IL DISORDINE PERFETTO
Marcus du Sautoy
Marcus du Sautoy spiega cos’è la matematica e in cosa consiste il lavoro del matematico, con la descrizione dei convegni cui ha partecipato, delle collaborazioni in cui ha dato il suo contributo, della rete di rapporti umani che si crea tra i matematici.
Cos’è la simmetria? Questa è la prima domanda cui Sautoy cerca di dare una risposta: la simmetria indica qualcosa di speciale che il nostro cervello sembra programmato per cogliere. Egli racconta come l’umanità è arrivata a comprendere il mondo pieno di sorprese della simmetria, un tema cruciale per interpretare e, oggi, manipolare l’universo che ci circonda.
Quello che mi hanno impressionato sono i numerosi esempi ed esercizi legati ad argomenti quotidiani che rivelano la continua presenza della simmetria nella nostra vita. Per me, che non sono uno specialista della materia, è stato un viaggio reso possibile solo da un linguaggio molto comprensibile.
IL DISORDINE PERFETTO
Nel Giovedì Santo del 1770 il quattordicenne Mozart si trovava a Roma, dove ascoltò il Miserere di Allegri: un corale che poteva essere eseguito solo nella Cappella Sistina durante la Settimana Santa, e del quale non circolavano gli spartiti. Ne rimase profondamente colpito, tanto da volerne riscrivere – a mente – l’intera partitura a nove voci. Fu solo la sua prodigiosa memoria a rendere possibile l’impresa? Marcus du Sautoy mostra come quel “miracolo” fu in realtà una conseguenza della straordinaria capacità di Mozart di cogliere la struttura logica interna della composizione, di catturarne la simmetria e sfruttarla per ricostruire il pezzo a partire dagli elementi che ricordava. Questo è solo un esempio della potenza della simmetria, che dalle molecole di carbonio ai virus, dai codici informatici alla mente umana – programmata per cercarne ovunque le tracce – sembra essere una caratteristica della realtà. Un viaggio in un mondo affascinante e pieno di sfaccettature che è, al contempo, un viaggio nell’avvincente lavoro svolto dalla matematica per comprendere la regola segreta dell’universo.
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Agosto: fini e inizi
L’universo è costruito su una pianta la cui profonda simmetria è in qualche modo presente nella struttura interiore del nostro intelletto.
Paul Valéry
Mezzogiorno, 26 agosto, deserto del Sinai
È il mio quarantesimo compleanno. Ci sono 40 gradi. Sono cosparso di crema solare con fattore di protezione 40, riparato all’ombra di una baracca su una sponda del Mar Rosso. L’Arabia Saudita scintilla oltre l’acqua azzurra. Al largo, le onde si frangono dove la barriera corallina digrada verso il fondale. I monti del Sinai torreggiano alle mie spalle.
Di solito non mi preoccupo granché dei compleanni, ma, per un matematico, compiere quarant’anni significa aver raggiunto una tappa significativa e non per via di una numerologia arcana e bizzarra, bensì per la diffusa convinzione secondo cui a quest’età ormai la maggior parte del proprio lavoro è stato svolto. La matematica, si dice, è roba da giovani. La medaglia Fields, il più prestigioso riconoscimento di questa disciplina, viene assegnata, con cadenza quadriennale, solo a matematici sotto i quarant’anni. L’anno prossimo, in questo periodo, annunceranno l’ultima tornata di vincitori a Madrid, ma ormai sono troppo vecchio per sperare di essere nella lista. Ora che ho trascorso tutto questo tempo a girovagare per i giardini della matematica, il Sinai non è forse un luogo sinistro in cui trovarmi: un arido deserto dove una nazione in esilio vagabondò per quattro decenni?
Da bambino non volevo fare il matematico. Avevo deciso di studiare lingue all’università; quella mi pareva essere la strada da percorrere per realizzare il mio sogno più grande: diventare una spia. Prima di sposarsi, mia madre aveva lavorato al ministero degli Esteri. Negli anni Sessanta, il corpo diplomatico riteneva che la maternità fosse incompatibile con quel tipo di professione, così si era licenziata. Ma, a suo dire, le avevano permesso di tenere la piccola rivoltella nera che ogni dipendente del dicastero doveva portare. «Non sai mai quando possono richiamarti per un incarico segreto all’estero» spiegava, enigmatica. La pistola, sosteneva, era nascosta da qualche parte a casa nostra.
L’avevo cercata ovunque, ma evidentemente erano stati molto meticolosi quando avevano insegnato alla mamma l’arte dell’occultamento. L’unico modo per procurarmi un’arma era entrare a mia volta nel ministero degli Esteri e diventare una spia. E, se volevo riuscirci, avrei fatto meglio a imparare il russo.
Seguivo tutti i corsi di lingua che si tenevano nella mia scuola: francese, tedesco, greco e latino. La BBC aveva cominciato a trasmettere un corso di russo in televisione. Tuttavia, non avevo mai convinto la mia bocca a pronunciare correttamente la parola zdravstvuyte (ciao), nemmeno dopo otto settimane di lezioni. Iniziai a disperare e a sentirmi frustrato: non scorgevo alcuna logica dietro le coniugazioni di alcuni verbi stranieri e dietro la suddivisione dei sostantivi in maschili e femminili. Solo il latino offriva qualche speranza, con la sua rigida grammatica capace di appagare il mio nuovo desiderio di cose che appartenessero a uno schema logico e coerente e non fossero soltanto associazioni all’apparenza casuali. O forse dipendeva dal fatto che il professore usava sempre il mio nome per i sostantivi della seconda declinazione: Marcus, Marci, Marco, Marcum…
Un giorno, all’età di dodici anni, l’insegnante di matematica mi indicò e in tono perentorio mi disse: «Du Sautoy, vieni da me alla fine della lezione». Credetti di essere nei guai. Lo seguii fuori dall’aula e, quando fummo in giardino, estrasse un sigaro dalla tasca e lo accese con lentezza. Quindi mi disse: «Credo che dovresti scoprire cos’è davvero la matematica».
Non so ancora perché, fra tutti gli studenti della classe, avesse scelto proprio me per quella rivelazione. Ero lungi dall’essere un genio della matematica e molti dei miei compagni sembravano altrettanto bravi in quella materia, ma evidentemente qualcosa aveva indotto il signor Bailson a pensare che forse avessi voglia di vedere cosa vi fosse oltre l’aritmetica insegnata a scuola.
Mi consigliò di leggere la rubrica di Martin Gardner sullo «Scientific American». Mi suggerì un paio di libri che, a suo avviso, mi sarebbero potuti piacere, tra cui The Language of Mathematics di Frank Land. Il semplice fatto che un professore avesse dimostrato un interesse personale nei miei confronti bastò a spronarmi ad appurare cosa ci trovasse di tanto affascinante in quella disciplina.
Quel week-end, io e mio padre facemmo una gita a Oxford, la città universitaria più vicina a casa nostra. Un negozietto di Broad Street recava l’insegna Blackwell. Da fuori non pareva molto promettente, ma qualcuno aveva detto a papà che era la Mecca delle librerie accademiche. Entrando, capivi il perché. Come il Tardis di Doctor Who, oltre la minuscola porta il locale era enorme. I volumi di matematica, ci informarono, erano nella Norrington Room, vale a dire il seminterrato.
Mentre scendevamo al piano di sotto, ci si aprì davanti una vasta sala cavernosa, zeppa di quelli che mi parvero tutti i possibili libri scientifici mai pubblicati. Era una grotta di Aladino piena di testi. Mentre mio padre cercava i titoli suggeriti dal signor Bailson, cominciai a estrarre i volumi dai ripiani e a sbirciarvi dentro. Gli indici parevano straordinari. Riconobbi stringhe di caratteri greci grazie alla mia breve incursione nello studio di quella lingua. Vi erano scrosci di minuscoli numeri e lettere che ornavano le x e le y. Su ogni pagina comparivano parole in neretto come Lemma e Dimostrazione.
Per me non avevano alcun senso. Appoggiati agli scaffali, alcuni studenti leggevano quei libri come se fossero romanzi. Ovviamente comprendevano quel linguaggio. Era soltanto un codice. In quel momento decisi di imparare a decifrare quei geroglifici matematici. Mentre pagavamo alla cassa, scorsi un tavolo traboccante di tascabili dalla copertina gialla. «Sono riviste matematiche» spiegò il commesso. «Gli editori ne offrono copie gratuite per indurre gli accademici ad abbonarsi.»
Presi un campione intitolato «Inventiones Mathematica» e lo infilai nel sacchetto dei testi che avevamo appena acquistato. Ecco la mia sfida. Sarei riuscito a decodificare le invenzioni matematiche descritte in quel libretto? Alcuni articoli erano in tedesco, uno in francese e gli altri in inglese. Quello che ora ero determinato a penetrare era tuttavia il linguaggio matematico. Cos’erano uno «spazio di Hilbert» e un «problema di isomorfismo»? Quale messaggio si nascondeva tra quelle righe di sigma, delta e simboli di cui non conoscevo neppure il nome?
Quando arrivai a casa, iniziai a sfogliare i volumi. The Language of Mathematics era quello che mi incuriosiva di più. Prima della spedizione a Oxford non avevo mai pensato alla matematica come a un linguaggio. Quella insegnata a scuola sembrava consistere solo di numeri da moltiplicare o dividere, sommare o sottrarre, con vari gradi di difficoltà. Consultando quell’opera, capii tuttavia perché il mio insegnante mi aveva invitato a «scoprire cos’è davvero la matematica».
In quelle pagine non vi erano divisioni fra numeri con molte cifre decimali o cose simili. Si trovano invece, per esempio, importanti sequenze di numeri, come quella di Fibonacci, capace, affermava il testo, di spiegare la crescita dei fiori e delle conchiglie. Ciascun componente della serie si otteneva addizionando i due precedenti. La sequenza cominciava con 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, … Secondo Land, quei numeri erano come un codice in grado di indicare alla conchiglia cosa fare man mano che si sviluppava. Si formava un minuscolo mollusco con una casetta di 1 × 1 centimetri quadrati. Poi, ogni volta che l’animaletto diventava più grande del guscio, aggiungeva un’altra stanza alla costruzione. Non avendo molto su cui basarsi, si limitava a creare uno spazio le cui dimensioni fossero la somma di quelle dei due precedenti. Il risultato di quel processo semplice e bellissimo era una spirale (figura 1.1). Sul libro c’era scritto che quei numeri erano fondamentali per il modo in cui la natura faceva crescere qualunque cosa.
Sfogliandolo, mi imbattei in interessanti oggetti tridimensionali che non avevo mai visto prima, formati da pentagoni e triangoli. Uno si chiamava «icosaedro» e aveva 20 facce triangolari (figura 1.2). A quanto pareva, se si prendeva una di quelle forme (che il libro chiamava poliedri) e si contavano le facce e le punte (che il libro chiamava vertici), sottraendo poi il numero di bordi, si otteneva sempre due. Per esempio, un cubo aveva 6 facce, 8 vertici e 12 bordi: 6 + 8 − 12 = 2. Secondo Land, quel trucco avrebbe funzionato per qualsiasi poliedro. Assomigliava a un gioco di prestigio. Lo provai sul solido composto da 20 triangoli.
Figura 1.1: Il mollusco usa i numeri della sequenza di Fibonacci per ampliare la conchiglia.
Figura 1.2: L’icosaedro con 20 facce triangolari.
Il difficile però stava nell’immaginare l’intero oggetto con chiarezza sufficiente per contare tutto. Anche se ne avessi costruito uno di cartoncino, calcolare tutti quei bordi sembrava un po’ scoraggiante. Ma poi mio padre mi indicò una scorciatoia. «Quanti triangoli ci sono?» Be’, il volume diceva 20. «Allora fanno 60 bordi su 20 triangoli, ma ogni bordo è condiviso da due triangoli. Dunque, i bordi sono 30.» Ebbene, quello sì che era un gioco di prestigio. Era possibile sapere quanti bordi aveva l’icosaedro senza nemmeno guardarlo. Lo stesso stratagemma valeva per i vertici. Di nuovo, 20 triangoli hanno 60 vertici. Ma questa volta vidi nella figura che ciascuno era condiviso da cinque triangoli. Perciò l’icosaedro aveva 20 facce, 12 vertici e 30 bordi. E naturalmente, 20 + 12 − 30 = 2. Ma perché la formula funzionava a prescindere dal poliedro scelto?
In un altro testo vi era un intero paragrafo sulla simmetria di oggetti come quei poliedri fatti di triangoli. Avevo una vaga idea di cosa significasse «simmetria». Sapevo di essere simmetrico, almeno all’esterno. Qualunque cosa avessi sul lato sinistro del corpo, ve n’era un’immagine speculare sul destro. Ma un triangolo, pareva, aveva una simmetria molto più marcata di quella semplicemente speculare. Potevi anche ruotarlo, e restava sempre uguale. Cominciai ad accorgermi di non essere davvero sicuro di cosa volesse dire che una cosa era simmetrica.
Secondo il libro, il triangolo equilatero aveva sei simmetrie. Continuando a leggere, iniziai a capire che la simmetria di quel poligono era racchiusa nelle alterazioni cui potevo sottoporlo senza modificarne l’aspetto. Disegnai un profilo intorno a un pezzo di cartoncino triangolare, quindi contai i modi in cui potevo variare la figura cosicché rientrasse esattamente nella sagoma sul foglio. Ciascuna di quelle mosse, affermava il libro, era «una simmetria» del triangolo. Dunque la simmetria era qualcosa di attivo, non di passivo. Gli autori mi spinsero a concepirla come un’azione da effettuare sul triangolo per ricollocarlo dentro il suo contorno anziché come una proprietà intrinseca del poligono stesso. Cominciai a contare le simmetrie della figura, cioè i vari interventi cui potevo sottoporla. Potevo ribaltarla in tre modi. Ogni volta, due angoli si scambiavano di posto. Potevo anche farle fare 1/3 di rotazione completa, in senso orario o antiorario. Così arrivavo a cinque simmetrie. Qual era la sesta?
Cercai disperatamente ciò che mi era sfuggito, tentando di combinare le operazioni per vedere se riuscissi a individuarne un’altra. Dopo tutto, eseguire due di quelle azioni in sequenza era come effettuarne una sola. Se una simmetria era un intervento capace di rimettere il triangolo dentro la sua sagoma, forse avrei trovato una mossa o simmetria aggiuntiva. E se avessi ribaltato il poligono e poi l’avessi ruotato? No, quella manovra era identica agli altri capovolgimenti. E se l’avessi rovesciato, girato e poi rovesciato di nuovo? No, avrei solo provocato la rotazione nell’altro senso, che avevo già contato. Avevo identificato cinque operazioni, ma qualunque combinazione provassi, non riuscii a scoprire nulla di nuovo. Così tornai al libro.
Compresi che gli autori consideravano come simmetria anche l’opzione di lasciare il triangolo dov’era. Strano… A mio parere il termine «simmetria» indicava qualunque operazione si potesse compiere sul poligono cosicché quest’ultimo restasse dentro il suo profilo, ma ben presto mi resi conto che andava presa in considerazione anche la possibilità di non toccarlo affatto (oppure il gesto equivalente di sollevarlo e rimetterlo esattamente allo stesso posto).
L’idea della simmetria mi piaceva. Le simmetrie di un oggetto mi ricordavano le fasi di un numero di illusionismo. Il matematico ti mostra il triangolo, quindi ti prega di voltarti. Mentre non guardi, gli fa qualcosa. Ma quando ti giri, il poligono è identico a prima. Si può concepire la simmetria complessiva di un oggetto come l’insieme delle manovre che il matematico potrebbe eseguire per convincere qualcuno di non averlo nemmeno sfiorato.
Provai quella nuova magia su altre forme. Eccone qui una interessante, simile a una stella marina con sei punte (figura 1.3). Non potevo capovolgerla senza farla sembrare diversa: pareva ruotare in un solo senso, il che ne distruggeva la simmetria speculare. Ma potevo sempre girarla. Con i suoi sei tentacoli, mi consentiva cinque rotazioni, oltre alla possibilità di lasciarla dov’era. Sei simmetrie. Proprio come il triangolo.
Figura 1.3: Una stella marina a sei punte senza simmetria di riflessione.
Ciascun oggetto aveva il medesimo numero di simmetrie. Il libro parlava tuttavia di un linguaggio in grado di articolare e dare significato all’affermazione: «Questi due oggetti hanno simmetrie differenti». Un linguaggio in grado di svelare perché quei corpi rappresentavano due specie distinte nel mondo della simmetria. Quel codice, prometteva il testo, era anche capace di riconoscere quando due oggetti diversi sul piano fisico erano, in realtà, identici su quello simmetrico. Era proprio il viaggio che stavo per intraprendere: la scoperta della vera natura della simmetria.
Man mano che continuavo a leggere, le forme e le illustrazioni cedevano il passo ai simboli. Ecco il codice cui alludeva il titolo della prima opera. Pareva che esistesse un metodo per tradurre le immagini in linguaggio. Mi imbattei in alcuni dei simboli che avevo scorto nella pubblicazione dalla copertina gialla. Tutto iniziava a diventare piuttosto astratto, ma sembrava che quella lingua cercasse di esprimere la scoperta che avevo fatto giocando con le sei simmetrie del triangolo. Se si prendevano due simmetrie, o mosse da prestigiatore, e si effettuavano l’una dopo l’altra, per esempio una riflessione seguita da una rotazione, se ne otteneva una terza. Il linguaggio che descriveva quelle interazioni aveva un nome: teoria dei gruppi.
Quel codice spiegava perché le sei simmetrie della stella marina a sei punte erano diverse dalle sei del triangolo. Una simmetria era una di quelle operazioni magiche, perciò potevo compierne due in successione per averne una terza. Le interazioni nel gruppo di simmetrie della stella marina erano molto diverse da quelle nel gruppo del triangolo. A distinguere un oggetto dall’altro erano pertanto i rapporti all’interno degli insiemi di simmetrie.
Nella stella marina, per esempio, una rotazione seguita da una seconda rotazione me ne dava una terza. L’ordine in cui eseguivo i due interventi non aveva tuttavia alcuna importanza. Girando pertanto l’oggetto di 180° in senso orario e poi di 60° in senso antiorario, lo portavo nella medesima posizione in cui l’avrei portato invertendo le due azioni. Invece, se prendevo due simmetrie del triangolo e combinavo i due trucchi illusionistici corrispondenti, l’ordine in cui li effettuavo faceva una notevole differenza. Un’operazione di simmetria speculare seguita da una rotazione non era uguale alla rotazione seguita dall’operazione di simmetria speculare. Il linguaggio del libro aveva tradotto le illustrazioni nella frase M × R ≠ R × M, dove M era la mossa di simmetria speculare ed R la rotazione (figura 1.4). Era possibile tradurre il mondo fisico della simmetria in un linguaggio algebrico astratto.
Figura 1.4: Una simmetria speculare seguita da una rotazione è diversa da una rotazione seguita da una simmetria speculare.
Proseguendo gli studi, riuscii a capire cos’aveva fatto il mio professore di matematica. L’aritmetica insegnata in aula è un po’ come le scale e gli arpeggi per un musicista. Il signor Bailson mi aveva suonato alcuni degli appassionanti brani che mi avrebbero aspettato là fuori se fossi riuscito a padroneggiare la parte tecnica dell’argomento. Non comprendevo certo tutto ciò che leggevo, ma ora volevo saperne di più.
Quasi tutti i musicisti in erba abbandonerebbero la loro arte se fossero costretti a suonare e ascoltare soltanto scale e arpeggi. Un bambino che si accosta all’uso di uno strumento non ha idea di come Bach abbia composto le Variazioni Goldberg o di come improvvisare un assolo di blues, ma è in grado di apprezzare qualcuno che lo fa. Opere come The Language of Mathematics mi insegnarono che si poteva fare la stessa cosa con la matematica. Non sapevo cosa fosse davvero «un gruppo», ma intuii che quel concetto faceva parte di un linguaggio segreto da utilizzare per rivelare la scienza della simmetria.
Era quello il gergo che avrei cercato di imparare. Forse non mi avrebbe garantito l’accesso al ministero degli Esteri, e forse avrei dovuto rinunciare al sogno di diventare una spia, ma quel codice segreto sembrava intrigante quanto qualsiasi incursione nel mondo dello spionaggio. E, a differenza del russo o del tedesco, quella della matematica pareva una perfetta lingua idealizzata in cui tutto aveva senso e non vi erano verbi irregolari o eccezioni assurde.
Fra tutti i temi affrontati in quei libri, la teoria dei gruppi (il linguaggio della simmetria) era quello che mi affascinava di più. Sembrava che prendesse un universo pieno di immagini e lo trasformasse in parole. Il potere di quella nuova grammatica conferiva trasparenza alle pericolose ambiguità che tormentano il mondo visivo con la sua pletora di miraggi e illusioni ottiche.
Sono rimasto seduto sulla spiaggia all’ombra della baracca, impegnato a leggere uno dei tascabili con la copertina gialla che avevo visto da Blackwell. Per me, i racconti contenuti in quei volumi sono emozionanti quanto il miglior romanzo dell’estate. Quello che tengo in mano è scritto nel linguaggio della simmetria e narra la storia di alcuni dei bizzarri oggetti simmetrici che quest’ultimo ha contribuito a generare. Ma è anche un libro colmo di storie incomplete. Il mio quarantesimo compleanno è solo una breve tappa nel viaggio verso la risposta agli interrogativi che mi hanno ossessionato mentre esploravo il mondo della simmetria.
Ripensandoci oggi, mentre siedo sulla sabbia del Sinai, mi accorgo di aver percorso molta strada da quando mi sono avvicinato per la prima volta al linguaggio della simmetria. I miei passi lungo questo sentiero rappresentano solo una minuscola parte della ricerca più ambiziosa che impegna i matematici sin da quando intuirono che la simmetria era la chiave per comprendere alcuni dei misteri più reconditi della natura.
Il linguaggio della natura
Il sole cala dietro i monti del Sinai e la marea si ritira oltre la piattaforma corallina che si allunga parallela alla costa. È ora che gli uomini e i crostacei escano dall’ombra. Forse un po’ di esercizio fisico mi aiuterà a dissipare la confusione che ho in testa. Davanti a me vedo due israeliani che alloggiano nell’accampamento beduino. Per loro, il Sinai è un’alternativa gradita al servizio di guardia a Gaza. Con la schiena bruciacchiata dalle troppe immersioni sotto il sole del deserto, indicano l’acqua con entusiasmo, incuriositi da qualcosa che hanno trovato sulla superficie del corallo. Quest’ultimo, noto all’improvviso quando abbasso lo sguardo, è costellato di alcune delle più straordinarie creature simmetriche esistenti in natura.
Nell’acqua galleggia una vera stella marina, come quella dell’illustrazione con cui avevo giocato da piccolo. Non credo di averne mai vista una viva prima d’ora. Ha i classici cinque tentacoli che quasi tutti associano a questo animale, ma non è rigida come generalmente viene rappresentata. A quanto pare, alcune specie, insoddisfatte del semplice pentacolo, hanno optato per tipi di simmetria ancora più appariscenti. La stella marina gigante nasce con cinque bracci, ma durante i suoi otto anni di vita può svilupparne fino a 24. Riuscire a creare una forma che sia esattamente la stessa in 24 direzioni diverse è un’autentica impresa di ingegneria biologica.
Ma perché la simmetria è così frequente in natura? Ovviamente non si tratta semplicemente di una questione estetica. Proprio come per me e la matematica, per la natura la simmetria è legata al linguaggio. Fornisce alle piante e agli animali uno strumento per trasmettere una molteplicità di messaggi, dalla superiorità genetica alle informazioni nutrizionali. Non di rado esprime un significato, pertanto può essere interpretata come una forma di comunicazione molto elementare, quasi primitiva.
Per un insetto come l’ape, per esempio, è fondamentale per la sopravvivenza. Questo animaletto ha una vista molto limitata. Mentre vola qua e là per il mondo, il suo cervello riceve immagini distorte come quelle che vedremmo noi se osservassimo quanto ci circonda attraverso una spessa lastra di vetro. Non essendo in grado di valutare le distanze, l’ape sbatte di continuo contro gli oggetti. L’insetto soffre di una forma di daltonismo: il verde sullo sfondo del giardino sembra grigio, e il rosso vi spicca come nero. Ma, anche attraverso queste spesse lenti, vi è una cosa che risalta chiaramente agli occhi della creatura: la simmetria.
L’ape domestica ama la simmetria pentagonale del caprifoglio, la forma esagonale della clematide e la struttura squisitamente radiale della margherita o del girasole. Il bombo preferisce la simmetria speculare, come quella dell’orchidea, del pisello o della digitale. La vista di questi insetti si è evoluta quanto basta per consentire loro di riconoscere quelle forme perché nella simmetria vi è il nutrimento. Le api attratte da strutture caratterizzate da uno schema sono quelle che non patiranno la fame. Per questi animaletti, la sopravvivenza del più forte significa competenza nel campo della simmetria. L’ape che non sapeva leggere i segni e i segnali del cibo continuò a girovagare ronzando per il giardino, incapace di stare al passo con i concorrenti più abili.
Costretta ad attirare l’insetto sulle sue corolle per l’impollinazione e il prolungamento della sua eredità genetica, anche la pianta ha svolto un ruolo in questo dialogo naturale. Il fiore che raggiunge una simmetria perfetta richiama più api e sopravvive più a lungo nella battaglia evolutiva. La simmetria è il linguaggio usato dal fiore e dall’ape per comunicare tra loro. Per il primo, l’esagono o il pentagono sono come un cartellone con la scritta: «Vieni a trovarmi!». Per la seconda, la forma simmetrica contiene il messaggio: «Qui c’è da mangiare!». La simmetria indica qualcosa di speciale, qualcosa di significativo. Tra lo statico rumore bianco che compone gran parte del mondo visivo dell’insetto, i sei petali perfetti della clematide riecheggiano come una frase musicale piena di armonia.
Man mano che il giardino della natura si trasformava, si modificò anche la varietà di forme e colori sfruttati dal mondo vegetale. Dopo milioni di anni scanditi da primavere che seguivano gli inverni per produrre altri dodici mesi di evoluzione geometrica, ora il giardino è un tripudio di schemi che strombazzano saluti e promesse di nutrimento zuccherino.
La simmetria non è tuttavia facile da conquistare. Una pianta deve lavorare sodo e dirottare importanti risorse naturali per raggiungere l’equilibrio e lo splendore dell’orchidea o del girasole. La bellezza della forma è un obiettivo dispendioso. Ecco perché solo le piante più sane e robuste hanno energie sufficienti a sviluppare una forma armonica. La superiorità del fiore simmetrico si riflette in una maggiore produzione di nettare, e quest’ultimo ha un maggiore contenuto di zucchero: la simmetria ha un sapore dolce.
Il fiore o l’animale simmetrico invia un chiarissimo segnale della sua superiorità genetica rispetto agli esemplari circostanti. Ecco perché il regno animale è popolato da forme che tendono a un equilibrio perfetto. Gli esseri umani e le bestie sono programmati geneticamente per considerare belle quelle forme. Entrambi siamo infatti attratti dalle creature la cui costituzione genetica è così progredita da permettere loro di usare parte delle energie per assicurarsi la simmetria.
Privilegiamo una faccia con una perfetta simmetria speculare sui due lati piuttosto che una asimmetrica. Quasi tutti gli animali del mondo naturale amano questa simmetria speculare bilaterale dove una linea centrale divide la forma in due metà distinte. Benché siano differenti, vi è una corrispondenza ineccepibile che le abbina l’una all’altra. Almeno all’esterno. L’asimmetria dei nostri organi interni è ancora un mistero e contribuisce solo ad alimentare la meraviglia per l’armonia esteriore.
Secondo le ricerche, i più simmetrici tra gli esseri umani hanno maggiori probabilità di diventare sessualmente attivi prima degli altri. Persino l’odore emanato dagli uomini sembra essere più invitante per le donne quando il maschio è dotato di maggiore simmetria. In uno studio, un gruppo di donne ha annusato le T-shirt sudate di alcuni soggetti, e quelle in fase di ovulazione hanno preferito le magliette indossate dagli individui con il corpo più armonico. Pare tuttavia che gli uomini non siano programmati per riconoscere l’odore di una donna simmetrica.
Gli animalisti hanno usato la simmetria come prova della crudeltà sugli animali. Le uova degli allevamenti sono molto meno simmetriche rispetto a quelle di fattoria: le galline allevate in batteria subiscono un trauma e sprecano energie che avrebbero potuto impiegare per raggiungere la perfezione. A differenza dell’artista tormentato che prospera nelle ristrettezze per creare un’opera magnifica, la gallina necessita di comodità per produrre una simmetria impeccabile.
