nuovo atteggiamento della coscienza verso l'«oggettività».


«Falsa coscienza illuminata». Non lo si intenda, dunque, nel senso di una suggestione episodica. E' un principio sistematico e un modello di diagnosi, che induce a una revisione dell'illuminismo, il cui rapporto con ciò che la tradizione chiama, falsa coscienza va esplicitato. Più ancora: occorre riconsiderarne l'intero tragitto e soprattutto l'intero lavoro di critica dell'ideologia, nel cui corso è avvenuto che la falsa coscienza fagocitasse l'illuminismo stesso. (1) Se questo saggio avesse intenti storici, il compito sarebbe allora quello di descrivere il processo di modernizzazione della falsa coscienza. Però l'intento non è, nell'insieme, storico, bensì fisiognomico; qui interessa la struttura riflessiva di una coscienza in cui la riflessione funge da ammortizzazione; vorrei mostrare che non si può comprendere tale struttura senza localizzarla in una storia politica della riflessione polemica. (2)


Sia detto senza sarcasmo: l'illuminismo odierno non può in- "'" trattenere alcun sano rapporto con la propria storia. L'unica scelta possibile è quella tra un pessimismo scrupoloso e fedele agli inizi (il che ricorda la decadenza) e una serena irrispettosità nella prosecuzione dei compiti originari. La situazione attuale fa sì che vi siano illuministi fedeli solo tra gl'infedeli: questo, in parte, si spiega con lo status di eredi che, volgendosi


1 Cfr. KzV, i, pp. 64 e 159: «Die acht Entlarvungen - Revue der Kritik» e «Nach den Entlarvungen: Zynisches Zwielicht - Skizzen zum Selbstwiderruf des Aulklärungsethos». (n.d.t.)


2 Vedi capitolo IV, «Cinismi cardinali».


a rimirare i tempi eroici, restano necessariamente scettici davanti ai risultati. (Nello status dell'erede, poi, interagisce sempre un certo qual cinismo situazionale — ben noto anche per le vicende di successione dei capitali di famiglia.) Tale posizione retrospettiva tuttavia non spiega, da sola, quelle particolari sfumature proprie del cinismo moderno. Il disincanto nei confronti dell'illuminismo non significa solo che gli epigoni possono e debbono esser più critici dei fondatori: un sentire tattile e immediato, proprio del moderno cinismo, possiede qui natura fondamentale: è lo statuto di una coscienza che, minata dall'esperienza storica, si vieta facili ottimismi. Nuovi valori? No, grazie. Dopo le testarde speranze ecco dilagare gli egoismi senza slancio. Nel nuovo cinismo agisce una negatività lucida che, per se stessa, produce ben misera speranza, un poco d'ironia semmai, e compassione.


In ultima analisi, il problema coincide con i limiti sociali ed esistenziali dell'illuminismo. Le coazioni della sopravvivenza e il desiderio di autoaffermazione hanno umiliato la coscienza illuminista. C'è del patologico nell'accettazione compulsiva di rapporti pre-esistenti (sui quali per giunta si nutrono molti dubbi) : si incomincia cercando un modus vivendi con lo status quo e se ne diviene esecutori subalterni.


Per sopravvivere bisogna andare a scuola di realtà. Indubbiamente, nel linguaggio di quanti lo ritengono un bene, questo si chiama diventare adulti. C'è del vero in tutto ciò... Solo che tutto ciò non è tutto. Inquieta, eccitabile, la coscienza partecipante si guarda in giro, alla ricerca continua di perdute ingenuità (beninteso: perdute per sempre visto che prendere coscienza di qualcosa sancisce un fatto sostanzialmente irreversibile).


Uno dei portavoce più puntuali del paradigma cinico moderno, Gottfried Benn, ne diede la definizione del secolo, lucida e svergognata: «Esser scemi e avere un lavoro, questa è la sfortuna»! Il rovesciamento della proposizione ne mostra l'intero contenuto: essere intelligenti e, ciò nonostante, fare il proprio lavoro: è questa la forma moderna e illuminata della coscienza infelice; cui non è dato ritornare sempliciotta perché le innocenze, una volta perdute, non si riacquistano più. La coscienza allora si indurisce, crede fortissimamente alla forza di gravità di rapporti, verso i quali è peraltro coartata dal suo ambiguo istinto di conservazione. Se tanto mi dà tanto... Piano piano, sui venticinque milioni annui al netto delle imposte (indicizzazione esclusa), comincia oggi la Restaurazione: chi ha qualcosa da perdere veda di aggiustarsi la coscienza in via privata e, se non ce la fa, si può impegnare in qualcosa, in un engagement a scelta...


Il neo-cinismo non si fa più notare in modo eclatante (come sarebbe consono alla sua essenza), proprio perché lo si vive a mo' di statuto privato che assorbe la situazione del mondo. Il neo-cinismo si circonda di privacy, parola chiave nella fascinosa alienazione che se ne produce. Il conformismo autocosciente che alla necessità ha sacrificato una migliore coscienza non vede più quali motivi avrebbe per denudarsi in modo aggressivo e spettacolare. Né vi sono nudità capaci di rivelare qualcosa in cui i nudi fatti possano, apparendoci, tornare una base su cui porsi con sereno realismo. Gli accomodamenti neo-cinici con ciò che è dato contengono qualcosa di ben miserabile e certo nulla del sovranamente nudo e crudo. Perciò, sul piano metodologico, fare sì che questo cinismo diffuso e di debole profilo si esprima è cosa non lieve. Esso si è appartato in una triste lucidità e interiorizza, come fosse una macchia dell'anima, il suo sapere ove risulti inservibile a fini polemici. Le grandi parate offensive di cinica sfacciataggine sono ormai rare. Al loro posto troviamo il sordo malumore (per il sarcasmo manca comunque l'energia). Arnold Gehlen pensava che al giorno d'oggi nemmeno gli inglesi riescano più a esser mordaci: le provviste di scontentezza paiono esaurite e già se ne incomincia l'inventario...


Questa è una delle ragioni per cui, nel capitolo VII di questo libro, verranno impiegati abbondanti dosaggi di materiale cinico tratto dalla Repubblica di Weimar nel tentativo di fìsiognomizzare un'epoca, un decennio cruciale la cui prima eredità fu il nazismo, la seconda siamo noi oggi. (1)


1 Cfr. KZV, i, pp. 74-81.


Per ragioni di cui si dirà, la Repubblica di Weimar fu predisposta al cinismo come nessuna prima di allora e produsse una gran quantità di cinismi brillantemente articolati, veri e propri esempi da manuale: quello che, in essa più che altrove, vi si sente è l'intenso dolore della modernizzazione e quello di cui si parla è la disillusione, fredda e acuta più di quanto qualsiasi epoca attuale potrebbe ancora sperimentare. A Weimar troviamo un'eccellente formulazione della coscienza infelice moderna, una formulazione bruciantemente attuale e, anzi, forse oggi solamente comprensibile nella sua più generale validità.


Una critica della ragion cinica, che non indagasse il nesso tra sopravvivenza come problema e fascismo come pericolo, sarebbe un gioco di perle di vetro, tutto accademico. Effettivamente la questione della sopravvivenza (tra autoconservazione e autoaffermazione) - su cui tutti i cinismi sono impegnati a dire la loro - tocca il nodo essenziale della difesa dell'ordine e della pianificazione del futuro nei moderni stati nazionali.


Con approcci diversi tenterò di definire una logica collocazione del fascismo tedesco nelle spire del cinismo riflessivo moderno. Si può però già da ora notare come le dinamiche tipicamente moderne (angoscia psico-culturale della disgregazione, autoaffermazionismo regressivo e freddezze razionali neo-funzionalistiche) si fossero mescolate alle vetuste correnti di cinismo castrense, che possiede, in terra tedesca (e in quella prussiana specialmente) una tradizione tanto macabra quanto ben radicata.


Queste riflessioni sul cinismo come quarta figura della falsa coscienza tendono a superare quel singolare stato di afasia della critica filosofica nei confronti della cosiddetta ideologia fascista.


 


La filosofia in quanto disciplina accademica non possiede alcuna tesi propria sul fascismo teorico, poiché, in fondo, esso le sembra al disotto di qualsiasi critica... Anche le spiegazioni del fenomeno fascista come «nichilismo» (Rauschning ecc.) o come prodotto del pensiero totalitario rimangono generiche e imprecise. Certamente: il carattere rabberciato e «inautentico» dell'ideologia fascista è stato già spesso rimarcato. Ed è pur vero che tutto quanto l'ideologia fascista vorrebbe rappresentare in termini di contenuto è rovinosamente crollato sotto l'azione critica delle singole discipline scientifiche: psicologia, storiografia, sociologia, politologia ecc. Le dichiarazioni programmatiche del fascismo hanno, a livello filosofico, la validità di ciò di cui non vale neppure la pena parlare; non c'è alcuna sostanza ideologica da prender sul serio o nei confronti della quale sia necessario elaborare una vera riflessione critica. E tuttavia, proprio qui sta la debolezza della critica.,La filosofia resta fis sata su avversari «seri» e, in questo atteggiamento, fallisce nel compito di comprendere la struttura dei sistemi complessi cui è sotteso un modello ideologico labile e non-serio; per questo la critica non è all'altezza della moderna mistura tra cinismo privato e pubblica opinione. Dal momento, però, che le questioni di autoconservazione, sociale e individuale, vengono poste e discusse proprio all'interno di tale mistura, vi saranno allora ragioni per occuparsi di come essa si viene a costituire. Accade, infatti, che si debbano trattare le questioni dell'autoconservazione e della vita con lo stesso linguaggio con cui si trattano quelle dell'autodistruzione e della morte: in ciò pare agire la stessa logica di revoca morale, che chiamo logica della struttura cinica. Un suo più accorto esame chiarirà meglio cosa vuol dire scegliere la vita.


 


 


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L'ILLUMINISMO COME DIALOGO. LA CRITICA DELL'IDEOLOGIA COME PROSECUZIONE CON ALTRI MEZZI DEL DIALOGO FALLITO


 


Parlando di cinismo si riportano alla luce i limiti dell'illuminismo. Da questo punto di vista, occuparsi degli accenti cinici weimariani, al di là di un discorso di preferenze e per ragioni d'esemplificazione, offre una grande ricchezza di prospettive anche sotto il profilo storico-filosofico. Nel corso della recente storia tedesca Weimar non rappresenta solo il prodotto della tentennante evoluzione di uno stato nazionale (oberato da una sua eredità guglielmino-prussiana di spirito cinicamente illiberale e illiberalmente cinico), bensì anche l'esempio di un «illuminismo malriuscito».


Che a quei tempi le avanguardie dell'illuminismo repubblicano fossero state soltanto una volonterosa pattuglia di portabandiere minoritari, contrapposti a forze quasi incontrollabili, lo si è spesso spiegato in termini di ondate massicce di anti-illuminismo e odio anti-intellettuale: ideologie autoritarie strutturate a falangi e capaci di un'efficiente, organizzata azione pubblicistica; aggressività nazionaliste, revanscismi, impenetrabili fumosità, conservatorismi testoni, Biedermeier riciclato e religionette messianiche commiste a indirizzi polit-apocalittici, tanto realisti quanto il loro rifiuto psicopatico della modernità che loro sentivano come una sorta di affronto personale. Poi, nella lenta cottura della crisi, le ferite della grande guerra si sono nuovamente infettate: ancora proliferava il nietzscheanesimo, questo stile di pensiero tipicamente - anzi tipicissimamente - alemanno-narcisista (cupo di una cupezza così «protestante», e arrogante e, nel suo rapporto con la «malvagia realtà», così intonato all'atmosfera dell'epoca...).


In questo clima di sovreccitazione, ecco il turbine apparire: ansia di fronte al futuro, rancore, pseudo-realismo e provvisorietà psicologica ne erano le cause. Se esiste un'epoca da psicopatologia degli eventi storici, essa è la quindicina d'anni che va dalla caduta dell'Impero al consolidamento del potere nazista.


L'apparenza qui non inganni: chi in quella società voleva far progredire la causa dell'illuminismo, stava nel posto sbagliato. Le forze dell'illuminismo erano troppo deboli e se ne potrebbero anche elencare i motivi. L'illuminismo non ha mai . stretto un'efficace alleanza con i mass-media e, del resto, l'emancipazione non rappresentava un ideale per i monopoli e i connessi gruppi di pressione (né poteva essere altrimenti).


Evidentemente la forza dell'illuminismo, negli attriti tra blocchi di potere contrapposti, esce spezzata. Tuttavia sarebbe un errore voler considerare tutto ciò una mera questione di aritmetica del potere. La rottura avviene infatti a fronte di un ostacolo qualitativo che emerge nella coscienza avversaria.


Questa contesta con rabbia gli inviti al discorso «disgregante» sulla verità, già il solo parlarne viene fatto oggetto di risentimento, in quanto vi vengono poste in questione le opinioni tradizionali, i valori e le forme dell'autoaffermazione. L'interpretazione e la spiegazione di questo ostacolo, inteso come fondamento dell'ideologia, sono divenute uno dei motivi ispiratori dell'illuminismo.


L'illuminismo aveva già avuto a che fare, prima dell'età moderna, con una coscienza avversaria in grado di penetrare progressivamente nel campo illuminista e di trincerarvisi: questo fronte può esser fatto retrocedere fino ai tempi dell'Inquisizione. E, se è vero che sapere è potere (come suona un famoso slogan del movimento operaio), è pur vero che non a tutte le forme di sapere si dà il benvenuto, Dal momento che senza lotta non vi è alcuna verità (ogni dato cognitivo deve scegliere il suo posto nello schieramento di potere o contropotere), i mezzi per convalidare e rendere efficaci le conoscenze appariranno allora quasi più importanti delle conoscenze stesse. Così, nel mondo moderno, l'illuminismo si presenterà come un complesso di norme tattiche... L'istanza di generalizzazione di ciò che è ragionevole lo trascina nel vortice della politica, della pedagogia e della propaganda. Con ciò l'illuminismo rimuove - in piena coscienza di quel che sta facendo - l'aspro realismo delle antiche lezioni di saggezza per le quali non v'è alcun dubbio che le masse siano folli e stolte e che la ragionevolezza appartenga solo ai pochi: il moderno elitarismo deve cifrarsi in chiave democratica.


 


Non è nostro compito esaminare sul piano storico il tema dell'inaridimento illuminista. Sappiamo che, durante i secoli XVIII e XIX, l'illuminismo ha saputo espandere i propri disegni e le proprie prestazioni, pur con dubbi autocritici, con i quali ha convissuto in modo quasi sempre proficuo sebbene avesse da superare numerose resistenze e gravi contraddizioni. Nelle difficoltà e nei tanti contraccolpi di quest'evoluzione, esso poteva tuttavia ritenere di aver dalla sua il progresso. E i grandi nomi - Watt, Pasteur, Koch, Siemens ecc. - sono l'emblema di grandi conquiste. Certo, qualcuno, magari brontolando un po', potrebbe disconoscerne il valore; ma sarebbe stizza, non giustizia. Stampa, ferrovia, penicillina: chi contesterebbe che queste siano notevoli innovazioni nel «giardino dell'umanità»? Nondimeno, nell'orrore tecnologico del XX secolo - partendo da Verdun e arrivando ai gulag, con soste ad Auschwitz e Hiroshima - l'ottimismo genera, ormai, solo un certo sarcasmo. E le catastrofi non avvenute, che bisbigliano in piccionaia, rendono anche più pressanti i sempiterni dubbi sulla civiltà (e così il tardo XX secolo se ne va sull'onda di un futurismo negativo: «del peggio s'è già fatto conto», ora manca solo che accada).


Giunti qui, desidero però restringere il tema «illuminismo inappagato» alla sola questione dei punti di forza davanti alla coscienza avversaria. Interrogarsi sui punti di forza è già in qualche misura scorretto in quanto l'illuminismo funziona essenzialmente sulla base della libera adesione; esso è, infatti, quella «dottrina» che preferisce non dover ringraziare, per la propria attuazione, tecniche di spinta extra-razionali: uno dei poli sarà la ragione, l'altro il dialogo tra coloro che della ragione si danno pena. Ideale morale ed essenza metodologica constano unitamente nel principio del consenso «libero e volontario»: con ciò s'intenderà che la coscienza avversaria non vada rimossa dalla sua precedente posizione se non per sola virtù di argomenti chiari e convincenti.


Si tratta di un processo sublime e pacifico, nel quale, sotto l'impulso di nuove e più plausibili ragioni, vengono eliminate le vecchie posizioni divenute insostenibili. In questo senso l'illuminismo presenta uno sfondo utopico: un idillio di pace epistemologica con bella vista sulla Scuola di Atene. Dialogo libero tra animi disinteressatamente interessati alla conoscen za: ecco dunque individui (non schiavizzati da una prepotente autoconsiderazione né oppressi da formalismi sociali) i quali, convenuti ad uno stesso luogo, conducono insieme un dialogo tutto teso alla verità secondo le leggi della ragione. E la verità degli illuministi dovrà necessitarsi in un'adesione alla solidità argomentativa, non alla forza. Questo, dunque, il primo passo che, in termini cronologici, deve aver fatto l'iniziatore o scopritore del modo illuminista di pensare, ovviamente dopo il sacrificio di una sua opinione precedente.


Il procedimento illuminista implica due aspetti: adesione alla nuova posizione e congedo dalla vecchia opinione; in tal modo si dà un'ambivalenza di sentimenti: gioia e dolore, guadagno e distacco. L'utopia del dialogo critico amabile prevede questa difficoltà: il dolore del distacco diviene sopportabile per la coscienza in quanto può essere accettato collegialmente, liberamente e volontariamente come prezzo della comunanza.


Lo sconfitto può in realtà considerarsi l'effettivo vincitore. E così il dialogo illuminista sarà semplicemente un duro lavoro sulle opinioni, una discussione capace di ricerca, tra individui che hanno scelto a priori la regola della pace, poiché non possono emergere dal confronto se non come vincitori, sia nella conoscenza che nella solidarietà. Le difficoltà connesse all'abbandono della vecchia opinione si sottintendono essere perciò superabili.


Idillio accademico, come s'è detto, ma insieme anche idea regolativa per ogni illuminismo che non voglia rinunciare a una prospettiva di riconciliazione. Che, poi, la realtà si riveli diversa, non stupisce. Nelle prove di forza tra l'illuminismo e le posizioni che esso «supera», si parla di ben altro che della verità; in realtà si parla di: egemonia, interessi di classe, dogmi di scuola, bei desideri, passioni, difese d'«identità» ecc.


Date queste premesse, che condizionano potentemente il dialogo illuminista, meglio sarebbe allora parlare, anziché di pacifica discussione, di una vera e propria guerra delle coscienze. Gli avversari stanno infatti l'uno di fronte all'altro non certo in posizione di convenuta e consensuale non-belligeranza, ma piuttosto in quella di una concorrenza ostile e assassina;, di più: in rapporto a quelle forze che fanno parlare - in un modo piuttosto che in un altro - le loro coscienze, essi non sono nemmeno ? liberi.


 


F. W. Seiwert, «Discussione», 1926.


 


Di fronte alla sobrietà dei fatti, il modello dialogico si comporta in modo volutamente irrealistico e l'arcipragmatismo dell'adagio primum vivere, deinde philosophari si convalida solo in via subordinata: tant'è che sempre più spesso s'incontrano si tuazioni nelle quali il philosophari resta l'ultima cosa che ancora ti aiuta a campare.


E' ovvietà scontata il prendersi gioco di questo «antirealismo metodologico» insito nell'idea di dialogo (e in una parte di questo libro si tenterà di aiutare il dileggio nel suo diritto d'esercizio su ogni forma folle di idealismo); ma alla fine, quando saranno emerse tutte le contraddizioni, si dovrà tornare a questo principiom, sia pur con la coscienza temprata dal passaggio per gli inferi del realismo: l'artificio salutare del dia logo, della «libera discussione», va serbato con cura. Questo è l'ultimo compito della filosofia.


Naturalmente sarà lo stesso illuminismo a osservare per primo che, con la «libera discussione» da sola, non se ne esce; anzi, nessuno meglio dell'illuminista potrà percepire l'acuto dolore per l'intoppo (fatto di contorte condizioni di vita, di rotture e, infine, di fallimenti): la critica dell'ideologia contiene, almeno inizialmente, una sfumatura di stupore per la durezza d'orecchi dell'avversario (uno stupore che presto dovrà lasciare il campo a ben più realistici risvegli). E per ogni orecchio mercantile che sbaglia di testa... c'è sempre un pantalone che paga di gambe. E, come dice il saggio, di un bel parlare gentil e onesto traboccano i lager e le galere. Potenti e potentati (1) non amano il dialogo e non seggono volentieri intorno a uno stesso tavolo con gli avversari..Anche la tradizione (sempre che si possa parlarne in modo così allegorico) non ha mai provato alcun trasporto per i diritti illuministi di condecisione. Fin dai primordi ciò che è antico viene sentito come vero, mentre il nuovo provoca perplessità. Solo con l'illuminismo, che ha sconfitto questa sensazione arcaica, il nuovo ha potuto iniziare a parerci vero. Una volta pareva ovvio che potentati politici e spirituali si alleassero in un unico fronte di conservazione contro qualsivoglia novità. 


 


1 Designo, in questo libro, ogni potere (Macht) che esercita un suo dominio con il termine «potenza» (Vormackt), che va inteso all'incirca nel senso di potentato locale», giacché non si tratta mai di un potere che è e ha soltanto potere, ma sempre invece di un potere che cavalca la tigre di un contropotere. In una concezione realistica del potere l'onni-potenza e l'im-potenza, in senso assoluto, rappresentano grandezze quasi solo «matematiche»: l'infinitamente grande o infinitamente piccolo nel concetto di potere. Non ci può essere vera contrapposizione tra onnipotenza e impotenza, ma solo tra potere e contropotere, tra potenza e potenza avversa. Quel che c'è, quel che è qui, ha potere, è dotato di un quanto positivo di energia che s'incentra su corpi consapevoli e si estende grazie agli strumenti e le armi di quelli. Perciò la logica del Tutto/Niente rappresenta sul piano politico un pericolo, un pericolo tragico. Nel detto di Siéyès («Che cos'è il Terzo Stato? Niente! Cosa vuole divenire? Tutto!») vediamo concretarsi l'identità schematica di un contropotere devastante; si tratta di una falsa logicizzazione dello scontro politico, mediante cui la Parte punta ad assurgere a Tutto. In tal senso la logica Tutto/Niente ha subito una replica in ambito marxista, dove il proletariato doveva appunto diventare un «Tutto». Chiedo: questo perverso concetto di potere è una eredità dell'opposizione di sinistra? Su tale questione, comunque, è fallita anche la Nouvelle Philosophie che, su vecchi sentieri, ha preso potenze per onnipotenze finendo con lo sdraiarsi su un'ontologia manichea dello stato malvagio.


 


Dove hanno avuto luogo riforme spirituali (penso soprattutto ai movimenti monastici e ai sovverti menti religiosi del XVI secolo), queste erano intese in termini di «rivoluzioni conservatrici» che obbedivano a un impulso di «ritorno alle origini». Al Potere e alla Tradizione va aggiunta poi una terza istanza conservatrice, che alligna nelle teste strapiene degli uomini e appare assai poco incline allo spirito innovatore dell'illuminismo. All'illuminismo, infatti, questa istanza s'accosta opponendo una resistenza, sotto la quale si cela l'inerzia di abitudini e convinzioni consolidate, che già occupano l'intero spazio della coscienza e che solo difficilmente possono venir indotte ad ascoltare ragioni differenti da quelle solite. La coppa del sapere non può essere riempita due volte. Perciò la critica illuminista individuerà quel che è «già dentro» la testa come il proprio antagonista interiore per eccellenza; e gli darà un nome colmo di disprezzo: pregiudiziil triplice fronte polemico - critica del Potere, battaglia contro la Tradizione e assalto ai Pregiudizi - appartiene all'immagine tramandata dell'illuminismo. Tutti questi connotati rimandano a lotte contro avversari recalcitranti a dialogare; lotte tramite le quali si vuol giungere a parlare di cose su cui i potentati e le tradizioni preferiscono tacere: la ragione, la giustizia, l'eguaglianza, la libertà, la verità, la ricerca. Nel silenzio lo status quo è meglio garantito. A parlare ci si mette sulle tracce di un futuro incerto e l'illuminismo varca questa soglia a mani vuote o quasi, con proposte, fragili, di libero consenso al miglior argomento. Potrebbe, certo, mettere in gioco la forza: se lo facesse, non produrrebbe più un chiarimento illuminista, ma un mero scambio di coscienze non libere. Infine, è anche vero che gli uomini, di norma, fondano i loro convincimenti su princìpi ben diversi da quelli della «ratio»...


In questo stato di cose, l'illuminismo ha già cercato di dare del proprio meglio. Dal momento che nulla gli è stato regalato, ha sviluppato, fin quasi dall'inizio, una tecnica pacifica d'invito al dialogo e, accanto a essa, un secondo atteggiamento, più battagliero: «Ti colpiscono? E tu allora restituisci colpo su colpo». Ci sono, a questo proposito, iter polemici che risalgono a data talmente antica da avere reso ormai insensata la domanda su chi abbia iniziato: la storia della critica dell'ideologia è, magna parte, storia di questo secondo ordine di gesti (polemici), testimone di restituzioni e ritorsioni incessanti.


Ma una critica siffatta, intesa come teoria polemica, presenta nell'ipotesi illuminista una duplice utilità, in quanto da un lato offre l'arma da opporre all'indurita coscienza conservatrice mentre dall'altro offre uno strumento con cui esercitarsi e autoconsolidarsi. Il no dell'avversario al dialogo illuminista è un fatto tanto potente da divenire problema teorico. Chi non desideri prender parte al dialogo illuminista deve ben avere i suoi motivi, diversi probabilmente da quelli che vorrebbe dare a intendere. Ed ecco che tale riluttanza diviene essa stessa un «oggetto» e, in termini illuministi, una chiarificazione : di chi non desidera parlare con noi, di costui, a maggior ragione, si dovrà parlare. Ma, proprio come in ogni schieramento di battaglia, d'ora in poi si penserà all'avversario non come a un Io, bensì come a un apparato nel quale agisce continuamente un meccanismo di resistenza, a volte palese, a volte occulto; del resto è proprio a causa di ciò che essa perde in libertà, commette errori e nutre le proprie illusioni.


Critica dell'ideologia è prosecuzione con altri mezzi del dialogo fallito: ecco il proclama di guerra delle coscienze; anche laddove la critica appare in vesti seriose e non-polemiche, l'ordinamento di pace è già revocato di fatto. In realtà qui non esiste alcuna intersoggettività che non sia anche, al tempo stesso e in egual misura, inter-oggettività; nel pestare e nell'esser pestati i due partiti divengono, entrambi e l'uno per l'altro, degli oggetti soggettivi.


Per la precisione: la critica dell'ideologia non punta al mero «pestaggio», essa vuole operare con esattezza militare e chirurgica: colpire, attaccare l'avversario ai fianchi, scoprirlo, smascherare le sue vere intenzioni. Qui «smascherare» significa mettere in luce i meccanismi di coscienza falsa o non libera

In linea di principio la «fallacia» ha, per l'illuminismo, due sole cause: l'errore e la volontà malvagia. Solo quest'ultima, comunque, possiede una sua dignità soggettiva (infatti, la «falsa opinione» può possedere un Io solo se l'avversario sbaglia sapendo di sbagliare). Se a presupposto della falsa opinione c'è invece un errore, essa poggerà allora non su di un Io, ma piuttosto su di un meccanismo che falsifica il vero. Solo la menzogna possiede una sua responsabilità; l'errore, in quanto evento meccanico, rimane in uno stato di relativa «innocenza». Ben presto però anche l'errore si suddividerà in due fenomeni diversi: l'errore «semplice» (effetto di una fallacia logica o percettiva: relativamente facile a correggersi), e l'errore sistematico, testardo, innervato nei presupposti vitali del «portatore» e che va perciò sussunto al concetto di ideologia. Così si genera la classica sequenza formale della falsa coscienza: ? Menzogna, Errore, Ideologia.

Necessariamente ogni lotta conduce a una reciproca reificazione dei soggetti. Poiché l'illuminismo non potrà dismettere la propria rivendicazione al miglior punto di vista, rispetto a quello di una coscienza bloccata in se stessa, esso dovrà in ultima analisi anche «operare a tergo» della coscienza avversa.

La critica dell'ideologia viene così ad assumere un tratto crudele che non vuol esser altro (sempreché riconosca la propria crudeltà) se non la risposta alla crudeltà insita nell'ideologia.

Qui, meglio che in ogni altro luogo, la critica filosofica all'ideologia ci appare l'erede di una grande tradizione satirica, della quale sono armi: lo smascheramento, il pubblico ludibrio e il denudamento. La moderna critica dell'ideologia però - questa è la nostra tesi - ha ormai abbandonato (gesto fatale) quella potente, ilare tradizione del sapere satirico che aveva le sue radici, filosoficamente parlando, nel kynismos degli antichi. La nuova critica viene al mondo ed è già codina, seriosamente parruccona o addirittura (prima timidamente, con il marxismo, e poi, con la psicoanalisi, in modo sfacciato) agghindata, in giacca e cravatta (tanto per non lesinarsi nulla della brava rispettabilità borghese). Per conquistare in qualità di «teoria» un posticino tra i libri ha cancellato la satira dalla propria vita andando infine a trincerarsi (dopo le bollenti e pepate polemiche iniziali) in una fredda guerra delle coscienze. Fu Heinrich Heine, uno degli ultimi autori dell'illuminismo classico, a prolungare con gesti satirici pubblici il diritto da parte della critica a una giusta crudeltà: in questo l'opinione pubblica non lo ha seguito. L'imborghesimento della satira in critica dell'ideologia fu tanto inarrestabile quanto l'imborghesimento della società nel suo complesso (opposizione compresa).

Critica dell'ideologia, cosa divenuta seriosa, che emula il modus operandi dei chirurghi, col ferro critico che incide le carni del paziente, procedendo asetticamente, ordinatamente. La dissezione ha luogo sotto gli occhi di tutti affinché a tutti sia chiara la meccanica dell'errore. Si scortecciano le superfici della cute scevrandovi le fibre nervose, che vanno preparate a tocchi delicati di bisturi: bisogna evidenziare i reali motivi che si nascondono dietro l'apparenza epidermica esteriore. Di qui in poi, certo non ancor soddisfatto, l'illuminismo è tuttavia meglio premunito per la sua perseverante rivendicazione di futuri remoti. Nella critica dell'ideologia, quel che conta non è convincere il vivisezionato avversario: l'interesse si volge non a lui, ma alla sua salma (e ai relativi preparati critici, sonnecchianti nelle biblioteche illuministiche, nelle quali si può agevolmente vedere, leggere e apprendere quanto siano false le idee dell'avversario). Va da sé che così non ci si avvicina nemmeno di un passo; chi già prima non voleva esser coinvolto nel discorso illuminista, dopo che lo si sarà denudato e dissezionato lo vorrà ancor meno. Epperò, almeno nel senso di un gioco logico, l'illuminista porta a casa la sua vittoria: prima o poi il suo avversario dovrà difendersi, fare apologia.

Ma, irritato dagli attacchi e dagli smascheramenti, anche l'antilluminista, per parte sua, comincerà ben presto ad applicare

 Critica dell'ideologia informa d'iscrizione sull'apparato di difesa dell'altro. l'illuminismo agli illuministi, diffamandoli sotto il profilo umano, per sospingerli, sotto il profilo sociale, nelle prossimità di una trasgressione criminosa. Lì potranno essere agevolmente classificati generaliter come «elementi» (elementi sospetti, elementi pericolosi, cattivi elementi ecc.). Parola involontariamente ben scelta; giacché, in prospettiva, non sembra molto fruttuosa una lotta contro gli... «elementi». Fatto è che lor signori non possono evitare le indiscrezioni di corridoio. E, con loro crescente irritazione, riemergono alcuni vecchi, compromettenti retroscena. A questo punto gli ideali della civiltà evoluta, i Grandi Valori, subiscono un'astuta revoca, accompagnata da quella coazione a confessarsi tipica del potere vacillante e nella quale possiamo individuare - come vedremo uno dei paradigmi della struttura cinica moderna.

Così, volens nolens, l'«illuminismo inappagato» è, per parte sua, andato a trincerarsi su questo fronte. Minacciato dalla - stanchezza e infiltrato dalla seriosità, l'illuminismo ormai si finge spesso già contento per il solo fatto di aver strappato ai suoi avversari confessioni involontarie. Oltretutto uno sguardo allenato è in grado di individuare confessioni un poco dovunque: se i reazionari sparassero anziché trattare, non s'avrebbe alcuna difficoltà a «leggere» nei proiettili una prova manifesta della fondamentale debolezza che attanaglia il potere (che infatti si esprime in questo modo brutale in quanto, ormai a corto di espedienti, di null'altro è preoccupato se non della pura autoconservazione, nel nome della quale si appella al nerbo dell'esecutivo ecc. ecc.).

Argomentare dietro le spalle e sopra la testa dell'avversario ha fatto scuola nella critica moderna. Il gesto dell'evidenziare, dell'esplicitare, dello smascherare condiziona la critica dell'ideologia dai tempi della critica settecentesca alla religione fin dentro l'antifascismo del XX secolo. Ovunque vengono portati alla luce i meccanismi extra-razionali dell'intenzione: interessi, passioni, fissazioni, illusioni. Questo aiuta a trovare, se non un rimedio (ciò che pare impossibile), almeno un palliativo, un analgesico per quella scandalosa contraddizione spalancatasi tra l'unità del vero che si postula da un lato e l'effettiva pluralità delle opinioni che dall'altro ci sta innanzi. Ma allora, date queste premesse, vera sarebbe quella teoria che si dimostrasse capace di sostenere al meglio le proprie tesi e simultaneamente (sul piano della critica dell'ideologia) di demolire le principali posizioni parategli innanzi dai cocciuti avversari.

Come si sa, in questo ambito il marxismo ufficiale custodisce il suo maggior punto d'orgoglio avendo investito le sue migliori energie nell'intento di svelare l'essenza di «ideologie borghesi» sottesa a tutte le teorie non-marxiste (da cui consegue la necessità di «superarle»). Solo così, in un «superamento» permanente, è possibile per l'ideologo trovare un modus vivendi con la pluralità delle altre ideologie. Di fatto la critica dell'ideologia si riduce al tentativo di stabilire una gerarchia tra la concezione che smaschera e quella che viene smascherata. Nella guerra delle coscienze ciò per cui si combatte è dunque la superiorità di postazione (vale a dire una sintesi di rivendicazioni di potere e di idee migliori).

Dal momento che, al contrario dell'usanza accademica, in fatto di critica il combattimento avviene anche con l'uso di argomenti ad personam, le università e annessi ambienti accademici, dinanzi al procedere della critica «seria» dell'ideologia, hanno assunto uno stile cauteloso e circospetto. All'interno della «Comunità Accademica» l'argumentum ad personam e considerato un colpo basso. La critica seriosa cerca avversari «seri», e si picca di superare un rivale armato di tutto punto, in possesso di tutta la sua razionalità. Finché ha potuto, il sacro collegio degli eruditi ha protetto la propria neutralità rispetto all'attiguo territorio della critica dell'ideologia. «Non smascherate se non volete essere smascherati!». All'incirca così potrebbe suonare la tacita regola... E non a caso i Grandi della critica furono proprio coloro che - moralisti francesi, enciclopedici, socialisti, Heine, Marx, Nietzsche, Freud - rimasero outsiders della repubblica dei dotti. In tutti loro agisce una componente polemica, satirica, a mala pena nascosta sotto la seria maschera scientifica. Queste sante pasquinate sono sicuri indizi di verità che noi, in questa critica della ragion cinica, vogliamo eleggere a guida. Un infido, ma affidabilissimo compagnon de mute troveremo in Heinrich Heine, con la sua insuperata abilità nel congiungere teoria e satira, conoscenza e divertimento: sulle sue tracce vogliamo qui cercare di ri connettere la capacità di dire il vero (propria della letteratura, della satira e dell'arte) con quella rigorosamente argomentativa del discorso scientifico.

Il diritto che la critica dell'ideologia ha di argomentare ad personam è riconosciuto, sia pur in via indiretta, dal più rigoroso assolutista della ratio, Johann Gottlieb Fichte, acutamente paragonato da Heine a Napoleone. Fichte afferma che il tipo di filosofia prescelto dipende dal tipo d'uomo che si è; il giudizio s'infigge con serena misericordia (o tremenda serietà) nel balbettio delle umane opinioni. L'errore viene agguantato per le spalle e trascinato alle sue radici pratiche, di vita. Quanto a umiltà e modestia, la procedura magari non eccellerà, ma l'immodestia si scusa in nome del postulato dell'unità del vero. Quel che l'applicazione di tecniche vivisettorie porta alla luce è in realtà la costante vergogna delle idee verso il groviglio d'interessi da esse coperto. Umano, troppo umano... egoismi, privilegi di classe, rancori, rigida autoconservazione del potere. Sotto la luce di questi riflettori, l'avversario ci appare psicologicamente e socio-politicamente minato nel profondo.

Il suo punto di vista è compreso solo assumendo come effettiva rappresentazione quel che egli in verità ancora nasconde, dietro, sotto. Così la critica dell'ideologia perviene alla sua ri; vendicazione ermeneutica, che è quella di capire un «autore» ; meglio di quanto non possa fare egli stesso. Questo, in linea di massima, suona arrogante, ma non impedisce di giustificare il tutto in termini metodologici. In effetti l'altro spesso percepisce cose di me che sfuggono alla mia coscienza, e viceversa.

L'altro ha il vantaggio di una distanza che io, poi, grazie al rispecchiamento dialogico, potrei far fruttare a mio tornaconto... Eh sì. Ma questo presupporrebbe una struttura dialogica ben funzionante, cosa che nella critica dell'ideologia per l'appunto non c'è.

In ogni caso, una critica che non riconosca chiaramente la propria caratteristica identità di satira, può facilmente trasformarsi da strumento di verità in un sistema capzioso e sofistico (spesso turbando le possibilità di dialogo esistenti anziché aprirne di nuove). Ciò spiega, a parte ogni discorso sulle affezioni antiscolastiche e antintellettuali, un certo aspetto dell'attuale disagio di fronte alla critica dell'ideologia.

E così avviene che ogni critica che si presenti come scienza perché non le si concede d'esser satira, finisca per ingarbugliarsi poi in soluzioni di sempre più radicale... seriosità. In questo campo salta agli occhi la tendenza di fare della psicopatologia una sorta di refugium peccatorum: la falsa coscienza viene in tal modo presentata anzitutto come una coscienza malata. Quasi tutti i più importanti lavori sull'argomento finiscono per battere sullo stesso chiodo, da Sigmund Freud a Ronald Laing, da Wilhelm Reich a David Cooper (senza parlare poi di Joseph Gabel, -, che ha condotto l'analogismo tra ideologia e schizofrenia a conseguenze estreme). Proprio gli atteggiamenti che vanno proclamandosi sanissimi, normalissimi e naturalissimi vengono sospettati d'insania. Ora, per la critica, appoggiarsi ai ductus argomentativi della psicopatologia è cosa di fatto ben motivata; ma il rischio è quello di alimentare un sempre più profondo straniamento dell'avversario, che - in quanto «altro» - viene reificato e, per così dire, de-realizzato. In fin dei conti il critico si pone di fronte alla coscienza avversaria con l'atteggiamento del moderno patologo, ossia uno specialista assolutamente in grado di dirci con grande precisione quale disturbo affligga il paziente, ma del tutto incapace di indicare una terapia (non rientrando questa nelle sue competenze). E così certi occhi-critici, analogamente a certi occhi-clinici ormai immarcesciti dalla routine, si | interessano della malattia, non del malato.

Tra le varie tecniche di reificazione della coscienza avversaria, tuberiforme al superlativo è quella coltivata dagli epigoni della critica marxiana all'ideologia (ai posteri l'ardua sentenza se fu retto uso o vero e proprio abuso). La radicale reificazione dell'avversario è stata, comunque, una conseguenza pratica del realismo economico-politico marxiano. Ma qui entra in gioco un ulteriore paradigma: se tutte le precedenti forme di smascheramento della falsa coscienza sembravano dover rimandare a un oscuro momento della condizione umana (menzogna, malvagità, egoismo, rimozione, sdoppiamento, illusione, pensiero desiderante ecc.), il palesamento marxiano perviene, invece, a qualcosa di non soggettivo: sono le leggi generali del processo economico e politico. «E quando si critica l'ideologia dall'angolatura dell'economia politica non tiratemi fuori ogni volta il discorsetto sulle "umane debolezze"»...

Ciò di cui si parla sono, ben di più, i meccanismi sociali astratti, per i quali ogni individuo - in quanto appartenente a una determinata classe - introietta certi ruoli: il ruolo di capitalista o quello di proletario, o di funzionario della mediazione, di portacarriole del sistema ecc. Neanche il capitalista, nonostante la sua esperienza concreta del capitale, riesce a farsi un'idea realistica dell'insieme, rimanendo invece egli stesso un epifenomeno, necessariamente illuso, del processo capitalistico.

Ed ecco la seconda diramazione del cinismo moderno: non appena io, secondo la formulazione marxiana, presuppongo l'esistenza di una «coscienza necessariamente falsa», le spire della reificazione riprendono ad attorcigliarsi. Nelle teste degli uomini ci sarebbero in tal senso quegli errori (ed esattamente quelli) che devono esserci affinché il sistema - pur muovendosi verso il «crollo» - possa funzionare: nello sguardo critico che il marxista rivolge al sistema brilla un'ironia predestinata al cinismo. Infatti egli ammette che le varie ideologie (le quali, viste dall'esterno, appaiono forme della falsa coscienza) sembrino invece assolutamente «giuste», se ispezionate dalì'interno. Le ideologie allora non sarebbero altro che errori adeguati: gli errori giusti nelle teste giuste, la «giusta falsa coscienza» insomma. Si sente qui un rintocco della definizione da noi data nella prima considerazione preliminare. C'è una differenza però; la critica marxista concede, illuministicamente, una chance alla «giusta falsa coscienza», che può, appunto attra verso il marxismo, illuminarsi (o venire da altri illuminata).

S'intende che, dopo, quel che ne esce è una coscienza illumina- " ta nel vero senso della parola (non la «falsa coscienza illuminata» di cui parliamo noialtri).

Va notato (e qui metto, per così dire, le mani avanti) che ogni teoria sociologica che tratti la «verità» da un punto di vista funzionalistico nasconde in sé un potenziale cinico-dominatorio estremamente alto. E poiché non esiste alcuna forma di intelligenza contemporanea che non sia implicata nel processo di tali teorie sociologiche, ne deriva che ognuna, in modo aperto o latente, s'intrecci con il cinismo dominatorio di questa forma di pensiero. Il marxismo, considerato alle sue origini, conserva pur sempre un'ambivalenza tra reificazione e prospettive emancipatorie. Altri sistemi di pensiero sociale non-marxisti fanno tranquillamente a meno di questa «mollezza». Al seguito delle correnti neo-conservatrici i più pontificano sull'opportunità, da parte dei membri utili del consorzio umano, di ingurgitare una volta per tutte certe «giuste illusioni» (altrimenti niente funziona...). Capital fix being man himself... L'ingenuità? La si vuol pianificata. Quella degli altri. Ed è pur sempre un buon investimento disporre di produttività ingenua e volonterosa, poco importa l'uso che se ne farà. Gli strateghi della conservazione e i teorici del sistema si pongono fin da principio al di là di queste credenze ingenue. Ma per gli altri, per quelli che invece ci devono credere, valga la consegna: blocco della riflessione e blocco dei valori!

Chi vada preparando strumenti di una riflessione liberatoria e inviti anche altri a farne uso, apparirà ai signori conservatori uno sfaccendato perdigiorno, affamato di potere, un incosciente cui bisogna ricordare che «quel lavoro già lo fanno gli altri». Oh bella: e per chi?

SENTIMENTO VITALE IN LUCE DUBBIA

L'autosconfessione dell'illuminismo, risultato recentissimo della nostra storia, ha lacerato ogni bella illusione sulle possibilità di un «ragionevole Altro». È innegabile: l'illuminismo gira a vuoto sulle idee della sinistra ove questa, di fatto, continui a subire il fascino dei fondamentalismi dispotici. È costitutivo, per l'illuminismo, prediligere il principio di libertà a quello di uguaglianza. E non si può fingere d'ignorare che il socialismo, cui vanno le sue simpatie, ha perduto la propria innocenza quasi quanto ciò cui originariamente si opponeva.

; Il «socialismo reale», come si suol dire, ha reso in un certo senso superflua la questione della destra e della sinistra. Anche quest'ultima condivide con il capitalismo (e con ogni altra forma di ordinamento politico-economico) il tratto della dura realtà; e la dura realtà - per quanto uscita dalle nostre stesse mani - non potrà mai dislocarsi a sinistra o a destra di se stessa, essendo sempre quel che è. Solo la morale può essere a destra o a sinistra della realtà. La realtà, per quanto ci concerne, ci apparirà magari gradita od odiosa, tollerabile o insopportabile. Ma alla nostra coscienza, di fronte a ciò che è dato, è dato soltanto di scegliere se prenderne atto o meno. Questa elementare verità la critica della ragion cinica mette subito ben in chiaro. Nient'affatto elementare è invece la prospettiva che di qui si può cogliere per comprendere l'attuale stato di demoralizzazione. Solo la morale è soggetta a demoralizzazione e solo illusioni attende il suo demagogico risveglio. Ma quel che mi chiedo è se in questa demoralizzazione non ci stiamo approssimando alla verità.

Siamo effettivamente sprofondati nella luce dubbia di un singolare disorientamento. Il sentimento esistenziale dell'intellighenzia odierna è quello di gente che non riesce a capire la morale dell'immoralità («altrimenti sarebbe troppo facile»).

Ed è proprio per questo che nessuno, dentro a sé, sa dirci ora come si debba procedere.

Nella luce dubbia e cinica di un illuminismo del tutto implausibile spunta un singolare sentimento di atemporalità, febbrile e titubante, intraprendente e fiacco, preso tra cose, storicamente alienato e privo di attese future. «Domani» non è una parola, è un impasto ambiguo: di trascurabilità e catastrofe probabile (con risicati margini di speranza). Il passato pare divenuto un beniamino accademico quando non si riduca anch'esso, insieme a cultura e storia, alla stregua di bene privatizzabile, a una di quelle piccole cose di una volta che compri dal rigattiere. Oh, cose interessantissime, intendiamoci, come per esempio le vecchie parabole biografiche, con quei deliziosi piccoli grandi re scomparsi e i faraoni in particolare, la cui vita eterna, da cadaveri superaccessoriati, favorisce l'identificazione...

Ad avversare il principio speranza, il Prinzip Hoffnung di blochiana memoria, c'è il principio che bisogna vivere qui e adesso. Hit parade andando al lavoro: prima classificata Ue, che la va a giorni, ye ue ye, seconda classificata Se ero il mio cane, oh che bel. In sezione (?), coi compagni (!?), troneggiano i nuovi poster: «Futuro rinviato per scarsa affluenza di pubblico», oppure (un classico): «Ma non siamo noi quelli da cui i nostri genitori ci mettevano in guardia da piccoli?». Il tardo e cinico sentimento del tempo è quello delle strippate e del grigio quotidiano, imbrigliato tra uno scocciatissimo realismo e incredibili sogni a occhi aperti, attentissimo eppur assente, freddo o flippato, down to the earth ma anche far out. Certuni hanno ambizioni, altri si ciondolano stremati. E così si aspetta qualcosa di più confacente al sentimento di giorni migliori: qualcosa, infine, dovrà pur accadere. E non pochi vorrebbero aggiungere: non importa cosa. Sentimenti catastrofici e catastrofili, agrodolci e privati. Si riesce a tener libero un margine per il peggio? E poi i buoni film... Importanti. Ma duretti da seguire sono i buoni esempi, perché ogni caso fa caso a sé, soprattutto il proprio. Ci si regala ancora qualche libro e, quando il papa va nelle Fiandre, ci si stupisce che ci domandino: «ma esiste ancora?». Per altro si espleta il proprio lavoro ripetendo che sarebbe meglio darsi da fare alla grande. Si vive di giorno in giorno, di ferie in ferie, di tg in tg, di grana in grana, d'orga smo in orgasmo... Turbolenze private e scadenze a medio termine: bloccati, distesi. Ogni tanto qualcosa ci colpisce, ma il resto è indifferenza.

I giornali scrivono che ci si deve nuovamente organizzare, combattere un poco di più per la sopravvivenza, che bisogna stringere la cinghia, moderare le pretese, e lo dicono anche gli ecologisti. Società pretenziosa: vade retro avvoltoia! Nei momenti di debolezza si versano offerte per l'Eritrea o per una nave profughi (mica dobbiamo occuparcene). Si vorrebbe vedere ancora molto del mondo e, soprattutto, si vorrebbe «viverne ancora mille, di avventure». Ci si chiede cosa si farà prossimamente e come vadano le cose. Sulle pagine culturali urla e biancheggia tutto un elzeviristico accapigliamento sul giusto modo di essere pessimisti. Un profugo dice all'altro: «Ah, sai, anch'io la vedo nera come te, e da un bel pezzo, ma - ciononostante - dove andremmo a finire se ognuno cedesse alla disperazione?». E l'altro: «Anche i ciononostante muoiono».

Gli uni tentano da chissà quando di astenersi dalla psicoanalisi, altri vivono in un'annosa angoscia chiedendosi se possano ancora farne a meno, e per quanto, senza sentirsi dei tremendi irresponsabili; ma bisogna anche considerare quanto costa, ossia quanto passa la mutua e soprattutto se anche dopo si potrà andare avanti come si credeva di poter fare quando si era alla fame, e poi non si sa bene se tirare a campare o tirare le cuoia... Ah, a proposito, mangiar manicaretti non è mica tradimento di classe, e lasciamo stare quelle idiozie su Consumismo, Auto e Inquinamento.

In quest'epoca esoterico-pulcinellesca, dove il «sommerso» frantuma la riflessione, e la cosiddetta società civile si dissolve in miriadi di nessi mutuamente indifferenti che collegano pianificazione e improvvisazione in ogni forma, anche impensabile o assurda: orbene, riandare, in una tale epoca, ai propri fondamenti non può certo nuocere all'illuminismo o, perlomeno, a quel che ne resta. Su questo genere di ravvedimenti si annoverano da tempo esempi notevolissimi. La «trasparenza» è da sempre uno dei chiodi fìssi dell'illuminismo, talvolta associata all'altra parola magica: «esperienza» e più ancora a un'altra ancora: «contesto vitale»... così dolce da scrivere, perché sollecita avere la sensazione che, la vita, in qualche luogo, strutturi un suo «contesto» (e i contesti, si sa, sono una promessa di senso).

Ma la febbrile ricerca intellettuale del «contesto» ha intanto subito un tracollo, il suo è un ente tanto raro quanto il famoso «lepricervo», noto animale selvatico della Baviera (corna da cerbiatto e corpo di un coniglio), cui certi buontemponi indigeni finsero di dar la caccia ritenendo che i prussiani in ferie, troppo «allargatisi», avessero infine meritato una bella lezione... Però, da che i prussiani presero a trascurare la Baviera, avendo costituito un loro proprio «contesto vitale» dietro muri di protezione muniti di serranda automatica, anche la caccia al lepricervo, specialità illuminista per astuti prussiani, è andata scemando: tanto quanto l'illuminismo in generale (compreso quindi quello per non-prussiani).

E adesso? Nel capitolo che segue mi proverò a indicare una fonte di schiarimento illuministico nella quale questi cela il segreto della propria vitalità: la sfrontatezza.

 


CAPITOLO II


 


ALLA RICERCA DELLA SFRONTATEZZA PERDUTA


 


 


1


LA FILOSOFIA GRECA DELLA SFRONTATEZZA: KINISMO


 


Trepido cui raramente fé' una lieta trombetta.


Saggio proverbio luterano


 


Il cavillo, la scappatella, una lieta malfidenza, il piacere della canzonatura sono segni della salute: ogni assolutezza è patologia.


Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male


Voi avete messo mano alla mia intera vita; ebbene possa questa levarsi contro di voi...


Danton, prima della condanna


 


 


Appartiene all'essenza del kinismo antico, quantomeno nella sua origine greca, l'essere sfrontato. In tale sfrontatezza è sito un principio metodologico degno di essere riportato alla luce.


Ingiustamente il cinismo, questo primo, vero e proprio «materialismo dialettico» (che seppe essere anche un esistenzialismo) - a confronto con i grandi sistemi della filosofia greca (Platone, Aristotele e la Stoà) - viene giudicato come una sorta di commedia satirica: e vi si soprassiede come si trattasse di episodio tra il faceto e l'osceno. Il kinismo portò alla luce un modo argomentativo di cui il pensiero serio fino a oggi non sa che farsene. E, del resto, non è forse grossolano e grottesco scaccolarsi il naso come Socrate mentre invoca il suo «daimonion» trattando il tema dell'anima divina? O si può giudicare altrimenti che dozzinale l'atteggiamento di Diogene il quale, contro la dottrina platonica delle idee, molla semplicemente un peto? Sarebbe per caso la stessa «petulanza» una delle idee licenziate dal demiurgo nel corso delle sue meditazioni cosmogoniche? Che dire poi quando codesto clochard filosofico in tutta risposta all'affinata dottrina platonica dell'amore reagisce con una plateale masturbazione?


Per comprendere questi atteggiamenti - apparentemente eccentrici, provocatori - va meditato un principio, che richia mava le dottrine sapienziali al vivere, e che valse nel mondo antico come ovvio e scontato, finché gli sviluppi moderni non lo fecero scomparire. Nel caso del filosofo, l'uomo innamorato della verità e votato alla consapevolezza, dottrina e vita debbono andare di pari passo. Il nucleo d'ogni dottrina è rappresentato da ciò che di essa i seguaci concretamente incorporano. Ciò può venire idealisticamente frainteso, quasi che il senso della filosofia consista nell'indirizzare gli esseri umani verso ideali irraggiungibili. Tuttavia, se il filosofo è chiamato a vivere in prima persona ciò che afferma a parole, il suo compito - criticamente inteso - sarà quello ben maggiore di dire ciò che vive.


Ab illo tempore ogni idealità deve materializzarsi e ogni materialità idealizzarsi, per apparire reale a noi, enti di mezzo. Una divisione tra persona e cosa, tra teoria e prassi non appare neppur concepibile all'interno di questa elementare veduta, se non come intorbidimento della verità. Incorporare concretamente una dottrina significa: divenirne il tramite. È l'opposto di ciò che nell'arringa moralista è l'istanza d'azione basata su ideali. Nell'«ascolto» di ciò che può concretizzarsi, ci teniamo al coperto tanto dalla demagogia morale quanto dal terrorismo di astrazioni radicali e invivibili. (La questione suona non già: cos'è la virtù senza terrore?, bensì: che altro è mai il terrore se non un idealismo coerente?)


