«Vengo a chiederti il favore che mi accompagni a vendere la casa.»
Non dovette dirmi quale, né dove, dal momento che per noi ne esisteva una sola al mondo: la vecchia casa dei nonni ad Aracataca, dove avevo avuto la buona sorte di nascere e dove non avevo più abitato dopo gli otto anni. Avevo appena abbandonato la Facoltà di Legge dopo sei semestri, dedicati più che altro a leggere quanto mi finiva tra le mani e a recitare a memoria le poesie irripetibili del Secolo d’Oro spagnolo. Avevo già letto, tradotti e in edizioni imprestate, tutti i libri che mi sarebbero bastati per imparare la tecnica di scrivere romanzi, e avevo pubblicato sei racconti in supplementi di giornali, che avevano riscosso l’entusiasmo dei miei amici e l’attenzione di alcuni critici. Il mese successivo avrei compiuto ventitré anni, ero ormai inadempiente rispetto al servizio militare e veterano di due blenorragie, e ogni giorno fumavo, senza premonizioni, sessanta sigarette di tabacco atroce. Alternavo i miei ozi fra Barranquilla e Cartagena de Indias, sulla costa caraibica della Colombia, sopravvivendo come un pezzente grazie a quello che mi pagavano per i miei articoli quotidiani su «El Heraldo», che era meno di niente, e dormivo nella miglior compagnia possibile dove mi sorprendeva la notte. Come se l’incertezza delle mie aspirazioni e il caos della mia vita non bastassero, insieme a un gruppo di amici inseparabili mi accingevo a pubblicare una rivista temeraria e senza mezzi che Alfonso Fuenmayor progettava da tre anni. Cos’altro potevo desiderare?
Più per penuria che per gusto personale anticipavo la moda che si sarebbe diffusa di lì a vent’anni: baffi silvestri, capelli scarruffati, pantaloni di tela jeans, camicie a fiori equivoci e sandali da pellegrino. Nel buio di un cinema, e senza sapere che io ero lì vicino, un’amica di allora disse a qualcuno: «Il povero Gabito è un caso disperato». Sicché quando mia madre mi chiese di andare con lei a vendere la casa non ebbi problemi a dirle di sì. Lei mise in chiaro che non aveva abbastanza denaro e per orgoglio le dissi che mi sarei pagato le mie spese.
Al giornale dove lavoravo non avrei potuto risolvere la situazione. Mi pagavano tre pesos per ogni pezzo e quattro per un editoriale quando mancava qualcuno degli editorialisti fissi, ma mi bastavano appena. Cercai invano di chiedere un prestito, perché il direttore mi ricordò che il mio debito originale ammontava a oltre cinquanta pesos. Quel pomeriggio commisi un abuso di cui nessuno dei miei amici sarebbe stato capace. All’uscita dal caffè Colombia, vicino alla libreria, mi incamminai con don Ramón Vinyes, il vecchio maestro e libraio catalano, e gli chiesi in prestito dieci pesos. Ne aveva solo sei.
Né mia madre né io avremmo neppure potuto immaginare che quell’innocente passeggiata di soli due giorni sarebbe stata così determinante per me, che la più lunga e diligente delle vite non mi basterebbe per finire di raccontarla. Adesso, con oltre settantacinque anni alle mie spalle, so che fu la decisione più importante fra quante dovetti prendere nella mia carriera di scrittore. Ossia, in tutta la mia vita.
Fino all’adolescenza, la memoria ha più interesse per il futuro che per il passato, sicché i miei ricordi del paese non erano ancora stati idealizzati dalla nostalgia. Lo ricordavo così com’era: un buon posto per viverci, dove tutti si conoscevano, in riva a un fiume dalle acque diafane che si precipitavano lungo un letto di pietre polite, bianche ed enormi come uova preistoriche. All’imbrunire, soprattutto in dicembre, quando passavano le piogge e l’aria diventava di diamante, la Sierra Nevada di Santa Marta sembrava avvicinarsi con i suoi picchi bianchi fino alle piantagioni di banani della riva opposta. Da lì si vedevano gli indios arhuacos che correvano in file da formiche sui cornicioni della sierra, con i loro sacchi di zenzero sulla schiena e masticando palle di coca per distrarsi la vita. Noi bambini nutrivamo allora l’illusione di organizzare battaglie con le nevi perpetue e giocare alla guerra nelle strade divampanti. Il caldo era così inverosimile, soprattutto durante la siesta, che gli adulti se ne lamentavano come se ogni giorno fosse stato una sorpresa. Fin dalla mia nascita avevo sentito ripetere senza tregua che i binari della ferrovia e gli edifici della United Fruit Company erano stati installati di notte, perché di giorno era impossibile afferrare i pezzi di ferro riscaldati dal sole.
L’unico modo per arrivare ad Aracataca da Barranquilla era una sgangherata lancia a motore lungo un canale scavato a braccia di schiavi durante la Colonia, e poi attraverso una vasta palude dalle acque torbide e desolate, fino al misterioso villaggio di Ciénaga. Lì si prendeva il treno normale che alle sue origini era stato il migliore del paese, e con cui si faceva il tragitto conclusivo attraverso le immense piantagioni di banani, con molte fermate oziose in abitati polverosi e ardenti, e stazioni solitarie. Questo fu il percorso che mia madre e io intraprendemmo alle sette di sera di sabato 18 febbraio 1950 – vigilia di carnevale – sotto un acquazzone diluviale fuori stagione e con trentadue pesos complessivi che ci sarebbero bastati appena per tornare se la casa non fosse stata venduta alle condizioni previste.
I venti alisei erano così selvaggi quella sera, che al porto fluviale feci fatica a convincere mia madre a imbarcarsi. Non gliene mancava motivo. Le lance erano imitazioni ridotte dei battelli a vapore di New Orleans, ma con motori a benzina che comunicavano un tremito da brutta febbre a tutto quanto si trovava a bordo. C’era una sala con ganci per attaccare le amache a diversi livelli, e scanni di legno su cui ognuno si sistemava a gomitate come gli riusciva con i suoi bagagli eccessivi, fagotti di merci, gabbie di galline e persino maiali vivi. Le cabine erano poche e soffocanti, con due brande da campo, quasi sempre occupate da bagasce della mala morte che prestavano servizi di emergenza durante il viaggio. Poiché all’ultimo momento non ne trovammo una libera, né avevamo con noi le amache, mia madre e io occupammo d’assalto due seggiole di ferro del corridoio centrale e lì ci preparammo a passare la notte.
Proprio come lei temeva, la tempesta flagellò l’impavida imbarcazione mentre percorrevamo il fiume Magdalena, che a così breve distanza dal suo estuario ha un’indole oceanica. Al porto io avevo comprato una buona provvista di sigarette fra le più economiche, di tabacco nero e con una carta che le mancava poco per essere straccia, e cominciai a fumare alla mia maniera di allora, accendendo l’una con il mozzicone dell’altra, mentre rileggevo Luce d’agosto, di William Faulkner, che in quel periodo era il più fedele dei miei demoni tutelari. Mia madre si aggrappò al suo rosario come a un argano capace di disincagliare un trattore o di reggere un aereo nell’aria, e secondo la sua consuetudine non chiese nulla per sé, ma solo prosperità e lunga vita per i suoi undici orfani. Le sue preghiere dovettero arrivare dov’era il caso, perché la pioggia si fece docile quando entrammo nel canale e la brezza spirò appena per allontanare le zanzare. Mia madre ripose allora il rosario e per un bel pezzo osservò in silenzio il fragore della vita che trascorreva intorno a noi.
Era nata in una casa modesta, ma crebbe nello splendore effimero della compagnia bananiera, di cui le rimase almeno una buona educazione da bambina ricca al Collegio della Presentazione della Santissima Vergine, a Santa Marta. Durante le vacanze di Natale ricamava sul tombolo con le sue amiche, suonava il clavicordio alle feste di beneficenza e partecipava con una zia guardiana ai balli più depurati della timorata aristocrazia locale, ma nessuno aveva mai saputo che avesse un fidanzato quando si sposò contro la volontà dei genitori con il telegrafista del paese. Le sue virtù più note fin d’allora erano il senso dell’umorismo e la salute di ferro che le insidie dell’avversità non sarebbero riuscite a vincere nella sua lunga vita. Ma quella più sorprendente, e già allora la meno sospettabile, era il talento squisito con cui riusciva a nascondere la tremenda forza del suo carattere: un Leone perfetto. Le era stato così possibile instaurare un potere matriarcale il cui dominio si estendeva fino ai parenti più remoti nei luoghi meno immaginabili, come un sistema planetario di cui lei disponeva dalla sua cucina, con voce tenue e senza quasi batter ciglio, mentre faceva bollire la marmitta dei fagioli.
Vedendola affrontare senza scomporsi quel viaggio brutale, io mi domandavo come avesse potuto subordinare così in fretta e con tanto dominio le ingiustizie della povertà. Niente come quella brutta notte per metterla alla prova. Le zanzare carnivore, il caldo denso e nauseabondo per via del fango dei canali che la lancia rimuoveva al suo passaggio, l’andirivieni dei passeggeri insonni che non trovavano requie nella loro pelle, tutto sembrava fatto di proposito per mettere in crisi il carattere più equilibrato. Mia madre sopportava il tutto immobile sulla sua seggiola, mentre le ragazze in affitto mietevano il raccolto del carnevale nelle cabine lì accanto, travestite da uomini o da bamboline. Una di loro era entrata e uscita dalla sua più volte, sempre con un cliente diverso, e proprio accanto al sedile di mia madre. Io pensavo che lei non l’avesse vista. Ma la quarta o quinta volta che entrò e uscì in meno di un’ora, la seguì con uno sguardo di compassione sino in fondo al corridoio.
«Povere ragazze» sospirò. «Quello che devono fare per vivere è peggio che lavorare.»
Rimase così fino a mezzanotte, quando mi stancai di leggere per via del tremore insopportabile e delle luci esigue del corridoio, e mi sedetti a fumare al suo fianco, cercando di salire a galla dalle sabbie mobili della contea di Yoknapatawpha. Avevo abbandonato l’università l’anno prima, con l’illusione temeraria di vivere di giornalismo e letteratura senza bisogno di impararli, incoraggiato da una frase che credo avessi letto in Bernard Shaw: “Fin da piccolo dovetti interrompere la mia educazione per andare a scuola”. Non mi ero sentito di discuterne con nessuno, perché capivo, senza poterlo spiegare, che le mie ragioni potevano essere valide solo per me stesso.
Cercar di convincere i miei genitori di una simile follia quando avevano riposto in me tante speranze e avevano speso tanto denaro che non avevano, era tempo sprecato. Soprattutto mio padre, che mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa, meno che non appendessi alla parete un titolo accademico che lui non era riuscito ad avere. I rapporti si erano interrotti. Quasi un anno dopo progettavo sempre di andarlo a trovare per spiegargli le mie ragioni, quando arrivò mia madre a chiedermi di accompagnarla a vendere la casa. Tuttavia, lei non accennò al problema fin dopo la mezzanotte, sulla lancia, quando sentì come una rivelazione sovrannaturale che aveva infine trovato il momento propizio per dirmi quello che di certo era il motivo reale del suo viaggio, e cominciò con il modo e con il tono e con le parole millimetriche che dovevano essere maturate nella solitudine delle sue insonnie assai prima che le pronunciasse.
«Tuo papà è molto triste» disse.
Eccolo, infine, l’inferno tanto temuto. Iniziava come sempre, quando uno meno se l’aspettava, e con una voce rasserenante che non si sarebbe alterata dinanzi a nulla. Solo in osservanza del rituale, dal momento che conoscevo benissimo la risposta, le domandai:
«E come mai?»
«Perché hai interrotto gli studi.»
«Non li ho interrotti» le dissi. «Ho solo cambiato carriera.»
L’idea di una discussione a fondo le sollevò l’animo.
«Tuo papà dice che è la stessa cosa» disse.
Sapendo che era falso, le dissi:
«Anche lui ha smesso di studiare per suonare il violino.»
«Non era lo stesso» replicò lei con una grande vivacità. «Il violino lo suonava solo alle feste e alle serenate. Se ha interrotto gli studi è stato perché non aveva neppure di che mangiare. Ma in meno di un mese ha imparato a fare il telegrafista, che allora era un’ottima professione, soprattutto a Aracataca.»
«Io vivo scrivendo sui giornali» le dissi.
«Questo lo dici per non rattristarmi» disse lei. «Ma lo si nota da lontano che sei in una brutta situazione. Come mai, quando ti ho visto nella libreria non ti ho riconosciuto?»
«Neppure io ho riconosciuto lei» le dissi.
«Ma non per lo stesso motivo» disse. «Io ho pensato che eri un accattone». Mi guardò i sandali logori, e aggiunse: «E senza calze».
«È più comodo» le dissi. «Due camicie e due paia di mutande: uno addosso e l’altro che si asciuga. Di cos’altro c’è bisogno?»
«Di un po’ di dignità» disse lei. Ma subito dopo raddolcì il tono: «Te lo dico per tutto il bene che ti vogliamo».
«Lo so» le dissi. «Ma mi dica una cosa: al mio posto lei non farebbe la stessa cosa?»
«Non la farei» disse «se così contrariassi i miei genitori.»
Ricordando la tenacia con cui era riuscita a vincere l’opposizione della sua famiglia per sposarsi, le dissi ridendo:
«Coraggio, mi guardi.»
Ma lei mi schivò con serietà, perché sapeva troppo bene cosa stavo pensando.
«Non mi sono sposata finché non ho avuto la benedizione dei miei genitori» disse. «Per forza, sia pure, ma l’ho avuta.»
Interruppe la discussione, non perché i miei argomenti l’avessero sconfitta, ma perché voleva andare in bagno e diffidava delle sue condizioni igieniche. Domandai al nostromo se c’era un posto più salubre, ma lui stesso mi spiegò che usava il bagno comune. E concluse, come se avesse appena finito di leggere Conrad: «Sul mare siamo tutti uguali». Sicché mia madre si sottomise alla legge di tutti. Quando uscì, al contrario di quanto io temevo, a stento riusciva a dominare le risate:
«Figurati» mi disse «cosa penserà mai tuo papà se torno con una malattia da mala vita?»
Dopo la mezzanotte subimmo un ritardo di tre ore, perché i grovigli di anemoni del canale immobilizzarono le eliche, la lancia si incagliò in un gruppo di mangrovie e molti passeggeri dovettero tirarla dalle rive con le funi delle amache. Il caldo e le zanzare divennero insopportabili, ma mia madre se ne liberò con una raffica di sonni istantanei e intermittenti, ormai celebri in famiglia, che le permettevano di riposare senza perdere il filo della conversazione. Quando il viaggio riprese e sopraggiunse la brezza fresca, si svegliò del tutto.
«Comunque» sospirò «una risposta devo portarla a tuo papà.»
«Meglio se non si preoccupa» le dissi con la stessa innocenza. «In dicembre andrò a trovarlo, e allora gli spiegherò tutto.»
«Mancano dieci mesi» disse lei.
«In fin dei conti, quest’anno non si può combinare più niente all’università» le dissi.
«Prometti davvero che andrai a trovarlo?»
«Lo prometto» le dissi. E per la prima volta colsi una certa ansia nella sua voce:
«Posso dire a tuo papà che gli dirai di sì?»
«No» le replicai perentorio. «Questo no.»
Era evidente che cercava un’altra via di uscita. Ma non gliela concessi.
«Allora è meglio se gli dico la verità una volta per tutte» disse lei. «Così non sembrerà un inganno.»
«D’accordo» le dissi sollevato. «Gliela dica.»
Rimanemmo in questi termini, e chi non l’avesse conosciuta bene avrebbe pensato che lì fosse finito tutto, ma io sapevo che era una tregua per riprendere fiato. Poco dopo si addormentò profondamente. Una brezza tenue allontanò le zanzare e saturò l’aria nuova con un odore di fiori. La lancia acquistò allora la sveltezza di un veliero.