Gli animali si sono orientati verso la simmetria speculare anche per via delle maggiori capacità motorie che garantisce. La simmetria viene spesso associata all’idea di una forma contraddistinta da un equilibrio ottimale tra le due metà, e quasi tutte le facoltà motorie dipendono da questa caratteristica per funzionare con la massima efficienza. In una specie con due o quattro zampe, sono i rappresentanti più simmetrici a muoversi più rapidamente. La preda che riesce a correre più velocemente ha più chance di non tramutarsi in pasto. La selezione naturale favorisce dunque la forma che genera l’animale più rapido, e la fluidità dei movimenti è intimamente legata alla simmetria della struttura. L’animale con una zampa molto più lunga delle altre corre in tondo e non sopravvive al ritmo spasmodico della selezione naturale.
La simmetria non è però solo un linguaggio genetico per comunicare ai potenziali compagni quanto il proprio DNA sia di buona qualità. Nell’alveare, lontano dalla ricerca di nettare e fiori armonici, la simmetria pervade anche la vita domestica dell’ape. Rimpinzandosi del cibo accumulato, i giovani insetti secernono piccoli frammenti di cera. La loro concentrazione mantiene la temperatura dell’arnia a 35°, il che rende il materiale abbastanza malleabile per essere modellato dalle api operaie, addette alla sua raccolta e alla costruzione delle celle in cui verrà conservato il miele. Il graticcio esagonale che gli insetti usano per immagazzinare il nutrimento sfrutta un’altra sfaccettatura della simmetria. Quest’ultima non è solo un segnale di significato e linguaggio, ma anche un mezzo naturale di efficienza ed economicità. L’intreccio di esagoni consente infatti alla colonia di raccogliere la massima quantità di miele nello spazio disponibile, senza sprecare troppa cera per costruire le pareti.
Sebbene le api sappiano da sempre che gli esagoni sono la forma più funzionale per l’edificazione di un magazzino, solo di recente i matematici hanno spiegato appieno la «congettura dell’alveare»: tra le innumerevoli strutture che gli insetti avrebbero potuto costruire, l’esagono è quella che richiede meno cera per erigere il maggior numero di celle.
Benché, sul piano genetico, la simmetria sia difficile da conquistare, molti fenomeni naturali tendono verso questa caratteristica, giudicata la condizione più stabile. Il mondo inanimato è pieno di esempi del desiderio di un aspetto armonico: la bolla di sapone cerca di assumere la forma di una sfera perfetta, il solido tridimensionale con la simmetria più accentuata. Per quanto la si ruoti o la si rifletta, la sua struttura non muta mai. Per la pellicola di detersivo è tuttavia l’efficienza di questa forma a essere importante. L’energia dello strato di sapone è direttamente proporzionale alla superficie della bolla. La sfera è il solido con la superficie minima capace di contenere un dato volume d’aria, e dunque quello che consuma meno energia. Come una pietra che rotola giù da una montagna fino al punto di minore energia nella valle sottostante, la sfera simmetrica è la forma ottimale per la bolla di sapone.
La goccia di pioggia che cade dal cielo non ha, in realtà, la forma a lacrima con cui generalmente viene rappresentata. Quella è solo una convenzione artistica per comunicare l’idea della pioggia in movimento. La vera immagine di una goccia d’acqua che precipita è una sfera perfetta. I produttori di pallini di piombo sfruttano questa proprietà sin dal Settecento: il metallo fuso viene fatto gocciolare da una notevole altezza in secchi d’acqua fredda per creare proiettili perfettamente tondi.
Gli scienziati hanno scoperto misteriose simmetrie nascoste nel cuore di molte parti del mondo naturale: i principi su cui si basano la fisica, la biologia e la chimica dipendono tutte da una complessa varietà di oggetti simmetrici. Il fiocco di neve e il letale virus HIV si basano entrambi sulla simmetria. In campo chimico, il diamante possiede tanta resistenza grazie alla disposizione altamente simmetrica degli atomi di carbonio. In fisica, gli studiosi scorsero il legame tra l’elettricità e il magnetismo osservando che queste proprietà sono soltanto due lati diversi del medesimo fenomeno simmetrico. Gli esperti hanno individuato nuove particelle fondamentali esaminando le simmetrie di forme bizzarre. Le differenti simmetrie indicano infatti l’esistenza di nuove entità che riflettono quelle già note.
Da quando gli esseri umani comunicano tra loro, la simmetria è un concetto centrale del lessico. La ripetizione degli schemi è indispensabile per l’apprendimento linguistico da parte del bambino. La simmetria continua a influenzare il modo in cui usiamo le parole nella poesia e nelle canzoni. Dalle prime pitture rupestri all’arte moderna, dai rulli dei tamburi primitivi alla musica contemporanea, gli artisti non hanno mai smesso di portare questo elemento all’estremo. Come nel caso dell’umile ape, la simmetria ha fornito agli uomini mezzi efficienti per creare e costruire, dai tessitori di tappeti arabi agli ingegneri che sono riusciti a inserire quantità di dati sempre maggiori in dispositivi elettronici sempre più piccoli. La simmetria si cela dietro ogni passo del nostro cammino evolutivo.
Il termine «simmetria» evoca oggetti ben equilibrati, dotati di proporzioni perfette. Oggetti che possiedono un senso di armonia e bellezza. La mente umana è sempre attratta da qualunque cosa incorpori qualche aspetto della simmetria. Il nostro cervello sembra programmato per cogliere e cercare l’ordine e la struttura. La musica, l’architettura e le opere d’arte dalle epoche antiche a oggi sfruttano l’idea di cose che si rispecchiano a vicenda creando effetti interessanti. La simmetria, che riguarda i legami tra le varie parti del medesimo oggetto, consente un dialogo naturale all’interno della forma.
Non riesco a scavalcare la stella marina gigante nell’acqua senza ruotare il pentacolo nella mia testa. Non riesco a ignorare il curioso motivo che decora i miei calzoncini da bagno. Persino le orme sulla battigia mi inducono a riflettere su un problema che non posso fare a meno di analizzare da quando l’ho notato. In quanti modi differenti posso isolare le sagome sulla sabbia mentre procedo lungo la spiaggia? Le mie misere impronte sono un esempio di «glissoriflessione»: ciascun passo si ottiene riflettendo il precedente e quindi trascinandolo fino a sovrapporre le due impronte. Ora saltello come un canguro, e i miei piedi producono uno schema con una riflessione semplice. Quando vortico nell’aria e atterro girato dall’altra parte, genero uno schema con due assi di simmetria di riflessione. In tutto, riesco a contare sette simmetrie diverse sulla sabbia. I pescatori beduini che ci stanno procurando la cena ridono di me mentre salto qua e là esplorando la simmetria.
I cercatori di simmetrie
Talvolta la matematica viene definita una ricerca di schemi. Spiccando balzi sulla spiaggia, ho scoperto di poter tracciare sette distinti tipi di ripetizioni con le mie orme. Ma è possibile classificare tutti i modelli presenti in natura? Esiste un limite a quelli che possiamo riconoscere? Potremmo persino redigere una lista di tutte le possibili simmetrie? Per il matematico, il cercatore di schemi, la comprensione della simmetria è una delle tappe principali del viaggio finalizzato a mappare il mondo della sua disciplina.
Da parecchi millenni, gli studiosi accumulano pian piano forme simmetriche mentre spingono le loro esplorazioni sempre più lontano. Ma la simmetria è un concetto sfuggente. Cos’è con esattezza? Quando due oggetti hanno le medesime simmetrie, e quando sono differenti? Fu necessario uno sbalorditivo progresso durante il fervore rivoluzionario della Parigi ottocentesca perché si delineasse un nuovo linguaggio capace di rendere il vero significato della parola. Come avevo appreso dal libro consigliatomi dal mio insegnante, si trattava della teoria dei gruppi. Quel nuovo codice diventò il seme di una rivoluzione matematica che, per le sue implicazioni, avrebbe rispecchiato gli sconvolgimenti politici nelle vie della capitale francese. All’improvviso, la matematica aveva a sua disposizione gli strumenti per costruire navi che facessero vela verso i confini stessi del mondo della simmetria.
Una delle scoperte più importanti raggiunte dal nuovo linguaggio fu la constatazione che dietro la simmetria si nascondeva il concetto di «componenti basilari». Gli antichi greci sapevano che ogni numero poteva essere diviso in numeri primi (indivisibili) e che questi ultimi erano gli elementi costitutivi di tutti gli altri. La teoria dei gruppi portò alla luce un fatto molto più astruso: proprio come i numeri, anche ogni oggetto simmetrico poteva essere diviso in oggetti più piccoli le cui simmetrie fossero indivisibili. Per esempio, si potevano ricavare le rotazioni di una figura con 15 lati dalle rotazioni di un pentagono e di un triangolo. Le serie di rotazioni di quelle figure con «lati primi» non erano tuttavia scomponibili in gruppi più piccoli. La collezione di simmetrie del pentagono era indivisibile. L’aspetto cruciale di quei gruppi di simmetrie elementari era il fatto che costituivano i mattoni con cui costruire tutti gli oggetti simmetrici. Proprio come il numero primo 5 è un componente di numeri più grandi, il pentagono è uno degli elementi costitutivi nel mondo della simmetria.
I matematici impiegarono moltissimo tempo per comprendere appieno cosa rendeva indivisibile un oggetto simmetrico. Quando lo capirono, scorsero la possibilità di preparare una «tavola periodica» della simmetria, formata da tutti i possibili corpi simmetrici indivisibili, proprio come la tavola periodica della chimica riunisce gli elementi inscindibili che compongono tutte le altre sostanze. Il prospetto avrebbe elencato tutti i mattoni con cui si potevano assemblare i vari oggetti simmetrici. I numeri primi indicano le prime voci da inserire nella tabella: le simmetrie rotazionali di un poligono con lati primi. Si profilarono però altre forme, più insolite, le cui simmetrie erano indivisibili. Tra i primi figurò l’icosaedro, con le sue simmetrie rotazionali e le sue 20 facce triangolari. I matematici del secolo XIX intuirono che quei componenti non erano riducibili a oggetti più piccoli.
Gli studiosi esplorano con stupore l’universo della simmetria sin da quando gli antichi greci scoprirono l’icosaedro, più di 2000 anni fa. La nuova finestra aperta dalla teoria dei gruppi offriva tuttavia l’opportunità di dominare e classificare quel mondo. Una volta conosciuti i mattoni della simmetria, era possibile diventarne l’architetto. I matematici ottocenteschi e novecenteschi individuarono e continuarono ad aggiungere oggetti simmetrici basilari alla loro tavola periodica, cominciando a chiedersi se l’avrebbero mai completata.
Poi, negli anni Settanta del Novecento, arrivò un gruppo di esploratori la cui competenza, determinazione e tenacia si rivelarono all’altezza del compito di superare i limiti di quella complessa dimensione. Quegli studiosi si divisero in due squadre distinte. Una si specializzò nella ricerca di strani oggetti matematici, sempre nuovi, le cui simmetrie fossero indivisibili. Come pirati a caccia di tesori, svolgevano il lavoro più appassionante, tentando di identificare nuovi elementi costitutivi della simmetria. Ma la posta in gioco era alta. Mentre alcuni videro scritto il loro nome sugli annali della simmetria grazie alle loro scoperte, molti cercarono invano e tornarono a mani vuote. La fortuna e l’assennatezza erano i fattori che decidevano se vi sarebbe stata la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno.
A differenza degli smargiassi del primo schieramento, il secondo comprendeva una forza da combattimento più disciplinata. Quella truppa ben organizzata lavorava partendo da un diverso punto di vista, sfruttando le limitazioni della simmetria. I suoi membri esaminavano con serietà ogni svolta e ogni curva, spiegando perché non potevano esistere nuove simmetrie indivisibili se si imboccavano determinate direzioni.
Il primo gruppo era un insieme disordinato di matematici indipendenti. Uno dei più pittoreschi era John Horton Conway, ora docente dell’università di Princeton. Il suo carisma matematico e personale gli ha conferito una fama quasi leggendaria. Le sue conferenze, ovvero quando presenta i bottini delle sue scorribande, sono permeate da un carattere pressoché magico. Intesse quelli che a prima vista sembrano giochi di prestigio o curiosità, ma che alla fine forniscono le risposte a interrogativi primari. Ciascuna rivelazione di quelle intuizioni fondamentali è preceduta da una fragorosa risata, come se fosse il primo a stupirsi di essere arrivato a tanto. Dotato di una personalità davvero straordinaria, Conway sa trasformare una sala di accademici seriosi in una comitiva di bambini allegri. Al termine del convegno, gli ascoltatori corrono infatti a trastullarsi con i giocattoli matematici che estrae dalla sua inseparabile valigia.
Al comando della seconda squadra vi era Daniel Gorenstein. Negli anni Sessanta, centinaia di matematici disseminati in tutto il pianeta si erano riproposti di scoprire i limiti dell’universo della simmetria, sforzandosi per lo più di dimostrare che si trattava di un’impresa impossibile. Nel 1972 Gorenstein decise che era necessario un attacco coordinato capace di combinare le singole competenze. Senza il suo intervento, forse i matematici vagherebbero ancora sparsi per il mondo, ignari delle conquiste altrui. Talvolta i progressi furono snervanti e insidiosi perché gli scienziati dovettero farsi strada fra dimostrazioni lunghe e complesse, alcune delle quali articolate in migliaia di pagine di argomentazioni logiche. Gorenstein denominò spesso quei decenni di esplorazioni «Guerra dei trent’anni».
Mentre il primo gruppo saccheggiava nuovi territori, il secondo stabiliva con sistematicità cosa era possibile e cosa no. I suoi membri sarebbero riusciti a dimostrare ai loro colleghi che non vi erano altre regioni inesplorate in cui avventurarsi? Oppure il mondo della simmetria non si sarebbe rivelato una dimensione chiusa, bensì una distesa infinita che avrebbe visto le due squadre navigare per sempre, destinate a non terminare mai il periplo? Vi sarebbero sempre state acque sconosciute? Molti membri del primo schieramento si auguravano che il viaggio continuasse in eterno, portando alla luce simmetrie sempre più strambe. Quelli del secondo agognavano invece la fine della missione e una conoscenza completa.
Nei tardi anni Settanta, i matematici si accorsero che le due fazioni stavano giungendo a delineare una tassonomia definitiva della simmetria, una tavola periodica contenente tutti i suoi elementi costitutivi. La maggior parte degli studiosi era emozionata all’idea di dimostrare che i cercatori di simmetrie avevano trovato tutti i mattoni, ma non tutti erano contenti. Quando qualcuno chiese a John Conway, il capitano dei pirati, se fosse ottimista o pessimista riguardo a quell’eventualità, l’esperto dichiarò in tono piuttosto enigmatico: «Pessimista, ma ancora speranzoso… Sono stato felicissimo di apprendere che la risposta era stata mal interpretata proprio come avevo desiderato con malignità!». Per un cercatore di tesori come Conway, quegli oggetti simmetrici erano «cose bellissime, e vorrei vederne altre, ma sto iniziando a convincermi che probabilmente non ve ne sono».
Gorenstein e la sua coorte militare guardavano invece con ottimismo alla fine delle esplorazioni e alla cessazione della Guerra dei trent’anni. All’inizio degli anni Ottanta si aggiunsero alla lista altri due elementi simmetrici indivisibili, ma, a quel punto, la seconda squadra avvistò la prima all’orizzonte. Mentre i gruppi si avvicinavano l’uno all’altro, tutti cominciarono a rendersene conto: è finita. Niente più sorprese là fuori. L’esplorazione nel mondo della simmetria si era conclusa, la classificazione era ultimata. Quello era tuttavia un finale inconsueto per un viaggio tanto avventuroso. Non vi fu il momento elettrizzante in cui un matematico posò il gessetto e il pubblico si alzò in piedi per applaudire la grande scoperta. Non vi furono conferenze stampa per annunciare che finalmente la ricerca era terminata. Nessuno sa nemmeno chi l’abbia davvero portata a termine. Alcuni mettono anche in dubbio che sia veramente completa.
L’evento non trovò eco al di fuori della comunità matematica. All’epoca frequentavo la prima superiore. La parete della mia camera non era tappezzata dai poster di rock band o di giocatori di football, bensì di ritagli sulle ultime novità nel campo della matematica. Da poco avevo esaminato i numerosi articoli che avevo raccolto, ma nessuno accennava a quella conquista straordinaria. Mentre setacciavo i giornali alla ricerca di tracce su questo argomento, mi imbattei in una lettera al «Guardian» riguardante una dimostrazione errata dell’ultimo teorema di Fermat, pubblicata dal quotidiano una settimana prima. Il mittente era l’accademico che poi sarebbe diventato il relatore della mia dissertazione di dottorato.
Per la comunità matematica, quella di aver individuato una serie di corpi elementari da usare per costruire tutti gli oggetti simmetrici possibili e immaginabili era davvero una notizia strepitosa. Si trattava di un avvenimento senza precedenti. Gli studiosi sono abituati a vedere il nome di singoli individui associato alle dimostrazioni dei teoremi: quella dell’ultimo teorema di Fermat proposta da Andrew Wiles, per esempio, oppure quella della congettura di Poincaré formulata da Grigori Perelman. I matematici si rintanano per anni, lavorando in solitudine, determinati a dare il loro nome a un particolare assioma. Per la prima volta nella storia della disciplina, ecco tuttavia una dimostrazione scaturita da uno sforzo collettivo cui sarebbe stato impossibile e insensato attribuire un unico nome.
Detto questo, coloro che, lungo il tragitto, erano incappati nelle nuove isole della simmetria non avevano esitato a piantare una bandiera e a scrivere il proprio nome sulla mappa: il primo, secondo, terzo e quarto gruppo di Janko, il gruppo di Harada-Norton, Conway uno, due e tre. Scoppiarono alcuni violenti litigi su chi aveva identificato per primo certi gruppi di simmetrie e su quale nome il gruppo avrebbe dovuto portare. Con molta probabilità, qualsiasi tentativo di battezzare la dimostrazione della classificazione avrebbe richiesto l’uso di almeno cento nomi diversi.
A differenza di tutte le altre dimostrazioni, quella era così immensa da impedire a chiunque di affermare di aver letto tutte le 10.000 pagine sparpagliate in 500 riviste diverse che ne componevano il testo. Per molti, una simile spiegazione violava la regola dell’essenzialità in matematica, enunciata nel 1940 da G. H. Hardy, un docente di Cambridge: «Una dimostrazione matematica dovrebbe assomigliare a una costellazione semplice e nitida, non a un ammasso disordinato di stelle nella Via Lattea».
Pur non essendo un elegante ragionamento di una riga, la spiegazione era ricca e varia quanto le meraviglie della Via Lattea. I matematici accoglievano ogni nuova conquista dei cercatori di simmetrie con lo stesso entusiasmo riservato all’individuazione di nuove lune e pianeti. Proprio come la Via Lattea è un singolare forziere colmo di stelle e nebulose, la dimostrazione, seppur vasta e complessa, trabocca di gioielli che avrebbero soddisfatto il senso estetico di Hardy. La storia della simmetria, però, è diversa da quella delle scoperte astronomiche. Con logica cristallina, la nuova spiegazione matematica chiariva perché tutte quelle simmetrie avrebbero dovuto esistere e perché non se ne sarebbero potute trovare altre: non vi era alcuna casualità in quella struttura.
Conway, il Long John Silver della matematica, decise di pubblicare una descrizione delle terre in cui lui e i suoi compagni si erano imbattuti durante il viaggio. Lavorando a Cambridge, si avvalse dell’aiuto di Rob Curtis, Simon Norton, Richard Parker e Rob Wilson per produrre quello che ora è noto come «l’Atlante»: carte matematiche che documentano la topografia di ciascun nuovo gruppo di simmetrie individuato.
Poiché gran parte della scienza dipende dalla simmetria, quell’iniziativa non fu un’oziosa raccolta di farfalle. Enormi settori della fisica, della chimica e della matematica sono spiegabili osservando la simmetria implicita nelle strutture in esame. L’Atlante della simmetria divenne dunque la Stele di Rosetta per molti scienziati. Chiunque si trovasse di fronte a un quesito che richiedeva la comprensione della simmetria poteva ora fare riferimento a quel catalogo. Molti si resero conto di poter dimostrare i loro teoremi semplicemente verificando che il risultato fosse valido per tutti i mattoni indivisibili dell’Atlante di Conway & Co. Un famoso teorico dei numeri di Harvard dichiarò che se la biblioteca fosse bruciata e lui avesse avuto la possibilità di salvare un libro, avrebbe scelto l’Atlante della simmetria.
Le carte di quel volume sono fondamentali per la matematica quanto la tavola periodica degli elementi lo è stata per la chimica. Da millenni, gli scienziati tentavano di identificare i costituenti elementari della materia stessa. Gli antichi greci avevano creduto che quei componenti fossero la terra, il vento, il fuoco e l’acqua. La chimica novecentesca aveva tuttavia optato per la tavola periodica creata dal russo Dmitrij Mendeleev, che, nella sua forma attuale, elenca oltre 100 elementi iniziando dall’idrogeno, dall’elio e dal litio. Usando gli atomi delle sostanze indicate, si possono costruire tutte le molecole dell’universo conosciuto.
Ora, 2000 anni dopo che gli antichi greci avevano cominciato a esplorare le forme simmetriche, la matematica aveva la sua tavola periodica, che enumerava gli elementi della scienza della simmetria, gli atomi con cui si potevano generare tutte le simmetrie possibili. «Atlante» è tuttavia un termine più adatto di «tavola» per quell’enorme tomo rosso, presente nella libreria di parecchi matematici. Dentro vi sono i confini, i paesi e le città che compongono ogni territorio simmetrico basilare.
In realtà, Conway aveva iniziato a compilare l’Atlante anni prima di sapere se l’opera avrebbe avuto un’ultima pagina o se fosse destinata a essere un volume infinito. Una volta certi che il viaggio era terminato, i Cinque di Cambridge consegnarono il testo all’editore per condividere la mappa con la comunità scientifica. Nel 1985 quel documento straordinario cominciò a uscire dalle macchine da stampa. Nello stesso anno, mi recai a Cambridge nei panni di un laureando ventenne di Oxford, sperando di intraprendere la mia traversata personale nel mondo della simmetria.
Si salpa
Dopo anni dedicati a esercitarmi con le scale aritmetiche e il contrappunto matematico, ero pronto a cominciare un lavoro tutto mio. Avevo tuttavia bisogno di un mentore che mi indicasse la giusta direzione. Il mio tutor di Oxford consultò la lista dei teorici dei gruppi a Cambridge e ne scelse uno. «Scriva a Simon Norton» decretò. Fissammo un incontro nella sala professori della facoltà di matematica.
Non sapendo che aspetto avesse Norton, mi sentii un po’ intimidito di fronte a una stanza gremita di docenti. Come quasi tutti i miei colleghi, sono molto schivo di natura. Non sono il tipo a cui piace allungare la mano e presentarsi. Detesto i party e ho il terrore del telefono. La matematica mi aveva offerto un rifugio sicuro, pieno di cose che non assumevano comportamenti inattesi (o, se lo facevano, sapevi almeno che quelle stranezze avevano una spiegazione perfettamente logica). Ciò che preferivo di quella disciplina era che le dimostrazioni parlavano da sole: non ti costringevano a fornire le loro credenziali né a persuadere gli altri della loro validità.
Nessuno sembrava aspettarmi. Tutti parevano assorti in qualche attività. Alcuni scarabocchiavano con foga su bloc-notes, ma la maggior parte era impegnata in partite di go e backgammon. Disturbai uno dei gruppi per chiedere a qualcuno di indicarmi il dottor Norton.
Uno studente additò il fondo del locale: «È seduto laggiù». Scorsi un uomo che assomigliava a un barbone, con i capelli neri scarmigliati che gli spuntavano dalla testa in tutte le direzioni, i pantaloni sfilacciati lungo i risvolti e una camicia costellata di buchi. Era circondato da sacchetti di plastica che sembravano contenere tutti i suoi averi terreni.
Mi avvicinai per presentarmi. Con una strana voce nasale e un accenno di risata nervosa, Norton mi salutò, ma evitò ogni mio tentativo di stringergli la mano, ritraendosi come se volessi aggredirlo. La conversazione fu faticosa. Durante gli studi universitari avevo conosciuto alcuni personaggi molto curiosi, ma nessuno come quello. Il particolare cui pareva più interessato era la strada che avevo percorso da Oxford a Cambridge. Cominciò a estrarre dalle borse gli orari dei treni e degli autobus. A quanto sembrava, vi era un tragitto affascinante che avrei potuto seguire passando per Bletchey. Non che il professore avesse bisogno degli orari: sembrava che li conoscesse tutti a memoria. Mi aveva già programmato il viaggio di ritorno.
Mentre sedevo lì cercando disperatamente di capire qual era il futuro della teoria dei gruppi e ricevendo, invece, una descrizione del sistema di trasporti nazionale, un uomo robusto si diresse verso di noi e si accomodò accanto a Norton. Non sapevo chi fosse, ma pareva convinto che dovessi saperlo. Anche lui aveva capelli spettinati che gli si irradiavano dalla testa, e mi sorrise con una luce folle e spaventosa negli occhi. Eravamo in pieno inverno, ma quel tale indossava sandali e una T-shirt, con l’espansione decimale di π che gli correva intorno all’intera circonferenza del fisico corpulento. Mi rammentava un clown un po’ svitato ma da lì a poco avrei scoperto che si trattava di John Conway, il capitano della nave di Cambridge.
Gli dissi che ero intenzionato a trasferirmi lì per preparare la dissertazione sulla teoria dei gruppi.
«Come si chiama… con le iniziali?» mi chiese Conway. «Mmm… Marcus du Sautoy, Marcus P. F. du Sautoy» risposi titubante.
«Elimini la F e il “du”, trasformi la S di Sautoy in Z e potrà essere dei nostri.»
Non avevo idea di cosa stesse parlando, ed evidentemente la mia espressione mi tradì. Che avessi fatto fiasco in uno strano rito d’iniziazione? Oppure quello era un bizzarro enigma che avrei dovuto risolvere? Una volta che imparano a fare qualcosa, i matematici sanno essere molto crudeli, e godono nel vederti arrancare mentre ti sforzi di capire. Ma quella volta non capii.
Mi lanciò un voluminoso libro rosso, che atterrò con un sonoro tonfo sul bianco tavolino quadrato lì in mezzo. Sulla copertina, Atlas of Finite Groups, e sotto il titolo, cinque nomi:
J.
H.
Conway
R.
T.
Curtis
S.
P.
Norton
R.
A.
Parker
R.
A.
Wilson
«È un atlante della simmetria. Quello in cima sono io. Poi, in sequenza, coloro che sono entrati nel gruppo.» Naturalmente, ora compresi. Ciascuno con due iniziali, ciascuno con un cognome di sei lettere, la prima delle quali indicava l’ordine di arrivo nella squadra. Mi avrebbero accolto solo se mi fossi chiamato M. P. Zautoy. All’interno del tomo, vi è un sesto matematico che viene ringraziato per il suo contributo computazionale alla stesura del libro, ma, con un nome come J. G. Thackray, non avrebbe mai avuto accesso alla copertina.
«Quando l’abbiamo ritirato per la prima volta dalla tipografia, i compositori avevano incasinato la simmetria dei nomi sbagliando tutto l’allineamento. Ho insistito perché lo ristampassero.» L’Atlante non sarebbe mai comparso se non fosse stato per individui come Conway, così ossessionati dalla simmetria da sottolineare simili dettagli.
«Mi piacciono le cose simmetriche. Ho sempre amato le gemme, i cristalli e le forme poliedriche.» L’avevo intuito dall’ufficio da cui era sbucato. Era zeppo di modelli simmetrici di tutte le forme, i colori e le dimensioni, molti dei quali erano appesi al soffitto. Sembravano un assortimento di candelabri a raggiera provenienti da una chiesa bizantina. Quel locale era un tempio della simmetria.