L'entrata in scena di Diogene contrassegna una fase, forse la più drammatica, nello sviluppo delle prime concezioni filosofiche della verità in Occidente: mentre la teoria «alta» di Platone aveva irrimediabilmente tagliato ogni legame con la corporeità (e con la materialità) intrecciando tanto più fìttamente i fili del discorso nel tessuto logico, una variante sovversiva di teoria «bassa» faceva la sua apparizione inscenando la pantomima di una prassi estremamente e conseguentemente concretizzante. La schiera delle concezioni di verità si scinde qui in due tronconi: una falange ispirata a teoresi discorsiva in grande stile e una masnada di attaccabrighe satiricoletterari. Con Diogene, nella filosofia europea inizia la resistenza all'imbroglio del «Discorso». Disperatamente allegro, Diogene si oppone a quella «verbalizzazione» dell'universalismo cosmico che è base e legittimazione di ogni magistratura filosofica. Monologica o dialogica che fosse, nella «Theoria» egli fiuta l'imbroglio di astrazioni idealistiche e la sciapezza schizoide di un pensiero totalmente cerebrale. In tal modo egli, ultimo vetero-sofista e primo rappresentante nella tradizione resistenzial-satirica, fonda una sorta d'illuminismo rusticano. (1) Inventa il dialogo non-platonico. Apollo, dio dell'illuminazione, vi mostra la sua altra faccia (sfuggita a Nietzsche), quella di satiro pensante, squartatore e commediante. I dardi della verità, letali, piovono proprio dove le menzogne vanno cullandosi nella sicurezza di protezioni altolocate. La teoria «bassa» stringe il suo patto con la miseria e con la satira.


Ed ecco, il senso della sfrontatezza è presto detto. Dal momento che la filosofia può fare ancor solo finta di vivere quel che essa a parole dichiara, ci vuole sfrontatezza a dichiarare quel che si vive. In una cultura in cui idealismi sclerotizzati trasformano la menzogna in modus vivendi, il progresso della verità dipende dall'esistenza o meno di gente abbastanza aggressiva e libera (leggi: «svergognata») da dire la verità. I potenti perdono la loro alta coscienza di sé di fronte a zimbelli, clown e kinici; perciò l'aneddoto fa dire ad Alessandro Magno che, se non fosse Alessandro, gli piacerebbe essere Diogene. Non fosse stato lo zimbello della propria ambizione politica, avrebbe voluto fare lo zimbello tout-court e dire la verità a quelli come lui. (Tra parentesi: quando i potenti cominciano per parte loro a pensare kinicamente, quando cioè sanno la verità su se stessi, ma nonostante ciò «continuano come prima», allora rientrano pienamente nella moderna definizione di cinismo.)


Bisogna dire d'altronde che la sfrontatezza è considerata una cosa negativa solo da pochi secoli. In tedesco medievale, per esempio, l'atteggiamento «sfrontato» (Jrech) esprimeva qualche produttiva aggressività, quel baldo andare contro al nemico: sinonimo di valore, ardimento, audacia, indomitezza, avidità e bramosia vitali. Nella parabola semantica si riflette il devitalizzarsi di una cultura. Sfrontato è oggi ancor solo colui per il quale la glaciazione del ribollimento materialistico non


1 L'espressione originaria è «grossianische Aufklärung» ( = «illuminismo grossolano», «gross» — «rozzo», «grossolano»), che rimanda alla «grossianische Dichtung» (= «poesia grossiana o rusticana»), genere letterario tedesco nato nel XVI secolo (S. Brandt, H. Sachs e F. Dedekind ne furono i principali esponenti) che - in opposizione alla letteratura cortese - rappresentava i modi di vita popolari, privilegiandone gli aspetti più rozzi e immediati. Analogamente, in arte figurativa, si pensi per es. alle opere tarde di Pieter Bruegel (ca 1528-1569). (n.d.t.)


abbia avuto luogo con tutta l'efficacia desiderata da quelli a cui non vanno a genio gli sfrontati. Prototipo dell'impudenza è Davide, futuro re d'Israele, quando solletica Golia dicendogli: «Fatti più appresso, affinché io meglio ti possa colpire». Egli mostra di non avere solo orecchie per prender ordini, ma anche una fronte da levare contro il più forte: fargli fronte, fargli affronto e, vivaddio, affrontarlo.


Il kinismo greco trova i propri gesti nell'animalità del corpo umano e delle sue movenze sviluppando in tal modo un materialismo pantomimico. Diogene confuta il linguaggio dei filosofi con quello dei clown: «Allorché Platone propose come definizione dell'essere umano "un animale bipede implume" e raccolse così il plauso degli astanti, costui [Diogene] - spennato un pollo - glielo portò alla scuola con le seguenti parole: "Ecco l'uomo platonico"; in seguito alla qual cosa fu aggiunta la determinazione "con unghie piatte"» (Diogene Laerzio (= DL], vi, 40). (1) È questa - non certo l'aristotelismo - l'antitesi filosofica a Socrate e Platone. Platone e Aristotele sono entrambi dei pensatori «baroni», per quanto nell'ironia platonica o nelle fisime dialettiche dello Stagirita sopravvivano scintille di plebea, socratica filosofia stradaiola. Diogene e i suoi avviano però un modus filosofico plebeo fino alla più intima essenza. E proprio la teoria di questa sfrontatezza può aprire il varco a una storia politica della riflessione per la polemica. La storia della filosofia diventa così intelligibile come storia dialettica della società: della coscienza, della sua somatizzazione e della sua scissione.


Però, da quando il destino della verità, o meglio della sincerità in quanto capacità di «dire» la verità, venne dal kinismo collegato al coraggio, alla sfrontatezza e al rischio personale, il progresso della verità è entrato in una tensione morale prima d'allora ignota, secondo un fenomeno che chiamo dialettica dello scatenamento (Dialektik der Enthemmung). Chi si prende la libertà di avversare le menzogne dei potenti, provoca un clima di rilassamento satirico, nel quale anche gli affetti dei potenti, ideologie di potenza incluse, si rilassano: a questo conduce l'urto sfrontato, l'affronto kinico. Ma mentre il kinico puntella


1 Cfr. anche l'edizione italiana di M. Gigante, Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Bari 1976 2. Per il rinvio ai testi della grecità si fa uso qui della notazione abbreviata standard (Liddle-Scott-Jones). (n.d.t.)


la propria sfrontatezza in una vita di integrità ascetica, l'idealismo - qui nei panni dell'aggredito - risponde con uno scatenamento mascherato d'indignazione, che nel peggior dei casi può spingersi fino allo sterminio. Per il potere è essenziale poter ridere esclusivamente dei propri lazzi.


 


 


2


PISCIAR CONTRO L'IDEALISTICO VENTO


Sfrontatezza può esserci fondamentalmente in due posizioni: «sopra» e «sotto», sia nelle vesti del potere che in quelle del contropotere; la sfrontatezza, per dirla alla maniera degli antichi, può esprimersi sia secondo i modi del dominus che secondo quelli del servus. E l'antico cinismo inaugura la successione dei «nudi argomenti» imprimendo alla sfrontatezza il taglio antagonistico di una forza che sale dal basso. Il kinico scoreggia, caca, piscia, si masturba sull'agorà di Atene; il kinico disprezza la fama, se ne infischia dell'architettura, nega a tutto il dovuto rispetto, ama parodiare le storie degli dèi e degli eroi, mangia carne cruda e verze crude, si sdraia al sole, celia con le puttane e dice ad Alessandro Magno di levarsi dal sole, di farsi più in là. (1) Ma cosa significa tutto ciò?


Il kinismo è una prima risposta all'idealismo dominatorio degli ateniesi, una replica che oltrepassa la confutazione teorica. Qui non vengono agitate parole contro l'idealismo: qui si vive contro di esso. Diogene potrebbe essere inteso benissimo alla stregua di una figura concorrenziale a quella di Socrate (e le stravaganze del pensatore kinico alludono probabilmente ad altrettanti tentativi di surclassare l'astuto dialettico con gesti da commediante). Ma ciò non basta. In realtà il kinismo segna una svolta del modo in cui la verità viene detta.


La conversazione filosofica di stampo accademico non concede alcun degno spazio ai materialisti. Né potrebbe, giacché essa presuppone di per sé una sorta di convenzione idealistica, dove si parla e basta, un materialismo esistenziale non potrà che sentirsi incompreso. Nel dialogo delle teste emergeranno


1 Diogene, come anche le altre figure kiniche e ciniche, viene qui tratteggiato attualizzandone la portata, fuor di prospettiva storico-critica. L'attualizzazione permette di tipizzare in modo generale i motivi kinici e quelli cinici.


sempre e soltanto teorie cerebrali ma una dialettica cerebrale difficilmente travalica la mera discordanza tra idealismo e materialismo cerebrale. Con i sofisti e i materialisti teorici Socrate sa benissimo come fare, basta riuscire ad attirarli in una conversazione... Socrate è confutatore imbattibile. Ma con Diogene non ce la fanno né Socrate né Platone: il filosofo fonico, infatti, parla con loro «anche altrimenti», in un dialogo fatto di carne e ossa. E così a Platone non rimane altro se non diffamare quest'avversario inquietante e coriaceo. Lo chiamerà allora «Sokrates mainomenos» («Socrate impazzito»), Giudizio che si vorrebbe annichilente, mentre invece è un riconoscimento supremo. Senz'accorgersene Platone ha posto il proprio rivale sul medesimo piano di Socrate, il grande dialettico. Indicazione importante. Platone ci segnala che con Diogene, nella filosofia, è accaduto qualcosa d'inquietante, ma a un tempo anche di intimamente necessario. Nella filosofia caniforme del kinico viene alla luce una posizione materialistica: sono superati i retroscena della dialettica idealistica. Nel kinismo abita la sapienza della filosofia delle origini, il realismo di un atteggiamento materialistico e l'animo ameno di una religiosità ironica. Pur con tutte le sue rusticherie, Diogene non resta mai bloccato sullo spirito di contraddizione, sul mero antagonismo; la sua vita è caratterizzata da una sicura identità umoristica, quella stessa che sempre contraddistingue gli spiriti sovrani. (1)


Nell'idealismo, uso a giustificare gli ordinamenti sociali del mondo, le idee stanno sopra, illuminate dall'attenzione generale; la materia sta sotto, mero riflesso delle idee: ombra, sporcizia. Come può la materia vivente riscattarsi da questa mortificazione? Esclusa come soggetto dal dialogo accademico, essa è ora svilita ad argomento di conversazione privo di reale esistenza. Che fare, dunque? La materia, il corpo, desto, produce da sé la sua prova sovrana. Così entra nell'agorà l'Inferiore Escluso, e lancia al Superiore la sua sfida dimostrativa: fecalia... urina... sperma! Vivere «da cani», ma vivere, ridere e provvedere a che, dopo tutto ciò, vi sia non disorientamento, ma lucida riflessione.


 


1 Vedi il capitolo III. 1, «Diogene di Sinope, uomo-cane, filosofo e buonannulla». Vi tratteggio anche l'aspetto politico e di critica sociale sotteso all'impulso kinico; onde emerge la ragione per cui il kinismo porta scritto sulla propria pelle, per così dire, il segno della resistenza.


 


Orbene, si potrebbe ribattere che le summenzionate «animalità» sono esperienze corporali quotidiane e private, indegne di pubblico spettacolo. Può anche darsi, ma non c'entra.


Questo materialismo «sporcaccione» non solo ribatte all'idealismo del potere, reo di sottovalutare gravemente ciò che è concreto. Nel kinico le animalità rappresentano parte dello stile personale rivestendo tuttavia anche il carattere di un modello argomentativo. Il loro nucleo è esistenzialista. Il kinico, in quanto materialista dialettico, deve sfidare la sfera pubblica giacché questa è l'unico luogo sensato in cui mostrare il proprio trionfo sull'arroganza idealista. Ma un materialismo dotato di spirito non può accontentarsi di vuote formule e di conseguenza passa ad argomenti materiali, riabilitando il corpo.


Nell'accademia troneggia l'idea. (E la discreta urina sgoccia in latrina.) Ma: urina nell'accademia! Ecco la tensione dialettica par excellence! L'arte di pisciar contro l'idealistico vento.


L'Inferiore, il Separato e il Privato, quando siano condotti in piazza, sovvertono. Questa è, come vedremo, la strategia culturale della borghesia, la cui egemonia non sussiste solo in forza del mercato, della scienza e della tecnica, ma anche grazie a una pubblicizzazione del privato (d'ascendenza arcanamente materialistica); pubblicizzazione del suo mondo erotico, sentimentale, corporale e interiore con tutte le complesse implicazioni nelle sfere della sensibilità e della morale che ciò comporta. Da oltre duecento anni registriamo uno slittamento continuo, per quanto continuamente contrastato, del privato nella sfera pubblica; le esperienze erotiche vi assumono un ruolo chiave, e perciò in esse prorompe con forza esemplare la dialettica tra scissione privata e ricomposizione pubblica. La cultura borghese, essendo d'impianto realista, non può che riprendere i fili della rivoluzione culturale kinica. Oggi, questo, lo si torna a capire; Willy Hochkeppel ha recentemente tracciato un parallelo tra il kinismo antico e i moderni movimenti hippy e freak. (1) Elementi neokinici connotano la coscienza borghese della sfera privata ed esistenziale a partire almeno dal XVIII secolo. In essi si struttura una riserva vitale nel sentimento borghese nei confronti della politica, percepita come modus vivendi astratto, attestato per costrizione su false altitudini. La


1 Willy Hochkeppel, Mit zynìschem Lächeln. Ùber die Hippies der Antike, in «Gehört gelesen», dicembre 1980, pp. 89 sgg.


 


 


«Hercules mingens». politica infatti era un tempo (ed è oggi più che mai) quella che ritennero i kinici vissuti all'epoca della decadenza delle città greche: un minaccioso rapporto di mutua costrizione dell'uomo sull'uomo, è l'ambito di carriere arrischiate e di dubbie ambizioni, un meccanismo alienante che sta alla base della guerra e dell'ingiustizia sociale; in breve: quell'inferno che l'esistenza di altri, capaci di violenza, ci fa incombere addosso.


 


L'agorà, l'opinione pubblica ateniese, fu elettrizzata dall'offensiva kinica. Seppure Diogene non accolse con sé discepoli, il suo impulso, in modo subliminale, (1) si trasformò in una delle dottrine più potenti della nostra storia spirituale.


Diogene urina e si masturba in piazza, ossia in una situazione che, in quanto pubblica, funge da modello. Rendere pubblico qualcosa significa porre un'unità fattuale tra ostensione e generalizzazione (su ciò poggia il sistema semantico dell'arte). (2) Così facendo il filosofo conferisce all'ometto dell'agorà il medesimo diritto di vivere senza vergogna la dimensione corporea; e questa fa bene a contrastare ogni forma di discriminazione. La costumatezza ed eticità saranno pur buone cose, ma anche la naturalezza è un bene. Lo scandalo kinico non vuol dir altro che questo. Dato che il vivere viene esplicato dal philosophari, il kinico dispiega in piazza la dimensione repressa del sentire... Genti ammirate quest'uomo - innanzi al quale il grande Alessandro si fermò colmo di ammirazione - ammirate qual buon uso del proprio membro egli ha fatto! E quanto al cacare, egli cacava sotto gli occhi di tutti! Quindi il cacare non può esser la cosa malvagia che si dice... Ecco, la risata filosofica di contenuto veritativo segna qui il suo primordio, che occorre richiamare alla mente, se non altro perché oggi tutto sembra concorrere a togliercelo di bocca, il sorriso.


Filosofi d'epoca posteriore, soprattutto cristiani (e post-cristiani ancor di più), hanno dissolto poco a poco l'istanza di una pratica corporea, concreta. Per finire, gli intellettuali sono stati costretti a confessare a se stessi che tra saggezza e vita sussiste una palese «non-identità». Tra tutti Adorno è stato il più radicale, separando categoricamente la validità dei costrutti dello spirito dalla notoria «miserevolezza» dei rispettivi portatori. Non occorre qui dilungarsi sul fatto che l'annichilimento della dimensione corporea sia opera delle schizofrenie cristiane, borghesi e capitaliste. A tale dimensione gli intellettuali moderni, se non altro per via della loro costituzione cul 


1 Principalmente per mezzo della Stoà che, tuttavia, quest'impulso moderò e dirottò.


2 Riprendo qui una tesi del mio Literatur und Lebenserfahrung. Autobiographien der 20erjahre (Letteratura e esperienza di vita. Autobiografie negli anni Venti), Hanser, München 1978, cfr. il cap. «Zur Logik der Repräsentation.


Selbstdarstellung als Tateinheit von Publizieren und Verallgemeinern», pp.


305-306.


turale, non sono in grado di conferire un impulso di progresso.


L'intellighenzia, ne sia o meno consapevole, viene rispetto al suo ruolo sociale necessariamente fagocitata nel gruppo che pilota il processo di polverizzazione dell'esistenza. Il «filosofo» moderno, sempre che rivendichi ancora un tale appellativo, si è trasformato in una sorta di creatura cerebrale. E tale resta persino quando sul piano teorico egli volga lo sguardo alla negatività dell'escluso, all'umiliato e all'offeso.


 


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NEOKINISMO BORGHESE: LE ARTI


Se l'impulso a vivere di persona le proprie idee non si è dissolto completamente, il merito va ascritto essenzialmente all'arte borghese (e peraltro anche al ribellismo sociale, che qui verrà tuttavia tralasciato). L'imponente drammaticità filosofica delle arti borghesi poggia, in realtà, sul fatto di aver esse dato vita a una corrente neokinica. Benché le correnti artistiche non vi s'appellino certo in modo così esplicito, nondimeno, quando l'arte pronuncia parole come «natura» o «genio», oppure «verità», «vita», «espressività» ecc., ebbene lì è effettivamente in gioco un impulso kinico. Il quale impulso usa la licenza artistica per esprimere un bisogno profondo di integrità esistenziale.


Il Prometeo che dominava i fervori del giovane Goethe potrebbe fungervi da emblema. Come quel titano, così anche l'arte vuole creare uomini a immagine d'entità corporee integre, capaci di pianto e di riso, di gioia e di felicità: infischiandosene degli dèi e delle leggi. Nessuno come il giovane Goethe ha intuito e goduto nell'arte il segreto vitale del neokinismo borghese. Natura, natura! Questo fu il grido di battaglia dell'illuminismo corporeo, il grido del sentire. Questo il senso del discorso tenuto da Goethe nel 1771 in onore di William Shakespeare: un discorso lunatico, trascinante, aggressivo e altamente sfrontato.


Aria, aria! Ch'io possa parlare! (...)


E poi, cosa vuol mai permettersi il nostro secolo di dar giudizi sulla natura. Donde mai dovremmo conoscerla noi, che dalla fanciullezza in su sentiamo infagottata nonché leziosa ogni cosa in noi medesimi non meno che negli altri? (...)


E veniamo a concludere, sebben ch'io non abbia neppur cominciato!


Ciò che nobili filosofi hanno detto del mondo, ciò vale anche per gli Shakespeare: chiamiamo malvagia l'altra faccia del bene, che in vece appartiene a tal esistenza e totalità necessariamente, così come brucian i torridi tropici e gelano i ghiacci polari affinché esista una temperata porzione di cielo. Egli ci conduce per il mondo intero, epperò noi, uomini effeminati e inesperti, a ogni locusta straniera gridiamo: Signore aiuto! ci mangia!


In piedi, signori! Tutte le nobili anime cacciate dall'eliseo del così detto buon gusto, cacciatemele or via, a colpi di tromba, via da dove, ebbre di sonno, nel tedioso crepuscolo, sono a mezzo, e a mezzo non sono: esse sentimenti hanno in cuor (...) e negli ossi nessun midollo, e giacché non sono stanche abbastanza per riposare e però troppo pigre per agire, dilapidano la lor umbratile vita tra mirti e allori, tra ozi e sbadigli!


Nello Sturm und Drang della prima arte borghese, certo per la prima volta dall'antichità, uomini non appartenenti all'aristocrazia rivendicano il diritto a una vita piena, all'esperienza concreta della loro sensibilità, all'integrità. Si spalanca così il varco impetuoso del kinismo estetico. È un giovane di ventidue anni che, in quest'orazione, muove, ilare e annichilente, contro la cultura rococò e il suo passito fascino fatto d'inautenticità, astute schizofrenie, moribondi teatri di maniera. Il discorso di Goethe può leggersi come il programma del neokinismo borghese. Egli scardina ogni mera morale richiamandosi invece al grande immoralismo della natura; nella natura il cosiddetto malvagio ha un suo senso preciso.


Innegabilmente l'arte borghese era condannata a rappresentare - sempre che ciò le riuscisse - la totalità dei sensi entro l'ambito della finzione; a causa di questa debolezza i borghesi antiborghesi hanno dovuto continuamente reiterare il loro attacco neokinìco contro la scissione e la diffamazione della sfera sensibile. Essi volevano incorporare, in carne e ossa (e quindi ben oltre l'apparenza della mera finzione), il diritto alla vita di ciò che è inferiore ed escluso. Questo è uno dei motivi per cui l'arte ha una così estrema predilezione per la «vita»; il suo impulso kinico la spinge a tentare il salto dalla finzione alla realtà.


L'amoralismo estetico, però, è solo il preambolo di ciò che la vita praticherà poi nell'esigere che i suoi diritti nella sfera sensibile abbiano a essere soddisfatti. Si sarebbe portati a concludere che in una cultura sensualisticamente equilibrata l'arte diverrebbe in toto «meno importante», meno patetica, meno carica di motivazioni filosofiche. E forse è proprio in questa direzione che ci stiamo muovendo.


 


Ai tempi eroici delle arti borghesi era attiva in esse una mostruosa fame di negatività (non da ultimo perché in questo mistero pulsa ciò che è vivo). Negativismi liberatori hanno più volte spezzato la dipendenza da stilizzazioni armonizzanti.


Contro le pretese armoniche c'è stato sempre un qualche realismo capace d'insorgere, il che per l'appunto caratterizza la rilevanza filosofica dell'arte borghese; la rende veicolo di una dialettica in grande stile. L'altezza è guscio irrilevante davanti ad abissi profondi; l'elevazione è un crampo cui esser ridicolo non giova a tornare con i piedi per terra. Gli stili artistici borghesi filosoficamente rilevanti (eccettuando poche «fredde» tendenze classicheggianti, armonizzanti o estetizzanti) sono stili della negazione, universalismi, realismi, naturalismi, espressionismi: stili del nudo, dell'urlo e del disvelamento. Il verismo artistico dei sensi ha offerto un rifugio alla «verità totale». Le arti hanno rappresentato una sfera in cui si poteva «conoscere entrambe le cose», secondo la rivendicazione pascaliana di conoscenza nella condition humaine: il «grande» come il «piccolo», l'«angelico» come il «demoniaco» e l'«alto» come il «basso». La grande arte ha cercato di cogliere dagli estremi un intero, non una floscia medietà.


I confini dell'arte, di quella borghese come di quella socialista, coincidono con i limiti posti alla sua «realizzazione». L'arte è già sempre implicata nello schizoide processo civilizzatorio. Con essa la società coltiva perciò un'ambivalenza di rapporto; vi corre sì obbligo di soddisfare certe esigenze, ma guai a «passare il segno»... L'armonismo da sempre cerca di tenere in iscacco il kinismo. Le verità artistiche, se non le si vuol nocive ai «membri utili della società», debbono esser circoscritte entro certi limiti, È difficile dire quanto di tale confinamento sia politica consapevole e quanto spontanea regolazione dei rapporti. Resta comunque il fatto che la rigida demarcazione tra arte e vita non subisce nel tempo attenuazioni degne di nota; i bohémiens, una delle prime figure sociali tese a superare tale linea di demarcazione, furono e restarono una minuscola pattuglia, ancorché oggetto, talvolta, di fortissime attenzioni.


Ciò che è genuino e vitale, ciò che è «originale», viene circoscritto per via della sua rarità; gli impulsi (opere, individui) emessi da tali originalità in direzione delle masse, vengono quindi circoscritti mediante fagocitamento nella sfera del fitti zio. Il genuino resta raro; scimmiottamenti o meri «interessamenti» (comunque innocui) invece «filtrano» contribuendo così alla massificazione.


L'arte, non appena si attivi in essa l'impulso kinico, è grido di vita. Ovunque siano in gioco tecniche estetiche, nei media stampati o teletrasmessi, nella pubblicità o nel design, quel grido si diffonde in forma fittiva e circoscritta. Qui l'arte appare ancora in vesti compiacenti, qui c'è ancora il bello a buon prezzo. Ma, da più di cento anni, l'«arte alta» s'è ritirata nel Difficile, nell'Elaborato e nel Doloroso: bruttezza raffinata e calcolata incomprensibilità; tragica complessità e arbitrio perturbante.


La modernità estetica ci consegna un'arte di chicche avvelenate; la si può magari contemplare con fredda eccitazione specialistica, ma mai accoglierla senza rischio di malumori.


S'ingurgita, con le arti moderne, una tal massa di negatività da rendere del tutto evanescente l'idea di «godimento artistico».


Solo tra gli snob, nell'elite degli esperti oppure tra i feticisti, fiorisce il piacere dell'ingodibilità, ciò che risale al movimento dandy del XIX secolo e riappare oggi nell'autostilizzazione giovanile tipo chic & atroce.


Quel che stiamo vivendo oggi esige ben altro che belle apparenze. E per ironia della sorte proprio Theodor W. Adorno - uno tra i massimi teorici dell'estetica moderna - è stato egli stesso una vittima dell'impulso neokinico. Un giorno, un gruppo di dimostranti si fece incontro al filosofo, entrato in aula per tenere la sua lezione, e gli sbarrò l'accesso al podio degli oratori. Niente di straordinario, dato che correva allora l'anno ; 1969. Tuttavia, un dettaglio era destinato, nel nostro caso, a richiamare l'attenzione generale. Tra i contestatori si erano, infatti, distinte le studentesse, alcune delle quali, per protesta, si denudarono il petto di fronte al pensatore. Tale disvelamento non va sussunto a un argomentare erotico-sfrontato per cutem femininam, peraltro usuale. Quelle tette simboleggiavano, quasi in senso antico, corpi usati kinicamente ignudi, corpi a mo' di argomenti, corpi come armi. Averle mostrate - indipendentemente dai motivi privati delle dimostranti - assunse una valenza antiteoretica. In un qualche modo confuso, costoro avevano voluto schierarsi a favore di una «prassi di cambiamento della società» o comunque per qualcosa di più che non lezioni e seminari filosofici. Adorno si ritrovò in una posizione tragica e, nondimeno, comprensibile: quella del Socrate idealista; le donne in quella del selvatico Diogene. Contro la teoria, la più ricca di discernimento, ecco dunque opporsi l'ostinato e (speriamo) intelligente uso dei corpi.


 


 


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CINISMO COME SFRONTATEZZA CHE HA CAMBIATO SEGNO


 


La sfrontatezza dal «basso» è di grande efficacia purché esprima, nel suo affondo, energie reali. Essa deve farsi consapevole della sua forza creando con la presenza di spirito una realtà che si può eventualmente combattere, ma non più negare. Quando il «servo» insoddisfatto si prende scherzosamente gioco di Sua Signoria, lascia intravedere la violenza che assumerebbe una rivolta. Uno spacco sfrontato su nuda pelle femminile gioca con il potere che il raro esercita sul comune; nella vecchia economia erotica la forza del sesso «debole» ha sempre consistito nella coltre di penuria che esso stendeva, per necessità e per scelta, sulle istanze di quello «forte». Per non parlare poi della sfrontatezza religiosa, dell'irriverenza, capace di far saltare ogni pia seriosità percuotendola con l'irresistibile energia di una risata.


Ci sono brevi ricette linguistico-comportamentali grazie a cui il realismo sfrontato della posizione inferiore ottiene infallibilmente la meglio sulla «legge». Ecco due formule telegrafiche: 1) «Embè?» e 2) «E perché no?». Molti ragazzi, grazie a un uso ostinato degli «Embè?», sono riusciti a fare illuministicamente disperare anche dei genitori molto difficili. Le comunità infantili sono spesso ottime scuole d'illuminismo, se non altro per un esercizio naturalissimo dell'«Embè?». Il che null'altro rappresenterebbe se non la facoltà, resa pressoché impraticabile ai socializzati integrali, di dire sempre «no» al momento giusto. (1) La capacità di dire «no», sviluppata in modo completo, è l'unica base valida del «sì», e solo insieme, queste due facoltà, conferiscono spessore all'essere liberi.


 


1 Cfr. il bel libro di Klaus Heinrich, Versuch über die Schwierigkeit Nein zu sagen (Saggio sulla difficoltà di dire "no"). Nel suo Parmenides und Jonas, Frankfurt a.M. 1966 (Parmenide e Giona, Napoli 1988) Heinrich aveva del resto ben evidenziato il carattere dirompente del kinismo antico.


 


La «sfrontatezza» può prendersi quello che il potere ha.


Tuttavia, di potere, ce n'è sopra, ma anche sotto (seppure, come ben si sa, in differenti proporzioni). Il servo non è un «nulla». E il signore non è «tutto». La soggezione è tanto reale quanto la signoria. Sul piano individuale il potere dell'inferiore si reintegra in quella sfrontatezza che poi altro non è se non il baricentro di di ogni kinismo. Grazie alla sfrontatezza gli sfortunati possono avere un'anticipazione della loro sovranità.


Ma un secondo livello sul quale gli inferiori saggiano possibilità di stravaganza e ostinazione è il «sovvertimento», la cui prassi converge verso quelle mezze libertà che estendono la legge. Quanto grande possa essere il fattore di sovvertimento nella nostra società non è chiaro: siamo in un mondo misterioso pieno di sfrontatezze arcane e realismi eterogenei, zeppo di resistenze, compiacenze, macchinazioni, tornaconti personali.


La normalità è costituita per buona metà da microstrappi alla regola. Questo campo (di sorda ostinazione, di piccola arte d'arrangiarsi, di moralità nerofumo) risulta inesploratissimo, tanto quant'è in realtà ignoto l'estendersi generale della corruzione. Entrambi questi «livelli», per loro natura, presentano pochi accessi. Si sa che esistono, ma non se ne parla.


Anche la libertà dei potenti è duplice. Anzitutto comprende privilegi e licenze propri alla condizione signorile. Non ci vuole sfrontatezza a profittarne, semmai tatto nel non profittarne con ostentazione. Per esempio: del sessual-feudale ius primae noctis (che, come noto, concedeva ai feudatari facoltà di deflorare le spose dei propri sudditi) la maggior parte dei vecchi castellani non fece mai uso. D'altronde, oggi i ricchissimi celano la loro high life dietro una discreta parvenza middle-class (o all'interno di circoli chiusi).


Ma esiste anche per i potenti qualcosa di simile alle «mezze libertà» di cui già s'è detto. E i potenti ne fanno invero un uso moderato, cioè vi ricorrono solo se costretti, giacché queste mezze libertà li smascherano di fronte alla coscienza avversaria. La specifica sfrontatezza della coscienza signorile può essere chiamata «cinismo dominatorio». «Cinismo» nel senso moderno del termine, che va tenuto ben distinto dalla vecchia aggressività di tipo kinico. Il kinismo antico, aggressivo e primordiale, fu antitesi plebea all'idealismo. Il moderno cinismo di contro è antitesi patrizia a un idealismo patrizio percepito come mascheramento ideologico. Il signore cinico sfila la maschera, sorride al suo debole avversario.„ e lo sopprime. Cest la vie. La nobiltà ha i suoi obblighi... Ci vuole ordine. A dire il vero si tratta di coazioni obiettive che spesso superano la volontà degli interessati. Coazione di potere, coazione obiettiva: necessità! Il potere, nei suoi cinismi, tradisce un poco dei suoi segreti, esercita un'autochiarificazione dimezzata e commette intemperanze essoteriche. Il cinismo dominatorio è una sfrontatezza che ha cambiato segno. Non David sfida qui Golia, ma anzi sono i vari Golia d'ogni tempo - dagli arroganti re guerrafondai assiri giù giù fino alla moderna burocrazia — impegnati nel far vedere «chi comanda» ai valorosi, ma «perdenti» Davide; cinismo in servizio permanente effettivo. (Lo spirito di coloro che stanno comunque «sopra» produce strane fioriture ciniche, come quella di Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI, e la sua esortazione al popolo senza pane affinché si convertisse alle brioches.)


Col suo specifico cinismo, la coscienza dominatoria - nello scostare anche sol di poco la maschera - si smaschera e si tradisce nei confronti del contropotere. Ma cosa succederebbe se, di contropoteri, non ce ne fossero? Nelle società in cui non si offre alcuna vera alternativa morale e i contropoteri potenziali sono coinvolti in larga parte negli apparati di potere, accade che ormai nessuno provi sdegno per i cinismi del potere. Tanto più povera o priva di alternative è una società moderna, tanto maggiore sarà la sua dose di cinismo. Alla fine essa comincerà a ironizzare sulle sue stesse basi legittimatone. «Valori fondamentali» e «belle scuse», a questo punto, si confonderanno mellifluamente. I rappresentanti del potere sulla scena politica ed economica diverranno vacui, schizoide, incerti.


Oggi viviamo sotto l'intendenza di giocatori cosiddetti seri.


Ma se un tempo i grandi politici erano abbastanza «liberi» da divenire cinicamente capaci di giocare con fini e mezzi, oggi ogni funzionario, ogni «mohicano» ministeriale supera Talleyrand, Metternich e Bismarck messi assieme.


Jürgen Habermas con la sua teoria sulla «crisi di legittimazione» ha indubbiamente toccato il nervo sensibile dello stato moderno. Il quesito rimane: chi è il soggetto della conoscenza in merito appunto alla «crisi di legittimazione»? Chi conduce il chiarimento? E, viceversa, chi ne viene fatto oggetto? Biso 


Th.Th. Heine: «Un'esecuzione capitale».


Anno 1899. Da «Simplicissimus», n. 35, frontespizio: «Bono lì, caro mio. E ringrazia mai che non te l'è un socialist, seno l'andava minga così liscia!», (1)


gna sapere infatti che il cinismo procede di pari passo con la diffusione di un soggetto «non ignaro della realtà», cosicché l'odierno servitore del sistema può fare con la destra ciò che la sinistra mai e poi mai gli consentirebbe. Colonizzatore di giorno, ma colonizzato di notte; sfruttatore durante l'orario di lavoro, ma sfruttato nel tempo libero; ufficialmente cinico, ma softy nella sfera privata; uomo d'ordine per una questione di professionalità, ma (ideologicamente parlando) gran sanguigno attaccabrighe; realista di fuori, edonista di dentro; agente del capitale per funzione e mansione, ma democratico convin to per passione e intenzione; executive della reificazione sistemico-dipendente, ma con una palpitante vocatio autorealizzatorio-vitalistica; oggettivamente portatore di distruzione, e nondimeno pacifista sul piano soggettivo-individuale; in sé scatenatore di catastrofi, ma per sé l'essere innocuo per eccellenza.


Con gli schizoidi tutto è possibile e poi, o illuminismo o reazione, basta che se magna... Nel caso degli integrati illuminati, il corpo, in questo mondo di abilissimi istinti conformistici, dice «no» alle imposizioni della testa e la testa dice no al modo in cui il corpo procede all'autoconservazione accumulando comfort su comfort. Orbene: il nostro status quo morale è questo zibaldone...


 


 


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TEORIA DEL DOPPIOGIOCO


Bisogna ora trattare una figura sociale che, apparentemente, conduce la sua esistenza ai margini dei sistemi politici, mentre in verità ne tocca per così dire il nucleo ontico originario: l'uomo dei servizi segreti. La psicologia dell'agente segreto, e soprattutto del doppiogiochista, occuperebbe il capitolo centrale di un'odierna psicologia politica. Ci sono storie fantastiche sui sodalizi cospirativi nella Svizzera fin de siècle, dove nacque un impenetrabile garbuglio di spie zariste, antizariste, comuniste e anarchiche, senza contare quelle delle potenze occidentali. Ogni gruppetto teneva d'occhio gli altri, riflettendo gli uni sui calcoli e i contenuti mentali altrui. Nelle teste dei cospiratori di partito come in quelle dei membri di varie polizie segrete venivano così a crearsi favolose matrioske tattiche e metatattiche. Simulazioni doppie e triple nei cui meandri si perdevano persino i giocatori, senza sapere per chi, in fin dei conti, stessero giocando e che mai avessero da cercare in questo doppio e triplo teatro delle maschere. Inizialmente ingaggiati da una delle parti, venivano poi comprati dall'altra, infine riadescati alla fede originaria, e così via. In fondo non c'era più alcun ego, c'erano solo dei signor nessuno: chi di loro avrebbe potuto ego-isticamente trarre dalle varie parti in gioco un «proprio» vantaggio? Quale vantaggio potrebbe mai trarre colui che ormai ignora dove sia il suo «ego»?


In modo non molto dissimile vanno le cose per chiunque oggi rivesta un ruolo nell'apparato, industriale o istituzionale, e quindi conosca grosso modo la direzione di marcia del «Grande Veicolo». Tra lealismo e ragionevolezza si spalanca un baratro crescente. È difficile comprendere la propria posizione.


A chi vanno le nostre lealtà? Siamo agenti dello stato e delle istituzioni? Agenti dello schiarimento illuminista? O agenti del capitalismo monopolista? Oppure agenti del nostro pro prio interesse vitale che coopera mediante multipli e sempre mutevoli legami con stato, istituzioni, schiarimento illuminista, restaurazione oscurantista, capitale monopolista, un tempo anche con la rivoluzione socialista ecc., dimenticando (e in ciò progressivamente) qual mai cosa noi «stessi» (si fa per dire) andavamo cercando in tutto questo marchingegno?


Non a caso Walter Benjamin - quel grande esperto di ambiguità e polisemie, cui dobbiamo misteriosi ponti che collegano giudaistica e sociologia, marxismo e messianismo, arte e criticismo - fu colui il quale introdusse il tema dello spionaggio nelle scienze dello spirito (si pensi alla sua astuzia ermeneutica nel famoso saggio su Baudelaire, presentatoci come l'«agente segreto della sua classe»). Lo spionaggio intellettuale multiplo è un connotato della modernità, ed è un fatto gravido di minacce per i tanti polemodipendenti, risoluti a combattere, che riducono il mondo allo schema amico/nemico. (Lo stalinismo non ha forse rappresentato, tra l'altro, anche il tentativo di svellere con semplificazione paranoide ogni intelligenza dal suo ineludibile background di poliedricità, allo scopo di rendere le cose così semplici che potesse capirle anche «Baffone»? Ciò che, eufemisticamente, si può chiamare anche «riduzione della complessità».)


E (soggettivamente, oggettivamente, in sé, per sé...) chissà chi è agente o funzionario di chissà quale corpo separato ausiliario e di quale tendenza recondita? Tra gli stalinisti s'è sempre usata l'espressione «oggettivo» ovunque si fossero voluti eliminare violentemente doppi legami e ambivalenze. Chi nega la reale complessità si presenta volentieri come «oggettivo» e, per coloro che dei problemi sono invece consapevoli, riserverà l'accusa di «visionarismo tendenzialmente in fuga dalla realtà». Eppure nemmeno nelle configurazioni apparentemente più chiare e univoche è possibile determinare con esattezza dove si collochino, soprattutto se si considera come la storia, contro ogni pianificazione, obbedisce a leggi che sfuggono alla nostra presa. I partiti e i gruppi che si presentano all'opinione pubblica con programmi molto determinati sono essi stessi maschere di tendenze che li travalicano e sulle quali è assai difficile fare previsioni. In questa luce dubbia e crepuscolare i marxisti fantasticano volentieri di un misterioso demiurgo in combutta con circoli industriali o addirittura con un «mohica no» ministeriale senza portafoglio (meglio se stazionato nel gabinetto del Cancelliere) e che farebbe ballare lo Stato secondo le direttive della Grande Industria. Si tratta, è ovvio, di una semplificatoria strategia proiettiva tanto puerilmente ingenua quanto puerilmente sofisticata, che ha una lunga ascendenza storica, risalente a Balzac e ai suoi misteriosissimi «Tredici Burattinai» i quali nell'ombra reggerebbero le fila del capitale come fossero una cupola mafiosa o giù di lì.


Devastantissima, tra tutte queste equazioni mafiose e dietrologie demiurgiche, fu una gran pensata dell'intelligence russa fin de siècle: la fantasmagoria dei «Saggi di Sion»... Questo costrutto antisemita — da un'originaria satira illuministicheggiante (di M. Joly), attraverso la testa cinica di un capo dei servizi segreti zaristi stanziato a Parigi (autore del falso noto come «Protocollo dei Savi di Sion») - approdò dapprima alla mente malata di un mistico russo, indi vi fece giro di boa e rientrò in Europa occidentale, dove questi sedicenti «Protocolli» poterono assurgere a nucleo documentario della paranoia antiebraica e - previo filtro mentale di Adolf Hitler - sortirono ad Auschwitz i loro effetti. Eccolo qua, il sotterfugio tedesco, fascisticamente semplificato di proiettare anonimi effetti collaterali del sistema a «intenzioni» demoniache, di modo che la piccola borghesia, già irritata, non si turbasse nel dubbio di aver perso il «controllo della situazione».


 


 


CENNI STORICO-SOCIALI SULLA SFRONTATEZZA


La storia della sfrontatezza non è una disciplina accademica e non so se, diventandolo, ne trarrebbe qualche profitto.


L'kistoria, poi, è qualcosa di derivato a cui deve presupporsi un impulso nell'attimo palpitante. E, per quanto concerne il cinismo, «palpitante» dovrebbe essere anche l'impulso, ma nella relazione tra cinismo e sfrontatezza lo si cercherebbe davvero invano.


Nella storia sociale il ruolo della città nella nascita della coscienza satirica è indiscutibile. Tuttavia in Germania, dopo la decadenza delle città seguita alla guerra dei Trent'anni, non vi fu per lungo tempo alcun centro con caratteristiche metropolitane. Ancora nel 1831 Heinrich Heine, per respirare quell'aria di città che rende notoriamente liberi, dovette emigrare a Parigi, capitale del XIX secolo: «Andai perché dovevo».


Ai tempi in cui le culture metropolitane dell'Italia settentrionale descritte dal Burckhardt avevano buontemponi e spirito canzonatorio da vendere, ai tempi in cui ogni sorta di battutacce echeggiava per le strade di Firenze e di Roma, la Germania possedeva (fatta eccezione per quel prototipo moderno di kinismo plebeo noto sotto il nome di Éulenspiegel) se non un Aretino, pur sempre un ciabattino (e mastro cantore) di Norimberga, quel buon vecchio Hans Sachs, (1) che viene oggi ricordato un poco riduttivamente come il capostipite del nostro umorismo piccolo-borghese.


1 Hans Sachs (1494-1576), poeta tedesco, esponente fecondissimo del Meistersang, fu autore di vastissima produzione lirica, didascalica, drammatica e satirica. Simpatizzante per la Riforma di Lutero e amico di molti umanisti, è il massimo esponente della letteratura popolaresco-borghese del suo tempo; poco considerato in età barocca, venne rivalutato dai romantici: Wagner ne celebra la figura nell'opera, d'atmosfera serena e festosa, I maestri cantori di Norimberga, (n.d.t.)


Ebbene, codesto Sachs - probabilmente guidato da buon istinto - compose anche un dialogo su Diogene (ed ecco che all'inizio della nostra cultura borghese ritroviamo un riallacciamento all'impulso kinico). Ma, si sa, Norimberga cadde, riprendendo la sua carriera metropolitana solo molto più tardi, come snodo ferroviario e poi ancora come podio per i bagni di folla del Terzo Reich. Così, il luogo in cui erano fiorite le prime elementari intuizioni della cultura borghese, realismo kinico e umorismo cittadino, divenne teatro di parate oceaniche: «colonne ordinatamente marcianti verso un futuro di cimiteri bellici, ottusità totale, trionfo piccolo-borghese del cinismo dominatorio... Invero, l'unica città tedesca che, quanto a sfrontata irriverenza, non sia mai rimasta al di sotto delle sue possibilità, è Berlino. A Berlino lo spirito delle parate a passo dell'oca di Norimberga apparve sempre alcunché d'estraneo e d'inquietante. Gottfried Benn colpisce nel segno del provincialismo a passo militare quando ironizza sulle coreografie naziste degli anni Trenta: «Pensare è da cinici e lo si fa soprattutto a Berlino, al suo posto è consigliato cantare il Weserlied». (1)


La sfrontatezza in Germania ha avuto vita dura, più dura che nei paesi latini; sue apparizioni si ebbero nella versione cinico-dominatoria, in tipica funzione di scatenamento per potenti. Heinrich Heine (già di per sé un'eccezione e, oltre a ciò, un figlio della Renania carezzata dai venti di Francia), andando alla ricerca di modelli e appoggi in patria, dovette attenersi ad altre virtù tedesche: la nodosa onestà di Voss, la chiarezza temperamentosa di Lessing e il coraggio delle proprie idee di Lutero. E non sarebbe poi ingiustificato vedere proprio in questo grande riformatore un principio tradizionale di sfrontata irriverenza tedesca, il suo protestantesimo (in un tempo in cui davanti all'imperatore nessuno avrebbe osato dire: «Ecco, io la penso così, non posso farci niente») fu un atto avventuroso di coraggio, di originalissima frivolezza. Oltre a ciò, in Lutero, emerge un elemento di animalità, un'energia che dice di sì a se stessa (archetipo vitale, sconcio, inscindibilmente kinico).


Nella storia della sfrontatezza - oltre a quella urbana- ci sono tre matrici sociali di giocosa riottosità: il Carnevale, le Università e la Bohème. Sono delle valvole di sfogo temporaneo a


1 Il Weserlied era un inno delle adunate naziste, (n.d.t.)


 


Till Eulenspiegel.


bisogni che altrimenti, nella vita sociale, giungono difficilmente all'incasso. In questi tre ambiti, invece, le sfrontatezze trovavano un loro spazio in cui erano tollerate, ancorché di una tolleranza revocabilissima.


Il vecchio carnevale fu per i poveri una sorta di palliativo della rivoluzione. Vi si eleggeva un Re Buffo che per un giorno e una notte reggeva un mondo rigorosamente capovolto. Un mondo in cui gente povera e ordinaria evocava alla vita i propri sogni, la Compagnia della Teppa e le Baccanti, tutti mascherati, dimentichi di sé fino alla verità: sfrontati, arrapati, turbolenti e sgradevoli. Si poteva mentire o dire la verità, essere osceni o onesti, ciucchi e matti. Dalla carnascialìa medievale - come ha mostrato Bachtin - fluiscono nell'arte motivi satirici in gran copia. Dallo spirito parodistico del carnevale ancora traggono ispirazione i variopinti linguaggi di Rabelais e di altri letterati del Rinascimento; un fenomeno che ispira saghe macabre e satiriche: Matti, Macchiette, Maschere e Arlecchini diventano personaggi di una tradizione ridanciana, che adempirà al proprio compito nella vita della società anche durante il mercoledì delle ceneri. Le società classiste difficilmente resistono senza l'istituzione della Festa, del Mondo alla Rovescia e delle Folli Giornate: come India e Brasile insegnano.


Similmente, a partire dal tardo medioevo, anche le università assunsero l'importanza a loro propria nell'economia sociale della sfrontatezza e dell'intelligenza kinica. Non furono affatto luoghi dedicati allo studio e alla ricerca solamente; vi scorrazzava anche una giovane intellighenzia vagante e stravagante, abbastanza sveglia da conoscere di meglio che il mero sgobbar sui libri. A tal proposito gode di fama particolare la Sorbona parigina: il quartier latin, città nella città, gli abitanti della quale ci appaiono i precursori d'ogni ulteriore bohémien. Nell'età borghese gli anni dell'università furono per la gioventù studentesca il tempo della dilazione prima della «dura vita».


Alle burle studentesche, alle libertà e agl'intrighi del periodo accademico potranno rifarsi quegli adulti che poi, divenuti persone cosiddette serie, sosterranno d'essere stati anch'essi giovani, una volta. Nell'età borghese la vita universitaria conferì al concetto di gioventù una coloritura particolare, per la quale i vecchi signori si scapecchiano i capelli (ma solo in via ufficiale) nel constatare (in realtà: con intima soddisfazione) che i lor signori figli si portano da scapestrati. Inquietante, per i seniores, è una giovane generazione quando si scosta freddamente dalle chiassate e viene subito al «dunque». Un caso di cinismo precoce. Il XX secolo conosce diverse generazioni di questo genere, a cominciare dalla Gioventù studentesca nazionalsocialista, nella quale, insieme agli idealisti ariani, si mescolava una truppa di frigidi bellimbusti; che divennero i piloti da combattimento o legulei del sistema e ancor di seguito: democratici. Poi sopraggiunse, negli anni Cinquanta, la «generazione scettica», oggi al timone; dopo di essa fu l'ora delle


Nuove Onde anni Settanta e Ottanta: precoce predisposizione al cinismo...


Ma veniamo infine alla Bohème, fenomeno relativamente recente, che ha svolto un ruolo del tutto straordinario di tensioregolatore, per così dire, tra arte e società. La Bohème ha rappresentato il luogo in cui si esperimentò il passaggio dall'arte all'arte di vivere. Per oltre un secolo la Bohème ha offerto copertura sociale all'impulso neokinico. Regolatrice dei omicida borghesi, essa fu importante soprattutto in quanto, analogamente alle università, ha soddisfatto una funzione (per dirla con Ericson) di «dilazionamento psicosociale»; fu cioè uno spazio moratorio in cui i giovani borghesi potevano scaricare le loro crisi disadattive nel passaggio dal mondo della scuola e della casa paterna a quello della seria vita professionale. Gli studiosi sanno che furono solo pochi i bohemiens vita natural durante; per la gran massa quell'ambito si configurò una stazione di transito, un luogo in cui sperimentare modelli di vita fuori dai normali schemi. Usavano insomma, i bohemiens, la loro libertà di sfogare il «no» alla società borghese fino al momento in cui fosse (forse) intervenuto un più maturo «sì, ma».


Consideriamo oggi questo terreno di coltura, questi spazi vitali, in cui fiorirono la divergenza e la critica, la satira e la sfrontatezza, il kinismo e la bizzarria. Subito ci appare chiaro che per l'illuminismo concretamente corporeo e sfrontato c'è da temere il peggio. Davanti ai nostri occhi le città si sono infatti trasformate in ammassi amorfi, in cui correnti di traffico alienante trasbordano gli esseri umani attraverso i vari teatri dei tentativi e dei fallimenti esistenziali. Il carnevale da quel dì non significa più «mondo alla rovescia», ma fuga nello stordimento da un cronicario fitto di quotidiane assurdità. Della Bohème si sa che è morta almeno dai tempi di Hitler: tra i superstiti rifluiti nella cultura underground regna umor d'anabasi ben più che di lunatiche sfrontatezze. E per quel che concerne le università? Ah... Lasciamo perdere!


Tali e tante mutilazioni della sfrontatezza indicano che l'organismo sociale è entrato in uno stadio di ancor più organizzata seriosità e che i margini per vivere l'illuminismo vengono progressivamente erosi. È questo ciò che offusca il clima di questo paese. Si vivacchia di un realismo arcigno, si evita di dare nell'occhio, si giocano giochi seriosamente austeri. Sotto il pelo dell'armonia il cinismo produce qualche prurito. L'esibizione autocompiaciuta (e blandamente vaticinante) della propria schizofrenia tradisce una coscienza infelice, anche negli atenei. Una fase di pubblico irrigidimento serioso è iniziata. L'intelligenza stanca, schizoide e scoraggiata gioca al realismo, murandosi pensosa dietro alla dura datità delle cose.


 


 


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CORPOREITÀ O SCISSIONE


 


Ciò che ha corpo è ciò che vuol vivere. Tuttavia «vivere» non è mera «dilazione del suicidio». Chi vive in società munite di armi atomiche, diviene in certa misura - lo voglia o no agente di una grande lobby suicida e cinica, a meno di voltarle le spalle in modo risoluto. Ed è proprio quanto si risolve a fare un numero crescente di persone, che dagli anni Cinquanta sono andate trasferendosi in Provenza o in Toscana, nell'Egeo o in California, a Goa o nei Caraibi, a Poona o nel Nepal, e non da ultimo negli altipiani tibetani della Francia, della Germania.


In rapporto a questi fenomeni sorgono due domande, di cui la prima è cinica, la seconda preoccupata. In caso di pericolo saremo abbastanza lontani? La parte moralmente più sensibile abbandona la nave delle società ciniche: cui prodest? Ci sono «buoni» motivi per interrogarsi in questo modo. La precaria salute del mondo alimenta entrambi: lo sguardo cinico come quello preoccupato. Emigrare potrebbe rivelarsi utile a entrambi, se li comprendiamo bene: agli emigranti, che scopriranno se esiste quel meglio che cercavano; agli altri che sono rimasti, cui la partenza degli emigranti sembra ripetere: «Dove voi siete, non si può vivere... Così è, per noi. E voi che ne dite?».


Forse si potrebbe assumere quest'emigrazione un poco più alla leggera, solo che si trattasse davvero di un fenomeno marginale. Nulla, però, permette tale riduttivismo. Quello che oggi succede ai margini, viene dal centro. L'emigrazione è ormai un reperto della psicologia di massa. Interi strati sociali vivono da lungo tempo in una sorta di Altrove Interiore: larghe masse, che non si sentono legate ai cosiddetti Valori Fondamentali della nostra società. Qualcuno pronuncia la locuzione: «Valori Fondamentali», e già intuiamo, qua e là, un qual che fungo nucleare. I responsabili strategici giurano di essere impegnati al dialogo, ma a guardarli negli occhi gli scorgi comunque il ghiaccio della fine dei tempi. Intanto il grosso della società ha scelto l'emigrazione vacanziera; la parola «vita», per tantissimi, si riappropria della sua coloritura più luminosa nel ricordo di certi istanti di certe ferie riuscite, quando l'orizzonte si dischiuse...


Che fare? Autoescludersi o collaborare? «Fuggire o far quadrato»? Alternativa insufficiente,. Entrambi i corni del dilemma appaiono espressi in modo sospetto e ambivalente. Fuggire: forse che, con questa parola, è resa giustizia ai «fuggiaschi»? E forse che nel far quadrato non si cela spesso codardìa o accidia, collaborazionismo o calcolo opportunistico? Ma prendere le distanze corrisponde davvero sempre a un atto consapevole e voluto? E molti «autoesclusisi» non erano fuori già molto prima che gli fosse stato dato il tempo di spiegarsi?


«Collaborare»? È sempre e comunque un atto di cinismo?


(Mai che sia mosso da esigenze di «positività» o di appartenenza a qualcosa?)


Ma l'alternativa esprime anche aspetti di verità. Autoescludersi, andarsene è giusto perché chi lo fa non vuole essere fagocitato dagli intollerabili cinismi di una società che non sa discernere il fare dal distruggere. Collaborare è giusto perché il singolo ha diritto di badare all'autosostentamento, comunque, anche a breve termine. Fuggire è giusto tanto quanto è giusto il rifiuto di un coraggio ottuso: giusto perché solo i matti si consumano in battaglie disperate, dove esistono, invece, spazi di ritirata, più vivibili. Far quadrato è giusto, in quanto risponde all'esperienza, secondo cui ogni conflitto rimosso può sempre ricaderci addosso, in ogni istante della nostra fuga.


Questa alternativa, che pur si presenta nella nostra vita, deve dunque formularsi altrimenti, e precisamente nella disgiunzione esclusiva tra la corporeità e la scissione. Quest'aut-aut si rivolge anzitutto alla coscienza, e solo in seconda istanza al comportamento. Qui il requisito è una radicale priorità dell'esperienza sulla morale. Bisogna stabilire se procedere alla riconcrezione nella coscienza di ciò che già è lacerato? Oppure abbandonare (inconsciamente) al processo di scissione schizoide ciò che ormai è spezzato? Integrazione o schizofrenia?