Eravamo nella Palude Grande, un altro dei miti della mia infanzia. Vi avevo navigato più volte, quando mio nonno il colonnello Nicolás Ricardo Márquez Mejía – che noi nipoti chiamavamo Papalelo – mi portava da Aracataca a Barranquilla a trovare i miei genitori. «Della palude non bisogna aver paura, bensì rispetto» mi aveva detto lui, parlando degli umori imprevedibili delle sue acque, che si comportavano sia come uno stagno sia come un oceano indomito. Durante la stagione delle piogge era alla mercé delle tempeste della sierra. Da dicembre fino ad aprile, quando il tempo doveva essere più mansueto, gli alisei del nord l’aggredivano con tale impeto che ogni notte era un’avventura. La mia nonna materna, Tranquilina Iguarán – Mina – non si azzardava ad affrontare la traversata se non in casi di massima urgenza, dopo un viaggio di sgomenti durante il quale avevano dovuto cercare riparo fino all’alba alle foci del Riofrío.
Quella notte, per fortuna, era una gora. Da prua, dove andai a respirare poco prima dell’alba, le luci delle navi da pesca fluttuavano come stelle nell’acqua. Erano innumerevoli, e i pescatori invisibili chiacchieravano come durante una visita, perché le voci avevano una risonanza spettrale nello spazio della palude. Con i gomiti appoggiati al parapetto, cercando di indovinare il profilo della sierra, mi colse d’improvviso la prima artigliata della nostalgia.
In un’altra alba come quella, mentre attraversavamo la Palude Grande, Papalelo mi aveva lasciato a dormire nella cabina e se n’era andato allo spaccio. Non so che ora fosse quando mi svegliò un bailamme di molta gente attraverso il ronzio del ventilatore arrugginito e il baccano dei pezzi di latta della cabina. Io non dovevo avere più di cinque anni ed ebbi una grande paura, ma d’improvviso si ristabilì la calma e pensai che poteva essere stato un sogno. Al mattino, ormai all’imbarcadero di Ciénaga, mio nonno stava sbarbandosi con il rasoio tenendo la porta aperta e lo specchio appeso allo stipite. Il ricordo è preciso: non si era ancora infilato la camicia, ma sopra la canottiera aveva le sue eterne bretelle elastiche, larghe e a righe verdi. Mentre si rasava, continuava a chiacchierare con un uomo che ancora oggi potrei riconoscere a prima vista. Aveva un inconfondibile profilo da corvo, un tatuaggio da marinaio sulla mano destra, e portava appese al collo diverse catenelle d’oro pesante, e bracciali e armille, pure questi d’oro, a entrambi i polsi. Io avevo appena finito di vestirmi e mi ero seduto sul letto per infilarmi gli stivali, quando l’uomo disse a mio nonno:
«Non ne dubiti, colonnello. Quello che volevano farle era buttarla in acqua.»
Mio nonno sorrise senza smettere di rasarsi, e con un’alterigia tutta sua, replicò:
«Meglio che non si siano azzardati.»
Solo allora capii il tafferuglio della notte prima e mi sentii molto impressionato all’idea che qualcuno buttasse il nonno nella palude.
Il ricordo di quest’episodio mai chiarito mi colse la mattina in cui andavo con mia madre a vendere la casa, mentre contemplavo le nevi della sierra che spuntavano azzurre sotto i primi soli. Il ritardo nei canali ci permise di vedere in pieno giorno la barra di sabbie luminose che separa appena il mare e la palude, dove c’erano villaggi di pescatori con le reti tese ad asciugare sulla spiaggia, e bambini avviliti e macilenti che giocavano a calcio con palle di stracci. Era impressionante vedere nelle strade i molti pescatori con il braccio mutilato per non aver lanciato in tempo i candelotti di dinamite. Al passaggio della lancia, i bambini si tuffavano in cerca delle monete tirate dai viaggiatori.
Erano quasi le sette quando attraccammo in un pantano pestilente a poca distanza dall’abitato di Ciénaga. Squadre di facchini con il fango al ginocchio ci accolsero nelle loro braccia e sguazzando ci portarono fino all’imbarcadero, fra uno svolazzar di avvoltoi che si contendevano le immondizie nella melma. Stavamo facendo colazione con calma sui tavoli del porto, con certi saporiti pesci della palude e fette di banane verdi fritte, quando mia madre riprese l’offensiva della sua guerra personale.
«Allora dimmi una buona volta» mi disse senza alzare lo sguardo «cosa devo dire a tuo papà.»
Cercai di guadagnare tempo per pensare.
«Su cosa?»
«Sull’unica cosa che gli interessa» disse lei un po’ irritata: «I tuoi studi».
Ebbi la fortuna che un commensale impertinente, incuriosito dalla veemenza del dialogo, volle conoscere le mie ragioni. La risposta immediata di mia madre non solo mi intimidì un poco, ma mi stupì pure da parte di lei, che era molto riservata quanto alla sua vita privata.
«Vuole fare lo scrittore» disse.
«Un bravo scrittore può guadagnare fior di quattrini» replicò con serietà l’uomo. «Soprattutto se lavora con il governo.»
Non so se fu per discrezione che mia madre si sottrasse alla conversazione, o per timore degli argomenti dell’interlocutore imprevisto, ma entrambi finirono per compiangere le incertezze della mia generazione, e per spartirsi le nostalgie. Alla fine, rintracciando nomi di conoscenti comuni, finirono per scoprire che eravamo parenti sia dalla parte dei Cotes sia da quella degli Iguarán. A quell’epoca ci accadeva ogni due persone su tre che incontravamo sulla costa caraibica e mia madre se ne rallegrava sempre come davanti a un evento insolito.
Raggiungemmo la stazione ferroviaria su una victoria tirata da un solo cavallo, forse l’ultima di una stirpe leggendaria ormai estinta nel resto del mondo. Mia madre era assorta, mentre guardava l’arida pianura calcinata dal salnitro che cominciava subito dopo la fangaia del porto e si spingeva fino a confondersi con l’orizzonte. Per me era un luogo storico: a tre o quattro anni, nel corso del mio primo viaggio a Barranquilla, il nonno mi aveva portato per mano attraverso quella sodaglia ardente, camminando in fretta e senza dirmi perché, e d’improvviso ci eravamo ritrovati dinanzi a una vasta distesa di acque verdi con creste di spuma, su cui galleggiava tutto un mondo di galline annegate.
«È il mare» mi aveva detto.
Deluso, gli avevo domandato cosa ci fosse sull’altra sponda, e lui mi aveva risposto senza esitare:
«Dall’altra parte non c’è sponda.»
Oggi, dopo tanti mari visti al dritto e al rovescio, continuo a pensare che quella fu una delle sue più grandi risposte. Comunque, nessuna delle mie immagini previe corrispondeva a quel pelago sordido, sulla cui spiaggia di pietrame era impossibile camminare in mezzo a ramaglie di mangrovie marce e a schegge di conchiglie. Era orribile.
Mia madre doveva pensare la stessa cosa del mare di Ciénaga, perché non appena lo ebbe visto comparire sulla sinistra della vettura, sospirò:
«Non c’è mare come quello di Riohacha!»
In quella circostanza le raccontai il mio ricordo delle galline annegate e, come a tutti gli adulti, le sembrò che fosse un’allucinazione dell’infanzia. Poi seguitò a contemplare ogni luogo che incontravamo lungo il percorso, e io sapevo cosa pensava di ognuno di questi dai mutamenti del suo silenzio. Passammo davanti al quartiere di tolleranza dall’altra parte della linea ferroviaria, con piccole case colorate dai tetti arrugginiti e i vecchi pappagalli di Paramaribo che chiamavano i clienti in portoghese dai loro trespoli sotto le gronde. Passammo per il deposito delle locomotive, con l’immensa volta di ferro sotto cui si rifugiavano a dormire gli uccelli migratori e i gabbiani smarriti. Costeggiammo la città senza entrarvi, ma vedemmo le strade ampie e desolate, e le case dell’antico splendore, a un solo piano con finestre a grandezza d’uomo, dove gli esercizi al pianoforte si ripetevano senza tregua fin dall’alba. D’improvviso, mia madre indicò con il dito.
«Guarda» mi disse. «È stato lì che è finito il mondo.»
Io seguii la direzione del suo indice e vidi la stazione: un edificio di legno scrostato, con tetti di zinco a due spioventi e balconi coperti, e davanti una piazzetta arida che non poteva contenere più di duecento persone. Era stato lì, come mi precisò mia madre quel giorno, che nel 1928 l’esercito aveva ucciso un numero mai definito di braccianti delle piantagioni di banani. Io conoscevo l’episodio come se l’avessi vissuto, dopo averlo sentito raccontare e mille volte ripetere da mio nonno fin dove poteva risalire la mia memoria: il militare che leggeva il decreto secondo cui i braccianti in sciopero erano stati dichiarati una banda di malfattori; i tremila uomini, donne e bambini immobili sotto il sole atroce dopo che l’ufficiale aveva concesso un lasso di cinque minuti per evacuare la piazza; l’ordine di sparare, il fracasso delle raffiche di sputi incandescenti, la folla braccata dal panico mentre la stavano riducendo palmo a palmo con le forbici metodiche e insaziabili della mitraglia.
Il treno arrivava a Ciénaga alle nove del mattino, caricava i passeggeri delle lance e quelli che scendevano dalla sierra, e proseguiva all’interno della Zona bananiera un quarto d’ora dopo. Mia madre e io raggiungemmo la stazione che erano le otto passate, ma il treno era già lì, fermo. Tuttavia, fummo gli unici passeggeri. Lei se ne rese conto non appena fu entrata nel vagone vuoto, ed esclamò con un umore festoso:
«Che lusso! Tutto il treno solo per noi!»
Ho sempre pensato che fosse una gioia finta per nascondere il suo disincanto, perché gli scempi del tempo erano evidenti al primo colpo d’occhio dalle condizioni dei vagoni. Erano quelli antichi di seconda classe, ma senza sedili di vimini né vetri da alzare e da abbassare ai finestrini, bensì con panche di legno indurito dai deretani lisci e caldi dei poveri. A confronto con quanto era stato in altri tempi, non solo quel vagone ma tutto il treno era un fantasma di se stesso. Una volta aveva tre classi. La terza, dove viaggiavano i più poveri, erano gli stessi gabbioni di assi in cui trasportavano le banane e le bestie da macello, adattati per i passeggeri con panche longitudinali di legno grezzo. La seconda classe, con sedili di vimini e rifiniture di bronzo. La prima classe, dove viaggiavano i membri del governo e gli alti impiegati della compagnia bananiera, con tappeti lungo il corridoio e poltrone foderate di velluto rosso che potevano cambiare posizione. Quando viaggiava il sovrintendente della compagnia, o la sua famiglia, o i suoi invitati di spicco, agganciavano alla coda del treno un vagone di lusso con finestrini dai vetri schermati e rifiniture dorate, e una terrazza scoperta con tavolini per viaggiare prendendo il tè. Non conobbi mai mortale che avesse visto dall’interno quella carrozza di sogno. Mio nonno era stato sindaco due volte e pure lui aveva un’idea allegra del denaro, ma viaggiava in seconda solo se accompagnava qualche donna della famiglia. E quando gli domandavano perché viaggiasse in terza, rispondeva: «Perché non c’è la quarta». Tuttavia, in altri tempi, la cosa più memorabile del treno era stata la puntualità. Gli orologi dei paesi venivano regolati secondo l’ora esatta in base al suo fischio.
Quel giorno, per un motivo o per un altro, partì con un’ora e mezzo di ritardo. Quando si mise in moto, piano piano e con un cigolio lugubre, mia madre si fece il segno della croce, ma subito dopo ritornò alla realtà.
«A questo treno manca olio nelle molle» disse.
Eravamo gli unici passeggeri, forse in tutto il treno, e fino a quel momento non c’era nulla che mi suscitasse un vero interesse. Mi immersi nel sopore di Luce d’agosto, fumando senza tregua, con rapidi sguardi occasionali per riconoscere i luoghi che ci lasciavamo alle spalle. Il treno attraversò con un fischio lungo le maremme della palude, e infilò a tutta velocità un trepidante corridoio di rocce vermiglie, dove il baccano dei vagoni divenne insopportabile. Ma di lì a quindici minuti rallentò la marcia, entrò con un respiro silenzioso nella penombra fresca delle piantagioni, e il tempo divenne più denso e non si sentì più la brezza del mare. Non dovetti interrompere la lettura per capire che eravamo entrati nel regno ermetico della Zona bananiera.
Il mondo cambiò. Ai due lati dei binari si allungavano i filari simmetrici e interminabili delle piantagioni, dove si muovevano le carrette di buoi cariche di caschi verdi. D’improvviso, in spazi intempestivi, non seminati, c’erano baracche di mattoni rossi, uffici con reticella metallica alle finestre e ventilatori a pale appesi al soffitto, e un ospedale solitario in un campo di papaveri. Ogni fiume aveva il suo villaggio e il suo ponte di ferro su cui il treno passava ululando, e le ragazze che facevano il bagno nelle acque gelide balzavano su come salacche al suo passaggio per turbare i viaggiatori con le loro tette fugaci.
Nell’abitato di Riofrío salirono diverse famiglie di arhuacos carichi di zaini pieni di avocado della sierra, i più appetitosi del paese. Percorsero il vagone a saltelli in entrambi i sensi cercando dove sedersi, ma quando il treno ebbe ripreso la marcia rimanevano solo due donne bianche con un neonato, e un prete giovane. Il bambino non smise di piangere per il resto del viaggio. Il prete indossava stivali e casco da esploratore, una sottana di stoffa grezza con toppe quadrate, come una vela per navigare, e parlava mentre il bambino piangeva, sempre come se fosse sul pulpito. Il tema della sua predica era la possibilità che la compagnia bananiera tornasse. Da quando se n’era andata non si parlava di altro nella Zona e i pareri erano divisi fra quanti volevano e quanti non volevano che tornasse, ma tutti lo davano per certo. Il prete era contrario, e lo espresse con un motivo così personale che alle donne sembrò insensato:
«La compagnia semina la rovina ovunque passa.»
Fu l’unica cosa originale che disse, ma non riuscì a spiegarla, e la donna con il bambino finì per confonderlo affermando che Dio non poteva essere d’accordo con lui.
La nostalgia, come sempre, aveva cancellato i brutti ricordi e magnificato quelli belli. Nessuno si salvava dai suoi scempi. Dal finestrino del vagone si vedevano gli uomini seduti sulla soglia delle case e bastava guardarli in viso per capire cos’aspettavano. Le lavandaie sulle spiagge di pietrame osservavano passare il treno con la stessa speranza. Ogni forestiero che arrivasse con una valigetta da uomo d’affari sembrava loro che fosse l’uomo della United Fruit Company tornato a ricomporre il passato. A ogni incontro, a ogni visita, a ogni lettera prima o poi scaturiva la frase sacramentale: «Dicono che la compagnia torna». Nessuno sapeva chi l’avesse detto, né quando né perché, ma nessuno lo metteva in dubbio.
Mia madre si credeva guarita dallo sgomento, perché una volta morti i suoi genitori aveva reciso ogni vincolo con Aracataca. Tuttavia, i suoi sogni la tradivano. Almeno, quando ne aveva uno che le interessava tanto da raccontarlo a colazione, era sempre collegato con le sue nostalgie della Zona bananiera. Era sopravvissuta ai tempi più duri senza vendere la casa, con l’illusione di ricavarne anche quattro volte di più quando fosse tornata la compagnia. Alla fine l’aveva sconfitta la pressione insopportabile della realtà. Ma quando sentì dire al prete sul treno che la compagnia stava per tornare, fece un gesto desolato e mi disse all’orecchio:
«Peccato che non possiamo aspettare ancora un po’ di tempo, altrimenti venderemmo la casa per più soldi.»
Mentre il prete parlava attraversammo un luogo dove c’erano una folla sulla piazza e una banda di musicisti che suonava una marcetta allegra sotto il sole opprimente. Tutti quei villaggi mi sembrarono sempre uguali. Quando Papalelo mi portava al nuovissimo cinema Olympia di don Antonio Daconte io notavo che le stazioni dei film western assomigliavano a quelle del nostro treno. In seguito, quando avevo cominciato a leggere Faulkner, anche i villaggi dei suoi romanzi mi sembravano uguali ai nostri. E non era sorprendente, perché questi ultimi erano stati costruiti sotto l’ispirazione messianica della United Fruit Company, e con il loro stesso stile provvisorio da accampamento effimero. Io li ricordavo tutti con la chiesa nella piazza e le casette da favola dipinte con colori primari. Ricordavo le squadre di braccianti negri che cantavano all’imbrunire, le baracche delle piantagioni dove si sedevano i contadini a guardar passare i treni merci, i confini fra una tenuta e l’altra dove all’alba venivano trovati i lavoratori decapitati a colpi di machete nelle baruffe del sabato. Ricordavo le città private dei gringos ad Aracataca e a Sevilla, dall’altra parte della linea ferroviaria, circondate da reti metalliche come enormi pollai elettrificati che nelle giornate fresche dell’estate divenivano neri di rondini abbrustolite. Ricordavo i loro lenti prati azzurri con pavoni e quaglie, le residenze con i tetti rossi e le finestre protette da grate e i tavolini rotondi con sedie pieghevoli per mangiare sulle terrazze, fra palme e roseti polverosi. Talvolta, attraverso il recinto di filo di ferro, si vedevano donne belle e languide, con vestiti di mussolina e grandi cappelli di garza, che tagliavano i fiori dei giardini con forbici d’oro.