«Ho un libro con le stampe di Escher posato sul mio pianoforte» aggiunse. «Cerco di limitarmi a una sola immagine al giorno ma spesso non resisto alla tentazione di imbrogliare e di girare la pagina in anticipo. Una delle mie preferite è l’illustrazione di una scatola di latta che Escher ideò per un’azienda di cioccolato olandese (figura 1.5). È un icosaedro composto da 20 triangoli punteggiati di conchiglie e stelle marine. Escher era molto intelligente. Tutte le stelle marine mostrano una piccola piegatura cosicché i cinque bracci danno l’impressione di ruotare in senso antiorario. Ciò significa che la forma non ha alcuna simmetria di riflessione. Le uniche simmetrie sono le diverse rotazioni, il primo elemento costitutivo trattato nel libro.»
Figura 1.5: La scatola di cioccolatini icosaedrica progettata da M. C. Escher.
Aprì il volume sulla prima «mappa» dell’Atlante. In cima vi era il nome «A5», seguito da una piccola tabella di numeri che fornivano i dettagli matematici necessari per comprendere le simmetrie dell’«isola».
«Quando qualcosa mi interessa, mi piace denominarla, elencarla, e poi scriverci sopra un libro. Ma se vuole diventare famoso, quella che dovrà capire davvero è la penultima voce dell’Atlante.»
Sfogliò il testo quasi fino alla fine, fermandosi a una pagina la cui intestazione diceva semplicemente: «M». Sembrava il nome di una spia, ma Conway mi spiegò che M stava per «Mostro», una denominazione che gli pareva calzante dopo aver avuto a che fare con l’oggetto. Avevo sentito parlare di quell’enorme coso simmetrico durante l’ultimo anno di università. Lo studio di tale meraviglia armonica non era previsto dal regolare programma accademico, dal momento che era stato costruito per la prima volta nel 1980. In quel periodo avevo tuttavia iniziato ad assistere ad alcuni seminari di ricerca, tanto per farmi un’idea di cosa ci fosse là fuori oltre agli esercizi settimanali propinati dai docenti. Ero rimasto esterrefatto quando i seminari mi avevano travolto come un mare di parole e simboli senza senso, benché avessi appena trascorso tre anni studiando il linguaggio della matematica. Era evidente che avevo ancora molta strada da percorrere. Il Mostro era stato citato in alcuni corsi, ma, a parte il nome singolare, non sapevo cosa fosse veramente.
«Possiede 808.017.424.794.512.875.886.459.904.961. 710.757.005.754.368.000.000.000 simmetrie. Ecco perché si chiama il Mostro.» Lo fissai con stupore, non perché l’oggetto avesse più simmetrie degli atomi del sole, ma perché, senza batter ciglio, Conway era in grado di snocciolare quell’incredibile sequenza di numeri. Intuì che ero rimasto colpito. «E questo è niente. Potrei dirle anche tutte le cifre sul dorso della mia T-shirt.» Guardai la maglietta, che recava un «π =» seguito da un’interminabile sfilza di numeri. Riuscii a recitargli i primi sei: 3,14159, ma non andai oltre. Conway dichiarò invece di ricordare l’espansione decimale di π fino a migliaia di posizioni a destra della virgola. Quei numeri non seguivano uno schema che lo aiutasse a rammentarli; non erano come la sequenza dei numeri di Fibonacci, con la regola di sommare due cifre consecutive per ottenere quella successiva. Conway possiede una mente capace di fiutare il minimo frammento di struttura che gli permette di memorizzare sequenze anche così complesse. E non si tratta di una mente autistica, in grado soltanto di assorbire informazioni casuali: Conway ha allenato il suo cervello analitico a escogitare sistemi per eseguire simili imprese.
«Dimentichi π. La cosa davvero interessante sono questi numeri» proseguì, indicando l’inizio delle immense tavole che rappresentavano il grafico della vasta terra inospitale chiamata Mostro. «196.883. Questo è lo spazio di dimensione minima in cui si possa raffigurare l’oggetto. Il Mostro assomiglia a un gigantesco fiocco di neve che si può vedere solo quando si arriva a uno spazio 196.883-dimensionale.»
La scatola di cioccolatini di Escher era una creazione simmetrica che esisteva nel nostro mondo tridimensionale. Si poteva vedere e toccare. Posta all’inizio dell’Atlante, aveva solo 60 simmetrie diverse. Allargata su pagine e pagine alla fine del volume, vi era invece quella vasta creatura che ti obbligava a entrare in uno spazio 196.883-dimensionale per «vederla». Naturalmente, era impossibile percepirla in senso visivo.
Una delle rivelazioni più emozionanti degli anni precedenti era stato il fatto che il linguaggio della matematica offriva modi alternativi di «guardare» il mondo. I paradossi visivi di Escher dimostrano quanto la nostra percezione della realtà possa essere sbagliata. Trasformando lo spazio fisico nel linguaggio della matematica, è facile individuarli. Le equazioni ci permettono di conoscere il futuro facendo previsioni sulla traiettoria di un pianeta o sull’andamento dell’economia. Per me, quella era una lingua molto più efficace del russo e del francese con cui avevo lottato a scuola. A procurarmi uno dei brividi più intensi era però la sua capacità di evocare cose che i nostri occhi fisici non avrebbero mai potuto distinguere. Il linguaggio matematico spalanca una finestra virtuale su spazi al di là del nostro mondo fisico tridimensionale.
A dire il vero, tutti siamo abituati all’idea di tradurre lo spazio in numeri. Quando cerchiamo la posizione di una città su una cartina geografica, constatiamo che è identificata mediante una struttura a griglia. Per esempio, la facoltà di matematica che visitai a Cambridge si trova a 52,2° di latitudine nord e a 0,1° di longitudine est. Lo stesso principio si utilizza in matematica per tramutare la geometria in numeri. Per esempio, i quattro angoli di un quadrato si possono descrivere tramite le coordinate: (0, 0), (1, 0), (0, 1) e (1, 1). E si può procedere nello stesso modo quando le dimensioni sono tre: basta aggiungere un’altra coordinata. Per esempio, gli otto angoli di un cubo si possono designare mediante otto terne: (0, 0, 0), (1, 0, 0), (0, 1, 0) eccetera, fino a (1, 1, 1) (figura 1.6). La coordinata (1, 0, 1) indica o codifica un punto del cubo tridimensionale raggiungibile muovendo un passo verso est e un passo verticalmente verso l’alto.
Il bello della matematica è che, ora che dispongo di questa traduzione delle immagini in un nuovo linguaggio dei numeri, posso raffigurare la geometria di un cubo in quattro dimensioni senza dovermi preoccupare di visualizzarlo. Questa figura 4-dimensionale, detta «ipercubo» o «tesseratto», ha 16 vertici, designati ciascuno da quattro coordinate, iniziando da (0, 0, 0, 0), passando per (1, 0, 0, 0) e (0, 1, 0, 0) e arrivando fino al punto più lontano, in corrispondenza di (1, 1, 1, 1). I numeri diventano un codice per descrivere la forma. Sebbene non riesca a «vedere» l’ipercubo, il linguaggio matematico mi permette di manipolarlo ed esplorarne le simmetrie. I numeri mi regalano, se volete, un sesto senso, l’impressione di riuscire davvero a vedere in quattro dimensioni.
Figura 1.6: La trasformazione della geometria in numeri: è possibile descrivere una forma con l’uso di coordinate.
Nonostante la mia nuova abilità nel «guardare» le forme di dimensioni superiori, la capacità di Conway e Norton di evocare un fiocco di neve simmetrico nello spazio dimensionale di 196.883 era un esperimento concettuale davvero strabiliante. Quello non era un oggetto che si poteva veder cadere dal cielo. Per costruire qualcosa di simile, si era costretti ad affidarsi al linguaggio matematico. Quella creazione esisteva in un mondo dove gli oggetti fisici erano sostituiti da numeri che li codificavano. Proprio com’è possibile descrivere l’ipercubo mediante stringhe di quaterne formate da 0 e 1, Conway e Norton avevano immobilizzato il Mostro usando serie di 196.883 numeri. E, secondo Conway, 196.883 non era casuale.
«La cosa stupefacente» spiegò «è che 1 + 196.883 = 196.884.»
Assunsi un’espressione attonita: non mi sembrava un’osservazione che avrebbe entusiasmato il pubblico per la sua importanza matematica. Poi un’illuminazione: «Ahhh, ma 196.884 è il primo coefficiente della serie di Fourier della funzione modulare!». Ebbene, anche se avevo vagamente intuito che si riferiva a uno dei pilastri fondamentali per la teoria dei numeri, non riuscivo a capire cosa avesse a che fare con la simmetria di un enorme fiocco di neve.
«È questo il punto» ribatté Conway. «Quando qualcuno me ne ha parlato, mi è parsa pura numerologia. Ma poi sono sceso nella biblioteca della facoltà e ho trovato un libro su queste forme modulari. Okay. Qual è il prossimo numero della lista?»
Guardai la tavola. Era 21.296.876, la grandezza della successiva dimensione importante in cui era possibile vedere quel fiocco di neve. «Ebbene, quando sono andato a cercare il secondo coefficiente della funzione modulare in quel volume, era 21.493.760.» Assunsi nuovamente un’espressione attonita. «Sta di fatto che 21.493.760 = 1 + 196.883 + 21.296.876. Io e Simon abbiamo inventato un metodo per usare i numeri della tavola del Mostro, ottenendo tutti i termini della serie di Fourier della funzione modulare.»
Il punto era che quella strana cosa denominata funzione modulare si poteva descrivere, in sostanza, mediante la serie 196.884, 21.493.760, 864.299.970, … Analogamente, i contorni di quell’immenso fiocco di neve erano definiti da un’altra sequenza: 196.883, 21.296.876, 842.609.326, … Conway e Norton avevano scoperto un pezzettino di magia matematica che pareva trasformare miracolosamente la prima serie nella seconda.
A chi è privo di sensibilità matematica potrebbe non sembrare granché, ma ormai ne sapevo abbastanza da intuire che era singolare. Era come se un archeologo impegnato negli scavi di una piramide maya nella giungla del Guatemala avesse rinvenuto motivi prima individuati soltanto nelle tombe egizie: sarebbe stato logico dedurne un legame tra le due culture. Gli scavi di Conway avevano evidenziato un collegamento simile tra due incisioni matematiche: la funzione modulare della teoria dei numeri e quella simmetria mostruosa. Le due cose sembravano non avere niente in comune. Il segreto dello spazio dimensionale in cui viveva il Mostro pareva tuttavia programmato nella funzione modulare.
«Quell’esperienza è stata la più emozionante della mia vita matematica» raccontò Conway. Ma cosa significava? «È questo il punto: non lo sappiamo. Perché vi è un nesso?»
«Monstrous moonshine» intervenne Norton. «È così che l’abbiamo battezzata, questa strampalata numerologia» proseguì Conway. «Monstrous moonshine.»*
Era un nome insolito ma a quale significato della parola «moonshine» si riferivano? Alla produzione clandestina di whisky? Oppure «moonshine» stava a indicare che dicevano delle assurdità? Quella non sembrava tuttavia una semplice numerologia folle. Sarebbe stato legittimo classificare come una bizzarra coincidenza l’osservazione secondo cui 196.883, la prima dimensione in cui è possibile avvistare il Mostro, e 196.884, il primo numero della funzione modulare, erano così vicini. Il fatto che tutti i numeri documentati nell’Atlante da Conway e dai suoi collaboratori per esprimere le simmetrie del Mostro avessero un rapporto così diretto con i valori derivanti da quell’oggetto nella teoria dei numeri non poteva tuttavia essere solo una quisquilia numerologica. «Le relazioni sono troppo sorprendenti per essere fortuite.»
In realtà, il loro impiego di «moonshine» pareva indicare l’esistenza di una sorta di sole matematico i cui raggi illuminavano i valori del Mostro e la funzione modulare della teoria dei numeri. Benché tutti vedessimo la luce riflessa della luna, nessuno riusciva a distinguere il sole che era la fonte del nesso tra quelle cifre. La sorgente di quel chiarore, asserì Conway, era uno dei più grandi misteri di quell’argomento. Intuii il fascino del problema. L’insolita natura interconnessa della matematica era uno degli aspetti che avevo cominciato a giudicare più curiosi. Trovare il tunnel tra quei due concetti, il Mostro e la funzione modulare, sembrava un progetto allettante. Come Bottom nel Sogno d’una notte di mezza estate, chi avrebbe potuto resistere all’invito del tessitore matematico: «Guardiamo nell’almanacco, troviamo la luna, troviamo la luna»?
E poi, come se io non ci fossi, Conway e Norton cominciarono a discutere di numeri sempre più grandi, di coordinate che avevano documentato nell’Atlante mentre si addentravano nell’esplorazione delle singolari implicazioni di quella luce lunare. Avevano tanta familiarità con quell’oggetto da non dover guardare la mappa aperta lì davanti. Per quegli straordinari matematici il Mostro era un amico, qualcuno che conoscevano bene. Nonostante le domande indagatrici di cui la tempestavano, quella creatura si teneva tuttavia stretti alcuni dei suoi segreti. Sedetti lì, ammirando la loro bravura e la loro padronanza di una cosa così complessa e inesplicabile che sembrava superare le capacità di una mente normale. Ma, proprio come Conway aveva trovato nell’espansione decimale di π indizi che lo aiutassero a ricordare così tante cifre, il Mostro, nonostante le sue dimensioni e la sua complessità, aveva rivelato una quantità tale di misteri del suo funzionamento da poterlo studiare.
Dopo aver ascoltato per un po’ quei due che si sfidavano a suon di numeri in un duello matematico, me ne andai in silenzio e seguii le indicazioni che Norton aveva estratto dai suoi sacchetti di plastica per il tragitto più comodo da Cambridge a Oxford.
Mezzanotte, 26 agosto, deserto del Sinai
Finalmente la temperatura è scesa a livelli sopportabili. Sono steso sulla sabbia con il cielo scuro che brucia sopra di me. Provo ancora un autentico brivido quando alzo lo sguardo verso lo spazio e mi domando cosa ci sia lassù. Che forma ha? Cosa significa dire che l’universo è «sconfinato ma finito»?
Devo confessare di essere sotto l’effetto di un regalo di compleanno del nostro ospite: l’erba che i beduini coltivano sull’altro versante della montagna è tra le migliori del Medio Oriente. Forse agli occhi dei ragazzi con cui sto fumando appaio un po’ patetico: un serio uomo maturo che cerca di superare la crisi dei quarant’anni. All’università avevo passato gli spinelli agli altri con aria scandalizzata, convinto che, per quanto potessero favorire l’ispirazione poetica, nuocessero alla mente matematica, anche se in seguito ho scoperto diversi matematici che avevano prodotto il loro lavoro migliore sotto l’effetto della marijuana.
La luna si è appena alzata sopra i monti. Perché qui sembra molto più grande che a Londra? Qui l’atmosfera produce uno strano gioco di lenti che ingrandisce il nostro satellite? La luna sta invecchiando, è al suo ultimo quarto. Per i beduini, le fasi lunari controllano i cicli dell’anno, con la prima falce che segna l’inizio di un nuovo mese. Secondo i miei ospiti, quest’anno il mio compleanno cade nel Rajab. Il prossimo, si sarà insinuato in un altro mese del calendario islamico. È il potere della matematica a trasportarti da una data all’altra, anche se, in definitiva, sono le autorità dell’Arabia Saudita al di là del mare ad avere l’ultima parola sull’argomento.
Le onde lambiscono con delicatezza la barriera corallina. I raggi della luna si riflettono sulla superficie dell’acqua. Quei fotoni luminosi hanno compiuto un viaggio straordinario. Lanciati dal sole che è tramontato alle mie spalle, sono rimbalzati sulla luna e hanno colpito il mare prima di atterrare nei miei occhi. Ma, in realtà, cosa accade al fotone una volta che mi è entrato nelle pupille? Qual è l’insolito miscuglio di fisica e biologia che mi trasmette la sensazione di vedere il luccichio tra le onde?
La luna per tutto il giorno ha allontanato e chiamato a sé il mare. La marea è cambiata di nuovo e ormai ha coperto la piattaforma corallina dove, questo pomeriggio, avevo visto la stella marina simmetrica. Perché vi sono due alte maree al giorno anziché una sola? È una domanda che ha una risposta molto sfuggente, me ne rendo conto mentre cerco di risolvere l’arcano disegnando sulla sabbia lune che orbitano intorno alla Terra. La scienza progredisce grazie ai quesiti cui non sappiamo rispondere. Senza problemi irrisolti su cui concentrarsi, la matematica morirebbe. Alla fine, getto la spugna. Il misterioso chiaro di luna mi illumina la strada verso la baracca, splendendo sotto le stelle.
∗Il vocabolo inglese «moonshine» ha tre diversi significati, che l’autore elenca nel capoverso successivo: 1) chiaro di luna; 2) idea balzana, progetto strampalato; 3) liquore distillato clandestinamente. (N.d.T.)2
Settembre: il successivo lancio del dado
Chi riesce a tenere un giuocatore lontano dal dado, e uno scolaro lontano dai libri può ben dire d’aver operato un miracolo
William Shakespeare, Le allegre comari di Windsor
1° settembre, Stoke Newington, Londra
Per me, settembre è sempre stato un mese di inizi. Mi aspetta l’apertura dell’anno accademico con tutte le sue promesse di nuove cose da imparare e scoprire. È il primo giorno di lezioni dopo le vacanze estive.
Mentre accompagno Tomer, mio figlio di nove anni, a scuola, ne approfitto per inculcargli le tanto temute tabelline. Tomer cerca di escogitare trucchi per memorizzarle, usando qualche semplice calcolo per crearsi un corpus di conoscenze più vasto cui attingere prima di rispondere.
A scuola, pretendono che impari le tavole pitagoriche a memoria affinché perfezioni delle risposte automatiche prima di passare ad argomenti più complessi. Mentre camminiamo insieme, cerco di accendere la fiamma matematica in mio figlio. Lo interrogo sulle moltiplicazioni, ma non mi limito al ripasso delle singole tabelline. Gli chiedo 4 × 4, poi 3 × 5; 5 × 5 poi 4 × 6; 6 × 6 seguito da 5 × 7. Dopo un po’ riconosce lo schema: il secondo risultato corrisponde sempre al precedente meno 1. Spero che si entusiasmi mentre gli spiego che questa regola è valida qualunque siano i numeri scelti. «Okay, siamo arrivati. Puoi stare zitto ora?» dice, temendo che qualcuno lo senta parlare di aritmetica con suo padre.
Mentre rientro, il mio cervello inizia già a rimuginare sul problema di cui mi sto occupando in questo periodo. Mi piace lavorare da casa. A mio parere, un ufficio è uno spazio opprimente, capace di rammentarmi di continuo che non mi è venuta nessuna idea brillante. Detesto l’aria accusatoria con cui la lavagna mi fissa, chiedendomi perché non l’ho coperta di equazioni significative. La mia tela favorita sono i bloc-notes gialli a righe. Chissà perché, il giallo è il colore ideale per la matematica. Forse è stata la vista di tutti quei volumi da Blackwell quando ero bambino a indurmi ad associarlo a questa disciplina. La rilegatura del taccuino garantisce una parvenza di ordine sullo sfondo dei miei ragionamenti confusi.
Scoprii quei blocchi mentre ero in viaggio a Israele. Ora ne ho interi scatoloni in cantina. Dal momento che l’ebraico si scrive da destra a sinistra, i margini sono sul lato destro, ma è interessante notare che — a prescindere da quale verso ciascuna lingua si scriva — le equazioni matematiche cominciano sempre a sinistra e si sviluppano verso destra. Per il momento ho soltanto la metà sinistra della mia equazione. L’altra, devo ancora completarla.
Per la maggior parte del tempo mi limito a starmene seduto lì, senza fare nulla né arrivare da nessuna parte. La mia camera è uno spazio in cui posso entrare e uscire tranquillamente dalle idee senza sentirmi in colpa. È un luogo molto disordinato. La metà delle volte, questo dettaglio mi deprime. Ma, a essere sincero, è un riflesso fedele del mio processo mentale. Mi metto a cercare un libro sepolto chissà dove sotto le piramidi di carta che torreggiano sulla mia scrivania, ma durante la ricerca mi imbatto spesso in qualcosa che non stavo cercando e che devia il filo dei miei pensieri in una direzione inaspettata. Vivendo in un locale caotico, aumento le probabilità di individuare quei legami casuali. Ogni volta che riordino, archivio anche la possibilità di ricevere illuminazioni inattese.
Mentre sono alle prese con la matematica, ascolto parecchia musica. Mi aiuta a rilassarmi quando non concludo nulla, perché la mia mente si lascia trascinare dalla melodia. Talvolta faccio una pausa vera e propria e vado a strimpellare il pianoforte. Sono un pianista davvero mediocre. Al momento suono le Variazioni Goldberg di Bach, ma a circa un decimo della velocità cui andrebbero eseguite. È questo il tempo che impiego per convincere le mie dita a cimentarsi nelle note successive. Mi illudo che la musica stimoli davvero la stessa regione cerebrale di cui ho bisogno per la matematica. Forse i miei sforzi fungono da allenamento mentale per mantenere in forma i neuroni in vista del prossimo assalto matematico.
L’altro stimolante che uso (o di cui abuso) a casa viene dalla mia macchina per fare l’espresso. Il rituale della preparazione del caffè costituisce un’importante ossatura su cui plasmare la giornata lavorativa. Una volta, Paul Erdo˝s, uno dei grandi protagonisti della mia disciplina, osservò che il matematico è una macchina per trasformare il caffè in teoremi. Qualche tempo fa, uno dei miei propositi per l’anno nuovo fu la rinuncia alla caffeina, e non produssi nulla di interessante per i dodici mesi successivi. Può darsi, allora, che il motto di Erdo˝s abbia un fondo di verità. Sherlock Holmes misurava la difficoltà di un problema in base al numero di pipe che doveva fumare per risolverlo. Il mio criterio di valutazione sono le tazzine di espresso. Probabilmente il teorema che sto cercando di dimostrare richiederà la produzione annuale di chicchi di un piccolo Stato sudamericano prima di rivelarmi i suoi segreti.
L’Atlante di Conway elencherà anche tutti i mattoni della simmetria, ma non si sa ancora bene cosa si possa costruire con quelle unità. Una parte della mia ricerca consiste nell’individuare gli oggetti ricavabili da quelle simmetrie indivisibili. È come se i chimici dovessero prendere, per esempio, gli atomi di sodio e cloro e stabilire quali sono i composti sintetizzabili a partire da quegli elementi.
Ho scelto uno dei mattoni più semplici: le simmetrie rotazionali di forme bidimensionali regolari come il triangolo e il pentagono. Ignoro la simmetria di riflessione. Se necessario, posso ricorrere allo stesso trucco che Escher utilizzò quando smontò la simmetria speculare o di riflessione della scatola di cioccolatini tanto amata da Conway: dipingere sulla forma una stella marina con una lieve piegatura antioraria sui bracci.
Il pentagono ha cinque simmetrie rotazionali. Si può girarlo di 1/5 di rotazione completa, come anche di 2/5, 3/5 o 4/5, oppure lasciarlo dov’è. Allo stesso modo, il triangolo equilatero ha tre simmetrie rotazionali. Anzi, per ogni poligono bidimensionale regolare, il numero di simmetrie rotazionali coincide con quello dei lati.
Un poligono regolare con 15 lati ha pertanto 15 simmetrie rotazionali. Ma ecco che accade qualcosa di interessante. Le simmetrie della figura con 15 lati derivano, in realtà, dalle simmetrie di due forme più piccole: il pentagono e il triangolo. Se disegno un pentagono e un triangolo nella figura con 15 lati, ottengo tutte le rotazioni della forma più grande combinando quelle delle più piccole.
Per esempio, nella figura 2.1, come posso girare la figura con 15 lati di 1/15 di rotazione, cosicché A si sposti verso B, combinando le rotazioni del triangolo e del pentagono? Se giro il pentagono di 1/5, A va verso C. Se ripeto l’operazione e ruoto il pentagono di un altro quinto, C va verso D. L’ultima fase è girare il triangolo di 1/3 di rotazione in senso antiorario, per mandare D verso B. L’unione tra le due rotazioni del pentagono e una singola rotazione opposta del triangolo ha fatto girare la figura grande di 1/15. Funziona perché 1/15 = 2/5 − 1/3.
Figura 2.1: Come produrre una rotazione di 1/15 usando le simmetrie del triangolo e del pentagono.
A differenza di quanto avviene nel caso della forma con 15 lati, è impossibile scomporre il pentagono o il triangolo in rotazioni di figure più piccole. Il motivo è che 5 e 3 sono entrambi numeri primi, ossia numeri che non si possono esprimere come due cifre più piccole moltiplicate tra loro (a eccezione dell’1, che non viene incluso in questa categoria). Ecco, dunque, i primi e più semplici elementi della tavola periodica della simmetria. Se si prende un poligono bidimensionale regolare con un numero primo di lati, le sue simmetrie rotazionali non sono deducibili da quelle di oggetti simmetrici più piccoli.
Oltre a questo, le forme di quel tipo sono i componenti delle simmetrie di tutti gli altri poligoni bidimensionali regolari. Per esempio, le simmetrie di una figura con 105 lati scaturiscono dalle simmetrie di un triangolo, un pentagono e un ettagono collocati al suo interno. Questo è un sistema geometrico per dire che ogni numero nasce dalla moltiplicazione di numeri primi. Ecco perché questi ultimi sono così importanti: rappresentano i mattoni di tutti i numeri. Quando passiamo alla matematica della simmetria, scopriamo che sono anche i mattoni di alcune delle forme simmetriche più semplici.
Benché gli oggetti ricavabili dalle simmetrie rotazionali dei poligoni di questo genere siano i componenti più elementari, la loro varietà è ancora un totale mistero. Sono ossessionato dall’idea di scoprire cosa succede se si prendono, per esempio, tanti triangoli equilateri. Quanti diversi oggetti matematici esistono con 3 × 3 × 3 × 3 × 3 simmetrie? Un corpo simile ha simmetrie derivanti dalla combinazione di quelle di cinque triangoli. E se passo dai triangoli ai pentagoni? E agli ettagoni? Vi sono infiniti numeri primi, e dunque infiniti mattoni con numeri primi di lati. Qual è la natura di tutte le varie forme che posso costruire, le cui simmetrie scaturiscano da copie di una figura di quel tipo? In particolare, se p rappresenta un qualsiasi numero primo, quanti oggetti differenti esistono con p × p × p × p × p simmetrie? Come variano gli oggetti simmetrici quando modifico il numero primo utilizzato? I mutamenti sono notevoli? Oppure vi sono dei legami tra i corpi con 41 × 41 × 41 × 41 × 41 simmetrie e quelli con 73 × 73 × 73 × 73 × 73 simmetrie? E cosa accade quando aumento il numero di figure con un numero primo di lati?
Forse qui vale la pena di richiamare l’attenzione su un piccolo avvertimento. Non è detto che gli «oggetti» di cui mi occupo siano fisicamente composti di triangoli. Anche se sono partito da una semplice forma bidimensionale, quasi tutte le figure che costruisco non sono realizzabili nello spazio bi- e nemmeno tridimensionale. Si tratta di oggetti con quattro, cinque o più dimensioni, e mi serve il linguaggio della matematica per crearli e manipolarli. L’importante è che il numero complessivo di simmetrie del corpo sia una potenza di 3. Le sue simmetrie nasceranno così da rotazioni di triangoli.
Un altro avvertimento. Anche se un oggetto è davvero costituito fisicamente da triangoli, ciò non significa che le sue simmetrie derivino solo dalle rotazioni di questi ultimi. Per esempio, come appresi dal libro suggeritomi dal mio insegnante, esiste un oggetto composto da 20 triangoli, detto icosaedro (figura 2.2). È la forma utilizzata da Escher per creare la scatola di cioccolatini descritta da Conway. Poiché è possibile fabbricare un icosaedro incollando tra loro i triangoli, è legittimo supporre che anche le sue simmetrie siano fatte di triangoli. In questo oggetto vi sono tuttavia simmetrie riconducibili al pentagono. Per esempio, ciascuna punta o vertice prevede l’incontro di cinque triangoli. Se si gira l’icosaedro di 1/5 di rotazione intorno a una punta, il solido avrà lo stesso identico aspetto.
La mia ricerca può essere paragonata a quella di un chimico che preleva gli atomi di un unico elemento della tavola periodica, come il carbonio, e si chiede quali molecole se ne possano ricavare. Nel gergo tecnico, queste diverse sostanze chimiche prendono il nome di «allotropi del carbonio» (figura 2.3). In realtà, la simmetria è essenziale per spiegare le varie possibilità di composizione di questo elemento. Per esempio, si prende un atomo di carbonio e se ne sistemano altri quattro tutt’intorno nella cosiddetta disposizione tetraedrica. Questa operazione produce il diamante, che, grazie alla simmetria dell’insieme, è una delle molecole più forti in natura. In alternativa, si possono collocare gli atomi in un graticcio di esagoni, il che li fa assomigliare a un alveare. Ciò trasforma la grafite in una delle molecole più deboli. Sebbene le lastre esagonali bidimensionali siano molto stabili, gli strati dell’alveare si limitano infatti a scivolare l’uno sopra l’altro.