Scegliere di vivere o prendere parte alla soirée suicida? Può suonare come una dieta spirituale per singoli individui (e bene intende chi a questo modo intende). Del resto l'illuminismo non ha - tanto per cominciare - altri interlocutori se non individui singoli, che sfuggono alla cieca necessità sociale, senza per questo poter dismettere ogni loro ruolo nella società. Bisogna perciò tener ben vivo il riferimento pensante all'illuminismo (all'illuminismo concreto e corporeo, s'intende). Produrre rasserenamenti, schiarimenti, sostenere ovunque le tendenze antischizofreniche: questo è illuminismo. Non certo quello che si pratica negli atenei: l'universitas vitae è altrove, e precisamente là dove donne e uomini s'oppongono al cinismo della coscienza ufficiale scissa; dove si sperimentano cose che offrano a menti e corpi e anime una chance di vita. E un vasto ventaglio d'individui e gruppi che trasmettono il testimone dell'impulso kinico tentando qualcosa che nessuna politica o mera arte potrà mai sostituire, e cioè il dare adito all'esistenza individuale, con mente desta, muovendo contro l'erosione schizoide dell'inconsapevole; questo significa crescere dentro le proprie possibilità; e partecipare all'opera di gioioso rasserenamento illuminista, di cui fa parte anche una rispettosa attenzione ai desideri in quanto annunciatori di possibilità.


 


 


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PSICOPOLITOLOGIA DELLA SCHIZOIDIA SOCIALE


 


In cosa si riconosce una fase prebellica? Quali sintomi psicopolitologici connotano le società capitalistiche prima di una crisi mondiale? La storia tedesca offre una lezione perspicua di come, nelle linee di tensione psicologica di un paese, vengano per esempio maturando presupposti di conflagrazioni mondiali. E' possibile studiare due o (per essere pessimisti) anche tre casi di come si va incontro a grandi esplosioni belliche. Il sintomo psicopolitico principale è l'afa.: un generale appesantimento dell'atmosfera sociale fattasi stracarica di tensioni schizoidi e di ambivalenze. In tale clima prospera rigogliosa una sorta di misteriosa disponibilità catastrofica; in omaggio a Erich Fromm, chiamerò questo complesso catastrofilia, una turba collettiva della vitalità per cui tramite le energie vitali in circuito di mutua attrazione con il catastrofico, l'apocalittico e il violentemente spettacolare - vanno, come dire, alla deriva.


Lo studioso delle res gestae sa che la storia politica non è il luogo della felicità umana. Nondimeno, a domandarsi quando sia scoccata, nel nostro secolo, l'ora più felice per i popoli d'Europa, si verrebbe sospinti verso una risposta imbarazzante. C'è da rimanere ancor oggi esterrefatti davanti a quel fenomenale agosto 1914: il vissuto dei popoli europei, allora in procinto di gettarsi nella Grande Guerra, è designato dagli storici con il termine di «psicosi bellica». Considerando la questione più da vicino osserviamo che si trattò di una mobilitazione degli affetti, indescrivibilmente tempestosa, e le masse ne furono pressoché travolte: esplosioni di gioia e di entusiasmo nazionale, libidine fobica, ebrius amor fati, sbornia fatale. Furono momenti di pathos ed esaltazione senza pari; l'euforica parola chiave di allora fu: «finalmente!». Certo le masse sentirono anche timore, ma credettero soprattutto d'intuire l'avvio di qual cosa da cui ci si riprometteva «vita» in senso pieno. Altri slogan furono: Ringiovanimento, Dimostrazione di Forza, Catarsi, Cura Dimagrante. La guerra fu condotta durante tutto il primo anno dalle sole armate di volontari: non si dovette costringere nessuno a partire per il fronte. La gioventù guglielmina era sedotta dalla catastrofe. Quando questa infine arrivò, quegli uomini vi si riconobbero, ben sapendo di averla tanto attesa.


Orbene: non c'è alcuna ragione per credere che la gente, allora, fosse molto diversa da noi oggi. Solo la superbia potrebbe indurci a supporre di essere, nelle questioni esistenzialmente decisive, più intelligenti e meno patetici di quegli studenti volontari che, in segno di interventismo totale, attaccarono Langemark, lasciando sul campo un intero reggimento falciato dai mitragliatori. La differenza tra loro e noi consiste solo nel fatto che il funzionamento dei meccanismi psicologici delle generazioni successive è divenuto un poco più occulto. Ed è per questo che, di fronte al procedere ingenuo, superficiale e smodato di quei fatti, noi restiamo sconcertati. Quel che i fans della guerra credettero di sperimentare era la differenza tra instabilità e decisione, tra nebulosità e chiarezza; o, per dirla con una formula, la differenza tra la vita inautentica e una (pretesa) autenticità. Anche dopo la guerra - nella letteratura protofascista - circolava con insistenza il discorso della «battaglia come esperienza interiore». In guerra — questo sentivano gli uomini dell'agosto 1914 - si sarebbe finalmente «fatto qualcosa» per cui valeva la pena vivere.


La prima guerra mondiale è il punto di svolta del cinismo moderno. Di lì comincia la fase calda del dissolvimento delle vecchie ingenuità, a partire da quelle sull'essenza della guerra, l'essenza dell'ordine sociale e del progresso; una fase che condurrà infine all'eclissi dei valori borghesi o meglio: della civiltà borghese tout court. Dalla Grande Guerra il diffuso clima schizoide incombente sulle maggiori potenze europee non si è più diradato. Chi allora denunciò la crisi di una civiltà aveva innegabilmente temuto lo stato di choc postbellico: l'ingenuità non sarebbe mai più tornata; inesorabilmente la sfiducia, la disillusione, il dubbio, la frigidità psichica sarebbero penetrati nella nostra «massa genetica». Ogni positività, di qui in poi, assumerà il cipiglio caparbio di una sfida soggetta a erosione


Volontari di guerra a Berlino. Unter den Linden, 1° agosto 1914.


per avvilimento. Da allora ostentatamente regnano i modi della coscienza spezzata: ironia, cinismo, stoicismo, malinconia, sarcasmo, nostalgia, volontarismo, rassegnazione al male minore, depressione e stordimento come scelta consapevole d'inconsapevolezza.


Nei brevi anni della Repubblica di Weimar la catastrofìlia crebbe con rinnovato slancio. La crisi economica, infine, scoccò la scintilla. La repubblica triste provvide da sé al proprio colpo di grazia. Nel mito della rivoluzione popolare le tendenze catastrofile trovarono i loro fondamenti «seri». Chi aveva segretamente messo in conto la catastrofe, gridò a viva voce di conoscerne la direzione di marcia e la giusta terapia. Chi vedeva approssimarsi la catastrofe, tentò di cavarci qualche tornaconto.


Erich Kästner, nel 1931, riuscì a fissare su carta la voce di un uomo il quale, intendendo scansare gli scogli del moralismo naif, aveva deciso di galleggiare sulla propria avidità di vivere nella corrente che tuttavia volgeva verso l'ormai prossima cateratta:


Discussioni serie? E in qual modo? Ci sarà una vita dopo la morte?


Sia detto tra noi: non c'è. Tutto va sbrigato ben già prima di morire.


Gran daffare a piene mani, giorno e notte... Meglio se vi divertite, invece di salvare l'umanità. Come s'è detto, la vita va sbrigata prima di morire. Per più dettagliate informazioni volentieri disponibile.


Ma non così greve, figliolo! (1)


 


È, questa, la voce di un contemporaneo, passata indenne attraverso cinquant'anni: attuale. Così parla uno che sa di non poter certo cambiare lui la storia. Però vorrebbe vivere, prima della fine; vorrebbe imbellettarla da Grande Inizio.


Considerate al giorno d'oggi come la latente volontà di catastrofe abbia saputo mettersi al coperto dietro le seriose ufficialità della cosiddetta «politica di pace». I meccanismi che avevano caratterizzato la franchezza relativamente rozza dello stile fascista sono sprofondati nelle nebbie del subliminale, evaporati nelle nuvole dell'atmosferico, appiattati sotto la mascherata conformista della buona volontà e dei buoni sentimenti. Sulla placida superficie della coscienza sono scomparsi i marosi e, con loro, l'ingenuità. La crescente omologazione dei comportamenti sociali pialla ogni franchezza; ciò che viene chiamato democrazia, dal punto di vista psicologico significa aumento dell'autocontrollo; e questo, in popolazioni come la nostra letteralmente instabbiate, risponde del resto a necessità.


Ma una superficie tanto liscia non deve ingannarci. La catastrofilia permane, e - se non tutto inganna - la sua massa totale è in incremento. Forse, per parlare in modo frivolo, «il merito del terrorismo» fu proprio questo: rendere le tendenze catastrofile riconoscibili quantomeno a sprazzi. Più chiaro di così...


Chi ricorda ancora il sequestro e l'assassinio di Schleyer?


Nel clima febbrile di quei mesi, il terrorismo raggiungeva in Germania il suo apice. Lo scenario psicopolitico propriamente catastrofiliaco assunse, allora, tutta la sua forza (forse per la prima volta in modo così crasso dalla fine della guerra). I media e le voci istituzionali insorsero come un sol uomo, spontaneamente, nel tono serioso dello sdegno e della costernazione.


Eppure, tra le migliaia di migliaia di righe stampate, la verità sull'atmosfera di massa non trasparì quasi mai; come confermava ogni bisbiglio, ogni battuta dal giornalaio, ogni discorso in pizzeria e in trattoria, ogni indiscrezione di corridoio ecc.: e la verità consisteva in una lampante ambivalenza di sentimenti, in cui timori esistenziali e libidine catastrofista erano ine 


1 Erich Kästner, Fabian. Geschichte eines Moralisten, 1931-1976, pp. 64-65.


stricabilmente mescolati gli uni all'altra. L'avidità di notizie, lo straripare di interminabili discussioni e la sovrammisura di prese di posizione statali e private parlavano, anche considerandole a distanza, un linguaggio inequivocabile. Era accaduto qualcosa che toccava il sentimento vitale. Senza nome, una fame di dramma storico e una disperata urgenza di conflitti nei quali potersi schierare dalla parte giusta confondeva prepotentemente gli animi. Ancora per molto tempo ci sarebbe stato propinato il contenuto politico e criminale di un evento che, di fatto, non giustificava ogni eccesso. La messinscena po litica del gesto criminoso e l'interazione spettacolare tra stato e terrorismo enfatizzarono l'evento alle dimensioni di una cesura epocale. Alimentandosi di potenti spinte catastrofile quell'azione terrorista divenne il tema dominante di giorni senza fine. In termini psicosociali fu una sorta di Momento della Verità. Era il sostituto simbolico di una storia in cui avviene qualcosa; la caricatura di una «lotta di liberazione», una parodia idiota e criminale di ciò che la socialdemocrazia tedesca avrebbe invece dovuto fare realmente sotto Gugliemo II, Hindenburg e Hitler. Fu, sul fronte sbagliato, battaglia nel momento sbagliato, di soldati sbagliati contro un antagonista sbagliato. E, nonostante tutte le folli storture, venne voluttuosamente trangugiata dalla società: era il surrogato di battaglie e conflitti, un vero e proprio cinema polit-catastrofiliaco.


L'unanimismo generale, quel muto pathos cinico da «Grande Evento» s'incrinò in un sol punto. Ci fu il foglietto di un sedicente «Mescalero», abbastanza ingenuo da credere che simili convenzioni del silenzio potessero venire trasgredite, insieme alle annesse ambivalenze, ponendole, con onestà, in discussione. Questo «Mescalero» parlava - con formulazioni che furono poi catapultate dai media dentro milioni e milioni di orecchie - di una klammheimliche Freude, ossia di una «gioia strozzata in gola», stato d'animo in cui egli si sarebbe sorpreso (già) ai tempi dell'assassinio Buback: poi, però, in seguito, avendo riflettuto sulle implicazioni morali di quanto provava, il «Mescalero» se ne sarebbe distanziato. Costui, dunque, aveva provato spavento per se stesso e voleva ragionare di questo spavento. Ma con l'esplodere del «caso mass-mediologico» le ambivalenze collettive si scaricarono in una grande parata di menzogne. Sarebbe stata un'ottima occasione per apprendere e non più rimuovere che la società era entrata nuovamente in una fase prebellica: apparentemente risoluta a dilazionare ogni conflitto che tocchi il sentimento vitale fino al momento in cui il conflitto esterno renda del tutto superfluo l'incontro con la realtà interiore. Il balletto di rettifiche, vibrate proteste, rimproveri e indignazioni fu un cartaceo trionfo della seriosità sull'onestà di chi aveva detto - per molti se non per tutti - l'altra parte del vero. Da allora sappiamo il fruscio che ci faranno negli orecchi le veline di quelli che, rivestendone la competenza istituzionale, verranno a dirci della loro costernazione, della loro mortificazione e della loro risoluta contrarietà alla guerra. Una volta scoppiata.


 


 


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FORTUNA SFACCIATA


La sfrontatezza - ricordo del diritto alla felicità - ha ancora una chance? L'impulso kinico è davvero morto lasciando al solo cinismo una prospettiva, per quanto letale, di futuro? L'illuminismo — la concezione secondo cui sarebbe ragionevole esse? „re felici - può ancora reincarnarsi nella nostra fosca modernità? Insomma: siamo sconfitti una volta per tutte oppure, a questo crepuscolo cinico, fatto di dure realtà e moralismi utopici, seguirà un nuovo rasserenamento illuminista?


Alludo al sentimento dell'esistenza di civiltà nuclearmente munite, che traversano una profonda crisi della vitalità, una crisi senza precedenti storici. L'apice della generale inquietudine si percepisce più acutamente in Germania, il paese che ha perso due guerre mondiali e il cui fiuto ci può indicare con grande sensibilità come ci si sente a vivere tra due catastrofi.


La modernità, in questo suo sentimento vitale, perde la distinzione tra crisi e stabilità. Non s'intravvedono fatti vissuti positivamente, sentimenti di un'esistenza prosperante in un vasto, stabile e inesauribile orizzonte. V'è invece un sentimento di provvisorietà, di astrattezza speculativa, eventualmente di progetto a medio termine che sottende a ogni strategia, pubblica o privata. Persino gli ottimisti per complessione citano ormai Martin Lutero che non avrebbe trascurato di piantare virgulti neppure a sapere che la fine del mondo avrebbe avuto luogo il giorno dopo.


I tempi delle crisi croniche esigono che la volontà di vivere dell'uomo sappia mettere in conto una perenne incertezza quale sfondo immutabile di ogni possibile conato di felicità.


Poi scocca l'ora del kinismo, Lebensphilosophie della crisi. Solo in hoc signo resta possibile una felicità nell'incertezza. Il kinismo t'insegna a limitare le pretese, t'insegna l'eclettismo, la presenza di spirito, l'obbedienza al comando dell'istante.


«Noi viviamo, wir leben», 1945.


Esso sa che l'attesa di lunghe carriere e la difesa di posizioni socialmente abbienti finisce di necessità con l'intrappolarti in un esserci «come cura». Non è un caso che Heidegger nel suo Sein und Zeit (uscito nel 1927) disveli la Sorgestruktur, la «cura» come «struttura» dell'esistenza: erano i giorni della labile Repubblica di Weimar. Ma codesta «cura» assorbe e prosciuga, estinguendo ogni motivazione alla felicità. Chi vuole tener fermo all''eudaimonia dovrà perciò apprendere, secondo il modello kinico, a spezzare il dominio della «cura». La coscienza presociale si vede esposta dai temi della «cura» a una agitazione ininterrotta. Essi producono un'illuminazione soggettiva della crisi, cui anche i benestanti finiscono per aderire con mentalità di naufraghi. Mai si era verificato che esseri umani così ben premuniti fossero preda di sentimenti naufragi ci così cupi.


Questa turba diffusa della vitalità, quest'intorbidarsi del sentimento vitale fanno sfondo generalissimo alla demoralizzazione dell'illuminismo. La «cura» oscura in modo così fitto e continuo l'esistenza da rendere socialmente implausibile un pensiero della felicità. Il presupposto atmosferico dell'illumi nismo - lo schiarimento, il rasserenamento - latita. Chi, come Ernst Bloch, parlò di un «Principio Speranza» (condizione climatica a priori di ogni illuminismo possibile è uno sguardo nel cielo sereno), doveva essere in grado di ritrovarla, questa speranza, almeno dentro di sé; e il fatto che Bloch ne sia stato capace, lo contraddistingue dalla corrente principale dell'intelli ghenzia europea. Anche quando tutto si fece oscuro, egli seppe mantenere il mistero privato del rasserenamento: fiducia nella vita, flusso libero dell'espressione, fede nel suo dispiegarsi.


Con grande forza seppe riscoprire nella storia umana quella «corrente di calore» che egli stesso serbava in sé. Ciò conferì al suo sguardo una luce ottimista, più di quanto le cose non meritassero. Quella «corrente di calore» è ciò che lo separa in modo così netto dallo spirito dei suoi tempi. L'intellighenzia __ restò quasi totalmente preda della corrente ghiacciata della demoralizzazione generale; anzi: quanto a disfattismo e disorientamento, gli intellettuali eccelsero. Nessun essere umano potrà mai persuadersi a credere nello «spirito dell'utopia» o nel «principio di speranza» ove non scopra in sé esperienze e motivi capaci di conferire senso a tali espressioni. Ma quale costituzione esistenziale esprimono l'utopia e la speranza? È l'«insoddisfazione congenita» di cui alcuni dicono? La speranza blochiana - come pur si sostiene - configura dunque un costrutto di ressentiment? Credo che - ponendo la questione in questi termini - non si ascolti con sufficiente attenzione la novella di questa «corrente di calore». Quello che Bloch aveva da dire non è il «No» come principio. La speranza in quanto principio è sinonimo di «biofilia», per dirla con Erich Fromm; è una cifra di creativa dedizione alla vita. In essa il vivente dà seguito a un inderogabile licet di esistere e di divenire. Qui sta, in Ernst Bloch, la radice della sua contraddizione con l'imperante mentalità della cura e dell'autoinibizione.


L'autoinibizione è il sintomo che forse più di ogni altro caratterizza, tra le stanche colonne dell'illuminismo, quanto resta dell'intelligenza «critica». L'autoinibizione sa di trovarsi tra due fuochi: dovendo da un lato resistere a un cinismo tardo capitalista elevato a sistema; intimorita, dall'altro lato, anche dalla radicalità di chi molla tutto, cercando nuove vie, voltando le spalle, emigrando. In questo stato di cose, è grande la tentazione di difendere la propria identità con una forzatura moralista. (1) Ma nel moralismo, il nostro stato d'animo viene consegnato, mani e piedi, all'iperserietà e alla depressione.


Perciò la scena dell'intelligenza critica è popolata di figure aggressive e depresse: moralisti, problematici, problemadipendenti e dolci rigoristi, per i quali il «No» è impulso esistenziale dominante. Da questo versante non ci si può attendere che la picchiata esistenziale venga corretta.


È di Walter Benjamin l'aforisma: «Essere felici vuol dire potersi intuire senza terrore e sgomento». (2) Donde viene questa nostra disposizione al terrore? Terrore adombrato, io penso, dal moralismo e dal «No», i quali insieme paralizzano la capacità d'esser felici. Dove c'è moralismo, domina il terrore, necessariamente; e il terrore, lo spirito dell'autoripulsa, esclude ogni felicità. La morale conosce bene le sue mille e una idee fisse su come noi o il mondo dovremmo essere e non siamo.


Dal moralismo, sia pur di sinistra, promanano alla lunga effetti irrealistici e spastici. Quello che nell'illuminismo nuovamente si manifesta è forse proprio un'arcaica tradizione cristiana d'infelicità con lo sguardo perennemente attratto da tutto quanto possa intendersi a mo' di prova a favore della negatività dell'essere. E in quest'ambito il materiale è talmente copioso che, vita natural durante, i moralisti ne avranno d'avanzo.


Così, tra moralismo e amoralismo, (3) le parti appaiono curiosamente invertite. La prima - sebbene così ragionevolmente illuminata - incentiva il clima della negatività; la seconda che pur si presenta vanesia o malvagia - eleva in modo del tutto straordinario i nostri pensieri morali. Questa buona luna amoralistica dovrebbe attrarre noi illuministi sul terreno precristiano del kinismo. Ma tant'è: siamo giunti a tal punto che la nostra felicità ci appare politicamente deplorevole. «Felicità:


1 Anche Iring Fetscher - nel suo Reflexionen über den Zynismus als Krakheit unserer Zeit in AA.VV., Denken im Schatten des Nihilismus, A. Schwan, Darmstadt 1975 - ha richiamato l'attenzione sul fatto che gli intellettuali, nel tentativo di scansare il cinismo, divengono facilmente soggetti a ipertensioni morali.


2 Walter Benjamin, Einbahnstrasse, Frankfurt a.M. 1969, p. 59 (Strada a senso unico, a cura di G. Agamben, Torino 1983).


3 Riprenderò il problema dell'amoralismo in modo più sistematico nella sezione fisiognomica intitolata «Galleria di cinici», discutendo le figure del Grande Inquisitore e dell'heideggeriano «Si» impersonale. (Cfr. anche KzV, «Mephistopheles oder: Der Geist, der stets verneint, under der Wille zum Wissen», pp. 330-344).


ultimo delitto», con queste parole Fritz J. Raddatz (1) ha intitolato la sua entusiastica recensione a Abtotungsverfahren, il libro (piuttosto morbido) che Günther Kunert (2) ha pubblicato nel 1980. Si potrebbe dire anche: «Felicità: ultima sfrontatezza!».


Nella felicità sta il cardine d'ogni principio di sfrontatezza.


Qui è la misura di sfrontatezza che ogni illuminista deve potersi permettere se vuol rendersi degno del nome. Non tanto le nostre teste sono ciò su cui l'illuminismo deve svolgere il proprio lavoro, ma piuttosto i cupi egoismi, le glaciazioni dell'identità.


Lo stato di demoralizzazione dell'intelligenza critica può contrassegnarsi con il fatto che per essa l'intero ventaglio della biofilia e dell'affermazione di sé altro non sarebbe se non «narcisismo». Il quale, se già appare di per sé una costruzione discutibile, diviene qui, nelle mani dei conservatori, un cuneo mediante il quale condurre opera di psicologizzazione antilluminista contro le tendenze sociali all'autoconsapevolezza.


Tanto interessante e ben accetto il fenomeno narcisista, se è patologico, quanto ci appare sospetto ove invece incarni la salute. In quanto «patologia generale» esso nella società funge da dinamo psicologica, per le persone molto insicure, bisognose di conferme e ambiziose, avide di beni, egoisticamente interessate e moralisticamente tese ad apparire migliori degli altri.


Una sana affermazione «narcisistica» di sé riderebbe in faccia agli affronti di società imbronciate come la nostra.


Il grigiore più inquietante fa da sfondo a un'epoca che da lungo tempo ormai sogna nuovamente un bel botto colorato...


Quel che rende necessari (e ispira) certi sogni è una somma di incapacità vitali. La psicologia sociale illuminista, tanto brava, la imputa all'«incapacità di avere fiducia». Tuttavia non


1 Pubblicista, prima in Germania orientale (nato a Berlino nel 1931), poi trasferitosi (nel 1958) nella Repubblica Federale, direttore dal 1977 al 1985 della redazione culturale del settimanale «Die Zeit», autore di varie biografie (ben note in Germania quelle su Tucholsky, 1961, Marx, 1975, e Heine, 1977), nonché di saggi tra cui Revolte und Melancholie (1979) e Kuhauge (1985).


(n.d.t.)


2 Noto poeta e scrittore tedesco, nato nel 1929 a Berlino, trasferitosi in Germania occidentale nel 1979. Autore tra l'altro di Wegschilder und Mauerschrìften (1950), raccolta di poesie tese a un approfondito confronto con l'epoca nazionalsocialista. Narratore propendente all'ironia e alla satira, di stile tagliente e intellettuale, ma anche autore di soggetti cinematografici e di libri per l'infanzia, (n.d.t.)


di questo soltanto si tratta. Più ancora, o quasi, è causa di ciò l'incapacità di una rabbia giusta al momento giusto, l'incapacità di esprimersi, l'incapacità di far saltare il clima di «cura» preoccupata, l'incapacità di far festa, di avere fervore, dedizione, passione... Tra tutte queste preoccupazioni c'è ancora una superstite capacità, tendente a una vita dello status quo, senza più vie di scampo: è la capacità di lavorare, con pretesti seriosissimi, in situazioni in cui inevitabilmente tutto salterà in aria, grande effetto spettacolare, senza che nessuno abbia, beninteso, a sentirsene colpevole. La catastrofe ci riscalda, in essa resta indurito un Io in attesa della sua ultima festa, che sopraggiungerà con le sue braci a viluppare sentimenti e impulsi troppo lungamente attesi.


Qualche anno fa il leader degli Stranglers, un gruppo punk inglese, aveva festeggiato, in una frivola intervista, la bomba al neutrone come colei alla quale finalmente riuscirà di «dare una mossa» alla guerra nucleare. Miss Neutron, I loveyou. Ecco il punto in cui il kinismo di chi protesta diventa indistinguibile dal cinismo dominatorio dei Grandi Strateghi. Quel punk voleva dire: «Vedete quanto posso essere perfido?». Il suo sorriso mi sembrò civettuolo, disgustato, ironicamente suicida... Come in sogno, quel piccolo folletto punk, maligno e leggiadro, traversava il video parlando per quelli che l'avrebbero capito; capace di scivolare sul mondo con parole inaudite. È il linguaggio di una coscienza che un tempo forse non era tanto incarognita. Però ora che lo show lo richiede, essa non è solo infelice: ma vuole esserlo. E così si fa passare addosso ogni miseria. L'ultima libertà viene impiegata volendo l'orrendo. E un Grande Gesto, col pathos del repellente ecc.: sfrontatezza disperata, da cui scocca, però, una scintilla di vita autentica. In ultimo, questa coscienza potrebbe anche chiamarsi fuori (la guerra, la merda, e tutto il resto sarebbero insomma gli altri a farlo). Mentre loro, questi begli automutilatini, sanno benissimo come si ruggisce sopra le omertose righe delle cosiddette persone serie. Tutto è merda, Miss Neutron, I love you. C'è un rimasuglio di genuinità nell'autodistruzione esibita: lo choc simbolico. Il che, in costoro, appare persino apprezzabile. Nel kitsch intellettuale, nello show cinico, nello sprint isterico e nella entrée folle, la mortale armatura si rilassa, e si rilassa anche l'Io bravo e selvaggio: Rocky Horror Picture Show, ghiaccio bollente, un feeling mortale di fame di sé...


 


 


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MEDITAZIONE NUCLEARE


 


Giunti sin qui, dobbiamo pensare più oltre. E presupporre che centralità e marginalità si rispecchino più profondamente di quanto un primo sguardo non sveli. In superficie lo stile di vita dei punk, per esempio, e quello dell'establishment ci appaiono estremi inconciliabili. Eppure essi nel nucleo si tangono. Sono eruzioni ciniche che vengono proiettate in cielo dall'incandescente catastrofilia della nostra civiltà. Un approccio intelligentemente filosofico ai fenomeni non deve perciò bloccarsi a quanto di soggettivamente eccessivo essi manifestino, ma muovere, piuttosto, dagli eccessi oggettivi.


Oggettivamente eccessiva è la dismisura d'infelicità strutturale caratterizzante il nostro modo di vivere, anche durante le fasi di saturazione e gli intervalli interbellici. Conclusa la seconda guerra mondiale, gli arsenali sarebbero a malapena bastati all'estinzione plurima d'ogni terrestre; la vis destructiva di una terza guerra risulterebbe cento e mille volte maggiore. E questa traboccante potenzialità mortifera pare divenuta l'ultimo fattore di sviluppo della storia. Gli apparati di distruzione sono i veri soggetti dell'attuale fase di sviluppo. In essi si convoglia - nel Primo come nel Secondo Mondo - una porzione mostruosa di lavoro collettivo. Tutto ciò è palesemente assurdo. Ma non è questo il nostro tema...


Compito della filosofia è porre, di fronte a queste dure realtà, alcune domande puerili. Perché gli esseri umani non si sopportano? Cosa li costringe a nuclearizzarsi vicendevolmente?


Il filosofo è quell'animale capace di accantonare l'incallito, assuefatto e cinico «uomo contemporaneo» il quale in due o tre battute chiarirebbe senz'altro le ragioni per cui ogni cosa procede nel modo in cui procede senza che le buone intenzioni, del resto, possano farci nulla. Il filosofo deve dare un'opportunità anche al bambino, «ancora incapace di capire», che ha in sé. Codesto bambino, infatti, «ancora incapace di capire», può porre, forse, le domande giuste.


Tutte le guerre, prese alla radice, sono conseguenze del principio di autoconservazione. Nella concorrenza tra raggruppamenti politici la guerra è valsa da sempre quale mezzo per affermare o difendere l'entità, l'identità e il modus vivendi di un dato raggruppamento sociale contro la pressione dei rivali.


I realisti - da tempi immemorabili - hanno sempre messo in conto una sorta di diritto naturale alla legittima difesa per i singoli e alla difesa bellica per i raggruppamenti aggrediti. È appunto la morale dell'autoconservazione a legittimare la revoca bellica della morale. Chi si batte per la propria vita e le proprie forme d'organizzazione sociale viene collocato da ogni mentalità realistica al di là dell'etica del tempo di pace. Ove la propria identità sia minacciata, il «Non Uccidere» viene destituito di validità. Ciò che in tempo di pace rappresenta un tabù fondamentale diventa, in tempo di guerra, il compito; anzi: si onora la massimizzazione dell'omicidio alla stregua di una bell'impresa.


Nondimeno, tutte le etiche belliche moderne hanno eliminato la figura dell'eroe aggressivo perché in contrasto con la giustificazione difensivistica della guerra. Gli eroi moderni voglion tutti essere dei puri soccorritori: Eroi della Legittima Difesa. Le componenti aggressive primarie vengono totalmente rimosse: il militare si presenta come una sorta di defensor pacis e anche l'aggressione viene sussunta a mera variante della difesa. La quale resta, quindi, il concetto-genere dell'intero quadro di relazioni militari. Il difensivismo altro non sarebbe, dunque, se non il corrispettivo militare del concetto filosofico di autoconservazione. E quest'ultimo conduce così all'autosconfessione di ogni ordine morale, che - anticipando l'emergenza bellica» - procede nell'escalation a gran bracciate, senz'illusioni, in un'etica-a-stile-libero.


Considerate ad esempio i torbidi anni della guerra fredda e tale smisurata proliferazione delle «difese» vi salterà agli occhi. L'Oriente e l'Occidente, i Giganti della Difesa, si fronteggiano, armati fino ai denti. Per potersi difendere, ciascuna delle due parti ha approntato strumenti di distruzione che bastano all'annientamento completo di ogni forma di vita: umana, animale e persino vegetale. All'ombra delle armi atomiche, spesso si dimenticano le raffinatezze letali della biologia e della chimica bellica. La fioritura distruttiva nelle teste degli esperti di questioni militari - sotto il profilo dell'autoconservazione - si sostanzia di un sadismo avventuroso, per quanto difensivisticamente paludato. Un sadismo che metterebbe a disagio persino degli antichi carnefici cinesi, gran virtuosi dell'altrui supplizio.


Noi qui, tuttavia, vogliamo escludere senz'altro che in alcuna delle due parti in causa, o meglio dei rispettivi vertici politico-militari, si covi qualche disegno particolarmente malvagio. Ciascuno, anzi, farà sicuramente quel che può; nell'ambito delle proprie modeste possibilità, s'intende. Pure: è l'ambito stesso ad avere le sue perfidie. Insomma: una certa forma di realismo sembra giunta ai suoi limiti intrinseci. È quel realismo difensivistico, per l'appunto, il quale ha assunto la guerra come ultima ratio dell'autoconservazione politica. Non che gli si debba, con inopinata furia retroattiva, dar ora addosso: ha pur avuto anch'esso un suo senso, svolgendo anzi utili funzioni, in buona o in cattiva coscienza. Quel che però bisogna tenere molto ben fermo è che, oggi, questo realismo da ultima ratio non ha più alcun senso.


Di tutto ciò, i fautori della «corsa agli armamenti» non mostrano comprensione che non sia puramente di facciata. Che non alberghino, in essa, sagge e assennate vedute, traspare dal doppio gioco praticato nelle trattative. I partner, mentre da un lato trattano, dall'altro fanno freneticamente procedere l'escalation; e la questione, abbastanza folle a pensarci, suona in sostanza così: è meglio la sola escalation, oppure l'escalation e la trattativa? Io affermo che su questa via non si troverà mai una soluzione. La conclusione dell'escalation - di questo passo - può essere solamente la guerra. Tale progressione difensivistica esclude ogni altra possibilità.


L'Ultimo dei Conflitti rappresenta, invero, una mera «faccenda interna» dell'umanità armata. In esso, perciò, si tratta di spezzare il principio di autoconservazione dura, insieme alle sue arcaiche o moderne ultimae rationes belliche. In verità, per quest'imprevista battaglia su questo nostro «fronte interno», per questa battaglia contro un letale realismo politico autodifensivistico, alleati potentissimi bastano appena alla bisogna; su tale fronte occorrono armi sconvolgenti, strategie terri bili e manovre astute. Ma non siamo senza speranza: i nostri arsenali sono zeppi. Tra le munizioni che possiamo mettere in campo vi è ogni pensabile mostruosità: gas nervini, flotte virali, nuvole tossiche, squadroni batterici, granate psichedeliche, cannoni orbitali, raggi della morte. Certo: non saremo proprio noi a sottovalutare le prestazioni di questi mezzi. Tuttavia il filosofo resta pur sempre fedele anzitutto alla sua vecchia fiamma: l'Atomica. Giacché lei, al mode nucléaire, ti sfida (più d'ogni altra bomba) a pacate riflessioni. La fissione (fenomeno già di per sé invitante alla meditazione) nonché l'esplosione nucleare comunicano al filosofo, oltretutto, un sentimento di contiguità con il nucleo stesso dell'umano. La Bomba incorpora la Dea Ragione: l'Ultima, la più energica. E insegna a comprendere l'essenza della scissione nucleare; chiarisce compiutamente e definitivamente a cosa porti erigere un «Io» contro un «Tu», un «Noi» contro un «Loro». In apice al principio di autoconservazione la Bomba è anche fine e superamento d'ogni dualismo. Impone alla filosofia occidentale l'ultimo compito e l'ultima speranza. Il suo stile d'insegnamento ci appare insolito, però; così cinico, greve e impersonalmente duro da ricordare gli antichi maestri zen, privi di tentennamenti anche a colpire i discepoli in faccia, con un pugno, se ciò poteva avvicinarli all'illuminazione.


La Bomba è il vero Buddha occidentale: dispositivo perfetto, distaccato, sovrano. Immobile, riposa nei suoi silos, realtà pura e pura possibilità. E' la quintessenza delle energie cosmiche e della partecipazione umana a esse, prestazione suprema dell'uomo e sua distruttrice, trionfo di razionalità tecnica e suo superamento paranoetico. Con lei abbandoniamo il regno della ragion pratica, dove si perseguono fini tramite mezzi acconci. La Bomba, lungi ormai dall'essere mezzo per un fine, rappresenta, invero, il mezzo smisurato che trascende ogni fine possibile. (1) E non potendo costituire alcun mezzo per alcun fine - quest'evento antropologico, quest'oggettivazione dello spirito di potenza agente dietro l'istinto di autoconservazione - deve trasformarsi, allora, in strumento d'esperienza di sé.


L'abbiamo costruita per «difenderci»? Ed ecco a noi, allora,


1 E una considerazione, questa, che Günther Anders espresse già un quarto di secolo fa. Cfr. Die Antiquiertheit des Menschen. Ùber die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, München 1956.


una vulnerabilità senza precedenti, compimento dell'uomo nella sua parte «malvagia» (più malvagi, difensivistici e astuti di così non possiamo davvero diventare).


È la Bomba l'unico Buddha che anche la ragione occidentale riesca a capire. Sede di calma e ironia infinite. Indifferente al modo in cui compirà la sua missione, se in silenziosa attesa o mediante una nube di fuoco. Né l'eventuale passaggio dallo stato solido a quello gassoso l'inquieta. Come in Buddha ogni cosa dicibile è detta dalla sua semplice presenza. Per nulla più malvagia della realtà, per nulla più distruttiva di quanto noi stessi siamo. Lei è solo il dispiegamento, una rappresentazione del nostro essere. Vive in perfetta armonia con il suo corpo, lei (e noi invece ancora così scissi, a confronto...). Di fronte a una tale machina machinarum ogni considerazione strategica pare proprio fuori luogo: solo ascoltare serve, ascoltare con la massima attenzione. La Bomba non sollecita in noi lotta o rassegnazione, ma esperienza di sé, questo sì. «Noi» siamo «loro».


Qui, in lei, il «soggetto» occidentale è fatto. Il nostro armamento esteriore ci rende vulnerabili fino alla debilità, debili fino alla ragionevolezza, ragionevoli fino alla paura. Resta un'unica questione: sceglieremo la via «esterna» o quella «interna»? La «Saggia veduta» ci verrà dalla meditazione oppure da mongolfiere di fuoco rannuvolantesi sopra la Terra?


Le «strade esterne» - l'abbiamo visto - per quanto lastricate di «buone» intenzioni, si raccordano tutte in una: la corsa agli armamenti. Tutte le «strade interiori», per quanto spaventosamente irrealistiche, convergono invece in una spinta reale alla pacificazione. Il moderno processo globale ci conduce a un punto a partire dal quale la politica, quanto vi è di più «esterno», e la meditazione, quanto di più «interno», parlano il medesimo linguaggio: solo la «pacificazione» serve ad andare avanti. Ogni segreto sta nell'arte di assecondare, di non opporre resistenza. Meditazione e disarmo scoprono un'affinità strategica. E ditemi se non è, questo, un esito ironico della modernità... Politica in grande stile oggi è meditazione sulla Bomba, e meditazione profonda è quella che ne cerca in noi l'impulso «costruttivo». Lavorando delicatamente alle tante calcificazioni interiori fattesi crosta di una cosiddetta «identità», la meditazione dissolve la corazza dietro cui risiede un «Io» che si percepisce difensore dei propri Valori Fondamen tali. («Noi abbiamo i valori migliori!» - dicono gli strateghi del riarmo...) La Bomba, machina maledettamente ironica, è letteralmente buona a nulla, eppure può evocare effetti, i più devastanti. Ma, quest'incarnazione del nostro Buddha, pure porta un demonio sarcastico, in sé. Sprofondando almeno una volta nella meditazione si potrà intuire cosa significhi esplodere dissolvendo ogni parte di sé nel cosmo. Lei lo può in ogni istante. Dentro, nel suo centro di gravità, si ode un mormorio come di risatine leggere, solari... Disporre scientemente di simili risorse conferisce una singolare supremazia. Nel profondo, nascostamente, lo spirito umano si sa solidale con questa sua inquietante e ironica machina solaris.


E chi aguzzasse molto bene l'udito capterebbe, qua e là, accenti di scherno e derisione. Sono, per l'appunto, le bombe. E, adesso, io dico che, se fossimo davvero abbastanza svegli per percepire il loro dileggio, dovrebbe accadere quello che, al mondo, non è mai capitato: lo scevrarsi di ogni paura nel sentimento di una distensione che infine scioglie gli spasmi arcaici del difensivismo. Good morning, Miss Neutron, how are you?-Le bombe divengono sentinelle della nostra distruttività. Destandoci sentiremo la loro voce implorante, come in epilogo ai Sonnambuli di Hermann Broch: «è la voce dell'uomo e dei popoli, la voce della consolazione e della speranza e della bontà immediata: non farti del male, che noi siamo ancora qui!»


  

CAPITOLO III

 

 

FISIOGNOMICHE UNA GALLERIA DI CINICI

 

In questa nostra galleria di cinici faranno la loro apparizione non già individui, personalità concrete, ma tipi, cioè figure caratterizzanti un'epoca o una società. (1) Passandoli in rassegna, non guasterebbe immaginarceli come statue di cera, da museo delle meraviglie e degli orrori ove si danno convegno importanti figure storiche. Incontreremo, durante questo nostro giro, anche personaggi letterari, con il cui ausilio potranno essere evidenziati i tratti archetipici della coscienza cinica.

Solo il primo, fra i tre signori che qui appaiono, visse realmente: è Diogene di Sinope, il capostipite della dinastia. I moderni saranno rappresentati invece dal Grande Inquisitore di Fèdor Dostoevskij; come altre analoghe figure della letteratura, è plasmato dal poeta nella materia della sua esperienza cinica e, quanto a plasticità, non ha nulla da invidiare a personaggi storici realmente vissuti. Le figure letterarie (si pensi anche al Faust goethiano, altro monumento al moderno cinismo) hanno in sé qualcosa d'impersonale e imperituro, somigliando, in ciò, a Diogene, del quale del resto possediamo ormai solamente immagini stilizzate, prive di quei dettagli in virtù dei quali gli individui reali si differenziano dai loro tipi ideali. La passerella si conclude con la rappresentante del mondo contemporaneo: una figura completamente senza volto, simile a tutti e a nessuno. Suo nome è il «Man», cioè i]„«Si impersonale che Heidegger polì e astrasse nel capitolo quarto di Essere e Tempo.

Il «Si» impersonale ricorda un poco quelle figure di de Chirico, manichini muniti di teste di uovo (belle lisce) di articolazioni protetiche (geometricamente proporzionate), in tutto e per tutto simili a esseri umani, ma solamente «simili» appunto, in quanto a loro manca ogni «carattere proprio».

1 Cfr. anche KzV, I, pp. 319-344.

Ci tratterremo, in questa galleria storica, quanto più brevemente possibile, anzitutto perché in un museo ci si stanca presto e in secondo luogo perché le questioni di principio possono esplicarsi in base a pochi esempi. Di diritto, durante la nostra ispezione, dovrebbero comparire anche: Aristofane, Antistene, Crate, François Villon, Rabelais, Machiavelli, Eulenspiegel, Castruccio Castracane, Sancho Panza, il Nipote di Rameau, Federico II di Prussia, Sade, (1) Talleyrand, Napoleone, Büchner, Grabbe (giudicato da Bùchner il più significativo precursore del moderno dramma tedesco), Heine, Flaubert, Nietzsche, Cioran... e molti altri ancora. Alcuni di costoro menzionerò in vari luoghi di questo libro. Mentre ai cinici tedeschi del XX secolo è indirettamente dedicata l'intera parte storica. (2)

Associamoci dunque al nostro cicerone, che non sa reprimere, a fronte delle singole figure, alcune erudite annotazioni sul significato storico dei signori passati in rassegna. A proposito di codesto guardiano di museo, si noterà che costui ha un debole per la filosofia, appartenendo a quel genere di persone che di lor scienza non fan mistero. D'ora in poi occorrerà stringere i denti e tener duro: costui vuole realmente insegnarci qualcosa... In fede mia, non c'è niente di peggio di una guida turistica decisa in tutta serietà a istruire i visitatori. A un tale dilettante certo mancherà quel tipico timore reverenziale che invece ha il filosofo di professione al cospetto della Filosofia. Coraggio, dunque. Non abbiamo forse riportato salva la pelle da ben altri tentativi di renderci migliori? Allons!

 

1 A propos di Sade: l'enorme interesse suscitato dal Divin Marchese presso gli intellettuali tradisce il progressivo crepuscolo che spinge il cinismo borghese a riconoscersi in quello tardo-aristocratico. Può anche darsi che tra poco il posto di de Sade verrà preso da Flaubert...

2 Cfr. qui cap. VII. Cfr. anche KzV, vol. II, pp. 697-927 («Historisches Hauptstück»).

 

 

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DIOGENE DI SINOPE: UOMO-CANE, FILOSOFO, BUONANNULLA

 

Una volta egli chiamò forte: Oilà, uomini!

E, quando quelli accorsero, li prese a bastonate e a male parole: avevo detto uomini, non schifezze!

Approssimarglisi con un sorriso comprensivo equivarrebbe già a un fraintendimento. Diogene, che ci sta ora innanzi, non è affatto una botte con dentro un sognatore d'idilli: è un cane.

E, se gli va, vi morde. (1) Appartiene alla genìa di quelli che abbaiano e mordono simultaneamente, senza attenersi al proverbio. Il suo morso nella polpa dei valori tenuti in maggior considerazione dalla civiltà ateniese andò tanto a fondo che, d'allora in poi, nessun satirico fu più preso sul serio. Il ricordo delle morsicature di Diogene appartiene alle più vivide impressioni che il mondo antico ci abbia trasmesso. L'intesa umoristica che alcuni borghesi inclini all'ironia credono di poter avere con Diogene si basa pertanto su un fraintendimento banalizzante. Certo: vi è nel cittadino un lupo, imprigionato, in-, cattivito, che simpatizza con il filosofo mordace. Ma quest'ultimo, nei propri simpatizzanti, vede anzitutto il cittadino... e morde, senza remissione. Teoria e prassi sono imprevedibilmente intrecciate nella sua filosofia, e non vi è spazio in lui per consensi meramente teorici. Né l'imitazione meramente pratica potrebbe incontrarne il favore. La giudicherebbe un comportamento stupido. Lo impressionano solo caratteri a lui congeniali quanto a presenza di spirito, combattività, desta attenzione e senso d'indipendenza esistenziale. Il suo suggestivo successo poggia non da ultimo sul fatto che questo insegnante non tollerava allievi imitatori. Fu simile, in ciò, ai mae 

1 «A quelli che mi danno un regalo io scodinzolo, a quelli che non mi danno niente io abbaio, e i furfanti, quelli li mordo», D.L., VI, 60.

stri zen giapponesi, la cui efficacia viene da un insegnamento privo d'insegnamenti. Del suo aspetto non potremmo oggi farci idea alcuna né potremmo rappresentarci l'effetto che esso produceva sull'ambiente ateniese, se non ci fosse, anche ai nostri giorni, una feccia giovanile, svaccata e repellente. Diogene è uno di loro, un tipo selvaggio, spiritoso e astuto. Connotato costante dell'immagine trasmessaci dall'antichità è che il kinico debba essere un nullatenente. Condizione, questa, spesso determinata dall'origine familiare e, quindi, dapprima involontaria, ma in seguito (colmo dei colmi) accettata, anzi: voluta e ribadita (e questo induce in noi una sovrana impressione).

Tutto quel che possiedono, i kinici se lo portano addosso. Per Diogene e i suoi ciò vuol dire: un mantello parapioggia, buono per ogni stagione, un bastone, uno zaino contenente i pochi averi (tra cui forse uno stuzzicadenti), un pezzo di pomice per le pulizie personali, una borraccia di legno; i piedi calzeranno semplici sandali. Tale abbigliamento, se scelto da un libero cittadino, aveva un che di scandaloso, soprattutto in quell'epoca, in cui in Atene pareva disdicevole farsi vedere in giro senza servi di compagnia. Che poi Diogene portasse la barba è cosa addirittura ovvia, sebbene, più che una semplice «barba», la sua fosse il lascito di una sciattezza pluridecennale. (1)

Il fascino di Diogene sul suo mondo non fu questione di estetica. L'aspetto disordinato non dice molto, essendo noto peraltro che le puttane ateniesi di rango elevato riservavano a questi barbuti filosofi delle piacevolezze (gratis) che gli altri barboni potevano giusto sognarsi. Tra Diogene, Lais e Frine (due star tra le etere della capitale attica) vigevano leggi del dare e dell'avere che sfuggivano alla comprensione del normale cittadino uso a ricevere tutto solo dietro pagamento.

Il termine di «asceta» sarebbe nel nostro caso fuori luogo tanto è fesso il suono che un millenario fraintendimento masochista ha conferito alla «ascesi». Da questa parola, per ritrovarne il significato originario, dovremmo poter eliminare ogni connotazione cristiana. Privo di bisogni quale si manifestava, Diogene andrebbe piuttosto considerato come il capostipite di una tradizione di pensiero improntata all'autosufficienza indi 

1 Radersi era costume militare macedone assunto dalle società ellenistiche e romane. Ed ecco che la barba diventa status symbol filosofico, segno di non conformismo.

 

 

Diogene, Democrito e due matti intorno al globo. Dalla «Nave dei folli», 1497.

vidualista; un asceta solo nel senso, quindi, che fu fautore di ironico distacco da quei bisogni la cui soddisfazione veniva dai più pagata rinunciando alla libertà. Egli impresse un forte impulso al cinismo introducendo così nella filosofia occidentale quel nesso originario tra felicità, assenza di bisogni e intelligenza che rappresenta un connotato regolarmente riscontrabile in ogni grande civiltà nella quale agiscano correnti spirituali fautrici della vita simplex: In veste di arcaico fricchettone e di proto-bohémien, Diogene ha dato una sua impronta alla tradizione europea del vivere intelligente. Il suo stato di miseria spettacolare fu un prezzo di libertà (e qui non mi si fraintenda). Se avesse potuto fare il benestante senza rimetterci in in dipendenza, non avrebbe avuto nulla da obiettare. Ma nessun sapiente si fa zimbello dei sedicenti «bisogni». Diogene ha mostrato che persino il sapiente mangia le focacce, mentre potrebbe benissimo farne a meno.

Una dogmatica della povertà non è qui in discussione, ma il rifiuto di inutili gravami che ti tolgono mobilità, questo sì.

L'autolesionismo rappresenta per Diogene un sicuro indizio di stupidità, e ancor più stupido appare ai suoi occhi chi, per tutta una vita, corre dietro a ciò che ha già comunque; il cittadino lotta con le chimere dell'ambizione tendendo verso una ricchezza, in virtù della quale, infine, non realizzerà nulla di più di quanto, negli elementari piaceri del filosofo kinico, è cosa ovvia e quotidiana: stare sdraiato al sole, osservare l'animazione mondana, compiacersi e non aver nulla da attendere.

Poiché Diogene apparteneva ai filosofi della vita - i quali prendono la vita più seriamente della scrittura - si capisce che di lui non si conservi un solo rigo autentico. In compenso la sua immagine è circonfusa da un alone aneddotico, che è a sua volta segno di un'influenza su contemporanei e posterità ben più eloquente di qualsiasi scritto. Se poi egli abbia composto alcunché di simile a una «Politica» o alle parodie tragiche, che la tradizione antica pretenderebbe attribuirgli, è altra questione; il valore di Diogene non consiste in alcun caso nella scrittura. La sua esistenza si esaurisce nel turbine aneddotico da lui evocato. In questo egli si trasfigura divenendo una figura mitica. Come succederà, molto tempo dopo, al suo collega Mullah Nasrudin nel campo della satira sufi, un vortice di «storie istruttive» lo accompagna, un tumulto di episodi che documentano la sua esistenza reale. I più vitali tra gli esseri umani si impongono ai contemporanei (e più ancora ai posteri) in funzione di «figure proiettive» capaci di attirare a sé, incanalandoli in una certa direzione, il pensiero e la fantasia altrui. È come se risvegliassero nell'umanità il desiderio e il gusto di vivere una buona volta da filosofi. In tal modo quelle «figure proiettive» guadagnano non solo «discepoli», ma soprattutto esseri umani capaci di trasmettere il medesimo impulso vitale. Preda della grande curiosità che il modus vivendi di Diogene sapeva suscitare fu il maggior eroe militare del mondo antico, Alessandro il Macedone, del quale si tramanda il detto secondo cui, non fosse stato Alessandro, certo avrebbe

 

Diogene con l'«homo platonicus». G.J. Caroglio, copia di un'opera omonima del Parmigianino (1530-1540 ca).

voluto essere Diogene. Ciò per l'appunto evidenzia il niveau politico ed esistenziale sul quale il filosofo ebbe a esercitare il suo influsso.

Tentando di esprimere le vedute di Diogene in lingua moderna si va inevitabilmente a parare nell'esistenzialismo. Ma Diogene non parla di Esserci, Decisione, Assurdità, Ateismo o quant'altre parole d'ordine in uso tra esistenzialisti. Quel gran kinico ironizzava sui suoi colleghi filosofi prendendosi gioco delle loro fantasmagorie problematiche non meno che di ogni fideismo concettuale. Il suo esistenzialismo non riguarda in prima linea la testa, non percepisce il mondo né come tragedia né come assurdità. Non vi è la benché minima traccia di quella melancholia gravante sugli esistenzialisti moderni. L'arma, qui, è non tanto l'analisi quanto la risata. Le competenze filosofiche servono a Diogene per canzonare i colleghi «seri». Antagonista della teoresi, del dogmatismo e della sclerosi di scuola, egli lancia un segnale ben percepibile ovunque esistano pensatori impegnati nella realizzazione di una «conoscenza per uomini liberi» (cioè liberi anche da vincoli di scuola) e, così facendo, inaugura una galleria immaginaria in cui potrebbero, del resto, annoverarsi anche nomi moderni, e contemporanei quali, ad esempio: Montaigne, Voltaire, Nietzsche, Feyerabend e così via: una corrente del pensiero filosofico tesa al superamento dell'Ésprit de sérieux. In che modo debba intendersi l'esistenzialismo di Diogene, è proprio l'aneddotica a illustrarlo meglio di ogni altra cosa.

Proprio perciò, proprio perché l'insegnamento kinico viene tramandato «solo» mediante aneddoti, è grande il rischio di sottovalutarne il contenuto filosofico. Persino spiriti magni, della statura di Hegel e Schopenhauer, sono incorsi (e come) in questo rischio: riandando alle loro esposizioni di storia della filosofia lo si vede bene. Soprattutto Hegel fu sordo al portato teoretico di una filosofia che vedeva l'ultimo compimento della saggezza sulle questioni decisive della vita nel non possedere teoria alcuna assumendo invece, con mente desta e animo sereno, l'azzardo dell'esistenza. (1)

 

1. La leggenda narra che il giovane Alessandro di Macedonia, incuriosito dalla fama di Diogene, si pose alla ricerca di costui. Lo trovò che prendeva il sole, pigramente supino, forse nei pressi di un campo ateniese di atletica (altre fonti lo dipingono invece intento a ordinare degli scritti). Il giovane sovrano, intendendo provare la propria magnanimità, concesse al filosofo di esprimere un desiderio. Sembra che la risposta di questi suonasse però: «Toglimiti dal sole». (2) Ecco forse il più

1 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke, vol.

XVIII, Frankfurt a.M. 1971, pp. 551 sgg.

2 Secondo un'altra tradizione la storia è spostata a Corinto. Le fonti sono povere e frammentarie. Perciò si vorrebbe vagliare sull'aurea libra della filo noto fra tutti gli aneddoti filosofici dell'antichità, e non a torto: chiarisce in un sol colpo cosa intendessero gli antichi con il termine sapienza: non tanto un sapere teoretico quanto uno spirito regale, inseducibile. Il sapiente conosceva al meglio gli azzardi del sapere celati nella tossicomania teoretica. Questi attirano fin troppo facilmente l'uomo d'intelletto sulla strada dell'ambizione, ove egli sarebbe portato a esercitare astratti riflessi mentali, piuttosto che condurlo su quella dell'arte di bastare a se stesso. Ulteriore fascino deriva, poi, al nostro aneddoto per l'evidente emancipazione del philosophus dal politicus. Qui il sapiente non è - come nel caso del moderno intellettuale - un complice dei potenti, egli, anzi, volta le spalle al principio di potere, all'ambizione e alla prevaricazione. (1) Diogene mostra di essere il primo sapiente abbastanza libero da dire al Principe la verità.

La risposta sfrontata rappresenta qui un negarsi non solo alla brama di potere, ma anche al potere della brama, e all'illusorietà di entrambi. Potremmo, nella vicenda, congetturare la cifra di una teoria dei bisogni sociali. L'uomo socializzato ha perduto la sua libertà dacché i suoi educatori sono riusciti ad implementargli dentro desideri, progetti e ambizioni.