Già durante la mia infanzia non era facile distinguere certi villaggi dagli altri. Vent’anni dopo era ancora più difficile, perché sotto le pensiline delle stazioni erano cadute le scritte con i nomi idilliaci – Tucurinca, Guamachito, Neerlandia, Guacamayal – e tutti erano più desolati che nella memoria. Il treno si fermò a Sevilla verso le undici del mattino per cambiare la locomotiva e rifornirsi d’acqua durante quindici minuti interminabili. Lì cominciò il caldo. Quando riprese la marcia, la nuova locomotiva ci mandava a ogni curva una zaffata di carbonella che entrava dal finestrino senza vetri e ci lasciava ricoperti di una neve nera. Il prete e le donne erano scesi in qualche villaggio senza che ce ne fossimo accorti e questo rafforzò la mia impressione che mia madre e io viaggiassimo soli su un treno di nessuno. Seduta davanti a me, intenta a guardare dal finestrino, lei si era fatta due o tre sonnellini, ma si riebbe d’improvviso e mi rivolse ancora una volta la domanda temibile:
«Allora, cosa dico a tuo papà?»
Io pensavo che non si sarebbe mai arresa, in cerca di un punto che le permettesse di vincere la mia decisione. Poco prima aveva suggerito qualche formula di compromesso che avevo scartato senza esitazioni, ma sapevo che il suo ripiego non sarebbe stato troppo lungo. Anche così questo nuovo tentativo mi colse di sorpresa. Pronto per un’altra battaglia sterile, le risposi con più calma delle volte precedenti:
«Gli dica che l’unica cosa che voglio nella vita è essere uno scrittore, e che lo diventerò.»
«Lui non si oppone al fatto che tu sia quello che vuoi» disse lei «sempre che tu prenda una laurea.»
Parlava senza guardarmi, fingendo di interessarsi meno al nostro dialogo che alla vita che sfilava oltre il finestrino.
«Non so perché insiste tanto, se lei sa benissimo che non mi arrenderò» le dissi.
Mi guardò subito negli occhi e mi domandò incuriosita:
«Perché credi che lo sappia?»
«Perché lei e io siamo uguali.»
Il treno fece una sosta in una stazione senza paese, e poco dopo passò davanti all’unica piantagione di banani del percorso che avesse il nome scritto sull’entrata: Macondo. Questa parola aveva attratto la mia attenzione fin dai primi viaggi con il nonno, ma solo da adulto scoprii che mi piaceva la sua risonanza poetica. Non l’avevo mai sentito pronunciare da nessuno né mi ero mai domandato cosa significasse. L’avevo già usato in tre libri come nome di un paese immaginario, quando appresi su un’enciclopedia casuale che è un albero dei tropici simile alla ceiba, che non produce fiori né frutti, e il cui legno spugnoso serve per costruire canoe e scolpirci attrezzi da cucina. In seguito scoprii sull’Enciclopedia Britannica che in Tanganica esiste l’etnia errante dei makondo e pensai che quella poteva essere l’origine della parola. Ma non lo verificai mai né conobbi l’albero, perché spesso mi informai nella Zona bananiera e nessuno seppe indicarmelo. Forse non esistette mai.
Il treno passava alle undici davanti alla tenuta Macondo, e dieci minuti dopo si fermava ad Aracataca. Il giorno in cui andavo con mia madre a vendere la casa vi passò con un’ora e mezzo di ritardo. Io ero in bagno quando cominciò ad accelerare ed entrò dal finestrino rotto un vento ardente e secco, mescolato allo strepito dei vecchi vagoni e al fischiare impaurito della locomotiva. Il cuore mi sobbalzava nel petto e una nausea glaciale mi raggelò le viscere. Uscii di gran corsa, spinto da un terrore simile a quello che si prova quando c’è un terremoto, e trovai mia madre imperturbabile al suo posto, che enumerava ad alta voce i luoghi che vedeva passare dal finestrino come raffiche istantanee della vita che era stata e che non sarebbe mai più stata.
«Quelli sono i terreni che avevano venduto a papà raccontandogli la storia che c’era oro» disse.
Passò come un fulmine la casa degli avventisti, con il suo giardino fiorito e un’insegna all’entrata: The sun shines for all.
«È stata la prima cosa che hai imparato in inglese» disse mia madre.
«La prima no» le dissi: «L’unica».
Passò il ponte di cemento e il canale con le sue acque torbide, da quando i gringos avevano fatto deviare il fiume per portarselo nelle piantagioni.
«Il quartiere delle donne di vita, dove all’alba gli uomini ballavano la cumbiamba con fasci di banconote accese al posto delle candele» disse lei.
Le panchine lungo il viale, i mandorli arrugginiti dal sole, il parco della piccola scuola montessoriana dove avevo imparato a leggere. Per un istante, l’immagine totale del paese nella luminosa domenica di febbraio risplendette nel finestrino.
«La stazione!» esclamò mia madre. «Come sarà cambiato il mondo se più nessuno aspetta il treno.»
Allora la locomotiva smise di fischiare, rallentò la corsa e si fermò con un lamento lungo. La prima cosa che mi colpì fu il silenzio. Un silenzio materiale che avrei potuto identificare a occhi bendati fra gli altri silenzi del mondo. Il riverbero del caldo era così intenso che si vedeva tutto come attraverso un vetro deformante. Non c’era memoria della vita umana fin dove arrivava la mia vista, né nulla che non fosse ricoperto da una rugiada tenue di polvere ardente. Mia madre rimase ancora per qualche minuto sul sedile, a guardare il paese morto e disteso nelle strade deserte, e infine esclamò atterrita:
«Dio mio!»
Fu l’unica cosa che disse prima di scendere.
Finché il treno rimase lì ebbi l’impressione che non fossimo del tutto soli. Ma quando partì, con un fischio istantaneo e lacerante, mia madre e io ci ritrovammo inermi sotto il sole infernale e tutta la tristezza del paese ci cascò addosso. Ma non dicemmo nulla. La vecchia stazione di legno, con il tetto di zinco e un balcone coperto, era come una versione tropicale di quelle conosciute attraverso i film western. Attraversammo la stazione abbandonata le cui mattonelle cominciavano a spezzarsi tanto l’erba vi premeva contro, e ci immergemmo nel marasma della siesta, sempre cercando il riparo dei mandorli.
Fin da bambino io detestavo quelle sieste inerti perché non sapevamo cosa fare. «State zitti, che stiamo dormendo» sussurravano i dormienti senza svegliarsi. Le botteghe, gli uffici pubblici, le scuole chiudevano a mezzogiorno e non riaprivano fin dopo le tre. L’interno delle case rimaneva a fluttuare in un limbo di sopore. In alcune era così insopportabile che la gente appendeva le amache nel cortile o spingeva sgabelli all’ombra dei mandorli e dormiva seduta in piena strada. Rimanevano aperti solo l’albergo davanti alla stazione, il suo bar e la sua sala da biliardo, e l’ufficio del telegrafo dietro la chiesa. Tutto era identico ai ricordi, ma più ridotto e povero, e travolto da un gran vento di fatalità: le stesse case corrose, i tetti di zinco forati dalla ruggine, il viale con i residui delle panchine di granito e i mandorli tristi, e tutto trasfigurato da quella polvere invisibile e ardente che ingannava la vista e calcinava la pelle. Il paradiso privato della compagnia bananiera, dall’altra parte dei binari, ormai senza il recinto di filo di ferro elettrificato, era una vasta sodaglia senza palme, con le case distrutte in mezzo ai papaveri e le rovine dell’ospedale incendiato. Non c’erano una porta, una crepa su un muro, una traccia umana che non risvegliassero dentro di me una risonanza sovrannaturale.
Mia madre camminava molto dritta, con il suo passo leggero, sudando appena dentro il vestito funebre e in un silenzio assoluto, ma il suo pallore mortale e il suo profilo affilato tradivano quanto le accadeva dentro. Alla fine del viale vedemmo il primo essere umano: una donna minuta, dall’aspetto impoverito, che spuntò a un incrocio e ci passò accanto con un pentolino di peltro il cui coperchio messo male segnava il ritmo del suo passo. Mia madre mi sussurrò senza guardarla:
«È Vita.»
Io l’avevo riconosciuta. Aveva lavorato fin da bambina nella cucina dei miei nonni, e per quanto fossimo cambiati ci avrebbe riconosciuto, se si fosse degnata di guardarci. Ma no: passò come in un altro mondo. Ancora oggi mi domando se Vita non fosse morta molto prima di quel giorno.
Quando girammo all’incrocio, la polvere mi ardeva sui piedi fra il tessuto dei sandali. La sensazione d’abbandono divenne per me insopportabile. Allora vidi me stesso e vidi mia madre, così come da bambino avevo visto la madre e la sorella del ladro che María Consuegra aveva ucciso con uno sparo una settimana prima, mentre cercava di forzare la porta della sua casa.
Alle tre del mattino l’aveva svegliata il rumore di qualcuno che tentava di forzare dall’esterno la porta di strada. Si era alzata senza accendere la luce, aveva cercato a tentoni nel guardaroba la pistola arcaica con cui nessuno aveva più sparato dopo la guerra dei Mille Giorni e aveva localizzato al buio non solo il punto dove si trovava la porta ma anche l’altezza esatta della serratura. Allora aveva puntato l’arma reggendola con entrambe le mani, aveva chiuso gli occhi e aveva premuto il grilletto. Non aveva mai sparato prima, ma il colpo centrò il bersaglio attraverso la porta.
Fu il primo morto che vidi. Quand’ero passato alle sette del mattino lì davanti per andare a scuola c’era ancora il corpo disteso sul marciapiede sopra una pozza di sangue secco, con il viso sfasciato dal piombo che aveva distrutto il naso ed era uscito da un orecchio. Aveva una maglietta da marinaio a righe colorate, pantaloni normali con una corda al posto della cintura, ed era scalzo. Accanto, per terra, avevano trovato il grimaldello artigianale con cui aveva cercato di forzare la serratura.
Gli uomini più in vista del paese erano corsi fino alla casa di María Consuegra a farle le condoglianze per aver ucciso il ladro. Quella sera ci andai con Papalelo, e la trovammo seduta su una poltrona di Manila che sembrava un enorme pavone di vimini, in mezzo al fervore degli amici che ascoltavano la sua storia mille volte ripetuta. Tutti erano d’accordo con lei sul fatto che aveva sparato solo per paura. Era stato allora che mio nonno le aveva domandato se avesse sentito qualcosa dopo lo sparo, e lei gli aveva risposto di aver sentito dapprima un grande silenzio, poi il rumore metallico del grimaldello che cadeva sul cemento e subito dopo una voce minima e dolente: «Ah, madre mia!». A quanto sembrava, María Consuegra non prese coscienza di questo lamento lacerante finché mio nonno non le fece la domanda. Solo allora scoppiò in singhiozzi.
Questo era accaduto un lunedì. Il martedì della settimana successiva, all’ora della siesta, stavo giocando a trottola con Luis Carmelo Correa, il mio amico più antico nella vita, quando ci stupì che i dormienti si svegliassero prima del tempo e si affacciassero alle finestre. Allora vedemmo nella strada deserta una donna in lutto stretto con una ragazzina sui dodici anni che reggeva un mazzo di fiori appassiti avvolti in un giornale. Si proteggevano dal sole divampante con un ombrello nero, completamente estranee all’impertinenza della gente che le guardava passare. Erano la madre e la sorella minore del ladro morto, che gli portavano fiori sulla tomba.
Quello spettacolo mi inseguì per molti anni, come un sogno unanime che tutto il paese vide passare dalle finestre, finché non riuscii a esorcizzarlo in un racconto. Ma il fatto è che non presi coscienza del dramma della donna e della ragazzina, né della loro dignità imperturbabile, fino al giorno in cui andai con mia madre a vendere la casa e sorpresi me stesso che camminavo lungo la stessa strada solitaria e nella stessa ora mortale.
«Mi sento come se fossi io il ladro» dissi.
Mia madre non batté ciglio. Anzi, quando passammo davanti alla casa di María Consuegra non guardò neppure la porta su cui si notava ancora il rattoppo del legno sul foro della pallottola. Anni dopo, rammemorando con lei quel viaggio, constatai che si ricordava della tragedia, ma che avrebbe dato l’anima per dimenticarla. Questo fu ancora più evidente quando passammo davanti alla casa in cui aveva vissuto don Emilio, più noto come il Belga, un veterano della Prima guerra mondiale che aveva perso l’uso di tutt’e due le gambe in un campo minato della Normandia, e che una domenica di Pentecoste si era messo in salvo dai tormenti della memoria con un suffumigio di cianuro d’oro. Io non avevo più di sei anni, ma ricordo come se fosse stato ieri lo scompiglio causato dalla notizia alle sette del mattino. Fu così memorabile, che quando tornammo al paese per vendere la casa, mia madre finì per infrangere il suo mutismo dopo vent’anni.
«Il povero Belga» sospirò. «Come tu hai detto, non ha più ripreso a giocare a scacchi.»
Il nostro proposito era di andare dritti fino alla casa. Tuttavia, quando ne distavamo solo un isolato, mia madre si fermò d’improvviso e svoltò all’incrocio precedente.
«Meglio se passiamo di qui» mi disse. E dal momento che volli sapere il perché, mi rispose: «Perché ho paura».
Così seppi pure il motivo della mia nausea: era paura, e non solo di affrontare i fantasmi, ma paura di tutto. Sicché proseguimmo lungo una via parallela per fare un giro nell’unico intento di non passare davanti alla nostra casa. «Non avrei avuto il coraggio di vederla senza prima parlare con qualcuno» mi avrebbe poi detto mia madre. Così fu. Quasi trascinandomi dietro di sé, entrò senza avvisare nella farmacia del dottor Alfredo Barboza, una casa all’angolo a meno di cento passi dalla nostra. Adriana Berdugo, la moglie del dottore, stava cucendo così presa dalla sua primitiva Domestic a manovella, da non accorgersi che mia madre le era arrivata davanti e le aveva detto quasi in un sussurro:
«Comare.»
Adriana alzò lo sguardo rarefatto dalle spesse lenti da presbite, se le tolse, esitò un istante, e si levò d’un balzo con le braccia aperte e un gemito:
«Ah, comare.»
Mia madre era ormai dietro il banco, e senza dirsi altro si abbracciarono e piansero. Io rimasi a guardarle fuori dal banco, senza sapere cosa fare, rabbrividendo per la certezza che quel lungo abbraccio con lacrime silenziose era qualcosa di irreparabile che stava accadendo per sempre nella mia stessa vita.
Quella farmacia era stata la migliore ai tempi della compagnia bananiera, ma dell’antico barattolame rimaneva sugli armadi scarni solo qualche vaso di ceramica segnato con lettere dorate. La macchina da cucire, la bilancia, il caduceo, l’orologio a pendolo ancora vivo, l’attestato del giuramento ippocratico, le sedie a dondolo sgangherate, tutte le cose che avevo visto da bambino erano sempre le stesse ed erano al loro stesso posto, ma trasfigurate dalla ruggine del tempo.
La stessa Adriana era una vittima. Sebbene indossasse come una volta un vestito a grossi fiori tropicali, si coglieva a stento qualcosa degli slanci e della malizia che l’avevano resa celebre fino alla sua avanzata maturità. L’unica cosa intatta attorno a lei era l’odore della valeriana, che faceva impazzire i gatti, e che continuai a evocare per il resto della mia vita con una sensazione di naufragio.
