mercoledì 20 settembre 2023

GIANNI VATTIMO: IL PROBLEMA ETICO



GIANNI VATTIMO: IL PROBLEMA ETICO

Non l'ho mai apprezzato. Ha cavalcato un riscoperto nichilismo nietzschiano, ci ha sommerso di termini tedeschi, come se il sapore della vera filosofia  venisse perduto e contaminato dalla traduzione in una lingua che non sarebbe mai riuscita ad assimilare i sistemi d’oltralpe.

Gianni Vattimo ha soprattutto realizzato un’opera di divulgazione del destino epocale heideggeriano e lo ha diffuso  a piene pagine per nutrire la nostra provinciale scarsità di idee.

Dalla lettura dei testi di Gianni Vattimo si assiste al sovrapporsi di due piani in parte contradittori: da un lato vi è l’entusiastica accettazione dell’appello nietzschiano a vivere il tempo della morte di Dio, e dunque l’epoca senza verità e senza morali. Dall’altro si afferma con forza il rifiuto di ogni forma di violenza, nonché l’indiscussa fiducia nella bontà di valori quali la tolleranza, l’accoglienza, la pietas. Aspetto, quest’ultimo, senza dubbio paradossale, poiché così facendo si viene a rivendicare proprio la dignità di quei valori e di quella morale che l’autore di Al di là del bene e del male aveva infranto sotto il martellare della sua critica.

Poi c’è stata da parte sua la conversione al marxismo più ideologico che lo ha portato alla militanza e a fare il parlamentare europeo. A volte ha raggiunto livelli di faziosità davvero molto forte

Il problema etico nel pensiero di Gianni Vattimo. Considerazioni su forza e debolezza, tolleranza e carità

 Luca Grion

 1. Premessa


La posizione espressa dal pensiero post-moderna appare, sotto certi aspetti, come il rispecchiamento più fedele del nostro tempo, con la sua complessità e le sue mille contraddizioni. Il relativismo etico, il multiculturalismo, la parcellizzazione dei saperi sembrano infatti confortare gli epigoni di Nietzsche nella loro condanna di ogni sapere stabile e di ogni forma di verità immutabile.


Queste nostre brevi riflessioni cercheranno quindi di indagare l’opera di uno dei maggiori esponenti del post-moderno italiano, proprio nel tentativo di mettere in luce quelle linee di continuità che sembrano legare questa posizione teorica al "comune sentire" della nostra epoca.


Cercare di comprendere le ragioni che sottendono la posizione post-moderna può, in prima battuta, apparire contraddittorio o, quanto meno, paradossale vista la critica radicale che tale posizione opera nei confronti della logica dimostrativa e la sua sfiducia nelle possibilità conoscitive della ragione. Forse sarebbe più opportuno parlare di suggestioni, trattandosi di un movimento di pensiero che esplicitamente si ispira più all’evocatività della letteratura e della poesia che alla cogenza del logos. Ciò nondimeno, appare senza dubbio necessaria una lettura attenta e critica di tale fenomeno (culturale, si diceva, oltre che filosofico), sia che si abbia a cuore la difesa di forme si sapere stabili, sia che si voglia più semplicemente cogliere la coerenza interna e l’efficacia di simili posizioni.


In quest’ottica l’opera di Gianni Vattimo viene assunta quale icona di una più ampia sensibilità filosofica e culturale, della quale si cercheranno di mettere in luce tanto gli intenti e le ragioni ideali, quanto i limiti eventualmente individuati lungo il cammino. Il nostro lavoro si articolerà pertanto in due principali fasi: una iniziale ed imprescindibile esposizione del pensiero del nostro Autore (nella quale si cercherà di far emergere quello stretto legame tra istanza etica e critica antimetafisica che, a nostro avviso, rappresenta la cifra essenziale della sua produzione filosofica), seguita da una riflessione più generale attorno al rapporto tra etica, non-violenza e metafisica.


Possiamo sin d’ora individuare alcune delle aporie a nostro avviso più rivelanti che caratterizzano l’opera di Vattimo costituendone delle vere e proprie chiavi di lettura: il post-moderno, quanto meno nella sua veste italiana (che, per comodità, possiamo definire "debolista" (1)) sembra scaturire dall’etica e, più specificatamente, da un radicale rifiuto di ogni forma di violenza; eppure, nelle sue forme più rigorose, esso rappresenta l’estrema ed inappellabile negazione di ogni valore dell’etica stessa. Tutto è gioco interpretativo, finitezza, ambiguità; eppure la violenza (umana come metafisica) rappresenta una male assoluto, da rifiutare e condannare senza timore di smentita. Ed ancora: la verità (tanto quella con la "V" maiuscola, quanto le verità cui pretende di pervenire il pensiero dimostrativo) non esiste, o, quanto meno, essa appare franta, paradossale e multiforme; eppure viene affermata con forza e convinzione la non verità di alcune posizioni filosofiche piuttosto che di altre…


Ciò che emerge con evidenza è dunque lo iato, la distanza, tra l’ideale non-violento e, potremmo dire, ecumenico, che sostanzia la prosa del nostro Autore e la radicalità delle conseguenze cui egli perviene. Vi è, in altre parole, un netto contrasto (che, nel corso del nostro studio, cercheremo di capire se aporetico o contraddittorio) tra rivendicazione etica e decostruzionismo teoretico.


Dalla lettura dei testi di Gianni Vattimo si assiste infatti al sovrapporsi di due piani ermeneutici e, potremmo quasi dire, emotivi: da un lato vi è l’entusiastica accettazione dell’appello nietzschiano a vivere il tempo della morte di Dio, e dunque l’epoca senza verità e senza morali. Dall’altro si afferma con forza il rifiuto di ogni forma di violenza, nonché l’indiscussa fiducia nella bontà di valori quali la tolleranza, l’accoglienza, la pietas. Aspetto, quest’ultimo, senza dubbio paradossale, poiché così facendo si viene a rivendicare proprio la dignità di quei valori e di quella morale che l’autore di Al di là del bene e del male aveva infranto sotto il martellare della sua critica. Aspetto ancor più sorprendente in un pensiero che individua nella finitezza e storicità della verità ermeneutica la cifra essenziale del proprio procedere: tali valori sono visti come qualcosa che sembra non temere l’usura del tempo o la forza demitizzante della secolarizzazione (2).


Si prenda, ad esempio, il comandamento di non uccidere. In Credere di credere, Vattimo affronta in modo esplicito il problema del rapporto che intercorre tra l’insegnamento evangelico e la secolarizzazione di stampo nichilista e, in modo forse inaspettato, viene a negare con decisone la possibilità che possa darsi una reale negazione di determinati valori universali. In questo breve saggio egli afferma infatti che "la norma della secolarizzazione è la carità e, più in generale, la riduzione della violenza in tutte le sue forme; dunque nessuna secolarizzazione del peccato d’omicidio"(3).