Tutto ciò lo separa dal suo tempo interiore, fagocitandolo in un gorgo di attese e ricordi.

Alessandro, che dalla fame di potere fu tratto sino ai confini dell'India, trovò il suo maestro in un filosofo di esteriorità inapparentissima, anzi in un filosofo al degrado. La vita non sembra proprio appannaggio degli attivisti o di mentalità troppo previdenti. L'aneddoto di Alessandro può qui connettersi alla parabola di Gesù sugli uccelli del cielo che, non seminando e non facendo raccolti, pure vivono e, anzi, ci appaiono le creature più libere del divin creato. Diogene e Gesù convergono dunque in un'ironia sul lavoro sociale quando esso travalica il necessario debordando in mera dilatazione del potere,, E ciò che per Gesù insegnarono gli uccelli, a Dio logia ogni elemento trasmessoci soppesando vocali e consonanti con la massima serietà. Tuttavia apice di ogni saggezza consiste spesso nel non assumere troppo acribicamente quanto pervenutoci: una grande chance ermeneutica della quale si farà qui uso.

1 Régis Debray - nel suo Lepouvoir intellectuel en France (Paris 1979) - riconosce che una storia della cultura con pretese di scientificità andrebbe in realtà fondata su una sociologia delle ambizioni.

gene venne da un topino, che il filosofo greco elesse a modello della sobrietà. (1)

 

2. Come l'aneddoto di Alessandro illumina la posizione del filosofo nei confronti del potente, così il famoso episodio della lanterna ne illustra l'atteggiamento verso i concittadini ateniesi. Venne, infatti, un dì che il filosofo accese il lume in pieno giorno e, vedendolo andare per la sua strada attraverso la città, qualcuno gli chiese ragione di quel bizzarro comportamento. Come si sa la risposta fu: «Cerco un essere umano». L'episodio rappresenta un pezzo magistrale della sua filosofia pantomimica. Con la lanterna quel cercatore di esseri umani non cela la sua dottrina nel complicato linguaggio dell'erudizione.

Da quest'angolatura Diogene, tra i filosofi della tradizione occidentale, ci appare filantropo quant'altri mai: divulgatore, amante della concretezza, nemico di ogni esoterismo, plebeo per nascita e per vocazione. Pure, per quanto sostanzialmente egli nel suo magistero esistenziale possa apparirci affabile, la sua etica si muta in caustico se non addirittura in misantropia, non appena si rivolga agli abitanti della polis. Già Laerzio ne sottolinea una particolare capacità di disprezzo (indizio sicuro di forte irritabilità morale congiunta a senso critico). Diogene persegue un'idea di umanità senza riuscire a reperirla in forma reale. Se vero essere umano è chi sappia dominare le proprie bramosie mantenendosi in un rapporto di vita armonica e ragionevole con la natura, ebbene: l'uomo socializzato e cittadinizzato in tutta evidenza non è né ragionevole né umano.

Anzi, davvero costui abbisogna di un lume filosofico per orientarsi nel mondo anche di giorno. Ecco dunque che, vestendo i panni del moralista, Diogene entra in scena nella parte del medico della società. Le sue durezze, le sue maniere brusche sono state da sempre assunte in modo ambivalente: veleno per gli uni, antidoto per gli altri. Quando il filosofo appare sulla scena nelle vesti del terapeuta, egli inevitabilmente attira su di sé le ire di quelli che rifiutano il suo aiuto, e, anzi, denunciano in lui il mestatore o il pazzo che, lui sì, abbisognerebbe di terapie (si tratta, del resto, di una tipologia comportamentale largamente riscontrabile anche al giorno d'oggi ogniqualvolta

1 ....il quale né cercava alcove né evitava l'oscurità né palesava alcun ardente desiderio di cosiddette leccornie. Ciò rappresentò per lui [Diogene] un suggerimento su come affrontare la sua indigenza», D.L., VI, 22. 

 

«Diogene e Alessandro». Johannes Platner, 1780.

qualcuno tenti una terapia ai meccanismi patogeni della società). Come una sorta di Rousseau ante literam, il filosofo della lanterna evidenzia la contorsione, la deformità, la morbosità dei suoi concittadini, ben lontani dal soddisfare l'immagine autosufficiente che contraddistingue l'individuo libero e che Diogene cerca di illustrare con il proprio modo di vivere. Tale immagine terapeutica viene contrapposta da Diogene all'irragionevolezza della società. E' un'immagine che serba nel suo carattere eccessivo un fondo misantropico, ma sul piano pratico agisce tuttavia in senso riequilibrante e umanizzante.

L'ambivalenza non è teoricamente risolvibile, né possiamo - a causa della distanza storica - stabilire se Diogene in quanto persona realmente esistita fosse misantropo piuttosto che filantropo, se nella sua satira si celasse più cinismo che sense of humour o più aggressione che buontempo. Voglio dire che tutto

 

Giovanni Castiglione: «Diogene alla ricerca di esseri umani».

sembra confermare in Diogene lo spirito sovranamente arguto di un filosofo della vita, il quale, per dirla con Erich Fromm, prolunga l'inclinazione biofila fino all'esercizio del sarcasmo sulle umane imbecillità. Del resto, l'illuminismo antico si è spesso e volentieri incarnato in personalità combattive, capaci di reagire ruvidamente di fronte alla «vita falsa».

Diogene fa la sua comparsa durante l'epoca della decadenza politica ateniese contrassegnando la vigilia dell'avvento macedone e l'incipiente età ellenistica. Il vecchio, ristretto ethos patriottico della città-stato va scomparendo, si allentano in tal modo i legami tra il singolo e la propria comunità. Ciò che prima sembrava essere l'unica sede per una vita dotata di senso mostra ora l'altra sua faccia. Adesso la città diviene crogiolo di costumi assurdi, vuoto dispositivo politico il cui funzionamento può essere ora osservato come dal di fuori. Chi non è sordo sente scoccare l'ora di una nuova concezione della morale e dell'uomo; non si può più essere cittadini coi paraocchi, membri casuali di una casuale comunità urbana; bisogna concepirsi come individui in un cosmo più ampio. Sotto il profilo geografico è un cosmo che corrisponde a quello del nuovo e vasto universo di comunicazioni creatosi con il dominio macedone sul mondo di allora; sotto il profilo culturale esso riflet te la grande civiltà ellenistica sorta sulle sponde orientali del Mediterraneo; sotto il profilo esistenziale è il portato di migrazioni, spostamenti, processi di marginalizzazione. Per Diogene tutto questo significa: «Interrogato sulla sua patria rispose: "Io sono un cittadino del mondo!"» (D.L., VI, 63). Cittadino del mondo, kosmopolites. Che neologismo grandioso. Un conio lessicale contenente la risposta più ardita che l'antichità abbia saputo dare alla sua più inquietante esperienza, ossia il divenir apolide della ragione rispetto all'universo sociale: il distacco dell'idea della «vera vita» dalla comunità empirica. Dal momento in cui «socializzazione», per il filosofo, viene a essere sinonimo di «belle pretese» (cioè pretese a che ci si contenti di una demi-raison culturalmente raffazzonata, e ci si unisca all'irrazionalità socialmente dominante), da quel momento in poi il rifiuto kinico si colora di utopia, e, agitando un'istanza di vita ragionevole il contestatore si chiude nel proprio guscio, al riparo dalle storture dell'oggettività. Il kinico sacrifica la propria identità sociale rinunciando al comfort psicologico che gli deriverebbe da un'acritica appartenenza politica, ma salva la sua identità esistenziale e, per così dire, cosmica. In modo del tutto individualista egli difende l'universale contro quel particulare o (nel miglior dei casi) semi-ragionevole collettivo noto anche sotto il nome di stato e società. Nel concetto di cosmopolitismo la filosofìa kinica antica trasmette alla cultura umana il suo dono più prezioso. «Unico giusto ordinamento statuale è nel cosmo» (D.L., VI, 72). Il sapiente cosmopolita, in quanto portatore di una ragione vitale, potrà lasciarsi integrare senza più riserve dalla società solo il giorno in cui questa sarà divenuta una polis globale. Fino a tanto il ruolo del cosmopolita resta inevitabilmente quello di un disturbatore; egli incarna perciò il rimorso di coscienza dell'autocompiaciuto detentore del potere e denuncia la sciagura pestifera di ogni forma di restrizione localistica.

 

3. Oggi ci può apparire più o meno fantastica la leggenda, confortata tra l'altro da ogni tipo d'immaginette illustrative, secondo la quale il nostro filosofo, per dimostrare la propria autarchia, elesse a domicilio notturno un mastello, o botte, o barile che dir si voglia. Probabilmente non si trattava né di mastello né di botte e neppure di barile nelle varie accezioni oggi in uso, ma piuttosto di una cisterna o anche di una vasca muraria per acqua o cereali; ciò che tuttavia non indebolisce affatto il senso dell'aneddoto. Orbene, quale che ne fosse la forma, decisivo è non l'aspetto concreto di quel misterioso contenitore, ma piuttosto il fatto che (nel bel mezzo dell'elegante metropoli ateniese) un uomo ritenuto sapiente vi avesse stabilito il proprio «domicilio». (Il filosofo di Sinope, tra l'altro, avrebbe dormito anche sotto il colonnato di Zeus, fornendo l'ironica precisazione che quel maestoso monumento era stato dagli ateniesi edificato per Diogene, affinché questi potesse finalmente disporre di un tetto.) Sembra che, una volta, Alessandro Magno si sia fermato davanti al recipiente abitativo del filosofo esclamando: «Oh! Mastello colmo di sapienza!».

Quel che Diogene mediante la propria condotta di vita dimostra ai suoi concittadini in epoca moderna verrebbe espresso dalla formula «regressione allo stato animale». Gli ateniesi (o i corinzi?) gli affibbiarono perciò il soprannome spregiativo di «cane»: il filosofo aveva rintuzzato le proprie pretese fino al livello di un animale domestico, sciogliendosi dalla catena delle esigenze della civiltà. Ma così facendo egli potè rovesciare lo spregio accogliendo l'insultante appellativo di «cane» proprio per designare il suo indirizzo filosofico. (1)

Bisogna pensare a questo, davanti alla quintessenza che Diogene avrebbe tratto dalla sua dottrina: «Alla domanda su quale profitto gli avrebbe portato la filosofia, egli rispose che seppur non gliene avesse portato alcun altro - ebbene almeno questo: l'esser pronto a qualsiasi vicenda del destino» (D.L., vi, 63). Il sapiente dimostra di poter vivere letteralmente ovunque, giacché egli concorda ovunque con sé e con le «leggi della natura». Un bel colpo, non c'è che dire, alla leziosa ideologia comfortalienante stile Casabella. Il che non significa necessariamente che Diogene covasse risentimento contro la comodità e i piaceri abitativi. Nondimeno, chi voglia essere pronto a «qualsiasi vicenda del destino», porrà il comfort alla stregua di un qualsiasi altro episodio passeggero. Che la questione fosse da prendersi seriamente, il filosofo poteva di fatto dimostrarlo ai suoi concittadini solo stando nel barile, giacché

1 Una spiegazione del termine «kinismo» è direttamente legata al sostantivo «kyon» (= «cane»). L'altra rinvia al «Kynosarges», il ginnasio sacro a Eracle, in cui avrebbe tenuto scuola Antistene, presunto maestro di Diogene.

 

«Quaero homines», G. Ehinger (primo Ottocento), secondo J.H.

Schonfeld.

un Diogene adagiato nel comfort non avrebbe fatto loro la stessa impressione che invece evocava questo miserabile sapiente declassato al punto zero dell'evoluzione architettonica.

Più tardi venne la Stoà, che sulle questioni di proprietà si richiamò senz'altro a princìpi cinici (kabere ut non: avere come se non s'avesse), ancorché non fosse ben chiaro il senso di tanto richiamarsi giacché pur si «aveva» (e, del resto, lo stoicismo, in generale, fu una filosofìa dei comfort). Diogene, di contro, rimase davvero un nullatenente e scosse la coscienza dei suoi contemporanei in modo tanto credibile quanto, più tardi, riuscì in età cristiana solo ai francescani. La ragione per cui Diogene irritava i contemporanei si potrebbe esprimere in un linguaggio moderno con la semplice formula: «rifiuto della sovrastruttura». Sovrastruttura in tal senso sarebbe quel che di confortevolmente seduttivo offre la civiltà per asservire gli uomini ai suoi fini: ideali, doveri, promesse di salvezza, speranze d'immortalità, obiettivi ambiziosi, posizioni di potere, carriere, arti, ricchezze... Dall'angolatura kìnica queste sono tutte compensazioni di qualcosa rispetto al cui metro Diogene risulta inarrivabile: la libertà, la consapevolezza piena, la felicità di vivere. Il fascino proprio della vita kinìca consiste in un singolare e, anzi, quasi incredibile tratto di gioiosa serenità. Gli schiavi volontari del «principio di realtà» assistono a questo spettacolo con un misto d'ira e stupore, pur affascinati dall'animazione di coloro che sembrerebbero aver imboccato la via più breve per la vita autentica evitando, per la soddisfazione dei bisogni, le lungaggini della cultura, giacché, come era solito ripetere Diogene: «divino è non abbisognare di nulla, prossimo al divino l'aver sol di poco necessità» (D.L., VI, 105). Il principio di piacere funziona, per i sapienti come per le persone normali, al medesimo modo, e tuttavia per i primi non nel senso di trarre piacere dal possesso degli oggetti, ma - al contrario — in quello di comprenderne la superfluità: rimanendo in tal modo nel continuum di una contentezza vitale. In Diogene questa piramide di piacere è evidente: in essa una forma inferiore di piacere viene abbandonata solo a favore di una più alta. Ad un tempo risiede qui il fulcro della spesso fraintesa etica kinica: (1) essa infatti potrebbe facilmente trovare adesioni in mezzo a gente di disposizione masochista, che vede nell'ascetismo l'opportunità di scaricare i propri risentimenti contro la vita. E' questa un'ambivalenza che segnerà l'intero percorso della confraternita kinica. In Diogene la serenità gioiosa parla ancora da sé. È l'enigma con cui si sperimenteranno i malati di quel fin troppo noto «disagio della civiltà», tra i quali ap 

1 Nella sua evoluzione storica il kinismo appare originariamente quasi come una corrente antiedonista, se è vero che Antistene «avrebbe preferito impazzire, piuttosto che provar piacere». Tuttavia l'autocontrollo e l'autolesionismo sono due cose ben distinte.

 

Francisco Goyay Lucìentes: «Non lo troverai!».

punto Sigmund Freud, spintosi fino ad affermare che la felicità non era prevista nel Piano della Creazione. Ma proprio Diogene, il protokynikòs, con la forza di una testimonianza vivente, può meglio di tutti confutare la rassegnazione (variante cinica blanda?) del grande psicologo viennese?

 

4. L'essenza politica dell'offensiva kinica si evidenzia in un ultimo gruppo di aneddoti che ci presentano Diogene, lo spudorato, come un «animale politico». Ora, con l'espressione «zoon politikon» non s'intende qui propriamente la nozione aristotelica secondo cui l'essere umano sarebbe un'entità sociale che solo in rapporto alla società può sperimentare la propria individualità. La parola «animale», nel caso di Diogene, va presa un poco più alla lettera di quanto la traduzione del termine «zoon» permetta. L'accento va posto sull'animalesco dell'animale, sull'aspetto e la base animale dell'esistenza umana. «Animal politicum»: in questa formulazione viene a configurarsi una piattaforma antipolitica ed esistenziale. (1) Diogene, l'animale politico spudorato, ama la vita ed esige per l'animalità una naturale dignità, senza esagerazioni e senza mortificazioni. Se l'animalità non viene né repressa né enfaticamente sopravvalutata il «disagio della civiltà» non ha chance.

L'energia vitale deve salire dal basso fluendo indisturbata: questo vale anche per i sapienti. Chi, come Diogene, ama la vita attua in sé una metamorfosi del cosiddetto «principio di realtà». Il realismo ordinario, infatti, deriva da un timoroso e acido adeguamento alle necessità che il «sistema dei bisogni» propina ogni dì all'uomo socializzato. Non va poi dimenticato che Diogene, a seguire quel che dice la tradizione, raggiunse la tarda o tardissima età superando i novant'anni; e per un filosofo della morale che riconobbe dignità al corporeo, il fattore vecchiezza depone certo a favore. (2) Ma come morì? Gli uni sostengono che si sarebbe avvelenato ingerendo un osso bovino crudo; e si può star certi che questa è la variante degli avversari, i quali sottolineano così i rischi della «vita simplex»; in ogni modo se ne può dedurre che Diogene avesse esteso anche alle abitudini alimentari la sua tendenza di critica nei confronti della civiltà opponendosi, come una sorta di dietologo naturi 

1 Laerzio afferma esserci uno scritto di Diogene sullo stato (Politeia). Come ogni altro, anche questo suo libro è andato perduto. Si può tuttavia intuire un suo possibile contenuto. L'idea dello stato mondiale, su cui culmina la successiva politologia stoica, è infatti d'origine kinica.

2 Potrebbe rivelarsi qui stimolante il confronto con la dottrina della lunga vita nel taoismo cinese. Quanto agli estremi cronologici di Diogene, G. Zekl e K.

Reich, nella loro versione meineriana del Laerzio, propendono per collocare la nascita intorno al 404 e la morte nel 323, avvenuta sembra a Corinto, dove fu anche sepolto e dove ancora Pausania (cfr. ivi, 2, 2, 4) potè visitarne la tomba, che, a quanto sostiene il Laerzio (D.L., VI, 78), era adornata con l'immagine marmorea di un cane.

sta ante litteram, alla smania di cucinare ogni cosa. Secondo invece la versione diffusa dai suoi discepoli, Diogene se ne andò trattenendo il respiro, prova eccellente della sua superiorità, così in vita come in morte.

La spudoratezza di Diogene non è cosa che si coglie al primo sguardo. Sebbene, per un verso, essa, implicando che naturalia non sunt turpia, sembri giustificarsi in termini, per così dire, di «filosofia naturalista», in realtà il suo punto di forza risiede sul versante sociopolitico. Pudore è la catena sociale più intima, quella che ci lega, prima di ogni concreta norma conscia, agli standard di comportamento generali. Ma un tal filosofo dell'esistenza non poteva contentarsi di queste sociopudicizie pavloviane. Ed eccolo allora riprendere i fili del discorso ab ovo; ciò per cui un essere umano deve davvero provar pudore non può essere stabilito in alcun modo mediante convenzioni sociali, tanto più che la società stessa sembra basata su perversioni e irragionevolezze di ogni genere. (1) Il kinico, dunque, prende allegramente congedo dall'incarnita tutela del comune senso del pudore, con relativi comandamenti. Infatti, i costumi morali - pudiche convenzioni incluse - potrebbero poi in realtà rivelarsi assurdi o perversi; e allora: solo un controllo ispirato ai principi della natura e della ragione potrà fornire basi sicure. L'animale politico rompe con la politica del pudendum. Mostra come gli esseri umani, di norma, provino pudore per le cose sbagliate, per la loro physis, per il loro lato animale, che è innocuo, mentre restano intatti comportamenti irragionevoli e orribili come l'avidità, l'ingiustizia, la crudeltà, la vanità, la prevenzione e la cieca follia. Diogene rovescia questa prospettiva. Norme assurde? Letteralmente egli ci caca su. In pubblico, dinanzi agli occhi di tutti gli ateniesi egli sbrigava ogni faccenda «sia per quanto concerne Demetra, che per quanto concerne Afrodite» (D.L., VI, 69), ossia, tradotto in linguaggio moderno: cacava, pisciava, si masturbava (e, all'occasione, praticava il coito). Sulla piazza del mercato. La successiva tradizione, platonica e cristianeggiante (puntando

1 Con la formula «riconiare la moneta» ha inizio in Diogene quel che il neokinico Friedrich Nietzsche chiamerà «Umwertung aller Werte» «transvalutazione di tutti i valori: rivoluzione culturale della «nuda verità». Nietzsche, comunque, salta il punto decisivo. La svogliata indifferenza kinica verso il potere viene infatti transvalutata in volontà di potenza; ma in tal modo si cambia bandiera, consegnando ai potenti una filosofia dello scatenamento.

alla sepoltura del corpo sotto una montagna di pudore), poteva vedere in tutto ciò solo qualcosa di scandaloso: sono stati necessari secoli di secolarizzazione affinché ci si potesse riaccostare al significato filosofico di questi antichi gesti. La psicoanalisi, costruendo un linguaggio mediante il quale è possibile parlare pubblicamente di «fenomeni» genitali e anali ha fatto senz'altro la sua parte in questa riscoperta. Ma sul piano pantomimico Diogene di Sinope c'era già arrivato ventitré secoli prima. Se il sapiente è un essere davvero emancipato, lo è solo in quanto le istanze repressive interiori sono state da lui dissolte. Il «comune senso del pudore» rappresenta la causa principale dei conformismi sociali; esso costituisce, per l'eterodiretto, il punto di introiezione delle pressioni esterne. Mediante pubblica onania Diogene compì una spudoratezza votata a porlo in contrasto con i «virtuosi» condizionamenti politici di ogni sistema. Fu attacco frontale a qualsiasi politica familiare, che come si sa costituisce il nucleo primario di ogni conservatorismo. Come pudicamente testimonia la tradizione, il filosofo di Sinope - cantando la marcia nuziale a sé medesimo con le sue stesse mani - non era costretto a contrarre matrimoni per via dei bisogni sessuali. Anzi, esercitava il suo sommo magistero masturbatorio intendendo, beninteso, un progresso culturale, non certo una regressione animalesca. Del resto, se vogliamo seguire questo antico sapiente, è necessario dare spazio all'«animale», in quanto e per quel tanto che esso rappresenta il presupposto dell'essere umano. Quel masturbante felice («Ah, se, strofinando la pancia, si potesse eliminare anche la fame...») spezza l'economia sessuale conservatrice senza danno alcuno. L'indipendenza sessuale resta una delle condizioni emancipatorie più importanti. (1)

Diogene, l'animale politico, eleva la presenza di spirito esistenziale a principio; questa trova nel motto «essere pronti a tutto» la sua più concisa formulazione. In un mondo di rischi imprevedibili, dove le vicende casuali e i cambiamenti travolgono ogni pianificazione e dove i vecchi ordinamenti appaiono

1 Ed è perciò che il femminismo presenta una componente kinica originaria, anzi esso rappresenta forse il nucleo fondamentale del neokìnìsmo. Non è del tutto casuale che le donne vengano in tal senso incoraggiate alla scoperta dell'autoerotismo proprio al fine di assumere distanza dalle costrizioni matrimoniali.

via via inadeguati ai nuovi eventi, non resta, all'individuo biofilo, altra via di uscita se non appunto quell'agile formula. La politica effettivamente è quell'attività in cui occorre essere pronti a tutto; la vita sociale non rappresenta tanto il luogo della sicurezza quanto piuttosto la fonte di ogni pericolo.

Per questa ragione la prontezza di spirito diviene il segreto della sopravvivenza. Quelli che non hanno bisogno di tante cose, aumentano la propria velocità di reazione nei confronti del politico, sempreché siano costretti a vivere in epoche in cui la politica segna il destino degli esseri umani. Politica è anche la sfera in cui gli esseri umani si sfondano vicendevolmente il cranio concorrendo su questioni trascurabili. E sono proprio le «crisi» a far balenare l'intera portata dell'antipolitica kinica...

 

 

2

IL GRANDE INQUISITORE, OVVERO

LO STATISTA CRISTIANO CACCIATOR DI GESÙ

E LA NASCITA DELLA DOTTRINA ISTITUZIONALE

DALLO SPIRITO CINICO

 

 "ma" sta proprio qui! - gridò Ivan. - Sappi, novizio: l'insensatezza è fin troppo necessaria, sulla terra. Sull'insensatezza poggia il mondo e senza insensatezza mai, forse, sarebbe accaduto alcunché. E io so quel che so! (...) Oh, nel mio povero intelletto terrestre ed euclideo, io so soltanto che il dolore esiste, ma non i colpevoli; so che ogni cosa scaturisce con semplice immediatezza dall'altra, che tutto scorre e si compensa; ma, già, quest'è solo ubbia euclidea (...) Che me ne verrebbe in tasca se anche non ci fossero colpevoli, se anche ogni cosa scaturisse con semplice immediatezza dall'altra e anche se io, questo, lo sapessi! A me la vendetta serve, altrimenti mi autodistruggerei (...) Senti: se tutti dovessero soffrire per rimeritarsi con la loro sofferenza l'armonia eterna: che cosa c'entrerebbero allora i bambini?! Per qual mai ragione avrebbero da finire, essi, nel conglomerato, nel concime dell'armonia futura di chissachì?

Fèdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov

Il fosco personaggio del Grande Inquisitore dostoevskijano (1) sembra una figura del medioevo cristiano, così come il Mefistofele di Goethe funge solo in apparenza da diavolo ancor cristiano. Ma, a dire il vero, entrambi appartengono alla modernità del XIX secolo, il personaggio goethiano in qualità di esteta ed evoluzionista, l'altro in rappresentanza di un nuovo (e cinico) conservatorismo politico. Come il Faust, così anche il Grande Inquisitore deriva da una retroproiezione, nel XVI secolo, di tensioni ideologiche progressiste caratteristiche del XIX secolo; si tratta di un personaggio, insomma, che - sotto il profilo spirituale come sotto quello cronologico - somiglia a fi 

1 Cfr. I fratelli Karamazov, Milano 1989, vol. I, pp. 259 sgg. (n.d.t.)

gure come Hitler e Goebbels, Stalin e Lunacarskij più che alla realtà storica dell'Inquisizione spagnola. Non sarà un poco sventato collocare un reverendissimo cardinale della cristianità in mezzo a siffatta compagnia? Onta grave va sostenuta con forti prove. Le quali emergono dalla storia del Grande Inquisitore, com'è narrata da Ivan Karamazov. (1)

 

Il Grande Inquisitore, cardinale di Siviglia, ascetico vecchietto di novant'anni, in cui ogni vita sembra sopita eccetto un cupo baluginar di brace ancora in fondo agli occhi, divenne un giorno testimone - così Ivan nel suo «Poema fantastico» del ritorno del Salvatore. Gesù aveva appena finito di ripetere, davanti alla cattedrale, il suo miracolo di un tempo ridestando in vita una defunta fanciulla: «Egli la guarda con pietà e le Sue labbra pronunziano piano, ancora una volta, "Talitha kum"... La bimba si solleva dalla bara, si siede e si rimira intorno sorridendo con gli occhietti sgranati, colmi di meraviglia». Si direbbe che subito il vecchio ben comprenda il significato di quanto accade, ma la sua reazione è paradossale. Anziché levar un grido di osanna al Signore che è tornato, l'alto prelato Gli drizza contro un indice ossuto e ordina alle guardie di arrestare Quell'Uomo e di rinchiuderLo nei sotterranei del Sant'Uffizio. Poi, nottetempo, il vecchietto scende nelle segrete a farGli visita: "Sei Tu? ... Tu?". Ma, prima ancora di aver risposta, soggiunge di tutta fretta: "No, non rispondere, taci. Che mai potresti dire? Oh, so ben io, fin troppo bene, che cosa diresti. Ma nemmeno Tu hai diritto di aggiungere nulla a quanto già dicesti un tempo. Perché sei venuto a disturbarci? Infatti è a disturbarci che sei venuto, e questo Tu lo sai. Sai però cosa accadrà domani? Io non so chi Tu sia, né voglio sapere se Tu sia Tu davvero o solo un'immagine speculare... ma, insomma, domani io Ti giudicherò, Ti farò ardere sul rogo come il peggiore degli eretici, e il medesimo popolo che oggi T'ha baciato i piedi accorrerà domani dietro un mio cenno per cumular carboni sulla Tua pira. Lo sai Tu, questo? Già, forse lo sai...".

 

Stupiti per il comportamento del Grande Inquisitore ci domandiamo che senso abbia tutto ciò, ma una questione importantissima risulta già evidente: nel pensiero e nell'azione del vecchio non vi è la benché minima traccia di offuscamento o

1 Considereremo la questione astraendola qui dal suo contesto romanzesco.

smarrimento, né di errore o equivoco. Ciò che Gesù aveva assunto a motivo di perdono per coloro che lo crocefìssero - «costoro non sanno quello che fanno» - nel caso dell'alto prelato non vale! Egli sa quello che fa, e lo sa con una chiarezza affatto sconvolgente. Tragedia o cinismo? Orbene: se il Grande Inquisitore sa quel che fa, dovrà dunque farlo per ragioni di forza maggiore, ossia poderose abbastanza da scardinare il credo religioso da lui ufficialmente rappresentato. E infatti il vecchio le enumera, codeste sue ragioni, a Gesù; volendone cogliere il comune denominatore si può dire che tutto viene giocato sui toni di una replica «politica» del cardinale al Fondatore; ancor più nel profondo, assistiamo a un vero e proprio «regolamento dei conti»: dell'antropologia con la teologia, dell'amministrazione con l'emancipazione, dell'istituzione con l'individuo.

Il rimprovero fondamentale a Colui che è tornato l'abbiamo già potuto udire: «è tornato». A «disturbare»! In che? L'Inquisitore rinfaccia al suo Redentore di aver fatto ritorno, guarda tu, proprio nel momento in cui la Chiesa cattolica, grazie al terrore dell'Inquisizione che aveva conculcato anche l'ultima scintilla di libertà cristiana, già virtualmente poteva cullarsi nella credenza di avere portato a termine il suo compito: erigere il dominio della «vera religione». Totalmente privi di qualsiasi libertà politica o religiosa, gli uomini di quell'epoca remota erano, al contrario, persuasi di essere liberi come non mai. Non possedevano forse la Verità? E Gesù non aveva promesso che la verità ci renderà liberi? Pure il Grande Inquisitore intuisce l'inganno. Gloriandosi del proprio realismo, quale antesignano della Chiesa Trionfante, egli rivendica non solo di aver ormai compiuto l'opera di Gesù Cristo. No, non solo: rivendica anche di averla rettificata. Infatti Gesù - questo il ragionamento - non sapeva pensare in termini politici, né aveva compreso la natura politica dell'essere umano, la quale natura segnatamente consiste nella brama di potere. Scopriamo così, in questa predica del cardinale dostoevskijano al suo taciturno prigioniero, uno dei princìpi originari dell'istituzionalismo moderno, che in questo passo e forse solo qui palesa in tutta sincerità il suo fondamento intrinsecamente cinico fatto per un verso d'imbroglio consapevole e appellandosi per l'altro alla «necessità». Insomma, i potenti - secondo questa profonda, vertiginosa riflessione di Dostoevskij - la pensano nel modo che segue.

Solo pochi possiedono il coraggio della libertà rivelata da Gesù allorché - alla domanda postagli dal Tentatore nel deserto (per qual ragione non trasformasse le pietre in pani, visto che era affamato) - rispose: «Non di solo pane vive l'uomo». Solo di pochi, però, è la forza di vincere la fame. I molti, invece, rigetteranno per un tozzo di pane ogni profferta di libertà. In altre parole: gli esseri umani sono generalmente alla ricerca di sgravi, alleggerimenti, comodità, routine, sicurezze.

Sempre i detentori del potere possono fare conto sul fatto che alla stragrande maggioranza degli esseri umani la libertà fa spavento, e nessun istinto più profondo conoscono di quello che li spinge a sacrificarla erigendosi prigioni tutt'intorno e gettandosi ai piedi di idoli vecchi e nuovi. Ora, in questa che è la situazione, cos'altro dovrebbero fare i signori della cristianità, i rappresentanti di una religione della libertà? Il Grande Inquisitore percepisce la sua assunzione del potere come una sorta di sacrificio personale:

Ma noi diremo di esserTi ubbidienti e di comandare in nome Tuo.

Noi li imbroglieremo ancora: non Ti lasceremo più venire a noi. In tal imbroglio consterà il nostro tormento, giacché noi saremo costretti a mentire.

 

Eccoci testimoni di un singolare esperimento mentale, curiosamente contorto: l'incubatorio di ogni conservatorismo moderno, col suo seguito di paradossi. Il principe della Chiesa leva una sua vibrata protesta antropologica contro quell'affronto di libertà lasciatagli in dote dal Fondatore. La vita umana, caduca com'è, abbisogna anzitutto di una cornice ordinatrice fatta di abitudini, certezze, leggi e tradizioni; abbisogna brevis verbis di istituzioni sociali. Così, con cinismo al cardiopalmo, il Grande Inquisitore arriva a rimproverare Gesù di non aver sconfìtto gli incomodi della libertà, anzi: di averli inaspriti! Egli non avrebbe accettato l'uomo com'era, fosse come fosse. No, Egli, nel Suo grande amore per l'uomo, lo ha di certo sovraccaricato. In tal senso, i sopraggiunti signori della Chiesa avrebbero, loro sì, agito con la filantropia che è loro propria - per quanto infiltrata di disprezzo e realismo - e avrebbero superato in tal modo il Cristo prendendo l'uomo per quello che è: puerile e bambinesco, duttile e malleabile.

Ma l'establishment di una Chiesa governante può edificarsi solo se vi sono uomini capaci di accollarsi il peso di questo consapevole imbroglio; e questi sono per l'appunto i preti, cioè coloro i quali predicano esattamente il contrario della dottrina cristiana, che loro peraltro comprendono esattamente. Essi parlano bensì il linguaggio cristiano della libertà, ma servono il sistema dei bisogni - pane, ordine, potere, legge - che fa gli uomini mansueti. Il concetto di libertà, come il Grande Inquisitore ben sa, costituisce il cardine di ogni sistema repressivo: tanto più questo è repressivo (inquisizione ecc.), tanto più martellante dev'essere sparata nelle teste la retorica della libertà. Esattamente questa è la cifra ideologica di ogni moderno conservatorismo cui sempre sottende quell'antropologia pessimistica per la quale la libertà altro non sarebbe se non un'illusione pericolosa, un mero astratto conatus, un vaneggiale frego di penna sul carattere «legato» e necessariamente (indispensabilmente) istituzionale della vita umana. Ovunque oggi nel mondo vengano agitate teorie di libertà ed emancipazione, lì appare anche la loro antitesi che, per citare le parole del Grande Inquisitore, suona così:

... in ciò Tu hai avuto una troppo alta opinione degli esseri umani, giacché questi sono ovviamente degli schiavi, sebbene ribelli per natura. Guardati intorno e giudica Tu stesso; quindici secoli sono trascorsi ormai; va' e vedi gli esseri umani: chi mai hai elevato alla Tua altezza? Io Te lo giuro: l'essere umano è cosa più debole e bassa di quanto Tu pensassi... Nel Tuo gran rispetto verso di lui Tu l'hai trattato come chi più non ne ha compassione alcuna...

 

Questa dunque, zeppa di chiose morali, è la Magna Charta di un conservatorismo teorico e «antropologicamente» fondato; Arnold Gehlen l'avrebbe sottoscritta senza indugio alcuno.

Persino l'elemento riottoso-rivoluzionario, pur presente nell'animo umano, risulta qui conteggiato alla stregua di una costante naturale. Il Grande Inquisitore dostoevskijano parla come un ideologo conservatore di centocinquanta anni fa in vena di riconsiderare le tempeste politiche che agitarono l'Europa con l'anno 1789:

... Demoliranno le chiese e allagheranno la terra di sangue. Nondimeno - nonostante tutta la loro follia - alla fine capiranno di esse re bensì dei ribelli, ma solo dei deboli ribelli, che fatti non furon a sopportare la loro stessa ribellione... Disordine, tumulto, infelicità: questo è perciò il destino umano oggidì... (1)

 

E non è tutto. L'ultima rampicata su quelle che Zinov'ev chiamava le «sbadiglianti sommità» di una politica conservatrice cinicamente calibratissima ci sta ancor dinanzi: lì dove il Grande Inquisitore approda alla sua confessione estrema; lì dove il potere commette l'indiscrezione più svergognata e temeraria. E ciò accade per un istante di quella superiore spudoratezza in virtù della quale l'ipocrisia incarnata ridiventa verità. In bocca al Grande Inquisitore Dostoevskij spinge ora la riflessione oltre la soglia del cinismo, dove per la coscienza non più ingenua non vi sarà ritorno. Ecco allora che l'alto prelato confessa come la Chiesa - da tanto tempo ormai - abbia stretto un diabolico patto con quel Tentatore del deserto, le cui profferte di dominio mondano furono invece a suo tempo respinte dal Redentore. La Chiesa, secondo questa confessione del cardinale, è passata (a ragion veduta!) alle file del demonio, sin dai tempi di Carlo Magno, essendosi risolta a impugnare la spada del potere temporale. E da allora, quella scelta, l'ha appunto scontata in una coscienza infelice e cronicamente scissa. Nondimeno, per chi governa la Chiesa, resta fermo che la scelta doveva essere fatta. Il cardinale sa quale immane sacrificio è stato compiuto, conosce bene la causa per cui non si sarebbe potuto agire diversamente: si trattava di un sacrificio sull'altare del Futuro su cui aleggia, come si sa, lo «spirito dell'utopia». In hoc signo ci è consentita una sicura datazione ottocentesca di questa idea secondo la quale la malvagità sarebbe ammissibile purché al servizio di una «buona causa». Il Grande Inquisitore è come inebriato dalla visione di un'umanità saldamente riunita sotto l'egida del cristianesimo in forza del potere e del suo braccio secolare; sostenuto da

1 Un secolo è trascorso da quando Dostoevskij scrisse queste parole e oggi la sua riflessione sembra essersi dispiegata completamente. Cent'anni dacché, nelle tradizioni della sinistra occidentale, è iniziato un congedo d'inusitata determinazione dalla «trascendenza» e dallo «spirito (cristiano) dell'utopia». Cent'anni in cui l'intellighenzia ha sperimentato sulla propria pelle e sotto propria responsabilità il carattere ineluttabile del principio di potere e della «ragione di stato». La sinistra al potere: ecco il plesso d'intrichi moral-politici giunti a un nuovo livello di complessità.

questa visione, egli può nascondersi al suo proprio cinismo, ovvero - per meglio dire - indorarlo, nobilitarlo, trasfigurarlo in Alto Sacrificio. Milioni e milioni di uomini godranno felici, mondati di ogni colpa... e solo i potenti, vittime di quell'Alto Sacrificio che è l'esercizio cinico del potere, resteranno gli ultimi infelici!

Invero noi soli, custodi del misterioso segreto, noi soli rimarremo infelici. Esisteranno a migliaia di milioni i bimbi felici e solo centomila martiri che hanno assunta su di sé la maledizione della conoscenza del bene e del male.

 

Si potrebbero qui tratteggiare stupefacenti analogie tra Goethe e Dostoevskij; entrambi parlano di un patto diabolico; entrambi concepiscono il male come immanenza; entrambi riabilitano Satana riconoscendone la necessità. Anche il diavolo di Dostoevskij - o, per dirla sommariamente, il principio di potenza, il dominio mondano «Teil jener Kraft, die stets das Böse will, und stets das Gute schafft» - è parte di una forza che vuole il «male», ma produce il «bene»; perché, non scordiamolo, qualcosa di buono vorrebbe venire fuori infine anche dal fosco lavoro del Grande Inquisitore (ciò che l'utopia finale di costui del resto testimonia). In entrambi i casi «concludere un diabolico patto» altro non significa se non «divenire realisti», cioè prendere il mondo e gli esseri umani così come sono. E, in entrambi i casi, ciò di cui ne va, ciò con cui viene a diretto contatto chi in quel realismo s'impelaga altro non è se non... il potere; nel Faust è tale il potere del sapere, nel Grande Inquisitore il sapere del potere. Sapere e potere sono, in epoca moderna, i due modi mediante cui pervenire al di là del bene e del male e - nell'istante in cui la nostra coscienza compie il salto in questo «al di là» - una certa dose di cinismo fatalmente l'accompagna: cinismo estetico in Goethe, moral-politico in Dostoevskij, storico-filosofico in Marx, vitalistico-psicologico in Nietzsche, sessuo-psicologico in Freud. Ecco individuato il plesso di congiunzione tra cinismo e illuminismo. L'illuminismo, infatti, incentiva la disposizione empirico-realistica e, dove questa proceda senza inibizioni, si lascia a tergo i confini della morale. Pensare «realisticamente» implica l'impiego ininterrotto di un'amorale libertà senza cui non può esservi chiarezza di vedute. Scienza della realtà è realmente possibile solo con lo spezzarsi del dualismo metafisico; lo spirito che ricerca deve addivenire a una coscienza al di là del bene e del male, in grado cioè di indagare quello che accade, in modo neutrale, asciutto, scevro da pregiudizi metafisici e morali. (1)

Così il Grande Inquisitore ci appare una sorta di co-fondatore della politologia positivistica: assumere in tutta empiria l'«essere umano» dalla cui «qualitas» derivare poi quello che, quanto a istituzioni politiche, gli fa bisogno per soppravvivere.

La Chiesa è da Dostoevskij evocata a termine di esempio per tutte le istituzioni coercitive che regolano la vita sociale e per le quali potrebbero però citarsi anche lo Stato o le Forze Armate. È lo spirito di queste istituzioni, infatti, a provare orrore verso ogni sia pur pallida memoria della grande libertà protocristiana; non dunque la religione in quanto religione sarebbe costretta a bruciare sul rogo un Gesù che tornasse, ma la religione in quanto Chiesa, in quanto analogon dello Stato, in quanto istituzione; è lo Stato che teme la disobbedienza civile di cui sono capaci gli homines religiosi; sono le Forze Armate che condannano lo spirito del pacifismo cristiano; sono i padroni del vapore a spaventarsi di fronte a gente che ama, festeggia e crea, ponendo tutto ciò ben al di sopra delle sfacchinate a favore dello Stato, del Capitale, delle Forze Armate ecc. Ma - vi domanderete - il Grande Inquisitore della narrazione dostoevskijana sol per questo avrebbe arso sul rogo il «Disturbatore» Gesù? A stretto rigor di logica: sì. Ma sentiamo dalla bocca di Ivan Karamazov a quale conclusione dovrebbe giungere il suo «Poema fantastico».

 

Ecco, io chiuderei così: Il Grande Inquisitore, smesso di parlare, attende per un poco la risposta del Prigioniero. Il Cui silenzio l'opprime. Ha notato come durante tutto quel tempo il Prigioniero l'ascoltava guardandolo, in modo penetrante e placido, negli occhi; non volendo evidentemente ribattere nulla. Il vecchietto vorrebbe di contro che Costui ribattesse qualcosa, ancorché amarissima. O terri 

1 «Il mondo è tutto ciò che accade» affermerà in seguito il positivismo. Intendendo qui l'espressione «ciò che accade» in senso lato si può dire che i grandi realisti dell'Ottocento furono senz'altro dei positivisti o, quantomeno, tesero a diventare tali. «Ciò che accade» è in Marx (per dirla in generale) la vicenda delle lotte di classe; in Nietzsche la volontà di potenza; in Freud l'universo pulsionale.

bile. Invece Quello gli si avvicina e bacia il vecchietto sulle labbra bianche e novantenni. La Sua risposta è tutta qui. Il vecchietto trasale. Trema ai lati della bocca, va verso la porta, la apre dicendo: "Vattene e non tornare mai più... non tornare, mai mai più... mai più!". E Lo fa andar via verso le strade e le piazze oscure della città.

Il Prigioniero esce.

Dostoevskij si guarda bene, ovviamente, dal fornirci una soluzione univoca, certo intuendo che, in un modo o nell'altro, la partita non può dirsi conclusa. Quantomeno per un istante il prelato deve però darsi per vinto; per un secondo egli intravvede l'«altro», la sconfinata affermazione che include pure lui, senza condannarlo o giudicarlo. Il Gesù di Dostoevskij ama non solo il nemico, ma anche chi, in modo ben più intricato, tradisce e stravolge la buona novella. (1) Quale che, poi, ne sia la giusta interpretazione, l'esito del dramma mostra come Dostoevskij rilevi una tensione tra princìpi in equilibrio tra loro, due forze equipollenti, che si neutralizzano. Con questo differimento del giudizio lo scrittore di fatto si pone al di là del bene e del male, cioè in un ambito in cui altro non possiamo se non assumere i fatti così come sono, «positivamente». Le istituzioni seguono una loro propria logica, la religione ne segue un'altra; e il realista farà bene a tenerle presenti entrambe senza forzare la scelta nell'uno o nell'altro senso. In realtà dal ragionar cinico del Grande Inquisitore emerge non già una sorta di autodelazione, ma piuttosto la scoperta del fatto che il bene e il male, il fine e il mezzo risultano in qualche misura intercambiabili. Un esito, questo, che non sarà messo mai abbastanza in luce. Con esso lo slittamento nel dominio del cinismo diventa irresistibile. Perché il significato di tutto ciò è nientemeno: anche la religione può divenire strumento della politica proprio come la politica lo può divenire della religione. Ed essendo per l'appunto questo il nostro status quo, ecco che, su ogni certezza assoluta, viene a soffondersi un pallido barbaglio relativistico. Tutto diventa questione di vedute, luci, proiezio 

1 Non si tratta, è sicuro, del Gesù tramandato dalle Scritture, ma piuttosto di un Gesù dal punto di vista di Giuda; e di un Giuda in cerca di attenuanti.

Cinismo tragico teso all'elusione di una colpa insostenibile; in termini psicoanalitici Giuda può inquadrarsi nella dinamica del «parricida suicida» che può vivere senza strozzare nella sua stessa colpa a patto di reperire «i perché e percome» del suo gesto.

ni prospettiche, priorità finali. Dissoltosi ogni ancoraggio assoluto inizia in morale l'era del rollìo e del beccheggio. Nell'aldilà (del bene e del male) non troviamo affatto il radioso amoralismo favoleggiato da Nietzsche, ma piuttosto un lucore dubbio e infinito: ambivalenza come sostanza. Il male diventa un male per modo di dire: basta intenderlo come mezzo per il bene; il bene diviene un bene per modo di dire: basta intenderlo a mo' di «disturbo», di fattore istituzionalmente perturbatorio (Gesù come «Disturbatore»). Il bene e il male, considerati in senso metafisico, si compenetrano, senza soluzione di continuità. Chi è pervenuto a questa considerazione delle cose, assume un'ottica tragica, che - come si vede - è in realtà un'ottica cinica. (1)

Infatti, una volta caduta la distinzione metafìsica tra bene e male, una volta evidenziatasi la neutralità morale di ogni cosa, qui davvero ha inizio l'era chiamata modernità: un aevum ormai incapace di pensare la trascendenza morale, data l'impraticabilità di nette demarcazioni tra mezzi e fini. Di qui in avanti tutte le asserzioni sui fini (e tanto più quelle sui fini ultimi) ci appariranno «ideologie»: gli ideali e le dottrine morali di prima diverranno d'ora in poi dei marchingegni «spirituali» trasparenti, dei meri «attrezzi». Coscienze morali, sistemi di valori potranno di conseguenza studiarsi come cose: cose a statuto soggettivo. (2) Sicché la coscienza (che una terminologia posteriore riporterà alla voce «fattore soggettivo») non rappresenta più, in rapporto all'essere esterno, il «radicalmente altro», il «principio opposto», ma è anch'essa una porzione di essere, una porzione di realtà. Quindi la si può studiare, storicizzare, analizzare... e, quel che più importa: la si può usare a scopi politici ed economici. S'ingenera una gerarchia che pone da una parte gli ingenui (ipnotizzati dalla fede nei Valori Assoluti), gli ideologizzati (vittime delle «loro» idee), in poche parole: quelli della «falsa coscienza», quelli manipolati e manipolabili. Massa, la «fauna intellettuale» della coscienza falsa

1 Nel ripercorrere il concetto di cinismo ci stiamo approssimando al suo terzo livello di dispiegamento, del quale tratteremo nella sezione fenomenologica.

2 Una spinta decisiva in questa direzione ha apportato quello storicismo tendente a individuare nei fenomeni della coscienza i «prodotti della loro epoca storica»; l'opera storicistica può essere facilmente messa in rapporto a quella compiuta dallo psicologismo o dal sociologismo.

e non libera. Ne fanno parte tutti coloro i quali non possiedono la grande, libera «giusta coscienza». Ma allora, questa «giusta coscienza», chi la possiede? I suoi portatori appartengono a una ristretta élite intellettuale, composta da non-ingenui, che non si lasciano abbindolare dall'assoluto e hanno ormai superato le ideologie, distrutto ogni cieca illusione. Costoro non si possono più manipolare, la loro mente si è ormai dislocata al di là del bene e del male... Tutto dipende, ora, dall'essere (o meno) gerarchia intellettuale e simultaneamente gerarchia politica. Ci riusciranno? Nel caso del Grande Inquisitore la risposta sarebbe univoca: sì. Ma sorge un dubbio: che tutti gli illuminati, i realisti, i non-ingenui siano, in tal senso, altrettanti Grandi Inquisitori, cioè dei manipolatori ideologici e dei falsari morali usi agli abusi di scienza e conoscenza pur di dominare gli altri esseri umani ancorché a tutto e inutile vantaggio di questi ultimi? Orbene, è nel nostro stesso interesse non esigere in quest'ambito delle risposte affrettate.

Il Grande Inquisitore, s'è detto, incarna un prototipo del cinismo (politico) moderno. La sua amara antropologia gli suggerisce l'idea che l'uomo debba e voglia essere ingannato. Gli esseri umani hanno bisogno di ordine, questi abbisogna di dominio e il dominio di menzogna. Chi vuol dominare deve, coerentemente, fare un uso consapevole di religione, ideali, seduzioni e (se necessario) anche di violenza. Ogni cosa - anche la sfera dei fini - è un mezzo; il politico in grande stile dell'età moderna è un Grande Strumentalizzatore: il manipolatore assiologico per antonomasia.

Nondimeno, si può dire tutto del Grande Inquisitore, ma non che egli sia un oscurantista. Anzi, nella cornice del racconto dostoevskijano la palma del realismo va proprio a lui, che sa prescindere dalle sue stesse vedute particolari. Così la cinica loquacità favorisce l'avvicinamento al vero. Se egli fosse stato solo un impostore, certo avrebbe taciuto. Ma anche il cardinale, in fondo, pensa di operare il giusto, sia pur ponendo in opera mezzi contorti. La sua massima comportamentale somiglia al motto di Claudel: Dio scrive anche sopra a righi storti... Il Grande Inquisitore, in fondo non ha mai abbandonato la «retta via». Spinto a parlare, egli dà ragione delle sue motivazioni; e la sua confessione, per abissale che sia, rappresenta, nella ricerca della verità, un contributo d'inestimabile valore. Per vie

Il Faust-Ensemble di Amburgo durante la tournée teatrale moscovita.

Gustav «Mephisto» Grundgens incontra Boris Pasternak.

traverse il cinico dà dunque un suo obolo allo schiarimento illuminista; di più: senza il suo spettacolare strip-tease, astuto e amorale, un insieme di cose rimarrebbe qui impenetrabile. E' proprio perché possiamo ottenere barlumi della «nuda realtà» spesso solo a patto di appostarci al di là del bene e del male che nella ricerca della verità dipendiamo in larga parte dalle amorali testimonianze rilasciateci da chi tali appostamenti ha sperimentato. Da Rousseau a Freud, incrementi decisivi delle nostre conoscenze sulla vita sono stati sedimentati sotto forma di confessioni. (1) Occorre andar dietro la mera facciata per riconoscere davvero «ciò che accade». Il cinismo parla da «dietro». Da dove il pudore muore. Solamente colui che ha ormai oltrepassato il bene e il male è in grado di fornirci una buona confessione. Ma quando egli dice: «io sono così», in fondo intende dire che «così vanno le cose». I miei «peccati» in ultima analisi ricadono non già su di me, ma sulla cosa che è in me e di cui la mia peccaminosità è solo un'apparenza. Invero il mio essere malvagio costituisce solo una parte della realtà generale,

1 Cfr. KzV, pp. 549-559, «Minima Amoralia». (n.d.t.)

bene e male si dileguano in una grande neutralità. E siccome il verum è giudicato più importante del bonum, gli amoralisti, giustamente, non si sentono cattivi senz'appello: sono pur sempre al servizio della Verità, che è istanza superiore alla stessa Morale.

In tale prospettiva il Grande Inquisitore diviene figura caratteristica per un'intera epoca. Il suo pensiero risulta dominato da due motivi che, insieme, si oppongono e si presuppongono. In quanto realista e positivista egli si è lasciato a tergo il dualismo del bene e del male; ma restando pur sempre un uomo dell'utopia egli, a quell'idealismo, si tiene fermo con le unghie e con i denti. Per metà abbiamo dunque di fronte un amoralista, e per l'altra metà un ipermoralista; cinico per un verso, sognatore per l'altro; scevro sì di qualsiasi scrupolo, ma fedele nei secoli all'idea di un Bene Ultimo. Nella prassi non indietreggerà dinanzi a ferocia o infamia o inganno di sorta; ma nella teoria è invasato da ideali supremi. La realtà l'allevò a esser cinico, pragmatico e strategico; (1) però lui - nelle sue intenzioni - si percepisce come il Bene in persona. In tale biforcutezza riconosciamo la struttura fondamentale delle grandiose teorie «realiste» del XIX secolo. Tutte subordinate alla seguente coazione: riequilibrare ogni incremento di realismo (ossia di amoralismo) con forzature utopiche e moral-compensatorie sempre più violente (insomma, è come se ammassare tanta sapienza del potere e tanta potenza del sapere risultasse insopportabile a meno di non poterlo giustificare con finalità «estremamente buone»). Il discorso del Grande Inquisitore ci lascia intravedere contemporaneamente anche la fonte da cui questi fini estremamente buoni, che tutto giustificano, vengono attinti; e cioè il futuro storico. Alla fine della «storia» abiteranno la terra «migliaia di milioni di bimbi felici», moltitudine coartata all'eudaimonia, precettata in paradiso da alcuni, pochi, risoltisi al dominio della massa per il suo stesso bene. Ma, fino a tanto, molta è ancora la strada da compiere, e mille roghi le faranno ala... Nessun prezzo sembra eccessivo quando sia in gioco il conseguimento di una meta ritenuta assolutamente giusta. E, se questa lo è davvero, la sua bontà sarà tale da render buoni anche i mezzi più orrendi, che vengono impiegati

1 Applicato al piano politico (-ecclesiale) tale dualismo si manifesta nelle sfere antitetiche del potere e dello spirito.

sulla via del suo conseguimento. Qui lo strumentalismo totale, lì l'utopia. Risultato: una nuova teodicea in versione cinica.

La sofferenza umana riceve in tal modo un suo senso storico forte; la sofferenza assume addirittura una funzione di progresso; la sofferenza è strategia... Beninteso: sofferenza come inquisizione: far soffrire gli altri; solo in quanto sa di ingannare intenzionalmente, lo «stratega» se ne duole.

Il punto decisivo di tutto questo nostro discorso sul Grande Inquisitore è dunque il seguente: costui, in realtà, è uno storicista borghese di gusto russo-ortodosso, un cripto-hegeliano verniciato a lutto. A voler ritrarre il diavolo, basta raffigurarsi cosa succederebbe se un politico russo - tipo Grande Inquisitore - entrasse in contatto con il più potente dei «realismi» storico-filosofici del XIX secolo, ossia il marxismo. Sforzo d'immaginazione superfluo giacché il connubio tra Santa Inquisizione e marxismo ha già avuto luogo; e per averne prova basterebbe sfogliare la storia novecentesca dell'Est europeo.