Quando Adriana e mia madre furono rimaste senza lacrime, si sentì una tosse spessa e breve dietro il tramezzo di legno che ci separava dal retrobottega. Adriana riacquistò qualcosa della sua grazia di un’altra epoca e parlò per farsi sentire attraverso il tramezzo.
«Dottore» disse: «Indovina chi c’è qui».
Una voce granulosa da uomo duro domandò senza interesse dall’altra parte:
«Chi?»
Adriana non rispose, ma ci fece segno di passare nel retrobottega. Un terrore dell’infanzia mi paralizzò di colpo e la bocca mi si riempì di una saliva livida, ma entrai con mia madre nello spazio variegato che un tempo era il laboratorio della farmacia e che era stato adattato a camera da letto di emergenza. Lì c’era il dottor Alfredo Barboza, più vecchio di tutti gli uomini e di tutti gli animali vecchi della terra e dell’acqua, disteso supino nella sua eterna amaca di bella fibra, senza scarpe, e con il suo pigiama leggendario di cotone grezzo che assomigliava più che altro a una tunica da penitente. Aveva lo sguardo fisso sul soffitto, ma quando ci sentì entrare girò la testa e ci scrutò con i suoi diafani occhi gialli, finché non ebbe riconosciuto mia madre.
«Luisa Santiaga!» esclamò.
Si sedette sull’amaca con una fatica da mobile antico, si umanizzò del tutto e ci salutò con una stretta rapida della sua mano ardente. Lui notò la mia impressione, e mi disse: «Da un anno ho una febbre essenziale». Allora abbandonò l’amaca, si sedette sul letto e ci disse tutto d’un fiato:
«Voi non potete immaginare attraverso quali cose ha dovuto passare questo paese.»
Quella sola frase, che riassunse tutta una vita, bastò perché lo vedessi come forse era sempre stato: un uomo solitario e triste. Era alto, macilento, con una bella chioma metallica tagliata alla meno peggio e certi occhi gialli e intensi che erano stati il più temibile dei terrori della mia infanzia. Nel pomeriggio, quando tornavamo dalla scuola, ci issavamo sulla finestra della sua camera da letto attratti dal fascino della paura. Era lì, che si dondolava sull’amaca con forti scosse per non patire troppo il caldo. Il gioco consisteva nel guardarlo fisso finché lui non se ne accorgeva e si girava a guardarci d’improvviso con i suoi occhi ardenti.
L’avevo visto per la prima volta all’età di cinque o sei anni, un mattino in cui ero scivolato nel retrocortile della sua casa con altri compagni di scuola per rubare i manghi enormi dei suoi alberi. D’improvviso si era aperta la porta del gabinetto di assi costruito in un angolo del cortile, e lui ne era uscito abbottonandosi i calzoni di tela. L’avevo visto come un’apparizione dell’altro mondo, con un camicione bianco da ospedale, pallido e ossuto, e quegli occhi gialli come da cane dell’inferno che mi avevano guardato per sempre. Gli altri erano fuggiti attraverso le brecce, ma io ero rimasto pietrificato dal suo sguardo immobile. Aveva notato i manghi che io avevo appena strappato dall’albero e mi aveva teso la mano.
«Dammeli!» mi aveva ordinato guardandomi in tutta la sua altezza con un grande sprezzo: «Piccolo topo da cortile».
Avevo buttato i manghi ai suoi piedi ed ero scappato via impaurito.
Fu il mio fantasma personale. Se ero da solo facevo un lungo giro per non passare davanti a casa sua. Se ero con qualche adulto azzardavo appena uno sguardo furtivo verso la farmacia. Vedevo Adriana condannata all’ergastolo della macchina da cucire dietro il banco, e vedevo lui dalla finestra della camera da letto che si dondolava con grandi scosse sull’amaca, e quel solo sguardo mi faceva accapponare la pelle.
Era arrivato in paese all’inizio del secolo, fra gli innumerevoli venezuelani che riuscivano a sottrarsi attraverso la frontiera della Guajira al dispotismo feroce di Juan Vicente Gómez. Il dottore era stato uno dei primi a venire trascinato da due forze opposte: la ferocia del despota del suo paese e l’illusione della bonaccia bananiera nel nostro. Fin dal suo arrivo si era fatto notare per il suo occhio clinico – come si diceva allora – e per i bei modi della sua anima. Era stato uno degli amici più assidui della casa dei miei nonni, dove la tavola era sempre apparecchiata senza sapere chi sarebbe arrivato con il treno. Mia madre era stata madrina del suo figlio maggiore, e mio nonno gli aveva insegnato a volare con le sue prime ali. Ero cresciuto in mezzo a loro, così come avrei poi continuato a crescere in mezzo agli esiliati della guerra civile spagnola.
Le ultime tracce della paura che mi suscitava da bambino quel paria dimenticato svanirono in fretta, mentre mia madre e io, seduti accanto al suo letto, ascoltavamo i dettagli della tragedia che aveva prostrato la popolazione. Aveva un potere evocativo così intenso che ogni cosa da lui raccontata sembrava divenire visibile nella stanza rarefatta dal caldo. Com’è naturale, l’origine di tutte le disgrazie era stato il massacro dei braccianti da parte della forza pubblica, ma persistevano ancora dubbi sulla verità storica: tre morti o tremila? Forse non erano stati così tanti, disse lui, ma ognuno aumentava la cifra secondo il proprio dolore. Adesso la compagnia se n’era andata per non tornare mai più.
«I gringos non tornano mai» concluse.
L’unica cosa certa era che avevano portato via tutto; il denaro, le brezze di dicembre, il coltello del pane, il tuono delle tre del pomeriggio, l’aroma dei gelsomini, l’amore. Erano rimasti solo i mandorli polverosi, le strade riverberanti, le case di legno con il tetto di zinco arrugginito e gli abitanti taciturni, devastati dai ricordi.
La prima volta che quel pomeriggio il dottore mi badò fu quando mi vide sorpreso dal crepitio come una pioggia di gocce sparse sul tetto di zinco. «Sono gli avvoltoi» mi disse. «Tutto il giorno passano il tempo a girare per i tetti.» Poi segnalò con un indice languido la porta chiusa, e concluse:
«Di notte è peggio, perché si sentono i morti che vanno avanti e indietro per quelle strade.»
Ci invitò a pranzo e non c’erano inconvenienti, perché l’affare della casa aveva solo bisogno di essere formalizzato. Gli stessi inquilini erano gli acquirenti, e i particolari erano stati definiti per telegrafo. Avremmo avuto tempo?
«In abbondanza» disse Adriana. «Adesso non si sa neppure quando torna il treno.»
Sicché spartimmo con loro un pasto alla creola, la cui semplicità non aveva nulla a che vedere con la povertà ma con una dieta sobria che il dottore praticava e predicava non solo per la tavola ma anche per tutti i momenti della vita. Non appena assaggiata la minestra, ebbi la sensazione che tutto un mondo addormentato si risvegliasse nella mia memoria. Sapori che erano stati miei durante l’infanzia e che avevo perso da quando me n’ero andato dal paese, ricomparivano intatti a ogni cucchiaiata e mi rinserravano il cuore.
Fin dall’inizio della conversazione, davanti al dottore mi ero sentito della stessa età che avevo quando gli facevo scherzi dalla finestra, sicché mi intimidì allorché si rivolse a me con la serietà e l’affetto con cui parlava a mia madre. Da bambino, in situazioni difficili, cercavo di nascondere il mio smarrimento con un batter di ciglia rapido e continuo. Quel riflesso incontrollabile mi tornò d’improvviso quando il dottore mi guardò. Il caldo era divenuto insopportabile. Rimasi al margine della conversazione per un po’, domandandomi com’era possibile che quel vecchio affabile e nostalgico fosse stato il terrore della mia infanzia. D’improvviso, dopo una lunga pausa e sul filo di qualche accenno banale, mi guardò con un sorriso da nonno.
«Sicché tu sei il grande Gabito» mi disse. «Cosa studi?»
Nascosi lo smarrimento con un inventario spettrale dei miei studi: tutto il liceo e buoni voti in un collegio ufficiale, due anni e qualche mese caotici di Legge, giornalismo empirico. Mia madre mi ascoltò e subito dopo cercò l’appoggio del dottore.
«Si figuri, compare» disse «vuole diventare uno scrittore.»
Al dottore brillarono gli occhi.
«Che meraviglia, comare!» disse. «È un dono del cielo.» E si volse verso di me: «Poesia?».
«Romanzi e racconti» gli dissi, con l’anima appesa a un filo.
Lui si entusiasmò:
«Hai letto Donna Barbara?»
«Certo» gli risposi «e quasi tutti gli altri libri di Rómulo Gallegos.»
Come resuscitato da un entusiasmo repentino, ci raccontò che l’aveva conosciuto a una conferenza tenuta a Maracaibo, e che gli era sembrato un degno autore delle sue opere. Il fatto è che in quel momento, con la mia febbre a quaranta gradi per le saghe del Mississippi, cominciavo a vedere i limiti del romanzo vernacolo. Ma la comunicazione così facile e cordiale con l’uomo che era stato l’orrore della mia infanzia mi sembrava un miracolo, e preferii concordare con il suo entusiasmo. Gli parlai di “La Giraffa” – la mia rubrica quotidiana su «El Heraldo» – e gli passai l’anteprima che molto presto intendevamo pubblicare una rivista in cui riponevamo grandi speranze. Già più sicuro, gli raccontai il progetto e gli anticipai persino il nome: «Crónica».
Lui mi scrutò da capo a piedi.
«Non so come scrivi» mi disse «ma parli già come uno scrittore.»
Mia madre si affrettò a spiegare la verità. Nessuno si opponeva al fatto che io diventassi uno scrittore, sempre che seguissi una carriera accademica che rendesse sicuri i miei passi. Il dottore minimizzò tutto, e parlò della carriera dello scrittore. Anche lui avrebbe voluto diventarlo, ma i suoi genitori, con gli stessi argomenti di lei, l’avevano costretto a studiare medicina quando non erano riusciti a far sì che diventasse un militare.
«Guardi, comare» concluse. «Medico lo sono, ed eccomi qui, senza sapere quanti dei miei pazienti sono morti per volontà di Dio e quanti in seguito alle mie medicine.»
Mia madre si sentì smarrita.
«Il peggio» disse «è che ha smesso di studiare Legge dopo tanti sacrifici che abbiamo fatto per sostenerlo.»
Il dottore, al contrario, la ritenne una prova splendida di una vocazione travolgente: l’unica forza capace di contendere i suoi diritti all’amore. E in particolare la vocazione artistica, la più misteriosa di tutte, alla quale si consacra la vita intera senza aspettarsene nulla.
«È una cosa che si ha dentro fin dalla nascita e contrariarla è la cosa peggiore per la salute» disse lui. E terminò con un affascinante sorriso da massone irredimibile: «Proprio come la vocazione del prete».
Rimasi allucinato dal modo in cui aveva spiegato quello che io non ero mai riuscito a spiegare. Anche mia madre dovette pensarla così, perché mi contemplò con un silenzio lento, e si arrese alla sua sorte.
«Quale sarà il modo migliore per dire tutto questo a tuo papà?» mi domandò.
«Né più né meno come l’abbiamo appena sentito.»
«No, così non ci sarà un risultato» disse lei. E dopo un’altra riflessione, concluse: «Ma non preoccuparti, troverò un buon modo per dirglielo».
Non so se lo fece così, o in quale altro modo, ma lì ebbe fine il dibattito. L’orologio segnò l’ora con due rintocchi come due gocce di vetro. Mia madre sobbalzò. «Dio mio» disse. «Mi ero dimenticata del motivo per cui siamo venuti.» E si alzò in piedi.
«Dobbiamo andare.»
La prima vista della casa, sul marciapiede di fronte, aveva pochissimo a che vedere con il mio ricordo, e nulla con le mie nostalgie. Avevano tagliato alle radici i due mandorli tutelari che per anni erano stati un segno di identità inequivocabile e la casa era rimasta esposta alle intemperie. Quello che rimaneva sotto il sole di fuoco non aveva più di trenta metri di facciata: la metà di materiale e tetto di tegole che facevano pensare a una casa da bambole, e l’altra metà di assi non dirozzate. Mia madre bussò piano piano alla porta chiusa, poi più forte, e domandò dalla finestra:
«C’è qualcuno?»
La porta si socchiuse e una donna domandò dalla sua penombra:
«Cosa desidera?»
Mia madre rispose con un’autorità forse inconsapevole:
«Sono Luisa Márquez.»
Allora la porta si aprì definitivamente, e una donna vestita a lutto, ossuta e pallida, ci guardò da un’altra vita. In fondo alla sala, un uomo anziano si dondolava su una seggiola da invalido. Erano gli inquilini, che dopo molti anni avevano proposto di comprare la casa, ma né loro avevano l’aspetto di compratori né la casa era in condizioni da interessare a qualcuno. Secondo il telegramma che mia madre aveva ricevuto, gli inquilini accettavano di versare in contanti la metà del prezzo dietro una ricevuta firmata da lei, e avrebbero pagato il resto allorché fossero stati firmati i relativi documenti nel corso dell’anno, ma nessuno ricordava che fosse stata prevista una visita. Dopo una lunga conversazione fra sordi, l’unica cosa messa in chiaro fu che non c’era verso di accordarsi. Spossata dall’insensatezza e dal caldo infame, bagnata di sudore, mia madre diede uno sguardo intorno a sé, e le sfuggì un sospiro:
«Questa povera casa è allo stremo» disse.
«È peggio» disse l’uomo. «Se non ci è caduta addosso è grazie a tutto quello che abbiamo speso per tenerla in piedi.»
Avevano una lista di riparazioni da fare, a parte altre che avevano detratto dall’affitto, al punto che eravamo noi a essere i debitori. Mia madre, che fu sempre di lacrima facile, era pure capace di una fermezza temibile nell’affrontare i tranelli della vita. Discusse per bene, ma io non intervenni perché fin dal primo ostacolo avevo capito che avevano ragione i compratori. Nulla era stato messo in chiaro nel telegramma sulla data e sulle modalità della vendita, e invece se ne deduceva che la si sarebbe dovuta concedere. Era una situazione tipica della vocazione congetturale della famiglia. Potevo immaginare com’era stata presa la decisione, alla tavola del pranzo, e nello stesso istante in cui era arrivato il telegramma. Senza contare me, erano dieci fratelli con gli stessi diritti. Alla fine mia madre aveva preso qualche pesos qui e là, aveva fatto il suo bagaglio da scolara ed era partita senza altri mezzi che il biglietto di ritorno.
Mia madre e l’inquilina ripassarono di nuovo tutto fin dall’inizio, e in meno di mezz’ora eravamo arrivati alla conclusione che l’affare non sarebbe stato fatto. Fra gli altri motivi ineludibili, perché non ci eravamo ricordati di un’ipoteca che gravava sulla casa e che non sarebbe stata risolta fino a molti anni dopo, allorché venne infine fatta la vendita. Sicché quando l’inquilina cercò di ripetere un’ennesima volta lo stesso argomento, mia madre la interruppe bruscamente con i suoi modi inappellabili.
«La casa non si vende» disse. «Facciamo conto che qui siamo nati e che qui moriremo tutti.»
Il resto del pomeriggio, mentre arrivava il treno di ritorno, lo passammo mettendo insieme nostalgie nella casa spettrale. Era tutta nostra, ma rimaneva in funzione solo la parte affittata che dava sulla strada, dove c’erano stati gli uffici del nonno. Il resto era un involucro di tramezzi corrosi e tetti di zinco arrugginito alla mercé delle lucertole. Mia madre, pietrificata sulla soglia, esalò un’esclamazione perentoria:
«Questa non è la casa!»
Ma non disse quale, perché durante tutta la mia infanzia la descrivevano in così tanti modi che erano almeno tre case che cambiavano forma e senso, a seconda di chi ne raccontasse. Quella originale, come avevo sentito dire da mia nonna con il suo fare sprezzante, era una baracca per gli indios. La seconda, costruita dai nonni, era con muri di argilla e tetti di palma, con una saletta vasta e bene illuminata, una sala da pranzo a forma di terrazza con fiori dai colori allegri, due camere da letto, un cortile con un castagno gigantesco, un orto ben piantato e un recinto dove vivevano le capre in comunità pacifica con i maiali e le galline. Secondo la versione più frequente, questa venne ridotta in ceneri da un razzo caduto sul tetto di palma durante i festeggiamenti di un 20 luglio, giorno dell’Indipendenza di chissà quale anno di così tante guerre. L’unica cosa che ne rimase furono i pavimenti di cemento e il blocco di due stanze con una porta sulla strada, dove c’erano stati gli uffici nelle diverse occasioni in cui Papalelo era stato un funzionario pubblico.