Figura 2.2: L’icosaedro è formato da triangoli, ma il suo gruppo di simmetrie comprende le rotazioni del pentagono.
Figura 2.3: Il diamante, la grafite e il buckminsterfullerene: alcune delle numerose possibilità di combinazione degli atomi di carbonio.
Uno dei momenti più emozionanti nella storia della chimica fu la scoperta, nel 1985, che è possibile combinare 60 atomi di carbonio per generare un’unica molecola, chiamata C60. Il segreto della sua costruzione si può osservare nelle simmetrie di un pallone da calcio. Un pallone moderno è formato da un mosaico di pentagoni ed esagoni, e la forma ha 60 vertici. Harry Kroto, che allora lavorava all’università del Sussex, e Richard Smalley e Robert Curl della Rice University del Texas si accorsero che era possibile disporre 60 atomi di carbonio, uno in corrispondenza di ciascun vertice, e assemblarli per ottenere una nuova molecola sferica. Individuarono persino esempi di quelle particelle durante esperimenti realizzati per ricreare l’atmosfera delle stelle i cui strati esterni erano ricchi di carbonio.
Poiché la forma rammentava le cupole geodetiche progettate dall’architetto Buckminster Fuller, i suoi scopritori battezzarono la sostanza buckminsterfullerene in suo onore. Per via della sua somiglianza con un pallone, il composto viene spesso soprannominato «buckyball». La scoperta lasciò intravedere un’intera serie di nuove possibilità per combinare gli atomi di carbonio e ricavare molecole più grandi. Ancora una volta, la simmetria fu essenziale per la scoperta della probabile esistenza di unità così singolari. Una volta che i matematici ebbero indicato cos’era possibile, fu solo questione di tempo prima che i chimici identificassero composti del carbonio che, in natura, sfruttavano quelle differenti forme simmetriche.
La mia ricerca tenta di rispondere al medesimo tipo di quesito nel mondo della simmetria matematica. Invece del carbonio, i miei componenti basilari sono le simmetrie di una semplice forma con un numero primo di lati, come il pentagono e il triangolo equilatero. Quali figure posso inventare le cui simmetrie siano costituite da alcune copie di un unico oggetto con un numero primo di lati? Ancora una volta, l’avvertimento di prima: ricordate che non studio soltanto le forme tridimensionali, bensì mi concentro anche su oggetti che vivono solo in quattro, cinque o più dimensioni, ma le cui simmetrie sono riducibili a quelle dei triangoli.
Poiché è impossibile costruire o visualizzare simili forme, il pensiero dei corpi nello spazio 4-dimensionale può essere sconcertante. Il trucco è trovare il giusto linguaggio per esplorare queste figure, pur non potendole vedere fisicamente. Immaginate di descrivere un cubo a un cieco: usando il linguaggio, possiamo dargli un’idea del solido precisando quante facce possiede, quanti bordi e quanti vertici.
Come avevo imparato all’università, trasformare lo spazio in numeri è il metodo più efficace per illustrare gli oggetti di dimensioni superiori. Prendiamo un cubo 4-dimensionale, l’ipercubo. Ha 16 vertici. Una di quelle punte è collocata in una regione che possiamo identificare come (0, 0, 0, 0) all’interno di un sistema di coordinate. Da quello spigolo si dipartono quattro bordi che lo uniscono ad altre quattro punte, riconoscibili mediante le stringhe di numeri (1, 0, 0, 0), (0, 1, 0, 0), (0, 0, 1, 0) e (0, 0, 0, 1) (figura 2.4). Posso persino ruotare l’ipercubo intorno a un asse che congiunge i due vertici estremi (0, 0, 0, 0) e (1, 1, 1, 1). La simmetria ha l’effetto di ripetersi ciclicamente intorno ai quattro bordi uscenti da (0, 0, 0, 0). Probabilmente non avreste alcun problema a seguire il tutto, se le coordinate fossero quelle di un cubo tridimensionale. Quando voglio «vedere» cosa accade, disegno spesso un’«ombra» in due dimensioni per avere un’idea di cosa succeda nell’universo 4-dimensionale.
Il linguaggio dei numeri mi fornisce uno strumento per giocare con la geometria di un oggetto che non sarò mai in grado di costruire nella realtà. Forse sarà un po’ più difficile, perché non dispongo di una classica immagine tridimensionale, ma ciò non rende impossibile l’impresa. Per esempio, «vedo» che, se ripeto la rotazione dell’ipercubo descritta sopra, dopo quattro giri la forma torna nella posizione originaria. A dire il vero, questa rotazione assomiglia a quella del quadrato. Ho dunque la certezza che le simmetrie dell’ipercubo non derivano da quelle del triangolo. Questa forma non è uno degli oggetti che voglio esaminare nell’indagine di oggi.
Figura 2.4: La proiezione dello spigolo di un cubo 4-dimensionale in due dimensioni.
Quando esploro quelle figure, ho spesso l’impressione che il mio studio sia la porta verso un luogo magico. La mia scrivania è come l’armadio di C. S. Lewis, le cui antine conducono in un altro mondo oltre gli abiti appesi all’interno. Talvolta dedico tutta la giornata a tentare di attraversare l’armadio, ma non riesco a trovare un passaggio attraverso il pannello di legno sul fondo. Quando la magia funziona e imbocco la via giusta, anziché in una Narnia popolata da leoni parlanti e fauni con l’ombrello, entro invece in un universo di ipercubi rotanti e Mostri illuminati dalla luna. Proprio come i bambini della storia di Lewis hanno difficoltà a tornare nella Londra del periodo bellico, a volte resto imprigionato in quel mondo matematico, lontano da quanto mi accade intorno.
Prima che me ne accorga, arrivano le quattro meno un quarto. È ora di uscire dall’armadio e di andare a prendere Tomer a scuola. La testa mi ronza per le ore trascorse in quello strano atto di meditazione matematica, perciò sono felicissimo di incamminarmi verso il parco con un pallone fatto di pentagoni ed esagoni e rilassarmi disputando una partitina di calcio con Tomer.
10 settembre, British Museum
È arrivato il week-end. Faccio molte cose con Tomer: una mattinata al British Museum sulle tracce della simmetria, seguita da un pomeriggio sulla pista da skate-board. I miei nonni vivevano a due passi dal museo e a me piaceva moltissimo passare la notte nel loro appartamento e svegliarmi la mattina tra il frastuono delle strade di Londra: i taxi, gli autobus e le auto della polizia sembravano tutti così insoliti agli occhi di un bimbo abituato alla calma di una cittadina nella valle del Tamigi. Da piccolo dedicai molti sabati mattina a gironzolare per la galleria greca e romana, noleggiando un’audioguida e facendo il giro dei Marmi di Elgin.
Ho trascorso gli ultimi giorni a cercare «oggetti» le cui simmetrie traggano origine da quelle dei triangoli o dei pentagoni. La mia indagine rispecchia una ricerca iniziata quasi subito dopo che gli esseri umani avevano cominciato a plasmare l’ambiente per i loro scopi. Le armi per cacciare e le pentole per cucinare sfruttavano la ricca varietà di forme geometriche che si potevano costruire con l’osso, la pietra o l’argilla. Alcuni dei primi studi sulla simmetria dello spazio tridimensionale nacquero dalla nostra ossessione per i giochi. Io e Tomer siamo intenzionati a trovare giochi antichi che mi aiutino a ripercorrere la storia della scoperta di diverse forme.
In Gran Bretagna, i primi esseri umani avevano creato una serie di figure simmetriche molto sofisticate. Cinquemila anni fa, gli uomini neolitici inserirono Stonehenge e altri grandi monumenti di pietra nel paesaggio della nazione. La disposizione dei massi indica una passione per la simmetria. I cerchi di pietra disegnano sul terreno forme che, talvolta, hanno ben 100 lati. Alcuni blocchi sono separati da distanze considerevoli. Per esempio, ad Avebury, nel Wiltshire, il cerchio esterno si allunga per oltre un chilometro. L’erezione di simili strutture avrà richiesto raffinate competenze matematiche, o almeno una spiccata sensibilità per la simmetria.
Anche le decorazioni primitive di pentole e pareti rivelano questo gusto sempre più marcato per gli oggetti simmetrici. Sui muri delle tombe irlandesi risalenti allo stesso periodo di Stonehenge, vi sono numerose spirali incise nella pietra. Due gruppi di tre spire accolgono il visitatore che entra in una delle tombe più famose mai rinvenute in Europa, il tumulo di Newgrange nella contea di Meath. I tre avvolgimenti sono disposti a triangolo (figura 2.5), e le curve di ogni serie si attorcigliano in modo diverso: un gruppo è l’immagine speculare dell’altro. Sulle pareti di simili costruzioni, i simboli simmetrici abbondano: cerchi o quadrati concentrici, una fila di rombi, stelle con punte disposte simmetricamente. I cerchi con linee radiali sono senza dubbio raffigurazioni del sole. Una delle incisioni più stupefacenti è la cosiddetta Stone of Seven Suns, a Dowth, in Irlanda. Simili a una serie di ruote con un cerchio esterno e uno interno uniti da linee radiali, i sette soli sono forse una dimostrazione delle accurate conoscenze astronomiche che l’uomo neolitico possedeva già 5000 anni orsono.
Proprio come le notazioni dei numeri nacquero per esprimere le date del calendario, gli infiniti simboli simmetrici utilizzati in quelle tombe sembrano essere strumenti per misurare il tempo. Forse è significativo che i nostri antenati abbiano scelto figure simmetriche per rappresentare i cicli naturali delle stagioni e i movimenti del sole, della luna e delle stelle. Il linguaggio visivo che inventarono rispecchia gli schemi temporali che avevano riconosciuto. Secondo gli archeologi, per esempio, l’aquilone ripartito in quattro quarti raffigurava il passare delle stagioni.
Figura 2.5: Uno dei gruppi di spirali nel tumulo di Newgrange, nella contea di Meath, in Irlanda.
Figura 2.6: L’aquilone simboleggiava l’anno diviso in quattro stagioni.
Più o meno in quell’epoca, oltre ai cerchi di pietra incastonati nel paesaggio e alle forme simmetriche incise sulle pareti, gli uomini neolitici cominciarono a tracciare una serie di interessanti forme tridimensionali ricche di simmetria (figura 2.7). Nella Scozia nord-orientale, sono emerse centinaia di sfere ricavate dal basalto o dall’arenaria, risalenti al 2500 a.C. e decorate con motivi geometrici. Gli scultori giocarono con varie disposizioni simmetriche di protuberanze, analoghe ai tasselli dei palloni moderni. Oltre metà di quegli oggetti hanno sei piastre circolari intagliate nella pietra. Benché la palla sia rotonda, il suo creatore sfruttò le simmetrie del cubo per la distribuzione dei sei tasselli.
Figura 2.7: Le palle di pietra neolitiche rivelano una curiosità molto precoce verso la simmetria.
Gli artisti scoprirono anche di poter incidere quattro cerchi in una sfera per produrre una gradevole decorazione simmetrica, la medesima configurazione che la natura impiega per creare un diamante con quattro atomi di carbonio. Un esempio particolarmente raffinato, reperito a Towie, è conservato al Museum of Scotland di Edimburgo. Qualche anno fa, durante un convegno cui assistetti in quella città, marinai le conferenze di un pomeriggio per andare al museo e cercare quel manufatto. Era più grande di quanto mi aspettassi, più o meno delle dimensioni di un pugno. A loro volta, i quattro cerchi erano riccamente ornati da un complesso motivo di spirali e anelli concentrici (figura 2.8). Mentre i miei colleghi esponevano le loro esplorazioni della simmetria nel secolo XXI, mi meravigliai di quella bellissima pietra le cui proporzioni avevano dato il via al viaggio. Gli scultori avevano inciso anche una serie di altre decorazioni, tra cui ben 12 o 14 protuberanze e in un caso persino 160. Non potevano non aver notato che 12 sporgenze erano più semplici da disporre rispetto a 10 o 14 (anche se la spiegazione del perché avrebbe richiesto altri tre millenni). Può darsi, inoltre, che gli artisti avessero dipinto i tasselli con colori diversi, il che avrà evidenziato alcune delle tante simmetrie di ciascuna incisione.
Figura 2.8: Palla simmetrica incisa rinvenuta a Towie, in Scozia.
Non sappiamo quale funzione svolgessero quelle pietre nella cultura della Scozia neolitica. Alcuni ritengono che fossero usate come simboli di autorità dai capiclan. Non essendo mai state ritrovate nelle tombe, con molta probabilità erano più significative per la tribù che per i singoli membri del gruppo. Alcuni dei loro motivi geometrici compaiono anche su oggetti come le teste delle mazze ferrate. Forse la classe dirigente si appropriò della simmetria come emblema del potere.
Nel I millennio a.C., l’avvento dei dadi e del gioco d’azzardo in molte culture di tutto il pianeta spinse varie civiltà a esplorare le forme più efficaci per quelle attività. La simmetria è essenziale se si vuole produrre un oggetto che abbia le stesse probabilità di atterrare su ciascuna delle sue facce quando lo si lancia per terra. I primi dadi non avevano sei lati ma quattro, e venivano ricavati dalle ossa degli animali. L’astragalo della capra, un osso della regione posteriore degli arti inferiori, ha una forma tale da inclinarsi naturalmente verso una delle quattro facce. Quei primi esempi di dadi sono tornati alla luce in molti siti preistorici. Divenne tuttavia palese che quelle ossa tendevano a cascare da una parte, e le culture antiche iniziarono ben presto a cercare metodi per scolpirle affinché il gioco fosse più equo.
Al British Museum, io e Tomer non trovammo nessuno di quegli astragali o dadi neolitici. La nostra ricerca della simmetria ebbe tuttavia un esito più fortunato nella galleria mesopotamica, dove individuammo un curioso gioco da tavolo con una serie di dadi a forma di piramide. La scacchiera è intarsiata con motivi geometrici di calcare, conchiglie e lapislazzuli. Vi sono due aree, una con dodici caselle e l’altra con sei, unite da un ponte di due riquadri. Ciascuno scomparto reca un simbolo simmetrico che esprime l’importanza della sua posizione. Vi sono rombi, quadrati e rosette a otto foglie rosse e blu.
Il gioco risale al 2500 a.C. e fu reperito durante gli scavi dell’antica città di Ur, nell’Iraq meridionale. Una tavoletta babilonese del 177 a.C., scritta in caratteri cuneiformi, fornisce una descrizione parziale delle regole. Pare che le caselle con l’immagine simmetrica della rosetta venissero considerate come gli spazi fortunati verso cui i giocatori dovevano puntare.
Ad affascinarci maggiormente furono tuttavia i quattro dadi (figura 2.9). Ciascuno era una piramide tetraedrica con quattro facce di triangoli equilateri. A differenza dei dadi che io e Tomer usiamo per giocare a Monopoli, e che hanno un valore su ogni faccia, quelli avevano un funzionamento un po’ diverso. Sbirciando attraverso il vetro, non potevo averne la certezza, ma mi sembrava che un vertice o punta di ciascun oggetto fosse contrassegnato da un pallino. Quando effettuavi il lancio, il punteggio corrispondeva al numero di puntini che comparivano in cima a ciascun pezzo. Perciò potevi ottenere un risultato compreso tra 0 e 4.
Quante erano le chance di totalizzare ciascuno dei valori possibili? È il tipo di domanda che non posso fare a meno di pormi appena vedo un rompicapo di quel tipo. Anche Tomer intuì cosa stava per succedere.
Figura 2.9: Il punteggio dei dadi tetraedrici nel gioco di Ur corrisponde al numero di puntini visibili.
«Qual è il lancio più prevedibile?» gli chiesi. Mio figlio alzò gli occhi al cielo. Ogni dado ha una probabilità su quattro di atterrare sulla faccia che lascia il pallino verso l’alto. Perciò vi è solo una chance su 44 = 256 di ottenere un 4. Vi sono invece 34 = 81 possibilità su 256 di fare zero e perdere il turno.
Le cose cominciano tuttavia a diventare davvero interessanti quando si contano i vari modi di totalizzare un 1, un 2 o un 3, perché questo aspetto ha un legame indissolubile con la quantità di simmetrie di quelle forme. Per valutare le chance di ottenere un 1, devo contare le diverse possibilità di prendere i dadi e posarli cosicché soltanto un puntino sia girato all’insù. Non essendo interessato al vertice rivolto verso l’alto, posso tralasciare le rotazioni simmetriche della faccia triangolare. Le simmetrie che determinano le probabilità di lancio sono pertanto riducibili a quelle di quattro quadrati disposti su un’asta come una serratura a combinazione. Un lato di ogni quadrato reca un pallino.
Le simmetrie della serratura a combinazione sono un sottogruppo delle simmetrie dei quattro tetraedri. Poiché le combinazioni sono 256 = 28, una potenza del numero primo 2, il gruppo di simmetrie della serratura è, in realtà, uno degli oggetti che ho cercato di esaminare nel mio studio di Stoke Newington. Per calcolare le chance di ricavare un 1 da quei quattro dadi, devo contare le simmetrie della serratura che lasciano un puntino girato all’insù.
Figura 2.10: Le simmetrie di una serratura a combinazione con quattro quadrati sono utili per analizzare i dadi del gioco di Ur.
Inizio scegliendo il pallino sul primo ingranaggio. È come dire che il primo dado è atterrato con il puntino verso l’alto. Quante possibilità esistono che gli altri tre dadi cadano senza che il segno sia visibile? Ciascuno degli altri ingranaggi può girare in tre posizioni diverse per mostrare un lato vuoto. Abbiamo pertanto 3 × 3 × 3 configurazioni complessive. Ma avrei potuto selezionare anche il pallino sul secondo, terzo o quarto pezzo. Ancora una volta, i blocchi rimanenti si possono disporre in 3 × 3 × 3 modi affinché presentino un lato vuoto. Giungo così a un totale di 4 × (3 × 3 × 3) = 108 simmetrie su 256 che mi danno 1. Se si calcolano le altre possibilità, si arriva a 54 chance su 256 di fare 2 e a 12 su 256 di fare 3. Il lancio più probabile con quei quattro dadi è dunque 1.
Tomer ha lo sguardo un po’ vitreo. Ma io tuttavia apprezzo questo salto concettuale, dove il problema diventa gestibile all’improvviso se lo si visualizza da una prospettiva completamente diversa. Anziché lanciare tetraedri, ho deciso di ruotare serrature a combinazione. «Assomiglia al problema che abbiamo risolto in Guatemala quando hai trasformato le visite al supermercato in collane» osserva mio figlio. Due anni fa trascorremmo sette mesi in Guatemala. Vivevamo ad Antigua, una delle prime città costruite come una griglia di avenidas e calles: sette strade parallele intersecate da sette viali paralleli (figura 2.11). Casa nostra era situata nell’angolo in alto a destra del reticolato. Il supermercato era in basso a sinistra. Dedicammo un po’ di tempo a determinare i vari modi per spostarsi da un punto all’altro.
Figura 2.11: Quanti sono i percorsi possibili tra la casa e il supermercato?
Tomer intuì che quando il problema riguardava solo tre viali e tre strade, vi erano sei tragitti differenti. Tracciare itinerari attraverso la città non avrebbe tuttavia risolto il problema più grande. Riuscii a sbrogliare la matassa contando le collane che si potevano creare con sei palline rosse e sei palline gialle. Ciascun gioiello rappresentava un percorso attraverso Antigua, con una pallina rossa che indicava uno spostamento verso ovest, e una gialla che ne indicava uno verso sud. Il conteggio delle collane si rivelò molto più semplice. Alla fine, usando la formula che avevo ideato, calcolammo che esistevano 924 tragitti diversi, sufficienti per evitare di imboccare la stessa strada per un paio d’anni.
Quando stiamo per allontanarci dalla teca contenente il gioco di Ur, a un tratto Tomer addita i dadi: «Papà, guarda! Ci sono due puntini, non uno». Infatti, quando aguzzo gli occhi, vedo che due dei quattro angoli sono contrassegnati da pallini. In realtà, lanciare i dadi veri è come buttare quattro monete e contare il numero di teste anziché i meccanismi della serratura a combinazione. Non posso fare a meno di pensare che i miei dadi ipotetici fossero più interessanti, ma talvolta la realtà non è all’altezza delle nostre aspettative matematiche.
Tomer si affretta a rammentarmi che abbiamo ancora un’ora da passare al museo prima che entri in vigore la seconda parte del nostro accordo di oggi e che arrivi il momento di dirigerci verso la pista di skate-board. Così procedo spedito verso la galleria greca e romana alla ricerca di altri dadi simmetrici.
Pitagora e la sfera di 12 pentagoni
Secondo Sofocle, Palamede inventò i dadi per intrattenere le truppe greche durante l’assedio di Troia. Il cubo era ormai la forma più popolare per quegli oggetti, e gli esemplari rinvenuti a Roma risalgono al 900 a.C. Quei dadi etruschi sono molto simili a quelli con cui giochiamo oggi, contrassegnati da puntini che rappresentano i numeri da 1 a 6 e strutturati in maniera tale che la somma dei lati opposti sia 7. «Perché hanno distribuito così i pallini?» domanda Tomer con candore. Non lo so. «Forse per livellare le eventuali inclinazioni dovute alle difficoltà di creare un cubo perfetto» azzardo esitante.
I soldati romani erano così ossessionati dal gioco da caricarsi sulla schiena pesanti scacchiere insieme con l’equipaggiamento militare. Intorno al 500 a.C. entrò in scena una forma inedita. Il nuovo dado aveva 12 facce rispetto alle sei consuete, tutte pentagonali anziché quadrate come quelle del cubo o triangolari come quelle del gioco di Ur. I romani scoprirono che i 12 pentagoni si potevano scolpire in una palla di pietra in maniera tale che nessuna faccia fosse favorita rispetto alle altre. La simmetria rendeva quell’oggetto il candidato ideale per un nuovo dado. Alcuni esempi reperiti vicino Bologna recano numeri etrusco-romani incisi sui 12 lati.
Si tratta di una forma molto progredita. Senza vederla assemblata, la possibilità di combinare i 12 pentagoni in maniera così simmetrica non risulta affatto scontata. Forse i romani la scoprirono perché avevano familiarità con la pirite, un composto che si organizza non di rado in cristalli appariscenti. Si trova spesso insieme al rame, e i minatori saranno stati abituati a vederlo sia nella sua versione cubica sia in grossi agglomerati di cristalli con facce pentagonali. Non essendo del tutto simmetrici, i frammenti non saranno stati adatti come dadi. Forse diedero tuttavia l’ispirazione agli scultori romani, che si accorsero di poter livellare i lati di un cristallo di pirite fino a tramutarli in pentagoni perfetti.
Nel 500 a.C., la matematica doveva ancora trasformarsi in una disciplina indipendente. Sia le pietre neolitiche incise nel III millennio a.C. sia i dadi romani erano stati esperimenti di simmetria anziché prodotti di una teoria ben definita. Quelle culture si erano limitate a cogliere la varietà di forme interessanti che le attorniavano e a giocarci. In quel periodo fu l’arrivo di un matematico greco nell’Italia meridionale a segnare l’inizio di un approccio più analitico al mondo che ci circonda.
Pitagora era nato a Samo intorno al 570 a.C. Gli anziani dell’isola, notando la mente brillante del giovane, l’avevano esortato ad andare a studiare in Egitto. Mentre si trovava laggiù, i persiani invasero il Paese, lo presero prigioniero e lo condussero a Babilonia. Quei viaggi furono determinanti per plasmare la sua visione matematica dell’universo. Gli egizi gli avevano inculcato un vivo interesse per la geometria, mentre dai babilonesi aveva acquisito altre sofisticate capacità aritmetiche. Da entrambe le culture aveva tratto un profondo senso di misticismo che si rifletté in gran parte del suo lavoro successivo.
Infine, Pitagora fece ritorno a Samo, dove avrebbe voluto fondare una scuola che si ispirasse alla mentalità simbolica e geometrica in cui si era imbattuto durante i suoi pellegrinaggi. Pensava che fossero le idee matematiche a tenere unita la realtà circostante, e credeva anche nel fondamentale significato spirituale di alcuni simboli, come il pentagono e il triangolo. Dal momento che le sue concezioni non avevano trovato un’accoglienza favorevole tra i suoi compatrioti, si era trasferito a Crotone.
Fu lì che conobbe le forme simmetriche utilizzate dai romani fanatici del gioco e che maturò la curiosità verso il dado con 12 facce pentagonali. Già ossessionato dalla valenza mistica associata al pentagramma, deve aver provato un brivido quando constatò che 12 pentagoni si potevano combinare perfettamente per produrre un oggetto dalla simmetria impeccabile. Nessuno dei 12 lati era infatti favorito rispetto agli altri.
Il movimento della luna attraverso il cielo divideva naturalmente l’anno in dodici mesi. Perciò la scoperta di quell’oggetto con dodici facce deve aver alimentato il senso di misticismo matematico dello studioso. Anzi, su alcuni manufatti di quella forma recuperati dagli archeologi sono incisi i dodici segni dello zodiaco. La «sfera di 12 pentagoni», come venne denominato per la prima volta quell’oggetto, assunse un significato spirituale per la setta pitagorica che si sviluppò intorno all’erudito greco. I testi medievali e rinascimentali menzionano l’uso del dado con 12 lati per la divinazione nei tempi antichi.
Oltre alla sfera di 12 pentagoni, i pitagorici riconobbero altri due oggetti importanti e affini. Il cubo, composto da sei quadrati, era senza dubbio una figura simmetrica che meritava un posto accanto alla sfera. Lo stesso dicasi per la piramide triangolare a quattro facce, la forma dei dadi del gioco di Ur. I pitagorici la battezzarono tetraedro, dove tetra significa «quattro». Sebbene non si possa attribuire a Pitagora il merito dell’identificazione di nuovi corpi simmetrici, fu la sua sensibilità per la simmetria di quei tre poliedri a indurlo a raggrupparli come esempi di uno stesso genere. Ai suoi occhi, erano manifestazioni di un’idea matematica più profonda. Quel primo, piccolo passo verso l’astrazione avrebbe definito la matematica come disciplina distinta dalla filosofia, dalla religione e dalla scienza.
Pitagora notò che il legame astratto fra quelle tre forme non si estendeva però a un’altra figura con cui aveva preso familiarità in Egitto. Le piramidi di Giza erano sorte nello stesso periodo in cui le popolazioni neolitiche della Gran Bretagna avevano eretto i loro grandi cerchi di pietra. Nel deserto, le piramidi parevano forse simmetriche quanto il tetraedro pitagorico (figura 2.12), ma, appena si comincia ad analizzarne la forma, diventa tuttavia evidente che non possiedono il medesimo grado di simmetria delle altre figure. Le costruzioni egizie si compongono di quattro triangoli e un quadrato. La piramide matematica risultante è una forma la cui simmetria si limita a quella del quadrato alla sua base.
Se si gioca con le due piramidi, quella egizia a base quadrata e quella a base triangolare, si capisce ben presto perché il tetraedro è più simmetrico. Posso rotolarlo su una qualsiasi delle altre tre facce e ricollocarlo nel deserto senza che cambi aspetto. La piramide egizia va invece riposizionata sul quadrato se non si vuole che muti. Esistono quattro modi diversi per rimetterla al suo posto, ma, a parte questo, la sua simmetria rotazionale è piuttosto limitata. Quella del tetraedro, invece, mi offre 12 diverse possibilità per adagiare di nuovo la figura sul suo appezzamento triangolare. Analogamente, il tetraedro ha più simmetria di riflessione della piramide a base quadrata.
Figura 2.12: Una piramide a base quadrata è meno simmetrica di una a base triangolare.
Benché i pitagorici abbiano riconosciuto un legame teorico comune tra il cubo, il tetraedro e la sfera di 12 pentagoni, è curioso che non abbiano identificato un altro importante poliedro simmetrico, meritevole di essere annoverato accanto a queste tre forme. A dire il vero, l’oggetto mancante si può costruire proprio a partire dalle piramidi egizie.