Incontreremmo allora almeno due giganteschi androgini del genere «utopista-ultracinico» e «marxista-grande-inquisitore». Se poi tale connubio sia basato sull'equivoco o sulla necessità, qui non importa. Sul piano storico, l'aggregamento dell'ideologia marxista alla Santa Inquisizione non è revocabile, nemmeno producendo ottimi argomenti che comprovino come la russificazione del marxismo rappresenti, propriamente, una stranezza: l'illegittima e avventurosa perversione di una teoria liberatoria ridotta a strumento rigidamente oppressivo. Si tratta di un fenomeno che solo nell'ottica rovesciata del Grande Inquisitore dostoevskijano appare intelligibile. Essa soltanto ci può fornire un esplicito modello d'interpretazione: la verità viene usata da chi cela volontà di dominio, per mentire. Chi, in nome della verità (e il marxismo possiede aspetti di verità innegabilmente robusti), imbroglia le masse, non rischia confutazioni, almeno non sul piano teorico... Eppure, come il Grande Inquisitore, anche i moderni detentori del potere direbbero a un Marx redivivo: «Non Ti vogliamo, non Ti lasceremo mai tornare da noi; ci richiameremo a Te a una condizione, che Tu non torni "mai più... mai più"!». Infatti se tornasse - non importa se «Egli stesso» o una sua «immagine speculare» - sarebbe inevitabilmente un... «Disturbatore» (e ognuno sa quel che succede, a certa gente).

 

Ci si può chiedere se il ragionare del Grande Inquisitore abbia palesato una fondamentale contraddizione tra lo spirito della «verità» e quello delle «istituzioni». E' per una «legge» generale che ogni tentativo di trasformare la «verità» in «religione di Stato» la fa tralignare inevitabilmente nel suo contrario? Non vi intravediamo il trionfo della logica inquisitoria secondo la quale un Gesù che tornasse finirebbe sul rogo della Santa Inquisizione, un Nietzsche redivivo verrebbe trasferito d'ufficio nelle camere a gas e Karl Marx finirebbe per crepare come deportato in qualche campo di lavoro siberiano? Vi è una regolarità a reggere queste perversioni ciniche e tragiche?

Il XIX secolo - dicevamo - rappresenta l'epoca delle grandi teorie realistiche; nella loro indifferenza verso il bene e il male esse hanno gettato uno sguardo «aderente e oggettivo» alle questioni rilevanti per gli esseri umani: storia, stato, potere, forze della natura, sessualità, famiglia. Ogni nozione accumulata ha ora la sua casella in un grande arsenale teorico degli strumenti utili e interessanti per la nostra prassi. «Sapere è potere», afferma uno slogan del movimento operaio. Ma mentre da un lato si accumulano gli utensili, dall'altro si affastellano i piani di utilizzo. Di qua gli arnesi, di là i progetti; in una tasca i mezzi resi obiettivamente neutrali, nell'altra i fini, grandiosi e utopicamente buoni. I fatti in questo cassetto, in quello i valori. Ecco, grosso modo, l'immagine mentale dello strumentalismo e del pragmatismo moderni. Si sta con una gamba al di là del bene e del male cercando intanto con l'altra un solido puntello nell'ambito della morale (utopica). Tutto ciò può riassumersi così: il secolo XIX sviluppa una prima forma della coscienza cinica moderna in cui s'intrecciano il rigido cinismo dei mezzi e il non meno duro moralismo dei fini. Infatti, in rapporto ai fini, quasi nessuno si è mai sognato di andare davvero al di là del bene e del male (sarebbe stato «nichilismo»). Ma proprio l'antinichilismo è la sostanza polemicoideologica della modernità. Se fascismo e comunismo mai combatterono nella medesima trincea, ciò è stato invero nella guerra al «nichilismo». Il nichilismo è la grande colpa che entrambi, come un sol uomo, hanno addossato alla «decadenza borghese». Fascismo e comunismo sono stati sempre determinatissimi nel contrapporre al trend nichilista un qualche valore assoluto: l'utopia nazional-razziale per gli uni, quella comuni sta per gli altri. (1) Entrambi hanno fatto pegno e garanzia di un fine ultimo giustificante ogni mezzo, entrambi promisero per giunta di conferire un senso all'esistenza. Ma quando il cinismo radicale dei mezzi si fonde con un risoluto moralismo dei fini, proprio in quell'istante cessa per i mezzi ogni residuo sentimento morale. E così il moralismo moderno, dotato come non mai di armamento pesante, segue la sua escalation in un turbine di distruttività che culmina... nel baratro delle più infernali buone intenzioni.

Ciò non va illecitamente inteso alla stregua di una deduzione puramente teorica. È ben vero che abbiamo qui tentato di tratteggiare una logica della catastrofe politica moderna, ma non si dimentichi che questo tentativo fa seguito a catastrofi realmente accadute. Se così non fosse, non vi sarebbe neppure un intelletto capace di frivolezza e disperazione sufficienti a pervenire, in un atto di mera «ricerca del vero», a tali deduzioni. Nessun essere umano potrebbe rappresentarsi devastazioni della scala che pure le ha contraddistinte, se queste colossali devastazioni non avessero avuto luogo realmente. Soltanto dopo quanto è successo, s'è iniziato a considerarne i presupposti spirituali. Solo in seguito abbiamo iniziato a interrogarci sulle condizioni di possibilità dell'inferno che noi stessi avevamo costruito. Eppure le catastrofi hanno dovuto innanzitutto avverarsi acciocché il pensiero superasse terrore e pigrizia ponendosi a studiarne la grammatica. In fondo, gli unici anticipatori delle grandi catastrofi - Nietzsche e Dostoevskij - ignoravano ancora quanto, nei dolorosi esperimenti mentali da loro condotti, essi parlassero di politica mentre si esprimevano nei concetti moral-psicologici che ritenevano a sé confacenti in quanto epigoni di una tradizione religiosa millenaria. Quel che scrissero, l'avevano covato in un'interiorità pregna di sentimento religioso, e psicologicamente lacerata; entrambi si percepirono come eventi deflagratori della tradizione cristiana: entrambi sono stati comete che segnano la fine della storia spirituale loro antecedente. Hanno annunciato l'avvento di una fosca modernità. E la traduzione in termini politici delle loro visioni - nell'uno come nell'altro caso - non ha aspettato,

1 Superamento del nichilismo? «I "superamenti" (...) sono ogni volta peggiori di quel che hanno "superato"» (Adorno, Negative Dialektik, Frankfurt a.M. 1966, p. 371; Dialettica Negativa, a cura di C.A. Donolo, Torino 1976).

per avvenire, nemmeno l'avvicendarsi di due generazioni.

Prefigurate dentro le viscere del pensiero, le strutture descritte da Nietzsche e da Dostoevskij si sono ben presto realizzate nell'esteriorità più brutale. Il Grande Inquisitore russo del XX secolo c'è stato davvero, e così anche il superuomo nazionalariano: strumentalisti in grande stile entrambi, cinici all'estremo riguardo ai mezzi e pseudoingenuamente «morali» in rapporto ai fini.

Noi, però, ci siamo nel frattempo allontanati talmente dal nostro punto di partenza da suscitare forse il dubbio che non vi sia più nesso alcuno tra Diogene, il protokinìco, e il Grande Inquisitore, il cinico moderno. È davvero soltanto per una inspiegabile stranezza della storia concettuale che questo moderno cinismo rimanda a un'antica scuola filosofica. Ma proprio in tale apparente stranezza possiamo evidenziare un aspetto metodologico che funge da anello di congiunzione tra due fenomeni così diversi e per giunta separati da millenni.

L'anello di congiunzione consiste - direi - in due tratti comuni formalmente riscontrabili nel kinismo come anche nel cinismo: uno è il motivo dell''autoconservazione nella crisi, l'altro è una sorta di realismo sporco e svergognato che si riconosce sic et simpliciter «in ciò che accade», senza badare a inibizioni o convenzioni morali. Tuttavia, ove lo si confronti al realismo esistenziale del kinismo antico, il moderno cinismo appare una «via di mezzo»; il suo senso dei fatti, l'abbiamo visto, consiste in fin dei conti proprio in un rapporto spregiudicato e strumentale con tutto quanto possa venire impiegato alla stregua di un mezzo per un fine, senza però estendersi mai ai fini stessi. I grandi cinici pensanti della modernità, quelli del tipo Grande Inquisitore, sono tutt'altro che eredi di Diogene. In essi si agita piuttosto il tarlo dell'ambizione che già rodeva quell'Alessandro Magno cui Diogene ebbe a impartire, in tal senso, una bella lezione. Nel caso dell'ambizione cinica moderna (1) registriamo, quindi, un ulteriore tralignamento concettuale; mentre Diogene aveva espresso il desiderio: «Toglimiti dal sole!», gli adepti del moderno cinismo diffuso, per «un posto al sole», sono perennemente in corsa... Costoro non hanno altro in mente se non di contendersi al modo cinico - leggi: in modo apertamente spietato - la conquista di beni materiali di cui a

1 Che in linguaggio cristiano si dice «agire per l'altrui bene»...

 

Diogene non sarebbe importato nulla. Che, poi, su questa china ogni mezzo sia buono - genocidio incluso, saccheggio del pianeta Terra incluso, devastazione di continenti e oceani inclusa, macellazione delle specie animali inclusa -, tutto ciò dimostra che, quanto a strumentario, i cinici moderni stanno davvero al di là del bene e del male. Ma tanto più, allora, dobbiamo chiederci che ne è dell'impulso kinico? Posto pure che il cinismo sia divenuto un aspetto insostituibile del realismo moderno, per quale ragione tale realismo non abbraccia anche i fini? In verità, il cinismo dei mezzi caratterizzante questa nostra «ragione strumentale» di horkheimeriana memoria può essere compensato solo con un ritorno al kinismo dei fini. Il che comporta in primo luogo il congedo dallo spirito degli obiettivi remoti e in secondo luogo il riconoscimento della fondamentale assenza di fini che caratterizza la vita. Infine comporta la limitazione del desiderio di potere, e anche quella del potere del desiderio. Brevis verbis : occorre comprendere l'eredità di Diogene. Non per agitare un romanticismo straccione o il ben noto fanatismo della vita simplex: il nucleo del kinismo consiste in una filosofia critico-ironica verso i cosiddetti «bisogni», dei quali è necessario mettere a nudo una fondamentale smodatezza e assurdità. L'impulso kinico fu vitale non solo durante il breve intervallo tra Diogene e la Stoà Antica, ma ben più a lungo. Esso fu senza dubbio presente nello stesso Gesù di Nazareth, il «Disturbatore» par excellence. E sopravvisse anche in tutti i veri epigoni del maestro, i quali, come lui, avevano compreso che la vita si caratterizza per il fatto di non aver alcuno scopo. In ciò trova fondamento anche il fascino enigmatico delle antiche dottrine sapienziali asiatiche che ammaliano l'Occidente voltando freddamente le spalle alla sua ideologia finalistica e alle sue razionalizzazioni dell'avidità. L'esistenza, sulla terra, non ha «da cercare nulla» al di fuori di sé. Però dove governa il cinismo, si è perennemente alla ricerca di ogni cosa, e tutto al di fuori di sé. Prima di vivere, di vivere autenticamente, si ha sempre qualcosa d'altro da fare: ancora un affare da sbrigare, ancora una precondizione da soddisfare, ancora un desiderio da tacitare, ancora un ultimo conto da saldare. Il differimento è costitutivo della struttura rimozionale e della vita indiretta su cui fonda il nostro smisurato sistema produttivo. La produzione, dal canto suo, sa sempre presen tarsi come assoluto «buon fine» agitandocisi davanti come vero scopo e, tuttavia, ritraendosi in sempre nuove lontananze ogni volta ce ne avviciniamo.

La ragione kinica culmina nella nozione, calunniosamente presentata come nichilismo, secondo cui è invece saggio sgonfiare le Grandi Mete. In tal senso non si potrà mai essere abbastanza nichilisti. Bocciando, in senso kìnico, ogni Grande Meta e ogni Grande Valore, l'incantesimo della ragione strumentale per cui si perseguono fini «buoni» con mezzi «malvagi», è rotto. I mezzi stanno in mano nostra e sono di tale spaventosa portata (in ogni senso: nella produzione, nell'organizzazione e nella distruzione), che ci si chiede dove esistano dei fini commisurati. A quale buon fine si dovranno impiegare dei mezzi così giganteschi? Nell'istante stesso in cui la nostra coscienza sarà matura per lasciare cadere l'idea del bene come fine concedendosi finalmente a quello che è già qui, allora ci potrà essere un certo relax, e l'enorme accumulo di mezzi in favore di scopi immaginari e sempre più remoti diverrà finalmente superfluo. Quindi: solo il kinismo (e non la morale) può arginare il cinismo! Solo un kinismo tranquillo e sereno saprà superare la tentazione che sempre nuovamente ci induce a obliare la vita, che non ha nulla da perdere fuorché se medesima.

Ma ora (dopo aver discusso per un intero capitolo del ritorno di grandi spiriti) tentiamo di figurarci anche un Diogene redivivo. Il filosofo smonta dalla sua botte ateniese; e si dà a frequentare il XX secolo: capita in mezzo a due guerre mondiali, traversa le metropoli del capitalismo e del comunismo, s'informa sul conflitto tra Est e Ovest, ascolta conferenze sulla strategia nucleare, assiste a iniziative televisive, finisce in autostrada, testimone di un'ondata vacanziera, partecipa roteando gli occhi a un seminario su Hegel... Diogene è venuto forse a «disturbare»? In realtà, però, è piuttosto lui che sembra «disturbato»... Aveva insegnato: «Essere pronti a tutto»; tuttavia quello che ora gli capita di vedere lo trova impreparato: è troppo anche per lui. Già gli ateniesi gli erano parsi passabilmente pazzoidi, ma come classificare quel che egli trova nel nostro tempo? Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima: gli viene nostalgia delle guerre contro i persiani. Temendo la clinica psichiatrica, Diogene rinuncia anche a girare con la lanterna in pieno giorno. (1) E adesso - fallita la pantomima filosofica nemmeno saprebbe come e con quali parole parlare a questa gente. Ha notato che oggi noi siamo rigorosamente addestrati a capire il difficile e non il facile; e vede bene come la perversione ci appaia ormai normale. Che fare? Improvvisamente il grande sinopeo prova la sensazione (ignota in quei lontani giorni ateniesi) di dover dire una cosa importante. Un tempo tutto era quasi come un gioco, ora gli sembra che la questione si sia fatta seria. Con riluttanza decide allora di prendere parte anche a questo gioco; anch'egli farà, dunque, il possibile per fingersi serio; imparerà persino il nuovo gergo filosofico, apprenderà a mescolare vorticosamente le parole finché agli altri non giri la testa. E con sovversiva soavità, assumendo una faccia da funerale, anche Diogene si accinge a diffondere tra i contemporanei le cose ridicolmente semplici che ha da dire.

Lo sa: il pensiero ha trasformato i suoi potenziali discepoli in altrettanti maestri nell'uso cinico dei mezzi, il loro intelletto critico funziona eccellentemente. Da codesto intelletto, orbene, il filosofo deve prendere le mosse per insegnare il kinismo dei fini. Ecco la concessione di Diogene alla modernità. Per minare le fondamenta di tale uso moderno dell'intelletto, gli si presentano ora due possibilità: la via ontologica e la via dialettica. In incognito, Diogene le ha seguite entrambe. E sarà compito nostro decifrarne le tracce. ,

1 Solo una volta nella modernità s'è potuto ammirare un Diogene di tale statura: durante l'happening metafisico di Nietzsche culminato con il celebre annuncio: «Dio è morto». Fanale di neokinismo.

 

 

3

HEIDEGGER E IL «SI» IMPERSONALE, REALISSIMO

TRA I SOGGETTI DEL MODERNO CINISMO DIFFUSO

 

A proposito di questo [il modo di essere quotidiano] risulterà forse non del tutto superfluo notare che l'interpretazione persegue intento puramente ontologico, ben lungi da una critica moralizzante dell'Esserci quotidiano e da velleità «cultural-filosofiche».

Martin Heidegger, Essere e Tempo, § 34

 

La «vita» è comunque un «affare», che copra o meno i suoi costi.

Ibidem, § 59

 

Perché vivere quando vi potreste già far seppellire per soli 10 dollari?

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Il «Si» impersonale, la non-persona della nostra galleria di cinici, ci ricorda nella sua sciapa immagine i manichini snodabili usati dai grafici per i loro schizzi anatomici e lo studio delle diverse positure del corpo umano. Ma la positura che Heidegger aveva di mira resta del tutto indeterminata, il «soggetto» viene pedinato nella banalità del suo modo di essere quotidiano. L'ontologia esistenziale - trattando il «Si» impersonale (1) e il suo modo di essere nella quotidianità - tenta qualcosa che la filosofia precedente non si era mai sognata di fare: fare dell'ovvietà un oggetto di teoria «alta». Gesto che, già di per sé, attira sul capo di Heidegger un forte sospetto di neo-kinismo.

Dove i critici hanno creduto di vedere un «errore» sta forse il sugo dell'ontologia esistenziale heideggeriana. Che catapulta l'arte della piattezza sulle vette della chiarezza concettuale. Se ne potrebbe sottolineare, inversamente, un aspetto satirico se 

1 Cfr. Martin Heidegger, Sein und Zeit = SuZ (Essere e Tempo, tr. Pietro Chiodi, Milano 1970).

condo cui non il superiore viene degradato, ma l'infimo elevato. È un tentativo di pronunciare l'ovvietà in modo talmente esplicito e acribico che persino gli intellettuali siano «autenticamente» costretti a capirla... In certo senso, nel discorso heideggeriano - con quel suo scurrile affinamento di mezzetinte concettuali - ci viene imbandita una buffonesca prestidigitazione logica: (1) è il tentativo di tradurre nel linguaggio della più sottile tradizione di pensiero europea la nozione misticamente semplice della vita simplex, la vita così come essa appunto è. Il look heideggeriano in stile contadino della Foresta Nera - un contadino che, dalle faccende del mondo, volentieri si ritrae per raccogliersi a elucubrare nella sua malga, ebbene questo look (con annesso il tipico berretto frigio calcato sulla testa) non rappresenta una mera esteriorità. Appartiene essenzialmente a questo modo di filosofare. Dentro si nasconde la medesima, esigente sobrietà. E mostra quanto, per dire in epoca moderna cose semplici e «primitive», si abbia da esser sfrenati se si vuole avere la meglio sui complessi avvitamenti mentali della coscienza «illuminata». Leggiamo le affermazioni di Heidegger sul «Si», sull'Esserci della quotidianità, e poi sulla Chiacchiera, l'Equivoco, la Deiezione, l'Esser-Gettato eccetera. Finissime variazioni della più sublime banalità, in rapida sequenza: dentro a «ciò che accade» la filosofia, letteralmente, brancola. Proprio mentre l'analisi ermeneutico-esistenziale di

1 L'espressione in lingua originale è qui «logische Eulenspiegelei», gioco di parole intraducibile. «Eulenspiegel» è il «buffone» o «buontempone», ma anche e soprattutto uno che crede o fìnge di agire coscienziosamente, mentre in realtà si comporta da sconsiderato: un cacasenno. Il gioco di parole «logische Eulenspiegelei» (Kev, p. 370), cioè per cominciare «Euelenspiegelei logico», significa quindi all'incirca «burla logica». Ma «Eulenspiegelei», che vuol dire per l'appunto «burla» o «gherminella», configura anche una sorta di chiasma comico tra due nomi composti. L'uno (Eulenspiegel) è un nome proprio e l'altro (Spiegelei) un nome comune. A entrambi è comune «Spiegel» («specchio»). Spiegelei è l'uovo («Ei») «specchiato», cioè all'occhio di bue. Mentre Till Eulenspiegel è il nome di un popolare eroe letterario del Rinascimento fiammingo, prototipo del burlone nordico (vedi illustrazione a p. 91). C'è poi una (falsa) etimologia: «specchio per civette» («Eule = «civetta», ma anche «femmina poco attraente», «spolverino», «scopettino»).

Più gaglioffa è l'etimologia corretta, dall'olandese «uulen - speegel», ove il verbo «uulen» significa «pulire», «nettare» e «speegel» «specchio», ma anche «didietro» (qui presumibilmente «didietro»). Il sostantivo sembra assumere perciò anche il senso volgare del nostro «stracciaculo» e simili. Cfr. anche Duden, Deutsches Universalworterbuch (1989), sub. voce, p. 467. (n.d.t.)

 

Heidegger va liquidando il conto con il mito dell'Oggettività, essa partorisce anche un durissimo «positivismo del profondo». In tal modo entra in scena una filosofìa ambiguamente partecipe di uno spirito epocale sobrio, secolarizzato e tecnicizzato. Il suo pensiero va sì al di là del bene e del male, ma al di qua della metafisica; e solo su questa linea sottile può dislocarsi.

La filosofia dell'esistenza, neokìnismo teorico del nostro secolo, esibisce dimostrativamente l'avventura della banalità nelle sue forme di pensiero. Quel che esso ci presenta sono i fuochi turchi di un'assenza di senso che prende coscienza di sé. Va tenuto ben presente il taglio sprezzante con cui Heidegger, nel motto già citato, si distanzia da ogni «critica moralizzante», quasi a sottolineare come il pensiero contemporaneo abbia abbandonato una volta per tutte le paludi del moralismo tagliando ogni ponte con la «filosofia della cultura». La quale difatti altro non può più essere se non una summa di «aspirazioni»: brame, velleità, megalomanie e «concezioni del mondo» intese nel senso di un XIX secolo che non vorrebbe finire mai. Di contro, in quell'«intento puramente ontologico», vediamo bollire il ghiaccio infuocato della modernità reale, che non abbisogna più di mere spiegazioni illuministe dacché ha ormai di ben lungi «trapassato» ogni possibile criticità analitica. Pensando ontologicamente, parlando positivamente: scevrare la struttura dell'esistenza. A tal fine Heidegger - mentre aggira le coordinate terminologiche del soggetto e dell'oggetto - s'appoggia con notevole sfrenatezza linguistica a un gergo alternativo, remedium che inizialmente non appare migliore del suo perduto male. Eppure in questa novità si riflette qualcosa dell'avventura moderno-primitiva: qualcosa che connette arcaicità e tardività, un rispecchiamento del primordiale in quelV'ultimo. Dentro la sua Ausgesprochenheit, cioè nella pronunciata peculiarità dell'eloquio heideggeriano, giunge ad esprimersi ciò che in filosofia non parrebbe neppur degno di menzione. E, nell'attimo in cui_il pensiero - esplicitamente «nichilista» - riconosce nell'assenza di senso lo scenario di ogni possibile affermazione o conferimento di senso, il senso dell'assenza del medesimo diventa, sul piano filosofico, necessario ad articolare un massimo dispiegamento ermeneutico, e qui per «ermeneutica» s'intende appunto l'esegesi del senso, A seconda dei presupposti del lettore ciò potrà rivelarsi tanto allettante quanto peraltro frustrante, vacua ellisse concettuale o magistrale gioco di ombre razionali.

Ma cos'è questo strano ente, questo «Si» che Heidegger ci presenta? Sulle prime vediamo una di quelle sculture moderne che non rappresentano nessun oggetto né alcun significato «particolare» sembrerebbe potersene decifrare dalle lisce superfici. Eppure, nella loro immediatezza, quelle strutture sono reali, concretamente tangibili. Perciò Heidegger sottolinea che il «Si» non costituisce affatto un'astrazione (una sorta di concetto-genere inclusivo di «tutti gli Io»). In quanto ens realissimum, esso andrebbe riferito a ciò che è presente in ciascuno di noi pur deludendo l'aspettativa di un significato personalizzante e di un senso risolto come esistentivo. Il «Si» esiste, ma «dietro, non c'è niente». È scultura non-figurativa: parte reale, quotidiana e concreta di un mondo, eppure perennemente priva di riferimento a una qualche persona autentica o a un qualche «reale» significato, «Si» è la forma neutra del nostro Io: è l'Io-di-ogni-giorno. Non è ipsità, ich-selbst, ossia l'Io-me-stesso. In certa misura il «Si» rappresenta la mia faccia pubblica, la mia medietas. Una proprietà comune, condivisa con tutti gli altri: un Io pubblico rispetto al quale vige sempre il valor medio. Essendo un Io inautentico, il «Si» si sgrava di ogni risolutezza, che è tratto personale in sommo grado; per sua natura esso vuole rendersi lieve ogni cosa, prendere tutto dal lato esteriore e mantenere una parvenza convenzionale. Tale, in un certo senso, anche l'atteggiamento verso se stesso, infatti quel che esso pur di «se stesso» ha, lo assume poi passivamente, un poco inciampandovi come s'inciampa su di un dato posticcio e residuale. In tal modo codesto «Si» può intendersi esclusivamente come inindipendenza, la quale da sé sola e per se stessa soltanto non ha proprietà alcuna. Ciò che il «Si» è, è dato e detto dagli altri; questo spiega la sua essenziale dispersività: esso dapprima viene al mondo, poi vi si perde:

Dapprima e anzitutto non «io» autenticamente «sono» nel senso del me-stesso, ma gli altri piuttosto, nella maniera del Si. È a partire da questi e come tale che io, a me «stesso», vengo anzitutto «dato».

Dapprima e anzitutto Si è l'Esserci e qui, per lo più, ci si ferma.

(SuZ, § 27, p. 129). (1)

 

1 Cfr. M. Heidegger, op. cit., p. 166. (n.d.t.)

 

Giorgio de Chirico, «Il grande metafisico», 1917.

 

Insomma, in quanto «Si», io vivo già da sempre assoggettato al discreto dominio degli altri.

 

Ciascuno è l'altro e nessuno se-stesso. Il Si (...) è il Nessuno (SuZ, § 27, p. 128). (1)

 

Questa descrizione del «Si» - con la quale Heidegger ha creato la possibilità di filosofare sull'Io senza dover ricorrere al pensiero «soggettoggettivo» - sembra una ritraduzione dell'etimologia di «soggetto» (sub-iectum, hypo-keimenon) nel linguaggio quotidiano, nel quale esso significa «assoggettato e succubo». (2) Il «succubo» opina di non possedere più «se-stesso». Né il linguaggio del «Si» («si fa», «si dice» ecc.) esprime alcunché di autentico, meramente partecipando invece alla «chiacchiera» (Gerede!). Nella chiacchiera — per cui tramite si dice quel che appunto si dice - il «Si» si occlude a una reale comprensione del proprio esserci non meno che a una reale comprensione di ciò di cui si parla. Nella chiacchiera, quel che traspare è lo «sradicamento», l'«inautenticità» dell'esserci quotidiano. A questi corrisponde la curiosità che si concede «senza pausa», fugacemente, a tutto quello che via via s'impone come novità. Al «Si» curioso - per quanto anch'esso «agisca comunicativamente» - non importa affatto di «capire», ma piuttosto del suo contrario e cioè: di evitare ogni comprensione, di ben guardarsi dal gettare un'occhiata di autenticità sull'esserci. Tale «guardarsi bene da» è denotato da Heidegger con il termine di «distrazione», termine questo che subito ci fa drizzare le orecchie. Se pur ogni cosa finora era scontata, atemporale e generica, ebbene adesso sappiamo in che punto della storia moderna ci stiamo collocando. Nessun'altra parola porta in sé quel sapore anni Venti con l'intero retrogusto di protomodernità tedesca. Quanto abbiamo sinora udito in merito al «Si» non risulterebbe comprensibile senza la premessa reale della Repubblica di Weimar, con quel clima da dopoguerra febbrile, i suoi mass-media, il suo americanismo, la sua industria cultural-circense e, per l'appunto, quell'avanzatissimo sistema di distrazioni. Solo nell'atmosfera cinica, demora 

1 Ibidem, p. 164. (n.d.t.)

2 Su questa «ritraduzione» e quel che esser succubi e assoggettare significa nell'ambito della conoscenza cfr. KzV, n, pp. 639-641 e 652-659.

lizzata e demoralizzante della società tedesca del primo dopoguerra, in cui i morti non potevano morire perché si doveva ancora incassare un adeguato profitto politico dalla loro dipartita, lo Zeitgeist era in grado di indurre la filosofia a considerare «esistenziale» l'Esserci e a opporlo quindi (nella sua accezione autentica, consapevole e risoluta in quanto «Essereper-la-morte») alla Quotidianità. Solo dopo il «crepuscolo degli dèi» (attuato manu militari), solo dopo la «Decadenza dei Valori»: dopo la coincidentia oppositorum sui fronti di una guerra combattuta in trincee nelle quali il «bene» e il «male», baionette alla mano, si erano mutuamente sbudellati, solo dopo tutto ciò sopravvennero i «miti consigli» sull'«essere autenticamente inteso». Questa è l'epoca che per prima volge un attento sguardo sull'introiezione della socialità intuendovi un reale dominato da fantasmi, imitatori, soggetti-macchina deragliati. Ognuno - anziché «se-stesso» - potrebbe essere la propria ombra nell'Averno. Come fare a saperlo? Di chi mai si potrebbe asserire che sia davvero «se-stesso» e non un «Si» impersonale? Ecco quel che stimola la ponderosa e impossibile distinzione esistenzialistica tra genuino e posticcio, tra autentico e inautentico, tra peculiarmente pronunciato e nebulosamente indistinto, tra la risolutezza propria di ciò che è determinato e l'indecisione comune a quanto è com'è (così, «tanto per essere»):

Tutto sembra genuinamente inteso, capito e detto e in fondo non lo è affatto, oppure non lo sembra e invece lo è (SuZ, § 37, p. 173). (1)

 

Il linguaggio - così sembra - tiene ancora faticosamente distinti quello che «è così» per davvero e quello che invece «così appare». Ma l'esperienza dimostra che poi tutto si mescola.

Tutto «sembra a». E su questo «sembrare a» s'impunta ora il filosofo. Per i positivisti ogni cosa sarebbe così com'è; nessuna differenza tra «essenza» e «apparenza» (arcaici spiritelli metafisici da liquidare). Ma proprio su una differenza Heidegger insiste tenendovi fermissimamente: l'alterità, irriducibile a un mero «sembrare a», giacché questo «Altro» cela invece di per sé l'essenziale, il genuino e la cosa vera e propria. Tale resto metafisico presente in Heidegger, così come la sua resistenza

1 M. Heidegger, op. cit., p. 218. (n.d.t.)

al puro positivismo, nascondono una volontà di autentico. Vale a dire che un'«altra dimensione» è pur sempre data, ancorché indimostrabile in quanto essa non rientra nelle «cose» che si possono mostrare. L'Altro può essere dapprima affermato solo con la simultanea assicurazione che il suo esito coincide con l'Uno; esteriormente «l'autentico» e «l'inautentico» non si distinguono affatto.

In questa figura del pensiero pulsa l'attualità spirituale più elevata degli anni Venti: vi si postula una differenza che pur si deve «fare», senza peraltro poterla fissare ad alcunché. Finché questa ambivalenza dell'Uno e dell'Altro risulti quantomeno affermata, non fosse che come fatto fondamentale dell'esistenza, la possibilità dell'«altra dimensione» è formalmente salva.

Qui, però, il moto di pensiero di Heidegger sembra già esaurirsi: un salvataggio formale di «ciò che è autenticamente», sebbene questi possa certo apparire uguale all'inautentico. Ora, tutto questo non si fa con mere affermazioni; in ultima analisi anche l'Esserci autentico - tanto lungamente invocato - deve pur sempre riservarsi «qualcosa di speciale» (1) per potersi in qualche modo ancora distinguere. Per ora, dunque, la questione rimane inalterata. Ma, a rendercela ancor più avvincente, Heidegger ribadisce che la «deiettività» dell'Esserci in quanto «Si» non significa affatto uno status primordiale, superiore o più originario, ma solo questo: che fin dapprincipio e «già sempre» l'Esserci è «deietto» nel «Si». Con arida ironia Heidegger nota che il «Si» va cullandosi nell'opinione di condurre una vita piena e autentica mentre si getta senza remore nell'attività mondana. Ma proprio in ciò, di contro, consiste la «deiezione». Dobbiamo ammettere che l'autore di Essere e Tempo sa bene come si stende il lettore (impaziente di conoscere l'«Autentico») su un letto di tortura. Diciamocelo in tutta franchezza: questa pronunciata, abissale... piattezza heideggeriana è un tormentone. In modo esplicito e fantastico, veniamo condotti attraverso i giardini perduti di una negatività positiva; Heidegger ci parla del «Si», della sua curiosità, della sua deiezione nell'attività; egli ci parla - in breve - dell'«alienazione», ma rassicurandoci ad un tempo che tutto ciò avviene senza

1 «Qualcosa di speciale»... Come dice il Mefistofele goethiano: «Non mi fossi serbato il fuoco, io nulla di speciale avrei per me» («Hättich mir nicht das Feuer vorbehalten / Ich hätte nichts Aparts fur mich»).

 

Man Ray, «Gruccia», 1920.

nemmeno l'ombra di una «critica morale»; anzi, al contrario, questa sarebbe un'analisi di «intento ontologico» la quale, parlando del «Si» impersonale, contrassegna non certo un «Sé» declassato, ma piuttosto una qualità dell'Esserci omogenea all'Essere-se-stesso autenticamente inteso. Le cose stanno dunque così fin dal principio e il termine «alienazione» curiosamente non allude affatto a un preesistente, superiore ed essenziale Essere-se-stesso scevro da straniamento! Alienazione questo apprendiamo - non vuol dire che l'Esserci sarebbe stato strappato da «se stesso», ma piuttosto che l'inautenticità, la Uneigentlichkeit sottesa a tale alienazione è sin dall'inizio il più potente e originario modo di essere dell'Esserci. In esso nulla si trova che possa dirsi evaluativamente erroneo, negativo o falso. L'alienazione è semplicemente il modo di essere del «Si».

Cerchiamo di chiarire la coreografia che fa propriamente da sfondo a questi saltamartini mentali: il lavoro concettuale - tendente peraltro verso realistiche sobrietà - è condotto qui ben oltre le più progredite posizioni del XIX secolo. Fino ad allora le Grandi Teorie possedevano la forza del realismo solo se munite di un contrappeso utopico o morale, ma ora anche a questo dominio utopico-morale Heidegger estende il «nichilismo». Se furono tipiche briglie del XIX secolo i legami tra scienza teoretica e idealismo pratico, tra realismo e utopismo, tra obiettivismo e mitologia - ebbene Heidegger avvia una seconda liquidazione della Metafisica; passa alla radicale secolarizzazione dei fini. Egli prende lapidariamente atto della indiscutibile libertà che la vita possiede riguardo ai suoi fini.

Non ci stiamo affatto muovendo verso mete radiose né siamo stati incaricati da alcuna istanza a soffrire oggi per un Grande Domani. (1) Anche rispetto ai fini quel che conta è pensare al di là del bene e del male.

La differenza tra autenticità e inautenticità appare più enigmatica di quel che è in realtà. Ciò appare chiaro sin dall'inizio: non può trattarsi della differenza inerente a una qualche «cosa» (bella/brutta, vera/falsa, buona/malvagia, grande/piccola, importante/trascurabile), giacché l'analisi esistenziale opera ben a monte di tali differenze. In tal modo, resta come ultima differenza pensabile quella tra Esserci risoluto ed Esserci irresoluto; e io direi: tra il conscio e l'inconscio. Ma non bisogna qui intendere l'opposizione conscio/inconscio nel senso di un illuminismo psicologico; una sfumatura rinvia più «resolutamente» al senso qui inteso, che è quello di «consapevole» e «inconsapevole», i quali a loro volta non vanno contrapposti in senso cognitivo né, poi, sul piano del sapere in generale, dell'informazione o della scienza; essi rimandano a qualità esistenziali. Se così non fosse, il pathos heideggeriano dell'autenti- ¦ cità non sarebbe possibile.

 

1 Nichilismo? La critica marxista per lungo tempo non ha voluto vedere in Heidegger altro se non il canto del cigno di una borghesia decadente abbandonata addirittura dalla Volontà di Futuro. Heidegger come vessillifero di un nichilismo fascistoide e di un culto mortuario? Improbabile. Piuttosto latore di un impulso contro i socialismi del «Grande Domani», contro le utopie di sacrificio perenne.

 

La costruzione dell'«autentico» sfocia, in fin dei conti, nel teorema dell'«Essere-per-la-morte», ciò che per i critici di Heidegger funge da pretesto di una, peraltro scontatissima, indignazione: nient'altro che tautologismi malaticci riesce ormai ad adunare la filosofia borghese! Fantasie cinerigne in teste di parassita! Ma anche a voler accogliere di tale critica gli aspetti veritieri, vedremo che l'opera di Heidegger - contro l'intentio auctoris — rispecchia quantomeno il momento storicosociale in cui venne concepita; pur enfaticamente adusa a proclamarsi Analisi Ontologica, essa ci fornisce infatti un'involontaria teoria del tempo presente. Nella misura della sua involontarietà, l'Analisi Ontologica palesa una faccia oscura, imputabile di illibertà e addirittura di cecità, il che però non ci esime dal rendere giusto apprezzamento all'altra faccia, quella illuminata. Non esiste concezione tanto aderente al proprio tempo quanto quella dell'«Essere-per-la-morte»; nell'era delle guerre mondiali imperialiste e fasciste questo è il filosofema chiave.

La teoria heideggeriana appare sul punto di flesso tra la prima e la seconda guerra mondiale, ossia tra la prima e la seconda modernizzazione della morte di massa. Il pendolo - superate le Fiandre, Tannenberg e Verdun - muove ora verso Stalingrado, Auschwitz e Hiroshima, la seconda triade della distruzione su scala industriale. Senza industria della distruzione neppure quella della distrazione potrebb'esserci. Leggendo Essere e Tempo non come «mera» ontologia esistenziale, bensì come sociopsicologia in chiave, si spalancano ampie vedute su alcuni nessi strutturali di grande importanza. Heidegger ha colto l'interconnessione tra la moderna inautenticità e la fabbricazione della morte in un modo che poteva apparire intelligibile solamente a chi visse in «presa diretta» l'epoca delle guerre mondiali industrializzate. Allentando per un istante la scomunica che il sospetto di connivenza con il fascismo ha gettato sull'opera di Heidegger, potremmo comprendere che la formula «Essere-per-la-morte» racchiude un potenziale critico esplosivo. Si può allora intendere come la teoria heideggeriana della morte in realtà nasconda un potente atto di accusa del secolo XX al XIX. Il secolo XIX infatti aveva investito le sue migliori energie speculative nel tentativo, condotto mediante Teorie In Grande Stile, di rendere pensabile la morte degli al tri. (1) Le grandi panoramiche evoluzionistiche puntavano a toglier di mezzo il male del mondo - per quanto questi colpiva altri - sublimandolo nei superiori casi di anni venturi e assai migliori: ecco l'equivalenza formale tra Evoluzione, Rivoluzione, Selezione, Lotta per l'Esistenza e Sopravvivenza del Migliore; ecco l'Idea di Progresso ed ecco il Mito Razziale. In tutte codeste concezioni venne sperimentato un punto di vista capace di oggettivare il soccombere. Degli altri. Con la teoria heideggeriana della morte, il pensiero del XX secolo volta le spalle a questi ibridi prodotti teorici del cinismo ottocentesco.

Esternamente muta solo il pronome personale: «si muore» diviene «io muoio». L'essere consapevole della morte è il luogo della rivolta heideggeriana contro la «continua azione sedativa intorno alla morte», ciò da cui una civiltà iperdistruttiva necessariamente dipende. Il militarismo totale della guerra industrializzata costringe nel quotidiano a rimuovere la morte, nel modo più completo possibile; con l'incitamento alla rimozione più ipnotica e narcotica possibile, oppure allo scaricamento della morte medesima sugli altri: ecco la legge della Zerstreuung, della moderna distrazione. La situazione mondiale, a patto d'intenderla, sussurrava agli esseri umani: la vostra distruzione è solo questione di tempo e il tempo necessario alla distruzione è il tempo della vostra distrazione; la distruzione a venire ha per l'appunto per presupposto la vostra distrazione, ossia la vostra irresolutezza a vivere. Il distratto «Si» impersonale è quel modo del nostro esistere mediante il quale noi stessi ci ritroviamo in universali contesti mortiferi e andiamo cooperando con l'industria della morte. Mi pare che Heidegger tenga qui in mano il bandolo di una filosofìa della scalata bellica giacché la corsa militare altro appunto non significa se non assoggettarsi alla legge del «Si» impersonale. Tra i passi più pregnanti di Essere e Tempo annovero questo: «Il Si non lascia sorgere il coraggio dell'angoscia davanti alla morte». (2) Chi si arma sostituisce il «coraggio dell'angoscia della morte» con la protesi militare. (3) L'apparato «militare» è il miglior garante

1 Riprendo qui un motivo di Michel Foucault.

2 Cfr. SuZ, 51, p. 254; tr. it., cit., p. 310. (n.d.t.)

3 Cfr. KzV, II, pp. 791-806: «Prothesen - vom Geist der Technik»; pp. 812814: «Totalprothetik und technischer Surrealismus»; pp. 909-920: «Weimarer Doppelbeschlüsse oder die Sachlichkeit zum Tode». (n.d.t.)

del fatto che io non debba morire la «mia propria morte»; esso mi garantisce ausilio nel tentativo di rimuovere l'«io muoio» onde avere in cambio un «si muore», una morte in contumacia, in istato di straniamento e stordimento politico. Si fa una «scalata». Ci si distrae. Si muore.

Nell'«io muoio» di Heidegger trovo il nucleo cristallino attorno a cui strutturare il realismo filosofico di un nuovo tunisino. Da questo apriori kinico, ossia l'«io muoio», nessun Fine Superiore deve a tal punto scostarsi da trasformare la nostra morte in un mezzo per un fine. L'assenza di senso del vivere di cui tanta stupida chiacchiera nichilista s'ammanta - fonda anzitutto la piena godibilità del vivere medesimo. All'assenza di senso non è correlata solo la disperazione, l'incubo di un Esserci oppresso: a quell'«Assenza» è soprattutto connesso il gaudio vitale. Portatore di senso e di energeia consapevole, un festoso qui e ora oceanico.

Che per Heidegger stesso le cose stiano in modo assai più tetro - oscillando tra le sfumature di un grigiore quotidiano e i violenti bagliori dell'Angst, dell'angoscia dipinta in tinte mortuarie - è fatto ben noto, e ben si armonizza all'aura malinconica dell'opera di questo filosofo. Eppure, nel pathos dell'«Essere-per-la-morte», vi è un granello di sostanza catartica; un pathos ascetico che — nel linguaggio del XX secolo - può dare voce al kinismo dei fini. Nel suo funzionamento la società ci impone come fini da perseguire legami e lacciuoli che ci condizionano in un Esserci inautentico. L'attivismo mondano fa di tutto per rimuovere la morte - ma l'esistenza autentica trova il suo punto di accensione anzitutto in questo: che io, in vigile consapevolezza, riconosca il mio modo di essere nel mondo, faccia a faccia con l'angoscia e davanti alla morte che si annuncia quando io rifletto a fondo il fatto che sono proprio io colui che - alla fine del mio tempo - la mia morte attende.

Heidegger trae da ciò la conseguenza di una originaria Unheimlichkeit, di un inquietante straniamento dell'Esserci; il mondo non può infatti configurare la dimora protettiva dell'uomo. Poiché l'Esserci è fin dalle sue radici inquietante straniamento, l'«uomo senza dimora» (che nella filosofia spunta dalla terra bombardata, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale) sente un anelito a rifugiarsi in abitazioni e patrie artificiali in cui abitare abitudini che escludano l'angoscia.

 

Naturalmente tali proposizioni - seppure generalissime hanno una concreta per quanto vaga relazione con i fenomeni del momento storico di allora. Heidegger non a caso è contemporaneo del Bauhaus, del nuovo abitare, del primo urbanismo, dell'edilizia popolare, delle teorie sui centri residenziali nonché delle prime comuni agricole. Il suo discorso filosofico partecipa misteriosamente alla moderna problematizzazione dei sentimenti abitativi, del mito-casa e del mito-città. Se l'assenza di dimora dell'uomo ha voce, ebbene questa non si alimenta solo dell'orrore per il grigiore che Heidegger, incorreggibile provinciale, prova di fronte alle moderne forme della vita metropolitana. È il rifiuto dell'utopia delle case e delle città da costruire, cioè il rifiuto di un'utopia centrale della nostra civilizzazione. In realtà, il socialismo - in quanto necessariamente affermatore di valori industriali - è un prolungamento cittadino dello «spirito dell'utopia»; esso promette la fuoriuscita dalle «città inospitali», ma con i mezzi «urbani» perseguendo una Città Nuova, la città finalmente e definitivamente umana, la Patria dell'Uomo. Ma in questo genere di socialismo si nasconde sempre un sogno co-alimentato dalla miseria metropolitana. Il provincialismo di Heidegger non prova alcuna comprensione per tutto ciò. E' uno sguardo dall'«eterna provincia» che giammai si lascerà persuadere, possano esservi al mondo luoghi più belli della campagna. Heidegger - a dirla da interpreti volonterosi - rompe le fantasie spaziali moderne dove la città sogna della campagna e la campagna della città.

Entrambe le fantasie sono ugualmente condizionate e deformate. Heidegger compie - vuoi in senso letterale, vuoi metaforicamente - un ritorno «postistorico» alla campagna.

Proprio negli anni della più dissoluta modernizzazione - i cosiddetti Golden Twenties - la città, già luogo dell'Utopia, comincia a perdere il suo fascino: soprattutto Berlino - capitale del primo Novecento - profonde un suo prussiano impegno ad annegare l'euforia metropolitana in atmosfere sobriamente illuminate. Centro focale dell'industria, della produzione, del consumo e della miseria di massa, Berlino è insieme anche la città più esposta all'alienazione; in nessun altro luogo la modernità viene pagata così cara quanto nelle città massificate. Il lessico che Heidegger impiega nell'analisi del «Si» impersonale sembra fatto apposta per restituire espressione al disagio

George Grosz, «Automi repubblicani», 1920.

che le città della cultura provano verso le loro proprie forme di vita. Cultura di Distrazione, Chiacchiera, Curiosità, Straniamento, Decadenza (a ogni vizio possibile è dato di pensare), Profuganza, Angoscia, Essere-per-la-morte: parole che evocano grandiose miserie metropolitane che vediamo riflesse su di uno specchio cupo e forse troppo finemente levigato. Il kinismo provinciale di Heidegger cela un'impetuosa tendenza alla Kulturkritik. Ma non è solo per disperato provincialismo che un filosofo di quel rango si ritrae dall'Utopia borghese-cittadina e socialistica; si tratta, piuttosto, di una svolta kinica nel senso che le grandi finalità e proiezioni della società metropolitana vengono abrogate. Un riorientamento verso la provincia potrebbe significare anche un riorientarsi verso una macrostoria più attenta di quanto tutte le ideologie industriali non fossero alle regole di natura, agricoltura ed ecologia. La storia scritta da uno storico dell'industria è, lo si voglia o no, una microstoria. La storia della campagna conosce invece il ritmo di una temporalità ben più ampia. In breve: la città non rappresenta il coronamento dell'esistenza, né questo ci potrebbe venire dalle finalità del capitalismo industriale, o dal progresso scientifico; più civiltà, migliore stile abitativo, maggior automobilità, cibi più appetitosi: neppure questo soddisfa in modo definitivo. Ciò che è autentico consterà sempre in qualcos'altro. Tu devi sapere chi sei. Tu devi capire che la consapevolezza dell'Essere-per-la-morte rappresenta la suprema istanza del tuo poter essere; ti balza addosso nell'angoscia: carpe diem! Ecco il tuo istante - se hai coraggio a sufficienza per fare fronte all'«angoscia» (Angst).

«Angoscia "autentica" (...) è - predominando la deiezione e la pubblica opinione - cosa rara». (1) Chi punta sulle rarità fa una scelta elitaria. Esserci autenticamente è dunque cosa per pochi. Cosa ci ricorda tutto ciò? Non intravediamo forse il Grande Inquisitore, che discerne e separa i molti dai pochi; i pochi che reggono il peso della Grande Libertà; e i molti che vogliono vivere da «schiavi ribelli», indisponibili a incontrare la Vera Libertà, la Vera Angoscia e il Vero Essere? Quest'elitarismo - inteso in modo del tutto apolitico, ma accolto da un'élite realmente esistente - doveva così debordare nella sfera sociale orientando, quasi inevitabilmente, opinioni politiche. Il Grande Inquisitore possedeva in ciò il vantaggio di una consapevolezza politica cinica e priva d'illusioni. Heidegger, di contro, era (rimasto) un ingenuo, privo di chiara consapevolezza del fatto che da una tradizionale mistura di accademismo apolitico, coscienza elitaria e sentimento eroico, vengono generate quasi con cieca necessità delle decisioni politiche. Per un certo periodo egli cadde - e si direbbe che cadde coerentemente - nel cinismo del Grande Inquisitore ariano. L'analisi s'avverò involontariamente proprio per lui. 

1 Cfr. SuZ, 40, p. 190; tr. it., cit., p. 238. (n.d.t.)

Tutto sembrava come se. Suonava come se fosse stato «genuinamente inteso, capito e detto» e invece non lo era affatto. Il nazionalsocialismo - «movimento», «insurrezione», «decisione» - era parso somigliare alla visione heideggeriana dell'Essere (autenticamente, risolutamente, eroicamente) per la morte; quasi che il fascismo fosse la rinascita dell'autenticità dalla decadenza, quasi che questa moderna insurrezione contro la modernità rappresentasse la reale prova di un'esistenza risoluta a riapprodare a se stessa. Come non pensare a Heidegger, riandando alla sovrana notazione di Hannah Arendt sugli intellettuali nel Terzo Reich, certo non fascisti, i quali tuttavia, già che c'era il nazionalsocialismo, «s'inventano qualcosa per»... In realtà Heidegger s'inventò un mucchio di cose, poi scoprì quel che il movimento nazista aveva «autenticamente» in capo. L'inganno non poteva durare a lungo. Proprio il nazionalsocialismo avrebbe chiarito quanto avesse mai an sich il «Si» impersonal-ariano: il «Si» come dominatore, il «Si» come mossa narcisista e autoritaria al tempo stesso, il «Si» come soggetto della lussuria omicida e dello sterminio burocratizzato. L'unica autenticità del nazismo consisté nel trasformare distruttività latenti in fenomeni manifesti, partecipando iperdirettamente un cinismo ormai esplicito, peculiarmente pronunciato e senza più remore. Fascismo - soprattutto nella versione tedesca - è «disvelamento» della distruttività politica portata alla sua forma più cruda, incoraggiata a tale crudezza dalla formula della «Volontà di potenza». Fu come se un Nietzsche terapeuta al modo del training autogeno avesse detto alla società capitalista: Dalla volontà di potenza siete in fondo già divorati, e allora: fuori tutto! Riconoscetevi per quel che siete veramente! (1) - la qual cosa i nazisti hanno poi eseguito, facendo venir fuori «tutto», anche se in ambito non terapeutico, ma, come ben si sa, nel bel mezzo della realtà politica. Forse fu la leggerezza del teoreta Nietzsche a fargli credere che la filosofìa si esaurisca in diagnosi pro vocatorie, prive di una vincolante soluzione terapeutica. A chia 

1 Conferire a Nietzsche una collocazione storica dignitosa dipenderà sempre dalla sua «Volontà di potenza». Incoraggiamento a cinismi imperiali?

Ammissione catartica? Moto estetizzante? Autocorrezione di un inibito?

Slogan vitalistico? Metafisica del narcisismo? Agit-prop della detabuizzazione?

mare il diavolo per nome occorre conoscere poi un modo per reagirgli, perché nominare il diavolo - o come Volontà di potenza, o come Aggressività - significa riconoscere una realtà, e riconoscere questa realtà significa in qualche modo «scatenarla».

Da Heidegger in poi - sia pure in modo cripticamente cifrato - un rampollo dell'antico impulso kinico è nuovamente tra noi, pronto a intervenire con criticità negli eventi sociali; in ultima analisi esso conduce ad absurdum la moderna coscienza della tecnica e del dominio. E, forse, perderebbe molto della sua arrogante tetraggine esistenzial-ontologica per chi intendesse la buffonesca prestidigitazione filosofica (philosophische Eulenspiegelei). Una furiosa fantasmagoria, finalizzata a condurre la gente a non lasciarsi più illudere da nulla, si mostra poi terribilmente arida quando si tratta di comunicare quella cosa semplicissima che ho chiamato kinismo dei fini. Ispirata dal kinismo dei fini, la vita potrebbe riprendere a palpitare del suo calore, dopo la glaciazione del fare, dominare e distruggere cui il cinismo dei mezzi l'aveva condotta. La critica della ragione strumentale preme per essere portata a compimento in una critica della ragion cinica. Nella quale si tratta di scevrare il pathos heideggeriano dalla mera coscienza della morte. Autenticità - se tale espressione ha davvero un senso - viene da noi esperita piuttosto nell'amore e nell'ebbrezza erotica, nell'ironia e nel riso, nella creatività e nel senso di responsabilità, nella meditazione e nell'estasi. Così, scevrandosi, Quel Singolo (che pensa esistenzialisticamente di possedere nella morte il suo unico e più autentico avere) scompare. Sull'apice del poter essere esperiamo non solo il tramonto del mondo in morte solitaria, ma anche, e ben di più, il tramonto dell'io nel darsi al mondo inteso come ens communissimum.

D'accordo, la morte tra le due guerre mondiali ha scosso la fantasia filosofica reclamando per sé, quanto meno in filosofia, lo ius primae noctis del kinismo dei fini. Il che non è molto lusinghiero per il rapporto tra filosofia dell'esistenza ed esistenza tout court, se poi l'unica cosa che le viene in mente, a domandarle cos'abbia da dire della vita vera e propria, è la «propria morte». E dice proprio che non ha Niente da dire (e qui il «niente» va proprio scritto con l'enne maiuscola). E' un paradosso, questo, che connota la spaventosa mobilitazione di for ze intellettive sottese a Essere e Tempo: una gigantesca ricchezza concettuale non fu mai investita per traslare un contenuto così «povero» (beninteso «povero» in senso mistico). L'opera esorta insistentemente e in modo patetico il lettore a condurre una vita autentica, ma si circonfonde di silenzio alla domanda: «Sì, ma come?». L'unica risposta, fondamentale, che se ne trae - una volta decifrata (nel senso di cui sopra) - dovrebbe suonare: «Consapevolmente». Non più, quindi, una morale concreta che codifichi quel che si deve e non si deve fare... Eppure, se il filosofo non ha più parte alcuna nella distribuzione di compiti morali, certo gliene resta in quella di una penetrante suggestione all'autenticità. Ergo: tu farai quel che vuoi, e vorrai fare quel che devi, ma insomma fallo in modo tale che, di quel che fai, tu possa rimanere intensamente consapevole.

