ARGO IL CIECO
GesualdoBufalino
“ Gli amori non corrisposti, Dio ce ne liberi! Bestia chi dice che sono i più comodi. Uno rumina fiele, s'accanisce su fisime, su fantasime, parla a casaccio, diventa suscettibile ai bacilli più miti. E lode al cielo quando tutto non finisce con uno sproposito. Perché l'amore è uno strano augello, è un monello zingarello, che non si può, non si può “.
Recensione
Vale Flip
A 60 anni , ricordare fatti avvenuti 30 anni prima, in un anno in cui aveva pensato di vivere la gioventù, in cui aveva provato ad inseguire sogni, amori...è quello che fa Bufalino in questo libro.
Ambientato a Modica, racconta di incontri, percorsi, andarivieni di un uomo solitario e timido che cerca di vivere la sua giovinezza quando il tempo è ormai passato. La giovinezza, le donne, la possibilità d'amare...sfiorate con tutta la ritrosia, la delicatezza, il corredo di sogni e di disegni che essa comporta. L'autore ha un suo modo di entrare nelle situazioni e nelle relazioni , in punta di piedi, in un fiorire d'immagini che ce lo fanno apparire meno fosco di quanto non sia nelle sue abitudini. Non è sorridente, no, ma è più libero, arioso e con mano leggera conduce la sua lirica prosa. Mette insieme le parole come un mazzo di fiori, come l'arte di chi con i fiori compone ikebana.
Il tutto in una visione retrospettiva, quindi si tratta di un andare fra i ricordi ...e quando, alla fine, uno sguardo d'insieme avvolge e considera il tutto, allora la sua tristezza riappare.
ARGO IL CIECO
I. L'autore, per rallegrarsi la mente, ripensa antiche letizie e pene d'amor perdute in un paese che non c'è più.
Fui giovane e felice un'estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell'estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all'altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re.
Che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune.
Quella che amavo io era la più bruna.
Ballavo male, nel cinquantuno. Non che avessi ballato mai bene sin dal principio. Tuttavia coi tanghi figurati e le polche qualche confidenza me la pigliavo, sbagliavo solo le giravolte. Mentre ora che da entrambe le Americhe sbarcavano ogni giorno a decine i nuovi passi e nomi di danze, avevo voglia di esercitarmi davanti allo specchio della pensione, accompagnandomi sfiduciatamente col fischio, avevo voglia! Sulle piste, nelle sale, dovunque mi capitasse di aprire e chiudere a vanvera la forbice delle mie gambe, tutti i sorrisi e gli applausi d'agosto erano per un altro, Liborio Galfo, il virtuoso del bughivù.
Poco male, ero sui trent'anni, allora, uno più uno meno; e, per un motivo che so io, non avevo mai avuto vent'anni. Li ebbi allora all'impensata in regalo da quell'estate, dopotutto m'erano dovuti.
Ora io non permetterò a nessun sapientone di Francia di venirmi a dire che non si è felici a vent'anni, per tardivi e posticci che siano.
Anche se si ama, e non ci ama, una bruna dal viso d'uliva, dal corpo di serpentello, con la voce che fa glu glu nelle canne della gola; anche se lei non ha che disprezzi per il miope bleso poeta e riserva il lampo degli occhi solamente alla concorrenza. No, non si è infelici, sebbene si proclami a gran voce di esserlo, e si pianga volentieri un sabato sì e un sabato sì, di ritorno dalle veglie di Cava d'Aliga, prima di prendere sonno e dormire dodici ore di fila. Si piange, si dorme, si sogna. E in un sogno uno i rivali se li mangia vivi, gli disordina a volontà i riccioletti del capo e i baffetti moschettieri, gli guasta la piega del calzone sulla gamba trottolina. In sogno non ci vuol niente, nel bel mezzo d'una piroetta, a collocare sotto quei tacchetti, come una mina di Pietro Micca, l'irresistibile buccia d'una banana. Gli amori non corrisposti, credetemi, sono i più comodi. Senza nessuno dei sapori di cenere e aceto che accompagnano gli effimeri unisoni.
Io, un po' l'avevo imparato dai libri, un po' mi faceva gioco persuadermene, per ritegno, musoneria, superbetta sufficienza di me. Sicché, con la ragazza, mai che cercassi un buon incontro, un'intimità. "L'amo, ma lei che c'entra, la cosa riguarda me" avevo pensato a voce alta una domenica, mentre mi radevo nel bagno, e la frase m'era piaciuta, l'avevo scritta col dito sul cristallo appannato dal fiato, ripetendomela volentieri da allora, come un contravveleno che m'aiutasse a salvarmi dalle vipere della gelosia.
Maria Venera non provava niente per me? Tanto meglio: me ne veniva una libertà senza limiti, i miei moti per lei non appartenevano a nessun altro che a me, potevo nella fantasia giocarmela e vincerla a gusto mio.
Barando, magari: si sa, non c'è piacere più raro di barare in un solitario. Ché se poi m'avessero chiesto quante volte avevo tentato di pungerne l'indifferenza, avrei risposto con un'alzata di spalle. O forse avrei ammesso che l'avevo invitata una volta a un Danubio blu vorticoso ma le ero passato e ripassato sui piedi come un aratro; e che al buffè, mentre sorbiva un liquore, le avevo balbettato, dei suoi capelli, ch'erano belli, ottenendo in contraccambio un'ironica riverenza; e avrei confessato che per un mese l'avevo attesa e pedinata ogni sera per poi nascondermi dentro un portone; e che, insomma, per lei avevo scritto dei versi. Li declamavo adagio, all'imbrunire, prima di scendere in strada, mentre attraverso le stecche della persiana indugiavo a sogguardare nel Corso (lo chiamavano il "Salone", era un maestoso fiume di basole fra due lontanissimi marciapiedi), in attesa che s'accendessero i fanali municipali ed esordisse, coi riti d'una nobile Corte d'Amore, la pubblica passeggiata. Sapevo già, per l'annunzio d'una sveglia misteriosa dietro la fronte - la stessa che ai tempi del ginnasio ogni mattina mi faceva aprire gli occhi alle sette meno un minuto - a che ora, e all'altezza di quale vetrina, l'avrei incontrata e salutata, avvampando, con gli occhi. Indovinavo che abito avrebbe portato addosso, se il nero coi passamani e il baverino di pizzo; se il nero con le baschine sotto la vita; se il nero imperlinato, attillato sul busto da far paura.
Indovinavo, che ci voleva? Maria Venera vestiva sempre di nero, tranne che nelle occasioni di gala, quando la vedevamo avanzare sotto i lampioni, fasciata di plissé bianco, e sbiancata lei stessa in faccia da mille attese di chissà cosa che le gonfiavano il cuore.
“ Gli amori non corrisposti, Dio ce ne liberi! Bestia chi dice che sono i più comodi. Uno rumina fiele, s'accanisce su fisime, su fantasime, parla a casaccio, diventa suscettibile ai bacilli più miti. E lode al cielo quando tutto non finisce con uno sproposito. Perché l'amore è uno strano augello, è un monello zingarello, che non si può, non si può “.
Ah Maria Venera, quando cantava l'Habanera, (1) accompagnandosi al piano, e mi piantava a uno a uno sette spilloni nel cuore! Aveva il piano, Maria Venera, ed era uno dei pochi rimasugli del lusso antico, visto che lei era povera, ormai, figlia unica orfana, ridotta a vivere sola col nonno e a fidare, per la villeggiatura, nella bontà delle zie materne Trubia. Per questo non vedeva l'ora che giungesse l'estate: per far fagotto e lasciarsi alle spalle i battenti del vecchio palazzo, un edificio in dissesto, che tuttavia intimidiva, tanto era coperto di fronzoli gentilizi, dal fastigio scalpellato ai mascheroni barocchi sotto le mensole dei ballatoi. Io ci passavo sotto tutti i giorni e la mia tattica era di fermarmi con un notes e un lapis in mano, come chi disegna o prende un appunto. Ogni tanto assentivo col capo a me stesso, dandomi arie di studioso o di studente, mentre osservavo le smorfie del sasso: ceffi buffi musi goffi di diavolacci arrabbiati, che avevo soprannominato con nomi di scuola, Barbariccia, Calcabrina, Alichino, (2) e fra le cui labbra un muschio rigogliosamente cresceva. In verità la fabbrica intera muoveva a pietà, mortificata dal tempo, dall'incuria.
Solo la pietra, dovunque l'intonaco era scomparso, appariva bella nella sua magrezza e nudità di conchiglia.
Lesta, se il tramonto ci batteva sopra, a invermigliarsi come una guancia. Era un calcare da cave illustri, per case di blasonati. E blasonata era Maria Venera, una di quelle che nei nostri paesi si mandano a studiare in conservatorio a Palermo.
Donde era tornata precocemente, dopo la morte dei suoi e il subbisso della proprietà, conservando di quegli studi un'indebolita e dolce memoria, di cui sentivamo gli effetti certe sere di scirocco, quando dal balcone aperto s'udiva spargersi a fiotti giù verso il Carmine, e San Giorgio, e i dodici santi apostoli della scalea di San Pietro, quel collegiale pot-pourri della Carmen (Maria Venera, dovunque tu sia, che il tuo nome sia benedetto!).