Sulle macerie ancora calde la famiglia costruì la sua residenza definitiva. Una casa lineare di otto vani l’uno dopo l’altro, lungo una veranda con un parapetto di begonie dove si sedevano le donne della famiglia a ricamare sul tombolo e a chiacchierare nella frescura dell’imbrunire. Le stanze erano semplici e non si distinguevano fra loro, ma mi bastò uno sguardo per rendermi conto che in ognuno degli innumerevoli dettagli c’era un istante cruciale della mia vita.
Il primo vano fungeva da salotto per i visitatori e da ufficio personale del nonno. Aveva una scrivania con la tendina, una poltrona girevole a molle, un ventilatore elettrico e una libreria vuota con un solo libro enorme e slabbrato: il dizionario della lingua. Subito dopo c’era il laboratorio da orefice dove il nonno passava le sue ore migliori fabbricando i pesciolini d’oro dal corpo articolato e dai minuscoli occhi di smeraldo, che erano motivo di svago più che di guadagno. Lì erano stati accolti alcuni personaggi degni di nota, soprattutto politici, disoccupati pubblici, veterani delle guerre. Fra questi, in circostanze diverse, due visitatori storici: i generali Rafael Uribe Uribe e Benjamín Herrera, che avevano pranzato con la famiglia. Tuttavia, quello che mia nonna avrebbe ricordato di Uribe Uribe per il resto della sua vita fu la sua sobrietà a tavola: «Mangiava come un uccellino».
Lo spazio comune dell’ufficio e dell’oreficeria era proibito alle donne, secondo la nostra cultura caraibica, così come lo erano le osterie del paese per volere della legge.
Tuttavia, con il tempo finì per diventare una stanza da ospedale, dove morì la zia Petra e patì gli ultimi mesi di una lunga malattia Wenefrida Márquez, sorella di Papalelo. Di lì innanzi cominciava il paradiso ermetico delle molte donne residenti e occasionali che passarono per la casa durante la mia infanzia. Io fui l’unico maschio a godere dei privilegi di entrambi i mondi.
La sala da pranzo era solo un tratto allargato della veranda con il parapetto dove le donne della casa si sedevano a cucire, e aveva una tavola per sedici commensali previsti o inattesi che arrivavano quotidianamente con il treno di mezzogiorno. Mia madre contemplò di lì i vasi rotti delle begonie, la sodaglia vizza e il tronco del gelsomino corroso dalle formiche, e riprese fiato.
«Certe volte non riuscivamo a respirare per via dell’odore caldo dei gelsomini» disse, guardando il cielo accecante, e sospirò con tutta l’anima. «Però, quello che più mi è mancato da allora è il tuono delle tre del pomeriggio.»
Mi colpì, perché anch’io ricordavo l’esplosione unica che ci svegliava dalla siesta come un lancio di pietre, ma non ero mai stato consapevole che accadeva alle tre.
Dopo il corridoio c’era un salotto riservato alle occasioni speciali, perché i visitatori quotidiani venivano accolti con birra gelata nell’ufficio, se erano uomini, o sulla veranda delle begonie, se erano donne. Lì iniziava il mondo mitico delle camere da letto. Dapprima quella dei nonni, con una porta grande sul giardino, e un’incisione a fiori di legno con la data della costruzione: 1925. Lì, senza avvertenze, mia madre mi fece la sorpresa più inattesa con un’enfasi trionfale.
«E qui sei nato tu!»
Non lo sapevo fino ad allora, o l’avevo dimenticato, ma nella camera successiva trovammo la culla in cui avevo dormito fino ai quattro anni, e che mia nonna aveva conservato per sempre. L’avevo dimenticata, ma non appena la vidi ricordai me stesso che piangevo strillando con il pigiamino a fiorellini azzurri che indossavo per la prima volta, affinché qualcuno venisse a cambiarmi i pannolini pieni di cacca. A stento riuscivo a tenermi in piedi aggrappandomi ai sostegni della culla, piccola e fragile come il cestino di Mosé. Tutto questo è stato motivo frequente di discussione e burle di parenti e amici, cui la mia angoscia di quel giorno sembra troppo razionale per un’età così precoce. E più ancora quand’ho insistito che il motivo della mia ansia non era la ripugnanza per le mie stesse miserie, ma il timore di sporcarmi il pigiamino nuovo. Ossia, non si trattava di un pregiudizio igienico ma di una contrarietà estetica, e dal modo in cui era perduta nella mia memoria credo che sia stata la mia prima esperienza di scrittore.
In quella camera da letto c’era pure un altare con santi a grandezza umana, più realisti e tenebrosi di quelli della chiesa. Lì dormì sempre zia Francisca Simodosea Mejía, una cugina prima di mio nonno che chiamavamo zia Mama e che viveva nella casa da padrona e signora dopo che erano morti i suoi genitori. Io avevo dormito nell’amaca accanto, atterrito dallo scintillio degli occhi dei santi accesi dalla lampada del Santissimo che non venne spenta fino alla morte di tutti, e sempre lì aveva dormito mia madre da nubile, pure lei tormentata dal terrore dei santi.
In fondo al corridoio c’erano due camere che mi erano proibite. Nella prima viveva mia cugina Sara Emilia Márquez, una figlia di mio zio Juan de Dios, detto zio Juanito, prima del suo matrimonio, che venne allevata dai nonni. Oltre a una bellezza naturale fin da molto piccola, aveva una personalità forte che assecondò i miei primi appetiti letterari con una raccolta di racconti di Calleja, illustrati a colori, cui non mi permise mai l’accesso per timore che gliela sciupassi. Fu la mia prima e amara frustrazione di scrittore.
L’ultima camera era un deposito di masserizie e bauli messi in pensione, che avevano tenuto desta la mia curiosità per anni, ma che non mi avevano mai lasciato esplorare. Venni in seguito a sapere che lì c’erano pure i settanta vasi da notte comprati dai miei nonni quando mia madre aveva invitato le sue compagne di corso a passare le vacanze nella casa.
Davanti a questi due locali, nello stesso corridoio, c’era la cucina grande, con fornelli primitivi di pietre calcinate, e il grande forno della nonna, addetta alla panetteria e alla pasticceria, i cui animaletti di caramello saturavano l’alba con il loro aroma succulento. Era il regno delle donne che vivevano o servivano nella casa, e cantavano in coro con la nonna mentre l’aiutavano nei lavori molteplici. Un’altra voce era quella di Lorenzo il Magnifico, il pappagallo di cent’anni ereditato dai bisnonni, che gridava frasi contro la Spagna e cantava canzoni della guerra di Indipendenza. Era così orbo che era caduto dentro la pentola del sancocho1 e si era salvato per miracolo visto che l’acqua cominciava appena a riscaldarsi. Un 20 luglio, alle tre del pomeriggio, mise in subbuglio la casa con strilli di panico:
«Il toro, il toro! Attenzione che arriva il toro!»
Nella casa c’erano solo le donne, perché gli uomini erano andati alla corrida della festa nazionale, e avevano pensato che le grida del pappagallo non fossero altro che un delirio della sua demenza senile. Le donne della casa, che sapevano parlare con lui, riuscirono a capire cosa gridava solo quando un toro selvaggio fuggito dai recinti della piazza aveva fatto irruzione nella cucina con bramiti da battello e travolgendo alla cieca i mobili della panetteria e le pentole sui fuochi. Io camminavo in senso contrario rispetto alla folata di donne spaventate che mi presero in braccio e mi chiusero con loro nella stanza della dispensa. I bramiti del toro smarrito nella cucina e i balzi dei suoi zoccoli sul cemento del corridoio facevano rabbrividire la casa. D’improvviso si affacciò a uno spiraglio per la ventilazione e l’ansito di fuoco del suo respiro e i suoi grandi occhi iniettati mi raggelarono il sangue. Quando gli uomini della corrida riuscirono a riportarlo nel recinto, era già iniziata nella casa la gazzarra del dramma, che si sarebbe protratto per oltre una settimana con bricchi interminabili di caffè e torte da nozze per accompagnare il racconto mille volte ripetuto e sempre più eroico delle sopravvissute in scombuglio.
Il cortile non sembrava molto grande, ma aveva una varietà di alberi, un bagno generale senza tetto con una cisterna per l’acqua della pioggia e una piattaforma sopraelevata su cui si saliva mediante una fragile scala alta circa tre metri. Lì c’erano i due grossi recipienti che il nonno riempiva all’alba con una pompa a mano. Più oltre c’era la stalla di assi non dirozzate e gli alloggi di servizio, e infine il retrocortile enorme con alberi da frutta e la latrina unica dove le indie di servizio vuotavano di continuo i vasi da notte della casa. L’albero più frondoso e ospitale era un castagno al margine del mondo e del tempo, sotto le cui fronde arcaiche dovevano essere morti mentre pisciavano più di due colonnelli ritirati dalle tante guerre civili del secolo precedente.
La famiglia era arrivata ad Aracataca diciassette anni prima della mia nascita, quando iniziavano le baraonde della United Fruit Company per ottenere il monopolio delle banane. Portava con sé il figlio Juan de Dios, di ventun anni, e le due figlie, Margarita María Miniata di Alacoque, di diciannove, e Luisa Santiaga, mia madre, di cinque. Prima di lei avevano perso due gemelle per un aborto accidentale al quarto mese di gravidanza. Quando ebbe mia madre, la nonna annunciò che sarebbe stato il suo ultimo parto, perché aveva compiuto quarantadue anni. Quasi mezzo secolo dopo, alla stessa età e in circostanze identiche, mia madre disse la stessa cosa quando nacque Eligio Gabriel, il suo figlio numero undici.
Il trasferimento ad Aracataca era previsto dai nonni come un viaggio verso l’oblio. Portavano al loro seguito due indios guajiros – Alirio e Apolinar – e un’india – Meme – comprati nelle loro terre per cento pesos l’uno quando la schiavitù era ormai stata abolita. Il colonnello portava tutto il necessario per ricostruire il passato il più lontano possibile dai suoi brutti ricordi, incalzato dal rimorso sinistro di avere ucciso un uomo in un duello d’onore. Conosceva la regione fin da molto prima, quando vi era passato in campagna di guerra per andare a Ciénaga e aveva assistito nel suo ruolo di intendente generale alla firma del trattato di Neerlandia.
La nuova casa non restituì loro la quiete, perché il rimorso era così pernicioso che avrebbe contaminato ancora qualche trisnipote smarrito. Le rievocazioni più frequenti e intense, con cui avevamo messo insieme una versione ordinata, le faceva la nonna Mina, ormai cieca e mezzo lunatica. Solo allora venimmo a sapere che in mezzo alle voci implacabili della tragedia imminente, lei era stata l’unica a non avere notizia del duello finché non era stato consumato.
Il dramma accadde a Barrancas, un paese pacifico e prospero alle pendici della Sierra Nevada dove il colonnello aveva appreso da suo padre la lavorazione dell’oro, e dove era tornato per fermarsi quand’erano stati firmati i trattati di pace. L’avversario era un gigante di sedici anni più giovane, liberale fino al midollo, come lui, cattolico militante, agricoltore povero, sposato di recente e con due figli, e con un nome da uomo buono: Medardo Pacheco. La cosa più triste per il colonnello sarà stata che non si trattava di uno dei numerosi nemici senza volto che aveva incrociato sui campi di battaglia, ma di un antico amico, della sua stessa parte, suo soldato nella guerra dei Mille Giorni, che dovette affrontare all’ultimo sangue quando entrambi credevano di avere ormai ottenuto la pace.
Fu il primo caso della vita reale che mi turbò gli istinti di scrittore e non sono ancora riuscito a esorcizzarlo. Da quando ho avuto uso di ragione mi sono reso conto della vastità e del peso che quel dramma aveva nella nostra casa, ma i suoi particolari rimanevano fra le brume. Mia madre, di soli tre anni, se ne ricordò sempre come di un sogno improbabile. Gli adulti lo imbrogliavano davanti a me per confondermi, e non mi è mai stato possibile ricostruire l’enigma completo perché ognuno, da entrambe le parti, sistemava i pezzi a modo suo. La versione più affidabile era che la madre di Medardo Pacheco l’avesse istigato a vendicare il suo onore, offesa da un commento infame attribuito a mio nonno. Questi lo qualificò come una panzana e rese soddisfazione pubblica agli offesi, ma Medardo Pacheco perseverò nel rancore e finì per passare da offeso a offensore con un grave insulto al nonno sulla sua condotta di liberale. Non venni mai a sapere con sicurezza quale fu. Ferito nel suo onore, il colonnello lo sfidò a morte senza fissare una data.
Un esempio significativo dell’indole del nonno fu il tempo che lasciò passare tra la sfida e il duello. Sistemò i suoi affari con un riserbo assoluto per garantire la sicurezza della sua famiglia nell’unica alternativa che gli lasciava il destino: la morte o il carcere. Cominciò vendendo senza la minima fretta il poco che gli era rimasto per sopravvivere dopo l’ultima guerra: il laboratorio da orefice e una piccola tenuta ereditata dal padre, dove allevava capre da macello e coltivava un appezzamento a canna da zucchero. Di lì a sei mesi ripose in fondo a un armadio il denaro raccolto, e attese in silenzio il giorno che lui stesso si era segnato: il 12 ottobre 1908, anniversario della scoperta dell’America.
Medardo Pacheco risiedeva nei dintorni del paese, ma il nonno sapeva che quella sera non poteva mancare alla processione della Vergine del Pilar. Prima di uscire a cercarlo, scrisse alla moglie una lettera breve e tenera, in cui le diceva dov’era nascosto il denaro, e le impartì alcune istruzioni finali sull’avvenire dei figli. La lasciò sotto il guanciale comune, dove sua moglie l’avrebbe sicuramente trovata quando fosse andata a dormire, e senza fare addii uscì avviandosi verso la sua mala ora.
Anche le versioni meno credibili concordano sul fatto che era un lunedì tipico dell’ottobre caraibico, con una pioggia triste di nuvole basse e un vento funebre. Medardo Pacheco, vestito da domenica, era appena entrato in un vicolo cieco allorché il colonnello Márquez gli sbarrò il passo. Entrambi erano armati. Anni dopo, nelle sue divagazioni lunatiche, mia nonna soleva dire: «Dio diede a Nicolás l’occasione di risparmiare la vita a quel pover’uomo, ma lui non seppe approfittarne». Forse lo pensava perché il colonnello le disse che aveva visto un lampo d’angoscia negli occhi dell’avversario colto di sorpresa. Le disse pure che quando l’enorme corpo da ceiba crollò sopra i cespugli, emise un gemito senza parole, «come quello di un gattino bagnato». La tradizione orale attribuì a Papalelo una frase retorica nel momento in cui si consegnò al sindaco: «La pallottola dell’onore ha vinto la pallottola del potere». È una frase fedele allo stile liberale dell’epoca ma non sono riuscito a conciliarla con il carattere del nonno. Il fatto è che non ci furono testimoni. Una versione autorevole sarebbero state le testimonianze giudiziarie del nonno e dei suoi contemporanei di entrambe le parti, ma dello scartafaccio, se mai ce ne fu uno, non rimase neppure l’ombra. Fra le numerose versioni che ho sentito finora non ne ho trovate due che coincidessero.
Il fatto divise le famiglie del paese, inclusa quella del morto. Una parte di quest’ultima si propose di vendicarlo, mentre altri accolsero nelle loro case Tranquilina Iguarán con i suoi figli, finché non furono svaniti i rischi di una vendetta. Questi particolari mi impressionavano tanto durante l’infanzia che non solo mi addossai il peso della colpa ancestrale come se fosse stata mia, ma ancora oggi, mentre ne scrivo, sento più compassione per la famiglia del morto che per la mia.