L'ultima parola esistenzial-ontologica sull'etica è dunque: «amoralismo morale»? In realtà sembra che l'ethos della vita consapevole sia l'unico sostenibile tra le correnti del moderno nichilismo proprio perché esso, in fondo, un ethos non è. (1) Non soddisfa neppure le esigenze funzionali di una morale surrogata (come potevano invece fare le varie utopie dislocando il bene nel futuro e aiutando così a relativizzare il male che su tal via ne incoglieva). Chi davvero pensa al di là del bene e del male, riconosce qualche importanza a un'unica contrapposizione che è ad un tempo anche l'unica che possiamo dominare senza stress idealistici, in forza del nostro proprio Esserci: l'opposizione tra agire consapevole e agire inconsapevole. Se Sigmund Freud in una famosa istanza formulò la proposizione: Dov'era l'Es dovrò esser Io; Heidegger direbbe: Dov'era il «Si», dovrà esser l'autenticità. Autentico sarebbe - interpreto liberamente - quello status cui perveniamo realizzando nel nostro Esserci un continuum della consapevolezza. La sola situazione capace di rompere l'incantesimo dell'inconsapevolezza, in cui vive la vita umana - e quella socializzata anzitutto; la distratta consapevolezza del «Si» è condannata a rimanere discontinua, impulsivo-reattiva, automatica, e priva di libertà. Il «Si» è costrizione. Invece l'autenticità consapevole (accogliamo questa espressione in via provvisoria) enuclea per sé una superiore

1 Moderno equivalente del delfico «conosci te stesso!». Mentre l'Io freudiano cade piuttosto nel «Si». Lo psicoanalizzato è un conformizzato, un livellato?

qualità della vigilanza. Essa pone nel proprio agire l'intero peso della sua risolutezza ed energia. In termini analoghi parla il buddhismo. Mentre l'io-«Si» dorme e l'Esserci del sé autentico si risveglia a se stesso: chi ricerca se stesso in un vigile continuum di consapevolezza, trova - al di là della morale - quel che di per sé va fatto nella sua situazione.

La profondità del sistematico amoralismo heideggeriano (1) è dimostrata dalla reinterpretazione del concetto di «coscienza» (Gewissen): Heidegger costruisce (in modo al tempo stesso prudente e rivoluzionario) una «coscienza incosciente». Se la coscienza per tutti i millenni della storia morale europea è valsa quale istanza interiore atta a dirmi che cosa sarebbero il bene e il male, Heidegger la intende adesso come una vuota coscienza. Una coscienza che non rilascia dichiarazioni. «La coscienza parla solamente ed esclusivamente secondo la modalità del tacere». (2) Ecco riapparire una caratteristica figura concettuale heideggeriana: l'intensità insignificante. Al di là del bene e del male approdiamo a un lautes Sckweigen, un interminabile, rumoroso silenzio, una consapevolezza intensa, che non giudica e che solo si limita, vigilmente, a guardare ciò che accade. Coscienza, intesa un tempo quale istanza morale interiore, s'approssima ora al puro e semplice essere nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. La morale - partecipando alle convenzioni e

1 Questo amoralismo, frutto di riflessione che porta in sé - paradossalmente - la muta promessa di un'eticità autentica, ha trovato il suo avversario nel moralismo socialista. Anche la Krìtische Tkeorie più recente si è disancorata dal quasi-amoralismo sensibilista della Teoria Estetica adorniana dirigendo in rettilinea strategia argomentativa verso una positività etica. Ciò può in certo senso marcare un progresso; solo che scampi al pericolo di una ricaduta dietro la radicale modernità dell'amoralismo esistenziale e di quello estetico. Tale amoralismo, infatti, già rielabora le moderne esperienze di ogni morale e di ogni imperativo categorico: poiché tali forme del Dovere sboccano in stress idealistici, l'etica deontologica finisce per partorire i suoi becchini (scepsi, rassegnazione, cinismo). Il moralismo ci sospinge mediante quel suo Tu-Devi verso un ineluttabile Io-Non-Posso. L'amoralismo, invece, prendendo le mosse dal Tu-Puoi, tiene realisticamente conto del fatto che quel che Io-Posso, risulterà in fin dei conti anche la cosa giusta. La svolta verso la filosofia pratica, che contrassegna oggi con giusta, mondaneggiante felicità ogni pensiero dei fondamenti, non deve tentarci verso un nuovo imperativo categorico con cui muovere ancora alla conquista dell'Essere. La ragione cinica sviluppa perciò un'etica non deontologica, che incoraggia a fare quello che si può senza intricarsi nei depressivi meandri del Dovere.

2 Cfr. SuZ, 56, p. 273; tr. it. cit, pp. 331 sgg. (n.d.t.)

ai princìpi della società - riguarda solo il comportamento del «Si» impersonale. Resta invece - quale territorio del Sé autentico - la sola consapevolezza, quella puramente resoluta: una presenza vibrante.

In un patetico ductus argomentativo, Heidegger scopre che questa «coscienza incosciente» serba in sé un appello rivolto a noi - un «appello a esser in causa» (Aufruf zum Schuldigsein).

Essere in «causa», cioè in «debito», o meglio in «colpa»: ma in colpa di che!? Nessuna risposta. Che la vita «autentica» sia in qualche modo colpevole a priori? È la dottrina cristiana del peccato originale che fa qui nascostamente ritorno? Se così fosse, avremmo abbandonato il moralismo solo in apparenza.

Ma - se l'Essere-sé, autenticamente, è descritto come Essereper-la-morte - viene naturale da pensare che quell'appello allo Schludigsein configuri un collegamento esistentivo tra il proprio Essere-ancora-in-vita e la morte degli altri: Mors tua vita mea; chi vive autenticamente intende se stesso come un sopravvissuto, uno cui - essendo la morte appena passatagli accanto - l'intervallo che lo separa dal secondo e definitivo incontro con la morte appare un puro differimento. In questa estrema zona confinaria di riflessione amorale l'analisi heideggeriana - com'è da attendersi - procede con logica serrata.

Che egli fosse conscio di muoversi su terreno minato è reso evidente dalla questione che lui stesso solleva: «Appellarsi all'essere in colpa non è appello alla malvagità?». Sarebbe autenticità quella in cui noi fossimo autori resoluti di malvagità?

Come per esempio facevano i fascisti che si richiamavano al nietzscheano «Al di là del bene e del male» per compiere (molto al di qua, invero) il male? Dinanzi a tale possibile conseguenza logica, Heidegger si ritrae spaventato. L'amoralismo della «coscienza» non è inteso come appello alla malvagità, ci assicura. Lo Heidegger del 1927 serba pur sempre questa preoccupazione, carica di presentimento. Senonché il filosofo mancò, nel 1933, il momento della verità, lasciandosi ingannare dal look fraseologico hitleriano, di apparenza attivisticodecisionista-eroica. Ingenuo di cose politiche, egli credette di trovare nel fascismo una «Politica dell'autenticità» e - cieco come sa esserlo solo un professore universitario tedesco - si concesse una proiezione dei propri filosofemi sul movimento nazista.

 

Tuttavia, non si deve perdere d'occhio che Heidegger, se guardiamo alla sua centrale prestazione filosofica, non sarebbe «di destra» neppure se avesse agito sul piano politico in modo assai più confuso di quel che in realtà fece. Infatti, con il suo kinismo dei fini - come io lo chiamo -, egli ha demolito per primo le Grandi Teorie utopico-moralistiche del XIX secolo.

Egli, con questa prestazione, resta uno dei capostipiti nella genealogia di una sinistra nuova e diversa: una sinistra non più ancorata alle costruzioni ibride della filosofia della storia ottocentesca; una sinistra non più complice dello spirito cosmico nello stile dogmatico-marxista della Grande Teoria (termine che preferisco a «concezione del mondo»); una sinistra non più votata alla dogmatica dello sviluppo industriale senza «se» né «ma»; bensì, piuttosto, una sinistra capace di rivedere la saccente e gravosa tradizione materialista; che non presuppone la morte di altri affinché la «propria causa» proceda, vivendo invece del fatto di aver compreso che a quanto vive può importare solo di sé; una sinistra che non dipende affatto dalla fede statalista come panacea di ogni moderno scompenso.

Senza saperlo e, per buona parte, addirittura senza volerlo sapere (qui da noi con rabbiosa resolutezza nel non volerlo nemmeno riconoscere), la Nuova Sinistra è una sinistra esistenzialista, una sinistra neo-kinica; e arrischio il conio: una sinistra heideggeriana. Soprattutto nel Paese in cui la Teoria Critica ha eretto un tabù pressoché infrangibile sull'omologo «fascista», quanto ho detto rappresenterebbe un'opportunità per stimolanti riflessioni. Eppure: a chi mai è saltato in mente di indagare a fondo e con precisione le linee repulsive tra le correnti esistenzialiste e la sociologia filosofica discendente dalla sinistra hegeliana? Mi domando se sotto sotto non ci sia una gran copia di somiglianze e analogie tra Adorno e Heidegger. Quali ragioni hanno realmente presieduto all'evidente incomunicatività tra i due filosofi? (1) Chi mai potrebbe dire quale tra questi due filosofi abbia elaborato la «scienza più triste»?

E Diogene? L'avventura esistenzial-ontologica è valsa per lui la pena? La sua lanterna avrà trovato l'uomo? Gli sarà riuscito di istillare nelle teste l'indicibilmente semplice? Credo che lui stesso ne dubiterebbe. Non starà meditando di chiude 

1 Di tali quesiti s'è di recente occupato Hermann Mòrchen nel suo ponderoso Heidegger und Adorno.

re l'intera impresa filosofica? In realtà non sopporta la trista complicatezza della situazione. La strategia del collaborareper-trasformare coinvolge l'attore della trasformazione nella malinconia collettiva. Alla fine, lui - che pur era maggiormente vitale - resta solo maggiormente triste, e difficilmente potrebbe essere altrimenti. Uno di questi giorni Diogene darà magari le dimissioni; forse si leggerà accanto all'entrata dell'aula che il corso del docente X è sospeso a tempo indeterminato. Voci riferiranno di averlo visto comprarsi un sacco a pelo all'American Shop, e poi verrà notato nei pressi di un bidone delle immondizie. Alticcio, ridacchiante, con la mente turbata e l'animo sconvolto...

  


CAPITOLO IV


 


FENOMENOLOGICHE I


 


 


CINISMI CARDINALI 


 


 Ad alcuni nudi pensieri, in un momento di furioso malumore, ho ristrappato via le foglie di fico...


Heinrich Heine, dalla Prefazione a Germania, una fiaba d'inverno




Il cinismo cela in sé più di quanto lo si crederebbe a prima vista capace. Come si suol dire: se gli dai un dito ti prende il braccio. Inizialmente, per curiosità, volevamo «vedere che c'è» ed eccoci caduti - ma lo si capisce troppo tardi - in una vicenda che ci cambia i connotati. Volevamo gettare uno sguardo sul cinismo e scopriamo che esso da gran tempo ci aveva assoggettati al suo dominio.


Finora abbiamo presentato il concetto di cinismo in due versioni, e una terza se ne prospetta ora. La prima versione concettuale si poteva così formulare: cinismo è la falsa coscienza illuminata, la coscienza infelice nella forma che ne risulta dalla modernizzazione. L'approccio, intuitivo, è qui annunciato da un paradosso; è l'articolazione di un disagio di un mondo pervaso da minuscole follie, da false speranze, ciascuna accompagnata dalla sua delusione, con l'avanzata degli spostati e il blocco della ragione, la profonda lacerazione che attraversa le coscienze moderne e sembra sancire divorzio eterno tra ragionevolezza e realtà, fra ciò che si sa e ciò che si fa. In quest'ambito descrittivo, perveniamo a un'immagine patografica, utile a sondare i fenomeni schizoidi; in essa si sono cercate parole adatte alle strutture perversamente complicate di una coscienza ormai riflessiva (e forse ancor più trista che falsa), che, per la necessità di autoconservarsi, esercita in perdita secca una perenne autosconfessione morale.


 


Nella seconda versione, il concetto entra in ambito storico; si delinea un conflitto che, nell'antica critica alla civiltà, apparve per la prima volta sotto il nome di kynismòs, e fu, il cinismo antico, un impulso di individui risoluti a mantenersi pienamente razionali e vitali contro i contorcimenti e le semiragionevolezze delle società in cui vivevano. Esistenza resistenziale, ilare, recalcitrante, che si richiama alla natura intera e alla pienezza della vita; essa si avvia come «individualismo» plebeo, pantomimico, scaltro e di pronta battuta; parte di ciò viene poi trasmesso per osmosi alla più seriosa filosofia stoica, e qui si delineano iridescenti connessioni con il cristianesimo, poi distrutte dal modo in cui la teologia cristiana negherà (giungendo fino a demonizzarlo) il lascito del mondo antico e pagano. Il termine «cinismo» è, di contro, riservato per designare la risposta dei potenti e della cultura dominante alla provocazione kinica di cui s'è detto; certo, i potenti percepiscono bene quel che di vero c'è nel kinismo, ma non per questo demordono dal reprimerlo. Essi sanno quello che fanno.


Il concetto si sdoppia, dunque, nei due opposti - kinismo e cinismo - corrispondenti grosso modo alle nozioni di resistenza e repressione, meglio: all'autoconcretizzazione corporea nella resistenza e allo sdoppiamento schizoide nella repressione. In tal modo il concetto di kinismo viene separato dalla sua origine storica per trasformarsi in una silhouette tipologica capace di sempre nuove apparizioni nelle epoche in cui - nelle civiltà della crisi e nelle crisi della civiltà - le coscienze prendono a cozzare le une contro le altre. Kinismo e cinismo, pertanto, sono costanti della nostra storia, forme paradigmatiche della coscienza polemica «bassa» ovvero, rispettivamente, di quella «alta». In esse si dispiega il contrasto tra culture «alte» e culture «popolari» nella forma di un disvelamento che denuncia i paradossi insiti alle etiche «alte».


Ed ecco che la terza versione del concetto di cinismo procede qui verso una fenomenologia delle forme della coscienza polemica. La polemica s'impernia costantemente intorno alla giusta concezione della verità in quanto «nuda» verità. Il pensiero cinico, infatti, può fare la sua apparizione solo dove, sulle cose, sia divenuta possibile una duplice veduta: ufficiale e ufficiosa, velata e nuda, dal punto di vista dell'eroe e da quello del cameriere. In una cultura in cui si viene di regola ingannati, non si pretende meramente di conoscere la verità, ma piuttosto la nuda verità. Laddove nulla può sussistere senza il permesso dei superiori, ciò che occorre è cavar fuori i «nudi» fatti, e quel che ne dirà la morale non importa. In certo modo «dominare» e «mentire» sono qui sinonimi. Perciò, la verità del padrone e quella del servo hanno suoni diversi.


In quest'esame fenomenologico di figure bellicose della coscienza dovremo superare il fatto di parteggiare a favore del kinismo; dovremo anzitutto osservare asciuttamente come le forme di coscienza proprie al kinismo e quelle proprie al cinismo, in alcuni ambiti di valore qui prescelti (politico, sessuale e religioso), si contrappongano, si relativizzino reciprocamente, entrino in frizione o infine imparino anche a conoscersi e a bilanciarsi. Nell'ambito dei «cinismi cardinali» emergeranno i lineamenti di una storia dello spirito militante. Vi si delinea cioè quel «lavoro all'ideale» nato nel cuore delle etiche culturali «alte». Come si vedrà, non si tratterà certo di una «fenomenologia dello spirito» in senso hegeliano. (1) E con quella husserliana ha altrettanto poco a che fare, se non l'inossidabile, filosofico grido di battaglia: ai fatti!


 


1 Posto che la fenomenologia hegeliana sia descrivibile come un «viaggio dello spirito universale attraverso la storia fino al raggiungimento di se stesso», di tale formulazione nessun termine portante sarebbe qui accettabile giacché in primis: non si tratta di un «viaggio», in quanto questi dovrebbe avere inizio e fine, ciò che invece non risulta (inoltre le metafore del «viaggio» non pertengono la storia); in secondo luogo: non c'è alcuno «spirito universale», nessun Weltgeist che a ogni svolta e conflitto della storia sia a un tempo soldato e spettator di battaglie; in tertiis: non esiste alcuna «storia universale» intesa come racconto di un soggetto a cui essa sarebbe accaduta; e in quarto luogo non esiste nessuno «stesso» che, dopo qualsivoglia serie di viaggi, storie o battaglie potrebbe tornare a «sé» (sarebbe un essere piuttosto fantomatico, una sorta di pronome riflessivo gigantomane, che soffoca i nostri «sé» naturali).


 


 


1


CINISMO DI STATO E DI POTENZA


Je n'ai rien, je dois beaucoup, je donne le reste aux pauvres.


Testamento di aristocratico


Anche l'imperatore va al gabinetto? La domanda mi occupa non poco e corro dalla mamma. "Finirai in galera", dice mamma.


Quindi l'imperatore non va al gabinetto.


Ernst Toller, Una giovinezza in Germania, 1933


 


Con la guerra e i preparativi bellici vanno di pari passo: astuzie diplomatiche, disinnesco dei concetti morali, verità in ferie e una messa solenne per il cinismo.


James Baldwin, premier britannico, 1936


 


I soggetti della realtà politica, stati e imperi, possono essere paragonati con ciò che gli eroi rappresentano in quella militare. Quanto più risaliamo il corso della storia, tanto più le figure dei re e degli eroi si accostano, fino a fondersi nell'idea di una monarchia eroica. Nel mondo antico numerose furono le stirpi reali e molti gli imperatori che scrissero le loro genealogie risalendo senz'altro fino agli dèi. All'ascendenza eroica, esprimentesi nella salita al trono prodemente conquistato, doveva aggiungersi, nelle tradizioni antiche, la discendenza divina, esprimente garanzia di origine celeste; re si era per un verso in virtù di potenza eroica e, per l'altro, di «grazia divina»: dal basso in alto guadagnata con i trionfi, dall'alto in basso illuminata dalla legittimazione cosmica.


Le prime monarchie certo non conobbero inibizioni nell'autoincensamento pubblico. E dove nobiltà, monarchia e statualità ebbero modo di consolidarsi, ebbe inizio, nelle famiglie dominanti, un vero e proprio training intensivo di arroganza.


Solo in questo modo la consapevolezza di essere «in cima alla vetta» trovava un saldo ancoraggio nell'animo dei potenti.


 


La Grandeur divenne in ciò paradigma dello stile, e politico, e psicologico. Il salto fu quindi quello dal potere alla magnificenza, dalla nuda superiorità della forza alla gloria sovrana. I re dei primordi (faraoni, despòtes, cesari e imperatori) erano soliti rinsaldare la loro identità tramite un simbolismo carismatico. Vigeva una sorta di megalomania funzional-monarchica, una grandiosità come fattore strutturale del dominio.


Mediante la fama i prìncipi delineano i connotati del loro dominio simbolico, ed è solo grazie a tale fama - medium di tutti gli altri mezzi - che ancor oggi sappiamo dell'esistenza di certi regni, nonché i nomi dei loro sovrani. In questo senso, il fascino delle antiche arroganze regali non ha mai cessato di esistere.


Alessandro Magno non ha solo portato il suo nome fino in India, ma lo ha anche proiettato, tramite la tradizione, nelle profondità del tempo. Intorno a certe dominazioni e ad alcuni sovrani è come se si soffondesse un'aura luminosa che emette energia per millenni.


Però, con l'emergere di postazioni politico-simboliche tanto elevate, viene insieme a costituirsi anche lo scenario in cui prenderà avvio il processo cinico del potere - naturalmente anche qui dal basso in alto, cioè con una sfida allo splendore dominante mossa da una posizione sfrontatamente plebea. I soggetti portatori del primo kinismo politico sono perciò quei popoli posti in schiavitù o minacciati da tal prospettiva, i quali, ancorché oppressi, non ne subiscano, sul piano dell'identità, un fatale annichilimento. Per costoro è naturale osservare senza sacri timori le arroganti pose dei potenti; è naturale, anzi, ricordare i massacri e le desolazioni provocati dal vincitore prima dei suoi pavoneggiamenti trionfali. Così, negli occhi degli schiavi, è già cominciata la riduzione della sovranità a pura violenza e della maestà a mera ferocia.


Inventore del primo kinismo politico fu il popolo ebraico.


Nell'ambito della nostra civiltà esso fornì il modello finora più potente di resistenza alle violenze dei dominatori. Sfrontato, determinato, combattivo e a un tempo resistente al dolore, il popolo ebraico è o è stato fra i popoli l'Eulenspiegel il buon soldato Svejk. Nell'umorismo ebraico è ancor oggi ben vivo qualcosa di quell'esuberanza propria a una coscienza sovrana e oppressa - un lampeggiamento riflessivo di sapere melanconi co, che con furbizia, impertinenza e presenza di spirito si mette in posizione di combattimento contro poteri e arroganze. Se lo gnomo d'Israele ha ancora una volta sconfitto il moderno Golia, nello sguardo del vincitore brilla una scintilla antica di tre millenni: che scorrettezza, o Davide! (Efraim Kishon). La posterità di Adamo - il primo tra tutti i popoli - ha mangiato dall'albero della conoscenza politica: una maledizione, si direbbe. Infatti, con il segreto dell'autoconservazione si rischia la condanna erratica di Ahasvero a non poter vivere e a non poter morire. Per gran parte della loro storia, gli ebrei sono stati costretti a condurre una vita di sopravvivenza difensiva.


Il kinismo politico degli ebrei è un portato del sapere ironico e insieme melanconico secondo cui tutto passa, anche le tirannidi, anche gli aggressori e l'unica cosa che resta è il patto del popolo eletto con il suo Dio. Per questo gli ebrei possono in un certo senso valere da inventori dell'«identità politica»; una fede interiormente invincibile e indeflettibile che ha saputo con kinico spirito di rinuncia e di sacrificio preservare la propria esistenza attraverso i millenni. Il popolo ebraico fu il primo a scoprire la forza della debolezza, dell'attesa paziente e della sopportazione; da questa, infatti, durante conflitti militari millenari combattuti in posizione di costante inferiorità, è dipesa la sopravvivenza ulteriore. Il grande punto di discontinuità nella storia ebraica, l'inizio della diaspora con l'anno 134 d.C. conduce il piccolo e valente popolo a un mutamento di modelli. La prima metà della storia ebraica è sotto il segno di Davide che aveva affrontato Golia, passando alla storia come esponente di un regno «realistico», privo di esagerazioni trionfali. A questa figura di regale buontempone e di eroe, il popolo poteva improntare, nei momenti del pericolo, la propria identità politica. Da Davide discende la figura di un eroe alternativo, l'eroismo umanizzato dei più deboli che si afferma nella resistenza alla dominazione. È dall'ebraismo che il mondo eredita l'idea di Resistenza. Nel popolo ebraico questa vive in forma di tradizione messianica, che nel segno della speranza scrutava i tempi attendendo il Re promesso, il Salvatore della stirpe di Davide, il quale Re e Salvatore avrebbe ricondotto l'infelice popolo, fuor di ogni intrico, nuovamente a se stesso, nella sua patria, alla sua dignità e alla sua libertà. Secondo la rappresentazione di Giuseppe Flavio, nella Guerra giudaica, (1) lo stesso Gesù altro non fu che uno dei numerosi esponenti della fronda messianica e della guerriglia religiosa di resistenza alla dominazione romana. Dalla conquista romana della Palestina fino alla crisi definitiva con la sollevazione di Bar Kocheba nel 134 d.C, il messianismo dovette rappresentare in terra ebraica una vera epidemia. Il ribelle Simon Bar Kocheba (che significa «figlio delle stelle») aveva rivendicato - come Gesù discendenza da Davide.


Con Gesù e il costituirsi della religione a lui improntata, la tradizione davidica trova una prosecuzione in nuove dimensioni. Mentre il popolo d'Israele - battuto e disperso - entrava nella seconda, amara fase della sua storia (nel corso della quale Ahasvero, l'Ebreo Errante, poteva ben più di Davide rappresentare il punto di riferimento), il cristianesimo proseguì su un altro terreno la resistenza ebraica contro l'Impero romano. Anzitutto il cristianesimo divenne una grande scuola di resistenza, di coraggio e di fede concretamente vissuta; se le cose fossero state allora come stanno oggi in Europa non sarebbe sopravvissuto nemmeno cinquant'anni. Durante l'epoca imperiale, i cristiani divennero il nucleo di una resistenza interna. Essere cristiani significava, tanto per cominciare: non lasciarsi impressionare da nessun potere di questo mondo, e comunque non dagli arroganti, violenti e amorali imperatori, dagli dèi di Roma, i cui loschi affari, le cui manovre politicoreligiose avvenivano sotto gli occhi di tutti. Al primo cristianesimo fu certamente d'ausilio l'aver ereditato dagli ebrei quel kinismo storicizzante capace di ribattere a qualsiasi detentore imperiale del potere e della gloria e dell'arroganza: della vostra specie ne abbiamo già visti andare in rovina a dozzine, e ormai sulle ossa dei despoti di una volta solo le iene s'aggirano insieme all'eternità, all'onnipotenza del tempo che obbedisce esclusivamente al nostro Dio; identico destino vi attende, potenti della terra. In tal modo la visione ebraica della storia serba in sé un potenziale esplosivo: la scoperta della caducità degli imperi altrui.. La coscienza speculativa - primariamente ki 


1 Cfr. anche M. Harris, Cows, Pigs, Wars and Witches. The Riddles of Culture, New York 1974, 1978 2, pp. 133 sgg., «Messiahs, the Secret of the Prince of Peace» (Cannibali e Re. Le origini delle due culture, tr. M. Baccianini, Milano 1988).


nica e cinica (anche cinica in quanto alleata del principio più potente, ossia, in questo caso, quello della verità storica e di «Dio») - è quindi coscienza storica del fatto che innumerevoli imperi, tanto potenti e grandiosi, sono caduti, nella polvere, nella cenere. Alla coscienza ebraica, il sapere storico aveva saputo additare la novella della decadenza altrui e della propria miracolosa sopravvivenza. Dagli ebrei, i protocristiani erediteranno un sapere che si pone dal punto di vista del cuore degli oppressi: la nuda forza è hybris. Nel Salmo 10 la coscienza ebraica, calatasi all'interno del potere malvagio, ne spia invece l'arrogante monologo.


 


2 Giacché il senzadio è temerario, il povero e tapino deve soffrire, ed essi dipendono l'un dall'altro, tendendosi malvage insidie.


3 Infatti il senzadio si gloria della sua insolenza (...)


6 Egli dice in cuor suo: io non languirò mai più; né vi sarà giammai miseria...


 


Il kinico ebraico segue le fantasie d'invulnerabilità del despota militare fin dentro al midollo. Qui pronuncia il suo no.


No, lui non sarà tra quelli che adorano i potenti; e di qui in avanti i despoti dovranno vivere con questo tormento; sempre resterà un gruppo che si rifiuta di collaborare all'apoteosi del potente. Questo il meccanismo psicodinamico e politico della «questione ebraica». La coscienza kinico-israelitica infatti ha conosciuto sulla propria pelle, bastonata e ustionata, l'essenza violenta della gloria e della magnificenza. La schiena che ha contato i colpi certo si piegherà essendone più savia, ma si piegherà in quel modo ironico che fa schiumare di rabbia il megalomane di turno.


Nella tensione tra i potenti e gli oppressi si delineano dunque anzitutto due atteggiamenti: da un lato, il potere «magnificente» con la sua sfarzosa facciata; dall'altro, l'esperienza immediata, da parte dello schiavo che scopre il nucleo violento del potere e la vacua esteriorità dello sfarzo. Tuttavia un medio tra i due estremi viene di norma istituito dalle prestazioni politico-giuridiche del potere stesso, dalle quali esso trae la sua legittimazione. In tale termine medio - le prestazioni dello Stato e del diritto - la coscienza del servo e quella del padrone possono anche incontrarsi. Nella misura in cui il potere sa legittimarsi nel «buon governo», esso supera anche il suo originario carattere violento e può ritrovare la via di una relativa innocenza esercitando l'arte del possibile in un mondo di necessità. Dove al potere riesce realmente di legittimarsi, ciò avviene tramite il subordinamento a un superiore e più generale interesse, cioè il servizio alla vita e al suo sussistere. Per questa ragione pace, giustizia e salvaguardia dei più deboli sono formule sacre della politica. Ove un potere possa a buon diritto affermare di aver portato la pace, garantito la giustizia e salvaguardato la vita dei più deboli, esso si avvia a superare il suo primigenio nucleo di violenza guadagnandosi una superiore legittimazione. Qui, però, più ancora che altrove occorre confrontare le parole con la realtà. Di regola, il linguaggio dei potenti scambia i termini: chiama «pace» l'intervallo tra due guerre e «ordine» la repressione delle agitazioni; (1) esso s'ammanta di sensibilità sociale distribuendo oboli pregni d'ipocrisia, parlando poi di giustizia se e quando dà esecuzione alle leggi. Ma la losca giustizia del potere è tutta contenuta nel formidabile sarcasmo di Anatole France: «La legge col suo elevato senso di uguaglianza proibisce tanto agli straccioni quanto ai miliardari di dormire sotto i ponti».


Il peccato originale della politica, l'inizio sanguinario e violento di ogni signoria può essere superato nel modo in cui s'è detto, mediante legittimazione, cioè soltanto nella lustratio di un largo consenso. Ma se esso poi non sopraggiunge, la sostanziale violenza dei potenti riappare alla superficie, senza più veli. Questo, quando viene leso il diritto dei potenti, accade in forma legale nell'esercizio della vis punitiva. L'atto del «punire» rappresenta infatti il tallone d'Achille della legalità dominante. (2) Chi osserva i potenti nelle loro attività punitive ne può trarre utile indizio sul loro modo di essere, sulla loro violenza e sulla posizione da loro assunta in tal senso.


Come il codardo finirà giocoforza per nascondersi nella


1 Cfr. Julien Benda, La trahison des clers, Paris 1975, p. 44: «Ognuno intuisce la tragicità di questo dispaccio: "L'ordine è stato ristabilito". Mantenere l'ordine è sinonimo di: cariche a cavallo, fucilate sugli inermi, donne e bambini uccisi».(Il tradimento dei chierici. Il ruolo dell'intellettuale nella società contemporanea, a cura di Teroni Manzella, Torino 1976).


2 Non a caso Michel Foucault - promotore delle più penetranti analisi del potere, della violenza e della «micropolitica» del nostro tempo - ha preso le mosse dai poteri disciplinari, dalla punizione, dalle esecuzioni capitali, dalla sorveglianza e dalla reclusione.


massa titubante, così la coscienza dello «schiavo ribelle», per tenersi in vita, dovrà affinarsi nel linguaggio servile (del riconoscimento, della parvenza legale e della glorificazione), di modo che non se ne possano cogliere subito le sfumature ironiche. Se il ritratto di lui tramandatoci è attendibile, allora Petronio, civis romanus, fu un genio dell'ironia servile. In scontro ravvicinato con l'arroganza di Nerone, egli elevò l'adulazione annichilente a livelli eccelsi. E seppe servire al potere la sua avvelenata venerazione con adulazioni così dolci e con complimenti così prelibati che il potere stesso non poteva trattenersi dall'ingozzarsene. Per il consapevole patrizio dell'età imperiale non restava da ultimo altra strada se non quella di una morte per l'appunto consapevole. In tale savoir mourir - in cui la morte è messa in conto come prezzo, possibile e ultimo, della libertà - l'esautorata ma orgogliosa nobiltà romana approda al suo punto di contatto con il cristianesimo, che fu, nei secoli imperiali, la maggior provocazione maturatasi a detrimento del dominio dei cesari. In effetti, col cristianesimo sorge un sentimento di sovranità esistenziale che - ancor più dell'etica stoica - riuscirà a neutralizzare la questione se uno, socialmente parlando, sia in alto, in mezzo oppure in basso. Gli schiavi, in hoc signo, seppero porsi con maggior coraggio dei padroni davanti alla morte. La spinta corporeizzante della religiosità protocristiana era talmente forte che la più grande stuttura di potere del mondo antico ne fu risucchiata. Quella forza aveva le sue radici nella coscienza della libertà che nasce dove ha termine un'ingenua adorazione del potere. Non avere mai più da venerare un potere meramente mondano, esteriore e violento: ecco il nucleo kinico del cristianesimo primitivo e del suo atteggiamento verso i potenti. Fu Friedrich Schlegel tra i primi pensatori moderni a mettere in luce con chiarezza questa qualitas kinico-cinica di un cristianesimo vissuto in modo radicale e concreto. Negli Athenaeusfragmente del 1798 egli annota: (1)


 


Se l'essenza del cynismus consiste (...) nello sprezzo assoluto (...) di qualsivoglia (...) splendore politico (...), ebbene allora il cristianesimo potrebbe davvero non esser altro che cynismus universale.!


 


1 L'affermazione di Schlegel contiene l'accenno a una teoria del cinismo non solo politico, ma anche economico, religioso e intellettuale (cfr. anche i paragrafi che seguono, dedicati ai cinismi cardinali e secondari). Integralmente esso suona così: «Se l'essenza del cynismus consiste nel dare preferen 


La verità di questa tesi è dimostrata dal modo in cui la splendida Roma ha raccolto e riflettuto la sfida /cinico-cristiana.. Non c'era altra via per lo Stato romano se non soffocare brutalmente quella voce della coscienza, che tanto irritava (come le ondate di persecuzione anticristiana susseguitesi in quei secoli dimostrano). Ma poi si vide che le persecuzioni non sortivano l'effetto desiderato e che, anzi, aumentavano la forza della nuova fede; così, dopo trecento anni di frizioni, maturò la svolta epocale: il potere imperiale s'inginocchiò davanti al cristianesimo, per domarlo. Il senso della svolta costantiniana è questo. Con essa comincia la cristianizzazione del potere - e, sotto il profilo strutturale - il salto dell'impulso kinico al cinismo.


Da Costantino la storia degli stati europei è essenzialmente storia del cinismo di Stato cristianizzato, il quale, dopo questo epocale salto di sponda, non ha mai smesso, da ideologia schizoide dominante qual è, di esercitare supplizio e dominio sulla riflessione politica. Né ciò, a proposito di schizoidia, sembrerebbe (sulle prime) dover costituire il tema di una psicologia dell'inconscio. Le linee di scissione corrono qui in superficie, lungo le coscienze. Che il potere non possa diventare pio è cosa che ai potenti non appare nei loro incubi notturni, ma piuttosto nei loro quotidiani calcoli diurni. Non esiste alcun conflitto inconscio tra ideali della fede da un lato e morale del potere dall'altro, ma solo - sin da principio - una fede limitata. All'impulso kinico del contropotere si oppone perciò il cinismo del potere. E questo già sotto forma di una pervicace ambiguità intellettuale.


Il primo apice viene in tal senso toccato dall'ambiguità della filosofia agostiniana della storia: davanti al colosso marcescente dell'Impero romano cristianizzato non sembra sussistere altra via di uscita se non quella di erigere platealmente la scissione della realtà (e implicitamente anche la scissione delle morali) a programma, Nasce così la dottrina, fatalmente realistica, dei due regni (de duabus civitatibus): il regno divino (civitas za alla natura rispetto all'arte, alla virtù rispetto alla bellezza o alla scienza; nient'affatto badando alla lettera, ma solo dello spirito curandosi, nello sprezzo assoluto di qualsivoglia valore economico o splendore politico e nell'affermare valentemente i diritti dell'arbitrio di chi a sé basta, ebbene allora il cristianesimo potrebbe davvero non esser altro che cynismus universale» (Athenaeum. Eine Zeitschrift von A. IV. und Fr. Schlegel, vol. I, antol. a cura di Curt Grützmacher, Hamburg 1969, p. 102).


dei) e quello mondano (civitas terrena), tangibilmente rappresentati dalla Chiesa cattolica e dall'Impero romano. L'organizzazione mondana della Chiesa lambisce la terra come un'appendice delle sfere divine. Ecco prospettarsi una serie di dualismi da cui la storia e il pensiero statuale europei non riusciranno mai più a liberarsi del tutto. Ancora nel XX secolo Stato e Chiesa vivono rapporti di conflittualità che li vedono ora complici, ora avversari. Il clinch secolare tra Stato e Chiesa ci consegna un album bellico completo di tutte le positure, di tutti i trucchi, i colpi segreti, gli abbracciamenti a forbice o a tenaglia teoricamente possibili tra due lottatori bloccati l'uno nell'altro, in una morsa fatale, con le unghie e con i denti. Lo Stato cristianizzato (se trascuriamo il cristianesimo bizantino) non sa neppure in superficie organizzarsi unitariamente. È perciò condannato fin dall'inizio, a causa della sua struttura interna ed esterna - alla doppiezza, alla scissione della verità.


Si sviluppa, così, una duplice giurisprudenza (diritto imperiale e diritto ecclesiastico), una duplice cultura (spirituale e mondana) e addirittura una duplice politica (statuale e curiale). In queste reduplicazioni si cela parte del misterioso ritmo storico europeo che ha prodotto le vicende più sanguinose e laceranti, ma insieme anche le più creative mai compiutesi in un tempo e in un continente così piccoli. La logica polemica kinico-cinica appartiene, dunque, a quelle forze o «leggi» che trainano questo tumultuoso processo storico di culture, classi e istituzioni europee verso una loro inaudita eclatanza. Qui - fin quasi dall'inizio - è tutto «doppio»: un tremendo potenziale di antitesi pronte all'attacco, di forze riflessive concretizzatesi in convincimenti armati.


Non vogliamo entrare in ambito specificamente storiografico. Per tratteggiare la tensione nel suo dispiegarsi bastino, quindi, alcuni indizi. Notoriamente l'episcopato di Roma, con le sue dépendances in provincia, fu l'unica struttura parastatale che sopravvisse alla caduta dell'Impero romano d'Occidente.


Intorno al 500 d.C. il cristianesimo conquistò i nuovi gruppi di potere nordeuropei essendo riuscito a Remigio di Reims di battezzare il capo franco dei Merovingi, Clodoveo (da cui la Chiesa francese, ancor oggi fiera, s'appella «fille ainée de l'église»). Che poi Clodoveo (certamente della stessa pasta di un Gengis Khan o di un Tamerlano, ancorché provvisto di più modesti mezzi) fosse, en passant, una delle figure più bestiali, assetate di potere e prive di scrupoli della primitiva storia europea valga qui da cenno a quanto ci si può attendere dalle dominazioni cristiane. Ben presto, vivere con in testa la scissione divenne per i potenti di campo cristiano il problema fondamentale. In ultima istanza si dovette addirittura procedere alla scissione della stessa cristologia, e si ebbe così una cristologia per i cristiani «dimezzati» e una per i cristiani «integrali», l'una per gli scissi, l'altra per i non-scissi. Tendenza, questa, che certo aveva preso piede già dai tempi delle persecuzioni quando le comunità cristiane cominciarono a sedimentare le loro élites religiose (santi, martiri, sacerdoti) separate dai «comuni» cristiani.


Lo sviluppo schizoide del cristianesimo può spiegarsi essenzialmente in base a tre grandi trasformazioni: in primis con la metamorfosi della religione da processo vitale della communitas a gran gala metafisico per i potenti e cioè con annessa edificazione della politica ecclesiale; in secundis con l'istituzione di governi spirituali come i fondi papali, vescovili e abbaziali (abbazie, priorati ecc.); in tertiis con la cristianizzazione violenta e superficiale del popolino. In triplice forma si presenta anche il nucleo kinico del cristianesimo, che, seppure nel segno del dominio cristiano, oppone una certa resistenza al nudo dominio, e tenta di vivere contro la scissione: in primis nei grandi movimenti monastici occidentali, antesignani già con Benedetto da Norcia di una sintesi tra lavoro e preghiera (che poi si ripeterà anche in epoca più tarda durante le ondate contemplative e ascetiche dell'alto medioevo); in secundis nei movimenti ereticali, i quali senza tregua reclamarono il carattere concretamente vissuto del comandamento d'amore cristiano (divenendo spesso martiri cristiani di persecuzioni «cristiane»); in tertiis negli sforzi profusi da alcune signorie cristiane per superare le tensioni tra «uffizio» e dottrina integrandole in un umanesimo del principe (ove però resta aperto se e in quale misura tale tentativo potesse riuscire). Con il cristianesimo già Carlo Magno aveva condotto, in modo cinico-realista, una sua politica religiosa di stampo franco-imperiale, e per questa ragione egli è giustamente chiamato padre dell'Occidente.. Gli ottoni e i salii svilupparono poi l'affare del dominio politico utilizzando uomini di chiesa fino a trasformare gli episcopati in altrettanti pilastri politici dell'Impero (si veda per esempio il programma imperiale dell'alto medioevo, la riedizione cristiano-germanica dell'idea imperiale, nonché il duello di potere tra Impero e Papato).


Le sette grandi crociate possono venir comprese solamente in questo orizzonte. Quel che, tra il 1096 e il 1270, avvenne sotto il nome di «Croisade», è, da parte dei feudatari cristiani, un tentativo di scaricare all'esterno il cinismo dominatorio contenuto in misura ormai insopportabile nelle loro coscienze.


Dopo secoli di cristianizzazione degli strati dominanti e aristocratico-militari, i comandamenti religiosi avevano raggiunto il fondo dell'introiezione dando così il via a un esplosivo surriscaldamento dell'antitesi tra il comandamento cristiano dell'amore e l'etica guerresca feudale. L'insostenibilità della contraddizione, divenuta ora un fatto interiore, spiega la violenza con cui le energie del nostro continente poterono riversarsi lungo interi secoli nella patologica idea crociataria. Le crociate, proclamate a mo' di guerre sante, furono in realtà deflagrazioni psicosociali di tipo protofascista. Erano un modo per canalizzare le energie imbrigliate nel conflitto - tra le due etiche contraddittorie - insito nell'anima collettiva come in quella individuale. Nella Guerra Santa, il contrasto invivibile tra la religione d'amore e l'etica eroica divenne vivibile all'urlo di guerra: Dio lo vuole! In questa dimensione simulatoria tensioni violentissime poterono essere scaricate: per lo stupore della posterità, la quale negli indicibili tormenti e virtuosismi delle crociate non riesce a scorgere alcuna ragione militare, o economica, o religiosa. L'idea crociataria, insieme alla caccia alle streghe, all'antisemitismo e al fascismo, offre uno dei più potenti esempi di come una follia collettiva, proclamata in tutta ufficialità, abbia fatto comodo a innumerevoli individui - profondamente turbati dal conflitto tra religione d'amore e militarismo - preservandoli da accessi di follia privata. Dall'anno 1096, la Guerra Santa è nelle civiltà occidentali una valvola di sfogo; sotto la pressione delle proprie contraddizioni e follie interne la cultura europea si è, da allora in poi, andata regolarmente a cercare diabolici nemici esterni contro cui poter condurre guerre le più sante. La civiltà cristiana cela nel suo psicogramma questo rischioso germe protofascista; in tempi di crisi, nell'invivibilità nuovamente acuta delle pianificazioni etiche, ecco farsi incontro con ferrea regolarità l'istante in cui la passione deve esplodere. Che, poi, anche le persecuzioni degli ebrei in Renania abbiano avuto inizio nello stesso periodo delle crociate, sottolinea ulteriormente il nesso tra diversi fenomeni della patologia culturale. Ebrei, eretici, streghe, anticristi, rossi: tutti vittime di quel trinceramento soprattutto interiore che caratterizza i periodi di alta pressione schizoide, nei quali l'irrazionalità sociale complessiva cerca uno sfogo alle sue due etiche contrastanti.


Accanto alla canalizzazione crociataria del cinismo dominatorio cristiano, il medioevo ha messo in luce una seconda valvola di scarico delle tensioni con il costituirsi di una sfera cortese semisecolarizzata all'interno della quale era possibile abbandonarsi senza soverchie remore di coscienza all'ethos aristocratico ed eroico. Nei suoi primordi la saga di re Artù vive tutta nello slancio di questa scoperta; romanzi cavallereschi come le chansons de geste riservarono in modo piuttosto esplicito la precedenza all'ethos eroico rispetto a quello cristiano. Ancora qualche passo e il mondo cavalleresco vorrà svincolarsi dalle «catene» del comandamento cristiano d'amore e di pace per dedicarsi a un elevato sentimento mondano d'indipendenza: valentia nell'uso delle armi, festosa atmosfera di corte e libido raffinata (in barba alle chiacchiere dei preti); nasce una cultura fatta di tornei cavallereschi, di feste e battute di caccia, gran banchetti e amor cortese. L'edonismo aristocratico fino al XX secolo ha rappresentato per la mondana gioia di vivere un importante riparo dall'aura masochista dei monasteri cristiani. Orbene: veniva considerato bravissimo chi batteva il maggior numero di avversari conquistando per sé la donna più bella. Ancora Nietzsche, nel suo panegirico anticristiano in lode della blonde Bestie e delle nature forti, aveva in vista proprio questo genere di aristocratici attaccabrighe: i futuri condottieri, uomini abituati ad agguantare quel che gli aggrada sapendo assumere in ciò un comportamento magnificamente irriguardoso. Tuttavia, l'epopea neo-eroica e cortese si risolve infine in un'emancipazione dell'ethos cristiano, ma solo apparentemente. Anche i cavalieri di re Artù sono ovviamente, in modo sublime, dei cavalieri cristiani; e Parsifal lo evidenzia in tutta chiarezza. Con il mito del cavaliere alla ricerca del Santo Graal la cristianizzazione del guerriero viene proiettata su sfere metaforiche e allegoriche dove, in fin dei conti, la realtà sfuma in una mistica cavalleresca nella quale la pura dimensione spirituale assorbe la battaglia. Durante l'ultima fase del potere burgundo, la cultura cavalleresca divenne una sorta di poema eroico concretamente vissuto.


Nel pulviscolo simbolico tardo-medievale — tra ideologie imperiali, statuali e cavalleresche, aleggianti sull'interminabile guerra europea dei feudi, delle città, delle chiese e degli stati - l'insegnamento di Machiavelli sortì l'effetto purificatore di un temporale. Da allora Il principe è stato letto - soprattutto, poi, in epoca borghese - come il Gran Testamento dell'arte cinica del potere. Esso fu posto sotto accusa dalla morale in quanto costituiva una incontrovertibile testimonianza giurata dell'assenza di scrupoli in politica. Esso consiglia come importante trucco del mestiere ciò che la religione condanna alla radice e in modo incondizionato: l'assassinio. Naturalmente non si contano coloro che nel corso della storia hanno fatto uso di codesto mezzo. Non in questo consiste la novità dell'insegnamento di Machiavelli. Però, il fatto che qualcuno si faccia avanti e lo dichiari in pubblico configura una nuova temperie morale che può esser esplicata sensatamente solo dal concetto di cinismo. La coscienza dominatoria corre all'armi per un nuovo tour de force mentre si procede nel contempo a inventariare gli scampoli. Quasi inevitabile a questo punto che lo si dica in modo inequivocabile, sfrontato, privo di inibizioni, chiaro ecc. Ma l'averlo detto viene ancor oggi, in fondo, considerato più scandaloso ancora dell'atto stesso cui quel dire si riferiva.


L'«amoralismo» politico di Machiavelli presuppone l'inesauribile tradizione bellica nonché l'anarchia di feudi e fazioni nei secoli XIIII, XIV e XV. In quanto storico, Machiavelli percepisce ormai chiaramente come la veste, un tempo sfarzosa, dello Stato cristiano abbia perso anche gli ultimi brandelli di legittimazione dacché nessuno tra i sovrani, nel perenne caos di piccoli potentati ostili, ha saputo soddisfare anche solo in apparenza i più elementari compiti statuali: assicurare la pace, garantire il diritto, salvaguardare i più deboli. S'impone qui l'idea di un potere centrale, in grado di mettere fine al caos particolarista e rendere nuovamente possibile la vita dello Stato e della società. Il principe ideale di un tale potere centraliz zato - ancorché immaginario e, comunque, irreperibile - dovrebbe imparare l'uso degli strumenti che gli competono, intesi come garanzia di efficace potestà legislativa e difensiva, nonché come mezzo per la salvaguardia della pace; è questo il potere da esercitare in un certo, uniformato ambito statuale, al di là delle remore e intricatezze proprie alla morale cristiana. Machiavelli con il suo cinismo vede le cose in modo assai più chiaro di quanto non sappiano fare le varie potestà feudali, imperiali e comunali del tardo medioevo, le quali gestiscono gli affari in un loro stile brutale e caliginoso. La teoria politica di quel gran Fiorentino impone invece allo statista un obbligo di dominio incondizionato; il che implica automaticamente la liceità di qualsiasi mezzo. Una tale tecnologia cinica del potere può ritenersi valida solo nel caso in cui lo Stato, inteso come ambito di sopravvivenza collettiva, venga distrutto e un potere centrale - ove ancora esista - faccia la classica fine del cane bastonato da un branco di piccoli potentati locali, brutali, famelici e caoticamente belligeranti, che lo impieghino nel loro jeu du massacre. In tale situazione il cinismo di Machiavelli è veicolo di verità; per un istante storico si ode uno spirito risuonare, così sfrontato e sovrano da cogliere esattamente nel segno e poter parlare nel più vasto interesse. Nondimeno, questa cinica coscienza dominante è già così fortemente riflessiva, riflessivamente intricata e pericolosamente sfrenata, da non potersi senz'altro comprendere, né «sopra» né «sotto», non tra i detentori del potere e nemmeno tra il popolo. Quel che resta è solo il senso di disagio nell'udire descritta una forma di sovranità politica che procura al principe e ai sudditi dello Stato qualcosa di complessivamente «buono», ma arrischiando contro i singoli, al di là del bene e del male, i crimini più infami.


Si sarebbe cum grano salis portati a ritenere che l'arte politica di stati e domini assolutistici nell'Europa del XVII e XVIII secolo abbia rappresentato il compimento delle idee machiavelliane. E lo Stato assolutistico seppe effettivamente levarsi al di sopra dei piccoli potentati in lotta, al di sopra dei signorotti locali e soprattutto al di sopra delle fazioni religiose irretite nei loro sanguinosi conflitti. («Politici» erano detti all'epoca quelli che puntavano a barcamenarsi mediante tatticismi cercando di restare relativamente neutrali rispetto alle fazioni religiose in lotta.) Ma, senza neppure aspettare di essersi realmente


Lorenzo Leonbuono, «Allegoria della Fortuna». In questa politologia allegorica il potere viene raffigurato come un monarca attorniato dall'invidia, dalla stupidità, dal sospetto, dall'ingratitudine e dalla deformità.


stabilizzati nel loro rango di nuove potestà, ecco gli Stati assolutisti inscenare la loro apoteosi trionfale tra nembi autoincensatori. Anch'essi puntano tutto sull'oblio del loro nucleo violento in una grandiosa retorica di legalità e grazia divina. Ma neppure la tanto marcata insistenza sulla «grazia» divina potrà obnubilare nei sudditi di temperamento critico la nozione di un dominio ottenuto anche e soprattutto in «grazia» di crimini e misfatti di ogni risma. Nessuno Stato moderno è mai più riuscito a obliare interamente il proprio nucleo violento come, invece, vorrebbe il libro dei sogni dell'utopia leggittimista. La prima grande ondata resistenziale contro lo Stato (as solutista) moderno fu - ovviamente - un prodotto della nobiltà alta e terriera, un tempo libera e incondizionata; essa temeva la corte e rappresentava un gruppo che, già abbastanza arrogante di suo, intuì con chiarezza l'arroganza del potere centrale. Lo si potrebbe quasi registrare come l'involontario successo «popolare» di un Machiavelli datosi a intemperanze essoteriche a scapito di ogni moderno centralismo. L'amoralismo cinico dei poteri egemonici costituisce un tema ormai ineliminabile. Gli Stati vivono da allora in una dubbia luce cinica: a mezza strada tra legittimazione e arroganza. Un certo rigurgito di violenza, repressione e usurpazione accompagna anche quelli più assidui nel discorso della legittimazione e del diritto. Dietro ogni impresa di pace, per quanto significativa, luccica la ferrea maglia militare (sicché i moderni come gli antichi ribadiscono: si vis pacem para bellum). Anche nel miglior Stato di diritto sopravvivono ovunque i crudi fatti: privilegi di classe, abusi di potere, arbitrarietà e ineguaglianze; sotto la finzione giuridica dello scambio, del libero contratto di lavoro, della libera determinazione dei prezzi si evidenziano le disparità, i ricatti; dietro le forme di comunicazione più libere e sublimi rumoreggiano ancor sempre le voci della sofferenza sociale e della crudezza culturale. (In tal prospetto vale il giudizio di Walter Benjamin, secondo cui non vi sarebbe alcun testimone di cultura che non sia anche testimone di barbarie.)


Dal XVIII secolo, nel panorama politico mitteleuropeo i segreti di Pulcinella non si contano più. In parte discretamente, in ambito privato e coperto, in parte nei modi di un'aperta offensiva pubblicistica, i secreta del potere vengono riversati sulla piazza. E questi ha ora nuovamente da rispondere dinanzi alla morale. Lo Stato nascente dell'assolutismo (con relativa «ragion di Stato» fondata sulla capacità del principe di porre fine a guerriglie e stragi religiose) è caduto ormai da gran tempo in oblio. Anche la critica politico-morale settecentesca - appagata della certezza che, una volta al potere, lei ne farebbe invece un uso impeccabile - si contrappone al «dispotismo» assolutistico. A questo punto, sotto il nome di «popolo» («comunità», «terzo stato» ecc.), una nuova classe sociale, la borghesia, si candida al posto di comando. La Rivoluzione francese, nella sua fase regicida, pone un governo del «popolo» al vertice del lo Stato. Pur avendo fatto la rivoluzione autoproclamandosi «popolo», la borghesia viene progressivamente assumendo le vesti di un'aristocrazia finanziaria, accademica o industriale (intrecciatasi, oltretutto, alla nobiltà di sangue tramite mille matrimoni). Non ci vorrà molto perché codesto nuovo strato dominante, già autobattezzatosi «popolo» in ossequio al principio legittimatorio della sovranità popolare, saggi in proprio le contraddizioni del governo. Infatti, richiamandosi al popolo, esorta il popolo a venire a sé, lo invita a vivamente interessarsi delle manovre che avvengono vuoi in nome suo, vuoi dietro le sue spalle.


La contraddittorietà dello Stato cristiano rinasce ora - a una quota storicamente più elevata - nei conflitti di quello borghese che s'appella alla sovranità del «popolo» mentre subordina la propria autorità al suffragio universale (o che comunque tale, più o meno, appare). Nei fatti, però, quanto poco lo «Stato» cristiano del medioevo realizzò l'etica cristiana dell'amore, della conciliazione e della fratellanza, tanto poco i moderni stati «borghesi» hanno saputo plausibilmente tutelare le loro massime («libertà, uguaglianza, fraternità, solidarietà») o anche solo gli interessi vitali delle vaste masse popolari.


Chi consideri approfonditamente le condizioni di vita delle popolazioni rurali settecentesche (e, ancor più, quelle dei proletariati industriali in lievitazione), chi studi l'evoluzione pauperistica nell'età borghese, e, oltre a ciò, la condizione femminile, quella delle servitù, quella delle minoranze e così via, non potrà non vedere quanto fosse in realtà miserrimo e monco il concetto di popolo che veniva agitato nell'appello legittimatorio al popolo medesimo.


Divengono dunque possibili, e, anzi, necessari i fermenti socialisti. Essi reclamano che quanto si fa in nome del popolo, abbia altresì luogo con e per il popolo; chi si richiama al popolo deve anzitutto servire il popolo; a cominciare dal fatto che il popolo non andrebbe coinvolto in quelle sanguinose «guerre di popolo» tipiche dell'epoca in cui le borghesie industriali e fondiarie dominarono la scena «in nome del popolo sovrano»; e poi il popolo deve ottenere una giusta partecipazione alla ricchezza che viene dal suo lavoro.