Cerchiamo quindi di indagare meglio questo rapporto tra istanza etica e "crisi della verità".


 


2. Dall’etica della non violenza al rifiuto della metafisica


Partiamo dall’atto d’accusa: scrive Vattimo: "le radici della violenza metafisica sono in ultima analisi [da rintracciarsi] nella relazione autoritaria che si stabilisce tra il fondamento e il fondato, tra l’essere vero e l’apparenza effimera o, che è lo stesso, nelle relazioni di dominio che si costruiscono intorno alla relazione soggetto-oggetto" (4). Ciò che è in questione, dunque, "è la stessa logica-fondativa […] che si tratta di metter da parte".


Queste righe, pur nella loro sinteticità, portano alla nostra attenzione, ad un tempo, il problema affrontato dalla riflessione post-moderna e la soluzione indicata.


La metafisica cui Vattimo fa riferimento nel brano citato non indica solo quella modalità di riflessione che cerca di pervenire alla dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, né solo quella specifica forma di etica che lega l’obbligatorietà morale alla legge divina. "Metafisica" sta qui ad indicare ciò che potremmo definire come sapere epistemico o, più in generale, come sapere dimostrativo. Quello che viene messo in discussione è dunque il valore stesso della razionalità in quanto tale o, meglio, la forza e le potenzialità del logos nel suo rapporto conoscitivo col mondo.


Alla base di tale scetticismo vi è una lunga storia di errori e di soprafazioni perpetrate in nome della razionalità e della verità. A questa storia e a questi abusi volge lo sguardo Vattimo quando afferma che il rifiuto del sapere metafisico e della sua logica nasce sostanzialmente da un’esigenza etica: ciò contro il quale il filosofo si indigna e reagisce, è la violenza, drammaticamente concreta nella storia umana, esercitata da forme di sapere forte quanto autoritario sul singolo e sulle sue irriducibili specificità. Non sono dunque soltanto i risultati cui la metafisica conduce a venir rifiutati, è la stessa logica che ne è sottesa a venir messa in discussione. In essa viene infatti individuata la più evidente espressione di un sapere solipsistico, che nega con la forza totalizzante dei suoi primi principi, ogni valore al dialogo ed ogni accoglienza del diverso in quanto tale.


Come emerge con chiarezza da queste prime battute, ciò che viene rinfacciato al pensiero metafisico, ovvero ad ogni filosofia che rivendichi una qualche pretesa di ultimatività, è di porsi come una violenta ed arbitraria interruzione del dialogo. Detto altrimenti: la cogenza del logos è colpevole in quanto affermazione di verità oppressive e dispotiche cha si impongono con la forza della loro categorica universalità sugli uomini e le loro imprescindibili singolarità. D’innanzi ad esse, afferma infatti Vattimo, non vi è più spazio di replica o di dissenso, ma soltanto tacita accettazione (5). La verità viene vissuta quindi non come risultato o conquista, bensì subita come un limite invalicabile. Metaforicamente, si potrebbe affermare che la verità viene vista come una porta che, anziché aprirsi sul mondo dei saperi stabili e condivisi, si chiude d’innanzi alla possibilità di confronto tra diversi e di accoglienza tra mondi e cultura antitetiche.


Il nesso tra istanza critica ed esigenza etica emerge quindi con forza: primum indiscusso risulta infatti il valore del dialogo, dell’accettazione del diverso, del confronto che sa divenire compromesso tra esigenze e vissuti spesso profondamente diversi. Di contro si oppone un pensiero chiuso ed autoritario, sordo alle esigenze ed alle inquietudini esistenziali dell’uomo. La sua staticità, la sua assolutezza lo rendono inutile al fine di cogliere la storicità dell’uomo ed il suo essere da sempre gettato nel mondo. La sua pretesa ad ergersi a sapere assoluto della totalità (si pensi ad Hegel) manifesta in modo sin troppo evidente la sua anima totalitaria e violenta.


Il pensiero metafisico, pertanto, si rivela doppiamente colpevole: colpevole in prima battuta di imporre regole assolute che, di fatto, limitano la libertà e le possibilità di dialogo intersoggettivo. Colpevole poi di porsi come sapere assoluto della totalità e, conseguentemente, di schiacciare sotto il peso dell’universalità ogni individualità ed ogni differenza. Il sapere epistemico, afferma il nostro Autore, pretende d’essere depositario di verità ultime e definitive, rispetto alle quali il confronto con l’altro non ha più alcun senso. In quest’ottica, infatti, solo la razionalità epistemica ha diritto di parola. L’unico atteggiamento consentito dinnanzi ad essa sembra essere la silenziosa contemplazione del vero. I primi principi appaiono di conseguenza come l’emblema di un simile sapere: essi sono infatti verità autoevidenti, di esse non può darsi ragione, né ha senso opporvisi (6). Incarnano dunque, nel modo più immediato, quella violenza della ragione che si impone senza concedere alcuna possibilità di replica o di dubbio.


Nietzsche però, afferma Vattimo, non è passato invano, e molto si deve alla sua critica dei valori, delle verità forti e della logica metafisica; forme diverse di una comune volontà di potenza, di una menzogna che si spaccia per verità ed in nome di questa si macchia dei peggiori crimini.


Se questo è lo stato di cose dinnanzi al quale il filosofo si trova, se egli riesce, con sguardo disincantato, a scorgere la violenza che si cela dietro verità astratte e primi principi, ecco allora che l’istanza etica, la reazione morale ad una storia di sopraffazione e d’intolleranza, deve necessariamente venire configurandosi come negazione radicale di una simile logica di dominio. Egli non può, in altre parole, tener fermi quei principi primi e quella razionalità che sono alla base della violenza metafisica perché, se così facesse, legittimerebbe implicitamente ciò che vorrebbe negare e superare. L’unico mezzo a disposizione è dunque quello di corrispondere allo "spirito del tempo" (uno spirito, si diceva, disincantato rispetto alla tradizione grazie anche all’insegnamento dei grandi maestri della "scuola del sospetto"), prendere atto di una storia della quale siamo inesorabilmente eredi e dei suoi mali e volgervi le spalle, preferendo il rischio e l’incertezza di un sapere finito e precario (ma nel contempo foriero di dialogo e di incontro con l’altro) ad un sapere stabile ed incontraddittorio che ci chiude in una violenta e solipsistica autosufficienza.


La storia del soggetto cartesiano, sottolinea con forza il nostro Autore, a questo proposito avrebbe molto da insegnarci: per secoli si è portata innanzi la contrapposizione tra un soggetto chiuso ed autotrasparente ed un mondo oggettivo postogli innanzi a suo uso e consumo (7). Il nostro secolo ci ha però insegnato il carattere scisso dell’io, i legami di dipendenza tra l’uomo ed il mondo in cui è inserito (e nel quale è destinalmente gettato), la storicità delle conoscenze e delle verità acquisite (proprio a tal riguardo Vattimo ama parlare di "verità ermeneutica"); il nostro secolo, infine, ci ha fatto scoprire la dignità del frammento e delle sua irriducibile specificità.