Alvise era il nonno, don Alvise Salibba, e andava verso i novanta.
Uno splendore d'uomo, era stato, e in qualche modo era ancora. Della stravaganza del nome dava allegramente la colpa a un remoto viaggio di miele a Venezia, durante il quale sua madre avrebbe barattato una notte il marito, sconfitto da un reuma, con un Alvise gondoliere dagli occhi celesti; ripetendone dopo nove mesi l'anagrafe per riconoscenza e memoria. Una delle molte fandonie di divertente cinismo con cui il vecchio amava allocchire i passanti, seduto sulla seggiolina pieghevole che si portava appresso sottobraccio, lì sotto un'acacia del viale, dirimpetto al Circolo dei Civili, dove aveva giurato di non metter più piede dopo aver perduto l'ultimo podere a un tavolo di zecchinetta. Sedeva in panama e ghette, inverno o estate che fosse, e col manico del suo bastone di noce uncinava qualunque caviglia in transito, di amico o conoscente o turista, e la tirava avidamente a sé, imponendo la sosta e l'udienza. Piano piano un crocchio si formava, Alvise sapeva parlare e i giorni erano tanto pigri, a quel tempo, c'era tanta luce nell'aria, era bello stare in piedi nella luce ad ascoltare un vegliardo dalla canizie solenne che parlava di Lina Cavalieri e della Bella Otero.
Alvise le aveva conosciute, asseriva, nei suoi giovani anni, quando girava l'Europa in Hispano, con uno chauffeur di Ragusa Ibla e un monsù poliglotta, rapito a suon di quattrini alla corte dei Grimaldi di Monaco.
Entravano nelle sue parole, odorose di colonia e di zigaro, tutti i lumi e le leggende d'una vita per noi meno raggiungibile che se fosse stata d'un abitante di Samarcanda o Golconda, e soavemente c'imbambolavano. Lui stesso, del resto, garriva al vento da onorata bandiera, se era vera la ciarla che sussurravano, che fino a ieri pretendesse nell'alcova, e non per solo scaldino, la sessantenne serva di casa. Parlava, Alvise, e la sua voce insaporava la luce fra le grandi pietre bionde e bianche dei palazzi e delle chiese, diventava un persuasivo responso che il secolo andato aveva lealmente tenuto in serbo per noi. Era d'una qualità rara, la luce, a Modica, in quei giugni e lugli del cinquantuno: un pulviscolo lucente che non ho più rivisto uguale da allora e che ricordo in soffici spifferi, a mo' di Spirito Santo, attraversare i fili penduli della moschiera, nella trattoria di don Cesare, e venire a curvare un'aureola d'oro attorno ai fianchi dei fiaschi. Qui, sul disegno dell'incerata, perfino le macchie e gli unti acconsentivano a comporsi in alfabeti di affabile lingua, borbottavano una cosa cara. Sebbene il luogo vero dell'incantesimo si nascondesse più in là, in un angolo della cucina, su un trespolo nero nero, dov'era la boccia del pesce. Qui l'attenzione degli avventori tornava ogni cinque minuti, tanto i guizzi del carcerato parevano, nel loro apparente capriccio, eseguire un intreccio di mutole melodie, svelando, a vicenda, e velando la celeste cabala della stagione.
Insensibile ad ogni sofisma, cieco ad ogni mistero, don Cesare si occupava di spargere nell'acquario le briciole raccolte fra piatto e piatto, senza scordarsi d'intonare frattanto una militaresca "zuppa ch'è cotta", che pretendeva familiare ad ogni creatura di mare, dalla sirena alla triglia. Gli rispondeva a eco la cuoca, Mariccia o Amapola, secondo che preferissimo il nome di battesimo o l'altro, di battaglia, dei tempi suoi più gloriosi, quando era finita a Bengasi mercenaria galante al séguito delle truppe, trovandosi perfino a vivere in un'alhambra di trenta sale, con azulejos in ciascuna dal pavimento al soffitto, e al centro un baldacchino gigante, circondato da zampilli d'acqua balsamica. Fu in un tale teatro da Mille e una notte che l'era toccato una volta affrontare, soccorsa da un'araba impubere, un violento congresso a tre con un gerarca in divisa, il quale pretese (un millantatore barbuto, probabilmente) di chiamarsi Italo (3) e che entrambe lo picchiassero a turno con la cinghia del cinturone.
Altri tempi. Mariccia era ormai querula, stanca, aveva i denti vacillanti, i vapori. E delle scorse giostre carnali conservava appena una rimembranza nebbiosa, come dei naufragi di gioventù un nostromo in pensione, seduto su una panchina del porto. Ma era buona, Amapola, e le restava, per i maneggi del cuore e dei sensi, un trasporto partecipe e pio, che le bisognava a tutti i costi sfogare, con palpiti, meraviglie, paure, ora sulle pagine dei Salani d'anteguerra che conservava in dispense nei suoi bauli dalle molte vite; ora (molto meglio) ascoltando le mie effusioni in onore di Maria Venera.
Poiché io della ragazza parlavo tutti i giorni dirottamente. A voce con Mariccia; a casa, nero su bianco, in giubilanti giaculatorie, che appendevo al muro con quattro puntine e mi studiavo a memoria, come fanno con le topografie delle banche gli apprendisti scassinatori.
Insegnavo in una scuola di ragazze, allora. In un paese che non era il mio, a pigione di un'Amalia vedova, con figlia in collegio, usufruttuario settimanale delle sue vogliose pinguedini. Dalle quali mi staccavo ogni volta più contrito, ansioso di correre in camera a pagar penitenza scrivendo dell'altra. E tanto peggio se mi scordavo di chiudere a chiave e la vedova, salendo quatta dalla sua botteguccia di libri del piano terra, mi sorprendeva in flagrante, col pennino Perry in resta, la mente e il cuore in bollore, e le guance lacrimose (lacrimavo sempre copiosamente quando scrivevo versi d'amore).
Finivo allora con l'andarmene al bar, a sedere dietro un tavolo tutto mio, donde, alzando gli occhi, mi si spiegasse davanti, servizievole e multiplo, il cinema della città. Non c'era per me migliore scrittoio, e palco, e salotto, e occasione di sodalizi; nessuna migliore distrazione dal mal d'amore. Una volta veniva a trovarmi il cornettista della banda municipale, che amava esibirsi anche fuori servizio, e, incoraggiato dalle mie pantomime d'applauso, muovere con l'ardore d'un fante all'assalto dei più imprendibili acuti .
Un'altra volta sopraggiungevano gli alienati del luogo, tutti pacifici e dolci, ciascuno con un'ubbia solitaria nel cuore, a cui io solo prestavo fede e conforto. Oppure passavano a braccetto, salutandomi da lontano, le due maghe rivali e amiche, donna Tònchila Canigiula e 'gna Ninfa Scacciaguerra, alle cui dimore avrei bussato più tardi, meno curioso di suffumigi e fatture che dei loro motteggi giocondamente funerei. Ma più ancora mi piaceva accompagnarmi (degli amici ordinari parlerò oltre) coi titolari dei mestieri meno frequenti, da Carmine 'u ciarmavermi, venditore di alghe marine contro i vermi dei bambini, a Cicirè, sensale di matrimoni, ai fratelli Malanova, cacciatori di voti e robivecchi ambulanti. Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera! Non finirei mai di parlarne, di ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze; di rivedermici quando la mattina uscivo incontro alle peripezie della vita, offerto alla vita intera, ai suoi colpi di dadi e profusioni di risa e pianti, e concerti di campane.
Quante campane c'erano a Modica allora, per nozze, battesimi, compiete, angelus, ma soprattutto per funerali, quanto si moriva a Modica, si sentiva ogni mezz'ora senza che nessuno riuscisse a turbarsene, scoppiare come un tuono nell'aria l'argentino incoraggiante din don della morte. Non finirei, ero un bambino vecchio allora, invecchiato dalla vita e dai libri, ma sempre bambino. Quanto può esserlo chi sulle cose spalanca, appena si sveglia, due pupille grandi che si sorprendono.
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Note
(1) Habanera: danza spagnola di origine cubana. Qui si allude a quella della Carmen di Bizet.
(2) Barbariccia, Calcabrina, Alichino: nomi di diavoli che compaiono nella Divina Commedia.
(3) Italo: allusione a Italo Balbo, governatore fascista della Libia durante l'ultima guerra mondiale.
II. Litania delle belle notti.
E come fu che si giunse a quell'estate attraverso varie stagioni e varie corrugazioni del sentimento.
Felicità, mio cielo antico; notti, mio paradiso. Silenzi blu della notte neonata, quando, varcando il debole paravento dei muri, sale dalla strada al nostro cuscino, ma subito s'attutisce e si spegne, il passo d'un solitario (ubriaco a zonzo, mammana che rincasa, accalappiacani zelante, adultero del giovedì), e quel sigillo termina il giorno come una mano abbassa morbidamente un sipario. Cappa nera dell'una di notte, dove s'imbucano le serenate. E dove, se si levano voci, sembra fasciarle un bavaglio di delicate sordine; o che sia conciliabolo d'ombre da una panchina laggiù, fra le aiole del solito Monumento ai Caduti. (Avete fatto caso come nella distanza ogni parola si disincarna e confonde coi più diversi rumori? Il brusìo delle fontanelle, le tranquille opre dei servi, un po' di vento fra le case.)