Nel secolare conflitto tra i movimenti socialisti e lo Stato na zionale «borghese» (1) due nuove svolte, due nuove torsioni polemico-riflessive della coscienza politica sono venute manifestandosi, e hanno dominato gran parte del XX secolo. Entrambe rappresentano forme tarde e complesse della coscienza cinica. La prima è nota come fascismo. Un modo piuttosto disinibito di riconoscersi nella nuda violenza come forma di attività politica. Il modus cinico del fascismo ripudia ogni sforzo legittimatorio proclamando invece, apertissimamente, la violenza brutale e il «sacro egoismo» quali necessità politiche e leggi biologico-storiche. I suoi contemporanei percepirono Hitler come un grande retore anche perché costui iniziò la sua carriera col denunciare, nel tono deciso del «nudo realismo», quel che all'«animo tedesco» non andava da un pezzo né su né giù, e che, perciò, conformemente alle narcisistiche e brutali idee di ordine di quell'«animo», doveva essere «liquidato»: diciamo basta una buona volta a questo disperante parlamentarismo weimariano, basta all'infame trattato di Versailles ecc.; e poi facciamola finita anche con i «colpevoli» di tutto ciò: gli scomodi socialisti, i comunisti, i sindacalisti, gli anarchici, gli artisti degenerati, gli zingari, i pervertiti. Ma, soprattutto, basta agli ebrei (che verranno infatti esposti alle proiezioni dell'odio collettivo come «nemico pubblico numero uno»). Perché proprio loro? Donde viene questa singolare, malignissima ostilità? Ci si può chiedere se i nazisti, mediante lo sterminio, volessero rompere lo specchio che il popolo ebraico, con il suo semplice esserci, teneva innanzi agli occhi della loro arroganza. Invero il fascista, questo signor Nessuno pompato a dimensioni eroiche, di fronte a nessuno doveva sentirsi nudo come davanti agli ebrei, i quali quasi per natura, in forza delle loro dolorose tradizioni, rappresentano l'ironia avversa a ogni strapotere. Le figure di spicco del fascismo tedesco intuivano probabilmente come il loro arrogante regno millenario mai avrebbe potuto credere a se stesso fintanto che in un angolo di coscienza fosse sopravvissuta anche solo una vaga rimembranza del carattere meramente scenografico di tali mene. Su questo punto il ruolo del rammentatore cadeva proprio sui «giudei». L'antisemitismo tradisce un'incrinatura nella volon 


1 A considerare la questione nei dettagli emerge la problematicità di tali generalizzazioni assai grossolane; fino al 1918 per es. lo Stato tedesco, a fronte della sua componente feudale, non può certo definirsi borghese a pieno titolo.


tà di potenza dei nazisti; mai questo potere avrebbe potuto diventare così grande da vincere la negazione kinico-israelitica a lui opposta. Der freche Jude, «lo sfrontato giudeo», divenne così lo slogan, la parola d'ordine e l'ordine di sterminio del nazionalsocialismo. Dall'eredità resistenziale rassegnata, ormai velata di quel conformismo peculiare della moderna cultura ebraica, promanava, verso il nucleo della coscienza fascista, una negazione pur sempre così intensa che i nazisti - fermamente determinati all'automonumentalità - costruirono campi di sterminio dove procedere all'annientamento di ciò che li intralciava nelle loro empie manie. Forse che il popolo ebraico non viveva nella nozione melanconica secondo la quale tutti i messia si erano rivelati dei falsi? E il messia germanico - quello che si faceva celebrare quale Barbarossa redivivo - come avrebbe mai fatto a credere in sé e nella sua missione, dato che ancora poteva vedersi riflesso negli occhi del «malvagio giudeo» che «tutto disgrega»? Non c'è volontà di potenza che tolleri l'ironia della volontà di sopravvivere anche a quella stessa potenza. (1)


È certamente inammissibile definire lo Stato fascista del XX


 


1 Marginalmente: ho incominciato a raccogliere appunti sul cinismo (dai quali è poi uscita questa critica della ragion cinica di cui allora nulla immaginavo) poco dopo aver assistito a un'intervista con la filosofa e politologa ebrea Hannah Arendt. L'intervista era stata condotta, molti anni prima, da Günther Gaus, e veniva ritrasmessa nel 1980 per il quinto anniversario della morte della pensatrice. La conversazione - in quel suo modo alto e rilassato di chiacchierare e filosofare in pubblico, uno dei pochi esempi di vera intelligenza televisiva - raggiunse il suo culmine allorché la Arendt prese a raccontare di quello che aveva fatto durante il processo tenutosi a Gerusalemme contro Eichmann, corresponsabile della morte di milioni di persone. Bisogna aver udito come la Arendt assicurò di essere scoppiata - mentre studiava gli interrogatori (migliaia e migliaia di pagine di protocolli) - in grasse risate per la comica stupidità con cui quel criminale di guerra aveva esercitato la sua potestà di vita e di morte su innumerevoli esseri umani. Vi era, nella ultraconsapevole confessione di Hannah Arendt, qualcosa di frivolo e di kinico nel senso più stretto del termine, e - dopo un primo momento di stupore - si manifestò espressione liberatoria e sovrana della verità. Quando la Arendt - per sopraggiunta - osservò con nonchalance che anche l'esilio l'aveva spesso divertita («s'era appunto giovani e, insomma, l'improvvisazione in stato d'incertezza possiede pur un suo fascino»), be'... ho dovuto ridere anch'io e in quel riso è cominciata la stesura di questo libro. [La trascrizione dell'intervista qui menzionata dall'autore è stata tradotta in italiano e pubblicata su «Aut Aut», dicembre 1990, a cura di A. Del Lago e dedicato appunto a Il pensiero plurale di Hannah Arendt, (n.d.t.)]


secolo tout-court il rappresentante della struttura statuale «borghese» fondata sulla sovranità popolare. Nondimeno, il fascismo dispiega una delle possibilità connaturate allo Stato nazionale «borghese». Il suo antisocialismo rabbioso evidenzia infatti come e quanto nel fascismo si celi un fenomeno di disinibizione politica - e segnatamente una reazione autodifensiva cinico-dominatoria contro l'affronto dei socialisti che pretendevano di fare rispettare davanti al popolo quel che al popolo spettava e che oltretutto gli era stato promesso. Anche il fascismo, per parte sua, vuole «tutto per il popolo», ma, prima, fa in modo di procurarsene un falso concetto: il popolo come monolito, come massa omogenea, obbediente a un'unica volontà (Ein Volk, ein Reich, ein Führer). (1) Sotto questo aspetto l'ideologia liberal-borghese viene presa a calci. Libertà individuali, volontà individuali? Coscienza individuale? Aria fritta!


Tanto più fastidiosamente fritta quanto più in «basso» appare. Il fascismo realizza la tendenza dello Stato «borghese» ad affermare l'«interesse generale» definito come valido nella situazione particolare - e di affermarlo contro i singoli mediante la «forza necessaria»; su questo piano il tratto distintivo del fascismo è, senza tante cerimonie, la sua brutalità. Ecco perché, durante l'arrembaggio squadrista al potere statale, alcuni circoli economici e parlamentari, essenziali al governo dello Stato, poterono ben figurarsi l'eventualità di sostenere i fascisti, pur non essendo essi stessi fascisti: gli esponenti di quei circoli consideravano le camicie brune alla stregua di una nuova «ramazza» tramite cui spazzar via gli interessi «particolari» che (dal basso) turbavano l'«interesse generale». Ci si domanderà: davvero vi fu gente così cinica da credere di poter comperare Hitler e il suo partito? (Uno di questi «ingenui» - Thyssen - redasse in effetti delle memorie intitolate I paid Hitler)! (2)


Allo Stato fascista (con il suo soffocante caos di capitale e populismo, idealismo e brutalità) si attaglia un predicato filosofico a sé: cinismo del cinismo.


La seconda, complicata torsione della moderna coscienza


1 Cioè: un popolo, un duce, un impero. Anche nella storia delle democrazie popolari incontriamo analoghi imbrogli concettuali.


2 Mi sono risolto a classificare il cinismo imperniato sul denaro tra i cinismi secondari. Lo scambio cinico, trattato qui al cap. V.2, mi pare essere uno sfogo conseguente a necessità di potere.


politica ha luogo nella storia russa recente. Sembra esserci una tendenza secondo cui la durezza militante e la radicalità del movimento socialista crescono in proporzione allo standard repressivo presente in un dato paese. Quanto più un movimento operaio in Europa (e in Germania particolarmente) conta (conformemente alla reale crescita del proletariato nel processo d'industrializzazione) di diventare realmente forte, tanto più esso si fa posato («borghese») nelle sue manifestazioni e tanto più fida in una graduale affermazione sui suoi avversari, sulle forze dello Stato tardo-feudale e borghese. E inversamente: tanto più una forma di potere statale dispoticofeudale si dimostra di fatto potente e invincibile, tanto più fanatica diventa l'opposizione «socialista» impegnata a contrastarla. Ci si potrebbe esprimere anche così: tanto più un paese si presenta maturo per l'introduzione di elementi socialistici nel suo ordine sociale (elevato dispiegamento delle forze produttive, alta percentuale di salariati in rapporto alla quota di disoccupati, alto grado organizzativo degli interessi «proletari» ecc.), tanto più tranquillamente i capi del movimento operaio si dispongono ad attendere lo scoppio della rivoluzione.


Forza e debolezza del principio «socialdemocrazia» è sempre stata la pazienza pragmatica. D'altro canto: tanto più immatura (1) si presenta una società in rapporto al socialismo (inteso come postcapitalismo), tanto più irriducibilmente e irresistibilmente s'attesta al vertice dei moti rivoluzionari una versione radicalizzata del socialismo.


Se esistesse una legge per descrivere la logica dell'antagonismo, secondo cui nemici di lunga data finiscono per assimilarsi, ebbene tale legge, nel conflitto tra comunisti russi e dispotismo zarista, risulterebbe certo confermata. Quel che è accaduto tra il 1917 e il XX congresso del pcus può intendersi come un lascito cinico-ironico dello zarismo. Lenin divenne esecutore testamentario di un dispotismo eliminato al più nei suoi rappresentanti, ma non nelle procedure e nelle strutture. Stalin elevò il dispotismo tradito al livello tecnico del XX secolo; e


1 «Matura» e «immatura» non sono qui giudizi di valore, ma piuttosto scale di probabilità in rapporto alle condizioni di realizzazione del socialismo.


Posto che si definisca il socialismo come liberazione della produttività sociale dalle catene del capitalismo, debbono anzitutto essere realizzate condizioni tardo-capitalistiche prima di poter «andare oltre».


segnatamente: in una misura tale da far impallidire qualsiasi Romanov. Se lo Stato russo, già sotto lo zarismo, era una veste troppo stretta per la società, questa - con il partito-Stato - finì poi del tutto in una camicia di forza. Se sotto lo zarismo un piccolo gruppo di privilegiati aveva tenuto sotto controllo il gigantesco impero grazie a un apparato di potere terrorista, dopo il 1917 fu un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione a rovesciare il Golia cavalcando l'ondata di malcontento antibellico nonché l'odio contadino e operaio contro «lor signori».


Ed eccoci a Trockij, che di quell'ondata fu uno stratega...


Forse che costui (anch'egli ebreo, per inciso) non era l'erede di un'antichissima tradizione resistenziale, autoaffermatoria contro l'arroganza del potere? Trockij doveva farsi invero esiliare ed eliminare dal suo collega, assurto al rango di Golia.


Non c'è, forse, nell'assassinio staliniano di Trockij la stessa risposta presente nel genocidio fascista, per cui il potere, se sfidato, reagisce uccidendo? In entrambi i casi ne va della vendetta di un'usurpazione contro l'irriducibilità di chi mai vorrà rispettarla e, anzi, per sempre le agiterà in faccia lo spauracchio: legittimati o sarai travolta! Nell'idea trockijana della rivoluzione permanente era insita la nozione secondo cui il potere politico deve legittimarsi sempre nuovamente in ogni secondo del suo esercizio se vuole distinguersi dalla criminalità.


Il potere deve conservarsi nel proprio ambito in quanto potestà di pace, di diritto e di salvaguardia dei più deboli, al fine di rendere possibile nuova abbondanza di vita autonoma. L'idea della rivoluzione permanente non rappresenta dunque un appello al caos, ma la cifra della coscienza ebraica secondo cui ogni mera arroganza statuale verrà fatalmente mortificata sia pure per il solo fatto che la memoria dei suoi delitti non si spegnerà finché essa sussiste. Se la resistenza russa si esprime ancor oggi nel linguaggio dei diritti umani e cristiani, ciò accade perché il processo di autoemancipazione si è in Russia bloccato nel punto in cui era giunto tra il febbraio e l'ottobre del 1917: alla petizione di diritti umani intesi come forme generali delle libertà civili. Un paese che voglia saltare a pie pari la «fase liberale», a conclusione del salto dal dispotismo al socialismo finisce per ritrovarsi al dispotismo. Il popolo russo ha finito per lasciarsi asservire a un futuro il cui sol dell'avvenire s'è rifiutato di sorgere (e che - dopo quanto è successo - certo non potrà più farlo nel modo promesso). In un accesso di masochismo ortodosso e di terrorizzata autopunizione, i vitali diritti e le petizioni di ragionevolezza di allora vennero tutti consunti, sacrificati sull'altare di generazioni ulteriori. Le sue energie migliori logorate alla rincorsa della follia consumistica e della tecnologia militare dell'Occidente...


Per quel che concerne, poi, l'apparato statale brezneviano, la maggior parte degli osservatori afferma che esso è totalmente superato, anche sotto il profilo ideologico. (1) Ognuno percepisce il baratro tra fraseologia leninista ed esperienze quotidiane, e lo percepiscono soprattutto coloro i quali per funzione o mansione, in detta fraseologia, devono esprimersi. Il mondo si divide in due dimensioni separate e si ragiona nei termini di una realtà scissa. E la realtà inizia dove cessa lo Stato con la sua terminologia. Con il solo concetto di «menzogna» non ci si può neppure avvicinare a comprendere la situazione dell'Europa orientale, intrisa di una schizoidia ubiqua. Ognuno sa bene che fra le «parole» e le «cose» vige un rapporto turbato; ma, per mancanza di controllo da parte della pubblica opinione, tale turbamento è la nuova normalità. In un simile contesto, gli esseri umani non definiscono più la loro identità in funzione di valori e ideali socialisti, ma, piuttosto, prendendo atto dell'assenza di alternative, di vie di uscita dal realmente dato; si tratta cioè di un «socialismo» sopportato come si sopporta una piaga, insieme alle sue Grandi Verità retoriche. Se il cinismo - conformemente al modello dostoevskijano del Grande Inquisitore - fatalmente non può che assumere i connotati del tragico, ebbene, nel caso in questione la parola «socialismo» che altrimenti ovunque nel mondo designa la speranza umana di divenire signori della propria vita - è sprofondata in una glaciazione ideologica simbolo di «vicolo cieco». Questa turba cinica del linguaggio è di proporzioni epocali. Anche per un osservatore esterno, infatti, risulta evidente che la politica di queste «potenze centrali» del «socialismo reale», del socialismo medesimo (inteso come speranza emancipatoria), non


1 Gli sconvolgimenti politici intercorsi nel decennio che ci separa dall'uscita in Germania della Kritik der zynischen Vernunft sono stati unanimemente giudicati «imprevedibili»; ma non era del tutto così, tant'è che Sloterdijk ne aveva invece preconizzati alcuni proprio in questo libro. Del resto, il lettore può verificarlo da sé. Tutto ciò pone tuttavia alcuni non solubili problemi di traduzione, dato il mutamento di prospettiva storica (n.d.t.)


hanno serbato alcuna traccia. Per dirla nella terminologia marxista-leninista, quanto offerto dal blocco orientale può archiviarsi come pura «politica egemonica» e, se non ci si azzarda a ridere o a fischiare, è solo perché non si sa che cosa succederebbe quando il re, in costume adamitico, s'accorgesse di aver a lungo trotterellato in strada, nudo per l'appunto. E perché mai questa grande potenza militare? Per proteggere un'alterità fittizia? L'«altro» è ormai da tempo identico.


Mentre scrivo questo libro, anno 1981, cerco d'immaginarmi la diagnosi che Machiavelli, dopo approfondito esame della situazione politica, pronuncerebbe in questo scorcio finale di XX secolo, ne verrebbe probabilmente fuori il consiglio (cinico) alle grandi potenze di dichiarare bancarotta, con rude franchezza e senza farsi troppi scrupoli; in primo luogo per motivare il reciproco soccorso, in secondo luogo per mobilitare i rispettivi sudditi politicamente disaffezionati a una grande campagna di autosoccorso e, in terzo luogo, per coprire la bancarotta che nel frattempo si sarà realmente compiuta. Positivisticamente, nel suo miglior stile, Machiavelli constaterà che la maggior parte delle cosiddette questioni politiche che ci troviamo innanzi, nei dipressi dell'anno 2000, sono in real» tà «falsi problemi», nati dal contrasto tra i due blocchi: problemi nati perché l'un blocco aveva tentato di organizzare un sistema sociale superiore al «capitalismo» (a lui peraltro ignoto); mentre l'altro - il vecchio, infrollito e stracotto capitalismo - non può andare oltre, «superarsi» perché la casa del «socialismo», in cui adesso potrebbe pur traslocare, è già occupata. La concorrenza Est-Ovest - questo rivelerebbe Machiavelli nel miglior stile della sua famosa, asciutta perfidia — non è dunque una produttiva concorrenza di potere né la classica rivalità egemonica, bensì un conflitto abortito, di tipo complicato. Il «socialismo» si è sempre più trasformato nell'ostacolo principale al superamento del capitalismo: contemporaneamente il capitalismo occidentale, «bloccato» come pure è, ha rappresentato il freno principale a una compiuta maturazione capitalistica degli imperi tardo-feudali d'Oriente. E dunque: mentre l'Oriente vive sistematicamente al di sopra delle sue possibilità spacciandosi per socialismo, l'Occidente ne resta sistematicamente al di sotto dovendo formulare le sue idee di futuro in forma difensivistica, in quanto non può desiderare a nessun costo questo socialismo. E ciò è del resto comprensibile dacché non vi è sistema che possa porsi nuovamente come obiettivo futuro ciò che da lungi s'è lasciato alle spalle. Per il capitalismo, un capitalismo di Stato - storpio e larvato quale quello orientale - non può certo rappresentare l'idea del futuro.


Vogliamo dunque risolvere il conflitto? Ma allora dobbiamo averlo anzitutto compreso appieno nella sua singolare struttura di paradosso. Qui Machiavelli passerebbe la mano al suo collega Marx, creatore della prima Teoria Polemica Generale che la storia politica ricordi. (1) Questa marxiana Teoria Polemica Generale ci permette di discernere tra conflitti derivanti da rivalità fra sistemi simili (e collidenti per identità d'interessi) e conflitti evolutivamente determinatisi tra sistemi differenti per grado di sviluppo. In quest'ultimo caso il conflitto si è venuto a creare tra un sistema relativamente arretrato e un sistema relativamente avanzato, dove il secondo ha necessariamente da scaturire dal primo. Di tal genere è - idealiter il conflitto tra capitalismo e socialismo. Dal punto di vista della sua logica interna esso va considerato un conflitto di superamento, dove il Vecchio s'oppone al Nuovo che, tuttavia, ne scaturisce in modo insopprimibile. Il Nuovo diventa necessario quando il Vecchio s'è trasformato in «vincolo e pastoia».


Ed è quel che Marx sostiene in merito all'essenza del capitalismo dispiegato: è il momento in cui, compiutamente sviluppatosi, il capitalismo diventa esso stesso un limite alla produttività umana che fino ad allora esso aveva promossa... Ma tale limite dev'esser superato. Dunque: socialismo. Il socialismo porta - su ogni piano - alla «dis-limitazione» della produttività umana emancipandola dal condizionamento capitalista, vale a dire dai rapporti capitalistici di proprietà. Se ora consideriamo quel che è stato presentato come il «conflitto globale tra capitalismo e socialismo», vedremo subito come in realtà non si tratti affatto del conflitto di cui Marx s'occupò in rapporto al Vecchio e al Nuovo, ma piuttosto di una rivalità tra un impero d'Occidente e un impero d'Oriente. E, dunque, nulla di nuovo sotto il sole? Il Nuovo sta nascendo dalla tor


1 Cfr. il cap. VI.3, «Metapolemica». Lì tento di fondare una dialettica razionale sulla base di una teoria polemica generale e di fornire insieme alcuni cenni critici sull'uso marxiano della dialettica.


sione di questa rivalità attorno al proprio asse storico e sociologico. Il tentativo marxista di guidare la storia tramite la sua visione socio-economica ha condotto al totale e generale contorcimento delle prospettive storiche future. L'istanza di dominio del sistema «storia», anziché lasciare che questa proceda per il suo (ormai noto) cammino, l'ha fatta andare terribilmente fuori tempo. Difatti il futuro del capitalismo non potrà certo chiamarsi in eterno «capitalismo», e allora ci sarà qualcosa che - cresciuto da esso e dalle sue prestazioni - lo succederà, lo supererà, lo sostituirà trasformandolo nella propria preistoria; in breve: è il capitalismo stesso che rende possibile la sua iperbole in un post-capitalismo e - se ora chiamiamo quest'ultimo «socialismo» - il tutto dovrebbe risultare piuttosto chiaro sotto ogni rispetto, a patto beninteso che chiaramente s'intenda il socialismo come un post-capitalismo scaturito dal capitalismo ultramaturo.


Ma quel che in nessun caso si deve fare, è credere di poter forzare l'evoluzione solo perché se ne siano riconosciuti questi nessi razionali. È e resterà un enigma la ragione per cui Lenin potè o volle credere che la Russia rappresentasse un campo di applicazione della teoria evolutiva e rivoluzionaria marxiana qui sopra tracciata. L'enigma non risiede nelle motivazioni autenticamente rivoluzionarie di Lenin, ma nel modo in cui egli piegò una teoria politico-economica occidentale alla sua applicazione in un impero, scarsissimamente industrializzato, semi-asiatico, feudal-agrario. Io credo che non si possa dare altra risposta se non che c'era una volontà assoluta di rivoluzione alla ricerca di una teoria anche solo un poco adatta allo scopo; quando però la teoria cominciò a rivelarsi piuttosto inadatta a causa della mancanza delle sue reali condizioni di applicabilità, allora spuntò la forzatura falsificatoria, misinterpretatoria e deformante. Nell'azione leniniana il marxismo divenne così una teoria che doveva legittimare il tentativo di fare marciare a tappe forzate la realtà sino a quel luogo dove un giorno lontano - si sarebbero potute soddisfare le condizioni di applicabilità della teoria stessa, cioè sino a che non si fossero affermati rapporti tardo-capitalisti e dunque rivoluzionariamente maturi. Come? Mediante l'industrializzazione forzata. L'Unione Sovietica ha così rincorso (a perdifiato) le cause della Rivoluzione d'Ottobre, cercando di determinarle in dif ferita... In qualche modo avrebbe voluto «completare la fornitura», fornire finalmente la necessità storica di una rivoluzione socialista in Russia; e, se non tutto è inganno, si può proprio dire che si trova sulla buona strada... Infatti, in Russia come in nessun altro Paese al mondo i rapporti di produzione sono (sempre per impiegare le formule marxiane) diventati «vincolo e pastoia» per le forze produttive. Se lo scompenso di tale rapporto è la formula generale per riconoscere i connotati di una tensione rivoluzionaria, ebbene la Russia brezneviana ne è un esempio plateale.


Quello che nella situazione globale dei primi anni Ottanta costituisce di fatto un conflitto interno al sistema, viene assurdamente presentato come conflitto tra sistemi. E questo conflitto esteriore tra i due blocchi è divenuto ad un tempo anche il principale vincolo inibente della produttività umana. (1) Il cosiddetto conflitto tra i due sistemi contrapposti ha luogo in realtà tra due mistificatori mistificati. Mediante un'intensa e paranoide politica di riarmo, i due «reali» pseudo-avversari vanno reciprocamente coartandosi in una loro differenza sistemica immaginaria, e purtuttavia consolidata proprio a causa dell'automistificazione. In tal modo un socialismo - che - non vuol-esser-capitalismo e un capitalismo-che-non-vuol-esser-socialismo si sono paralizzati l'un l'altro. Di più: un socialismo-che sfrutta-più-del-capitalismo-per-evitare-il-medesimo è posto a confronto con un capitalismo-più-socialista-del-socialismo-per-evitareil-medesimo. (2) E allora Machiavelli - nello spirito di una Teoria Polemica Generale marxianeggiante - constaterebbe che la competizione evolutiva è stata a lungo paralizzata da un conflitto egemonico del tutto vacuo e fallimentare. Due giganti produttivi hanno dilapidato mostruose quantità di ricchezza sociale allo scopo di consolidare una delimitazione sistemica fondamentalmente insostenibile.


E dunque, come s'è detto, Machiavelli - in questo scorcio conclusivo del XX secolo - consiglierebbe in tutta verosimiglianza una dichiarazione di bancarotta generale da parte di


1 Non intendo far qui un'apologia «produttivista». La produttività è un concetto pluridimensionale. Comunque la nuova coscienza pacifista ed ecologica presuppone un apice di produttività.


2 Ecco la dialettica intesa come... dialettica dell'impedimento. È questa, invero, la base reale della Dialettica Negativa adorniana.


entrambi i sistemi. Questa è la premessa del cosiddetto disarmo. Infatti quel che porta i sistemi all'escalation è proprio l'idea di trovarsi in uno stato di fondamentale opposizione, come se i due volessero qualcosa di così diverso, da doversi difendere a ogni prezzo... Distensione tramite disarmo, dunque? Ecco un'altra di quelle letali mistificazioni che vedono ogni cosa in sequenza inversa. La distensione è qualcosa che può avvenire solamente in forma di sblocco e decontrazione interiore, cioè come veduta assennata del fatto che altro da perdere non c'è se non la differenza sistemica, illusoria, armata, ormai intollerabile.


Forse Machiavelli comporrebbe di nuovo un saggio sull'arte del governo, stavolta intitolato non già Il principe, ma piuttosto Lo Stato debole, e la posterità sarebbe nuovamente unanime nel considerare scandaloso il libro. Il Segretario - non essendosi forse ancor tolto completamente di dosso il suo umanesimo fiorentino - finirebbe magari per comporre lo scritto in forma di dialogo tra due personaggi: Davide e Golia; eccone un frammento rigorosamente fantastico:


DIALOGO TRA DAVIDE E GOLIA


Davide Orsù, Golia, se' sempre tu bravamente appresto alla pugna? Ch'io per te lo confido assai, e per la nostra nova e fraterna lite. golia O Davide, deh, villan poltrone, profumato nel litame! Eppur tu lo conosci quanto sinistramente io giaccia oppresso da gran malignità di fortuna.


Davide E la cagione? golia Lunga istoria...


Davide Amo l'istorie. Non potrebbesi adunque far sì per oggi che noi si conducesse el nostro duellar con narrazion d'istorie? E vincitor sia dipoi colui di noi che conti la più pazza, epperò al patto che sia istoria vera. Evvia, comincia allor tu co' tuoi ghiribizzi. golia E sia, se cotesto vuoi, sibbene compensar l'arme con narrazion d'istorie paremi extravaganzia più perniciosa che salutifera.


Ma lascia ch'io ve ne pensi... (Dipoi) Ebbene, adunque: alcun tempo ne andette da un accidente che m'inquieta invero assai, tal che quasi non trovo pace. Tu conosci ch'io, dopo la grande guerra, occidetti il gigante Caput co' tutti i suoi accoliti o quasi, da me disfatti. Grande impresa, rinvero, imperocché ve n'era a bizzeffe, e cotali mi fu grave scoprirli tutti, essendosi costoro nascosti in fra le mie stesse file. Infine che furon da me quietate nella pace, le cose or parevano benemente inviarsi allorché incontrai un gigante e quegli, vedendomi, levò a gridare: «Se' tu Caput! Ti farò morire!». Pigliando così ad armarsi tristissimamente. Indarno mi provai d'istruirlo non fuss'io quel Caput ch'io stesso avea occiso. Colui non volle darsene accorto. E continuamente ragunava machine guerresche, quello sbandito, ed orripilanti, acciocché e' potesse contro a me armato stare. Riputavami il barbaro Caput. Sì sfrenatissimamente ragunava l'arme costui che pur io non altrimenti potetti. Niun ragionamento fu giudicato bastante e mai credette ch'io non fussi Caput, ma anzi fermissimo fu in cotesta sua perniciosa oppinione. A giudicio di entrambi Caput - scelleratissimo debb'esser fatto morire senz'altro. Ma, ch'io non lo fussi propio, e' noi voleva punto intentere. Col tempo io stesso dubitavo che affatto io non avesse ucciso Caput e che forse costui sei fusse, già che tanto intraprendeva all'uopo di guastarmi el sonno col dirmi esser io colui. Nondimeno io non fui confuso. E ho ancor da starmi benemente in guardia. Sicché colui veglia me e io veglio quello. Nostri legni sempre in mare, li fochi e quelli turchi e quelli greci, et li cannoni acconci all'uopo che se alcun di noi la via dell'arme imboccasse, subito l'altro l'attacca. Io ignoro chi sia quello e giudico che lo gigante ostile non mi reputa per quel ch'io sono, fors'anche con mala fide. Epperò cotesto tu l'abbi per certo: che noi si corre all'arme, continuamente non cognoscendo s'egli è meglio subito inferire o aspettar la guerra altrui.


Davide Tristissima istoria. Né poca briga avrò a trovarne di maggiormente moccicona. Epperò fai tu fede che fusse vera? golia Volesse Iddio che non fusse e certissimamente che non penerei la media parte di quel ch'io peno. In tant'armatura soffoco: non so più ire sui miei pie' e, se mi movo, l'arme che veggi dattorno, cadendo e rovinandomi indosso, fia l'ultima ora della vita mia.


Davide Maledizione! Ancoraché per troppe armi tu giacci in istato periculoso, impotente a guerreggiare, per cagione che l'arme tue t'incombon indosso perniciosissime e mortifere. E come non l'abbi detto prontamente? Ignorando cotesta cosa fui per frombolarti in testa un sassolino quasi come tu fussi sempre superbo et inimico... golia Al tuo morder villano sarian da cavar li denti, sfrontatissimo! Sibbene che alcun senno pure tu abbi dicendo che io non sia più terribile... E ne dispero, ma non ci è rimedio. Sonno inquieto e' m'accascia coi fuochi turchi ovunque, co' cadaveri e una sulfurea, soffocante nube mortifera...


Davide E cotesto messere meco volea azzuffarsi. O gigantuccio lacrimoso, abbi tu lagrimato abbastanza?


golia Or che se' d'appresso, udisci el resto. Sempre un sogno m'opprime ch'io fussi un sorcio desioso di passar nell'altro mondo, venutogli cotesto nostro in uggia. Adunque cerco un gatto e trovato quello, vo' a sollecitarne l'appetito lo quale rimane però compiutamente inerte. Principio allor ad accusarlo d'iniustizia imperroché «io son sorcio prelibato: sempre fu gran copia in mio nutrimento». Se non che quell'animal acre, superbamente ne ribatte esser gran copia anche in suo nutrimento «A qual prò, dunque, un cotal travaglio?» e' m'interroga. Infin posso far mutare alla bestia l'oppinione. Or e' consente: «Farò l'uffizio! Poni, o sorcio 'l capo entro alle mie fauci, attendendo alcun tempo». Io chiedo: «Quanto?». E' fa: «Quel tanto che alcun pesti a me la coda». Soggiungendo: «Per mia speziai disposizione di natura serrerò allor tosto le fauci. Epperò non temere giacché allungherò benemente la coda siccome in brieve tempo tu sia contento». Codesto parvente ha la morte adunque: il capo di un sorcio nelle fauci di un micio. Ed il felino allunga dipoi l'estremità villosa di traverso al paesaggio. Or sento de' passi et ochieggio di lato. Chi veggo? Laudanti provengono in coro salendo la via dodici cieche fanciulline dello orfanotrofio del Papa Giulio...


Davide Iddio onnipotente! golia Et quivi io sempre ridesto tra molti sudori, che certo tu el comprendi.


Davide (avendo lungamente assai meditato) Come diavolo, se egli è deciso! golia Che tu intendi?


Davide A te la vittoria imperroché non so opporre più folle istoria: perniciosissimo, il tuo accidente! golia Nondimeno mi consolo. È pur alcuna cosa anco trionfar nella narrazione.


Davide A te è l'ultimo trionfar cotesto, forse. golia Ca, pu, ca, co, co, cu, spu... Che ti venga la seccaggine! Un così grande com'io pure sono ancor spesso andrà in trionfo. Tu non credi?


Davide Grande tu di'? Grande?! Ma, via, che significa?


 


 


2


SESSUOCINISMO


 


Ed ecco Amor: dà un certo spasso Ci vuol soltanto... il ventre basso.


Erich Kästner, Fabian 1931


 


Prendi questo in mano, zingara...


Parodia di un motivetto


La donna: essere che si veste, blatera e si sveste.


Voltaire


Lo sfondo per le guittonaggini che accompagnano l'entrata in scena del cinismo sessuale è dato dalle ideologie amorose idealistiche che relegano il corpo a una condizione d'inferiorità rispetto ai «sentimenti elevati». Dire in qual modo questa separazione tra corpo e anima (e relativa gerarchizzazione) sia avvenuta, riempirebbe un complesso capitolo di storia dei costumi e della psicologia umana. Noi qui dobbiamo prender le mosse dall'esito della storia, dall'eterogeneità, dal dualismo tra corpo e anima, tra cuore e genitali, tra amore e sessualità, tra «sopra» e «sotto»; e così faremo, pur ammettendo volentieri che tali dualismi non implicano sempre e necessariamente ostilità e contrapposizioni.


Nel platonismo - che esercita sino a oggi influenze profonde essendo (insieme al cristianesimo) la più potente teoria amorosa dell'Occidente - ritroviamo la domanda sull'origine della scissione tra corpo e anima così come quella sulla separazione tra i sessi, e Platone - poiché non può (o non vuole) troppo dilungarsi su quest'ultimo tema - imbocca una scorciatoia. Laddove si dovrebbe sviluppare una storia di ampio respiro, egli ricorre a un piccolo mito tramite cui rinserra in breve l'essen ziale. Ascoltiamo dunque la fiaba dell'Androgino dal Simposio di Platone.


All'inizio l'anthropos, cioè l'essere umano - così nel poema mitologico riportato da Aristofane alla festosa compagnia era un'entità sessualmente autarchica e perfetta: un androgino appunto, con tutti gli attributi, sia quelli femminili che quelli maschili. Tale prototipo umano aveva quattro gambe e quattro braccia, due facce e una forma sferica, oltre che, appunto, gli apparati genitali di entrambi i sessi. Come stupirsi se si era poi straordinariamente infatuato di sé? Gli dèi, invidiosi, meditarono possibili punizioni per Yhybris di quello strano essere. In breve, il prototipo umano viene segato in due metà. Le quali d'ora in poi si chiameranno uomo e donna, condannati entrambi a rincorrersi con l'anima sanguinante, a cercare ciascuno la metà sua, e ciò affinché essi comprendano che la parte non è il tutto, che l'uomo non è il dio. Da allora gli esseri umani chiedono ausilio a Eros il quale riunisce ciò che va riunito, restituendo l'anthropos a se stesso.


Ecco una storia sarcastica che può essere fraintesa solo a patto di concepirla come espressione d'ingenuità. La favola dell'Androgino costituisce, all'interno dei discorsi sull'eros, una stazione poetico-ironica, e dunque un segmento o momento di verità. La quale verità dev'essere espressa anche così, ma certo non solo in questo modo. Nel dialogo platonico ha luogo una reciproca decrittazione dei linguaggi poetico e filosofico: l'entusiastico è tradotto nel sobrio e il sobrio nell'entusiastico (questo vale per molte mitologie sintetiche, cioè riflessivamente trasposte in un linguaggio razionale a esse alternativo) . Tenendo presente quanto la cultura greca idealizzò e venerò il corpo umano, si può comprendere davvero il cinismo poetico della storia. Il narratore serve ai suoi conviviali un mostro induista bifronte, quadrumane e quadrupede: ecco l'anthropos, l'immagine originaria e perfetta dell'essere umano, rotondo per giunta, e incapace di quel retto portamento cui l'etica corporale dei greci tanto teneva. Meglio non chiedersi che figura avrebbe fatto ai ludi olimpici...


L'arguzia è svelata appena si noti come la perfezione appaia qui nelle vesti di una nuova carenza e, precisamente, comecarenza di bellezza. Divina crudeltà: segare in due il bestiale archetipo narcisista ha perciò senso punitivo per un verso, ma una prospettiva di creazione per l'altro. Infatti, nell'atto che divide l'uomo dalla donna, in quell'istante, per l'ironia degli dèi, nasce anche la bellezza del corpo umano, Ed è proprio la bellezza che può prospettare infine l'anelito amoroso. All'originario essere sferico, se intatto, l'amore resterebbe ignoto perché manca appunto quella bellezza per la quale vale la pena di amare. Ed è proprio perciò che una vera perfezione può nascere solo dal ricongiungersi di quel che era (stato) separato, cioè soltanto da una seconda unità, giacché la prima - così priva di grazia - era unità ancora imperfetta. Da qui in poi, dunque, Eros - dio del piacere come fusione e della bellezza come ebbrezza - assisterà il congiungimento laddove esso debba avvenire. (1) E' solo dopo la separazione che i corpi possono abbracciarsi piacevolmente.


Immagine singolare: una tavolata di arguti elleni, infatuati del dio Eros che spinge uomo e donna a unirsi. Ma da questa tavolata sono escluse le donne. Al desco conviviale, nella vita pubblica, nell'Accademia, gli uomini e le loro teorie erotiche restano ovunque «tra di loro». È davvero così? Hanno davvero la sensazione che il lato femminile rimanga privo di rappresentanza all'interno della loro discussione? E, incontrandosi «tra di loro», non sentono la mancanza di contrasti, di stimoli, di oggetti d'amore e di nostalgia? Non si direbbe. Costoro percepiscono manifestamente se stessi come esseri completi, tanto sotto il profilo intellettuale quanto sotto quello sessuale. Nel cinico sodalizio maschile, qual è quello da loro formato, essi godono dell'identità di un gruppo completo e ben integrato, nel quale sono presenti il maschile e il femminile, il duro e il molle, il dare e il prendere ecc. ecc. Nella cerchia d'amici del medesimo sesso ci sono le forze di entrambe le polarità; quel che sembrerebbe essere una comunità omosessuale cela in sé un ampio spettro di esperienze bisessuali. Solo così possiamo richiamare plasticamente lo slancio del platonismo delle origini. Un'atmosfera vibrante di premure spirituali ricolma l'Accademia, questo tempio di arguta, intelligente amicizia virile;


1 Dialettica della perfezione: nella perfezione stessa vi è un difetto; la perfezione iniziale deve perciò esser superata da quella finale; passando attraverso una turbolenza. Questo è dunque l'archetipo delle fantasie cinetico-dialettiche: un primo apice «perduto» viene riconquistato scalandone un secondo, superiore.


la voglia di capire, il desiderio di raggiungere la saggezza assume tra costoro la stessa nota desiderante che ha l'esaltazione erotica per l'oggetto amato; e anche il «capire» può esser vissuto come un'estasi amorosa in cui il soggetto si dilegua per fare posto a qualcosa di più grande, di più alto, di più vasto: l'entusiasmo, il divino attimo interiore... Bisogna aver visto le danze del Sud, questi apici di ingenuità e di netta bisessualità che riuniscono in sé forza e dolcezza... Così aveva da essere tra maestro e discepolo: un bagliore scintillante con cui l'anima giovane - di fronte al fuoco spirituale e alla pregnante presenza del maestro - premonisce il proprio dispiegamento futuro, stende le ali, al di là di sé, in una grandezza che verrà e della quale il maestro - nella sua appagata determinatezza - è garante. È questo ludum eroticum che conferisce a quella grande scuola il suo stile inconfondibile. È lo spirito di un linguaggio che scorre attraverso argomentazioni e controargomentazioni, è un «sì» erotico-dialettico che fluisce verso tutte le posizioni e tutti i meandri della coscienza. Il dialogo - con la sua commedia di opinioni — si risolve in uno sciabordare che, sbloccando, per così dire, le menti nell'energia e nello stupore, rende la coscienza libera di esperire esperienze, di catapultarsi dentro un intenso estatico simultaneo lampeggiamento di verità, bellezza e bontà che traversano l'anima.


Di una tal teoria amorosa, così estrosa, i rischi sono chiari.


In quanto filosofia dell'amicizia, essa resta legata all'atmosfera di una cerchia ristretta e ogni traduzione in termini universali finisce necessariamente in medio tra oscurità e repressione. Questa, in quanto teoria erotica idealistica, parrà a quanti non appartengono alla cerchia amicale una sorta di fanatismo contorto. E infatti, staccatosi dal magnetismo erotico dell'Accademia, il platonismo si ridurrà a uno sciapo predicozzo spiritualizzante. L'amor di sapienza diventa asessuato, perde «il ventre basso», il suo centro energetico. Con la decadenza del platonismo a mera lettera morta idealistica, la filosofia viene aggredita da turbe della potenza, e con la cristianizzazione (cioè sotto il dominio della teologia) tralignerà infine in un'organizzazione eunucoidale del sapere. Inevitabili le contromosse di parte materialistica. Che, in virtù della loro combattiva linea di attacco, assumeranno qualità kìnica. Tuttavia, poiché le mortificazioni dell'idealismo maschile sono vissute in modo differente tra le donne e tra gli uomini, dobbiamo considerare due diverse versioni della replica kinica allo spregio idealistico per il corpo. Esempi illuminanti esistono in entrambe le direzioni: kinismo sessuale è in gioco sia quando Diogene provvede ad autosoddisfarsi sotto gli occhi di tutti, che quando massaie o cortigiane forniscono a filosofi intelligentoni un assaggio di potere femminile.


 


1. Diogene in atto di pubblica onania: qui incomincia un nuovo capitolo della storia sessuale. In questo primo sex-happening della nostra civiltà, il kinismo antico mostra i suoi artigli più affilati. Donde, nell'uso cristiano idealistico, l'appellativo cynicus denoterà un individuo empio, che a parole nulla rispetta e di nulla si vergogna e sulla cui bocca permane, per converso, il ghigno di scherno del «male». Tornando a Diogene onanista: chi voleva un bell'encomio delle anime gemelle, dell'amore come sentimento «alto» ecc. ecc. si scontra qui con l'avversa posizione. Questo insegna l'autarchia sessuale, intesa come possibilità originaria di ogni individuo. Non è con la coppia munita di tutti i crismi ufficiali che cominciano a esserci opportunità di soddisfazione dei propri desideri sessuali: il singolo essere umano, il masturbatore sorridente dell'agorà ateniese, tutto questo, lo può già. Onania plebea: quale iniquo affronto per l'aristocratico diporto «anima-anima»! Che turpe infamia per un establishment degli affetti in cui il sesso costringe i singoli al giogo delle «relazioni»! A tutti questi strilli il kynikòs erotikós Diogene da Sinope oppone un autoerotismo senza scrupoli.


Incontrando qualcuno che vorrebbe inculcargli l'idea di non essere (proprio solo) un animale, Diogene leva dal chitone il membro nerboruto: e questo? bestia? non bestia? Ma poi, insomma, perché ce l'hai tanto con le bestie? Se qualcuno s'avanza con l'intento di stornare la base animale dall'anthropos, subito il kinico ha da fargli vedere quanto sia breve la via che separa la mano dal membro. Non è proprio l'essere umano raggiunta la stazione eretta - a ritrovarsi con le mani alla medesima quota dei genitali? Forse che - antropologicamente parlando - l'homo sapiens non è l'animale masturbante par excellence? La consapevolezza della nostra auto-sufficienza non poggia forse proprio sull'identità di quota che abbiamo faticosamente raggiunto con la già menzionata stazione eretta? In ogni caso, ai quadrupedi tale intricata questione anatomicofilosofica fu risparmiata. Ed effettivamente la masturbazione accompagna il cammino della nostra civiltà come un «problema intimo», filosofico e morale. Sul piano libidico essa rappresenta l'analogon di quel che l'autocoscienza è sul piano spirituale. L'autoerotismo lancia oltretutto un ponte tra il kinismo maschile e quello femminile, massime su quello osservabile attualmente all'interno del movimento delle donne. Anche qui l'onania vale d'ausilio all'emancipazione; anche qui è praticata come un «diritto da prendersi» e un piacere di cui non si deve dire «grazie» a nessuno.


 


2. Parlare di kinismo femminile si profila, sotto il profilo metodologico, come un'impresa delicata giacché la storia della «coscienza femminile» risulta nell'intera età premoderna documentata in modo indiretto, mediata da tradizioni maschili.


Ma almeno qualcuno tra gli aneddoti tramandatici può essere interpretato in prospettiva kinico-femminile. In prima linea si tratta naturalmente di storie raccontate da un punto di vista maschile e in qualche modo deformate dalla tipica ottica cinico-dominatoria con cui vengono restituite le figure femminili: la donna come «puttana» o come «malvagia furia domestica».


Ma talvolta basta una rotazione d'angolatura e i medesimi aneddoti assumono un senso filo-femminile. Questi, di norma, rispecchiano tipiche scene di «lotta dei sessi» laddove, però, è l'uomo a ritrovarsi in posizione di debolezza. Il che gli accade di preferenza in due ambiti: dipendenza sessuale e conduzione della casa.


Un primo caso paradigmatico tratta del grande Aristotele, il Filosofo: ridotto al livello di un innamorato folle. Si racconta che un giorno si fosse invaghito così perdutamente di Fillide, l'etera, da non aver più volontà propria e da divenire ormai preda spensierata di ogni capriccio di lei. E così quella famosa puttana ingiunse al pensatore di precederla ovunque, a quattro zampe; e lui, privo di volontà, obbediva gattonando follemente e umilmente, fungendo persino da cavalcatura alla sua signora e padrona. Il motivo aneddotico (1) fu ripreso nel 1513, ai tempi bricconi di Eulenspiegel, da Hans Baldung Grien in un'incisione che si rifaceva al Lai d'Aristote, componimento


1 L'archetipo in sé non appartiene esclusivamente alla tradizione europea essendo contemplato anche in leggende induiste e buddhiste.


 


Hans Baldung Grien, «La bellezza agita la frusta sulla sapienza», incisione, 1513.


poetico francese medievale. Il maestro di color che sanno, con la barba canuta, sguardo volto all'osservatore, traversa a quattro zampe un giardino circoscritto da mura, mentre una Fillide assai formosa per vita e deretano s'ingroppa lo stempiatissimo pensatore le cui briglie sono portate mollemente dall'amazzone con la sinistra, mentre la destra (le dita un poco divaricate) regge un grazioso frustino. Diversamente dal fi losofo, che con viso umiliato lancia penetranti sguardi verso l'osservatore, la dama (con cappuccio in foggia vetero-anseatica, poggiato sulla testa a mezzo profilo) fissa il terreno innanzi a sé, le spalle cadenti, vagamente goffa, pienotta, melanconica... La morale kinica della favola è: «la bellezza agita la sua frusta sulla sapienza»... Già, il corpo vince la ragione; la passione soggioga lo spirito, la femmina nuda trionfa sull'intelletto maschile, il discernimento non può nulla contro la forza suasiva di seni e fianchi. Naturalmente compaiono anche qui i cliché femminili correnti, ma il punto non è tanto questo, quanto piuttosto che traspaia un'opportunità di potere femminile. Nell'incisione grieniana l'accento meditativo è slittato, dal filosofo sull'etera. Sarà anche vero che quest'ultima è «solo una puttana», ma non si può certo dire «peccato per lei che sia puttana». Anzi, ella ne trae una chance di superiorità e d'indipendenza. Colei che cavalca in groppa ad Aristotele, ancorché femmina pericolosa, certamente si eleva al di sopra dello spregio. Per il filosofo, che una Fillide lo voglia cavalcare, da un lato costituisce un monito, ma dall'altro anche l'occasione di saggiare dove tutto ciò conduce. La donna con la testa reclinata e cogitabonda vede approssimarsi di «laggiù» quel che lui sembra «di laggiù» ancor temere; per lei è infatti chiaro come tutto ciò rappresenti solo l'inizio: Aristotele non resterà per sempre in quella scomoda situazione. La vicenda, per lui, inizia carponi, ma, se davvero è intelligente e saggio come si dice, finirà supina...


Tanto più bravo un uomo è sul lavoro, tanto più sciocco si dimostrerà costui in casa; tanto più responsabile in pubblico, tanto più spregevole tra le quattro mura domestiche. Così potrebbe suonare la morale del tormentone coniugale di Socrate e Santippe. Ma proviamo ora a rileggerlo in prospettiva kinicofemminile. Questo filosofo, infatti, non è passato alla storia per la sua sola arte domandiera e di trapanazione dialogica, ma come è ben noto - anche per il suo orrendo ménage familiare.


Poiché, come pare, la sua consorte gli apparecchiò una sorta d'inferno domestico, «Santippe» non è più un semplice nome proprio: è divenuto un concetto di genere cui si sussumono tutte le femmine umane coniugate, affette da spiccati tratti di litigiosità e tendenze tiranniche. Ma ecco che basta un'inversione prospettica e la relazione tra Socrate e Santippe ci appa re subito in un'altra luce; e allora è la malvagia Santippe la vera vittima della sua vittima presunta, Socrate, finalmente smascherato - in modo certo molto significativo - nella sua veste di «vero» malvagio. Dal punto di vista odierno tutto depone a favore di Santippe e bisognerebbe semmai confutare la sua cattiva fama. Proviamo a chiederci come mai Socrate si sia andato a imboscare proprio dentro una tal miseria coniugale; quesito che si può presentare in diverse varianti. Posto che Santippe fosse sempre stata quella di cui la mitologia socratica narra, quale comprensione potremmo mai avere per quel grandissimo filosofo, tanto stupido da prendere in moglie proprio lei e nessun'altra donna? O pensava magari - nella sua grande ironia - che una femmina scontrosa era proprio quel che ci voleva per un pensatore del par suo? Se l'aveva sin dall'inizio individuata per quel che lei era veramente, mettendo magari in conto i prezzi da pagare, con ciò egli avrebbe preteso da una donna di condividere l'esistenza con uno che, al più, era disponibile a «sopportarla», ma considerandola un dettaglio insignificante: ben miserabile atteggiamento per un marito. Oppure supponiamo che Santippe fosse tralignata durante il matrimonio con Socrate e non prima (questo sta scritto): ma allora sì che il filosofo cadrebbe proprio in luce dubbia perché sarebbe palesemente lui stesso la causa di tanta scontentezza della quale egli peraltro mai si curò. Comunque sia, la storia di Santippe è tale che i malumori della moglie debbono ascriversi alle responsabilità del marito. E l'autentica questione filosofica suona quindi: come avrà fatto, Socrate, a non risolvere l'enigma dei malumori di sua moglie Santippe? Quel grande ostetrico dell'aletheia, l'Uomo della Verità per antonomasia fu manifestamente incapace di fare sì che la rabbia santippea trovasse voce, non seppe mai aiutarla a trovare parole che potessero esprimere ragioni e motivi di quell'atteggiamento. La catastrofe di un filosofo non consiste in risposte erronee, ma piuttosto nel non aver saputo porre domande: nell'aver negato ad alcune esperienze il diritto di diventare «problema».


Di questa specie - quella cioè di una miseria cui viene negata la dignità necessaria ad entrare nel monopolio maschile dei «problemi» - dovette appunto essere la vita di Santippe con suo marito. Ma per un filosofo sopportare «naturalmente» un male di cui egli stesso è la causa, o peggio il sopportarlo con


«saggezza», rappresenta già di per sé un fallimento e uno scandalo spirituale, un abuso di saggezza a favore della cecità.


E tale abuso, nel caso di Socrate, fu pagato caro fin da subito.


Un pensatore che non riesca a fare a meno di identificare l'umano con il maschile, ha da attendersi, nella sfera privata, i contraccolpi della realtà e un filosofico inferno coniugale. Le storie a ciò improntate - questo voglio dire - hanno pur un senso kinico. Esse ci svelano la vera ragione del celibato clerical-filosofico che alberga nella nostra civiltà. Un certo tipo, dominante, di idealismo (filosofia intesa come Grande Teoria) si rende affatto possibile solo a patto che certe esperienze di «altro tipo» vengano sistematicamente rimosse.


Per lo stesso motivo per cui non si può parlare del cinismo statuale europeo senza trattare l'etica cristiana, non si può parlare neppure del sessuocinismo presente nella nostra cultura trascurando di menzionare l'atteggiamento cristiano nei confronti della sfera erotica. Non si comprende l'emergere di gesti veramente cinici se non sulla base di idealismo e repressione (idealismo repressivo). Ma poiché la morale sessuale cristiana poggia su elevate menzogne, contrapporre la verità possiede un tratto aggressivo, vuoi satirico, vuoi blasfemo. Se la Chiesa cattolica non avesse asserito che Maria partorì Gesù da Vergine, certo non a molti sarebbe venuto in mente di menar tanti rabbiosi sarcasmi su una verginità così curiosa. Heilige Hure! Pregna già solo di Spirito Santo: un bel numero, non c'è che dire! Naturale che ci si domandi come questa bianca colomba invisibile, stranissima tra gli uccelli, si comporti in certi frangenti e come poi se ne tragga d'impaccio. Ma non sarà un poco troppo spiritualizzato, il volatile? E gliela darà una mano, la provvidenza? Basti di ciò! Sebbene questo genere di lazzi nasca dalla stessa mitologia cristiana in modo quasi naturale. L'idealismo ha appena cominciato a premere un poco troppo sul pedale, e subito arriva, blasfema, la controspinta realista. E addirittura si può - come certi studiosi hanno fatto - tentare di valutare se nella struttura psicologica del maschio occidental-cristiano (e specialmente di quello cattolico, che cresce sotto l'aureola della sua mamma-madonna) il passaggio attraverso una fase di sessuocinismo non s'imponga come inevitabile giacché prima o poi nella coscienza di ogni giovane filtra il cattivo pensiero che, insomma, anche la sua mamma...


be', sì, anche la sua ha commesso «atti postribolari»: la puttana del padre.


Ma, ci si interroga, il dualismo metafisico cristiano davvero non offre alcuna chance all'affermazione incondizionata della nostra vita sessual-animale? Ciò che pertiene al corpo (e poi al piacere anzitutto) è davvero da considerarsi comunque sbagliato? L'argomento non può esaurirsi del tutto in una lamentazione dell'ostilità cristiano-dualistica verso il corpo; ciò per due ragioni: in primis perché nell'ambito di questa nostra religione sono avvenuti anche alcuni notevoli tentativi di «cristianizzare» il corpo se non addirittura il congiungimento carnale e di portarli così dalla parte del «bene»; in secundis perché esiste manifestamente un'antica tradizione di doppia morale cinica (particolarmente affetti ne sono gli ambienti clericali) in cui - per dirla con Heinrich Heine - «si predica acqua, ma si beve vino».


Se nel rito cristiano esiste qualcosa di simile a un «punto debole» sul principio del piacere corporale, ebbene quel punto sta nella liturgia della Pasqua e della comunione. Nell'idea di resurrezione in corpore di Cristo dalla morte si cela un'opportunità di resurrezione della carne credente in una santa spudoratezza. Singoli documenti di epoca protocristiana sembrano in tal senso comprovare l'uso - invalso in diverse comunità di celebrare l'agape nel corpo e con il corpo. Una cronaca di epoca tardo-romana (IV secolo) descrive le pratiche di urìecdesia gnostica del Vicino Oriente. Sebbene fossero cristiani, i membri della comunità pregavano un dio, il quale aveva una figlia di nome Barbelo, e Barbelo aveva a sua volta un figlio di nome Sabaoth. Allorché questi si ribellò all'autorità della sua divina madre e del suo nonno-dio (voleva conquistare il dominio del mondo), Barbelo, con le sue grazie sensuali, si diede a sedurre i sacerdoti riassorbendo così in sé, mediante la raccolta del seme umano, la diffusa forza vitale delle creature. In nn'indignata e dettagliata lettera al vescovo di Alessandria, il sacerdote cristiano e cacciatore di eretici sant'Epifanio (dopo che si fu infiltrato in una festa barbeliota) ne ritrasse come segue l'andamento liturgico: In primo luogo essi hanno le loro mogli in comune e quando sopraggiunga uno estraneo al loro credo, vi è tra loro un segnale, degli uomini alle donne e delle donne agli uomini, il quale consiste nel tendere la mano, come in segno di saluto. Ma da sotto il palmo si tastano quasi a produrre del solletico. Tramite ciò segnalano se il sopraggiunto appartiene alla loro religione. Poi, non appena si sono riconosciuti reciprocamente, essi si volgono a convitare in banchetto.