Da tutto ciò deriva un pensiero radicalmente alternativo e dichiaratamente ostile ad ogni categoricità del pensare: di esso non può chiedersi ragione né offrire dimostrazione poiché è proprio questo chiedere ragione, questo richiamarsi al fondamento o a verità stabili che è in questione. Su un'altra strada si dovranno allora cercare i riscontri sulla "bontà" della riflessione post-moderna (emblematico il fatto di come sia proprio nel lessico etico che si debbano ricercare le parole più adatte al nostro discorso). Heidegger in questo ci viene in aiuto parlando della Verwindung e di poesia. Vattimo procede lungo un analogo sentiero parlando dell’esigenza di forme di razionalità aperte (ermeneutiche), capaci di muoversi tra gli opposti estremismi dello scetticismo relativistico da un lato e della violenza metafisica dall’altro (8). La validità di forme di sapere debole, lungi dal connotarsi come una rassegnata accettazione dell’esistente, risiede infatti nel saper leggere i tempi e corrispondervi secondo il principio della massima riduzione della violenza. Noi, afferma Vattimo, viviamo l’epoca del pluralismo tardo moderno, l’epoca che ha visto annunciata e portata a compimento la "morte di Dio", l’epoca dell’io scisso di Freud e delle rivoluzioni scientifiche di Einstein e Heisenberg. In questo quadro un pensiero che fa a meno dei principi primi, "che anzi nasce proprio come presa d’atto della non fondatività del pensiero" è l’unico in grado di corrispondere alla propria epoca, di capirla e di interpretarla al meglio. La validità di un simile approccio al filosofare (ed alla vita) non può quindi essere argomentata, può solo configurarsi come un cambio di rotta, conseguenza della constatazione delle violenze cui il pensiero forte (metafisico, totalitario e totalizzante) ha condotto. Il post-moderno si configura pertanto come "la risposta più adatta — più verosimile, più intonata — all’epoca del pluralismo tardo moderno" (9). Non certo la risposta più vera. Se così fosse si ricadrebbe infatti nella metafisica. Ciò nonostante, o forse proprio in virtù di ciò, il pensiero debole non si configura nemmeno come mero relativismo, all’interno del quale non avrebbe più senso o valore alcun impegno personale od obbligatorietà etica.


"Anche cor-rispondere all’epoca — infatti — è una forma di impegno responsabile; dunque rimane anche qui una qualche specie di obbligatorietà, che ci autorizza a parlare di una razionalità e di una eticità, cioè dell’impegno a derivare da certi ‘principi’ (qui solo nel senso di punti di partenza) conseguenze logiche e imperativi pratici".


Tutto torna, quindi, almeno così sembrerebbe…


 


3. Essere, verità e libertà


Posta l’istanza etica (ed, occorre sottolinearlo nuovamente, un’etica che si struttura quale reazione agli assolutismi ed alle certezze metafisiche, e che dunque assume i tratti della finitudine, della precarietà e dell’incertezza) posta l’etica, si diceva, quale fondamento del discorso filosofico, ne consegue una radicale modificazione della stessa logica argomentativa. Una logica che nelle intenzioni esplicite dei suoi propugnatori vorrebbe incarnare quest’ideale di apertura all’altro e di tolleranza mediante una prassi filosofica che privilegi il dialogo comunicativo nelle sue forme più diverse (anche aprendosi a contaminazioni con la letteratura o la poesia e così via); un dialogo che sappia fare propria quella storicità e quella irriducibile moltitudine di vissuti che la logica classica sembrava costringere entro gabbie troppo strette. Scrive Vattimo: "Abbiamo cercato di pensare l’essere fuori dalla metafisica dell’oggettività proprio per ragioni etiche; dunque, queste ragioni devono anche guidarci nella elaborazione delle conseguenze di una concezione non metafisica dell’esesre come ontologia dell’indebolimento" (10). Il pensiero debole privilegia pertanto una logica ermeneutica, un atteggiamento scettico nei confronti di ogni affermazione categorica ed un rifiuto radicale di ogni ultimatività. Così facendo, esso mira ad opporsi alla violenza di un logos che sembra sempre arrogarsi il diritto d’avere l’ultima parola, bloccando di conseguenza ogni possibilità di replica o di dialogo (come esempio di un simile pensiero autoritario del nostro Autore ricorda spesso la difesa aristotelica del principio di non contraddizione, nella quale al negatore non è consentita replica se non a patto di diventar "simile ad una pianta").


Fermiamoci ora un attimo ad osservare l’andamento dell’argomentazione di Vattimo. Facciamo un passo indietro, ripercorrendo il cammino sin qui condotto, e cerchiamo di mettere in luce il legame tra ethos e logos che, da questa prima analisi, sembra emergere come una cifra importante della sua riflessione


Partiamo dall’inizio, ossia da ciò che, sin da Parmenide è considerato come il luogo d’origine della riflessione filosofica: il discorso sull’essere. Vattimo pone, senza riserva alcuna, l’uguaglianza tra vita ed essere: quest’ultimo, quindi, non viene identificato con ciò che sta, bensì con ciò che diviene, che nasce e che muore, che proprio in forza di questo suo divenire possiede una propria storia. L’essere dunque - come insegnava già Heidegger - non è. L’essere accade. Esso, in altre prole, è accadere storico-culturale, istituirsi e trasformarsi degli orizzonti entro i quali di volta in volta gli enti divengono accessibili all’uomo e l’uomo a se stesso. In tal senso l’essere è invito: "esso non è, non sta, non permane, bensì si tras-mette, si invia" (11). Similmente, il formarsi della stessa identità umana assume i tratti dell’unità nella molteplicità, della continuità all’interno di una tradizione ricca di differenze, di unicità contrapposte e di orizzonti sovrapposti. E ciò è vero sia all’interno dell’io, unità tutt’altro che monolitica (bensì profondamente scissa), sia all’esterno, ovvero per quanto concerne il rapporto uomo-mondo. Per rendere appieno tale complessità Vattimo ricorre spesso ad un’immagine molto cara alla narrativa post-moderna (si pensi a Borges o ad Eco (12)), ovvero quella della biblioteca: simbolo di un mondo complesso e frastagliato, all’interno del quale il sapere si frantuma e si specializza sempre più. Un mondo, questo l’aspetto più rilevante, del quale non è più possibile possedere uno sguardo d’insieme, un sapere esaustivo, ma solo tracce, percorsi che ci aiutino a muoverci in esso: un po’ come il bibliotecario il quale, pur non conoscendo il contenuto di tutti i libri presenti sui vari scaffali, sa come rintracciare all’interno della biblioteca ciò che gli occorre (13).