Papalelo lo trasferirono a Riohacha per maggior sicurezza, e in seguito a Santa Marta, dove lo condannarono a un anno: la metà in carcere e l’altra metà agli arresti domiciliari. Non appena fu libero si recò con la famiglia per breve tempo nel paese di Ciénaga, poi a Panama, dove ebbe un’altra figlia con un amore casuale, e infine nell’insalubre e selvaggia zona di Aracataca, con l’impiego di esattore della Finanza distrettuale. Non girò mai più armato per le strade, neppure nei peggiori tempi della violenza bananiera, e si limitò a tenere la pistola sotto il guanciale per difendere la casa.
Aracataca era lontanissima dall’essere la gora di cui sognavano dopo l’incubo di Medardo Pacheco. Era nata come un casale di indios chimila ed entrò nella storia con il piede sinistro come una remota parte senza Dio né legge del comune di Ciénaga, più degradato che rimpinguato dalla febbre del banano. Il suo nome non è quello di un paese ma quello di un fiume, che si dice ara in lingua chimila, e Cataca, che è la parola con cui la comunità designava chi comandava. Per questo fra noi del posto non diciamo Aracataca, ma com’è giusto: Cataca.
Quando il nonno cercò di entusiasmare la famiglia con la fantasia che lì il denaro scorreva per le strade, Mina aveva detto: «I soldi sono la merda del diavolo». Per mia madre fu il regno di tutti i terrori. Il più antico che ricordava era la piaga delle cavallette che devastò i seminati quando lei era ancora molto piccola. «Le si sentiva passare come un vento di pietre» mi disse quando andammo a vendere la casa. La popolazione terrorizzata dovette trincerarsi nelle sue stanze, e il flagello poté essere debellato solo con arti magiche.
In qualsiasi momento ci coglievano di sorpresa certi uragani secchi che scoperchiavano le case e travolgevano i banani novelli e lasciavano il paese ricoperto da una polvere astrale. D’estate si accaniva contro il bestiame una siccità terribile, oppure d’inverno cadevano acquazzoni universali che lasciavano le vie trasformate in fiumi riottosi. Gli ingegneri gringos navigavano su imbarcazioni di gomma, in mezzo a materassi annegati e mucche morte. La United Fruit Company, i cui sistemi artificiali di irrigazione erano responsabili delle ubbie delle acque, fece deviare il letto del fiume quando il più grave di quei diluvi disseppellì i corpi del cimitero.
La più sinistra delle piaghe, però, era quella umana. Un treno che sembrava un giocattolo riversò sulle sue sabbie divampanti un frascame di avventurieri di tutto il mondo che a mano armata si presero il potere della strada. La loro prosperità stolta comportava una crescita demografica e un disordine sociale impazziti. La compagnia era a sole cinque leghe dalla colonia penale di Buenos Aires, sul fiume Fundación, i cui reclusi avevano l’abitudine di scappare durante i fine settimana per giocare al terrore ad Aracataca. A nulla assomigliavamo tanto come ai paesi emergenti dei film western, dopo che le baracche di palma e canna selvatica dei chimila cominciarono a essere sostituite dalle case di legno della United Fruit Company, con tetti di zinco a due spioventi, finestre con reticella metallica e tettoie adorne di rampicanti dai fiori polverosi. In mezzo a quella bufera di facce sconosciute, di tende nella via pubblica, di uomini che si cambiavano i vestiti per strada, di donne sedute sui bauli con gli ombrelli aperti, e di mule e mule abbandonate, morenti di fame nella stalla della locanda, noi, i primi, eravamo gli ultimi. Eravamo i forestieri di sempre, gli avventizi.
Le carneficine avevano luogo non solo in seguito alle risse del sabato. Una sera qualsiasi sentimmo gridare in strada e vedemmo passare un uomo senza testa montato su un asino. Era stato decapitato con un colpo di machete durante una resa dei conti nelle piantagioni di banane e la testa era stata trascinata via dalle correnti gelide del canale. Quella notte sentii mia nonna dare la spiegazione di sempre: «Una cosa tanto orribile può averla fatta solo un cachaco».
I cachacos erano gente dell’altopiano, li distinguevamo dal resto dell’umanità non solo per i loro modi languidi e il loro parlare cantilenante, ma anche per le loro arie da emissari della Divina Provvidenza. Quell’immagine finì per diventare così aborrita che dopo le repressioni feroci degli scioperi bananieri da parte dei militari dell’entroterra, gli uomini della truppa non li chiamavamo soldati bensì cachacos. Li consideravamo i beneficiari unici del potere politico, e molti di loro si comportavano come se lo fossero stati. Solo così si spiega l’orrore della “Notte nera di Aracataca”, una carneficina leggendaria dalle tracce così incerte nella memoria popolare che non c’è prova sicura del suo reale accadimento.
Era iniziata un sabato peggiore degli altri quando un uomo ammodo del posto la cui identità non è passata alla storia era entrato in un’osteria a chiedere un bicchiere d’acqua per un bambino che teneva per mano. Un forestiero che beveva da solo al banco aveva voluto costringere il bambino a bersi un sorso di rum invece dell’acqua. Il padre aveva tentato di impedirlo, ma il forestiero aveva insistito, finché il bambino, spaventato e senza volerlo, gli aveva rovesciato il bicchiere con la mano. Il forestiero, senza pensarci due volte, l’aveva ammazzato con uno sparo.
Fu un altro dei fantasmi della mia infanzia. Papalelo me lo ricordava spesso quando entravamo insieme a prendere una bibita nei bar, ma in una maniera così irreale che neppure lui sembrava crederci. Doveva essere accaduto poco dopo il suo arrivo ad Aracataca, perché mia madre se ne ricordava solo per lo spavento causato ai più vecchi. Dell’aggressore si era saputo unicamente che parlava con l’accento affettato degli andini, sicché le rappresaglie del paese non si scatenarono solo contro di lui, ma contro chiunque dei forestieri numerosi e aborriti che parlavano con il suo stesso accento. Squadre di gente del posto armata con machete per tagliare la canna da zucchero si riversarono nelle strade al buio, afferravano la sagoma invisibile che sorprendevano nelle tenebre e le ordinavano:
«Parli!»
Solo per l’accento lo facevano a pezzi con il machete, senza considerare l’impossibilità di essere giusti fra modi di parlare così diversi. Don Rafael Quintero Ortega, marito della zia Wenefrida Márquez, il più verace e amato dei cachacos, fu sul punto di festeggiare i suoi cent’anni di vita perché mio nonno lo rinchiuse in una dispensa finché non si furono acquietati gli animi.
La sventura familiare culminò due anni dopo l’arrivo ad Aracataca, con la morte di Margarita María Miniata, che era la luce della casa. Il suo dagherrotipo venne esposto per anni nel salotto, e il suo nome è passato da una generazione all’altra come l’ennesimo dei molti segni particolari della famiglia. Le generazioni recenti non sembrano commosse da quell’infanta con le sottane arricciate, gli stivaletti bianchi e una treccia lunga fino alla vita, che non faranno mai coincidere con l’immagine retorica di una bisnonna. Comunque, ho l’impressione che sotto il peso dei rimorsi e delle illusioni frustrate di un mondo migliore, quello stato di allarme perpetuo era per i miei nonni quanto più assomigliasse alla pace. Fino alla morte continuarono a sentirsi forestieri da qualsiasi parte.
Lo erano, a rigor di termini, ma tra le moltitudini del treno che ci arrivarono dal mondo era difficile fare distinzioni immediate. Con lo stesso impulso dei miei nonni e della loro prole erano arrivati i Furgusson, i Durán, i Beracaza, i Daconte, i Correa, in cerca di una vita migliore. Insieme alle valanghe ravvolte continuarono ad arrivare gli italiani, i canari, i siriani – che chiamavamo turchi – infiltrati dalle frontiere della Provincia in cerca di libertà e altri modi di vivere perduti nelle loro terre. Ce n’erano di ogni pelo e di ogni condizione. Alcuni erano profughi dell’Isola del Diavolo – la colonia penale francese nelle Guayane – perseguitati più per le loro idee che per crimini comuni. Uno di loro, René Belvenoit, era un giornalista francese condannato per motivi politici, che passò fuggiasco per la Zona bananiera e rivelò in un libro magistrale gli orrori della sua prigionia. Grazie a tutti loro – buoni e cattivi – Aracataca fu sin dalle sue origini un paese senza frontiere.
Ma la colonia indimenticabile per noi fu quella venezuelana, in una delle cui case si lavavano a secchiate d’acqua nei serbatoi glaciali dell’alba due studenti adolescenti in vacanza: Rómulo Betancourt e Raúl Leoni, che di lì a mezzo secolo sarebbero stati l’uno dopo l’altro presidenti del loro paese. Fra i venezuelani, la più vicina a noi fu la signora Juana de Freytes, una matrona briosa che aveva il dono biblico della narrazione. Il primo racconto vero e proprio di cui venni a conoscenza fu Genoveffa di Brabante, e lo sentii recitare da lei insieme ai capolavori della letteratura universale, che riduceva in racconti per bambini: l’Odissea, l’Orlando furioso, il Don Chisciotte, Il conte di Montecristo e molti episodi della Bibbia.
La casta del nonno era una delle più rispettabili ma anche la meno potente. Tuttavia si distingueva per una rispettabilità riconosciuta anche dai gerarchi locali della compagnia bananiera. Era quella dei veterani liberali delle guerre civili, che si erano fermati lì dopo gli ultimi due trattati, con il buon esempio del generale Benjamín Herrera, nella cui tenuta di Neerlandia si sentivano nel pomeriggio i valzer malinconici del suo clarinetto di pace.
Mia madre diventò donna in quel purgatorio e occupò lo spazio di tutti gli amori dopo che il tifo si fu portato via Margarita María Miniata. Pure lei era malaticcia. Era cresciuta in un’infanzia incerta di febbri terzane, ma quando ebbe sconfitto l’ultima si ritrovò, del tutto e per sempre, una salute che le permise di festeggiare i novantasette anni con undici figli suoi e quattro altri del marito, e con sessantacinque nipoti, ottantotto bisnipoti e quattordici trisnipoti. Senza contare quelli di cui non si era mai saputo nulla. È morta di morte naturale il 9 giugno 2002 alle otto e mezzo di sera, quando stavamo già preparandoci a festeggiare il suo primo secolo di vita e nello stesso giorno e quasi alla stessa ora in cui avevo messo il punto conclusivo a queste memorie.
Era nata a Barrancas il 25 luglio 1905, allorché la famiglia cominciava a riprendersi dal disastro delle guerre. Il primo nome glielo misero in memoria di Luisa Mejía Vidal, la madre del colonnello, che quel giorno faceva giusto un mese da quando era morta. Il secondo le toccò in sorte perché era il giorno dell’apostolo Santiago, san Giacomo il Maggiore, decapitato a Gerusalemme. Lei nascose questo nome per metà della sua vita, perché le sembrava mascolino e pomposo, finché un figlio sleale non la tradì in un romanzo.
Fu un’allieva diligente meno che alle lezioni di pianoforte, che la madre le impose perché non poteva immaginare una signorina ammodo che non fosse pure una pianista virtuosa. Luisa Santiaga lo studiò per obbedienza durante tre anni e lo abbandonò in un giorno per il tedio degli esercizi quotidiani nell’afa della siesta. Tuttavia, l’unica dote che le servì nel fiore dei vent’anni fu la forza del suo carattere, quando la famiglia scoprì che era travolta dall’amore per il giovane e altero telegrafista di Aracataca.
La storia di quegli amori contrastati fu un’altra delle meraviglie della mia gioventù. A forza di ascoltarla raccontata dai miei genitori, insieme o separatamente, me la ritrovai quasi completa quando scrissi Foglie morte, il mio primo libro, a ventisette anni, ma ero pure consapevole che dovevo ancora imparare molto sull’arte di scrivere romanzi. Entrambi erano narratori eccellenti, con la memoria felice dell’amore, ma finirono per appassionarsi tanto durante i loro racconti, che quando decisi di usarla in L’amore ai tempi del colera, a oltre cinquant’anni, non riuscii a distinguere i limiti fra la vita e la poesia.
Secondo la versione di mia madre si erano incontrati per la prima volta alla veglia funebre di un bambino che né lui né lei seppero precisarmi. Lei stava cantando nel cortile con le sue amiche, secondo la consuetudine popolare di animare con canzoni d’amore le nove notti degli innocenti. D’improvviso, una voce d’uomo si unì al coro. Tutte si girarono a guardarlo e rimasero perplesse davanti al suo bell’aspetto. «Ci sposeremo con lui» cantarono in coro battendo le mani. Mia madre non ne fu impressionata, e infatti disse: «A me era sembrato uno dei tanti forestieri». E lo era. Era appena arrivato da Cartagena de Indias dopo avere interrotto gli studi da medico e da farmacista per mancanza di denaro, e aveva intrapreso una vita un po’ banale in diversi paesi della regione con il nuovo mestiere di telegrafista. Una fotografia di quei giorni lo mostra con un’aria equivoca da giovanotto povero. Portava un abito di taffettà scuro con una giacca a quattro bottoni, molto stretta in ossequio alla moda dell’epoca, con il colletto rigido, la cravatta larga e una paglietta. Portava pure occhialini alla moda, rotondi e con una montatura sottile, e lenti naturali. Chi lo conobbe in quel periodo lo descriveva come un fannullone nottambulo e donnaiolo, che però non bevve mai un sorso di alcol né fumò mai una sigaretta in tutta la sua lunga vita.
Fu la prima volta in cui mia madre lo vide. Lui, invece, l’aveva vista alla messa delle otto della domenica precedente, vigilata dalla zia Francisca Simodosea che era la sua dama di compagnia da quando aveva lasciato il collegio. Le aveva riviste il martedì successivo, intente a cucire sotto i mandorli davanti a casa loro, sicché la sera della veglia funebre sapeva già che era la figlia del colonnello Nicolás Márquez, per il quale aveva diverse lettere di presentazione. Quanto a lei, venne a sapere fin d’allora che era scapolo e sempre innamorato, e che aveva un successo immediato per la loquela inesauribile, la versificazione facile, la grazia con cui ballava la musica alla moda e il sentimentalismo premeditato con cui suonava il violino. Mia madre mi raccontava che quando lo si sentiva all’alba non si poteva resistere alla voglia di piangere. Il suo biglietto da visita in società era stato Cuando el baile se acabó, un valzer di un romanticismo estenuante che lui aveva inserito nel suo repertorio e che divenne insostituibile nelle serenate. Questi salvacondotti cordiali, e la sua simpatia personale, gli valsero le porte aperte della casa e un posto frequente ai pranzi familiari. La zia Francisca, originaria del Carmen de Bolívar, lo adottò senza riserve quando venne a sapere che era nato a Sincé, un paese vicino al suo. Alle feste di società Luisa Santiaga si divertiva davanti alle sue furbizie da seduttore, ma non le passò mai per la mente che lui mirasse a qualcosa di più. Anzi, i loro buoni rapporti si basavano soprattutto sul fatto che lei gli serviva da schermo per i suoi amori segreti con una compagna di collegio, e aveva accettato di fargli da madrina alle nozze. Da allora lui la chiamava così e lei lo chiamava figlioccio. Così stando le cose, è facile immaginarsi quale fu la sorpresa di Luisa Santiaga durante una serata danzante allorché il telegrafista audace si tolse il fiore che portava all’occhiello del bavero, e le disse:
«Le offro la mia vita in questa rosa.»
Non fu un’improvvisazione, mi disse lui molte volte, perché dopo averle conosciute tutte era giunto alla conclusione che Luisa Santiaga era fatta per lui. Lei considerò la rosa come uno dei tanti scherzi galanti che era solito fare alle sue amiche. Al punto che andandosene se la dimenticò da qualche parte, e lui se ne accorse. Lei aveva avuto un solo pretendente segreto, poeta senza fortuna e buon amico, che non era mai riuscito a toccarle il cuore con i suoi versi ardenti. Tuttavia, la rosa di Gabriel Eligio le turbò il sonno con una furia inspiegabile. Nel corso della nostra prima conversazione seria sui suoi amori, ormai carica di figli, mi confessò: «Non riuscivo a addormentarmi per la rabbia di ritrovarmi a pensare a lui, ma a farmi arrabbiare era soprattutto che più mi arrabbiavo e più ci pensavo». Per il resto della settimana riuscì a non cedere al terrore di vederlo e al tormento di non poterlo vedere. Da madrina e figlioccio che erano stati passarono a trattarsi come sconosciuti. In uno di quei pomeriggi, mentre cucivano sotto i mandorli, la zia Francisca stuzzicò la nipote con la sua malizia india:
«Mi hanno detto che ti hanno regalato una rosa.»