Allora ci si leva dal letto, si tende l'orecchio: sotto le piante scalze dei piedi le rughe dell'ammattonato sono d'una toccante frescura. Non si fa in tempo a socchiudere l'imposta ed è già troppo tardi, a basso non è rimasto che nerofumo e pace, altissima pace; sporgendosi, solamente una bestiola, un Mefisto peloso, s'intravvede attraversare la strada con zampe di felpa, e ne rimane per qualche istante a fil di terreno un fosforo nomade d'occhi, un volatile zig zag. Notti, notti colme d'estate, mentre si torna dalla Sorda dopo la veglia; e sulla campagna d'ulivi e carrubi pende ancora un'adunca luna, seminandola di toppe bianche come cotte di monacelle; e le coppie di ragazze a braccetto coi cavalieri prolungano fra siepe e siepe inusitate figure di ballo, e si allacciano, si slacciano, secondo un viavai tenero e sazio che alle soglie del paese si sfrangia in cicalecci, saluti, moine di mano furtive; e le terribili madri che aspettano alla finestra sentono una blanda spuma di sonno illanguidirle al perdono. Ragazze, vi amavo. Maria Venera, Angela, Ines. Ancora oggi, talvolta, basta una sosta a un passaggio a livello, mentre piove e il treno sembra essersi perso nel buio, dopo che un paio di fischi me l'aveva fatto sperare imminente, e il minuscolo lucente ghigno dell'Autovox m'assopisce, mi dondola, m'incantesima in una delle mie ricorrenti estasi del pensare “ basta una sosta di dieci minuti; più i ruffiani polpastrelli della pioggia sul parabrezza; più la liquirizia di quel sassofono fra Hilversum e Monteceneri; ecco, e dentro la poltiglia dei suoni io mi ritaglio un oblò di fumo, da cui una dopo l'altra s'affacciano le ragazze della mia vita”.
Estati di una volta, pergole in collina, sentieri fra i peri nani, arenili di Pietranera. Una mano scuote nell'aria un sandalo sudicio di sabbia gialla. Una nube di fuoco immensa si leva. Poi la invadono zattere oscure. Oh veramente ha ragione quel tizio: (4) la palla che lanciai ragazzo, mentre giocavo nel parco, non ha ancora toccato il suolo.
E di nuovo segreti da nulla si nascondono sul rovescio d'un francobollo; un ciondolo si strappa, rotola sotto un comò “ Falci esangui di labbra, motivi di vecchie pavane “ Venera, Assunta, Isolina: frotte rosee, capolinea del batticuore!
Chissà dove siete, chissà dove sono le belle d'antan, Flora la bella romana, e Taide, (5) e la cassiera Adalgisa del cinema Splendor, sdegnosa, chissà dov'è, quanti figli ha, e zampe di gallina sul collo, e varici sull'indimenticabile poplite! “ E chissà in che strofinaccio (6) di cucina o tappo per botti s'è tramutata la mia cravatta di seta, a elefanti verdi e pagode “ Eheu, fugaces, Postume, Postume “(7) licealmente mi lagno, e accanto a Postumo mi viene in mente Marcel. (8)
Poiché veramente tutte le voci e i visi delle mie donne non pesano, sommati insieme, che un grammo scarso di polvere, e le cravatte e le cassiere sono fuggitive, ahimè, come gli anni! Sì, e tuttavia com'è bello, qui dal mio posto di guida, mentre l'afa del riscaldamento mi consola i poveri stinchi, com'è inutile e bello, Venera, Ada, Corrada, invitarvi a concilio davanti a me! Vedervi su questo video appannato fiorire, sfiorire, tornare a fiorire, ad ogni impulso di tergicristallo! Finché il convoglio che sopraggiunge, corpulento e cieco, non vi disperda in fuga per la campagna, lasciandosi dietro, nel suo grigio odore di cane, soltanto una spruzzaglia di gocce, e quel baluginìo d'un istante, quasi d'un lume di Luna-park che si spenga, o d'una lucciola che il calcagno involontariamente sfarini “ Le altre tre stagioni, prima di quell'estate, erano volate via presto, né tristi né liete. L'autunno recò qualche garza di nebbia dietro i vetri dell'aula, e la mosca più cavallina a spirare, zampettando, fra due pagine di registro. L'ultimo fico d'ottobre si raggrinzì di dolcezza, non colto, su uno stecco di ramo irrigidito dal freddo, rimasero nei campi i fiori di cardo soltanto, in piedi, come un gramo plotone di scheletri cappuccini.
Poi i gelsi nei cortili cominciarono a perdere foglia, prese a piovere ogni giorno, dalle otto e mezza alle nove, di proposito, come per un'invidia delle stelle contro la prima, sempre promessa e sempre differita, passeggiata dell'anno di scuola. Le ragazze giungevano con uno smilzo fagotto di libri appeso al mignolo destro, speranzose di poterlo lasciare sul banco dentro la nativa cinghietta, per avviarsi alla buon'ora in colonna su per le rampe di Monserrato.
Illusioni. Erano appena in vista del portone d'ingresso che udivano dalla voce del preside Biscari il vecchio proverbio ch'egli s'era inventato contro di loro a mo' d'affettuoso e inalterabile scherno: "Cielo a pecorelle, scuola a catinelle." Ancora più furenti se in quello stesso momento, mentre levavano come velenosi rinfacci le pupille alle minacce del cielo, uno sbuffo di tramontana le coglieva alla sprovvista, senza risparmiarne, è doloroso dirlo, il pudore. Si issavano ad alzabandiera, e sbalordivano il mondo, le sottane tenebrose dei diciott'anni; e quel lampo dissotterrava lembi di carne imprevedibilmente paffuta, pubblicava gloriosi golfi d'ombra, dessous talvolta non precisamente illibati. Infine Gertrude appariva in cima alle scale, e pareva Pallade Atena. La bidella Gertrude, alta, grande, sovrana e cupa, faceva segno al suo popolo, imperiosamente, di entrare.
Sotto l'acqua che ormai veniva giù a scrosci, in fila indiana, coi seni a disagio fra due schiere di gomiti astuti, entravano le riottose, versando sul mio timido indomito cuore la pecegreca delle loro occhiate.
Oh potess'eo venire a voi amorosa como larrone ascoso e non paresse (9) cominciavo, subito dopo l'appello, profittando del momentaneo silenzio, ma nessuna sembrava, nonché intendermi, ascoltarmi neppure: sbirciavo dietro le vetrate, rabbiosamente, l'aria schiarirsi al sole delle nove e un quarto, e da uno squarcio di maltempo irrompere nell'aula e danzare un raggio ironico d'oro.
"Scuola a catinelle", dunque; ma le distraeva, dalla via, qualunque inezia: la strombettata galante d'un autobus, più o meno perentoria secondo la petulanza e la gioventù dell'autista; oppure alla finestra, dopo il picchio della pioggia, l'altro, poco diverso, dei passeri, più bisognosi d'asilo che curiosi di Pier delle Vigne; oppure il disegno della mia cravatta, e se da una spalla, fra antiche seminagioni di forfora, un capello mi pendesse, liscio e lungo, che poteva, s'insospettivano, essere d'altri che mio. Allora pensavo che presto sarebbero cominciate per loro le solfe stagionali delle lacrime, col viso e la chioma d'un tratto calati nell'incurvatura del braccio: lacrime di ogni recente abbandonata di Ferragosto; d'ogni fidanzata ottobrina novella, che già però s'imbronciava di malintesi e di stizze; d'ogni sgobbona brutta, condannata alla solitudine di prima della classe; d'ogni bella senza dote, senza abiti da incignare la prossima notte di San Silvestro; delle altre tutte che singhiozzavano per semplice emulazione e abbondanza di cuore. E pensavo, per confronto, ai miei tanto più adulti sensi d'amore, contento di averli addomesticati in quella condizione di dormiveglia: io di qua, dentro di me, con chimere e arzigogoli miei; lei, Maria Venera, remota dietro la sua salvaguardia di intransitivo sussiego e di nobilissime pietre. Pensavo, e gli endecasillabi dei poeti mi morivano da sé fra le labbra. La pausa mi consentiva di cogliere al volo, nel bisbiglio di due chiacchierine sorprese dall'inatteso armistizio, lo strascico d'una sillaba che non avevano fatto in tempo a troncare, d'un aggettivo la cui desinenza, inevitabilmente maschile, lasciava solo il dubbio se pertinesse a un giovanotto o a un vestito.
Così via via, una settimana dopo l'altra, mentre il tempo a vista d'occhio s'abbuiava, s'infreddoliva.
Termometro me n'era il bavero sempre più alto sulla collottola, ogni volta che nell'intervallo m'avveniva di fare un salto per una bevanda al Caffè Bonaiuto, e mi ferivano i refoli che saettava da monte a valle lo sprone di sasso lassù, calvo uccello dalle ali spase, appollaiato a custodire le cerimonie invariabili della città.