Il passo ulteriore del percorso tracciatoci da Vattimo consiste quindi nel sottolineare il legame tra essere e linguaggio: "l’accadere dell’essere è l’istituzione dei tratti essenziali di un mondo storico. Questa istituzione è istituzione di un linguaggio […] Non si incontra mai il mondo se non nel linguaggio […] L’accadere dell’essere è, in definitiva, tras-missione o tra-dizione di messaggi linguistici"(14).


Anche il concetto di verità viene di conseguenza modificandosi ed indebolendosi: non vi è più un mondo oggettivo del quale il soggetto cartesiano debba prendere progressivamente coscienza, bensì è necessaria una continua decifrazione di simboli, un sovrapporsi di letture e di interpretazioni differenti. Certamente, osserva Vattimo, anche dopo l’insegnamento nietzschiano e dopo la crisi scientifico-culturale del primo novecento, continuiamo ancora ad utilizzare il termine "verità", sia nel discorrere quotidiano sia nella riflessione filosofica. E non potremmo fare diversamente. Ciò che però occorre mettere in luce con forza è l’indebolimento, il logorio che tale termine ha subito nel corso del tempo (Vattimo, fedele all’insegnamento heideggeriano, parla a tal proposito di storia del nichilismo). Il termine verità continua senza dubbio a lavorare come vocabolo capace di esprimere l’adeguatezza del linguaggio al mondo (eco dell’adaequatio scolastica), ma è il concetto stesso di adeguazione che viene prima messo in discussione e poi indebolito ed alleggerito. Vattimo ha sottolineato a più riprese il fatto che il termine "verità" altro non indica che la validità di un enunciato il quale "in base a determinati criteri si conferma e si dimostra e, quindi, si ‘impone’ come la soluzione di un problema, la risposta giusta a una domanda. Ora però, l’enunciato si verifica sempre in base a regole che, a loro volta, non sono in ultima analisi oggetto di dimostrazione; esse sono piuttosto ‘data’, come ci è dato il linguaggio comune sulla cui base, soltanto, si possono costruire i linguaggi regolati e formalizzati"(15).


Ecco dunque il senso ed il valore di una logica (e d’una verità) ermeneutica, capace di conciliare finitezza e debolezza con coerenza e tradizione (16). La filosofia, da sempre votata alla ricerca ed alla conoscenza della verità, deve quindi a sua volta farsi debole. Se, per usare una terminologia heideggeriana molto cara a Vattimo, l’esserci, in quanto essere-nel-mondo, vive una condizione di "gettatezza", ossia si trova già da sempre inserito in un orizzonte che lo precede, in una rete di rimandi e di significati, allora esso non potrà prescindere né trascendere la propria condizione di finitudine (di frammento) ricercando un’impossibile sguardo d’insieme. Ciò che solo potrà fare è leggere le tracce di una tradizione, porre attenzione alla molteplicità di messaggi e di inviti, corrispondere al dispiegarsi dell’essere nella sua storicità. Anche il suo atteggiamento etico sarà dunque legato a questa condizione di intrascendibile finitezza: non vi sono infatti valori assoluti, non vi è qualcosa che trascenda la mutevolezza e divenienza degli orizzonti storico-destinali nei quali l’uomo è chiamato a vivere e che si imponga come valore sovrastorico. Tutto ciò che si impone come immutabile, tutto ciò che trascende il finito, altro non è se non forma violenta di una volontà di potenza che mira ad imporsi sull’uomo e sulla sua irriducibile storicità.


Ciò, Vattimo lo sottolinea più volte e sembra dunque opportuno ripeterlo, non significa cadere nel relativismo; anch’esso infatti pretende di possedere uno sguardo esterno alla storia ed infatti si impone in actu exercitio come verità immutabile, autocontraddicendosi. Un pensiero che sa farsi debole è, al contrario, consapevole del fatto che anche le sue proposte altro non sono se non il frutto di letture parziali e provvisorie della realtà nella quale c’è dato di vivere. Verità storiche, o ermeneutiche, che sanno della possibilità di venir smentite, ma che proprio da tale consapevolezza traggono forza e conforto. Ciò detto, osserva Vattimo, la superiorità di una simile interpretazione sulle altre (e sulla metafisica in modo particolare) è data dal fatto che, come già osservato in precedenza, il pensiero post-moderno si presenta come la risposta più adeguata agli interrogativi ed alle esigenze della nostra epoca.


Una risposta che sa farsi fonte di eticità nel momento in cui si fa carico della precarietà della condizione umana, declinandosi secondo le forme di un’etica del finito. Un’etica che ha colto la violenza di ogni forma di sapere stabile, veritativo, totalitario. Un’etica del frammento, che cerca di coglierne le specificità di ogni singolarità attraverso la comprensione della sua storia, del suo essere inserito all’interno di una tradizione. Un’etica che si incentra sul principio di carità e sulla pietas nei confronti delle tracce e dei monumenti di tale tradizione. Un’etica dell’accoglienza, della tolleranza e del dialogo sempre aperto e restio ad ogni forma di ultimatività che uccida il confronto intersoggettivo. Un’etica, infine, della libertà intesa come capacità di muoversi nella rete di rimandi, parentele, tradizioni nella quale ci troviamo a vivere (17). Libertà cioè di corrispondere al meglio all’apertura storico destinale nella quale siamo gettati.


 


4. Dal post-moderno come rifiuto della violenza, alla violenza dell’antimetafisica


Da quanto sin qui detto, la soluzione propostaci da Vattimo sembrerebbe realmente la risposta più adatta alle incertezze ed alla complessità del nostro tempo. Un’epoca, occorre ricordarlo, contraddistinta non solo dalla perdita di fiducia nelle capacità del logos e nella inconcussa stabilità delle sue conclusioni. Viviamo infatti un’epoca dove il relativismo pratico è frutto dell’incontro sempre più frequente di culture, storie e tradizioni diverse, spesso inconciliabili. Dove l’esigenza di dialogo e di tolleranza sono individuate come l’unico strumento per trasformare la diversità in ricchezza, anziché in fonte di odi e di conflitti. Dove la perentorietà del sapere e l’assenza di dubbio o di compromesso tra posizioni tra loro opposte (se non contraddittorie) viene vista con sospetto e timore, in quanto memori delle molte tragedie figlie del dogmatismo e dell’intolleranza.


Il punto, tuttavia, non sembra essere il fatto se il pensiero debole (o più in generale la riflessione post-moderna) fondi le proprie radici su delle buone ragioni. Ciò che è in questione, a mio avviso, non è il valore della tolleranza, così come non è in questione il valore dell’accoglienza o la necessità di rifiutare ogni forma di violenza. Quello che merita essere indagato, invece, è la coerenza, o meno, di quel pensiero rispetto ai suoi esiti pratici. E proprio sotto tale aspetto il pensiero debole mostra tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. Per meglio comprendere quest’ultimo passaggio occorre soffermarci un momento a riflettere sul termine che più frequentemente ricorre in queste pagine al pari che nei testi di Vattimo: violenza. Cosa significa realmente questo termine e quali sono i rapporti che lo legano rispettivamente al pensiero metafisico ed alla riflessione post-moderna?