Sebbene queste ultime non siano poi così simmetriche, la figura dà piena prova di sé quando se ne prendono due e le si incollano lungo le basi quadrate. Se le facce sono tutte triangoli equilateri, l’oggetto risultante è piuttosto insolito (figura 2.13). Si può guardare da molte angolazioni differenti, e sembra sempre lo stesso. Ruotandolo, è impossibile dire su quale piano le due piramidi originarie si sono fuse tra loro. È costituito da otto triangoli, quattro dei quali si incontrano in corrispondenza di ciascuna punta, mentre nel tetraedro ogni vertice rappresenta l’intersezione di tre triangoli. Ecco una nuova forma, composta degli stessi triangoli del tetraedro, ma assemblata per creare un corpo con otto lati detto «ottaedro».
Figura 2.13: L’ottaedro formato da otto triangoli equilateri.
Se non si usano i triangoli equilateri per costruire l’ottaedro, quest’ultimo sarà meno simmetrico perché apparirà leggermente più tozzo o allungato in una direzione, a seconda del poligono scelto. Per esempio, le piramidi a base quadrata che io e Tomer visitammo in Guatemala si sviluppavano in altezza. Dopo tutto, i costruttori avevano cercato di emergere dall’intrico di vegetazione della giungla. Così, due strutture guatemalteche fuse tra loro avrebbero chiaramente perso la loro simmetria.
Questa è una delle caratteristiche che rendono così singolari le piramidi egizie. Sono progettate quasi sempre con lati che sono perfetti triangoli equilateri, e dunque danno l’impressione di un ottaedro regolare sepolto a metà nella sabbia. Perciò, sebbene dall’esterno gli edifici di Giza non sembrino simmetrici come un tetraedro, la loro maestosità deve molto alla simmetria suggerita dalla forma. Anzi, nel caldo torrido del deserto, un miraggio avrebbe benissimo potuto dare l’illusione di un ottaedro che fluttuava nell’aria. Gli esperti di geometria egizi dovevano conoscere la bellezza e il significato matematico delle loro creazioni.
È strano che i pitagorici non abbiano elevato l’ottaedro regolare allo status che avevano concesso al cubo, alla piramide a base triangolare e alla sfera di 12 pentagoni. Dovevano sapere di quel poliedro. Molti cristalli hanno quella forma: per esempio, il diamante appena estratto dal suolo è ottaedrico, come pure un minerale rosso chiamato spinello, spesso confuso con il rubino. Pur avendo compiuto il primo passo verso l’astrazione riconoscendo le tre forme come rappresentanti di una stessa categoria, probabilmente i pitagorici non avevano ancora spiccato il salto concettuale necessario per comprendere la caratteristica che le accomunava.
Per loro, quelle intuizioni sul mistico mondo della matematica erano così preziose che i membri della setta dovevano giurare di mantenere il segreto. Anzi, il filosofo siriano Giamblico, che scrisse nel 300 d.C., narra che il pitagorico Ippaso di Metaponto fu annegato in mare per aver rivelato i misteri della sfera di 12 pentagoni. Altri commentatori imputano invece la sua morte alla divulgazione della notizia che era impossibile scrivere la radice quadrata di 2 come frazione. Quel misticismo e quella segretezza spiegano forse perché dovette trascorrere un altro secolo prima che qualcuno si accorgesse che altre due forme perfettamente simmetriche, l’ottaedro e l’icosaedro con venti facce, meritavano un posto accanto al cubo, al tetraedro e alla sfera di 12 pentagoni.
Vi è un altro motivo per cui i pitagorici non trassero vantaggio dai loro primi successi matematici. Quando la setta cominciò a mescolare la politica con la matematica e il misticismo, finì nei guai. Nel 460 a.C. la fratellanza pitagorica subì una violenta repressione: i suoi luoghi di ritrovo furono saccheggiati e incendiati, e molti dei suoi membri furono uccisi.
Platone: dalla realtà all’astrazione
Fu Platone a raccogliere l’eredità dei pitagorici. Un secolo dopo la morte di Pitagora, il filosofo greco scrisse nella Repubblica che lo studio delle figure pitagoriche era stato gravemente trascurato. La sua grande opera assume la forma di una serie di dialoghi tra se stesso, Socrate e altri personaggi. Una parte del testo espone le materie che costituiscono le conoscenze indispensabili per chi deve guidare lo Stato. L’aritmetica e la geometria piana vengono considerate competenze essenziali, non solo per la loro utilità in guerra, ma anche perché la natura eterna dei concetti «può trascinare l’anima verso la verità e produrre un pensiero filosofico, al punto da rivolgere verso l’alto ciò che noi ora teniamo indebitamente rivolto verso il basso».
L’astronomia sta per essere collocata al secondo posto quando Socrate interviene: «… Per voler guadagnare tempo nel passare in rassegna l’insieme delle scienze, ho finito col perderne. In verità, alla geometria segue lo studio della dimensione della profondità, ma io, dato il modo ridicolo con cui viene affrontato, passai oltre e dopo la geometria citai subito l’astronomia, la quale si occupa dei solidi in movimento». La parola «geometria», che letteralmente significa «misurazione della terra», è stata riservata alla navigazione e alla cartografia, ma Socrate ritiene che quella disciplina vada al di là dei semplici rilevamenti. Durante le discussioni emerge un’interessante tensione tra le ragioni pratiche per studiare geometria e aritmetica e la pura ricerca della verità, una tensione che attraversa la matematica anche oggi.
Platone raccolse il guanto di sfida lanciato da Socrate e diede inizio a uno studio sistematico delle forme tridimensionali solide che, grazie alle loro simmetrie, erano considerate oggetti eterni capaci di trascinare l’anima verso verità più profonde, come si era augurato il suo maestro. A fare da sfondo a quelle scoperte intramontabili è tuttavia il caos delle vicissitudini umane, e la disillusione verso la politica che, soprattutto dopo la condanna a morte del suo mentore, spinse Platone a lasciare la Grecia per qualche tempo.
Com’era accaduto a Pitagora prima di lui, Platone si recò in Egitto, e l’influsso delle idee che assorbì laggiù contribuì a foggiare la sua visione fortemente geometrica del mondo. Nel 387 a.C. tornò ad Atene per fondare un’istituzione dedicata alla ricerca e all’insegnamento della scienza e della filosofia. Sperava di mettere in pratica i dialoghi sostenuti con Socrate per offrire un addestramento idoneo alla successiva generazione di leader politici greci.
La sua scuola sorse su un appezzamento che un tempo era appartenuto al mitico eroe Academo, e in suo onore prese il nome di Accademia. Fu durante le discussioni all’interno di quella struttura che Teeteto, un amico di Platone, cominciò a comprendere il principio alla base dei solidi tanto cari ai pitagorici: il cubo, la piramide e la sfera di 12 pentagoni. Platone afferma che Teeteto aveva il naso schiacciato e gli occhi sporgenti, ma una mente magnifica. E noi tutti lo ricordiamo perché intravide la matematica astratta della simmetria.
Teeteto si accorse che, se si voleva avere una figura tridimensionale caratterizzata da una notevole simmetria, era importante costruirla usando poligoni bidimensionali simmetrici. E se tutte le facce avevano la medesima forma, ciò avrebbe aumentato la potenziale simmetria del solido risultante. Tuttavia, intuì anche che vi erano dei limiti ai tipi di poligono da utilizzare. Come l’ape ben sa, gli esagoni si possono unire solo per formare una superficie piatta. Un dado dalle facce esagonali è irrealizzabile. Le forme con un numero di lati superiore a quello dell’esagono non sono combinabili. Mettetene insieme due, e non c’è spazio per aggiungere una terza faccia della stessa forma (figura 2.14). Le facce dovevano dunque comporsi di figure con meno di sei lati.
Figura 2.14: È impossibile assemblare poligoni con più di sei lati.
Allora quali figure si potevano creare con i triangoli, i quadrati e i pentagoni? Per ottenere la maggiore simmetria possibile, ragionò Teeteto, le facce piatte dovevano sempre incontrarsi nella medesima configurazione. Nessuna punta e nessun bordo doveva essere diverso dagli altri, altrimenti la perfezione dell’insieme sarebbe stata rovinata.
Il cubo soddisfaceva senza dubbio quel criterio: sei facce quadrate con tre quadrati che si incontravano in corrispondenza di ciascuna punta. La sfera di 12 pentagoni si componeva di poligoni regolari, che, di nuovo, si univano tre alla volta nei vertici del solido. Quanto ai triangoli equilateri, la piramide pitagorica era costituita da quattro triangoli che si dipartivano a tre a tre da ciascuno spigolo. Con questo principio astratto di selezione delle figure, ora Teeteto comprese che i triangoli equilateri si potevano configurare anche in maniera alternativa per creare un altro corpo simmetrico capace di reggere il confronto con i poliedri pitagorici: due piramidi a base quadrata fuse sul fondo davano una figura formata da otto triangoli. Questa volta, ogni vertice era il punto d’incontro di quattro poligoni. Usando la sua analisi teorica, Teeteto aveva costruito l’ottaedro che era sfuggito ai pitagorici.
Esistevano altre forme che potevano derivare dai triangoli? Si potrebbe proporre di prendere due piramidi a base pentagonale con cinque triangoli. La loro unione violerebbe tuttavia la condizione di Teeteto, secondo cui lo stesso numero di triangoli deve intersecarsi in corrispondenza di ciascuna punta. In cima e in fondo se ne incrociano cinque, mentre dagli spigoli intorno alla parte centrale ne escono solo quattro, e ciò riduce la simmetria dell’oggetto.
La scoperta di un’altra sorprendente forma simmetrica è documentata più o meno in questa fase della storia della matematica. Partendo da cinque triangoli equilateri disposti in una configurazione piramidale, anziché incollare un’altra copia della piramide alla base, Teeteto osservò che era possibile continuare a costruire in maniera tale che cinque triangoli si dipartissero da ogni nuova punta della figura in via di evoluzione.
Per Teeteto, il momento in cui iniziò a mettere insieme cinque triangoli alla volta intorno a un vertice, procedendo pian piano e vedendo la forma che si tramutava in un perfetto poliedro regolare con 20 lati triangolari (figura 2.15), dev’essere stato indimenticabile. A prima vista non era scontato che quell’oggetto esistesse: non era una figura che qualcuno avesse visto nel mondo naturale. Non si possono combinare 19 o 18 triangoli per produrre un corpo in cui tutti i lati si intersechino in modo così simmetrico. A dare vita a quella forma con 20 facce era stato un atto di creazione matematica. Col tempo, gli studiosi si sarebbero resi conto che quell’oggetto esisteva in natura, ma solo dopo che i microscopi ci ebbero offerto una visione più precisa della realtà.
Figura 2.15: Si possono unire 20 triangoli equilateri per formare un icosaedro.
Gli antichi greci battezzarono quella figura icosaedro, che significa «20 facce». Può anche darsi che l’abbiano scoperta grazie al suo stretto legame con la sfera di 12 pentagoni, un poliedro con 12 lati e 20 vertici. Se si posiziona un triangolo equilatero in corrispondenza di ciascuna punta e si orientano correttamente tutti e 20 i triangoli, questi ultimi si abbinano alla perfezione per comporre l’icosaedro. Se si contano i vertici della nuova forma, se ne trovano 12. Mettete un pentagono su ogni punta, e riotterrete la sfera di 12 pentagoni (figura 2.16). I matematici chiamano dualità questo rapporto tra figure. Lo stesso trucco è possibile con il quadrato e l’ottaedro. Se si prova con il tetraedro, tuttavia, si ricava solo un altro tetraedro.
La dualità è importante perché spiega come mai le due figure, seppure molto diverse fisicamente, hanno le medesime simmetrie. Le simmetrie della sfera di 12 pentagoni sono le operazioni da gioco di prestigio, gli interventi cui si può sottoporla senza modificarne l’aspetto. Costruendo un icosaedro intorno alla sfera di 12 pentagoni, con un triangolo su ogni vertice, si nota che le manovre capaci di conservare inalterato il secondo corpo ruotano anche il primo, lasciandolo com’era in precedenza. Anche l’affinità tra il cubo e l’ottaedro rivela che le simmetrie dei due oggetti sono identiche. Sarebbero occorsi altri due millenni perché i matematici capissero l’idea inafferrabile delle simmetrie nascoste. I greci avevano soltanto iniziato il viaggio astratto finalizzato a spiegare il legame simmetrico comune a tutte quelle figure.
Figura 2.16: La sfera di 12 pentagoni e l’icosaedro. La dualità garantisce il passaggio da una forma simmetrica all’altra.
Se Teeteto non avesse costruito l’icosaedro, non sarebbe trascorso molto tempo prima che qualcun altro facesse quella scoperta. Forse non fu nemmeno il primo ad assemblarlo. Quella forma non ha nulla di universale ed eterno. È facile dimenticare che qualcuno la creò per primo, perciò il nome dell’inventore è caduto nell’oblio, pertanto la figura è nota con la sola sua denominazione greca: icosaedro, la forma con 20 lati. Molto spesso le folgorazioni di questo genere illuminano indipendentemente due matematici nello stesso momento. Gli antichi incensieri cinesi risalenti al I millennio d.C. hanno quella forma perfetta. Gli artigiani la trovarono per conto loro, senza alcun contatto con i greci.
La dimostrazione matematica
Teeteto aveva ormai cinque dadi nella sua collezione, ma esistevano altri oggetti interessanti che la mente matematica potesse costruire? In uno dei primi esempi di dimostrazione matematica, lo studioso spiegò perché non individueremo mai un sesto modo per unire facce regolari in un nuovo tipo di dado. Le limitazioni della geometria e della simmetria si possono sfruttare per dimostrare che, nelle tre dimensioni, queste cinque forme sono le uniche possibili. In quel periodo storico è questo nuovo potere di confermare i dati sul mondo circostante con una certezza assoluta a distinguere la matematica dalle altre scienze. Non vi sono più solo la semplice osservazione e la raccolta di farfalle. Il matematico può guardare il futuro e dire con sicurezza che quelle cinque figure sono le uniche che riusciremo mai a produrre con copie di un’unica faccia simmetrica regolare.
La prima descrizione documentata delle cinque forme è contenuta nel Timeo, in cui Platone tratteggia il mito della creazione. A suo avviso, i cinque corpi simmetrici sono così fondamentali da essere i componenti della materia stessa, e la piramide a base triangolare o tetraedro, la forma più acuminata e semplice di tutte, rappresenta l’elemento del fuoco. L’icosaedro, con i suoi 20 triangoli, è invece la figura più rotonda e, nella classificazione platonica, simboleggia l’acqua, perché è la più liscia tra le forme. L’altro oggetto costituito da triangoli è l’ottaedro, con le sue otto facce. Poiché si colloca a metà strada fra i primi due, il filosofo lo associa all’aria. Il cubo, con le sue sei facce quadrate, rimanda invece alla terra, essendo una delle figure più stabili.
Questa spiegazione trascura la sfera di 12 pentagoni. Platone la ribattezza «dodecaedro» per indicare che aveva 12 facce (in greco, dodeka). A suo avviso, «dio se ne giovò per decorare l’universo». Nel suo intimo, dio è senza dubbio un matematico, e questa visione ha instillato nel pensiero occidentale il legame tra la matematica e le teorie sul cosmo. Dalla descrizione che il filosofo ci offre dei cinque poliedri regolari scaturisce il nome collettivo con cui sono noti oggi: solidi platonici.
Fu la lingua greca ad attribuire una denominazione alla caratteristica che accomunava i cinque oggetti di Platone: symmetria. Nel I secolo d.C., l’autore romano Plinio il Vecchio si lamentò della mancanza di una parola latina che designasse la simmetria. Symmetria unisce i termini greci syn, che significa «uguale», e métron, che significa «misura». Insieme, i due vocaboli alludono a qualcosa «con uguale misura». I greci usavano quel sostantivo solo per indicare un corpo in cui alcune dimensioni fisiche interne erano identiche in tutta la forma. Nei solidi simmetrici, i bordi avevano tutti la stessa lunghezza, le facce avevano tutte la stessa area, e gli angoli tra facce adiacenti erano tutti uguali. La simmetria riguardava la misurazione e la geometria. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo affinché venisse riconosciuta come proprietà matematica che andava oltre la semplice misurazione, anche se i filosofi greci cominciarono a esplorare il concetto reputandolo un’immagine potente al di là delle figure fisiche.
Nel Simposio, Platone ci dice che la simmetria non racchiude solo il segreto della struttura della materia, ma spiega anche le origini dell’amore. L’autore introduce un dibattito tra alcuni grandi pensatori dell’antica Grecia sulla natura di quel sentimento. Dopo aver programmato una nottata di gozzoviglie, ma avendo esagerato già la sera precedente, i protagonisti decidono di rimandare la festa e, invece, organizzano una gara per vedere chi riesce a inventare la spiegazione più efficace della nascita dell’amore. Il quarto a parlare è Aristofane, che enuncia la teoria secondo cui quell’emozione sgorga dalla nostra brama di simmetria.
A suo avviso, un tempo gli esseri umani erano creature a quattro zampe, bestie sferiche con due facce, una su ogni lato della testa. Ma Zeus, irritato dall’arroganza di quegli animali, escogitò un piano per mitigarne la superbia: «Mi pare di aver a disposizione un mezzo che permetterebbe che gli uomini possano continuare a esistere […]. Io li taglierò, ciascuno in due, cosicché, da un canto, essi saranno più deboli, e, dall’altro canto, saranno più utili a noi». E tagliò tutti gli uomini a metà.
E quella è, secondo Aristofane, l’origine dell’amore: il nostro desiderio di essere di nuovo uniti in un essere completo, una sfera perfettamente simmetrica.
Particolare curioso: la teoria darwinista dell’evoluzione corrobora l’opinione di Aristofane secondo cui la simmetria è la forza dominante nella selezione dei partner sessuali. Persino la concezione platonica del cosmo, basata sui solidi simmetrici, condivide alcune idee con i modelli scientifici odierni. Sebbene la chimica di Platone sia errata, le quattro forme che il filosofo associò agli elementi terra, acqua, aria e fuoco permeano il mondo microscopico. Quel mondo non si sarebbe tuttavia rivelato finché gli esseri umani non avessero sviluppato strumenti per vedere oltre le forme dei vari manufatti esposti nelle teche del British Museum. Persino il legame platonico tra il dodecaedro e la configurazione dell’universo trova ora eco in una delle attuali teorie sull’organizzazione generale del cosmo.
Io e Tomer siamo giunti al termine della nostra visita del sabato mattina. Mentre attraversiamo l’atrio principale del museo dirigendoci verso l’uscita, la simmetria continua a perseguitarci. Il nuovo tetto è un graticcio di triangoli combinati come un enorme dado con tanti lati.
Sono impaziente di tornare agli strumenti matematici che ho ideato per vedere quali forme simmetriche riuscirò a imbastire oltre il mondo tridimensionale esplorato dai greci e dai romani. Tomer mi rammenta tuttavia il nostro patto. Perciò prima mi aspetta una puntata alla pista di skate-board, per guardarlo urlare e sfrecciare qua e là.
3
Ottobre: il palazzo della simmetria
Principalmente si consiglia di occupare l’intero pavimento con linee e figure musicali e geometriche, per modo che la mente dei presenti sia in ogni maniera attratta verso la cultura.
Leon Battista Alberti, I dieci libri di architettura
17 ottobre, in viaggio verso Granada
Durante una conferenza tenutasi a Edimburgo qualche anno fa, John Conway mi confidò che talvolta trascorreva intere ore a fissare i muri di mattoni. Era forse una forma di meditazione per liberare la mente dalle pressioni della vita quotidiana e rifugiarsi nell’astratto mondo matematico?, gli chiesi. Niente affatto, rispose. Mentre passeggiavamo qua e là per il campus, mi indicò una disposizione di mattoni dietro l’altra, spiegando che ciascuna illustrava un diverso tipo di simmetria. Occorre guardare parecchi muri per riconoscere un numero sufficiente di schemi distinti, ma poi alcuni segreti della simmetria cominciano a palesarsi.
Se volete scavare più a fondo nella varietà ma anche nei limiti della simmetria, le pareti, i soffitti e i pavimenti dei palazzi medievali moreschi sono il posto più adatto. I greci e i romani avevano iniziato a esplorare la simmetria delle forme per costruire dadi soddisfacenti e avevano scoperto che era possibile assemblare solo cinque poliedri perfettamente simmetrici. Gli artisti arabi che decorarono i palazzi dei califfi e dei sultani del mondo musulmano iniziarono però a spingere il concetto di simmetria oltre l’idea greca delle misure uguali. Sui muri delle cittadelle medievali iniziarono a cimentarsi in un nuovo genere di gioco simmetrico, gareggiando per ideare schemi sempre più sofisticati che generassero ripetizioni interessanti. Partendo dalle semplici piastrelle quadrate e dal graticcio esagonale dell’alveare, individuarono una moltitudine di motivi affascinanti.
Possiamo esaminare l’assortimento di forme che gli artisti immaginarono e domandarci se pensassero che il catalogo delle simmetrie non avesse fine. Ma, proprio come avevano scoperto gli antichi greci, in realtà vi sono dei limiti ai giochi simmetrici ideati dai mori. A differenza dei cinque racconti dei solidi platonici, la storia della simmetria racchiusa in quei palazzi è una saga suddivisa in 17 capitoli. Ciascuna singolare piastrellatura è infatti l’esempio di una delle 17 differenti simmetrie nascoste. Benché i greci avessero sviluppato gli strumenti analitici per dimostrare che nella lista non mancava un sesto poliedro regolare, l’analisi astratta necessaria per spiegare quel nuovo fatto era molto al di fuori della portata dei mori. Ci sarebbe voluta la sofisticata matematica del secolo XIX per giungere a una piena comprensione delle simmetrie di quei 17 motivi.
Proprio come tre arance e tre mele sono manifestazioni distinte dell’idea astratta del numero 3, alla fine i matematici avrebbero rivelato che due pareti apparentemente diverse potevano essere espressione del medesimo gruppo nascosto di simmetrie. Pur non giungendo a provare l’impossibilità di una 18a simmetria, se non altro i mori produssero esempi di tutte le 17 possibili.
Un edificio in particolare, costruito intorno al 1300, è sempre stato una Mecca per chi è fanatico di questa parte della storia matematica della simmetria: l’Alhambra di Granada. Arroccata tra le colline pedemontane della Sierra Nevada, nella Spagna meridionale, la città sembra quasi spuntare dalle fertili pianure dell’Andalusia. Circondato da boschi lussureggianti, il palazzo moresco sorge in cima a un’altura affacciata su Granada, come «una perla incastonata in un letto di smeraldi», per citare le parole di un poeta.
Per i matematici, l’abitudine di andare all’Alhambra e tentare di individuare esempi di tutte e 17 le simmetrie sulle pareti, sui soffitti e sui pavimenti, come se partecipassero a una caccia al tesoro, è diventata una sorta di pellegrinaggio. Sono iniziate le vacanze scolastiche di metà trimestre, così ho deciso di intraprendere il mio viaggio verso il sud della Spagna. L’intera famiglia, abituata ad assecondare le mie ossessioni da matematico, parte per l’Andalusia.
A caccia di tesori
Anche il famoso designer grafico M. C. Escher si recò all’Alhambra, per la prima volta, nel mese di ottobre. Durante quella visita, avvenuta nel 1922, restò affascinato dall’immensa varietà di motivi sulle pareti del palazzo. Aveva sin da piccolo la mania delle piastrellature, che consentivano di coprire un’intera superficie piana con forme non sovrapposte. Il primo mezzo d’espressione che sperimentò non furono i muri o i pavimenti, bensì il cibo. Gli olandesi consumavano spesso due pasti al giorno, durante i quali mangiavano boterhammen, singole porzioni di pane farcite di formaggio a fette o carne fredda. Sin da bambino, Escher tentava di usare i pezzi di formaggio per foderare completamente il pane, senza lasciare spazi vuoti. In seguito, gli alimenti cedettero il passo ad angeli e demoni, pesci e lucertole.
Da quando le civiltà iniziarono a erigere case e costruire strade, cercano, come Escher, sistemi per combinare mattoni, pietre o ardesia e rivestire superfici bidimensionali e spazi tridimensionali. I muri a secco dell’antica Gran Bretagna erano puzzle di massi dalla forma irregolare. La composizione sembrava del tutto casuale, ma le strutture erano abbastanza robuste per tenere al loro interno il bestiame e fuori gli eventuali ladri. L’impiego di blocchi variabili risparmiava senza dubbio al costruttore la fatica di scolpire pietre armoniche e squadrate. La mancanza di schemi conduceva tuttavia a una corrispondente mancanza di efficienza costruttiva, perché occorreva stabilire come inserire ogni nuovo masso nell’insieme.
Il nostro interesse naturale per gli schemi e le immagini riconoscibili spinse ben presto gli artisti a creare qualcosa di bello con lo spazio che andavano riempiendo. I romani usavano piccoli frammenti di piastrelle variopinte per ornare i pavimenti con mosaici di delfini e senatori. I musulmani, invece, privati del lusso di raffigurare gli esseri viventi, furono obbligati a imboccare un’altra direzione. Il particolare curioso di quelle decorazioni moresche è proprio la completa assenza della figura umana o animale. «Quello è forse un punto di forza e una debolezza al tempo stesso» annotò Escher nel suo diario di viaggio durante la prima visita all’Alhambra.
Sebbene il Corano non vieti esplicitamente la rappresentazione di persone e animali, molti altri testi sacri musulmani proibiscono di disegnare esseri dotati di anima. Uno di quei libri afferma: «Colui che produce immagini subirà la punizione più severa nel giorno del giudizio […]. Gli angeli della pietà non entrano in dimore dove vi siano simili illustrazioni». Dovendo rinunciare alle voluttuose raffigurazioni cui le altre culture fecero ricorso all’inizio del II millennio, i musulmani furono costretti a trovare sistemi più geometrici per esprimere la loro ispirazione artistica. Per loro, la geometria e la simmetria erano attributi di un dio perfetto e strumenti idonei per indicare la sua magnificenza nell’arte. Condividevano senza riserve la convinzione platonica che «dio opera sempre attraverso principi geometrici». Anzi, i libri di geometria di Euclide furono tra i primi testi dell’antica Grecia a essere tradotti in arabo. Aiutati da un raffinato intuito matematico, gli artisti moreschi cominciarono a impreziosire i loro palazzi con mattonelle di varie forme e colori.
La simmetria era il banco di prova anche per l’artigiano. In un’epoca precedente la produzione industriale in serie di copie esatte, la capacità di ripetere il motivo di una piastrella senza sosta e senza imprecisioni era segno di vera abilità. La destrezza matematica dell’artigiano emerge tuttavia dall’ideazione di metodi sempre più fantasiosi per accostare le mattonelle. Il sultano compensava lautamente l’artista che creava un nuovo schema con cui decorare le pareti e allietare gli abitanti del palazzo.
Mentre andiamo a prendere l’autobus per l’Alhambra, camminiamo su una serie di marciapiedi. La disposizione delle lastre offre all’urbanista l’opportunità di sfruttare gli stessi giochi simmetrici che gli artisti moreschi utilizzarono secoli prima. Tento di stabilire quali pavimentazioni hanno le medesime simmetrie e quali sono diverse. Alcuni motivi consistono di semplici quadrati ripetuti da sinistra a destra, avanti e indietro, come su una scacchiera. Talvolta le figure sono sfalsate, quando una di loro incontra un nuovo strato. Talvolta sono sfalsate simmetricamente, ma spesso vi è un’inclinazione da una parte (figura 3.1). Poi si nota lo stesso schema con i rettangoli. Uno dei marciapiedi più interessanti ne presenta alcuni che zigzagano lungo il ciglio della strada. Lo indico a Tomer, ma il mio entusiasmo lo induce a scoccarmi una lunga occhiata carica di durezza prima di voltarsi e salire sull’autobus.
Figura 3.1: Le simmetrie nei marciapiedi.
Quando lo raggiungo, ha ormai tirato fuori il suo Nintendo DSX, e si immerge in Super Mario finché arriviamo alla fermata dell’Alhambra. Ne approfitto per meditare sulla notazione di cui dispongo per designare i differenti gruppi di simmetrie. Al suo interno, figura un’etichetta per ciascun insieme (p4, cm, p4gm e così via), tutte scelte nel tentativo di rendere i tratti specifici di ogni raggruppamento. Ho copiato le denominazioni convenzionali delle 17 simmetrie in un bloc-notes che porto sempre con me. In quel taccuino scarabocchio tutte le mie idee e i miei lampi d’ispirazione; le illuminazioni possono infatti manifestarsi nei luoghi più impensati. Ho disegnato gli schizzi di tutti i marciapiedi che abbiamo visto lungo il tragitto, e sto cercando di classificarne le simmetrie usando i segni grafici. O io sono davvero stupido o il codice è molto carente, perché non riesco ad abbinare i nomi agli oggetti. Per me che sono un matematico di professione dovrebbe essere un gioco da ragazzi, ma l’impresa è ardua.