Come al solito, Luisa Santiaga sarebbe stata l’ultima a rendersi conto che le tormente del suo cuore erano ormai di dominio pubblico. Durante le numerose conversazioni che ebbi con lei e con mio padre, concordarono che l’amore fulminante aveva goduto di tre circostanze decisive. La prima fu una domenica delle Palme alla messa grande. Lei era seduta in un banco con la zia Francisca, quando riconobbe i passi dei suoi tacchi flamenchi sulle mattonelle del pavimento, e lo vide passare così vicino che colse il sentore della sua lozione di fidanzato. La zia Francisca non sembrava averlo visto e neppure lui sembrò averle viste. Ma a dire il vero tutto era stato concertato da lui, che le aveva seguite quand’erano passate davanti all’ufficio del telegrafo. Rimase in piedi accanto alla colonna più vicina alla porta, sicché lui vedeva lei di spalle ma lei non poteva vederlo. Dopo qualche minuto intenso Luisa Santiaga non resistette all’ansia, e guardò verso la porta da sopra la spalla. Allora credette di morire di rabbia, perché lui la stava osservando, e i loro sguardi si incrociarono. «Era proprio quello che io avevo progettato» diceva mio padre, felice, quando mi ripeteva il racconto durante la sua vecchiaia. Mia madre, invece, non si stancò mai di ripetere che per tre giorni non era riuscita a dominare la furia di essere caduta nel tranello.
La seconda circostanza fu una lettera che lui le scrisse. Non quella che lei si sarebbe aspettata da un poeta e violinista avvezzo ad albe furtive, bensì un biglietto imperioso, che esigeva una risposta prima che lui partisse per Santa Marta la settimana dopo. Lei non gli rispose. Si rinchiuse nella sua camera, decisa a uccidere il tarlo che non le concedeva tregua nel vivere, finché la zia Francisca non cercò di convincerla a capitolare prima che fosse troppo tardi. Cercando di vincere la sua resistenza le raccontò la storia esemplare di Juventino Trillo, il pretendente che montava di guardia sotto il balcone della sua innamorata impossibile, ogni sera, dalle sette fino alle dieci. Lei l’aveva aggredito con tutti gli sgarbi possibili, finendo per versargli addosso dal balcone, una sera dopo l’altra, un vaso da notte pieno di orina. Ma non era riuscita a metterlo in fuga. Dopo ogni genere di aggressioni battesimali – commossa dall’abnegazione di quell’amore indomabile – si era sposata con lui. La storia dei miei genitori non raggiunse tali estremi.
La terza circostanza dell’assedio fu un matrimonio in pompa magna, cui vennero invitati entrambi come padrini d’onore. Luisa Santiaga non trovò un pretesto per mancare a un impegno così importante per la famiglia. Ma Gabriel Eligio aveva pensato la stessa cosa e si recò alla festa pronto a tutto. Lei non riuscì a dominare il suo cuore quando lo vide attraversare la sala con una determinazione troppo ostentata e la invitò a ballare il primo pezzo. «Il sangue mi pulsava in corpo così forte che non capii più se era per la rabbia o per la paura» mi disse lei. Lui se ne rese conto e le assestò un’artigliata brutale: «Non ha più bisogno di dirmi di sì, perché il suo cuore me lo sta già dicendo».
Lei, senza pensarci due volte, lo piantò in asso in mezzo alla sala. Ma mio padre la prese a modo suo.
«Ne fui felice» mi disse.
Luisa Santiaga non riuscì a resistere al rancore che provava nei confronti di se stessa quando all’alba la svegliarono le smancerie del valzer avvelenato: Cuando el baile se acabó. Il giorno dopo molto presto restituì a Gabriel Eligio tutti i regali. In seguito a questo sgarbo immeritato, e ai pettegolezzi sulla scenata alle nozze, non c’era più possibilità di marcia indietro. Tutti diedero per scontato che era la fine senza gloria di una tempesta estiva. L’impressione si rinvigorì perché Luisa Santiaga ebbe una ricaduta nelle febbri terzane dell’infanzia, e la madre la portò a cambiare aria nel villaggio di Manaure, una discosta località paradisiaca alle pendici della Sierra Nevada. Entrambi negarono sempre di essere in qualche modo rimasti in contatto durante quei mesi, ma non è molto credibile, perché quando lei si fu ripresa dai suoi mali e tornò, si vedeva che entrambi si erano ripresi anche dalle loro diffidenze. Mio padre diceva che andò ad aspettarla alla stazione perché aveva letto il telegramma con cui Mina aveva annunciato il ritorno a casa, e nel modo in cui Luisa Santiaga gli strinse la mano per salutarlo colse come un segno massonico che lui interpretò alla stregua di un messaggio d’amore. Lei lo negò sempre con il pudore e il rossore con cui rievocava quegli anni. Ma il fatto è che a partire da allora li si vide insieme con meno reticenze. Mancava solo il finale che inserì la zia Francisca la settimana successiva mentre cucivano sulla veranda delle begonie:
«Mina lo sa già.»
Luisa Santiaga disse sempre che fu l’opposizione della famiglia a infrangere gli argini del torrente che, represso, aveva dentro il cuore fin dalla sera in cui aveva piantato in asso il pretendente nel bel mezzo del ballo. Fu una guerra accanita. Il colonnello cercò di tenersene ai margini, ma non gli fu possibile sottrarsi alla colpa che Mina gli rinfacciò quando si rese conto che neppure lui era innocente come asseriva. A tutti sembrava chiaro che l’intolleranza non era dalla parte di lui ma da quella di lei, mentre in realtà era inscritta nel codice della tribù, per la quale ogni fidanzato era un intruso. Questo pregiudizio atavico, i cui residui perdurano, ha fatto di noi una combriccola di donne nubili e di uomini sbracati con numerosi figli sparsi in giro.
Gli amici si divisero secondo l’età, a favore degli innamorati o contro, e a quanti non avevano assunto una posizione radicale la imposero i fatti. I giovani divennero complici giubilanti. Soprattutto di lui, che si godette a sazietà il suo ruolo di vittima propiziatrice dei pregiudizi sociali. La maggioranza degli adulti, invece, vedeva in Luisa Santiaga l’ornamento più prezioso di una famiglia ricca e potente, che un telegrafista avventizio voleva non per amore ma per interesse. Lei stessa, che era stata obbediente e sottomessa, fece fronte ai suoi oppositori con una ferocia da vera leonessa. Durante la più acida delle sue molte liti domestiche, Mina perse le staffe e alzò contro la figlia il coltello per il pane. Luisa Santiaga l’affrontò impavida. D’improvviso consapevole dello slancio criminale della sua collera, Mina abbandonò il coltello e gridò spaventata: «Dio mio!». E mise la mano fra le braci del focolare a mo’ di penitenza brutale.
Fra gli argomenti di rilievo contro Gabriel Eligio c’era la sua condizione di figlio naturale di una donna nubile che l’aveva avuto alla precoce età di quattordici anni, in seguito a uno scivolone casuale con un maestro di scuola. Si chiamava Argemira García Paternina, una bianca snella dallo spirito libero, che aveva altri cinque figli e due figlie di tre padri diversi con cui non si era mai sposata né aveva mai convissuto sotto lo stesso tetto. Viveva nel villaggio di Sincé, dov’era nata, e stava allevando la sua prole con le unghie e con un animo indipendente e allegro che noi nipoti avremmo voluto avere. Gabriel Eligio era un esemplare illustre di quella stirpe scostumata. Fin dai diciassette anni aveva avuto cinque amanti vergini, secondo quanto rivelò a mia madre a titolo di atto di dolore durante la loro notte di nozze a bordo della venturosa goletta di Riohacha sferzata dalla tempesta. Le confessò che con una di loro, quando faceva il telegrafista nel villaggio di Achí a diciott’anni, aveva avuto un figlio, Abelardo, che stava per compierne tre. Con un’altra, quando faceva il telegrafista ad Ayapel, a vent’anni, aveva una figlia di pochi mesi che non conosceva e che si chiamava Carmen Rosa. Alla madre di quest’ultima aveva promesso di tornare per sposarla, e lui riteneva l’impegno sempre valido quando la sua vita aveva mutato direzione per via dell’amore di Luisa Santiaga. Il maggiore l’aveva riconosciuto davanti al notaio, e in seguito avrebbe fatto così pure con la figlia, ma erano solo formalità bizantine senza conseguenza agli occhi della legge. È sorprendente che quella condotta irregolare avesse potuto suscitare inquietudini morali al colonnello Márquez, che oltre ai suoi tre figli ufficiali ne aveva avuti altri nove da madri diverse, prima e dopo il matrimonio, e tutti venivano accolti dalla moglie come se fossero stati suoi.
Non mi è possibile indicare quando ebbi le prime notizie su questi fatti, ma comunque le trasgressioni degli antenati non mi importavano affatto. Invece, i nomi della famiglia destavano la mia attenzione perché mi sembravano unici. Dapprima quelli della linea materna: Tranquilina, Wenefrida, Francisca Simodosea. Poi, quello della mia nonna paterna: Argemira, e quelli dei suoi genitori: Aminadab García e Lozana Paternina. Di lì mi viene forse la salda convinzione che i personaggi dei miei romanzi non camminano con i loro piedi finché non hanno un nome che si identifichi con il loro carattere.
Gli argomenti contro Gabriel Eligio si aggravavano perché era un membro attivo del Partito conservatore, contro il quale aveva mosso le sue guerre il colonnello Nicolás Márquez. La pace era stata fatta solo a metà dopo la firma dei patti di Neerlandia e di Wisconsin, perché il centralismo primiparo era sempre al potere e doveva passare ancora molto tempo prima che conservatori e liberali smettessero di mostrarsi i denti. Forse il conservatorismo del pretendente veniva da un contagio familiare e non da una convinzione dottrinale, ma l’avevano preso in maggior considerazione di altri segni del suo buon carattere, come la sua intelligenza sempre all’erta e la sua rettitudine indomita.
Papà era un uomo difficile da capire e da soddisfare. Fu sempre molto più povero di quanto non sembrasse e considerò la povertà come un suo nemico abominevole cui non si rassegnò mai né riuscì a sconfiggere. Con lo stesso coraggio e la stessa dignità sopportò l’opposizione nei confronti dei suoi amori con Luisa Santiaga, nel retro dell’ufficio del telegrafo di Aracataca, dove tenne sempre appesa un’amaca per dormire da solo. Tuttavia, lì accanto aveva pure una branda da scapolo con le molle ben oliate per quello che poteva riserbargli la notte. In un periodo ebbi una certa tentazione per le sue consuetudini da cacciatore furtivo, ma la vita mi insegnò che è la forma più arida della solitudine, e sentii una grande compassione per lui.
Fino a poco prima della sua morte lo sentii raccontare che in uno di quei giorni difficili dovette andare con alcuni amici a casa del colonnello, e tutti furono invitati a sedersi, meno lui. La famiglia di lei lo respinse sempre e attribuì la cosa a un residuo del risentimento di mio padre, o almeno a un falso ricordo, ma una volta a mia nonna sfuggì nel farneticare canterino dei suoi quasi cent’anni, che non sembravano rievocati ma rivissuti.
«Ecco lì quel pover’uomo in piedi sulla soglia del salotto e Nicolás non l’ha invitato a sedersi» disse, davvero addolorata.
Sempre attento alle sue rivelazioni abbaglianti, le domandai chi era quell’uomo, e lei mi rispose seccamente:
«García, quello del violino.»
In mezzo a tanti spropositi, la cosa meno simile al modo d’essere di mio padre fu che comprò una pistola per ogni evenienza, essendo alle prese con un guerriero a riposo come il colonnello Márquez. Era una venerabile Smith & Wesson .38, a canna lunga, con chissà quanti proprietari precedenti e responsabile di chissà quanti morti. L’unica certezza è che non se ne servì mai né per precauzione né per curiosità. Noi, suoi figli maggiori, la trovammo anni dopo con le sue cinque pallottole originali in un armadio per gli arnesi inutili insieme al violino delle serenate.
Né Gabriel Eligio né Luisa Santiaga cedettero dinanzi al rigore della famiglia. All’inizio potevano incontrarsi di nascosto in casa di amici, ma quando il cerchio si chiuse definitivamente intorno a lei, l’unico contatto furono le lettere ricevute e inviate attraverso condotti ingegnosi. Si vedevano da lontano quando a lei non permettevano di recarsi a feste alle quali lui fosse invitato. Ma la repressione divenne a poco a poco così severa, che nessuno osò sfidare le ire di Tranquilina Iguarán, e gli innamorati scomparvero dalla vista del pubblico. Quando non fu rimasto neppure uno spiraglio per le lettere furtive, i fidanzati inventarono espedienti da naufraghi. Lei riuscì a nascondere un biglietto di auguri in una torta che qualcuno aveva ordinato per il compleanno di Gabriel Eligio, e questi non trascurò occasione per inviarle telegrammi falsi e innocui con il vero messaggio cifrato o scritto con inchiostro simpatico. La complicità della zia Francisca divenne allora così evidente, malgrado i suoi dinieghi perentori, che danneggiò la sua autorità nella casa, e le permisero di stare con la nipote solo mentre cuciva all’ombra dei mandorli. Allora Gabriel Eligio mandava messaggi d’amore dalla finestra del dottor Alfredo Barboza, sul marciapiede di fronte, con il telegrafo manuale dei sordomuti. Lei lo imparò così bene che durante le negligenze della zia intratteneva conversazioni intime con il fidanzato. Era solo uno dei numerosi trucchi inventati da Adriana Berdugo, la moglie del dottor Barboza, comare di Luisa Santiaga e sua complice inventiva e audace.
Quei maneggi consolatori sarebbero bastati loro per sopravvivere a fuoco lento, fin quando Gabriel Eligio non ricevette una lettera allarmante di Luisa Santiaga, che lo costrinse a una riflessione definitiva. L’aveva scritta di gran fretta sulla carta del gabinetto, con la brutta notizia che i genitori avevano deciso di portarla insieme a loro a Barrancas passando da un paese all’altro, così sottoponendola a una cura da cavalli per il suo mal d’amore. Non sarebbe stato il solito viaggio di una nottataccia sulla goletta di Riohacha, bensì quello lungo la strada orribile alle pendici della Sierra Nevada su mule e carrette, attraverso la vasta provincia di Padilla.
«Avrei preferito morire» mi disse mia madre il giorno in cui andammo a vendere la casa. E ci aveva provato davvero, chiusa con il paletto in camera sua, a pane e acqua per tre giorni, finché non si impadronì di lei il terrore riverenziale che nutriva per il padre. Gabriel Eligio si rese conto che la tensione era arrivata agli estremi, e prese una decisione pure questa estrema ma realizzabile. Attraversò la strada a lunghi passi dalla casa del dottor Barboza fino all’ombra dei mandorli e si piazzò davanti alle due donne che lo aspettavano atterrite con il lavoro in grembo.
«Mi faccia il favore di lasciarmi solo per un momento con la signorina» disse alla zia Francisca. «Ho qualcosa di importante da dire solo a lei.»
«Sfacciato!» gli rispose la zia. «Non c’è nulla che riguardi lei e che io non possa sentire.»
«Allora non glielo dico» disse lui «ma l’avverto che lei sarà responsabile di qualsiasi cosa accada.»
Luisa Santiaga supplicò la zia che li lasciasse soli, e si addossò il rischio. Allora Gabriel Eligio le disse che accettava che lei facesse il viaggio con i suoi genitori, nel modo e per il tempo che si fosse ritenuto opportuno, ma a patto che gli promettesse con giuramento solenne che si sarebbe sposata con lui. Lei lo fece, compiaciuta, e aggiunse a suo rischio e pericolo che solo la morte avrebbe potuto impedirglielo.