Il termine violenza ci richiama il verbo violare, ossia l’atto di infrangere o trasgredire una norma. Esso esprime quindi l’atteggiamento di colui che vuole qualcosa di vietato, qualcosa che non è lecito o possibile fare. Il termine violenza, in ultima istanza, indica dunque un atto della volontà che vuole l’impossibile, l’inoltrepassabile.


Ora, se questo è il significato più intimo e profondo del termine violenza, ne consegue che la riflessione metafisica, al pari di qualunque altra posizione filosofica, sarà esposta all’accusa di violenza soltanto nel momento in cui verrà configurandosi realmente come volontà che vuole l’impossibile. Ma a questo punto delle due l’una: o ha ragione il pensiero post-moderno nella sua affermazione secondo la quale non vi possono essere regole oggettive e stabili (né in ambito etico né, tanto meno, in ambito logico) - ed allora non ha senso parlare di violenza poiché non è data regola alcuna la cui violazione giustificherebbe l’accusa di violenza - oppure ha ragione la tradizione metafisica quando pone alcuni, pochi, principi primi quali fondamento e regola del discorso - ed in questo secondo caso l’accusa di incarnare un pensiero violento e totalitario sarebbe fondata solo se questi principi venissero effettivamente violati.


Cerchiamo dunque di indagare con maggior dettaglio quale di queste due opzioni meriti maggior credito. Vattimo, si è detto, pone a fondamento del proprio pensiero un’istanza etica che vede nel binomio caritas-pietas la sua sintesi migliore. La sua critica antimetafisica si struttura quindi, in conformità a tale principio, come difesa delle singole individualità e delle loro specificità contro un modo di argomentare che sembra privilegiare l’astratto a danno del concreto, la totalità a scapito del frammento e della sua storia. La debolezza del pensiero viene così ad indicare la perdita di peso … "morto", per così dire, ossia ingiusto, dispotico proprio di un modalità di comunicazione che si è staccata dalla vita ed è incapace di comprenderla e di descriverla nella sua mutevole complessità. La reazione a questo stato di cose è data quindi da una razionalità debole, la quale sa farsi disponibile nei confronti del diverso col quale si mette in gioco attraverso un confronto alla pari. Si cerca l’accordo, ma non si pretende verità. Ancora una volta il rimando all’ermeneutica è illuminante.


Qualcosa però stona: poiché se queste sono le premesse, allora non si capisce donde possa venire la radicalità con la quale si nega anche la sola aspirazione ad un sapere stabile od alla mera possibilità che questo possa venir raggiunto o quanto meno avvicinato. Metafisica, è stato fatto osservare più volte, non è soltanto Hegel (18). Essa rappresenta una modalità di pensiero che cerca di verificare ogni passo del suo procedere e che dunque, almeno quando resta fedele alle proprie intenzioni ed alla propria radicalità, rappresenta un qualcosa di estremamente precario ed aperto alla smentita. Si tratta cioè di una razionalità che aspira senza dubbio ad un sapere stabile (rispetto al quale l’aggettivo forte è predicabile solo col significato di solido, fermo), ma consapevole dei propri limiti e dei rischi legati ad una così radicale pretesa di verità, primo fra tutti il rischio di povertà, almeno quanto ai contenuti. Ora, se realmente il pensiero debole fosse caritatevole, esso non avrebbe difficoltà a comprendere come non sia il logos (ossia la razionalità argomentativa) la fonte dei mali cui alcune distorsioni del pensiero metafisico hanno senza dubbio condotto, ma lo sia, al contrario, la sua negazione, ossia la violazione di quelle regole e di quei principi cui il pensiero dovrebbe attenersi per essere significante. Altrove (19) è stato affrontato questo tema in modo più articolato e arguto di quanto queste breve riflessioni non permettano. A quei luoghi, per così dire paradigmatici del dialogo tra tradizione neoclassica e pensiero contemporaneo rimandiamo per una più esaustiva analisi della questione.


Bastino qui solo alcuni ulteriori accenni utili a concludere questa nostra analisi della posizione post-moderna rispetto alle problematiche etiche.


Se in gioco vi è una reazione etica dinnanzi alle ingiustizie provocate da un uso violento ed oppressivo della ragione, allora ne consegue che la soluzione non è negare la validità del logos e votarsi a forme alternative di pensiero, bensì condannare quell’uso distorto della razionalità proprio in nome delle norme che sono state violate. E non serve ribattere che proprio quelle norme sono in discussione, né rivendicare la propria libertà di contro a norme artificiose ed oppressive. Ciò che realmente è rivelante è se vi siano, prima di tutto, norme inviolabili. Altrimenti perché parlare di violenza? Poi, se queste sono state violate, la reazione deve indirizzarsi nel senso di una critica a tale infrazione della norma, e non una difesa della libertà d’infrazione.


Ora, trattandosi qui di un’analisi delle possibilità conoscitive del pensiero e quindi dell’oggettività o meno (meglio sarebbe parlare di universalità o trascendentalità) dei principi che lo regolano e lo sorreggono, appare del tutto evidente il fatto che alcune norme ci siano e che la loro assolutezza, ben lungi dal rappresentare un ostacolo per la libertà umana o un’artificiosa costruzione dogmatica, rappresenti il tratto essenziale di quel piano originario (trascendentale) entro i limiti del quale, soltanto, il pensiero può costituirsi come dotato di senso.


La difesa elenchica del principio di non contraddizione e, più in generale dei primi principi, non rappresenta dunque una limitazione della nostra libertà o un freno al dialogo, bensì una garanzia di sensatezza del nostro dire, una condizione necessaria (trascendentale, appunto) senza la quale non solo non potrebbe darsi dialogo reciproco e polemica intersoggettiva, ma non potrebbe costituirsi neppure lo stesso linguaggio Esso infatti, per quanto mutevole e storicamente segnato, non può sorgere se non nella permanenza (quantomeno precaria) dei suoi termini significanti.. Negare l’evidenza (perché di questo tratta la tradizione neoclassica quando affronta il tema dei primi principi), negare ciò che non può essere oggetto di dubbio perché autoevidente o necessario al costituirsi stesso del dubbio, non significa esercitare una maggior libertà o affrancarsi da un’autorità arbitraria, bensì esercitare una reale violenza verso quegli stessi principi. Se violenza significa volontà che vuole l’impossibile, appare allora indubitabile che di tale peccato si macchia tanto colui che sotto il segno della verità pone anche ciò che verità non è (Vigna ha parlato giustamente della violenza del cielo contro la terra), sia colui che nega l’evidenza stessa nella sua forma logica (violenza della terra contro il cielo). Cos’altro significa, infatti, negare il principio di non contraddizione, garante prima di tutto della stabilità dei significati e della coerenza dell’argomentazione, se non negare ciò senza il quale il linguaggio stesso non avrebbe significato né senso alcuno.