D'ora in poi avremmo atteso con fiducia l'odore delle caldarroste serali, avremmo chiesto il sonno al fruscìo delle gomme sopra l'asfalto bagnato, ci saremmo abituati a osservare dalla sala dei professori sul marciapiedi di fronte il chiosco dei giornali infradiciarsi e grondare sotto la pioggia, e, due passi più in là, il vespasiano gigante sul marciapiedi offrirsi alle scorribande del vento, non altrimenti che un rudere a cielo aperto d'Ercolano e Pompei. Forse solo io, forestiero, avrei resistito, la sera della fiera, io e nessun altro, a giocare un "m'ama, non m'ama" a colpi di flobert contro le pipe di gesso d'un tirassegno deserto.
Novembre, dicembre: sgoccioli umidi del millenovecentocinquanta. L'inverno è al suo culmine, ora, malinconicissimo di geli, alluvioni, gatti dagli occhi nocciola “ Ebbi un compleanno senza regali, benché non li avrei pretesi dai colleghi amici, anche loro esuli da casa, costretti a lesinare lo stipendio miserello. E tuttavia disposti a inventarsi vacanze e spassi goliardici e risorse di San Miniato con due centesimi scarsi d'immaginativa. Io gli volevo bene, ma preferivo il cinema tutti i pomeriggi, quelle belle ammazzatine nei films dei fratelli Warner, con le attrici del mio cuore, amorose di serie B: Ann Sheridan, Ida Lupino; oppure, la sera, i concerti alla Società Filarmonica, tutto uno Chopin lacrimoso, specie quel pezzo dove si sente la goccia che cade, sotto le imperterrite dita della maestra Tuvè, gialle di nicotina e nocchiute come bacchette di tamburmaggiore.
Non ne mancavo uno, di quei raduni, perfino nelle sere di pioggia e di vento, quando m'era giocoforza esporre al pubblico calosce informi e labbra crepate dal freddo, ridicolmente unte di burro cacao (ho sempre patito molto il minimo freddo). Ma c'era lì davanti, in prima fila, sulla sedia di finocchietto, una certa Maria Venera, con le ginocchia strette strette sotto la gonna a plissé, e le mani incrociate sul grembo, rigida dalla vita in su, nel suo broncio d'intenditrice presunta, come sullo zoccolo d'un museo il busto di Nefertiti.
Uscendo, se aveva smesso di piovere, m'aspettavano fuori, sogghignando, i miei melofobi amici. Non mi restava che seguirli nei rioni fuori mano, all'avventura. S'andava, imbacuccati e girovaghi nei nostri paltò rivoltati, io brontolando, riluttante ad assecondarli nelle più opache fatuità:
imbrattare di malo imbratto i chiavistelli delle case patrizie;
camminare lemme lemme dietro le péste degli attacchini elettorali, per mischiargli nella borsa, lasciata un momento al cantone, le due metà dei manifesti rivali, sicché ne risultasse sui muri una zuppa di falci, croci, torchietti, martelli eteroclitamente incollati. Scappando poi a cascare fra le braccia esterrefatte ("Come, vossia, professore!") del guardiano notturno Miciacio. Quando non provavamo a spacciarci geometri di Palermo, venuti a far censimento di fatiscenze edilizie. C'inoltravamo nei bosfori meno facili, via Sant'Acconsio, ronco Albanese, dove lo spazio fra due dammusi (10) è più esiguo d'un corridoio, e dai fornelli accesi un odore di sarde mafiosamente si leva. Millantavamo impegni di fognature, restauri; andandocene, ci seguiva un coro di stupori e benedizioni maschili, qualche occhiata invogliante di donna “ Così fatti erano gli amici, erano freschi di guerra e per scordarsene bambineggiavano con crudeltà. Saro Licausi, Pietro Iaccarino. Ombre, ora.
Persi una scommessa romantica con Saro Licausi, chi avrebbe scoperto e colto il primo fiore di mandorlo su per la costa dell'Idria, escursione nostra di ogni domenica. A costo di rovinarsi le scarpe voleva vincere lui, e s'arrampicava con prudenze di bracconiere là dove da lontano gli era parso di distinguere l'albero più voglioso. Finché fra i fogliami e le cortecce un'impalpabile perla gli si svelò, una brina rosea, una vanessa esitante, sbocciata appena sul ramo dopo una fulminea cova notturna.
Persi la scommessa ma non la pagai.
Scommettevamo su tutto, a quel tempo, ma nessuno pagava mai le scommesse perdute. Ora che il tempo volgeva al bello, facevamo passeggiate da floricultori, loro mi insegnavano i nomi: quello è un anemone, questa è un'azalea. Ma io battezzavo ogni specie di fiore con un nome della Quarta B, mentre a scuola viceversa, con un nome di fiore ogni ragazza dei banchi, nel bocciuolo gonfio del suo grembiule.
Ora sui tetti i piccioni si moltiplicavano dall'oggi al domani, le sassate del sacrestano li coglievano senza fatica. Già il cielo era un'altra cosa, un cielo di porcellana che ridondava di luce come un vaso troppo pieno e pareva volersene sgrondare, buttandola a casaccio in ogni buca o bocca vicina, gola d'allodola o cella campanaria. Erano più o meno cento le chiese di Modica e altrettanti i campanili, da San Pietro a San Giuseppe, al Gesù, cento chiese, ognuna col suo alito di devote impastato nella calce come s'attacca a una tuta l'odore d'un sudore operaio.
Chiese d'un bel barocco carnale, con tonde dritte colonne, le gambe sputate di Maria Venera; chiese con cupole, cupolette, che, se ai miei amici ricordavano forme di mostarda calda nelle crete di Caltagirone, in me sobillavano un'altra più commovente similitudine: dei luminosi seni di lei, dietro il bottone del corpetto, allacciato solo a metà “ Pasqua cadde bassa, quell'anno. Per preparare le cassate occorse provvedersi in tempo di cacio e ricotta nelle masserie dell'altopiano.
Ci andò di malanimo il trattore don Cesare su un calessino. Riportandone sotto le scarpe una rimembranza di fatte ovine e bovine e (recriminò) nelle narici l'afrore della 'gna Tura, un'arsiccia mandriana di cui erano famosi nel circondario i pedaggi amorosi imposti a qualunque viandante maschio la sorte le conducesse.
Infine dai costoni di monte Tabbuto, dalle grotte di Pantalica e d'Ispica, tutta la terra, miocene e pliocene, schisti, faglie, semenze e tane, vene d'acqua e crepacci da sisma, tutta la terra del Val di Noto tremò, socchiuse impercettibilmente le calcaree labbra a un sorriso. Uno scorpione fra due sassi strofinò languido le due chele fra loro, una madamina lucertola dalla trincea d'un filo d'erba sporse un attimo il muso, lo ritrasse, lo sporse ancora. Don Alvise si tolse le mutande lunghe di lana e fu primavera.
Note
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(4) quel tizio: è il poeta inglese Dylan Thomas (1914-1953).
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(5) Flora , Taide: nomi di "dame del tempo che fu" nella ballata di François Villon (1431-1463).
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(6) strofinaccio: allusione a una scena dell'Amleto (Amleto nel cimitero).
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(7) Eheu' Postume: è un verso di Orazio (Odi, Ii, 14)
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(8) Marcel: naturalmente Proust, di cui subito dopo è citata una frase ("sono fuggitive, ahimè, come gli anni).
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(9) Oh paresse: i due versi sono di Pier delle Vigne.
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(10) dammusi: in siciliano case di un solo piano, molto povere.
III. Fuga della ragazza e commedione del ritrovamento.
Primavera per modo di dire, qui la primavera diventa subito estate, qui non è terra di tepori. Non si fa in tempo a svezzare il sole che già ruggisce cresciuto. La stessa cosa con le ragazze: ieri le vedevi, le accarezzavi bambine, ma oggi due capezzoli di ferro gli sforzano la vesticciola, sotto la fronte gli splendono due occhi cupi.
D'ora in avanti, a Modica, chi dormiva più? Una sera si seguivano le serenate a fior di balcone, di chitarre e mandolini; un'altra, tutti a Donnalucata, a comprare il pesce appena pescato sui banconi dei paranzieri; un'altra, ahimè, con gli occhi rossi e le dita deluse, a sfilare gl'ingannevoli assi d'un poker “ E meno male che le notti duravano un fiat, sembravano brevi fumacchi neri fra il tizzo del tramonto, viola, e la torcia bianca dell'alba “ In una notte così Maria Venera scappò di casa, e a mezzanotte della stessa notte ebbe storicamente inizio la fiaba della mia stagione felice.