Il linguaggio, la notazione e la denominazione sono tutti importantissimi per esprimere l’essenza di una struttura matematica. All’inizio del Novecento, gli inventori dei simboli che mi sono annotato non furono i matematici, bensì i cristallografi. Le simmetrie osservabili su pareti e pavimenti sono fondamentali anche per il chimico, perché sono legate alla comprensione dell’armatura dei cristalli. Il linguaggio ideato per etichettare quelle simmetrie è tuttavia un po’ astruso. Ma io sono dotato anche di una seconda nuova notazione, proposta di recente da John Conway. È più sensata dal punto di vista matematico, e appena la applico, le simmetrie dei marciapiedi si svelano.
Mentre entriamo nell’Alhambra, resto subito colpito dal potere riflettente dell’acqua. Sembra che la costruzione si erga sul liquido. Minuscoli rivoli scorrono da una fontana all’altra. Già l’architettura del palazzo esprime una simmetria verticale: il lato sinistro della facciata si rispecchia perfettamente nel destro. Se ci si piazza a un’estremità della vasca nel Cortile dei mirti, si vede un’altra copia esatta dell’edificio riverberata in orizzontale sulla superficie dell’acqua. Quella vasta distesa liquida si allunga fino ai piedi delle colonne sulla facciata, e l’edificio e il suo riflesso si uniscono per dare l’impressione di un cristallo sospeso nel cielo.
Alcune bambine immergono le mani nell’acqua per cercare di afferrare i pesci che vi nuotano dentro, e la simmetria scompare. Non ci vuole molto per disturbare quello specchio tranquillo e frammentare l’immagine speculare dell’Alhambra. Ecco il messaggio scritto su quella lastra trasparente: la simmetria perfetta è difficile da ottenere. Il mondo naturale ne è consapevole. Gli architetti moreschi amavano il simbolismo della fragilità della simmetria sull’acqua. La tensione fra la natura eterna di dio e la fugacità della nostra debole natura terrena è racchiusa nel dialogo tra la solida simmetria del palazzo e il suo elusivo riflesso nella vasca.
La costruzione è decorata con molte immagini ricche di simmetria rotazionale. I mori, come il fiore e l’asteria prima di loro, scoprirono il potere della simmetria contenuta nella stella a più punte, e punteggiarono le pareti, i soffitti, i pavimenti e i giardini dell’Alhambra di astri di livello artistico sempre maggiore. Per scolpirli, usavano un trucco cui ricorrono anche i fiori. La corolla a cinque petali della magnolia non manifesta alcuna simmetria speculare, perché gli elementi sono disposti in modo da cadere l’uno sotto o sopra l’altro, distruggendo la simmetria di riflessione e creando un effetto a spirale, in senso orario o antiorario.
Escher impiegò lo stesso stratagemma quando applicò una piegatura alle stelle marine sulla sua scatola di cioccolatini, tanto apprezzata da Conway. L’effetto a spirale compare anche in molti degli astri dell’Alhambra, spesso costituiti dall’intreccio di diversi quadrati per realizzare 8, 12 o 16 punte, una dimostrazione di come le simmetrie di quelle forme con tanti lati possano scomporsi in simmetrie di corpi più piccoli (figura 3.2). Nonostante le innumerevoli decorazioni colorate e complesse, persino Tomer nota che le simmetrie della splendida stella a otto punte sono identiche alle otto simmetrie rotazionali di un semplice ottagono. Si tratta solo di manifestazioni differenti dello stesso tipo di simmetria.
Figura 3.2: Una stella a otto punte formata dall’unione di due quadrati.
Le pareti dell’Alhambra sono rivestite di piastrelle multicolori disposte per creare schemi ripetitivi. Sebbene le mattonelle si fermino dove finisce il muro, la simmetria dà l’impressione che il motivo prosegua oltre quel confine. Genera un ritmo che fa quasi pulsare la superficie, producendo l’effetto di un’immagine in movimento e alludendo a una distesa di spazio sconfinato. Ecco un altro motivo per cui gli artisti musulmani erano attratti dalla simmetria: quest’ultima era un’espressione artistica della saggezza e della maestà infinite di dio. Ciascuna nuova parete offriva all’artigiano l’opportunità di immaginare una piastrellatura inedita e originale. Ma si può trasformare quest’arte in scienza? Esiste una matematica capace di rivelare schemi sempre più elaborati o di raggiungere i limiti del possibile?
L’essenza di un rivestimento piastrellato è la ripetizione in due direzioni. La figura 3.3 mostra le mattonelle sulla prima parete che accoglie i visitatori all’ingresso dell’edificio. I turisti impazienti mi passano accanto con andatura spedita su entrambi i lati, senza notare le immagini che sembrano quasi dire: «Benvenuti nel palazzo della simmetria». Rimango sbalordito davanti alla straordinaria forma delle piastrelle che paiono collocarsi alla perfezione intorno alle stelle a otto punte senza lasciare alcuno spazio vuoto.
Figura 3.3: L’entrata dell’Alhambra.
La particolarità che rende le raffigurazioni dell’ingresso una piastrellatura regolare e non un mosaico romano o un panino al formaggio di Escher è la possibilità di sollevare e spostare ogni pezzo (su o giù, a destra o a sinistra) per poi ricollocarlo esattamente su una copia di se stesso. Qui vi è, tuttavia, più regolarità che nel singolo movimento di ogni componente. Posso realizzare una riproduzione dell’intera immagine, muoverla in orizzontale o in verticale, e riposizionarla cosicché combaci alla perfezione con l’originale. Ecco cosa la permea di un senso d’infinito. La simmetria della parete contiene un messaggio (un programma, se volete) che determina con accuratezza la disposizione delle mattonelle man mano che la parete si estende, anche fino alle propaggini più remote dell’universo.
La simmetria della parete non si contraddistingue tuttavia solo per la semplice ripetizione. Ma come possiamo spiegare cos’è quella simmetria? Come possiamo esprimere il fatto che un muro è più simmetrico di un altro? È possibile anche determinare con precisione cosa intendiamo quando affermiamo che due pareti hanno la medesima simmetria?
Il motivo per cui quel muro non è caratterizzato soltanto dalla pura ripetizione è che vi sono altri metodi per sollevare la raffigurazione e adagiarla su un’ombra di se stessa. Anziché spostarla semplicemente a destra o a sinistra, su o giù, posso ruotarla prima di posarla. Per esempio, se tengo fermo il centro di una stella a otto punte e giro una copia dell’immagine di 90° intorno a quel punto, le forme si allineano impeccabilmente sopra l’originale.
Sono curioso di sapere cosa ne pensa Tomer. La sua reazione iniziale è la constatazione che il motivo non è affatto simmetrico. Cerca linee lungo le quali ripiegare il disegno cosicché i due lati combacino, come in una delle macchie d’inchiostro Rorschach usate dagli psicologi. Capiamo subito che in questo caso non è possibile. Elemento affascinante: la decorazione che orna l’ingresso dell’Alhambra non presenta il tipo di simmetria nota alla maggior parte degli individui, la simmetria di riflessione.
Sebbene la stella a otto punte possieda una simmetria speculare, la forma a T allungata tutt’intorno ha una piegatura in senso orario che, allo specchio, risulterebbe capovolta. Come la nostra mano sinistra, il riflesso della T ci regala una forma del tutto nuova. Se stacco il pezzo dal suo supporto e lo ribalto, ottengono l’immagine riflessa. È tuttavia impossibile ricollocarlo nello spazio vuoto che si è aperto. Naturalmente, potrei prelevare tutte le unità, rovesciarle e rimetterle intorno alla stella. Questo intervento creerebbe un’immagine diversa (ma senz’altro affine) che parrebbe ruotare in senso antiorario.
Il segreto per decifrare la simmetria della parete è immaginare tutti i sistemi per sollevare il disegno e riposizionarlo in un profilo tracciato sul muro. È utile pensare a una forma spettrale dell’oggetto capace di restare al suo posto mentre l’oggetto stesso viene spostato e quindi ricollocato. Seguendo l’esempio di una folta schiera di artisti che, come Escher, hanno visitato il palazzo, Tomer e io abbiamo portato due album su cui disegnare i motivi. A essere sincero, trovo difficilissimo schizzare il complesso schema usato dai mori, e mi sento sopraffatto dallo stupore davanti all’armonia di cui è rivestita la superficie.
Quando alzo lo sguardo, vedo che Tomer non ci ha messo molto ad abbandonare l’album ed estrarre il Nintendo DSX, ma quando lo rimprovero per essersi distratto con Super Mario Kart e non aver apprezzato la bellezza che lo circonda, mi mostra lo schermo. In realtà, sta disegnando i motivi sul display. Nella consolle vi è una funzione che consente di ruotare l’immagine. Se si sceglie un punto in cui le strane forme a T allungata si incontrano in una sorta di svastica, è possibile, mi spiega, girare la figura di 90° intorno a quel perno. Naturalmente, esegue un’animazione della piastrellatura che ruota e torna ad allinearsi in maniera da restare immutata.
In effetti, il Nintendo coglie qualcosa che i miei schizzi rudimentali tralasciano: il fatto che la simmetria delle mattonelle sia legata allo spostamento. Ciò ha a che fare con l’insieme delle operazioni cui posso sottoporre la raffigurazione. Benché quest’ultima finisca per apparire com’era prima della mia manovra, l’essenza di ogni nuova simmetria è il movimento intermedio che ripristina l’originale, una cosa che l’animazione di Tomer evidenzia, ma cui il mio modesto disegno statico riesce soltanto ad accennare.
La rappresentazione del Nintendo mostra un’altra simmetria distinta da quella che fa ruotare il motivo intorno al centro della stella. Benché siano entrambe rotazioni di 90°, vi è una netta differenza tra le due, per via del loro effetto distinto. Tomer prende a gironzolare per le sale con aria compiaciuta.
Seguendolo con imbarazzo, mi ritrovo in un locale rivestito di piastrelle che hanno una forma diversa rispetto a quelle dell’entrata. Una guida decanta i prodigi dei matematici arabi: «Tracciare un quadrato è semplice, ma qui gli eruditi crearono non solo stelle a otto punte, bensì addirittura a 16, e senza l’aiuto del computer». I mori erano senza dubbio grandi esperti di matematica, ma è un po’ esagerato sostenere che serve un computer per disegnare quelle stelle. Quando la guida aggiunge che gli arabi inventarono anche lo 0, devo trattenermi dal lanciarmi in una spiegazione secondo cui furono gli indiani a scoprirlo. Gli arabi furono solo i bravi messaggeri che diffusero l’idea dall’Oriente all’Occidente lungo la via della seta.
Sul soffitto compare un altro motivo molto amato dagli artisti dell’Alhambra (figura 3.4). Spesso, questi ultimi intagliavano il legno o disponevano le mattonelle in modo da disegnare linee che sembrano correre l’una sotto o sopra l’altra, come un nodo aggrovigliato. Le pareti e i soffitti ricordano un cestino di legno o stucco, capace di ingannare l’occhio aggiungendo una nuova dimensione al muro bidimensionale e distruggendo ancora una volta la possibilità della semplice simmetria di riflessione. In qualsiasi immagine speculare della figura, l’ordine delle linee apparirà invertito. Sono curioso di vedere se Tomer riconoscerà uno schema simmetrico differente rispetto a quello che ci ha accolti all’entrata. Oppure le due simmetrie sono identiche?
Figura 3.4: Il soffitto della prima sala dell’Alhambra.
«Ma sono completamente diversi» dichiara mio figlio. Shani, la mia compagna, si avvicina. Lei è un’artista: come reagirà la sua spiccata sensibilità al lato artistico della simmetria? Concorda con Tomer: «Non sono uguali». Un esame più attento dimostra che, come per il motivo all’ingresso, si può fissare un punto al centro dell’ottagono e ruotare la forma di 90°, lasciando inalterato lo schema.
«Guardate. C’è un altro punto su cui girarlo.» Indico il centro del minuscolo quadrato nel cuore di ciascuna quaterna di ottagoni. La forma è costituita dai due fili bianchi che entrano ed escono l’uno dall’altro. Il loro tracciato costringe l’osservatore a ruotare l’immagine di 180° prima di poterla ricollocare perfettamente dentro il suo profilo. «Il mio cervello sta iniziando a fondere» dice Tomer fingendo di stramazzare al suolo.
A prima vista, il soffitto pare molto diverso dalla piastrellatura dell’ingresso. Nonostante la mia prospettiva più sofisticata, non sono del tutto sicuro che le simmetrie siano uguali.
Quando torno fuori a controllare, noto tuttavia che esiste anche un punto intorno al quale le mattonelle possono compiere mezza rotazione: quello a metà strada tra una stella e la sua vicina. Proprio come nel caso del soffitto, occorre girare le piastrelle di 180° prima che le immagini si allineino di nuovo. È davvero imbarazzante: la simmetria è la mia specializzazione, ma all’inizio non mi ero reso conto di quell’alternativa.
Capire se quei due motivi differenti hanno lo stesso tipo di simmetria oppure no è ancora più difficile. Contare le simmetrie di ciascuno schema è una cosa, ma come si esprime la totalità delle simmetrie? Ha senso parlare di questo concetto? Alla fine, nel secolo XIX, i matematici avrebbero inventato un linguaggio per spiegare che, in realtà, quei due disegni avevano il medesimo gruppo di simmetrie, ossia che le rotazioni avevano lo stesso effetto sugli oggetti interessati. Anche senza quel codice, possiamo dimostrare il legame tra le simmetrie sovrapponendo i due motivi (figura 3.5). Se ruotiamo il disegno sul soffitto di 45° e lo collochiamo sopra le piastrelle dell’entrata, in modo che metà degli ottagoni si posi sulle stelle a otto punte e l’altra metà abbia il centro sulle svastiche, notiamo la corrispondenza.
Figura 3.5: L’allineamento dei due motivi rivela che le loro simmetrie sono identiche.
Una volta disposte le figure in questo modo, qualsiasi simmetria dell’una si traduce direttamente in una simmetria dell’altra. È come introdurre un dodecaedro in un icosaedro (o viceversa, si veda figura 2.16) e osservare la corrispondenza tra le loro simmetrie. Dopo aver scoperto il linguaggio adeguato, i matematici compresero tuttavia di poter descrivere simili allineamenti senza dover cercare una somiglianza fisica.
La conseguenza principale di quella nuova grammatica fu la possibilità di dimostrare che le piastrellature non avevano più di 17 simmetrie. Qualunque motivo si ripeta in orizzontale e in verticale deve rientrare in una di quelle classi. Finora, sulle pareti dell’Alhambra, io e Tomer ne abbiamo individuata solo una, denominata 442 nella notazione di Conway. I due 4 indicano che in quella simmetria vi sono due diverse rotazioni di 90°, un particolare che non emerge dal disegno sul soffitto. Il 2 si riferisce al mezzo giro che non avevamo rilevato sulle piastrelle dell’entrata.
Tomer comincia a essere irrequieto: «Dài, papà. Di questo passo non usciremo mai di qui».
Ora la nostra missione è rintracciare il maggior numero possibile delle altre 16 simmetrie. Le mie doti artistiche non sono all’altezza del furibondo assalto di immagini che ci attende a ogni svolta, perciò ricorro alla macchina fotografica digitale.
Triangoli ed esagoni, girazioni e miracoli
Il gruppo di simmetrie che abbiamo studiato all’ingresso è, in realtà, un sottogruppo delle semplicissime simmetrie create dalle anonime mattonelle quadrate che rivestono le pareti di quasi tutti i bagni. Aggiungendo motivi più elaborati alla raffigurazione, l’artista ha eliminato le simmetrie di riflessione della comune piastrellatura quadrata. Oltre a quest’ultima, il muro presenta altri due schemi banalissimi e molto simmetrici, le cui varianti iniziano a comparire quando si accede al cuore dell’Alhambra: il graticcio esagonale dell’alveare e un muro tappezzato di triangoli.
Tomer scorge un’interessante rete di frecce a tre punte intrecciate (figura 3.6). Qui vi sono una simmetria di riflessione e un’evidente simmetria rotazionale intorno al punto A nel mezzo della freccia. Nascosta nell’accostamento delle unità vi è però una simmetria rotazionale meno scontata. B, che segna l’incontro fra le tre punte, è un altro perno intorno a cui ruotare l’immagine di 1/3 di giro. La rotazione intorno a B è diversa da quella intorno ad A, perché B non giace su alcuna linea di riflessione. «Girazione» è il nome che Conway ha attribuito a questo genere di rotazione, indicando l’insieme di simmetrie con 3∗3, dove l’asterisco esprime una simmetria di riflessione. Le eventuali girazioni sono designate da numeri prima dell’asterisco, uno per ciascuna girazione.
Figura 3.6: Frecce a tre punte intrecciate. A e B sono due punti intorno ai quali si può ruotare la figura di 1/3 di giro. B non si trova su una linea di riflessione. La rotazione intorno a un punto di questo tipo prende il nome di «girazione».
Ormai ho trovato nove delle 17 categorie differenti. Su una colonna distinguo un motivo di piastrelle a forma di foglia che inizia a spingere l’idea di simmetria oltre le riflessioni e le rotazioni convenzionali (figura 3.7). Su quelle mattonelle si possono effettuare alcune semplici riflessioni e simmetrie traslazionali. Per esempio, ignorando le due tinte del rivestimento, posso sollevare il disegno e spostarlo in diagonale cosicché il punto A finisca in corrispondenza di C e il punto B in corrispondenza di D. La foglia bianca si ritrova in cima alla sua vicina nera. Esiste tuttavia un’altra mossa simmetrica possibile: prendere l’immagine, rifletterla e quindi trascinarla verso l’alto. Allora, per esempio, A si colloca in corrispondenza di D e B in corrispondenza di C. Questo genere di simmetria è spesso molto più difficile da riconoscere. Non si può infatti effettuare questa operazione mediante una semplice riflessione allineata attraverso il disegno. È quella che alcuni chiamano «glissosimmetria», anche se Conway preferisce parlare di «miracolo» o «incrocio miracoloso». La sua identificazione è non di rado faticosa. Per Conway, quella bizzarra simmetria produce un’immagine speculare del motivo in assenza di specchi. Il nome «miracolo» si riferisce tanto agli specchi mancanti quanto al senso di stupore infuso dalla scoperta di una caratteristica così singolare.
Figura 3.7: Questa piastrellatura illustra un nuovo tipo di simmetria, detto «glissosimmetria», «miracolo» o «incrocio miracoloso». In questo caso, si provvede a riflettere le mattonelle e quindi a spostarle cosicché A si muova verso D e B verso C.
Mostro il tutto a Tomer, ma mio figlio impiega un po’ di tempo per convincersi che quella sia davvero una simmetria diversa dal semplice spostamento della figura verso l’alto e a sinistra. Il fatto è che tutte quelle simmetrie lasciano l’immagine pressoché invariata, perciò talvolta non è facile distinguerle. L’applicazione di etichette al disegno ci aiuta a capire. Con il miracolo, i punti A e B si trasformano nei punti D e C, mentre la simmetria traslazionale si limita a muovere A e B verso C e D senza alcuna inversione. A dire il vero, questa denominazione è alle origini di un linguaggio capace di esprimere la simmetria nascosta nei motivi che guardiamo. Le raffigurazioni cominciano a cedere il passo alle lettere e alla lingua.
Se evito di abbinare i colori delle foglie sulla colonna, riesco ad aggiungere una decima voce alla mia lista. Si chiama ∗×, dove l’asterisco designa la semplice riflessione lungo il centro di ciascuna mattonella. Il × rappresenta il miracolo o la glissosimmetria nel punto in cui rifletto e poi sposto. Se prendo in considerazione le tinte e insisto affinché le piastrelle bianche vadano con le piastrelle bianche e quelle nere con le nere, ottengo tuttavia un gruppo diverso. Il mio miracolo non funziona più, perché tramuta le mattonelle bianche in nere. Le uniche simmetrie sono riflessioni allineate attraverso i pezzi bianchi o quelli neri. Questa categoria viene indicata con ∗∗ per indicare due diversi tipi di riflessione.
Così prendo due gruppi di simmetrie al prezzo di uno, arrivando a 11 su 17. Mi illudo in continuazione di essermi imbattuto in un motivo contenente un nuovo gruppo di simmetrie solo per scoprire che si tratta ancora una volta del 442, l’insieme che ha dato il via alla nostra caccia al tesoro e che compare persino sul pavimento (figura 3.8). Sembra più semplice dei due esempi che ho trovato prima, all’ingresso del palazzo, ma posso di nuovo sovrapporre le immagini per smascherarle come rappresentanti della medesima costellazione di simmetrie. Alla fine, i matematici avrebbero creato un linguaggio più astratto con cui spiegare perché due gruppi erano identici e quali erano in grado di allargare il trucco dell’allineamento. Io devo ancora portare a termine il compito di estrarre le ultime sei classi dalle pareti, dai soffitti e dai pavimenti dell’Alhambra.
Visitai per la prima volta il palazzo vent’anni prima, quando ero un laureando. Trascorsi l’estate a girare l’Europa con l’InterRail insieme a un amico, sopravvivendo a scatolette di tonno e notti passate nelle stazioni ferroviarie. Forse la colpa fu della stanchezza oppure non volevo fare la figura del matematico sfigato davanti al mio compagno di viaggio, ma quando finalmente giunsi all’Alhambra, non badai per nulla alle simmetrie.
Figura 3.8: Un pavimento dell’Alhambra illustra un altro esempio del gruppo di simmetrie 442.
Alcuni dei miei colleghi vanno ossessivamente alla ricerca di campioni delle 17 simmetrie ovunque si trovino. La camicia di un amico suscita un’improvvisa ondata di entusiasmo: «Ooh, la tua fantasia ha due miracoli. Stai fermo lì mentre vado a prendere la macchina fotografica!». Oppure, all’Alhambra: «Ecco una girazione. Però, è un magnifico ∗632!». In realtà, l’edificio è sempre stato una sorta di sfida per i fanatici della simmetria, e si sono susseguiti molti dibattiti sulla concreta possibilità di trovare tutti e 17 i gruppi sulle sue pareti.
A Escher occorse una seconda visita affinché i motivi moreschi lasciassero sul suo lavoro la profonda impronta che è diventata la caratteristica distintiva del suo stile. Come già ricordato si era recato per la prima volta a Granada nel 1922, ma gran parte della sua produzione artistica di quel periodo si era ridotta a rappresentazioni vivide e molto tridimensionali dell’Italia, dove aveva conosciuto sua moglie e si era stabilito. Uno dei suoi temi preferiti era la costiera amalfitana, con i porti e i villaggi arroccati sul fronte delle scogliere. Quelle raffigurazioni sono in netto contrasto con le opere che creò dopo la sua successiva visita all’Alhambra, avvenuta nel maggio del 1936, nel mutevole clima politico dell’Europa dell’anteguerra. Gli Escher avevano lasciato Roma nell’estate del 1935, spaventati dall’atmosfera sempre più sinistra che si respirava nel Paese. Un inverno in Svizzera li aveva spinti a bramare il sole. Così, Escher aveva presentato una proposta all’Adria, una società di navigazione italiana con sede a Fiume:
Chiesi loro di trasportarmi gratis. In cambio avrei dato loro quattro copie di ciascuna di 12 stampe grafiche, che avrebbero poi potuto utilizzare a scopo pubblicitario nel settore turistico. Con mio enorme stupore, accettarono.
La nave Rossini portò la coppia nel sud della Spagna. I due si recarono subito a Granada. Nessuna parola può comunicare l’effetto che l’Alhambra sortì sul designer meglio di una delle sue xilografie più famose, Metamorphosis (figura 3.9), realizzata un anno dopo quel secondo viaggio. A sinistra compare la città costiera di Atrani. Man mano che l’immagine si sviluppa nella stampa, gli edifici tridimensionali si tramutano dapprima in cubi e poi in una piastrellatura esagonale di bambini cinesi bidimensionali.
Quello spazio piano iniziò a conquistare il mondo dell’artista. Escher riempì i suoi taccuini di tutti i motivi bidimensionali che vide intorno al palazzo e, quando tornò in Olanda, la sua patria, la sua produzione artistica iniziò a subire una metamorfosi analoga:
Figura 3.9: Metamorphosis, di M. C. Escher.
In Svizzera, Belgio e Olanda ho trovato l’aspetto esteriore del paesaggio e dell’architettura meno sbalorditivo di quello che si vede soprattutto nella parte meridionale dell’Italia. Mi sentii dunque costretto ad allontanarmi dalla raffigurazione più o meno diretta e fedele di quanto mi circondava. Quella circostanza diede senza dubbio un contributo decisivo alla nascita delle mie visioni interiori.
Ciò, tuttavia, non dipese solo dalla sua immersione nell’uniforme panorama bidimensionale dei bassipiani. L’ondata dilagante di fascismo fu molto fastidiosa per Escher, e quel nuovo mondo interiore gli offrì l’opportunità di evadere: «Il fatto che dal 1938 mi sia concentrato sull’interpretazione delle idee personali fu principalmente il risultato della mia partenza dall’Italia».
Nel suo diario di viaggio, nel giorno della sua visita all’Alhambra l’artista annota: «Non vi sono stranieri. Ci guardano a bocca aperta come creature venute da un altro pianeta». Oggi le cose non potrebbero essere più diverse. Ora il palazzo limita il numero giornaliero di visitatori. Mi sono visto superare da innumerevoli gruppi organizzati che sfrecciavano attraverso l’edificio senza fermarsi nemmeno per un attimo a cogliere una semplice riflessione del Palazzo delle comari nelle vasche del Cortile dei mirti.
D’un tratto mi accorgo che Tomer è scomparso. La marea di turisti l’ha inghiottito, trascinandolo fino al Cortile dei leoni. Alla fine, lo trovo nella sala degli Abencerrajes, poco distante dallo spiazzo. Pur non ospitando una delle simmetrie mancanti di cui vado in cerca, il locale ha un soffitto mozzafiato, colmo di geometrie affascinanti. Una magnifica stella a otto punte si allarga sul tetto, e sopra le nostre teste sono incise migliaia di piccole nicchie. L’effetto è quello di una superficie coperta di stalattiti. Ricorre in molte opere architettoniche musulmane e ricorda la visitazione di Maometto da parte dell’arcangelo Gabriele nella celebre grotta del monte Hira. L’abilità matematica che contribuì a creare la perfetta disposizione dei 5416 pezzi è davvero sorprendente.
Una guida racconta la cruenta storia di come la stanza prenda nome dai 36 membri della famiglia Abencerrajes che furono trucidati per ordine del sultano. Indica poi una striatura rossa che attraversa il marmo. «Il sangue degli Abencerrajes macchia ancora questi pavimenti.» Non ho il coraggio di spezzare l’incanto e spiegare a Tomer che, molto più probabilmente, l’effetto è dato dall’ossidazione dovuta ai tubi che portano l’acqua verso la fontana al centro della sala. Talvolta il mito è più suggestivo della scienza.
Non resisto tuttavia alla tentazione di descrivergli un’altra meravigliosa conquista scientifica dei mori, incorporata nel Cortile dei leoni. Le finestre e i pilastri di tutto l’edificio sono stati costruiti volutamente per trasformare l’Alhambra in un’enorme meridiana. Mentre la luce filtra attraverso i vetri, l’allineamento dello spiazzo fa sì che le ombre proiettate dai pilastri girino per tutto il giorno come le lancette di un orologio. La posizione delle finestre garantisce persino che il cortile sia più illuminato quando il sole è basso durante l’inverno, come oggi, e che i suoi raggi scaldino la fredda aria andalusa. In estate, benché il sole sia più alto nel cielo, la disposizione delle finestre lascia entrare meno luce, offrendo tutta la frescura possibile al sultano e al suo harem.
Riesco a ricavare un’altra simmetria da un bellissimo motivo che corre intorno alla sommità di una colonna, arrivando a 14 su 17. Ma ormai Tomer non ne può più. «Possiamo andare adesso? Penso di aver recepito il messaggio.» Sono tuttavia un po’ ossessivo riguardo alla mia ricerca e non sarò soddisfatto finché il mio elenco non sarà completo. Ho percorso l’intera costruzione, ma pare che mi sia perso tre gruppi di simmetrie. «Dài, papà! Adesso possiamo andare al negozio?»