Il sopraccitato riferimento a norme stabili non vuol certo negare le ragioni di quanti individuano nella norma (comunemente intesa) una mera convenzione legata alla cultura ed al contesto nel quale l’uomo si trova a vivere. Quello di cui qui si prende le difese è quella normatività trascendentale sulla quale si struttura la stessa possibilità che la coscienza si apra al mondo ed, in particolare, di quei principi (detti primi in forza della loro evidenza ed innegabilità) senza i quali non potrebbe darsi né esperienza del mondo, né linguaggio umano. Detto ciò, lo spazio dell’infondato e dell’incerto è vastissimo, e proprio in riferimento a tale territorio, ampio quanto complesso, è doveroso sviluppare quella riflessione sulla precarietà del sapere e della fede che il pensiero post-moderno ha posto al centro della propria speculazione filosofica.


 


5. Dal metodo alla verosimiglianza


Questo nostro tentativo di far emergere quell’ "inconscio violento" sotteso alla condanna di Vattimo nei confronti della riflessione metafisica, non significa certo che il negare i risultati ai quali questa ritiene d’essere approdata implichi, di per se stesso, il rischio di incorrere nell’accusa di violenza. A patto però che tale negazione venga operata sulla base di una critica circostanziata del percorso e delle argomentazioni che a tali risultati hanno condotto. Non si individua, in altre parole, una contraddizione tra la radice etica e "caritatevole" della filosofia di Vattimo ed il suo porsi quale assertore della non verità di determinate tesi metafisiche. Ciò che colpisce è la dissonanza tra l’apertura al diverso, con le sue peculiarità e le sue verità, e la negazione a priori di quella specifica forma di "diversità esistenziale", oltre che filosofica, incarnata nella ricerca di un sapere stabile (epistemico). Come dire che ogni interpretazione del reale, ogni visione del mondo, ha diritto ad esprimersi e rappresenta un valore, tranne quella metafisica.


Vattimo, infatti, non dice semplicemente che la proposta post-moderna o "debolista" appare come la più adatta, la più intonata (anche se non la più vera) rispetto allo spirito dei tempi, mentre l’aspirazione ad un sapere stabile si dimostra incapace a conciliasi con l’epoca che siamo chiamati a vivere. Egli afferma che pur non essendovi alcun fondamento capace di giustificare affermazioni o giudizi "forti" (ossia risultato della cogenza deduttiva (20)), nonostante questa premessa egli afferma con forza la non-verità del sapere metafisico e la sua evidente anima violenta. Così facendo, però, si condanna ogni forma di sapere che guardi all’episteme come ideale conoscitivo, ma senza essere in grado di mostrare la ragione di tale condanna. Si chiede conto della colpa, ma senza indicare quell’infrazione della norma inviolabile che sola potrebbe giustificare l’accusa di violenza. Non sembra dunque conciliabile il relativismo etico e la natura profondamente scettica della riflessione del nostro Autore, con una negazione così radicale e dura della ricerca metafisica. A maggior ragione se si pensa alle sue espressioni più recenti, nelle quali si riconosce apertamente la povertà contenutistica dei propri risultati e nel contempo si è abbandonata ogni pretesa di una conoscenza assoluta della totalità alla maniera hegeliana. Ciò non toglie la fiducia nelle possibilità del logos di conoscere alcuni, poverissimi aspetti della totalità, sempre però alla luce di un procedere e di un metodo aperto alla confutazione e che anzi si fonda sul dialogo e sul rapporto dialettico con le proprie contraddittorie. Il sapere dimostrativo procede cioè nell’ostensione del proprio metodo e nell’offrirsi alla critica vivendo questo scontro come momento dialettico essenziale allo scaturire della verità. Donde dunque la violenza di un pensiero che non si impone, ma che anzi, potenzialmente, porge all’avversario gli strumenti coi quali muover battaglia?


Ma a ben guardare, dalla lettura di testi di Vattimo emerge una seconda contraddizione. A più riprese viene affermata la verosimiglianza della posizione post-moderna, di contro, evidentemente, alla non credibilità della proposta metafisica. Abbiamo già mostrato come questa non credibilità esprima di fatto una non-verità del sapere epistemico; se così non fosse, quest’ultimo non potrebbe infatti essere detto violento, cioè violatore di una norma evidentemente riconosciuta come valida, stabile ed, in ultima istanza, vera. Appare tuttavia singolare come si continui a parlare di verosimiglianza una volta negato ogni significato, nonché ogni valore, al termine verità, quasi che fosse possibile mantenere il valore d’uso del primo anche dopo aver privato di senso il secondo.


Si badi bene: con questo non si vuol certo giungere ad affermare che, di contro allo scetticismo del nostro Autore circa la possibilità di poter sviluppare un discorso etico forte, qui si voglia sostenere la possibilità di affrontare tanto le problematiche etiche quanto il dialogo interculturale sempre in termini di verità e falsità. L’opacità con la quale molti problemi si offrono alla nostra attenzione, la molteplicità di letture e di esperienze, la complessità della realtà sfugge alla presa di un sapere incontraddittorio, e vi sfugge non solo di fatto, bensì di diritto. La verità, infatti, è predicata del necessario, mentre l’etico, per sua natura, si dipana nel regno del possibile. Ciò nonostante, quello che più ci sta a cuore è mostrare come la riflessione etica non possa prescindere dalla verità; e di ciò ne è prova l’umana tensione al verosimile, ossia a quelle regole che, sole, sono capaci di placare (anche se non di saturare) il suo desidero di giustizia. Si aspira cioè all’individuazione di norme potenzialmente condivise proprio in virtù del loro apparire formalmente conformi alla verità. Vero-simili, appunto.

Il problema, ora, è resta quello di determinare la natura di tale conformità.

Del termine "verità" si è spesso abusato, nascondendo sotto la forza evocativa di questo termine tanto pie aspirazioni quanto mal celate "volontà di potenza". In questo la critica nietzschiana all’uso autoritario del concetto di verità è, a tutt’oggi, attualissima e portatrice di un sano e disincantato scetticismo.