Eravamo dunque seduti, un dopocena, io e Iaccarino, alla damiera (niente carte, quella sera, meno male). Noi due soli, ormai, dato che donna Amalia era salita da un pezzo a dormire, lasciandosi dietro un odore di zampironi antizanzara. Iaccarino strologava al suo solito, un po' per non annoiarsi, un po' per disturbarmi mentre meditavo le mosse. "Arrenditi, Gano!" diceva. "Chiedi pietà!" Oppure, pensosamente: "Mi sento superfluo, stasera. Un'orzaiola, un bruscolo nell'occhio del Creatore. Ti soffio una pedina". Era il mio amico più amico, dei due colleghi che ho detto, il già quarantenne poeta e filosofo Pietro Iaccarino. Forse qualcosa di meno e di più d'un amico: una specie d'infedelissimo doppio. Ché, se per un verso egli ricalcava certi miei scoppi d'umore e repentine catatonie, non c'era per il resto società che stridesse più della nostra, fra lui, uomo di testa, ciarlatano e pasquino di compagnia, e me, sentimentoso, ligio al vizio solitario del sognare e del trasognare. Né avremmo avuto modo di conciliarci l'uno con l'altro, se non avessimo scelto tacitamente di far leva sulla comune bibliofilia, e il gusto dei bisticci, dei nonsensi, dei gerghi e scherzi eruditi, da carbonari e certosini della lettura quali entrambi ci professavamo. Non per niente eravamo finiti pigionanti di Madama (Licausi preferiva l'albergo):
quasi più per consumare le seggiole del pianterreno librario che i materassi del piano nobile. Iaccarino, specialmente, da quando lo avevano promosso di ruolo e smesso di sballottare da una sede all'altra fra Brennero e Lilibeo, s'era eletto domicilio nella bottega e vi faceva flanella fissa, senza averci speso, a mia memoria, più di poche lire per un poliziesco da viaggio. E anche allora, dopo averlo amputato - zac! dell'ultimo sedicesimo, sì da lasciare in sospeso e senza nome il colpevole.
Per garantirgli - furono le sue parole - in un mondo dove tutto s'espia, dal crimenlese alla sosta vietata, un'uscita di sicurezza “ Con Madama s'era subito preso, fu simpatia a prima vista: benché insidiata da strambotti a dispetto e ripicchi senza numero.
Rimproverandogli lei di bere e parlare tanto; giustificandosi lui che lo faceva per evitare d'ascoltare lei.
Col risultato che certe volte, nei periodi di malumore, lo vedevo temporeggiare fuori per strada e rincasare solo quando la vedova fosse salita nel suo quartiere, lasciando libero il campo. Allora lui si decideva a spingere l'uscio, sporgendo il naso in avanscoperta, per venirmi a proporre, come avrebbe fatto col più sfaticato garzone, una partita a dama sul tavolo della buonanima. Mi sedeva di fronte, secco, ulivigno, inforcando spesse lenti di miope a cavalcioni d'un naso da pugilatore, di cui non si seppe mai chi fosse più responsabile, se una levatrice inesperta o il pugno d'un marito manesco. Un naso ch'era la sua croce, non finiva di lamentarsene ("Che è una faccia, questa? E' una maschera antigas!"), e al quale faceva carico, fra una mossa e l'altra, se non era riuscito attore di cine o brillante con Cimara", (11) ma più assai delle poche sconfitte patite nella sua lunga milizia di farfallone amoroso. Suonava, questa, nelle sue parole più epica d'una Campagna d'Italia, ma in verità doveva essersi consumata in pochi corpo a corpo veloci dentro sgabuzzini di comodo, a danno di questa o quella segretaria zitella o stagionata collega o supplente lentigginosa. Ma ne recitava il catalogo senza curarsi della mia risoluta disattenzione, salvo a ricambiarmela, dirupando col capo sonnacchioso fra le pedine, quando era il mio turno di dargli la replica e ricantare a mia volta la mia salmodia del mal-aimé. Che quella sera mi rimase a metà fra le labbra: quella sera, mentre eravamo a metà partita, don Alvise irruppe nella stanza, spalancandone la bussola col piglio d'un basso che sorprende soprano e tenore. Non occorsero spiegazioni: fu subito chiaro che, se il vecchio era fuori a quell'ora senza né cappello né mazza, e in faccia mostrava un brutto colore minerale di gres o lavagna, e alle nostre occhiate investigative rispondeva solo con un'epilessia delle mani, una cosa grossa doveva essergli capitata, da S'O'S' immediato. Talché fummo in un balzo ai suoi fianchi, Iaccarino e io, in tempo per sorreggerlo, mentre Madama, chiamata a gran voce, accorreva con la boccetta dei sali e vispamente discinta, ad assisterlo, a deporlo sulla seggiola più vicina, non senza prima avergli slacciato sulle grinze del collo la cravattona di seta nera.
Quando poté parlare, Alvise ci sbalordì. Poiché nella voce, insieme alla indignazione che ne svisava i toni fino al falsetto, inequivocabilmente un gorgoglìo di riso squittiva. Da far pensare che quanto ci veniva raccontando non lo facesse soffrire più di quanto lo divertiva. E che comunque la disgrazia, cascandogli addosso di punt'in bianco, lo avesse, sì, sulle prime accasciato, ma trasformandolo subito dopo in elettrica marionetta.
"Liborio Galfo!" esordì.
"Quell'acciuga sott'olio, quella minchia menata! E non dico di più per rispetto della signora"
Qui Madama, sospettando un'ironia, già s'inviperiva, ma lui la zittì con impazienza.
"Uno che non ha niente dentro le brache" continuò, movendo a destra e a manca gli stagni mollicci e ceruli che aveva al posto degli occhi. "Uno di Modica Bassa" ripeté, come se non potesse crederci o avessimo messo in dubbio la sua parola. S'arrestò, inopinatamente cavò dal taschino un enorme Roskorpf e si mise a dargli la corda.
"Che vi ha fatto?" domandai con prudenza, incerto se fosse questa la battuta che s'aspettava. La replica fu immediata e mi buttò nella desolazione più nera: "Che m'ha fatto? Che m'hanno fatto!! Sono scappati, ih ih!" e ricominciò coi suoi borborigmi di riso stizzoso, protraendoli al punto che gli altri (non io) si sentirono in obbligo cortese di parteciparvi.
Sull'abbrivo eccolo a raccontarci della scoperta, e che gli era avvenuto di svegliarsi per il caldo, dopo un paio d'ore di sonno, lui che andava a letto alle nove e dormiva come una pietra, e che s'era affacciato a prendere fresco sulla terrazza, col raccapriccio di scorgere, giù davanti al portone, la Topolino di quello, del ballerino, col motore acceso e lo sportello aperto, e un istante dopo, prima che lui capisse e potesse urlare, la ragazza entrare nella vettura, portando due valigie nelle due mani, indi fragorosamente nella tenebra involarsi. Urgeva ora inseguirli, evitare lo scandalo, salvare (benché lui dubitava che corresse pericolo con un Giufà come quello) una famosa verginità.
Io, ascoltando, una caldana di gelosia m'aveva preso alle gote. Avevo un bel ripetermi che non doveva importarmi, ma mi faceva specie lo stesso pensare Maria Venera in mano a quell'impomatato, a quel saltafinestre.
Una cosa era ricordarla salterina e raggiante fra le sue braccia nel giro d'un valzer, un'altra immaginarla a tu per tu con lui nella nicchia di un'alcova, fra calori e ovatte nuziali. Sicché, in un soprassalto invidioso dei nervi, fui io il primo, pecora eroe quale sono, a cercare l'azione. Il vicino di casa che aveva portato giù Alvise se n'era andato, ma la macchinetta di Iacca stava lì fuori; dato che la fuga correva verosimilmente a Nord, imboccammo, sperando in Dio, la Nazionale per Noto.
L'inseguimento alla cieca, lungo i rapidi rettifili, non ci regalò altre emozioni che di scambiare per il fanalino dei fuggitivi ogni punto rosso che apparisse o sparisse davanti a noi, lume di carro nottambulo o bivacco di ladro di passo. Ero io a guidare, con l'intesa che al ritorno m'avrebbe dato il cambio Iaccarino, e correvo senza criterio. Fu una curva a tradirmi. Sbandando, la macchina fece due giri su sé, tornando poi miracolosamente in piedi, ma bloccata contro un paracarro all'inerzia. Non me n'accorsi. Subito al primo urto una montagna (Tambernicchi, (12) ma probabilmente anche Pietrapana), m'era cascata sopra la testa.
Quando rinvenni ed ebbi imparato, visitando con la mano alla cieca l'opus incertum della mia faccia, che guasti grossi non erano intervenuti, avvertii, prima di schiudere gli occhi, il solidale e indenne fiato dei due compagni sopra la fronte e feci in tempo a ricacciarmi in gola l'invocazione che già mi sforzava le labbra, "Venera, Venera!" “ Provai col loro aiuto ad alzarmi, le giunture reggevano, e allora :Eia Eia, Avanti Savoia! Tuttavia non fu necessario, Iaccarino già mostrava col dito, a pochi metri, l'insegna d'una locanda, e a fianco, sotto una pergola di frasche con pretese di parcheggio, il posteriore immobile della Topolino inseguita. Grazie a Dio, dunque, per l'incidente, senza il quale saremmo passati oltre di corsa.
Le forze mi tornarono a quella vista, ma anche una spina d'apprensione in fondo al petto per la scena madre che m'aspettava, il consummatum est di quei due dentro la casa, il moscone sulla camelia.