«D’accordo, d’accordo.» Ma sto già meditando di tornare domani.
Rientrando in hotel, calpestiamo i marciapiedi che abbiamo visto la mattina. Ormai i miei occhi e il mio cervello sono ipersensibili alle simmetrie di ogni genere. Mi sento come un’ape che svolazza in un giardino, capace di riconoscere solo i profili degli esagoni e dei fiori a cinque punte. A un tratto mi accorgo che uno degli schemi mancanti mi guarda in faccia dal pavimento urbano della moderna Granada (figura 3.10). Non presenta alcuna simmetria rotazionale né di riflessione. Nascoste nel motivo vi sono però due singolari glissosimmetrie, un doppio miracolo.
Una volta giunti in camera, esamino le foto che ho scattato con la macchina digitale per assicurarmi di aver davvero individuato quattordici gruppi diversi di simmetrie. Benché abbia molta dimestichezza con le tecniche matematiche, è molto difficile stabilire se uno degli elementi mancanti compare sulle fotografie. Alla fine, le batterie si scaricano e sono costretto a coricarmi. Domani ci avventureremo in regioni meno matematiche, ma prima di partire sono deciso a vedere se riesco a rintracciare le ultime tre simmetrie dell’Alhambra. Ho scorto il doppio miracolo sul marciapiede, perciò sarò senza dubbio in grado di ritrovarlo nel palazzo.
Figura 3.10: Un marciapiede di Granada contenente un doppio miracolo.
Uno dei programmi televisivi che mi lasciò il segno durante la mia ricerca adolescenziale di tutte le cose matematiche fu L’ascesa dell’uomo di Jacob Bronowski. Mentre scivolo nel sonno, mi assale il vivido ricordo di una scena in cui Bronowski siede nell’Alhambra e parla di simmetria. Lo rammento nell’Harem, impegnato a spiegare che le pareti erano coperte di decorazioni sexy anziché di donne sexy. Quel luogo era un autentico forziere di simmetrie, dove tutto lo spazio disponibile traboccava di motivi. E mi viene in mente l’immagine nitida di uno dei disegni più belli, costituito da semplici triangoli, ma caratterizzato da una lieve curvatura che distrugge la simmetria di riflessione. Quello schema mi fornirebbe uno degli elementi mancanti, ma non ricordo di aver visto nulla del genere oggi nel palazzo. Ho forse tralasciato una sala perché Tomer mi ha trascinato nel negozio? Trascorro una notte molto agitata. Ogni sogno pare frammentarsi in un graticcio esagonale o in uno zig-zag di rettangoli. Mi alzo presto e, lasciando che gli altri continuino a dormire, mi dirigo verso l’Alhambra.
Le simmetrie nascoste
Ogni volta che dimostro un nuovo teorema, è come se costruissi una nuova ala del palazzo della matematica. Dopo aver finito, esamino tuttavia il risultato con nervosismo, ripercorrendo la struttura che ho eretto per accertarmi che non crolli. Ieri mi sono incamminato verso l’Alhambra con il buon umore del collezionista di farfalle, agitando la mia retina qua e là e catturando qualunque simmetria fosse sulla sua traiettoria. Oggi adotto un atteggiamento più critico, mettendo in dubbio ogni cosa al fine di rinvenire la presenza dei pezzi mancanti.
Scrutando le pareti, noto molti particolari di cui ieri non mi ero accorto. È straordinario che il cervello non riesca ad assorbire più di una certa quantità di dati. Ma non riesco ancora a identificare i motivi che mi servono per completare la mia serie di 17 simmetrie. Torno nel Cortile dei leoni, con la sua decina di belve che sorregge la fontana. E lì, sul pavimento, ecco uno degli schemi che cercavo (figura 3.11). È la stessa simmetria che ho trovato ieri sul marciapiede: un doppio miracolo. Ma a differenza di quel disegno, dove la singolare forma delle mattonelle distruggeva la simmetria rotazionale, qui i colori agiscono a mio favore. È uno zig-zag di rettangoli che si alterna tra il bianco e il verde. Senza le tinte, si ottiene una rotazione che evidenzia una fila di piastrelle diagonali sopra la fila inferiore. Ora, tuttavia, le tonalità ingarbugliano il tutto, generando un doppio miracolo.
Figura 3.11: Un doppio miracolo sul pavimento dell’Alhambra.
Ormai mi restano soltanto due simmetrie. All’estremità opposta del cortile ho un altro colpo di fortuna (be’, quasi). Oggi sono più sensibile agli effetti cromatici. Sul muro di fronte distinguo qualcosa che ieri avevo trascurato. In sostanza, si tratta di sei triangoli disposti a formare un esagono, con i colori che si avvicendano tra il rosso e il giallo (figura 3.12). Introducendo le tinte, l’artigiano ha ridotto la rotazione di 1/6 a 1/3 di giro, perché, per riportare il motivo nella medesima configurazione, devo posizionare un triangolo giallo su un triangolo giallo. L’unico problema è che, sebbene il creatore abbia variato con maestria i colori dei triangoli, ha anche aggiunto alcune fastidiose piastrelle blu che dovrebbero essere nere. Fingendo che le mattonelle blu siano nere, riesco a inserire ∗333 nella mia collezione, sebbene si tratti di un bluff. L’artista ha avuto l’idea giusta ma, dal mio punto di vista matematico, non ha raggiunto la perfezione.
Figura 3.12: Una parete il cui gruppo di simmetrie è quasi ∗333. G, R e B indicano le piastrelle gialle, rosse e blu.
Anche Escher era molto sensibile all’uso dei colori nei motivi moreschi. Mentre si interessava sempre di più allo studio della matematica celata dietro gli schemi, il suo notevole fiuto artistico per l’importanza delle tinte lo condusse a identificare una nuova struttura nella matematica della simmetria, struttura che era sfuggita agli scienziati. Oltre alle 17 categorie menzionate, esiste un’ulteriore serie di simmetrie basate sulla possibilità di spostare i pezzi e scambiare i colori. È stato dimostrato che se si includono le permutazioni di due tinte, emergono altri 46 gruppi di simmetrie. Possiamo ringraziare Escher per questa nuova visione matematica dei muri dell’Alhambra.
Mi rimane ancora un elemento da trovare. Vado in cerca delle stelle ritorte a tre punte che, ne sono sicuro, sono da qualche parte del palazzo e mi darebbero un 632, il tassello mancante. Ma ho quasi raggiunto l’uscita. Non capisco. Bronowski si era fatto filmare altrove? Vi sono motivi magnifici anche nell’alcazar di Siviglia, ma sono sicuro che il documentario era stato girato all’Alhambra.
Poi lo vedo. Una transenna impedisce ai visitatori di superare una piccola entrata. Più in là distinguo un corridoio affacciato su qualcosa ai piani inferiori. Lancio una rapida occhiata intorno a me. Non c’è nessuno, perciò scavalco. Non è proprio un’avventura alla Indiana Jones, ma avverto un lieve brivido quando mi addentro in quel territorio proibito. Sono un tipo che, la maggior parte delle volte, segue le regole: fa parte della mia formazione matematica, di fatto questa disciplina comincia ben presto a sgretolarsi se ci si allontana dai limiti logici ammessi dalla materia.
L’unico videogame cui mi sia mai appassionato è Prince of Persia. Quando mi trovavo in Israele per il postdottorato, ci giocavo con la segretaria di facoltà dopo il lavoro. Era bravissima nei combattimenti (d’altro canto tutti i cittadini israeliani sono tenuti a prestare servizio nell’esercito), e io mi occupavo della parte logica. L’istante in cui mi aggiro nel buio sancta sanctorum dell’Alhambra mi ricorda il momento in cui individuavamo la strada per passare al livello successivo del gioco.
Mi sporgo oltre il balcone, ed eccolo lì: lo sfondo del documentario di Bronowski, pieno di simmetria. E vi è anche il motivo che mi è tornato in mente la notte scorsa (figura 3.13). È uno dei disegni che avevano ispirato Escher. I triangoli sembrano scintillare sotto il sole andaluso. Le loro curve fanno da scenario voluttuoso a una sala che rappresenta il cuore emotivo ed erotico dell’edificio. Era dal balcone su cui sono ora che il sultano scrutava le donne dell’harem, distese nude dopo il bagno, e sceglieva la sua compagna per la notte, mandandole una mela come segnale. I sensuali triangoli sui muri dell’Harem sono in netto contrasto con i quadrati disadorni dell’ingresso formale, dove i pezzi intrecciati rammentano quasi un filo spinato destinato a tenere fuori gli ospiti indesiderati. Affacciarsi dal balcone è come fissare non un pozzo colmo d’acqua, bensì un’ampia vasca di simmetrie. Qui gli artisti coprirono ogni spazio disponibile di tutti i giochi simmetrici che riuscirono a inventare.
La particolarità di questa configurazione è che, applicando una rotazione ai triangoli a tre punte, l’artista ha perso tutta la simmetria di riflessione. Ecco cosa indusse Escher a piegare le stelle marine sulla sua scatola di cioccolatini. Il disegno si contraddistingue tuttavia per vari tipi di simmetria rotazionale. Ignorando i colori, si può girare la figura di 1/3 di rotazione intorno al centro di ciascuna mattonella (il punto 3 nella figura 3.13). Vi è anche una rotazione di 1/6 di giro (intorno al punto 6) in corrispondenza dell’incontro tra le estremità della piastrella. Ricordate che stiamo tralasciando le tinte. E infine, nel motivo si cela una rotazione appena più lieve, pari a mezzo giro. Se si fissa un punto (designato con 2) a metà strada lungo un bordo, si può effettuare una mezza rotazione capace di ricollocare perfettamente le mattonelle sopra il profilo.
Figura 3.13: Una parete dell’Harem con un gruppo di simmetrie 632. Ciascun vertice segna un punto intorno al quale è possibile ruotare l’immagine. I numeri indicano le ripetizioni di ogni rotazione necessarie per riportare le piastrelle nella posizione originale.
Ancora emozionato per la scoperta della simmetria mancante, torno a scivolare in silenzio lungo il corridoio che conduce alla transenna. Quando sbuco fuori, un gruppo di turisti danesi allibiti assiste alla mia trasgressione con aria piuttosto indignata. Passando loro accanto, vado a dare un’ultima occhiata al Cortile dei leoni. Ma poi il mio sguardo è attirato da un’altra cosa di cui non mi ero accorto (ormai per ben due volte) durante le mie esplorazioni precedenti. Seminascosto da un paravento di legno vi è un altro schema che non ho mai visto prima (figura 3.14). Il disegno non ha linee di riflessione. Se si guarda meglio, si scorgono tuttavia punti intorno ai quali eseguire una rotazione di 1/6, di 1/3 e di 1/2 giro. Dettaglio sorprendente, l’immagine ha la stessa identica simmetria delle stelle a tre punte in cui mi sono appena imbattuto nell’Harem. Le autorità hanno forse deciso che quel genere di simmetria era troppo piccante per l’occhio inesperto e hanno tentato di occultarlo alla vista del pubblico?
Figura 3.14: Un’altra parete con un gruppo di simmetrie 632.
Con un pizzico di riverniciatura creativa, la mia caccia al tesoro ha collezionato tutte e 17 le categorie. Ma come faccio a essere sicuro che là fuori non ve ne sia una 18a in attesa di essere scoperta? Ci si può senza dubbio cimentare in parecchi giochi usando le forme effettive usate come piastrelle. Le api, le rane, i pesci, gli angeli, i granchi, gli uccelli, i grifoni, le farfalle, gli scarabei, le lucertole, i pipistrelli e i cavallucci marini di Escher illustrano l’infinita varietà di figure utilizzabili. Dietro ciascuna piastrellatura si nasconde tuttavia una delle uniche 17 simmetrie possibili su una superficie bidimensionale.
Ci sarebbero voluti altri cinque secoli affinché i matematici provassero con certezza che gli artisti moreschi medievali non sarebbero mai riusciti a ricavare una simmetria settecentesca dalle mattonelle sulle pareti. Come vedremo nel seguito della nostra storia, si tratta di una dimostrazione basata sulla padronanza della teoria dei gruppi, il linguaggio ottocentesco per esprimere le sottigliezze della simmetria. È grazie al potere unico della matematica che possiamo escludere con sicurezza l’esistenza di un 18o schema, nonostante alcuni tentativi molto fantasiosi di affermare il contrario.
Escher spiega di aver compreso davvero ciò che lo attorniava solo quando suo fratello, un geologo, gli consigliò una serie di saggi accademici sulla matematica della simmetria. Ecco come descrive la prima impressione che ebbe quando si ritrovò sottoposto al furibondo assalto delle idee:
Vidi un alto muro e, avendo la premonizione di un enigma, di qualcosa che forse si celava là dietro, lo scavalcai con qualche difficoltà. Dall’altra parte atterrai tuttavia in un’area desolata e dovetti avanzare con grande fatica finché giunsi al cancello aperto: il cancello aperto della matematica.
Quest’esperienza accomuna tutti gli studiosi che sono entrati in quel magico mondo. Escher prosegue:
Da lì, sentieri assai frequentati conducono in ogni direzione, e da allora ho spesso trascorso del tempo laggiù. Talvolta penso di aver percorso l’intera regione, aver seguito tutte le strade e ammirato tutti i paesaggi, e poi scopro all’improvviso una nuova via e vivo nuove delizie.
A scuola, Escher non aveva amato molto la matematica. «Ero una schiappa in algebra e aritmetica» ammette «perché avevo notevoli difficoltà con le astrazioni dei numeri e delle lettere. Il nostro tragitto attraverso la vita può tuttavia prendere strane pieghe.» Ma alla fine, per trovare il modo di catturare le immagini che ornano l’Alhambra, gli esperti si accorsero che avrebbero dovuto tradurle nel linguaggio dell’algebra e delle lettere e accedere all’universo astratto della mente.
Il codice che crearono per esplorare il mondo della simmetria affondava le sue radici in una questione del tutto diversa. Mentre i mori della Spagna dipingevano motivi simmetrici sulle pareti del palazzo, gli eruditi arabi di Baghdad facevano progressi con il problema, all’apparenza estraneo, di come risolvere le equazioni. Nessuno dei due gruppi avrebbe potuto prevedere che, in vari secoli di sviluppo, quei due temi fondamentali del campo matematico si sarebbero intrecciati fino a essere uniti da un legame indissolubile. Il nuovo linguaggio avrebbe consentito agli scienziati di andare oltre le pareti dell’Alhambra e di capire le limitazioni della simmetria in tutto l’edificio matematico, nello spazio tri- e 4-dimensionale, se non addirittura in un universo superiore.
Si narra che quando l’ultimo sultano fuggì da Granada nel 1492, durante l’occupazione cristiana della città, si sia voltato per dare un’ultima occhiata alla costruzione e abbia pianto. Sua madre lo rimproverò con dure parole: «Non piagnucolare come una donna per ciò che non hai saputo difendere come un uomo». Posso comprendere la sua angoscia nell’abbandonare qualcosa di così bello.
4
Novembre: raduno tribale
Il buon cristiano deve stare in guardia contro i matematici e tutti coloro che fanno profezie vacue. Esiste già il pericolo che i matematici abbiano fatto un patto col diavolo per oscurare lo spirito e confinare l’umanità nelle spire dell’inferno.
Sant’Agostino, Ottantatré questioni diverse
1° novembre, Okinawa
Scienza significa principalmente scoperta, ma non può esistere senza la comunicazione. Non si può affermare che un’idea esiste se prima non la si risveglia in qualcun altro. Ecco perché i convegni sono importanti per dare vita alle idee. Sono uno degli elementi più emozionanti del lavoro, perché si ha occasione di esporre la matematica a un pubblico interessato. Una dimostrazione è come un’opera teatrale o musicale, con momenti di intensa suspense in cui una svolta cruciale porta gli ascoltatori in una nuova dimensione. Sono diretto in Giappone per un una conferenza durante la quale illustrerò la mia prospettiva sul mondo della simmetria.
Mi piacciono i viaggi. Il movimento ha qualcosa che favorisce i miei processi mentali. Il treno è il mio mezzo di trasporto preferito per il suo potere ispiratore. Trovo che guardare fuori dal finestrino, permettendo alle immagini che sfrecciano di inondarmi la vista, sia molto stimolante per la creazione matematica. La mia tesi di laurea fu il frutto del colpo di genio che ebbi un pomeriggio sul treno che mi portava da Reading a Oxford (certo non uno di quei convogli che raggiungono i 200 chilometri l’ora).
Quando mi siedo in aereo, l’uomo accanto a me comincia a sorridere senza motivo. Brutto segno. È un volo di 13 ore e, di solito, evito qualsiasi conversazione fino agli ultimi cinque minuti prima dell’atterraggio. Così mi trincero dietro il mio bloc-notes giallo e inizio a scarabocchiare.
«Che lavoro fa?» chiede. Scoprire che sono un matematico lo spaventerà, mi auguro. Quasi tutti assumono un’espressione atterrita quando lo vengono a sapere. Poi borbottano quanto fossero scarsi in matematica a scuola, e avvertono sempre l’esigenza di confidarmi il poco lusinghiero voto che avevano totalizzato in pagella. «Adoro la matematica.» Ha un marcato accento americano, ed è evidente che non intende trascorrere il resto del volo in silenzio. «Di cosa si occupa?» insiste.
Durante la sua famosa conferenza del 1900 davanti al Congresso internazionale di matematici, il grande studioso tedesco David Hilbert dichiarò: «Non dovrete considerare completa una teoria matematica finché non l’avrete resa così chiara da riuscire a spiegarla al primo che incontrate per la strada». Non resisto dunque alla tentazione di testare la sua massima con il mio compagno di viaggio: «Vuole la versione da un minuto, cinque minuti o tredici ore?».
«Che s’agitano come pazzi e innumerevoli»
A mio avviso, la comunicazione va molto al di là del raccontare storie a chi, come me, parla il linguaggio segreto della matematica. Quando ero studente a Oxford, passavo molto tempo cercando di spiegare a chi studiava altre materie perché ero così appassionato di quella scienza. Conobbi un gruppo di persone che aveva optato per le discipline più disparate: filosofia, teoria letteraria, persiano e arabo, politica ed economia. Alle feste o durante gli incontri notturni in camera di qualcuno, mi ritrovai sempre più spesso a illustrare perché pensavo che dedicarsi alla matematica fosse emozionante quanto leggere Henry James.
La gente ha una vaga idea di cosa significhi essere un ecologo impegnato a studiare il Rio delle Amazzoni, un fisiologo che indaga sulla medicina o un biologo marino che setaccia i fondali con il suo sommergibile. Ma cosa diavolo combini un matematico è ancora un fitto mistero per la maggior parte delle persone. Avrei provato a far intravedere il mio mondo agli altri e a esprimere perché lo trovavo magico quanto il Rio delle Amazzoni, il cosmo o il fondo dell’oceano.
Un giorno, in biblioteca, mi accorsi di aver fatto qualche progresso. Nicki, che era iscritta alla facoltà di letteratura inglese, mi si avvicinò e posò un libro sopra i miei calcoli. «Questo assomiglia un po’ a quello che continui a blaterare sulla matematica» esordì, indicando una citazione di Jorge Luis Borges. In uno dei suoi numerosi racconti, lo scrittore aveva inventato un’Enciclopedia cinese secondo cui gli animali si dividono in:
a)
appartenenti all’imperatore;
b)
imbalsamati;
c)
ammaestrati;
d)
lattonzoli;
e)
sirene;
f)
favolosi;
g)
cani randagi;
h)
inclusi in questa classificazione;
i)
che s’agitano come pazzi;
j)
innumerevoli;
k)
disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello;
l)
eccetera;
m)
che hanno rotto il vaso;
n)
che da lontano sembrano mosche.
La citazione riassume perfettamente la secolare ricerca della simmetria. Ogni nuova tappa del viaggio intrapreso dal matematico avrebbe aggiunto alla lista categorie ancora più folli di bestie simmetriche. I greci avevano identificato i cinque solidi platonici, le cui simmetrie li rendevano ideali per la fabbricazione di dadi. Gli artisti dell’Alhambra avevano piastrellato le pareti del palazzo con 17 tipi diversi di simmetria. Nel secolo XX, l’Atlante di Conway aveva documentato un assortimento ancora più pazzesco ed eclettico di oggetti simmetrici, culminando nel Mostro, la cui descrizione suona bizzarra quanto gli animali di Borges «che da lontano sembrano mosche». Mentre proseguivo il mio viaggio, cercando di classificare le bestie simmetriche ricavabili dagli animali dell’Atlante, trovai la citazione sempre più appropriata, tanto che decisi di citarla trascrivendola proprio sulla prima pagina della mia tesi di dottorato.
Mi innamorai anch’io di Borges. È uno scrittore per matematici. I suoi racconti assomigliano a dimostrazioni, costruiti con delicatezza e con idee intrecciate senza fatica. Ogni passo si compie con precisione e logica inconfutabile, ma la narrazione è costellata di svolte e colpi di scena sorprendenti.
Una parte della sua Enciclopedia mostra una notevole attinenza con il progetto che seguo al momento. Ho preso l’animale più semplice elencato nell’Atlante della simmetria, le rotazioni di una figura con un numero primo di lati, e sto tentando di classificare le forme simmetriche derivabili da questo mattone fondamentale. Individuare la gamma di possibilità è tuttavia un’operazione molto complessa, e quasi tutti i matematici hanno relegato quegli oggetti simmetrici alle categorie borgesiane «che s’agitano come pazzi» e «innumerevoli». Il mio antenato matematico Philip Hall (il relatore del relatore del mio relatore) affermò: «La stupefacente molteplicità e varietà di quegli insiemi è una delle principali difficoltà che ostacolano il progresso della teoria dei gruppi finiti».
La missione con cui sono alle prese in questo periodo è il salvataggio di quei corpi «innumerevoli»: enumerare i gruppi di simmetrie ottenibili dalle rotazioni del triangolo. I greci riconobbero cinque solidi platonici. I mori dipinsero 17 motivi differenti sulle pareti dei loro edifici. Riuscirò a trovare un sistema per calcolare quanti oggetti esistono con 32 = 9 simmetrie, con 33 = 27 simmetrie… con 310 simmetrie? Forse non saprò con esattezza che aspetto abbiano, ma mi auguro che vi sia un metodo per contarli. Magari individuerò uno schema del modo in cui il numero di figure aumenta se si aggiunge ogni volta un nuovo triangolo.
Benché quasi tutte le cose che cerco siano piuttosto astratte ed esistano in dimensioni superiori, gli oggetti simmetrici costruiti mediante le simmetrie di due triangoli equilateri si possono vedere in due e tre dimensioni. Le forme avranno 3 × 3 = 9 simmetrie. Emerge che vi sono due corpi davvero simmetrici con nove simmetrie. Le figure avranno anche lo stesso numero di simmetrie, ma queste ultime mostrano un comportamento molto diverso in ciascun oggetto.
Il primo di questi è il gruppo di rotazioni di un ennagono, un poligono regolare con nove lati (figura 4.1). Una moneta con nove lati può effettuare nove rotazioni differenti, nove manovre che mantengono il corpo all’interno del profilo disegnato tutt’intorno, compresa la possibilità di non spostarlo.
Figura 4.1: Un ennagono con nove simmetrie rotazionali.
Il secondo oggetto con nove simmetrie si può costruire prendendo un triangolo nero e uno bianco e disponendoli l’uno sopra l’altro, affinché ricordino una serratura a combinazione con due ingranaggi triangolari (figura 4.2). Ho utilizzato una forma analoga per esaminare il lancio dei dadi nel gioco di Ur, conservato al British Museum. Le simmetrie di quella figura, ossia i numeri illusionistici che lasciano invariato il meccanismo, si ricavano girando autonomamente i due triangoli. Per calcolare i possibili interventi, è utile scrivere dei numeri sui lati dei triangoli, come in una vera serratura a combinazione.
Chiunque abbia dimenticato la combinazione di una chiusura di questo genere ha probabilmente preso in considerazione l’idea di provare con sistematicità tutti i numeri per riscoprirla. Posso usare lo stesso stratagemma per analizzare le simmetrie dell’oggetto. Per esempio, posso tenere fermo il triangolo bianco e ruotare quello nero di 1/3 di giro. Questa operazione lascia esposti l’1 e il 2, cosa che indico mediante la notazione (1, 2). Posso anche girare il triangolo nero di 2/3 di rotazione, rivelando (1, 3). Grazie a questo trucco identifico senza difficoltà tutte le varie simmetrie. Esistono nove mosse possibili:
Figura 4.2: Una serratura a combinazione con nove simmetrie.
(1, 2), (1, 3), (2, 1), (2, 2), (2, 3), (3, 1), (3, 2) (3, 3), (1, 1)
L’ultima è il trucco da prestigiatore che prevede di non spostare i triangoli.
Le nove diverse permutazioni della serratura corrispondono alle nove simmetrie dell’oggetto. Per esempio, le chiusure utilizzate per le valigette hanno, in genere, tre ingranaggi con 10 numeri ciascuno. Perciò vi sono 10 × 10 × 10 = 1000 simmetrie da provare per prendere in esame ogni combinazione, il che spiega perché questa serratura offre una discreta protezione da eventuali malintenzionati.
Dalla nostra analisi comincia a emergere un linguaggio in cui le simmetrie si possono esprimere come numeri, che ne rendono molto più facile l’identificazione. Ciascuna coppia di cifre indica infatti con esattezza la mossa simmetrica. Alla fine, la traduzione degli interventi geometrici in numeri avrebbe consentito ai matematici di iniziare a decodificare il libro completo della simmetria.
Una delle questioni principali è stabilire se si è costruito un gruppo di simmetrie davvero nuovo oppure se si è soltanto trovato un gruppo già noto in una nuova veste. All’Alhambra, continuavo a scattare foto di motivi molto diversi, convinto di aver individuato una nuova voce da inserire nel mio elenco, per poi scoprire che la parete presentava la medesima simmetria di qualcosa che avevo già fotografato. Dunque, come posso essere certo che la serratura a combinazione sia veramente un oggetto simmetrico distinto dal poligono con nove lati? Potrebbero essere manifestazioni differenti dello stesso gruppo? Dopo tutto, hanno entrambi nove simmetrie. Questa è una delle difficoltà che intralciano chiunque affronti questo problema: due oggetti possono sembrare molto dissimili ma avere le medesime simmetrie nascoste.
Se ripeto una qualsiasi delle manovre simmetriche sulla serratura, dopo tre operazioni i triangoli tornano nella posizione iniziale. Prendete la simmetria che fa avanzare il triangolo bianco di 1/3 di giro e che porta indietro quello nero nella stessa misura (figura 4.3). Dopo questa mossa, il meccanismo passa dunque da (1, 1) a (2, 3). Ora effettuate di nuovo il medesimo intervento. La serratura si ferma su (3, 2). Se eseguo la manovra per la terza volta, ottengo ancora (1, 1). Qualunque spostamento scegliate, applicatelo tre volte e la chiusura tornerà al punto di partenza.
Ora diamo un’occhiata al poligono con nove lati. Qui vi sono rotazioni che richiedono nove ripetizioni prima che la figura torni nella posizione iniziale. Per esempio, 1/9 di rotazione impone chiaramente nove giri affinché la forma riprenda la sua collocazione originaria (figura 4.4). I due gruppi di simmetrie non sono pertanto uguali. Questa spiegazione illustra una lezione importante per la teoria della simmetria, che gli esperti compresero appieno al principio del secolo XIX: la natura della geometria nascosta di un oggetto comincia a rivelarsi solo quando si inizia a esaminare cosa accade se si combinano le varie mosse.
Figura 4.3: L’effetto della ripetizione della simmetria (2, 3).
Le simmetrie rotazionali del poligono con nove lati e della serratura a combinazione con due ingranaggi triangolari sono gli unici due gruppi comprendenti nove elementi. Se aggiungete altri triangoli e vi chiedete, per esempio, quanti oggetti esistano con 3 × 3 × 3 = 33 = 27 simmetrie, vi aspettano tuttavia sorprese più interessanti. Due dei corpi con 27 simmetrie hanno una configurazione molto simile a quella dei due casi precedenti. Un poligono regolare con 33 = 27 lati ha 27 simmetrie rotazionali. Oppure si potrebbe creare una chiusura con tre diversi ingranaggi triangolari le cui simmetrie corrispondano alle 33 = 27 possibili rotazioni delle figure. Oltre a queste due varianti, i matematici scoprirono tuttavia altri tre oggetti dotati di 33 = 27 simmetrie differenti, raggiungendo un totale di cinque forme.