Ciò nonostante non si può non riconoscere un significato minimale a tale termine ed una su ben precisa funzione. Esso esprime infatti la conformità (l’adaequatio) del pensiero/parola al mondo. E ciò a prescindere da ogni dualismo gnoseologico. Pensiamo alla lezione husserliana: ben consci della destrutturazione del soggetto e della complessità della coscienza (mettiamoci pure dentro tutti i dubbi che i "padri del sospetto" sono stati in grado di portare alla luce), ben consci di tutto ciò noi possiamo comunque individuare nell’attualità del pensiero, nell’automanifestazione del dato fenomenologico una verità innegabile. Si pensi, ad esempio, alla semplice esperienza del darsi di un oggetto alla nostra coscienza, sia esso, poniamo, questo libro che ho di fronte. Posso certamente dubitare, con cartesiano scetticismo, della sua realtà extramentale e così via… e pur tuttavia non posso certo negare la verità di questo suo apparire, ossia di questo suo essere un dato immediato di coscienza. Allo stesso modo non posso certo negare il crisma della verità a quel mio esprimere ciò che appare, nei modi e nei limiti secondo cui esso appare. Si badi bene: questa verità, detta fenomenologica in virtù del suo riferirsi all’immediatezza del dato d’esperienza, ossia del suo costituirsi quale principio d’evidenza, esprime certamente una forma di verità poverissima e sterile, quanto al nostro vivere quotidiano, ma rappresenta l’archetipo fondamentale di una ben precisa forma di conoscenza indubitabile: essa esprime infatti l’indubitabilità dell’apparire originario (ossia dell’apparire purificato da ogni presupposto indimostrato).

Dall’altro lato, la così detta verità logica, di aristotelica memoria, altro non rivendica che l’automanifestazione dell’incontraddittorio. Siamo qui di fronte ad una seconda forma di verità stabile, ossia quella verità che nasce dall’immediatezza formale. In questo caso il principio di non contraddizione, lungi dall’apparire un presupposto indimostrato od il frutto di un semplice abito mentale, rappresenta quella formalità trascendentale senza la quale non potrebbe darsi significanza alcuna. Esso, infatti, non va confuso, in prima battuta, con la valenza ontologica spesso attribuitagli; di conseguenza la rivendicazione della sua innegabilità non viene inficiata dal darsi concreto della situazione contraddittoria. Nella sua valenza originaria esso esprime infatti l’opposizione assoluta tra positivo e negativo, ossia l’impossibilità tanto che il primo si identifichi al secondo, quanto che la significanza semantica si identifichi alla non significanza; cosa che, negando la validità del primo principio, avverrebbe ogni qual volta noi cercassimo di esprimerci. Se non si tenessero fermi quanto meno i termini di questo nostro esprimerci risulterebbe infatti negata la possibilità stessa di comunicare un concetto, così come una sensazione. E non valga qui l’obiezione circa l’ambivalenza del linguaggio, della sua paradossalità e dei suoi giochi (si pensi alla poesia). Anche in questi casi i margini del gioco interpretativo e dell’evocatività, se possono essere indefiniti, non sono certo illimitati, pena la totale insignificanza del stesso nostro dire.

Un’ulteriore forma di verità è data poi dalla sinergia di queste due verità originarie, ossia viene a costituirsi da quel superamento dialettico dell’immediato operato mediante la dimostrazione di un medio capace di far uscire da una situazione aporetica. Verità dialettica, appunto, ossia frutto di un processo inferenziale che mostra la propria verità per mezzo della negazione della propria contraddittoria.

Come si vede, questi brevi accenni (21) tracciano le coordinate metodologiche di un approccio non dogmatico al sapere, capace di conciliare l’aspirazione metafisica alla consapevolezza dei limiti dell’umano conoscere. Appare infatti evidente la difficoltà di parlare in termini di verità quando si esuli dal piano dell’immediatezza (ossia per la quasi totalità dell’esperienza umana). Ciò nonostante, si rivendica la legittimità e la fondatezza di un ricerca che si volga con fiducia alla scoperta di un sapere stabile, ossia vero in senso forte. Si riconosce cioè la necessità ed il valore di un uso "forte" dei termini di verità e falsità, pur nella consapevolezza dei rischi e delle difficoltà connesse ad una simile riflessione.

Proprio su questa possibilità di parlare ancora in termini di verità e falsità (ossia di coerenza o contraddittorietà rispetto al fondamento originario), proprio su questa sensatezza del riferimento al vero, si radica però la ragione profonda di quel richiamarsi alla verosimiglianza delle norme etiche. Esse infatti, al fine di essere condivise, aspirano proprio alla formalità (universale e necessaria) della verità. Quest’ultima rappresenta cioè un ideale regolativo al quale la riflessione etica si ispira, sia per quanto concerne il metodo, sia per il risultato. La riflessione pratica deve cioè cercare di affrontare le aporie del vivere aspirando all’individuazione di quei comportamenti e di quelle risposte capaci di sanare, almeno parzialmente, tali situazioni contraddittorie. E lo deve fare cercando soluzioni che, se non capaci di porsi completamente nell’alveo dell’incontrovertibilità, cerchino di tendervi e trovino in tale anelito la forza e lo stimolo per dialogare in modo produttivo, anche tra posizioni rispettivamente molto diverse. L’obbiettivo non può limitarsi infatti all’affermazione dell’equivalenza (nella non verità) di ogni differenza. Ciò che va ricercata è la reale vero-somiglianza del nostro sapere pratico. Fermi restando limiti, dubbi ed incertezze…

 

6. Conclusione

L’unica cosa che possiamo augurarci è che la caritas, lodata ed inneggiata anche da Vattimo, venga realmente posta alla base del dialogo intersoggettivo. Non per rinunciare a quell’esigenza, tutt’altro che arbitraria, di verità, ma per contenerla entro i suoi limiti naturali, ossia entro quegli aspetti, pochi e poverissimi, entro i quali un discorso veritativo (basato sull’elencos aristotelico, ovvero sull’evidenza della verità tramite la dimostrazione della contraddittorietà della sua contraddittoria) è possibile. Fuori da tale ambito, tutti i dubbi e le istanze avanzate da Vattimo non solo sono legittimi, ma risultano estremamente validi, poiché è molto più ampio, ed umanamente (eticamente) più rilevante, il terreno sul quale non è possibile avanzare pretese di ultimatività, ma solo interpretazioni e letture parziali della nostra condizione. Anche qui, tuttavia, parlare di verità ha senso: essa rappresenta infatti un ideale regolativo di grande importanza, poiché traccia proprio quella linea discriminante che divide la tolleranza dalla violenza; l’arbitrio dalla diversità di letture.

Parlare di verità e di regole razionali serve infatti tanto alla tradizione neoclassica, nella sua speculazione metaempirica, quanto a coloro che contrastano i risultati di tale ricerca. Se la razionalità restasse un valore condiviso, allora sì il dialogo e la limitazione della violenza troverebbe reale dimora nei nostri discorsi.