Avvicinandoci, tuttavia, mi rassicurò al secondo piano una finestra accesa e la musica da ballo che ne scendeva, salterio d'angelo per le mie orecchie:
se lassù non avevano spento la luce, e anzi ascoltavano canzonette alla radio, il peggio forse non era ancora successo. Così non senza fiducia attesi che i battenti s'aprissero sotto il nostro bussare e ne spuntasse il viso del locandiere. Mi bastò un'occhiata per riconoscerlo, l'avevo incontrato quand'ero ragazzo nelle illustrazioni di un'Isola del tesoro. Solo che allora si chiamava John Silver e aggiungeva una benda nera a quello sfregio sul labbro e alla zoppia piratesca “ Lo travolgemmo, eravamo già per le scale, verso il :Surriente d'e' 'nnamurate che fluiva dall'uscio chiuso, e “ quale spettacolo, appena esso cedette alle spallate di Iacca e mie, la Teano fra Venera e Alvise: Venera ancora vestita, in atto di far le fusa contro il petto spogliato del rapitore, seduto sul canapè; anelante, Alvise, di fatica e di collera, con una cinghia furiosa nel pugno e un rantolo di riso dentro la strozza “ Sgravatosi del quale, roteando occhiacci da comica muta, marciò su di loro che parve una betoniera.
Galfo s'era levato sotto i colpi, senza contrastarli, ma rinculando verso la porta, dove però Iaccarino gli sbarrava la strada, lapidario e prode come Leonida alle Termopili.
Serse lo scansò con un braccio, mandandolo ruzzoloni, poi, senza dire parola, con la camicia in mano, avanti-marsch, esce dalla comune.
Restava la ragazza in piedi, barricata e fiera dietro il mobile della radio che, come se niente fosse, cantava ancora. Ma io a questo punto feci il gesto, m'interposi fra lei e il frustino, assorbendone sul naso l'ultimo colpo, e la cinsi d'abbraccio, la trascinai con me d'improvviso lacrimosa.
Ripassando dinanzi allo zoppo, interdetto ma non per ciò meno sollecito a esigere il conto dei danni, m'impressionò vedergli sull'omero, ulteriormente stevensoniana, una cocorita loquace, il cui insulto d'addio preferimmo tutti per educazione ignorare.
Al ritorno, mentre Alvise taceva, seduto accanto a Iaccarino, ebbi in sorte di godermi, standomene alle loro spalle, il tepore della ragazza contro il mio fianco sinistro. Sentivo come messaggi di spia i saltuari bemolle del suo pianto parlare alla mia pelle attraverso il doppio minimo muro dei nostri vestiti d'estate, né avevo orecchio, lungo la strada, che a quel singulto intermesso. Alvise taceva, io guardavo i pali di luce venirci incontro e schizzare subito via, sembrava di correre una nostra privata Targa Florio, come se ne correvano un tempo, di notte, sotto l'unica luce della Via Lattea, per terre battute e scomode mulattiere d'anteguerra. Ogni cunetta, ce n'erano tante, mi buttava la pettorina di lei sopra il cuore, mussola contro alpagà; e l'umido delle sue lacrime, i ciclamini del suo respiro. Allora non potei che cominciare a carezzarle i capelli, piano, come si fa con l'anziana micia di casa, e quindi tutto il viso, secondo che lo indovinavo al buio e me lo ripassavo a memoria: la fronte larga, bianca, su d'una coppia d'occhi callidi e misteriosi, con un'aria, nel guardare, di cocciutaggine e sazietà, come di chi abbia un pensiero solo e non voglia dividerlo con nessuno; poi quel naso così perfidamente affilato, le labbra che sembravano fare all'amore fra loro “ Me ne veniva, devo dirlo?, una languidezza, un rimescolìo “ Gesualdo, ma che succede?
Alvise si voltava ogni tanto, per pura formalità, con quello scuro. Del resto, dopo tanto putiferio, era tornato tranquillo, non fosse il consueto sghignazzare che ripullulava ogni tanto nella tenebra dell'abitacolo. Semmai s'era fatto vigile e fosco Iaccarino: un alano di guardia, una sentinella di polveriera.
E pareva con la sua nuca percepire il mio tremito dietro, insospettirsene, preoccuparsene. Tanto più forte pigiava sull'acceleratore, se potesse rincasare presto, magari, come il vecchio pretendeva, prima dell'alba.
Niente da fare, già intempestivamente il giorno sorgeva, sarebbe stato inevitabile offrirsi al petulante occhio del lattivendolo, alla presbite curiosità di donna Rosa Pitoncia, che lavava il suo pezzo di marciapiedi davanti alla porta.
Non m'importò, io guardavo l'alba, da quanti anni non la guardavo.
Cingendo la vita di Maria Venera che mi dormiva fanciullinamente sul petto, facendomi strada col naso fra i suoi capelli, m'ero voltato a guardare attraverso il lunotto, dopo le prime scaramucce di luce, nascere a oriente e crescere un'ala d'immenso papilio.
Correvamo ormai fra le case, che resistevano ancora notturne; ma dietro le nostre spalle il sole illuminava dal miglior punto di vista un bel Monet giovanile, una radiosa pianura in una mattina d'estate. E quell'ampia farfalla vi si spiegava sopra, da un capo all'altro dell'orizzonte; pozze d'acqua vi brillavano come pupille;
fra marine e vigne un torto lampo d'asfalto correva, che sotto la luce sembrava intenerirsi in vezzi di fiume. Tutt'intorno pini, cipressi, gobbe e declivi di terra, cerulei monconi di pietra antica; a sinistra la baia verde di Punta Scalambra. Un minuto ancora e avrei pianto.
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Note
(11) Cimara: attore di teatro degli anni Trenta.
(12) Tambernicchi: monti danteschi (Inferno, Xxxii, 28-29).
III bis. Primo dubbio dell'autore sul libro che sta scrivendo.
Al tempo, dove sto andando? La favola mi scappa via dalle mani, la memoria mi fa la buffona dietro le spalle. Altrettanto le parole: vengono fuori storte, bistrate, beffarde;
agrodolciumi volti a corrompere, come si corrompe un ragazzo, un ricordo minorenne dentro di me “ Bella forza, ora che sono vecchio, farmi gioco di me ragazzo; da furbo mago di pioggia farmi pagare le previsioni del tempo ascoltate un minuto prima alla radio.
Bella forza “ Ora so tutto di me, dove tendevano le linee oblique della mia sorte, gl'impulsi innamorati del sangue. Ma perché fare carico delle mie presunzioni odierne all'apprendista di allora? D'altra parte, che può fare un topo in trappola? Mangiare l'esca, m'ha consigliato un signore in treno, fra Sapri e Salento, nel settembre dell'ottantuno. E dunque?
Dunque, lettore, lasciami camminare così, spingendo avanti il mio corpo a caso, questo juke-box di ricordi programmato a disubbidire. E non aspettarti da me niente che somigli a qualunque lettura ti sia mai piaciuta finora.
Niente il romanzo violino o piffero, frottola di Tusitala, (13) specchio portato a spasso per il Corso, specchio d'Alice, speculum in aenigmate; (14) niente il romanzo pipata d'oppio, menzogna bella, annunciazione dell'angelo, solitario di Sant'Elena, foglia lieve di Sibilla “ No, ma il segreto di un re (15) pagliaccio sussurrato alle canne di un fosso, un'Operetta morale (16) con la musica di Offenbach, (17) il dialogo di un fisico e di un metafisico arbitrato da un patafisico “ (18) un'impostura, insomma, una bagatella comica, che faccia velo fra me e quella tentazione antica che sai; e mi svogli l'animo dall'arcinero, dall'arcizero, dall'arciniente; e mi dissuada la fatica di tagliarmi i polsi, debolmente, ogni quattro mesi “ O chiamala Sceneggiata, chiamala come vuoi, purché sappia farmi vece di vita. L'arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale, s'intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua, ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno, la sera. Tu lo sai, basta un'inezia per non farmi addormentare, la sera. Mentre, se mi abituo a contare, invece che pecore, personaggi; se ad ogni regola e metrica e rettorica, che faccia da vigile urbano e diriga il traffico, riesco a consegnarmi in forma di schiavo beato, chissà che “ Continuo, allora? Continuo.
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Note
(13) Tusitala: "narratore di belle storie", soprannome dato a Stevenson dagli indigeni delle isole Samoa.
(14) :speculum in aenigmate: per speculum in aenigmate è un'espressione di san Paolo.
(15) :segreto di un re: è il segreto del re Mida e delle sue orecchie d'asino.
(16) Operetta morale: allusione a Leopardi.
(17) Offenbach: J' Offenbach (1819-1880), compositore francese di origine tedesca noto soprattutto come autore di operette.
(18) Dialogo patafisico:
allusione al :Dialogo di un fisico e di un metafisico di Leopardi con l'intrusione del "patafisico" dello scrittore francese Alfred Jarry (1873-1907).
IV. Amor mentale dell'avventura.
"Impromptu" di Iaccarino filosofo e rapporto sulla prima visita a Venera.