Entrambi disposero di quasi un anno per dimostrare la serietà delle loro promesse, ma né l’uno né l’altra si immaginava quanto avrebbero dovuto pagare. La prima parte del viaggio con una carovana di mulattieri durò due settimane a dorso di mulo lungo i cornicioni della Sierra Nevada. Con loro c’era Chon – diminutivo affettuoso di Encarnación – la domestica di Wenefrida che si era unita alla famiglia dopo la partenza da Barrancas. Il colonnello conosceva benissimo quella strada irta, dove aveva lasciato una scia di figli nelle notti disparse delle sue guerre, ma la moglie l’aveva preferita senza conoscerla per via dei brutti ricordi della goletta. Per mia madre, che inoltre montava una mula per la prima volta, fu un incubo di soli nudi e acquazzoni feroci, con l’anima sospesa a un filo per via dei vapori soporiferi dei precipizi. Pensare a un fidanzato incerto, con i suoi vestiti da mezza sera e il violino da alba, sembrava uno scherzo dell’immaginazione. Il quarto giorno, incapace di sopravvivere, minacciò la madre di buttarsi nel crepaccio se non tornavano a casa. Mina, più spaventata di lei, prese la decisione. Ma il capo della cordata le dimostrò sulla mappa che tornare o proseguire era lo stesso. Il sollievo le colse di lì a undici giorni, quando scorsero dall’ultimo cornicione la pianura radiosa di Valledupar.
Prima che fosse consumata la prima tappa, Gabriel Eligio si era assicurato una comunicazione permanente con la fidanzata errante, grazie alla complicità dei telegrafisti dei sette paesi in cui lei e sua madre dovevano fermarsi prima di arrivare a Barrancas. Anche Luisa Santiaga fece la sua parte. Tutta la provincia era satura di Iguarán e di Cotes, la cui coscienza di casta aveva il potere di un viluppo impenetrabile, e lei riuscì a mettersela dalla sua parte. Questo le permise di intrattenere una corrispondenza febbrile con Gabriel Eligio da Valledupar, dove si fermò tre mesi, fino al termine del viaggio, quasi un anno dopo. Le bastava passare per l’ufficio del telegrafo di ogni paese, con la complicità di una parentela giovane ed entusiasta, per ricevere e rispondere ai messaggi. Chon, la silenziosa, ebbe un ruolo inestimabile, perché portava messaggi nascosti fra i suoi stracci senza inquietare Luisa Santiaga né ferirne il pudore, dal momento che non sapeva leggere né scrivere e sapeva farsi uccidere per un segreto.
Quasi sessant’anni dopo, mentre cercavo di ricostruire questi episodi in L’amore ai tempi del colera, domandai a mio padre se nel gergo dei telegrafisti esisteva una parola specifica per l’atto di allacciare un ufficio con un altro. Lui non dovette pensarci due volte: incavicchiare. La parola è presente nei dizionari, non per l’uso specifico che mi occorreva, ma mi sembrò perfetta per i miei dubbi, in quanto la comunicazione con i diversi uffici veniva assicurata mediante la connessione di un cavicchio in un pannello di terminali telegrafici. Non ne parlai mai con mio padre. Tuttavia, poco prima della sua morte gli domandarono durante un’intervista se lui avesse voluto scrivere un romanzo, e rispose di sì, ma che aveva desistito quando gli avevo rivolto la domanda sul verbo incavicchiare perché in quel momento aveva scoperto che il romanzo che io stavo scrivendo era lo stesso che pensava di scrivere lui.
In quella circostanza ricordò pure un dato occulto che avrebbe potuto far cambiare la direzione delle nostre vite. E fu che a sei mesi di viaggio, quando mia madre si trovava a San Juan del César, arrivò a Gabriel Eligio la soffiata confidenziale che Mina era stata incaricata di preparare il ritorno definitivo della famiglia a Barrancas, una volta cicatrizzati i rancori per la morte di Medardo Pacheco. Gli sembrò assurdo, quando i brutti tempi erano rimasti alle spalle e l’impero assoluto della compagnia bananiera cominciava ad assomigliare al sogno della terra promessa. Ma era pure ragionevole che la testardaggine dei Márquez Iguarán li portasse a sacrificare la loro stessa felicità pur di liberare la figlia dagli artigli dello sparviero. La decisione immediata di Gabriel Eligio fu di chiedere il suo trasferimento all’ufficio del telegrafo di Riohacha, a una ventina di leghe da Barrancas. Non era possibile ma gli promisero di tenere presente la richiesta.
Luisa Santiaga non riuscì a capire le idee segrete della madre, ma non osò neppure negarle, perché aveva destato la sua attenzione il fatto che quanto più si avvicinavano a Barrancas e tanto più sospirosa e serena le sembrava. Neppure Chon, confidente di tutti, le fornì qualche pista. Per fare un po’ di chiarezza, Luisa Santiaga disse alla madre che le sarebbe piaciuto molto fermarsi a vivere a Barrancas. La madre ebbe un istante di esitanza ma non si azzardò a dire nulla, e alla figlia rimase l’impressione di essere passata vicinissima al segreto. Inquieta, si abbandonò all’azzardo delle carte con una zingara di strada che non le fornì indizi sul suo futuro a Barrancas. Ma le annunciò, invece, che non ci sarebbero stati ostacoli quanto a una vita lunga e felice con un uomo remoto che conosceva appena ma che l’avrebbe amata fino alla morte. La descrizione che fece di lui le restituì l’anima al corpo, perché gli trovò tratti comuni con il suo fidanzato, soprattutto nel modo d’essere. Infine le predisse senza un’ombra di dubbio che avrebbe avuto sei figli con lui. «Morii di spavento» disse mia madre la prima volta che me lo raccontò, senza neppure immaginarsi che il numero reale dei suoi figli sarebbe stato quasi il doppio. Entrambi considerarono la predizione con tanto entusiasmo, che la corrispondenza telegrafica smise allora di essere un concerto di intenzioni illusorie, e divenne metodica e pratica, e più intensa che mai. Fissarono date, stabilirono modalità, e impegnarono le loro vite nella risoluzione comune di sposarsi senza consultare nessuno, ovunque e comunque, quando si fossero ritrovati.
Luisa Santiaga fu così fedele all’impegno, che nel villaggio di Fonseca non le sembrò opportuno partecipare a un ballo di gala senza il consenso del fidanzato. Gabriel Eligio si trovava nell’amaca a sudare una febbre di quaranta gradi quando risuonò il segnale di un appuntamento telegrafico urgente. Era il telegrafista di Fonseca. Per sua completa sicurezza, lei domandò chi stesse battendo sul tasto al termine della catena. Più attonito che lusingato, il fidanzato trasmise una frase di identificazione: “Le dica che sono il suo figlioccio”. Mia madre riconobbe la parola d’ordine, e rimase al ballo fino alle sette del mattino, allorché dovette cambiarsi d’abito di gran corsa per non arrivare tardi a messa.
A Barrancas non trovarono la minima traccia di rancore nei confronti della famiglia. Al contrario, tra i parenti di Medardo Pacheco prevaleva una disposizione cristiana al perdono e all’oblio diciassette anni dopo la disgrazia. L’accoglienza del parentado si rivelò così calorosa che allora fu Luisa Santiaga a pensare alla possibilità che la famiglia facesse ritorno in quella gora della sierra così diversa dal caldo e dalla polvere, come pure dai sabati sanguinosi e dai fantasmi decapitati di Aracataca. Si spinse fino a suggerirlo a Gabriel Eligio, sempre che questi ottenesse il suo trasferimento a Riohacha, e lui fu d’accordo. In quei giorni, però, si venne infine a sapere non solo che la versione del trasferimento era carente di ogni realtà ma pure che nessuno la voleva meno di Mina. Così venne messo in chiaro in una lettera di risposta che lei mandò a suo figlio Juan de Dios, allorché questi le scrisse temendo che tornassero a Barrancas quando non erano ancora trascorsi vent’anni dalla morte di Medardo Pacheco. Fu sempre così convinto del fatalismo della legge guajira, che si oppose al figlio Eduardo che voleva prestare il servizio di medicina sociale a Barrancas mezzo secolo dopo.
Al di là di ogni timore, fu lì che in tre giorni si sciolsero tutti i nodi della situazione. Lo stesso martedì in cui Luisa Santiaga confermò a Gabriel Eligio che Mina non intendeva trasferirsi a Barrancas, a lui annunciarono che, per morte improvvisa del titolare, l’ufficio del telegrafo di Riohacha era a sua disposizione. Il giorno dopo, Mina vuotò i cassetti della dispensa cercando certe forbici per trinciare la carne, e senza che ce ne fosse bisogno scoperchiò la scatola di gallette inglesi in cui la figlia nascondeva i suoi telegrammi d’amore. Fu tanta la sua rabbia che riuscì a dirle solo uno degli improperi celebri che era solita improvvisare nei suoi momenti critici: «Dio perdona tutto meno la disobbedienza». Quel fine settimana si recarono a Riohacha perché la domenica intendevano prendere la goletta di Santa Marta. Nessuna delle due fu consapevole della notte terribile sferzata dalla buriana di febbraio: la madre annichilita dalla sconfitta, e la figlia spaventata ma felice.
La terra ferma restituì a Mina la padronanza di sé perduta con la scoperta delle lettere. Proseguì da sola per Aracataca il giorno dopo con il treno locale delle sette, e lasciò Luisa Santiaga a Santa Marta in custodia a suo figlio Juan de Dios, sicura di metterla in salvo dai diavoli dell’amore. Fu tutto il contrario: Gabriel Eligio era allora in viaggio da Aracataca per Santa Marta, risoluto a vederla ogni volta che fosse possibile. Lo zio Juan aveva deciso di non prendere partito, ancora scottato dalla sua dura esperienza, ma nel momento della verità si ritrovò catturato fra l’adorazione per la sorella e la venerazione per i genitori, e si rifugiò in una formula tipica della sua bontà proverbiale: concesse che i fidanzati si vedessero fuori casa sua, però mai da soli e senza che lui ne fosse informato. Dilia Caballero, sua moglie, che perdonava ma non dimenticava, ordì per la cognata le stesse casualità infallibili e i sotterfugi abilissimi con cui lei si era sottratta alla vigilanza dei suoi suoceri. Gabriel e Luisa cominciarono a vedersi in casa di amici, ma a poco a poco si arrischiarono in luoghi pubblici poco frequentati. Infine osarono chiacchierare alla finestra quando lo zio Juan non c’era, la fidanzata in salotto e il fidanzato in strada, fedeli all’impegno di non vedersi dentro la casa. La finestra sembrava fatta apposta per gli amori contrastati, attraverso un’inferriata andalusa a grandezza d’uomo e con una cornice di rampicanti, fra cui qualche volta non mancò una fragranza di gelsomini nel sopore della notte. Dilia aveva previsto ogni cosa, persino la complicità di alcuni vicini che tramite fischi cifrati avrebbero avvertito i fidanzati di un pericolo imminente. Tuttavia, una sera vennero meno tutte le cautele, e Juan de Dios si arrese alla verità. Dilia approfittò dell’occasione per invitare i fidanzati ad accomodarsi in salotto con le finestre aperte affinché spartissero il loro amore con il mondo. Mia madre non dimenticò mai il sospiro del fratello: «Che sollievo!».
In quei giorni Gabriel Eligio ricevette la nomina ufficiale all’ufficio del telegrafo di Riohacha. Temendo una nuova separazione, mia madre si appellò allora a monsignor Pedro Espejo, attuale vicario della diocesi, con la speranza che la sposasse senza il permesso dei genitori. La rispettabilità di monsignore aveva raggiunto una tale forza che molti fedeli la confondevano con la santità, e c’era chi assisteva alle sue messe solo per constatare se davvero si alzava di diversi centimetri sopra il livello del pavimento al momento dell’elevazione. Quando Luisa Santiaga sollecitò il suo aiuto, lui diede un’ennesima prova che la santità è uno dei privilegi dell’intelligenza. Rifiutò di intervenire all’interno di una famiglia così gelosa della sua intimità, ma optò per l’alternativa segreta di informarsi su quella di mio padre attraverso la curia. Il parroco di Sincé passò sopra le liberalità di Argemira García, e rispose con una formula benevola: “Si tratta di una famiglia rispettabile anche se poco devota”. Monsignore si intrattenne allora con i fidanzati, insieme e separatamente, e scrisse una lettera a Nicolás e Tranquilina in cui espresse la sua certezza emozionata che non c’era potere umano capace di sconfiggere quell’amore cocciuto. I miei nonni, vinti dal potere di Dio, accettarono di voltare la dolente pagina, e lasciarono a Juan de Dios pieni poteri per organizzare le nozze a Santa Marta. Ma non vi presero parte, limitandosi a inviare Francisca Simodosea come madrina.
Si sposarono l’11 giugno 1926 nella cattedrale di Santa Marta, con quaranta minuti di ritardo, perché la sposa aveva dimenticato la data e dovettero svegliarla quando le otto del mattino erano passate. Quella stessa sera salirono ancora una volta sulla goletta degli spaventi affinché Gabriel Eligio prendesse possesso dell’ufficio del telegrafo di Riohacha, e passarono la loro prima notte in castità sconfitti dal mal di mare.
Mia madre rimpiangeva tanto la casa in cui aveva passato la luna di miele, che noi, suoi figli più grandi, avremmo potuto descriverla stanza per stanza come se vi avessimo vissuto, e ancora oggi continua a essere uno dei miei falsi ricordi. Tuttavia, la prima volta che andai realmente alla penisola della Guajira, poco prima dei miei sessant’anni, mi stupì che la casa annessa all’ufficio del telegrafo non avesse nulla a che vedere con quella del mio ricordo. E la Riohacha idilliaca che fin da bambino portavo dentro il cuore, con le sue vie di salnitro che scendevano verso un mare di fango, erano solo sogni imprestati dai miei nonni. Anzi, adesso che conosco Riohacha, riesco a visualizzarla non così com’è, ma come l’avevo costruita pietra su pietra nella mia immaginazione.
Due mesi dopo le nozze, Juan de Dios ricevette un telegramma di mio padre in cui si annunciava che Luisa Santiaga era incinta. La notizia sconvolse sino alle fondamenta la casa di Aracataca, dove Mina non si era ancora ripresa dalla sua amarezza, e sia lei sia il colonnello deposero le armi affinché i novelli sposi tornassero da loro. Non fu facile. Dopo una resistenza dignitosa e ragionata di diversi mesi, Gabriel Eligio accettò che la moglie partorisse in casa dei genitori.
Poco dopo mio nonno lo accolse alla stazione ferroviaria con una frase che rimase incorniciata nell’oro dentro il libro della storia della famiglia. «Sono pronto a darle tutte le soddisfazioni che siano necessarie.» La nonna rinnovò la camera da letto che fino ad allora era stata sua, e lì installò i miei genitori. Nel corso dell’anno, Gabriel Eligio si dimise dal suo buon lavoro di telegrafista e consacrò il suo talento di autodidatta a una scienza in disgrazia: l’omeopatia. Il nonno, per gratitudine o per rimorso, intervenne presso le autorità e ottenne che la via in cui abitavamo ad Aracataca portasse il nome che porta ancora: Avenida Monseñor Espejo.
Fu così che nacque ad Aracataca il primo di sette maschi e quattro femmine, il 6 marzo 1927, sotto un acquazzone torrenziale fuori stagione, mentre il segno del Toro ascendeva nel cielo. Stava per essere strangolato dal cordone ombelicale, perché la mammana della famiglia, Santos Villero, aveva perso il dominio sulla sua arte nel momento peggiore. Ma più ancora lo perse la zia Francisca, che corse fino alla porta di strada cacciando urla da incendio:
«Maschio! Maschio!» E subito dopo, come suonando a martello: «Del rum, che sta soffocando!».
La famiglia ritiene che il rum non fosse per festeggiare ma per rianimare con frizioni il neonato. La signora Juana de Freytes, che fece la sua entrata provvidenziale nella camera da letto, mi raccontò più volte che il rischio più grave non era il cordone ombelicale, ma una brutta posizione di mia madre sul letto. Lei gliela corresse in tempo, ma non fu facile rianimarmi, sicché la zia Francisca mi versò l’acqua battesimale di emergenza. Avrei dovuto chiamarmi Olegario, che era il santo del giorno, ma nessuno aveva a portata di mano il libro dei santi, sicché mi misero d’urgenza il primo nome di mio padre seguito da quello di José, dal falegname san Giuseppe, che era patrono di Aracataca e perché si era nel suo mese di marzo. La signora Juana de Freytes propose un terzo nome in memoria della riconciliazione generale che c’era stata tra famiglie e amici con la mia venuta al mondo, ma nell’atto di battesimo ufficiale che mi fecero tre anni dopo dimenticarono di metterlo: Gabriel José de la Concordia.