Nulla più che una proposta…

 

Note

(1) Il riferimento d’obbligo va all’opera Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Idee/Feltrinelli, Milano, 1983. back

(2) Per maggiore chiarezza occorre forse fare una precisazione sull’uso ed il significato che Vattimo attribuisce al termine "secolarizzazione". Tale termine, che originariamente stava ad indicare il processo di appropriazione da parte del potere temporale dei beni ecclesiastici, è qui usato per significare, similmente, il processo di riappropriazione, operata dall’uomo moderno, della propria autonomia rispetto a quelle forme alienate di dominio alle quali si era asservito (si pensi ad esempio alla lezione marxiana e, prima ancora, a quella hegeliana). Tale processo viene però descritto da Vattimo, almeno così ci sembra di poter leggere, secondo due differenti chiavi di lettura. Da un lato "secolarizzazione" sta ad indicare quella liberazione dai falsi miti, quali la trascendenza e l’assolutezza della verità, dei quali parlava Nietzsche. Dall’altro, quasi a frenare la deriva nichilista implicita in tale prospettiva, lo stesso termine viene utilizzato per indicare il permanere di alcuni valori, ferma restando la critica ad ogni loro "ancoraggio" trascendente, in un’ottica meramente terrena. Non a caso Vattimo parla così spesso di kenosis, ossia dell’incarnazione del Dio trascendente in Cristo, quale simbolo del depotenziamento ed indebolimento del divino sino al punto da farsi uomo e, dunque, finito. La linea secondo la quale il nostro autore si muove è dunque quella della conservazione-distorsione-indebolimento dei valori. Il brano citato esprime bene tale ambivalenza e la conseguente necessità di conciliare il relativismo storicista con la tutela di alcuni valori guida, capaci di valere come garanzia della relazione intersoggettiva. back

(3) Gianni Vattimo, Credere di credere, Garzanti Editore, Milano, 1996, pag. 92. back

(4) Gianni Vattimo, Ontologia dell’attualità, Filosofia 1987, Laterza, Roma-Bari, 1998, pag. 201. back

(5) Altrove, parlando del rapporto tra ontologia e principi primi, Vattimo afferma che: "è in quanto pensiero della presenza perentoria dell’essere - come fondamento ultimo di fronte a cui si può solo tacere e, forse, provare ammirazione - che la metafisica è pensiero violento: il fondamento, se si dà nell’evidenza incontrovertibile che non lascia più adito ad ulteriori domande, è come un’autorità che tacita e s’impone senza "fornire spiegazioni"". Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Editori Laterza, Roma-Bari, 1994, pag. 40. back

(6) In un suo saggio pubblicato sull’annuario filosofico di Micromega, trattando del significato etico della reazione post-moderna al pensiero metafisico, Vattimo descrive in questi termini il rapporto tra violenza e primi principi: "È l’esclusione di questa violenza che crede legittima l’esclusione di qualunque violenza (ma c’è un’altra possibile definizione della violenza, che non ricada nelle spire dell’essenzialismo) con l’interruzione del domandare, con il tacitamento autoritario dell’altro in nome di principi primi ." Gianni Vattimo, Etica della provenienza, Micromega - Almanacco di Filosofia ’97, pag. 79. back

(7) Riflettendo sul problema della tecnica egli afferma inoltre che "la metafisica dell’oggettività si conclude in un pensiero che identifica la verità dell’essere con la calcolabilità, misurabilità e in definitiva manipolabilità dell’oggetto della scienza-tecnica". Gianni Vattimo, Credere di credere, op. cit., pag. 21. back

(8) Gianni Vattimo, Etica della provenienza, op. cit. pp. 74-79. back

(9) Idem. pag. 74. back

(10) Gianni Vattimo, Credere di credere, op. cit., pag. 37. Interessante, a riguardo, il rimando ad un altro luogo della riflessione del nostro Autore, nella quale, proprio a proposito del rapporto tra critica antimetafisica ed indebolimento dell’essere, egli afferma: "Per me l’espressione [ pensiero debole] significa non tanto, o non principalmente, un’idea del pensiero più consapevole dei suoi limiti, che abbandona le pretese delle grandi visioni metafisiche globali, eccetera; ma soprattutto una teoria dell’indebolimento come carattere costitutivo dell’essere nell’epoca della fine della modernità". Gianni Vattimo, Credere di credere, op. cit., pp. 25-26. back

(11) Gianni Vatttimo, Dialettica differenza, pensiero debole, ne Il pensiero debole, Feltrinelli, 1983. back

(12) Cfr. Jorge Luis Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1955 e Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980. back

(13) " La verità dell’abitare è piuttosto la comprensione del bibliotecario, che non possiede interamente, in un puntuale atto di comprensione trasparente, la totalità dei contenuti dei libri tra i quali vive e neppure i principi primi da cui tali contenuti discendono: il bibliotecario conosce la collocazione dei volumi e ha anche una certa idea del catalogo a soggetto" . Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, op. cit., pag. 113. back

(14) Gianni Vattimo, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981, pag. 94. back

(15) Idem. back

(16) "Solo all’interno di un’apertura storico-culturale (o di un paradigma) si può parlare di verità come conformità a regole che si danno con l’apertura stessa; l’apertura come tale non può essere detta ‘vera’ in base a criteri originari perché istituisce gli orizzonti in cui ogni verifica o falsificazione è possibile […] La verità dell’apertura sembra quindi pensabile solo in base alla metafora dell’abitare […] È questo ‘abitare’ la condizione prima del mio dire la verità. Ma non posso descriverlo come una condizione universale strutturale, stabile: sia perché l’esperienza storica mostra l’irriducibilità dei paradigmi e degli universi culturali, sia perché anche per descrivere l’apertura come una struttura stabile dovrei avere un criterio di conformità, che sarebbe allora l’apertura più originaria". Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, op. cit., pp. 101-103. back

(17) Ne La società trasparente , Garzanti, Milano, 2000, pag. 19, Vattimo parla di "libertà come oscillazione continua tra apparenza e spaesamento"back

(18) Cfr. Carmelo Vigna, Vocazione filosofica e tradizione metafisica, Annuario filosofica ’97, Mondatori Editore. back

(19) Penso in prima battuta ad alcuni saggi quali: Gustavo Bontadini, Episodi della deellenizzazione, Gianni Vattimoin Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano, 1997; Enrico Berti, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna, 1987 oltre al già citato: Carmelo Vigna, Vocazione filosofica e tradizione metafisicaback

(20) Gianni Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, ne Il pensiero debole, op. cit., pag. 12. back

(21) Per un maggior approfondimento della problematica si rimanda a G. Bontadini, Saggio per una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano, 1938 e La funzione metodologica dell’Unità dell’Esperienza, in Conversazioni di metafisica, Vita e Pensiero, Milano,1971; C Vigna, Dio e il Silenzio, in Chi è Dio?, a cura di A. Molinaro, Herder-Università Lateranense, Roma, 1988 e Sulla verità dell’essere, in Il frammento e l’intero, Vita e Pensiero, Milano, 2000; E. Severino, Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano, 1984 e La struttura dell’essere, "Rivista di filosofia neoscolastica", 42, 1950. back