All'avventura e ai suoi movimenti ho sempre attribuito nella mia vita virtù di ginnastica igienica. Quanto più salutari, i batticuori, dei malincuori, dei crepacuori! Ricordo che da bambino, per andare a rubare nelle vigne, sceglievo le notti di luna piena e le viti più vicine al campiere addormentato: e che spavento, che delizia, mentre poppavo con le labbra i grappoli come grosse e brune mammelle!
Più tardi amai i chiassuoli sospetti, i compagni di mala condotta, i racconti di sgarro e coltello. Mi piacque sfogliare in soffitta le appendici dei vecchi giornali, se mai vi udissi suonare l'allarme d'una ghironda di cieco, messo all'angolo a fare da palo; e avrei voluto vivere in carne e ossa un mistero di Parigi;
giocare una volta alla roulette russa; ricevere una lettera di Mano Nera, firmata con una croce. Ancora oggi tutto quanto contiene una minaccia m'attira. Persino il gusto del fantasticare, questo spasso mio del teatro ad occhi chiusi, sono felice ogni volta che posso pervertirlo in un rischio della mente.
Quasi volessi emulare da fermo il sonnambulo che passeggia su un davanzale largo due palmi e ripeterne nel pensiero le fatali anestesie. Così si spiega perché in tutti gli accidenti, anche mediocri, di quella notte io mi sforzassi d'inseguire una possibilità romanzesca e tuttora me li rigoda, scrivendone, con una sorta di sedentario entusiasmo, se così posso chiamare l'impasto di passione e distanza di cui si compone il mio sentimento. Che se poi s'aggiunga il piacere di muovermi in un intreccio poco o molto falsificato, in un vizio e ironia di parole, in un'acquaforte morsa appena dall'acido del possibile;
il piacere, cioè, di apparire pupo e puparo insieme in una delle tante Opre di Pupi dell'odiosamabile vita. Quel giorno giunsi a scuola in ritardo. Rincasando all'alba m'ero alloppiato un poco sul desco della cucina, al centro di un'assemblea di caraffe e bottiglie vuote, ch'erano quasi una malacopia da un maestro bolognese (19) del Novecento. A rimettermi in sesto non valse il doppio caffè di Madama, quindi entrai in classe con un passo da carro funebre, benché con l'aria intellettuale che la stanchezza regala anche alla più insipida fisionomia.
Era una delle ultime lezioni dell'anno e gli esami urgevano vicini, per cui dalle ragazze m'aspettavo silenzio e qualche attenzione. Mi furono riservati, viceversa, sorrisini, risolini. Sulle prime non capii, mi ci volle tempo per accorgermi che mi guardavano in modo speciale, come se mi vedessero passeggiare su una nuvola, librato sulle loro teste al modo d'un aquilone. Vidi allora ch'erano inorgoglite di me, affiliate con me in un segreto d'amore. Vero è che la notizia della brutta notte, e della parte che vi avevo avuto recuperando la pecorella all'ovile, s'era sparsa in un baleno e, accresciuta di inesistenti eroismi, aveva raggiunto i bar dove usavano fermarsi a mangiare un panino, le cartolerie dove avevano comperato un pennino. Sicché mi guardavano di sottecchi, compiaciute, complici, improvvisamente e dolcemente servili. Tanto poteva su quelle fantasie malaccorte il profumo di scandalo che dalla cattedra era piovuto su loro, dissipando istantaneamente ogni solidarietà con la fuggiasca e promuovendomi paladino sul campo. Io, da parte mia, con quelle viole sotto gli occhi, quel cerotto intrepido sulla tempia, là dove avevo battuto, con la camicia stazzonata e ancora pregna di lei, mi sentivo affrancato da ogni timidezza passata, un San Giorgio invincibile non meno di quello di Ibla, scolpito nella pietra, che infilza con una lunga lancia il dragone.
Ebbi cuore, nonostante l'animo lieto, di seviziare una Catalfamo Esther, una Vacirca Lucia dell'ultimo banco, sostituendo al Paradiso che reggevano in mano, gremito di segni a matita, il mio Dantino rosso sprovvisto di note. Per magnanimità non diedi voto, ma le licenziai coi modi d'un re che firma la grazia.
Facendo seguire, riguardo ai doveri della gioventù, una tirata a soggetto, che però, non so come, mi diventò Carpe diem ed ebbe un successo mai visto. Assolte dal gioco di parole con cui la conclusi: "Bocca bocciata non perde ventura", risero a gola spiegata: le avevo nel pugno.
Altra musica col preside, quando ci volle insieme, me e Pietro Iaccarino, a rapporto. Nulla, beninteso, da rimproverarci, avevamo aiutato una causa santa, evitato una mal'azione. E tuttavia al nome della scuola bisognava badare. Non sta bene ai medici d'anime mischiarsi nelle cose del mondo. Anche con le migliori intenzioni. Anche riportandone le mani nette. Che un'altra volta ci pensassimo, dunque.
Non obiettammo, il preside Biscari era un galantuomo di molte matematiche e poco umanesimo, semplice come un'avemaria. Malato d'ittero, con una cera gialla da venditore di clavatte cinese, non meritava che gl'infliggessimo arrabbiature. Né meritava, siamo giusti, le malversazioni di Iaccarino, al quale non pareva vero di poterlo inondare a man salva di citazioni e autorità menzognere. Così ora, volgendo il discorso su Galfo e le sue presunte (Alvise dixerat) insufficienze: "Gli manca qualcosa" commentò, mentre Biscari annuiva perplesso, "e si tratta di una lacuna importante. La medesima di cui con Abelardo discorre suor Marianna Alcoforado nelle Lettere di una novizia. (20)
Finsi uno sbadiglio per mascherare il riso, e fu peggio. "Errando discitur" commentò Iaccarino e tradusse subito: "Sbadigliando s'impara", provocando da parte del preside un'intimidita protesta.
Uscimmo quindi, ma io sentivo che, sbollita l'effervescenza, Iaccarino non era contento. Gli succedeva sempre più spesso di sfarfallare con le parole e d'incupirsi subito dopo. Per distrarlo, gli chiesi dei danni alla macchina, mi offersi di risarcirli a rate, ma non parve avermi inteso, si rintanò più ancora dentro le sue quattr'ossa celibi e magre.
"C'è un sentimento" mi disse alfine "un sentimento che mi stringe il cuore: quando faccio una cosa abituale, fumare una sigaretta, dire ciao, ascoltare una canzone, e mi viene in mente che, chissà, forse è l'ultima volta che fumo, ascolto, saluto “ e che stiamo tutti morendo; e che morire è un verbo altrettanto incoativo che vivere ".
Tacque un momento, si accese una sigaretta, la buttò dopo la prima boccata: "Invecchio, vecchio mio, non lo vedi?" proruppe. "Dov'è il Pietro di una volta, il bel paggio del duca di Norfolk? (21) Ho perso una nottata e mi pesa; ho mandato a male un bel ratto e ne sono pentito. Liborio, credimi, lo calunniano. Credimi, lui e Venera, sciocco lui sciocca lei, sarebbero stati felici. No, non dire di no, tu non sei meno sciocco di loro." Alzò gli occhi al cielo: "Credo nell'ordine" disse "e il tuo amore è un disordine. Cioè una pura fata morgana. Poiché ogni disordine sulla terra è menzogna, polvere negli occhi per frastornarci. Il prestigiatore Dio Padre, vedi, non solo è bravo ma bara.
Pietrino, però, non ci casca, Pietrino ha il naso cernieco, riconosce al fiuto le péste Sue sulla rena, anche se Lui si difende calzando le scarpe al contrario “" Si soffiò il naso con forza: "Tutto è ordine" gridò. "Non c'è in natura ghiribizzo o cacofonia, di cui non si possano disciplinare i contegni attraverso alfabeti, scale Mercalli, grammatiche del Gandino. (22) Perfino il mio naso, vedi, questo torso di cavolo, questa emorroide in fiamme, ebbene, non è un tal naso per caso, non è l'infortunio ortografico d'un copista che aveva bevuto; ma una didascalia del mio spirito, un'eruzione esemplificativa di me:
quel che ci vuole per disingannare i miopi, i guerci, gli strabici, i ciechi “" "Sì, ma io che c'entro?" mi spazientii. "C'entri perché sei sciocco" disse con poca logica.
"Sciocco e innamorato, una confusione fra le tante del cosmo, appariscenti e fittizie, che mi rifiuto di omologare.
Nuvole siete voi tutti, gl'innamorati.