E imbandiscono copiose gozzoviglie, gran mangiate di carni e gran bevute di vini: addirittura anche i poveri! E dopo aver ben mangiato e ben bevuto, dopo - come si suol dire - aver strapasciuto le vene dell'ingordigia, essi si volgono alla loro insana passione. E il marito - abbandonando la moglie - le dice: «Orsù alzati, compi dunque l'agape con il fratello!». E quegli infelici prendono a commerciare l'un con l'altra sicché a dir il vero io, per me, mi vergogno di raccontare le cose orribili che vengono da coloro compiute. (...) E tuttavia non avrò timore di dire ciò che coloro non si vergognano di fare! (...) Infatti, dopo aver commerciato in quest'esperienza di fornicazione, essi innalzano per giunta la loro bestemmia al cielo: raccolgono - la femmina e il maschio - il flusso seminale del maschio con le loro stesse mani, e lo levano al cielo inarcandosi e - sempre tenendo in mano l'impurità immonda - si mettono a pregare (...) offrendo al Padre del Creato proprio quella roba che hanno sulle mani e dicono: «A Te offriamo alto questo dono, il Corpo di Cristo» e a questo punto mangiano e si comunicano vicendevolmente con la formula: «Ecco il Corpo di Cristo! Ecco l'Agnello pasquale per cui i nostri corpi patiscono e sono indotti a riconoscere la passione del Cristo!». Ma nel medesimo modo si comportano anche con il flusso femminile: quando avviene che la donna abbia i flussi di sangue, essi raccolgono il mestruo dal sangue dell'impura in modo tale da parteciparne in comunione. E dicono: «Ecco il Sangue di Cristo». (...) Ma costoro, che pur fornicano l'un con l'altro, proibiscono poi la procreazione.


Infatti non è già per il procreare che viene da loro praticata questa dissolutezza, bensì per il piacere! (...) E perseguono il piacere fino al raccoglimento del seme della loro impurità, ossia lo sperma della vergogna e, per non fruttar procreazione, se lo mangiano loro stessi.


Ma, se qualcuno di loro insemina il concepimento della naturale eiaculazione e la donna resta gravida, qual cosa mai di ancor più terribile osino codesti compiere, tu ora udisci. Nel preciso momento in cui l'embrione può esser preso con le dita, essi lo estirpano, raccolgono questo feto abortito e lo macinano in una sorta di mortaio col pestello mescolandolo a miele e pepe e altre spezie e balsami affinché non li abbia a nauseare; indi quelli di questo [branco] di cani e porci si riuniscono tutti insieme e, per quanti vi partecipino, ognuno celebra il baccanale col proprio dito [prendendo] da quella creaturina massacrata. E, praticato in tal modo il cannibalismo, essi pregano per il resto dicendo: «Noi non ci siamo lasciati giocare dall'Arconte della Brama, ma abbiamo ricomposto la trasgressione del nostro fra tello». E davvero ritengono che ciò sia il perfetto Agnello pasquale.


E quante altre cose terribili vengono da questi sfrontatamente intraprese... Giacché - quando per le loro imprese ricadono in estasi - si eccitano insudiciandosi le mani con la vergogna del loro eiaculato passando queste mani empiamente lorde, nudi, su tutto il corpo, e pregano come se mediante tale attività fossero in grado di avere libero accesso a Dio. (1)


 


Il nostro testimonio ha già fornito la giusta definizione: «un branco di cani e porci». Siamo in territorio kinico. Il documento - seppure non eccessivamente attendibile nei particolari comprova comunque l'esistenza di un kinismo sessuale cristiano e radicale: non più dunque in quella forma, leggera e primigenia del filosofo greco con le sue masturbazioni e i suoi amplessi sulla pubblica piazza, bensì in versione di artifizio, religiosamente intricata, già carica, appunto, di perverse ommissioni al cristianesimo. Ma, per quanto queste pratiche fossero singolari, lo shock più forte non sta nei dettagli, ma piuttosto nel fatto - impenetrabile seppure manifesto - che l'orgia cristiana esiste. È un abbandono scatenato, innocente, sacrosantamente selvaggio e grufola nella broda umorale così... come piace a Dio. Ecco: per stavolta almeno il cristianesimo si presenta nella confusione dei corpi cristianamente ebbri che celebrano la loro libidine. Quella stessa libidine che fa arrossi 


1 Il passo citato è tratto dal Panarion (cfr. ivi, 26,4,1-5,7) di Epifanio (315 ca 403), scrittore cristiano di lingua greca, vescovo di Salamina, ostile all'apollinarismo e all'arianesimo (Epifanio fu canonizzato santo, la Chiesa cattolica ne celebra la festa il 12 maggio). Vedi anche J. Attali, L'ordre cannibale, Paris 1979. Senz'entrare nei dettagli, va comunque detto che la moderna ricerca sul fenomeno gnostico, iniziata negli anni Trenta da Hans Jonas e dalla scuola di Gottinga, ha risvegliato una notevole attenzione degli studiosi per questo fondamentale aspetto del mondo ellenistico e tardo antico. È altresì opportuno notare che Epifanio viene oggi considerato dagli studiosi un testimonio da «valutare con la massima cautela» (cfr. per es. K. Rudolf, Die Gnosis - Wesen und Geschichte einer spatantiken Religion, Vandenhoeck & Rurecht, Gottingen 1980 2, pp. 256 sgg.), infatti: «non sono da prendersi sul serio i dettagli dei resoconti di Epifanio, giacché egli, nella sua screditante polemica, esagera assai» (ibid., 257). Una ponderosa antologia di testi ispirati alla tradizione gnostica dall'età ellenistica ai giorni nostri è stata recentemente raccolta e pubblicata da Peter Sloterdijk e Thomas H. Macho, Weltrevolution der Seele. Ein Lese- und Arbeitsbuch der Gnosis von der Spdtantike bis Gegenwart, 2 voll., Artemis & Winkler, Gütersloh 1991. Di esso va qui segnalato il saggio introduttivo al primo volume, curato da Sloterdijk, «Die


Jahre Irrlehre. Uber die Weltreligion der Weltlosigkeit». (n.d.t.)


re Epifanio - e non è chiaro se sia rossore di vergognoso o di svergognato e contagiato. Pur sempre ci si spinge tanto in là che il sacerdote osa scrivere i fatti, nero su bianco, mentre il ruolo da lui assunto infiltrandosi nella sacra ammucchiata resta un mistero. Al vescovo di Alessandria non è necessario raccontare proprio tutto... Ma ancor più scioccante è forse il modo in cui il figlio di Dio risulta sostituito da una figlia dipintaci a contraltare di Maria, madre di Dio; Barbelo è una «Gran Mona Divina» che succhia, raccoglie e sciabordeggia laddove la Semprevergine Maria aleggerà invece non mai sufficientemente eunuca sopra ai cattolici altari. (1) Qui tocchiamo, all'interno della mitologia cristiana, gli antipodi. E, nell'equiparazione rituale del sangue della donna al sangue del Cristo, la liberazione gnostica del corpo femminile si è spinta assai oltre rispetto a quanto un qualsiasi moderno misticismo femminista si sognerebbe di fare.


Quanto al citato resoconto del rito barbeliota si tramanda che la denunzia di Epifanio, giunta presso il vescovo di Alessandria, causò la scomunica di ottanta gnostici. Questo esemplifica i destini e le opportunità storiche che attendono quei gruppi, gnostici o di altro genere, che tentino una realizzazione «psicosomatica» del comandamento d'amore distintivo della religione di Gesù Cristo. Ovunque siano apparsi, i vari tentativi di superare il dualismo tramite una metafisica dualistica sono stati in linea di massima eliminati con la violenza.


Nell'alto medioevo - per quel che sulla base di tradizioni tanto mutile quanto occultate è dato di capire - le chance di una via cristiana alla sessualità sembrano tornare in auge. Nel linguaggio mistico e religioso dell'amor cortese si fa strada una metaforica dell'eros nella quale l'aspetto traslato risulta solo speculativamente differenziabile da quello letterale. Sebbene la lirica provenzaleggiante s'addentri per certi versi fin quasi al limite del blasfemo, paragonando per esempio l'apparire dell'amata con l'avvento pasquale, pur non si sa quanto


1 Epifanio fu, tra l'altro, il primo sacerdote a dar nell'occhio per la sua fissazione mariana. Cfr. l'interpretazione di Th. Reik, Der heilige Epiphanius verschreibt sich. Eine Fehlleistung vor sechszehn Jahrhunderten, in Der eigene und der fremde Gott. Zur Psychoanalyse der religiösen Entwicklung, Frankfurt a.M., 1975, pp. 37-56. Saggi di Reik per una «Psicanalisi della Bibbia. La creazione della donna - La tentazione» sono apparsi in italiano presso Garzanti (tr. P.


Angarano), Milano 1978.


direttamente (o indirettamente) tale arditezza del linguaggio fosse connessa con quelle della carne. Così come non è possibile chiarire in modo soddisfacente quali conseguenze sul piano dei comportamenti sessuali ebbe la mistica delle confraternite del libero spirito. (1) Nondimeno: se in svariate farse tardo-medievali le donne giungono alla conclusione che il soldato sia amante non altrettanto valente quanto il clericus, ebbene possiamo stare certi che tale asserto era stato confortato durante un lungo e diligente iter sperimentale.


In epoca borghese lo scenario sessuocinico rifa la sua comparsa in modo nuovo e altisonante. La borghesia, infatti, pone istanze di egemonia culturale non senza edificare un suo modello di eros idealistico: il matrimonio per amore. Si stampano innumerevoli romanzi che contribuiranno a inculcare indelebilmente nelle teste del pubblico, e massime di quello femminile, i cliché dell'idealismo erotico borghese. Si forma, così, un'afa culturale enorme: anche l'«anima borghese» vuole partecipare alle gioie amorose e brama di assaggiarne l'avventura, elettrizzante, fantastica e addirittura, perché no, passionale e sensuale... Ma, peraltro, deve pur garantire accuratamente, rigorosamente, che l'amore resti sulla stabile rotta del matrimonio, che il «lato animale» non emerga troppo e che - ove eccezionalmente debba proprio concedersi spazio di espressione al corpo - questa possa dirsi almeno espressione di un'anima appassionata. Tale ingenuo idealismo erotico laicale (giacché non sono certo i clercs a predicarlo) scatena una vera e propria epidemia di antitesi sessual-ciniche. Il borghese - nel sesso come in tante altre questioni - è un quasi-realista che osa gettare uno sguardo sulle «cose come stanno» senza tuttavia distanziarsi davvero dalle idealizzazioni e dai fantasmi etici.


Ed è perciò che i suoi ideali sono costantemente battuti da uno sciabordio d'intuizioni realistiche a successive ondate (ed è proprio da queste turbolenze che deriva la particolare ricettività con cui il maschio adulto occidentale accoglie il frizzo sessual-cinico, il rozzo realismo dello «stantuffo», la pornografia). Al borghese importa assai di «tener alti i valori» che gli sono propri, ma non per questo vuole dimenticare come «vanno davvero le cose giù nella realtà». Di qui il ghigno cinico; sì, bontà vostra, siamo al corrente; et in Arcadia ego... Non questo,


1 Cfr. Norman Cohn, Das Ringen um das Tausendjährige Reich, Berna 1961.


però, è il «nostro posto», noi certo non confonderemo l'alto con il basso... E così, non malvolentieri il borghese va sì al bordello, ivi convincendosi del comun denominatore tra dame e puttane; ma le due realtà restano separate, le differenze protette. Ed è, certo, precipua strategia culturale della letteratura e dell'arte borghese il muovere alla conquista del «pubblico» mediante un'estetica del «privato»; tuttavia, nel privato medesimo occorrerà tracciare un discrimine che separi con rigore: da un lato la versione privato-ideale e, dall'altro, quella privato-animale; dove poi - potendosi liberamente esprimere in quest'ultima - l'animalità borghese si rivela piuttosto un Porcile che un Cinosarge: cinismo e non kinismo. Il borghese sa distinguere l'umano dal troppo umano. Egli è senz'altro in grado, per un verso, di ammettere le «nostre debolezze», ma, per altro verso, resta ben deciso a mantenere un «contegno» e, insomma, a rispettare il motto bismarckiano: «Cortesia fin sotto alla forca». C'è stato chi ha persino tentato di trovare un nome per quella «giusta faccia» che ogni vera signora deve saper fare quando, in sua presenza, viene raccontata qualche arguzia «per soli uomini». La faccia giusta consiste nell'esprimere simultaneamente precisa conoscenza degli implicati e sostanziale estraneità emotiva. Tale nota, lievemente ironica eppur tollerante, fa parte del bon ton femminile nel trattare gli inevitabili episodi di cinismo maschile.


Siamo stati abituati dalla psicoanalisi ad associare automaticamente la chiarificazione della nostra vita interiore con quella della nostra sessualità. In ciò vi è del positivo e del negativo. Positivo e giusto appare l'impegno psicoanalitico a superare il quasi-realismo sessuale della borghesia, a completarlo cioè con un realismo pieno. Negativa e sbagliata, invece, è la tendenza a confondere il «segreto» (il «si fa ma non si dice») con l'«inconscio». Indubbiamente la sessualità rappresenta un ambito in cui tale confusione si impone quasi da sé. Avviando la sua indagine interpretativa dell'inconscio, la psicoanalisi si è davvero avventurata in quello che la società borghese considerava il territorio segreto par excellence, cioè l'esperienza (o meglio: il sospetto) che il borghese cova in sé di essere un animale (questione che viene presa assai seriamente). La psicoanalisi ha provveduto a neutralizzare la sfera animal-sessuale riportandola nel territorio delle cose non segrete. Ecco la


Scena dal «Saio-Sade» di Pier Paolo Pasolini. La pornografia tardoaristocratica svela il nucleo violento della sessualità. Onde sviluppare il nesso tra scatenamento, terrore e «discretion», essa esilia l'eccesso in spazi reclusi. L'era aristocratica dell'erotismo, iniziata idealisticamente con «l'amor cortese», è da Sade condotta a compimento in un materialismo dello stupro.


ragione per cui allora alcuni, studiando la letteratura psicoanalitica, poterono domandarsi sul serio se essa fosse da considerarsi genuina espressione della scienza e non invece della pornografia. Con la tendenziale confusione di «segreto» e «inconscio», due generazioni di analisti e di pazienti sono state condannate a inenarrabili, dolorose peripezie. Infatti non corrisponde al vero che l'eliminazione dei segreti sessuali della cultura borghese matura abbia complessivamente prodotto effetti denevrotizzanti sulla società; i segreti sessuali patogeni rappresentano solo una frazione minima dell'inconscio individuale e collettivo. (1)


La psicoanalisi configura così un ibrido storico. Con questi suoi fondamenti sessual-patologici essa volge un occhio al pas 


1 Ammetto qui un sincero imbarazzo nel dover abbandonare il tema che in realtà richiederebbe, dopo questi brevi cenni, un saggio a sé. Spero di poter tornare su questo argomento in un lavoro successivo.


sato mentre - convinta com'è che l'inconscio sia una costruzione - l'altro occhio viene volto al futuro. Al modo di un detective della cultura, essa ha trasformato in certezza il sospetto proto-borghese: l'umano poggia sull'animale. Sono presi da questo dubbio atroce fino dalla metà del Settecento tutti i membri di quella società borghese che da un lato era una volta per tutte intenta a domare la bestia interiore con la forza della ragione, dell'illuminismo e della morale; ma, d'altro lato, proprio come sottoprodotto di quell'addomesticamento, vedevano estendersi sotto di sé, sempre più minacciosa e vasta, l'ombra bruna della ferinità. Infine, il quasi-realista borghese, completamente civilizzato e «de-animalizzato», cadrà preda del suo fantasma testardo e sospettoso, ostile a tutto quel che è interiore o inferiore o basso. L'animale borghese risulta, così, circonfuso da una sorta di atmosfera di auto-sospetto che s'accenderà poi nei bagliori della letteratura romantica, con tutte le tetre e misteriose metafore annesse e connesse sull'Abisso Interiore, la Bestia, la Carne, la Morte e il Diavolo. I romantici sanno che per il borghese non vi sono che due vie, delle quali l'una porta appunto allo splendore borghese, l'altra, invece, alla tenebra di un'esistenza non-borghese. E così uno si sposa, diventa il brav'uomo che tutti conosciamo, fa dei figli e si gode la sua tranquillità da benpensante-benestante... Ma della vita, che ne sa?


 


L'altro cadde, siccome un masso... mille voci il suadevan basso ad altra ripa da sirene fisso da lascivi flutti tre volte casso... seco trasse l'iridato abisso. (1)


 


L'«Altro» è la belva, è l'«Inferiore» che ancora può scatenarsi e che osa discendere nei secreta, nei baratri di se stesso e della propria anima: i multicolori abissi animaleschi del piacere. Ed è proprio l'uomo, che tenta per converso di esiliare da sé ogni animalità, a percepire ora un pericolo che gli cresce dentro e che sarebbe consigliabile trattare meticolosamente.


Una variante di tale meticolosità ci viene incontro dal lessico


1 «Dem zweiten sangen und logen / Die tausend Stimmen im Grund / Verlockend Sirenen, und zogen / Ihn in der buhlenden Wogen / Farbig klingenden Schlund» (da J. von Eichendorff, Die zwei Cesellen, 1818).


 


Magnetismo animale. Una seria occupazione per pensatori poco inclini allo scetticismo. Caricatura di Michael Voltz (?). Il sospetto bestiale che gli individui borghesi nutrono verso se medesimi crea sul piano culturale generale le premesse della moderna psicologia del profondo.


psicoanalitico che - con vero e proprio colpo da domatore designa l'ambito «rimosso» dell'Animalesco e del Pericoloso con il termine «inconscio». La psicoanalisi serba in sé qualcosa come di scienza pseudo-medica dell'ammansimento, quasi si trattasse di incatenare l'«inconscio» a colpi di vedute assennate.


Quando Freud parla di una «chimica del sesso», trattando così l'orgasmo alla stregua di uno scaricamento della tensione, è difficile scacciare scene di uomini al bordello che, per «amare», manco si levano le brache, giacché si tratta per l'appunto solo di «scaricamento». Ecco anche qui la tranquillizzazione, lo smaltimento, l'oggettivazione ingiustificata e la reificazione della sessualità. E l'involontario contraltare all'altrettanto ingiustificata quanto inevitabile demonizzazione dell'interiorità segreta la cui prima espressione risale, con i romantici, sin quasi ai primordi dell'età borghese. I quali romantici crearono lo scenario adatto al gioco cui la demonologia dell'«inconscio sessuale» avrebbe poi dato inizio. Il demone, del resto, altro non è se non la bestia, l'animalità interiore. Quel che «l'inconscio» sarebbe nella sua essenza, lo dichiarò il letterato romantico Eichendorffpiù chiaramente di quanto non abbia poi fatto lo scienziato neoromantico Sigmund Freud: «Ma tu guardati dal risvegliar l'animale selvaggio da dentro al tuo petto acciò che esso (Es) improvvisamente non prorompa sbranando te stesso (Selbst)». (1)


Rispetto all'Ottocento, di cui la psicologia dell'inconscio è espressione, la temperie culturale borghese ci appare oggi sensibilmente mutata. Nessuno dei nostri contemporanei crede o pratica più la scissione tra amor ideale e amor animale. Con ciò è venuta a cadere una condizione elementare per le sortite sessual-kiniche. Non si ride più molto sulle «barzellette sporche», né poi la pornografia può dirsi in alcun modo mordace.


Tutto questo appare oggi decisamente fuori moda. Ma sarebbe ingenuo pensare che la partita sia conclusa definitivamente. Se il kinismo si è affermato, ancora verranno cinici capaci, con queste verità non più sporche, di combinare sporchi affari, esattamente come prima. Lo shock pornografico sarà anche superato una volta per tutte, ma il business della pornografia


1 «Du aber hute dich, das wilde Tier zu wecken in der Brust, dass es (Es) nicht plotzlich ausbricht und dich selbst (Selbst) zerreisst» (Schloss Diirande).


 


La pornografia borghese svela l'aspetto mercificato della sessualità. Un'«indiscretion» assurta a principio fa esplodere gli spazi prima reclusi, rendendo nudità e vendibilità sinonimi e immettendo sul «libero mercato» le sue droghe visuali.


«In-casinamento delle teste» inteso come rapporto di produzione? Vedi anche cap. v.2: «Scambio cinico».


resta e fiorisce. Da tempo ormai non vi è più nella pornografia tardo-borghese nemmeno una scintilla di quel regolamento dei conti con le inibizioni cui erano stati improntati i primordi di una corrosiva azione polemica contro idealismi e tabù erotici. Ben di più, essa simula consapevolmente delle coscienze arretrate citando tra strizzatine di occhio qualche finto tabù da poter poi far saltare con beau geste pseudo-illuminista. Il cinismo di tanta stampa «tette & cosce» non consiste affatto nell'esporre all'attenzione generale più o meno graziose donne nude, ma, piuttosto, nel restaurare a pie sospinto rapporti decisamente superati lavorando a un raffinato rincretinimento di maschi e femmine assai consapevoli del gioco. È per tale ragione che la spinta kinica, illuminista e realista di certi gruppi femministi si manifesta in una decisa ostilità al business del sesso.


La pornografia tardo-borghese funge, all'interno della società improntata al capitale, da palestra della vita schizoide, defraudata di se stessa, modellata sullo sfasamento del «non adesso». Essa vende l'originario, il già sempre dato, l'ovvio come fosse invece una meta assai remota, uno stimolo sessuale utopico. La bellezza del corpo - riconosciuta dal platonismo quale guida dell'anima sulla via verso l'entusiastica esperienza della verità - funge nella moderna pornografia da cemento del disamore generale che nel nostro mondo può stabilire quella che sarebbe la «realtà».


 


 


3. CINISMO RELIGIOSO


Ma Lei, del Graal, una volta che lo ha trovato, che se ne fa?


Benjamin Disraeli


... persino i ghigni s'accumulano, identici a quelli del teschio; infatti: che l'uomo, autore di progetti a lunga scadenza, prenda l'abbrivio come il bestiame, è di per sé cosa, ad un tempo, spiritosa Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung


Improvvisamente uno lascia il mondo visibile, comune e, per così dire, continuo; interrompe la condivisione dell'esistenza con noi. Il suo respiro si ferma, smettono i suoi movimenti. La morte si manifesta prima di tutto in modo passivo: qualcosa si spegne, passa alla quiete. Poco più tardi, questo spegnimento mostra anche la sua faccia «attiva»: il corpo si fredda, si decompone, si disfa. Allora lo scheletro appare come la parte in noi capace di resistere più lungamente di tutto il resto alla putrefazione. Assume funzione vicaria di quanto resta di noi in materia e diventa, così, l'eidos della morte. Quest'impalcatura ossea simbolizza la fine che ogni vivente porta sempre in sé. Ognuno è l'ossuto apripista della propria dipartita.


Osservando questa faccia della morte - l'unica abitualmente osservabile - si fa incalzante, in chi vive, l'idea che nei corpi viventi agisca una forza invisibile, la quale permette loro di respirare, saltellar dattorno e mantenere i propri sembianti; una forza che dev'essersene andata, viceversa, dai morti: i quali, infatti, s'irrigidiscono e putrefanno. L'invisibile stimola respiro e movimento, sensibilità, sorveglianza e mantenimento dei precipui sembianti corporei - è un'essenza d'intensità ed energia. La sua efficacia crea, seppur in modo non visibile o controllabile, la più reale delle «realtà». Questo ens invisibile ha molti nomi: anima, spirito, alito, forza ancestrale, fuoco, forma, dio, vita.


Esperienza insegna che gli animali nascono e muoiono come noi, che le piante germogliano e si corrompono: anch'esse, in questo modo, prendono parte alla multiforme intermittenza di vita e di morte, di creazione e di distruzione. Indubbiamente, l'«anima» umana è permeata da un cosmo di vitalità animali e vegetali, e da enigmatiche fonti di un'energia che esercita la sua influenza dietro la notte e il giorno, la tempesta e il sereno, il calore e il gelo. Questo «essere permeati» non evoca certo l'immagine di un «dominio» dell'uomo sulla natura e sul mondo circostante, giacché l'uomo appare piuttosto un bipede nudo, un essere sopportato e mantenuto in vita dal tutto nella misura in cui si dimostra capace a sua volta di mantenere un controllo sulle sue interazioni con i portatori di utile e di disutile presenti nel mondo animale e vegetale.


Vita e morte, venire e andare: queste innanzitutto sono costanti naturali, battiti secondo un ritmo in cui il dato prevale su quanto viene aggiunto. Nella storia della nostra civiltà, tuttavia, il rapporto tra accettazione e azione, tra patire e fare slitta anche rispetto all'esperienza della morte. Quel che appariva un aspetto dei ritmi naturali diventa invece, nelle società più evolute, una lotta sempre più radicale e sempre più tenace tra la vita e la morte. E allora la morte non è più tanto un risultato, assolutamente ininfluenzabile, bensì qualcosa che reca il marchio della nostra forza, del nostro arbitrio. La sua immagine primaria non è più l'inevitabile approdare alla fine o il lieve, placido spegnersi della fiamma vitale, ma piuttosto un evento combattuto, terribile e imbevuto del sospetto di violenza e assassinio. Tanto più gli esseri umani pensano la morte come un venir assassinati e non come un pacifico autospegnimento, tanto più possentemente va di necessità ad ingrossarsi la marea tanatofobica. È per questo che gli Stati e gli imperi della storia, per quello che ci è dato sapere, furono entità istituzionali religiose. Si tratta di universi sociali in cui la paura di una morte violenta è realistica. Ognuno, lì, ha davanti agli occhi migliaia di immagini violente. Imboscate, stragi, stupri, pubbliche esecuzioni, guerre, torture in cui l'uomo perfeziona in sé il diabolus mediante cui trarre dall'altrui morte un massimo di supplizio. Oltre a ciò le società classiste torchiano le energie vitali di sudditi e schiavi con tanta violenza, materiale e simbolica, che nei corpi irrefrenabilmente si aprono tenebrosi spazi di vita non vissuta. Il fantasticare e la nostalgia dell'«alterità» intuita quale connotato di pienezza covano sotto la cenere. Tale vita non vissuta connette le proprie energie utopiche con le paure di annientamento che nelle società violente i singoli fin dalla fanciullezza introiettano. È a partire da tale connessione che nasce il «No», assoluto e apparentemente irrevocabile, pronunciato dall'uomo nei confronti della morte. In ciò consiste la risposta all'esperienza civilizzatoria troppo profondamente terrorizzante. Il nostro essere-in-società include quasi a priori una minaccia di non potersi realizzare completamente nell'ambito della nostra innata vitalità. Ogni vita socializzata vive nel sentore che le sue energie, il suo tempo, la sua volontà e i suoi desideri non saranno ancor del tutto consunti quando scoccherà l'ora di morire. La vita lascia dietro di sé un mastodontico, comburente «non ancora», che abbisognerebbe di tempo e di futuro in misura ben maggiore di quella assegnata al singolo. Questi sogna, ben al di là di se stesso, e muore... con suo pieno disappunto. Per tale motivo la storia delle civilizzazioni più avanzate è tutto un vibrare di questi innumerevoli e smisurati «Non ancora!»; milioni di voci levano alto il loro «no» a una morte che è non già esalazione estrema di una vita ormai spenta, quanto, piuttosto, soffocamento violento di una fiamma comunque mai così lucente come avrebbe potuto esserlo con il conforto di una vitale libertà. Di qui in poi, nelle società classiste e militaristiche, l'esistenza devitalizzata cova sulle sue compensazioni: in una vita ulteriore (come vuole la coscienza indù), oppure nel celeste paradiso prospettato dal cristianesimo e dall'Islam a riscatto dei mortificati sogni e delle attese dei credenti. La religione in senso primario non è l'oppio dei popoli, ma piuttosto un monito e un ricordo: vi è in noi più vita di quanta noi non se ne viva in questa. La funzione della fede è una prestazione di corpi morti, ma non totalmente immemori del fatto che - sopravvivendo in loro la vitalità, la forza, il piacere e poi ancora l'enigma e l'ebbrezza di starsene al mondo - le loro sorgenti dovranno allora essere ben più profonde di quanto la vita di ogni giorno lasci intravvedere.


Di qui proviene alle religioni quel loro ruolo socialmente ambiguo: esse possono servire a legittimare la repressione e raddoppiarla; (1) ma contribuendo a superare la paura possono anche liberare negli individui maggiori doti di resistenza e creatività. Così la religione può essere sia l'una che l'altra cosa: fattore di dominio e nucleo di resistenza al medesimo; mezzo di repressione e mezzo di emancipazione: strumento di devitalizzazione o dottrina di rivitalizzazione.


Il primo caso di kinismo religioso in ambito tradizionale giudaico-cristiano contempla nientemeno che il gran padre Mosè nel ruolo del ribelle /cinico. E la prima «blasfemia» in grande stile fu da lui compiuta al ritorno dal monte Sinai spaccando le Tavole «ch'erano di pietra, scritte col dito di Dio» (2 Mosè 31,18). «E Dio stesso le aveva fatte e lui stesso n'aveva inciso la scrittura» (32,14). Mosè, che veniva giù dal monte con le Leggi di Dio sottobraccio, trovando il popolo danzare intorno al vitello d'oro, istituì un esempio del trattamento che il kinico religioso riserva al Sacro. Manda in pezzi tutto quello che è non Spirito ma lettera, non Dio ma idolo, non Vivente ma rappresentazione. Espressamente è detto che Mosè fece ciò nell'ira e fu ira sacra a conferirgli tutta la malcreanza necessaria per prendersela con quegli Autografi di Dio. Qui è necessario chiarire bene il concetto. Immediatamente dopo aver sfracellato le Tavole - così il resoconto biblico - Mosè si gettò sul vitello d'oro, lo fuse a vivo fuoco «e lo macinò a fine farina che spolverò in acqua dandola poi come bevanda ai figli d'Israele...». In seguito dovrà tornare a scolpire due nuove tavole affinché Dio possa iscriverle una seconda volta. E infatti riceve la Legge da Dio: «Non costruire idoli divini»... La blasfemia kinica di Mosè deriva dal fatto che egli sa quanto gli uomini tendano ad adorare feticci, a idolatrare oggetti materiali. Ma di ciò che è materiale niente sarà mai così sacro da non poter essere mandato in pezzi ove le rappresentazioni del sacro comincino ad adombrare lo spirito della religione. In tale prospettiva può accadere che, tra le tavole del buon Dio e il vitello d'oro, non si faccia più alcuna differenza. E questo cos'è? Rappresentazione, dunque:


1 Cfr. KzV, pp. 70-83: «Kritik der religiösen Illusion». (n.d.t.)


idolo... Colpisci! Il nucleo del kinismo spirituale sta nel divieto di farsi immagini di «Dio». Immagine e testo possono soddisfare il loro compito solo finché non si dimentica che sono entrambe apparenze materiali e che la «verità» in quanto struttura material-immanente deve essere sempre nuovamente riscritta e riletta, cioè sempre nuovamente materializzata e ad un tempo smaterializzata (ciò che implica il fare a pezzi ogni materializzazione non appena inizia a «premere», a farsi troppo avanti). (1)


Tutte le blasfemie primarie sono portati dell'impulso kinico: nessun idolo si può prendere gioco di noi. Chi «sa» qualcosa degli dèi conosce l'ira mosaica, la mano kinica e felice nel trattare le rappresentazioni del divino. Il religioso, a differenza del «fedele», non è il monsù Travet del suo «Super-io»; il suo Es sa come son fatte le leggi e lui sa che il suo Es le «sa», e le lascia parlare, e le segue anche, se le cose muovono nel medesimo senso. Ciò implica una distinzione tra la blasfemia primaria dei mistico-religiosi kinicamente vitali e quella secondaria, che deriva invece dal mero ressentiment, o da coatti vizi inconsci, dall'illiberale piacere d'infangare ciò che è elevato.


Anche il primo cinismo di tipo religioso ci viene dall'Antico Testamento. Significativamente si trova nel racconto del primo assassinio nella storia del genere umano: la storia di Caino e Abele. Adamo ed Eva avevano (tra gli altri) due figli: Caino, il primogenito, che era contadino, e Abele, il secondogenito, che era guardiano di pecore. Un giorno entrambi fanno sacrifici al Signore: Caino Gli offre frutti del campo, Abele i primizi del gregge. Il Signore tuttavia «riguardò» benevolmente solo il sacrificio di Abele, mentre «non riguardò» quello di Caino. «Allora assai si corrucciò Caino, e fece simulazione del suo sentire... Allora Caino prese a parlare a suo fratello Abele. E - trovandosi entrambi sul campo - accadde che Caino s'ergesse contro a suo fratello Abele e lo colpisse a morte. Allora il Signore parlò a Caino: "Dov'è il tuo fratello Abele?"» (1 Mosè, 4, 6-9). Ecco, su questa domanda s'alza il sipario del cinismo religioso. L'arte della simulazione, cui qui


1 Questo potrà non piacere ad alcuni ostinati strutturalisti, ben decisi a prendere parte intorno al vitello d'oro al balletto sul «linguaggio, discorso e significante». Il feticismo strutturalistico del significante non è meglio del feticismo logocentrico del «significato».


 


Afax Ernst: «La Vergine Maria sculaccia il Bambin Gesù», 1926.


s'accenna, è immediatamente connessa alla svolta cinica di una coscienza violenta opposta a un'altra coscienza. (1) E cosa potrebbe mai rispondere Caino? Qualunque cosa dica sfocerebbe in un cinismo: né egli intende, peraltro, ammettere il vero; la comunicazione con Colui Che domanda appare comunque distorta. Caino — in una conversazione più seria potrebbe rispondere a Dio: «E Tu non fare il Finto Tonto, con le Tue domande... Sai quanto me dove sia Abele, l'ho appena fatto fuori con queste mani, e Tu non solo Te ne sei stato lì a goderTi lo spettacolo, ma me ne hai addirittura fornito il movente». Anche l'effettiva risposta di Caino, nella concisione, serba tuttavia il suo bel sarcasmo cinico: «Non so, forse che sono il custode di mio fratello?». Un Dio Onnisciente e Sommamente Giusto avrebbe fatto meglio a risparmiarsi simili umilianti punzecchiature morali. Ed è quel che Gli insegna per l'appunto il rimbrotto di Caino. Ma che Dio è mai questo, che per un verso tratta gli uomini in modo diseguale, quanto meno aizzandoli al delitto, e poi pone loro domande apparentemente innocenti sull'accaduto? Dunque «Dio» - se così si può dire - non penetra in ogni coscienza?


Quella di Caino, a quanto pare, sarebbe ermeticamente sigillata di fronte a questo Dio non penetrante (situazione che ricorda la psicologia dei bambini cresciuti nel terrore della punizione). Caino, insomma, reagisce con impertinenza sfacciata ed evasiva. Da questo primo delitto - più ancora che con il peccato originale - qualcosa di profondamente dirompente s'inietta nell'ancor fresca Creazione (come il mito veterotestamentario ben evidenzia) : le cose cominciano a scivolare di mano a Dio. Nel mondo accadono fatti cruenti di cui Egli non aveva tenuto conto e per i quali Egli non sa ancor bene vagliare una giusta punizione. La morale della storia di Caino - ben strana a pensarci - sembra dunque risiedere nel fatto che Dio, divenuto come pensieroso, non solo non punisce


1 Cfr. J.-P. Sartre, L'Étre et le néant, 1943, p. 84: «Mediante la menzogna la coscienza conferma di esistere come qualcosa che è nascosto all'altro; essa sfrutta a proprio vantaggio l'ontologica dualità tra io e io-estraneo. Altrimenti invece stanno le cose nel caso della malafede quando questa - come abbiamo detto - rappresenta una menzogna davanti a se stessi... Allora non esiste una dualità di ingannatore e ingannato...». Il Dio di Caino apparirebbe di conseguenza il partner di un'autocoscienza ancora capace di autoinganno. Tanto per cominciare un Dio in divenire, dunque.


 


Caino, il fratricida, ma, con il «segno di Caino», lo pone addirittura espressamente sotto la Sua salvaguardia: «La vendetta è Mia, dice allora il Signore». Colui che si vendicasse non sarebbe certo un dio all'altezza delle Sue possibilità. Il Dio dell'Antico Testamento, l'antico Dio ebraico possiede molti tratti di un uomo iracondo, anziano e amareggiato, che non capisce più tanto bene il mondo e osserva con sguardo invidioso (nonché sospettoso) quella gran massa di cose laggiù. La reazione divina al delitto primordiale di Caino viene pur sempre differita al Giudizio Universale; Dio concede a Sé e all'uomo ancora una proroga, e le mitiche narrazioni di un Giudizio Universale sottolineano il fatto che prima del suo avvento trascorrerà un epoca decisiva: il Tempo della Grande Chance,, È il Tempo necessario a Dio per diventare Giusto; il tempo a noi occorrente per comprendere cosa sia levita giusta. Due espressioni fondamentalmente sinonime.


In qual modo la cristianizzazione del potere - durante la fase conclusiva dell'Impero romano e, più ancora, durante il medioevo europeo - sia approdata a esiti cinici, è già stato qui tratteggiato in «Cinismo di stato e di potenza». Il culmine viene stabilmente raggiunto dal cinismo dominatorio cattolico a partire dall'epoca delle crociate, in cui ha origine anche l'Inquisizione. Riassumendo quest'ultima nella formula «persecuzioni cristiane di cristiani» si delinea così la prassi cinico-riflessiva della menzogna propria di una Chiesa-padrona i cui più foschi rappresentanti (nel senso del Grande Inquisitore dostoevskijano) non avrebbero avuto remore ad abbrustolire sul rogo Cesù, se questi solo si fosse ripresentato (così come remore non ebbero con gli innumerevoli «eretici» che l'insegnamento di Gesù volevano rivitalizzare). Quei «foschi» ben sapevano ciò che facevano: ed è solo per una romantica semplificazione dei fatti se tali signori dell'Inquisizione furono etichettati, alla maniera orripilante degli storiografi, come «fanatici cattolici». Ma non sarebbe sminuimento indebito il volerli dipingere come ciechi satelliti vuoi di una pretesa «fede» o di una troppo rigida «persuasione interiore»? Davvero possiamo attribuire questo genere d'ingenuità ai potenti ed eruditissimi rappresentanti della religione di Cristo? Forse che non si richiamano essi stessi a un uomo-dio ribelle, cacciatosi in quanto ribelle in un «cono di ombra» (e quindi, per parte sua, in perfetta linearità con la tradizione dei fondatori religiosi usi con gesto di sacra ira a spaccare al suolo le Tavole della Legge Divina)? Forse che codesti signori inquisitori non sapevano, non dovevano sapere? E forse che, nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali, non avevano ogni giorno davanti agli occhi l'appello all'imitatio Christi, basilare per questa religione, sicché gli imitatori, proprio negli atteggiamenti massimamente «ereticali», finivano per essere in spiritu di gran lunga più vicini alla fonte di quanto invece non fossero i dotti e cinici ministranti della littera?


Già s'è accennato a come Friedrich Schlegel concepisse la dimensione kinica della religione cristiana: resistenza religiosa contro lo Stato strapotente, e, anzi, in generale contro ogni forma di mondanità cruda, stupida ed egoisticamente ottusa.


Non appena un tale Stato (e nulla importa se Papato o Sacro Romano Impero), dopo aver ricevuto la sua tinteggiatura di cristianesimo, si stabilizza; non appena il brutale mondo del potere comincia a farsi sfrontato, sfrontato all'eccesso, allora fanno apparizione sulla scena medievale i kinici asceti che, con teschi e scheletri, cercheranno di riportare entro giusti confini i superbi bontemponi del Palazzo. Ai Grandi Conquistatori affamati di potere, affinché ritornino in sé, bisogna ricordarlo: quando saranno morti avranno giusto quel tanto di terra che basta per scavare una fossa (leitmotiv critico conservatosi fino e oltre la graffiante lirica brechtiana degli anni Venti). Il cristianesimo Unico del medioevo, resoluto a meditare e resistere, si è in sempre nuove ondate opposto con il suo memento mori alle tendenze di insensata avidità mondana, impregnata di luxuria e superbia. Kinicamente ispirati, in senso religioso, mi paiono poi in effetti i grandi moti riformatori, la cui prima ondata uscì dai monasteri cluniacensi estendendosi ben oltre la crudele e caotica belligeranza feudale del X e dell'XI secolo; elementi kinici sono altresì presenti nella seconda grande ondata che nel XII e XIII secolo diffonde in larghe cerchie esperienze ascetiche e mistiche; non diversamente dagli accenni riformatori del XIV e XV secolo; e forti più che mai nella Grande Riforma e nei grandi riformatori, tra cui Martin Lutero («il papa è la scrofa del diavolo!»). Il quale Martin Lutero promuoverà, con primigenio slancio polemico, un autorinnovamento della religione improntato allo


«spirito» e alla lotta contro gli idola tradizionali; egli porta a compimento tale processo riunendo nella sua persona vari prototipi /cinici, da Mosè e Davide, giù giù sino al suo contemporaneo letterario, Till Eulenspiegel.


Il tardo medioevo conosce poi esempi di rovesciamento dei motivi ascetici. Uno per tutti - che debbo purtroppo citare a memoria, declinando pertanto ogni responsabilità riguardo a singole formulazioni letterali - riporto qui di seguito:


Era già da parecchio che una bella giovane veniva corteggiata da un uomo, ma, per timore di dannarsi l'anima e di perdere la castità, lo respingeva sempre. Questa resistenza ai corteggiamenti del suo amoroso trovava sostegno nel prete di quel luogo, che egli continuamente la ammoniva a conservar la virtù. Allorché questi dovette lasciare la città per recarsi a Venezia, le fece giurare solennemente di non cedere nemmeno durante la sua assenza. Cosa che ella fece, subordinando tuttavia la promessa alla condizione che egli da Venezia le portasse un di quegli specchi per cui la Serenissima è tanto famosa. Mentre il prete era via, ella effettivamente resistette a ogni tentazione. Ma, ritornato, la donna gli chiese dello specchio promesso. A questo punto, da sotto la tonaca, il sacerdote trasse un teschio e con cinico disprezzo lo cacciò di fronte alla donna: «Femmina vanitosa, ecco il tuo vero volto! Medita! Che devi morire e nulla sei innanzi a Dio, nostro Signore!». Lei si spaventò sin dentro il midollo e durante la notte si concesse al suo amoroso, godendo da quel dì in poi le delizie della carne.


 


Quando il cristiano inizia a riconoscersi nel teschio come in uno specchio facilmente approda al luogo in cui la paura della morte ci abbandona davanti alla paura di non aver vissuto. Il cristiano capisce allora che è proprio il «mondo-bordello» il luogo in cui viene a offrirsi l'occasione di questa vita irrestituibile. ,, Fin dall'inizio la religione cristiana è torturata da un singolare problema: il non-poter-credere. In quanto religione organizzata, essa è, già dalla sua più intima essenza, religione della mauvaise foi, religione della malafede nella misura in cui si fonda non già sull''imitatio Christi, quanto piuttosto sull'imitatio imitationis Christi, sulla leggenda di Cristo, sul mito di Cristo, sul dogma di Cristo, sull'idealizzazione di Cristo. Il processo di dogmatizzazione è caratterizzato dalla mauvaise foi, infatti due dimensioni di ineliminabile incertezza vengono mendacemente riconvertite a certezza nell'opera di dogmatizzazione: in primo luogo, quanto di Gesù fu trasmesso è materiale straordinariamente frammentario, la cui genuinità non può determinarsi con sicurezza; e perciò comprendiamo come mai, nei secoli successivi alla morte di Gesù, ebbero modo di svilupparsi le più disparate interpretazioni del «messaggio cristiano»; già il solo fatto che esse abbiano potuto svilupparsi prova una certa qual «tradizione dell'ispirazione», cioè un tramandarsi dell'esperienza originaria condivisa dai primi cristiani insieme con Gesù: l'esperienza di un «sì» incondizionato che, in quanto amore e impavidità radicali, dovette produrre indelebile impressione in tutti coloro che vennero a contatto con i primi cristiani. La dogmatizzazione per un verso nasce dall'aspra concorrenza tra differenti «organizzazioni» e mitologie cristiane, tra le quali nessuna poteva aver certezza che «lo spirito» non dimorasse poi davvero anche nell'organizzazione e nella mitologia rivale. A fronte di tale palese e innegabile pluralità dei «cristianesimi» solo una malafede radicale può volersi affermare come l'unica vera fede. Ciò che per l'appunto contrassegna la seconda dimensione della mauvaise foi nel clima repulsivo dei cristianesimi escludentisi a vicenda e nella corrispondente rielaborazione intellettual-teologica, l'opposizione tra mito e intelletto, tra credere e sapere era destinata a spalancarsi, e quanto più platealmente questa si spalancava tanto più intenso diveniva il ricorso a disonesti espedienti di automanipolazione delle coscienze. In tale dogmatizzazione teologica della religione di Cristo ciò che era obiettivamente problematico fu fatto innumerevoli volte oggetto di menzogna: quasi che davvero si credesse al «proprio credo»... Ma la storia della teologia e della dogmatica cristiana è tanto storia del «dubitare-ma-volercredere» quanto del credere tout court. Dire «teologia cristiana» è sinonimo di un tentativo, immenso quanto fantasmatico, di cercare certezza proprio laddove, per natura di cose, non può esservene. Si può dimostrare qui l'esistenza di una dimensione autoipnotica che prende le mosse da quel che noi oggi designamo con il termine «ideologia», cioè uso strumentale dell'intelletto, finalizzato a una legittimazione paralogistica di obiettivi, interessi e identità. La teologia, già dal suo primo istante, è bifida, consta di fede e dubbio: dubbio che vorrebbe retro-illudersi nella semplicità di un «mero credere». Essa pronuncia professioni di fede in forma dogmaticocertissima, ma dalla cosa stessa risulta che una professione di fede, per sua natura, può riferirsi solo a qualcosa di certo a chi professa e tale sarà dunque la sua esperienza interiore, la sua interiorità: eppure, in questa egli trova non già la fede in quanto tale e nella sua forma cimentare: egli trova, alle corte, il dubbio e non la certezza. Ciò che noi oggi chiamiamo «confessione di fede» descrive la summa di quelle cose delle quali uno dubita ben più che quelle di cui uno può stare certo. Insomma, il lascito di malafede trasmessoci dalla mentalità cristiana, è divenuto patrimonio genetico di praticamente tutto quel che, in epoca postcristiana, abbiamo visto spuntare, in Europa, quanto a ideologie e visioni del mondo. Vi è nel nostro humus culturale una tradizione che insegna a presentare il di per sé incerto sotto la veste dell'«intima persuasione», il creduto come saputo, la confessione come menzogna da battaglia.


Tale problematica della malafede interiore si acutizza drammaticamente nell'abbraccio mortale tentato dalla Controriforma cattolica verso i movimenti protestanti. Questi se si considera solamente la storia intra-religiosa della loro nascita - erano divenuti storicamente necessari a causa per l'appunto del fenomeno mauvaise foi, che aveva prodotto nel cattolicesimo una quantità intollerabile di menzogna e di corruzione. Le Riforme riguardavano la miseranda affidabilità della «fede», la vuotezza, la rozzezza e il cinismo dello spettacolo ecclesiastico cattolico. Orbene, pur rappresentando una sorta di riarmo teologico in opposizione alla sfida protestante, la Controriforma per parte sua si ritrova innegabilmente in una coazione riformatrice giacché mai potrebbe superare l'«inimico» senza studiarne gli strumenti, ossia la critica anticattolica sviluppata dal protestantesimo. Di qui, all'interno della teologia controriformista, ha luogo una silenziosa escalation di cinismo riflessivo, consistente nel pensare i pensieri dell'avversario, ma evitando di far trapelare dalle proprie «confessioni» che la si sa ben più lunga di quanto non si dica e non si «creda». Parlare da retroguardia e pensa re da avanguardia: ecco lo speciale segreto psico-strategico dell'ordine gesuita, milizia dello spirito e punta intellettuale nella lotta antiprotestante. In alcuni campi tale procedura vale ancor oggi: certo stile ideologico conservatore (quell'elegante gioco delle convenzionalità che, nei casi di consapevolezza elevata, serve a sospingere verso l'autocensura e lo sminuimento strumentale della propria intelligenza) reca fino ai giorni nostri l'impronta gesuitica. E, del resto, nella situazione del mondo moderno essere cattolici abbisogna davvero di apprendimento; presuppone infatti la capacità di sviluppare una malafede di secondo grado. Povero Hans Küng! Dopo studi tanto brillanti avrebbe pur dovuto imparare che cattolicesimo e intelligenza vanno bene, ma poi occorre conoscere anche un modo decente per nascondere di sapere troppo.


Anche la storia della secolarizzazione moderna affonda in fenomeni di cinismo religioso. Ciò che con questo processo di «mondanizzazione» va a concludersi è quella propaganda per un verso kinico-ammonitoria, per l'altro cinico-intimidatoria - del teschio e dello scheletro. Il memento mori, nell'ipermilitarizzata società dei consumi di tipo capitalistico (o «socialistico»), non aveva né poteva avere alcuna chance. Oggi non ssiste più chi nel teschio vedrebbe riflettersi il proprio vero volto. Dal secolo XIX questi macabra vengono relegati alla voce «romanticismo nero», interessanti tutt'al più sotto un profilo estetico. La tensione esistente tra religione e società mondana, e che verte su quanto debba o non debba considerarsi «la vita vera», si è (in apparenza) risolta quasi totalmente nel «mondano», ossia in spinte politiche, sociali e culturali.


Chi chiede «più vita», «vita più intensa», «vita in senso più alto»: «vita vera»... ebbene costui si vede confrontato, quanto meno a partire dal XVIII secolo, con una serie di moti rivitalizzatori non-religiosi beneficiari dell'eredità «positiva» della religione: arte, scienza, erotismo, turismo, coscienza del proprio corpo, politica, psicoterapia ecc. Ognuno di questi ambiti può offrire un suo contributo alla ricostruzione di quella «vita piena» che rappresentava, per così dire, il nucleo mnemonico-onirico della religione. In tal senso s'è potuto parlare di un «rendersi superfluo» della religione. La vita, cui non si toglie più così tanto, più non pretende un tempo ulteriore in cui riprendersi «tutto»; la vita umana, non più così completamente al di sotto delle proprie possibilità, ha davvero meno ragioni per ricorrere alla religiosità compensatoria; per quelli


Honoré Daumier: «Amor cristiano... alla spagnola».


a cui «in questo mondo» non va poi così malaccio neanche il cielo può promettere un «Radicalmente Altro». I grandi poteri devitalizzanti (famiglia, stato, esercito) hanno sviluppato, a partire dal XIX secolo, delle proprie forti ideologie «rivitalizzanti» (consumismo, sessismo, sport, turismo, culto della violenza, cultura di massa): a ciò i gruppi clerical-conservatori non possono contrapporre nulla di altrettanto allettante.


I moderni vitalismi di massa hanno una parte importante nel fatto che - almeno sul piano nudo e crudo delle funzioni vitali - le nostre società oggi non abbiano più alcuna reale sete di religione. Sono in generale divenute prive di sogni; se oggi si percepisce, in un qualche ambito, una qualche «mancanza», questa si esprimerà nel linguaggio dei beni vitali intramondani: mancanza di soldi, mancanza di tempo, mancanza di sesso, mancanza di divertimento, mancanza di sicurezza e via di questo passo. Solo da poco ha fatto capolino la locuzione «mancanza di senso» e, sull'onda di queste lamentazioni neoconservatrici, ci si ripresenta anche un nuovo «bisogno di religione», la classica mano santa per il business del senso, ancorché priva di sentimento verso il fatto che con tutta questa senso-dipendenza a ogni insensatezza viene data la possibilità di autoproclamarsi ricetta per il paradiso. Di sicuro c'è solo questo: che le possibilità di rivitalizzazione più rozze (il cosiddetto «materialismo») presenti nella nostra cultura, proprio nel momento in cui vengono prese in esame, evidenziano gli strati più profondi di una necrosi che il vitalismo - consumista, sportivo, discotecario e sessuagonistico - lascia sostanzialmente intatti. Questo aspetto della morte interiore - chiamato un tempo nichilismo - è un miscuglio di delusione e di disperazione abbattutasi su se stessa, è vacuità e avidità ad libitum. Senza dubbio esperienze di questo genere hanno avuto un ruolo sotterraneo nel nazismo, che per parte sua possiede certi tratti di una religione nichilista. Del resto sono stati proprio i fascismi che, con caparbio cinismo dominatorio, hanno osato riesumare alla politica in pieno XX secolo gli antichi simboli cristiani del memento mori: le camicie nere e le SS elessero, con indiscutibile fiuto autoritrattistico, il teschio a propria insegna. Quanto a scatenamenti, il fascismo tedesco non fu secondo a nessuno. Il fascismo è vitalismo spettrale di fantasmi che volentieri spacciano per movimento politico la loro Totentanz. È il «Trionfo della Morte», un fenomeno necrovitalistico della cultura europea, le cui profonde radici comuni si riassumono simbolicamente ancor oggi - tanto sul piano letterario come nella realtà - in figure vampiresche, di quei morti viventi che, per carenza di vitalità propria, si aggirano ossessivamente tra i non defunti per spegnerli, per prosciugarli. E, una volta vampirizzati, anche questi ultimi sono dei morti viventi. Devitalizzati nel loro nucleo vitale, dipendono dal prosciugamento della vitalità altrui.


Media vita in morte sumus: così suonava, in epoca cristiana,


Stendardo sulle trombe delle SS.


l'appello al ravvedimento verso una vita vera e autentica; nel bel mezzo della vita siamo già immersi nella morte. E noi oggi, inversamente, non dovremmo dire forse che media morte in vita sumus? Nel bel mezzo della morte, noi viviamo. Infatti, in questa necrosi immane sussiste ancora in noi qualcosa che è vita più fortemente di quel che vegeta nella nostra esistenza senz'anima.


L'uomo della Paura, l'uomo dell'Apparato, l'uomo dello Sfruttamento, l'uomo delle Bombe, l'uomo della «Cura», l'uomo della Provvidenza o l'uomo della Pianificazione: che ne sanno della vita? Se elenchiamo ciò di cui constano le nostre vite, a capo di tutto troveremo «tanta fatica e poca soddisfazione», tanti cupi sogni e poco hic et nunc. E allora vivere sembra ridursi a un «non essere ancora defunti». Imparare nuovamente a vivere richiede, in realtà, un grande lavoro di memoria. Ma, attenzione! Non di quel genere di memoria che sa solo rimescolare vecchie storie. Il ricordo interiore, il più intimo, conduce non a una «storia», ma a una «forza». E toccarla significa conoscere un'onda estatica. Questo ricordo non sfocia nel passato, ma in una traboccante istantaneità presente.


 Capitolo V