Nuvole che mettono disordine in cielo “ Vedi quelle due nuvole bianche, schiumose e sciocche, sulla cima di Monserrato? Vedi la terza, scura e sciocca, che le disturba, gli passa e abbaia davanti, fa il botolo davanti a loro? Le due lassù sono Liborio e Venera, la terza in basso sei tu: un batuffolo di sciocca bambagia, basta un solo colpo di vento per sparpagliarti “" Feci uno sforzo per adeguarmi, ma la celia mi si corruppe in irritazione:
"Essere sciocchi, mio caro, è uno dei più pubblicati diritti dell'uomo, se ne parla nelle Dodici Tavole “" Non mi lasciò finire: "Neonato, un neonato sei. E' da un inverno che le muori dietro senza profitto e ora a quello sono bastati due baffetti, due piedi snelli “" Gli volsi le spalle, mi rincorse affettuosamente. "Non farci caso" mi disse. "E' per affetto che parlo, e certe volte straparlo. Ma t'ho visto in macchina così sdilinquito, e la ragazza mi sembra di testa così confusa che dal tuo trasporto non m'aspetto nulla di buono. Era meglio prima, quando le scrivevi in silenzio le canzonette. Del resto, che speri, che vuoi?" Io gli strinsi il braccio con inattesa gratitudine, mi piaceva che dopo tanto baccano su caos e legge l'amico discendesse a parlarmi pianamente un poco, che per un poco s'interessasse umilmente di me. Era, sia pure non duraturo, un indennizzo dei mancati abbandoni di adolescenza, delle malgodute confidenze fra sodali, passeggiando senza fine dall'uscio dell'uno all'uscio dell'altro e tornando a salutarsi ogni volta.
D'altronde, non fosse stato un così umano giullare, Iaccarino, gli avrei voluto quel bene?
"Ora l'amo in un'altra maniera" confessai. "Ora io e lei abbiamo da spartire un ricordo." "Una vergogna, vuoi dire. Non ti perdonerà d'averla sorpresa a quel modo." "Al contrario" sostenni. "Molti amori cominciano da un segreto di vergogna comune." Fece una smorfia: "Vedrai, vedrai se non tornerà a scappare con l'altro." "Figurarsi, ora che l'ha visto in mutande e calzini." Lo presi sottobraccio, passeggiavamo sotto le logge del Corso ch'erano quasi le due, e il paese sembrava disabitato, tutti stavano già mangiando o dormendo, il sole era come sospeso, non andava né avanti né indietro.
Com'è caldo e buono, pensai, questo minuto di gioventù. Come voglio sorseggiarlo adagio. Com'è calda e buona, la vita.
Salii al palazzo d'Alvise la domenica pomeriggio, dopo ch'era venuto a cercarmi da parte sua il caruso Vincenzo, un trovatello di pelle saracena, ch'era stato nei tempi grassi a servizio in casa del vecchio e ora sbarcava la vita facendo il corriere pedone fra le due Modiche, in concorrenza coi costosi tassì.
Vincenzo era il suo nome, ma con l'incremento di almeno tre soprannomi:
Zichitiniellu, che non so cosa voglia dire; Scappalegghia ovvero Scarpa leggera; infine, più dottamente, proposto da noi professori, Puck: sia per i ricci folletti attorno a un viso che più malizioso e fantastico non si può; sia per il suo naturale ch'era appunto di apparire, sparire, tessere inganni, scambiare messaggi. Ridendo ogni volta un riso a gorgheggi, che pareva sforzato e non era, nasceva veramente dalla letizia di poter vincere ogni paura della fortuna con la semplice emissione d'un gorgheggio di cristallo.
Ora Vincenzo venne a dirmi che al palazzo mi aspettavano, e guizzò via ridendo con la mancia nel pugno, mentre io titubavo immobile all'angolo dell'antico Passo Carrafa, ch'era la svolta per salire.
Ce ne volle di scale e fiato per arrivare al palazzo grande, dove resisteva appena una larva dell'antico intonaco, sotto i cornicioni di pietra molle che gli anni s'erano quasi interamente mangiati. Calcabrina, Barbariccia, Alichino non mi degnarono d'un cenno, quando alzai lo sguardo verso di loro, né potevo giurare che fosse d'abito o di tendina il lembo di stoffa fulmineamente intravvisto dietro un vetro di lassù. Certo non occorse picchiare, il portone s'aprì rumorosamente da solo.
Al sommo dei ventisette gradini, sul pianerottolo, non la serva Anita ma Alvise in persona m'aspettava:
emaciato, con la pelle stirata e cerea sulle mandibole come un velo di cipolla; un inerme stinco di santo pronto per la promozione a reliquia.
Tutt'un'altra cosa dal templare fornito di mazza e fiore all'occhiello che ci arringava fino a ieri dai marciapiedi. E non mi chiesi se fosse la pena per l'accaduto o la mancanza della dentiera a degradarlo così; ma fui certo ch'era il contagio della casa, di quello scheletro di casa, a rendere uguali a sé gli abitanti e padroni. Tanto da farmi temere che da un momento all'altro la stessa Venera dovesse apparirmi fra due battenti, sporgendo di sé un teschio o altra simile effigie scarnificata e camusa “ Manco per sogno: Venera mi smentì immediatamente, e il suo teschio, per così dirlo, esibì gote e labbra più innamoranti che mai, sbocciando come un fiore roseo dal collettino di plissé bianco.
Era la prima volta che potevo osservarla veramente. Le altre volte, al ballo, al concerto, nell'episodio della flagranza all'albergo, durante il ritorno in macchina, c'era stato sempre un impedimento, una luce di troppo o di meno, una fretta o paralisi del mio cuore, a disturbarmene la visione. Mai ero stato nella condizione dello spettatore e del giudice, sempre in quella, meno tranquilla, dello spione o dell'imputato. Mentre stavolta era diverso: il colloquio m'era stato sollecitato, era lei che stava dalla parte del debito, a me spettavano i privilegi del creditore. Per cui la guardavo come da una poltrona di prima fila, centimetro per centimetro, dalla chioma raccolta indietro nel grande pugno d'uno chignon, fino alla fronte color uliva, agli zigomi duri, alle alette del naso che un tic nervoso scoteva. Glu glu fece la sua voce nelle canne della gola. Glu glu. E tuttavia fu Alvise a parlare per primo, mentre la nipote ogni tanto approvava col mento, senza che si potesse capire quanto nei suoi modi fosse espressione d'un sentimento di dentro e quanto effetto delle medicine con cui l'avevano corroborata. Come che sia, era una Venera nuova, decisa e docile insieme, quella che acconsentiva alle parole di Alvise, dissimulando sotto i pallori della disonorata l'antico cipiglio di Giuditta in armi, che più d'ogni altro m'era parso rassomigliarle. Una Venera nuova, assennatissima, benché due bizzose pupille ogni tanto le scalpitassero sotto la fronte e il ghiaccio della sua fronte ne scricchiolasse.
Il vecchio parlava con voce fioca, tormentando con le dita la nappa della berretta che s'era levata. Non gl'importava dei commenti in città disse - gl'importava solamente di pochi, della stima di pochi “ Mi guardò con allusione, costringendomi ad un grazie sussurrato che percepì solo Venera. Sì, era stato un colpo di testa, una vacanza di ragazzi, aggiunse. Ma questo solo contava: la ragazza non aveva patito offesa.
Io elusi gli occhi di lei, mi concentrai con ostinazione su una campana di vetro, di quelle che sui canterani del Sud custodivano un tempo i Gesù Bambini di cera. Qui, in verità, una più frivola panoplia era chiusa: un paio di calze muliebri avvolte attorno a un paio di scarpette di pelle nera.
Alvise segui il mio sguardo, ghignò il suo solito riso: "Un ricordo" disse, mentre Venera avvampava. "Sai, quella storia di Baden Baden, ne parlarono tutti i giornali di mezzo secolo fa." Finsi di aver capito, stupefatto comunque della scissura che mi sembrava di scorgere nel suo contegno: più egli posava, circa il suo passato, a disinvolto viveur europeo, più, riguardo alla nipote, si umiliava in figura di timorato tutore indegno, tanto da informarmi ch'era sua intenzione farle riprendere gli studi troncati, non quelli di conservatorio, che non importavano più, ma i più modesti e spicci di liceo, privatamente. Chissà che non potesse, studiando tre mesi, guadagnarsi una licenza negli esami d'autunno, e così sperare un impiego, :lejos, muy lejos de aquí. E allora se io con qualche lezione, remunerata, s'intende “ Consentii effusivamente, respingendo, come lui s'aspettava, l'idea del compenso e ricevendo in cambio ringraziamenti e garbi gentili, mentre Maria Venera taceva e guardava con ciglia compunte. Se ne stava seduta di fronte a me, ma sembrava inginocchiata e in preghiera, tanto era di compunzione lo sguardo che dalla sua seggiola bassa saliva a me.
"Potete cominciare domani" fece don Alvise. "Ora prendete pure gli accordi, io sono già in ritardo col mio pisolino." E strizzandomi inaspettatamente l'occhio, unica movenza di vita in un viso che sembrava un calzascarpe di corno, con passo strascicato se ne andò.
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Note
(19) maestro bolognese: è Morandi.
(20) Abelardo novizia: guazzabuglio di opere e autori, dove la "lacuna" (la virilità mancante di Abelardo) si ritrova curiosamente frammischiata con le :Lettere di una monaca portoghese di Mariana Alcoforado (1640-1723) e le :Lettere di una novizia di Piovene.
(21) paggio..Norfolk: citazione dal Falstaff di Verdi.
(22) Gandino: Giovanni Battista Gandino (1827-1905), famoso latinista.
V. Segue duetto con Venera.
L'ambasciatore che porta pena.
Indiscrezioni su casa Trubia.