Figura 4.4: Ripetendo questa rotazione per nove volte, si riporta A al punto di partenza.
Man mano che aumento i triangoli, il numero di corpi simmetrici realizzabili sale. Esistono 15 soggetti costruiti dalla simmetria di quattro triangoli e 67 ricavati da quella di cinque triangoli. Quanti se ne possano creare con le simmetrie di dieci triangoli è però un mistero assoluto. Sto cercando di trovare un metodo per prevedere l’incremento delle forme legato all’aggiunta di altri triangoli.
Il cercatore di schemi
La sfida del riconoscimento di schemi utili per fare simili previsioni rappresenta il cuore di quello che, a mio parere, è il lavoro del matematico. Molti miei conoscenti hanno l’impressione che io sieda nel mio studio eseguendo divisioni estese in gruppi di decimali, e si domandano perché un computer non mi abbia ancora sostituito. Come il mio insegnante mi rivelò tanti anni fa, un matematico è tuttavia un cercatore di schemi. Tento di scoprire la logica o il modello che contribuisce a generare il mondo intorno a me.
L’hostess ci serve il pasto, e il mio vicino si distrae un po’ chiedendosi se mangiare giapponese e optare per il bento box oppure aggrapparsi all’Occidente ancora per qualche ora e scegliere il pollo o il manzo. È tuttavia ansioso di saperne di più sugli schemi. Sto cominciando a stancarmi un po’ del suo entusiasmo stupito, anche se dovrei essere contento di avere un uditore così interessato.
Per fare una pausa, gli sottopongo un piccolo rompicapo che, mi auguro, lo terrà impegnato per le prossime ore. Qual è il numero che completa la sequenza:
13, 1113, 3113, 132.113, 1.113.122.113, …
Esiste una regola dietro la creazione di questa serie. Il trucco sta nel continuare a rivolgerle nuovi quesiti, tentando di guardarla da diversi punti di vista, fino a trovare una prospettiva da cui si capisca cosa la fa funzionare. Lo lascerò sudare per un po’ prima di rivelargli il segreto, perché se lo scopre da solo, il suo cervello conoscerà quella scarica di adrenalina che io aspetto quando scarabocchio per tutto il giorno il mio bloc-notes giallo.
Gli propongo anche un’altra sequenza, in caso risolva la prima troppo velocemente:
2, 3, 5, 8, 13, 30, 39, …
Il mio lavoro punta invece a cercare di decifrare la seguente lista:
1, 2, 5, 15, 67, 504, 9310, …
So cosa descrive questo elenco: il numero di oggetti ricavabili dalle simmetrie di uno, due, tre, quattro, cinque, sei e, infine, sette triangoli. L’ennesima voce della serie è il numero di oggetti dotati esattamente di 3n simmetrie distinte. Il punto è che non ho idea di come prosegua la sequenza dopo il settimo elemento. Un computer e due miei colleghi hanno faticato parecchio per calcolare che vi sono 9310 forme con 37 simmetrie. Sto tentando di individuare uno schema nascosto che, a sua volta, possa fugare il mistero dell’aspetto di quelle figure. Esiste, per esempio, una formula in grado di generare quei numeri man mano che si aggiungono nuovi triangoli?
Decido che la seconda serie è un po’ eccessiva per il mio vicino. Prima che sprechi troppo tempo a cercare di capirne la logica, intervengo in suo aiuto. Se fosse riuscito a identificare una formula che lo conducesse a 49, gli avrei consigliato di acquistare un biglietto della lotteria il prossimo week-end. Pur somigliando molto alla sequenza di Fibonacci, quelli sono, in realtà, i numeri vincenti della lotteria nazionale dello scorso sabato. Intendo usarli tra qualche settimana per la presentazione sulla ricerca degli schemi che terrò in una scuola di Hackney. Il mio compagno ride, anche se mi accorgo che è un po’ irritato.
Il mio trucco contiene tuttavia un avvertimento. La mente umana è assetata di schemi. Ecco perché siamo così ossessionati dalla simmetria. Uno schema implica un significato. Ma talvolta le cose possono essere casuali e prive di logica.
Se il mio vicino di posto fosse riuscito a riconoscere una struttura — qualcosa di simile ai numeri di Fibonacci — dietro la serie della lotteria, quello sarebbe stato un altro avvertimento. Vi sono sempre parecchi metodi per trovare il senso di una lista finita di numeri, metodi che si possono poi adottare per completare l’elenco (sebbene le «regole» possano essere molto complesse). Di recente ho letto un bellissimo giallo ambientato nella mia facoltà: La serie diOxford di Guillermo Martínez. La matematica e l’assassinio sembrano essere un binomio azzeccato; forse gli autori di thriller ritengono che la fredda logica della mente matematica sia adatta per organizzare l’omicidio perfetto. In quel particolare romanzo, ciascun delitto è accompagnato dalla comparsa di un simbolo matematico. Il più illustre esperto di logica della facoltà raccoglie la sfida di indovinare l’immagine successiva prima del prossimo crimine.
In lui si insinua tuttavia il timore che vi possano essere più soluzioni. Quale delle possibili varianti darà una nuova svolta al mistero? Per esempio, guardate la sequenza 2, 4, 8, 16, …, concludereste senz’altro che il numero successivo è 32. Ma vi è un’argomentazione altrettanto convincente a favore del 31. Prendete un cerchio, segnate due punti qualsiasi sulla sua circonferenza e uniteli, dividendo la forma in due (figura 4.5). Ora aggiungete un altro punto e tirate righe che lo colleghino ai due precedenti: adesso il cerchio è tagliato in quattro regioni. Scegliete un altro punto, disegnate le relative linee, e scoprirete che ora vi sono otto parti. Un quinto punto e altre righe portano il numero di spicchi a 16. Ma poi, inaspettatamente, se create un sesto punto e un’ulteriore serie di linee, potete ottenere solo un massimo di 31 fette.
Figura 4.5: La suddivisione dei cerchi.
A prima vista, la formula per ricavare il numero di regioni con n puntini sembra essere semplicemente 2n-1, ma l’analisi matematica rivela che, in realtà, l’espressione corretta è
Questo esempio è un avvertimento importante per me. Devo trovare il metodo giusto per estendere la mia sequenza fino a descrivere davvero il numero di oggetti simmetrici quando i triangoli aumentano.
Vorrei poter dire di aver intaccato gravemente il problema con il potere del ragionamento logico. La verità è, invece, che mi sono imbattuto nella soluzione per puro caso (un fattore decisivo per molti progressi). Tenni una conferenza a Cambridge, nella stessa facoltà in cui Conway e Norton mi avevano mostrato l’Atlante. Quando ebbi finito, qualcuno mi chiese: «Questo le dice qualcosa riguardo alla congettura di Higman?».
Non avevo idea di cosa si trattasse. Annuii, cercando di apparire sicuro di me stesso, e replicai che poteva darsi ma che avrei dovuto rifletterci. In seguito mi seppellii in biblioteca. Negli anni Cinquanta, prima della scoperta di oggetti meravigliosi come il Mostro, Graham Higman, un matematico di Oxford, aveva provato a contare le forme derivabili dalle simmetrie dei triangoli, dei pentagoni o di altri poligoni con un numero primo di lati. Nella tavola periodica della simmetria, il gruppo di rotazioni di un poligono con un numero primo di lati è uno degli elementi più semplici. L’interrogativo cui Higman tentò di rispondere era il seguente: quante molecole si possono costruire con le copie di uno di quegli atomi della simmetria? Lo studioso sapeva che se voleva scoprire quanti corpi vi fossero con p × p × p × p × p = p5 simmetrie, dove p è un numero primo, gli sarebbe bastata una semplice serie di formule. Doveva soltanto infilare il numero primo in una delle espressioni, e sarebbe comparsa la quantità di oggetti costruibili con p5 simmetrie. La scelta della formula dipende dal resto della divisione del numero primo per 12. Per esempio, per tutti i numeri primi che lasciano un resto di 5 quando li si divide per 12, ossia 5, 17, 29, 41, 53, … la formula è 2p + 67. Se volete sapere quante figure esistano con 535 simmetrie, inserite dunque p = 53 nell’espressione e ottenete il risultato di 173.
La domanda dunque è la seguente: aumentando la quantità di copie del mattone fondamentale utilizzato, vi è sempre una bella equazione capace di indicarci il numero di oggetti simmetrici ricavabili da questa simmetria atomica? Secondo la congettura di Higman, esisterà sempre un’espressione polinomiale in grado di fornirci la risposta. Un’espressione polinomiale nel numero primo p è qualcosa di simile a 4p3 + 17p2 + 7p + 5, dove si considera una combinazione di potenze di p. Per esempio, il numero di oggetti con p6 simmetrie è dato da una serie di polinomi di secondo grado, equazioni che richiedono di scegliere i quadrati di p. Per il numero primo p = 53, la formula per la quantità di possibili oggetti con 536 simmetrie si ottiene inserendo p nell’espressione 3p2 + 39p + 414. Mike Vaughan-Lee di Oxford e Eamonn O’Brien di Auckland hanno scoperto un polinomio di quinto grado, ossia un polinomio che contiene le quinte potenze di p, per contare gli oggetti con p7 simmetrie. Ma esistono metodi simili per calcolare la quantità di oggetti con p8, p9, p100 simmetrie? Non lo sappiamo.
Il giorno di quel seminario a Cambridge scoprii che forse avevo sviluppato gli strumenti giusti per rispondere a quel quesito. Per accedere al mondo della simmetria, avevo esplorato entità dette «funzioni zeta», introdotte per la prima volta dal matematico tedesco Bernhard Riemann nel 1859 come mezzo efficace per trovare un ordine nel caos dei numeri primi. Se guardate la loro sequenza, pare non esservi alcuna regola o schema semplice che vi aiuti a prevedere l’elemento successivo della lista: 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, … La funzione zeta di Riemann aveva rivelato un’impercettibile struttura nascosta che spiegava la disposizione di quella categoria nell’universo dei numeri. Cerco di capire se anche le mie funzioni zeta sono utilizzabili per riconoscere modelli nel folle mondo della simmetria.
Per i numeri primi come per le simmetrie, la funzione zeta funge da scatola nera. Si ottiene da formule che legano i numeri in esame, e la speranza è che fornisca nuovi indizi sulla quantità di simmetrie. Essa mostra un modo per spostarsi da una zona dell’universo matematico in cui pare regnare il caos a una regione del tutto diversa in cui si può cominciare a individuare gli schemi. La conferenza cui sto per partecipare in Giappone raggrupperà un piccolo manipolo di matematici accomunati dalla medesima ossessione delle funzioni zeta.
Mi sorprende che, dopo tutto questo, il tizio seduto accanto a me abbia ancora l’aria molto interessata. Abbasso lo sguardo per vedere se i documenti che ha con sé siano scritti su fogli gialli e se lo sconosciuto sia un altro dei matematici invitati alla conferenza. Scopro che si tiene stretta una copia della Bibbia. Dopo avergli propinato tutti i dettagli delle mie ricerche, ho la sensazione che sia scortese non chiedergli di cosa si occupi. Gli pongo la domanda con una certa trepidazione. «Sto andando da un missionario in Giappone. Sa cos’è il design intelligente?» Ho un tuffo al cuore quando tenta di persuadermi che la «logica della matematica è solo la prova dell’esistenza di Dio». L’uomo seduto dall’altra parte sembra ansioso di evitare la conversazione con entrambi i passeggeri della sua fila: lo svitato religioso e il matematico pazzo. Il nostro arrivo all’aeroporto internazionale di Narita non giungerà mai troppo presto.
Mentre atterriamo, il mio vicino ammette la sconfitta davanti alla serie di numeri e mi prega di svelargli il mistero: «13, 1113, 3113, 132.113, 1.113.122.113, … Cosa viene dopo?». Conway, il massimo cercatore di schemi, si scervellò per mesi di fronte al medesimo problema, ma non permise a nessuno di palesargli il segreto. Questo è il genere di sequenza che i bambini «colgono» con facilità, perché la loro visione del mondo non è ostruita dai complessi modelli ricercati dagli adulti.
Dunque, ecco qui la risposta: ciascun numero descrive l’elemento precedente della sequenza. Il primo consiste di un 1 e un 3 che può essere espresso da 1113. Quest’ultimo si può scomporre in tre 1 e un 3, che diventano 3113. Perciò la voce mancante è 311.311.222.113. Tomer se ne accorse molto rapidamente quando gli sottoposi l’enigma per la prima volta.
Mentre recuperiamo i bagagli, non posso fare a meno di punzecchiare il mio compagno di viaggio con un altro rompicapo: «Se le piacciono le difficoltà, dimostri che non vedrà mai comparire un 4 nella serie».
Pantaloni verdi e tè verde
Il mio ospite giapponese è il matematico Nobushige Kurokawa. Avendo letto molti dei suoi saggi, ho l’impressione di conoscerlo già, ma in realtà non ci siamo mai incontrati. Non ho la benché minima idea di che aspetto abbia, così quando esco dalla dogana di Tokyo, cerco un cartello con sopra il mio nome.
Non ne vedo da nessuna parte. Dopo un po’ comincio a preoccuparmi. Non ho numeri di telefono né un recapito, soltanto l’indirizzo di posta elettronica dello studioso. Non è un buon inizio. Ma poi lo intravedo: c’è un uomo che indossa un cappello sportivo e gironzola qua e là con una «ζ» su un foglio. È la lettera greca zeta. Sembra preoccupato quanto me, alla ricerca di un matematico sconosciuto tra tutti gli occidentali che escono dagli arrivi.
«Ahhhh sì, professor du Sautoy. Avrei dovuto riconoscerla. Io porto una zeta e lei è vestito di verde.» Assumo un’aria un po’ perplessa. Ho un paio di pantaloni verdi e una felpa con il cappuccio dello stesso colore. «Il verde è il colore della zeta. È la fotosintesi della matematica, che assorbe luce ed emana vita.»
Andiamo subito d’accordo. Il suo inglese zoppica e il mio giapponese è inesistente. Il legame matematico che ci accomuna ci trasmette tuttavia la sensazione di una vecchia amicizia. Il professor Kurokawa ha una concezione magnifica ed eclettica della matematica e della sua relazione con il mondo esterno. Oltre a essere un grande esperto, ricorda anche una specie di mistico matematico: un Pitagora giapponese.
«Du Sautoy-san. Arriva in un anno propizio per la zeta. Sono passati 146 anni da quando Riemann enunciò la sua ipotesi.» Centoquarantasei sembra un numero un po’ arbitrario, osservo. «Niente affatto. Centoquarantasei corrisponde a due volte 73. In giapponese, 73 si scrive nami, che significa “onda”. Come tsunami, che vuol dire “grande onda”. La zeta ci dà onde per spiegare i numeri primi. Perciò il 73 è il numero della zeta. Settantatré anni fa Siegel scoprì la grande formula per calcolare la funzione zeta. Dunque può darsi che quest’anno tocchiamo un altro culmine nella storia della zeta.»
Pure assurdità numerologiche, ma meravigliose. È questa giocosità a trasformare qualcuno in un illustre matematico. La scorsi nel modo in cui Conway si occupava di matematica quando lo vidi per la prima volta in azione durante la mia visita a Cambridge. È tuttavia una caratteristica rara: i matematici si rifugiano spesso nel carattere formale della disciplina e non si concedono alcuna frivolezza.
La conferenza si svolgerà a Okinawa, un’isola sulla punta meridionale del Giappone. Prima di volare verso sud, ci fermiamo a mangiare qualcosa. «I matematici si dividono in due schieramenti: quelli che amano i dolci e quelli che li detestano. Du Sautoy-san, a quale gruppo appartiene?» Dal suo fisico paffuto intuisco che rientriamo nella stessa categoria, così alle dieci del mattino banchettiamo con un singolare assortimento di dolcetti al tè verde, l’antidoto perfetto contro il jet-lag.
Il viaggio fino a Okinawa è emozionante per tre ragioni. Primo, ho l’occasione di sedere accanto a Kurokawa e di parlare per tre ore delle funzioni zeta. Secondo, abbiamo una fantastica vista del monte Fuji fuori del finestrino. E terzo, siamo sull’aereo dei Pokemon. L’interno e l’esterno del velivolo sono ornati di festoni con personaggi Pokemon che manderebbero Tomer in visibilio. Rimango un po’ deluso perché l’hostess non è vestita da Pikachu.
Sono impaziente soprattutto di esaminare con Kurokawa un interrogativo che mi assilla da tempo. Lavoro da alcuni anni a una congettura riguardante determinati tipi di funzioni zeta. L’ho scomposta in varie parti. Esistono sei classi distinte di funzioni zeta. Riesco a dimostrare la congettura per cinque di loro, ma, nonostante gli sforzi, non riesco a fare lo stesso per la sesta. Questo interrogativo mi ossessiona da un po’. È come circumnavigare un’isola. Se mi dirigo verso nord, avvisto un fiume, lungo il quale posso veleggiare per raggiungere la costa. A est il terreno è percorribile. A ovest distinguo un’enorme montagna, l’ipotesi di Riemann, uno dei nostri maggiori problemi irrisolti. Se do per scontato che sia corretta, posso superare il monte con la certezza che le acque più in là siano navigabili. Il guaio è che quando viro verso sud, incappo in una giungla impenetrabile. Tutti i trucchi che mi hanno aiutato ad avanzare nelle altre direzioni sono inutili tra quella vegetazione.
Stavo scrivendo un saggio sull’argomento, ma mi sono arenato. Forse dovrei consegnarlo così com’è: sarebbe comunque un ottimo contributo alla letteratura su questo tema ma ancora incompiuto, e una delle caratteristiche del matematico è la dipendenza dalle soluzioni perfette e complete. Riemann rinunciò a pubblicare molti scritti perché aveva l’impressione che non fossero finiti, e molti testi andarono in fumo quando la sua governante sgomberò il suo studio dopo che era morto improvvisamente all’età di trentanove anni. La formula scoperta da Siegel 73 anni fa, menzionata dal mio ospite, fu salvata e ricomposta sulla base degli appunti inediti di Riemann.
Kurokawa ha letto la bozza in cui ho riepilogato i risultati ottenuti finora. Comincia a spiegarmi come le funzioni zeta di mio interesse si inseriscano in una struttura che ha preso in considerazione qualche anno fa. Ho letto quegli articoli, ma non pensavo che fossero pertinenti. Durante le tre ore di volo mi illustra tuttavia perché si può usare il suo linguaggio per esprimere le funzioni zeta. Inizio ad avvertire un leggero panico. Ciò significa forse che i saggi di Kurokawa dimostrano già quello cui ho lavorato negli ultimi cinque anni? Tento di cogliere le implicazioni di quanto scarabocchia sulle pagine del mio bloc-notes. Ho consultato i suoi scritti alla ricerca dell’ispirazione per affrontare il sesto caso. Cosa mi è sfuggito?
Quando atterriamo a Okinawa, mi accorgo che le sue idee si sovrappongono in parte al mio progetto ma non lo includono del tutto. Anzi, il mio collega si rende conto che il problema irrisolto è davvero stimolante. Purtroppo non ha la benché minima idea di come districarlo.
Okinawa è un’isola turistica dove i giovani giapponesi vanno ad abbronzarsi e a fare immersioni subacquee. Come una squadra di minatori che scende nell’oscurità, noi dovremo invece restare in una sala conferenze dall’alba al tramonto, lontani da quello splendido panorama.
I partecipanti sono pochi. Oltre al sottoscritto, vi sono un russo, un israeliano, un tedesco, un americano e 15 giapponesi. Sembra il raduno di una remota tribù intenzionata a raccontarsi storie di pellegrinaggi solitari attraverso il globo matematico alla ricerca di nuovi territori. L’abbigliamento è informale, tendente alla sciatteria. Pur parlando lingue diverse dal punto di vista culturale, da quello matematico siamo tutti sulla medesima lunghezza d’onda. Sono venuti tutti a presentare il loro impiego del linguaggio delle funzioni zeta per rivelare schemi e strutture in varie aree della matematica. Gli interventi sono tutti in inglese. Nonostante la natura universale del linguaggio matematico, le parole che inquadrano questa scienza sono importanti per darle vita.
Il proiettore è sempre più spesso lo strumento scelto per illustrare i concetti, benché non di rado se ne abusi, nel tentativo di fare colpo sul pubblico con sfilze di risultati che balenano davanti agli occhi degli ascoltatori in una serie di inchiostri variopinti. In questo, sono colpevole quanto gli altri. Purtroppo, un oratore non può trascorrere la maggior parte del suo discorso dando le spalle ai presenti, intento a scrivere teoremi ed equazioni su una lavagna, perciò, a conti fatti, preferisco il proiettore. La seconda mattina della conferenza, tocca a me spiegare come ho usato le funzioni zeta per contare gli oggetti simmetrici.
La scatola nera
La prima funzione zeta venne studiata verso la metà del secolo XIX da Riemann, che era interessato a mescolarla con nuovi numeri detti complessi. Come un alchimista, credeva che un cocktail esplosivo di ingredienti avrebbe creato una matematica inconfutabile. Quel che uscì dal suo calderone fu una nuova interpretazione dei numeri primi.
Da bambino, Riemann aveva letto della loro esistenza nella biblioteca della scuola, dove si nascondeva dai suoi compagni, terrorizzato da quasi tutte le forme di interazione sociale. La sicurezza della matematica era il luogo in cui poteva rintanarsi, protetto dalle pressioni del mondo esterno. Sin da piccolo aveva compreso che i numeri primi rappresentavano una delle sfide più ardue per il cercatore di schemi. La loro lista sembra non avere alcun ordine o logica che possa aiutare a tracciare una rotta. Man mano che continuano verso l’infinito, non paiono meno caotici della sequenza di numeri della lotteria con cui mi sono fatto beffe del mio compagno di viaggio. La previsione della posizione occupata dall’elemento successivo lungo la retta reale confonde generazioni di matematici da quando gli antichi greci li studiarono per la prima volta.
Verso i trent’anni, Riemann si accorse che la funzione zeta gli offriva una visione inedita ed efficace. Funzionava come un dizionario bilingue, consentendo di tradurre le proprietà dei numeri in termini geometrici. Dalla sua scoperta, gli esperti sfruttano la funzione zeta per evidenziare schemi e strutture in contesti matematici in cui, all’inizio, parevano esservi solo caos e disordine.
La funzione zeta assomiglia un po’ a una scatola nera. Benché i matematici conoscano tutti i dettagli della sua costruzione, continuano a stupirsi delle rivelazioni che essa regala. La sua creazione si basa sull’unione dell’infinita quantità di numeri primi cosicché si abbia l’impressione di guardare un unico oggetto. È come trovare un metodo per analizzare la struttura generale di una sinfonia musicale anziché studiarla nota per nota. La straordinaria intuizione di Riemann è che la formula della funzione zeta combina queste misteriose entità in modo tale che, analizzando l’espressione, sia possibile svelare alcuni dei loro segreti.
Fino a qualche anno fa, nessuno aveva preso in considerazione la capacità della funzione zeta di segnalare qualcosa di interessante riguardo al mondo della simmetria. Sono stato fortunato perché il mio tirocinio da laureando coincise con l’annuncio secondo cui guardare la simmetria attraverso gli occhi della funzione zeta aiutava a vedere cose che nessuno aveva mai visto. Quella nuova prospettiva aveva preso forma grazie a Dan Segal, docente di matematica presso l’università di Oxford, che sarebbe diventato il relatore della mia tesi di dottorato, e a Fritz Grunewald, matematico che lavora presso il Max Planck Institut di Bonn, in Germania.
Sono giunto alla conclusione che è possibile utilizzare le funzioni zeta per individuare alcuni schemi nei numeri. Per esempio, qual è il segreto dietro la sequenza che inizia con 1, 2, 5, 15, 67, 504, 9310, …? Questi numeri contano i vari oggetti che hanno 3, 32, 33, 34, 35, 36, 37… simmetrie. Le mie funzioni zeta forniscono qualche indicazione sui successivi componenti della serie, e ho notato che i numeri obbediscono a una regola molto simile a quella di Fibonacci.
La logica di quest’ultima è semplicissima: ciascuna voce della lista è la somma delle due precedenti. Una volta che si conoscono i primi due elementi, il problema è dunque risolto. Usando le funzioni zeta della simmetria, ho dimostrato che lo stesso vale per i numeri di mio interesse. Secondo il mio ragionamento, vi è una semplice regola che genera il componente successivo dell’elenco 1, 2, 5, 15, 67, 504, 9310, … I matematici chiamano «ricorsive» le sequenze ricavate da un meccanismo di questo tipo e hanno elaborato una sorta di software per la loro creazione.
L’unico guaio è che la mia analisi non mi dice quale sia la formula. Nel caso di Fibonacci, conoscere una qualsiasi coppia di numeri adiacenti è sufficiente per indovinare il seguente. Pur avendo dimostrato, utilizzando le funzioni zeta, che la mia lista segue un criterio analogo, non sono riuscito a determinare quale sia il criterio né se sia necessario conoscere dieci, cento o mille numeri per completare la lista. Forse la mia scoperta sembrerà del tutto inutile, e in un certo senso lo è, perché non posso sfruttarla per identificare il nuovo elemento, ma indica almeno che vi è uno schema da scoprire, che i numeri non sono del tutto casuali, bensì dipendono l’uno dall’altro in maniera simile a quelli di Fibonacci. È davvero frustrante disporre di informazioni sufficienti per sapere che quella forma deve esistere senza poterla costruire concretamente. È una caratteristica di molte aree della matematica moderna: si può analizzare un ambito per confermare l’esistenza di certe strutture senza essere in grado di produrle. È un po’ come scoprire il DNA, ma non avere ancora gli strumenti per sequenziarlo esplicitamente.
Se non altro, il mio ragionamento ha dimostrato che la serie infinita di numeri è espressa da qualcosa di finito. È come la differenza tra π, che come numero decimale sembra del tutto fortuito, e 1/7, il cui decimale ha uno schema chiaro, ossia 0,1428714287…, dove si ripetono di continuo le stesse cifre. La mia scoperta rivela che sono all’opera schemi analoghi e che i miei numeri non sono completamente casuali.
Prima che me ne renda conto, arrivano le undici e devo concludere il mio intervento. Strano a dirsi, vi sono molte domande. Questo è il vantaggio delle piccole conferenze. Avviare la discussione con un gruppo numeroso può essere difficile. Benché molti degli interventi siano lontanissimi dalle mie ricerche, per me la cosa più preziosa è l’opportunità di captare idee che potrebbero essere trasferibili al mio progetto. Ho usato le funzioni zeta per contare gli oggetti costruibili mediante le simmetrie di forme sempre nuove con numeri primi di lati. Nel loro messaggio, tuttavia, vi sono ancora molte cose che non capisco. Spero dunque che, vedere come gli altri le hanno utilizzate per identificare nuove strutture, faciliti la mia ricerca.
Alla conferenza vi sono molti giovani laureati giapponesi che presentano il loro lavoro per la prima volta. È un momento spaventoso, in cui il giovane matematico deve sollevare la testa dalle riviste su cui ha studiato negli ultimi tre anni, alzarsi in piedi davanti a compagni e docenti ed esporre il suo contributo. Alcuni interventi trovano un’accoglienza positiva, ma altri subiscono una vera e propria umiliazione: «Qualche domanda?». «Solo un commento… A mio parere, se consulta il mio saggio comparso negli Acta del 1991, si renderà conto che avevo già risolto il problema.» Tre anni di fatica buttati al vento, dimostrando un teorema che era già stato dimostrato. Il peggior incubo di qualsiasi matematico.
Anche se trascorriamo le giornate alla lavagna o sudando sopra un proiettore bollente, le serate ci offrono la possibilità di rilassarci davanti a un po’ di sakè e specialità locali. I giapponesi ci accompagnano in un piccolo bar sull’angolo, poco distante dall’hotel. Per fortuna, la mia guida turistica consigliava di infilarsi calzini senza buchi. Una puntata al Sock Shop di Heathrow mi ha risparmiato l’imbarazzo di mostrare gli alluci mentre sediamo a gambe incrociate intorno al tavolo della cena dopo aver lasciato le scarpe all’ingresso. La serata finisce con Kurokawa che illustra alcune delle sue magnifiche teorie mistiche.
Spedizioni matematiche
Gli organizzatori di ogni conferenza matematica hanno l’abitudine di programmare una breve escursione per dare ai partecipanti un po’ di sollievo dal furibondo assalto delle equazioni. Durante i convegni più frequentati, la logistica di simili gite è impressionante. All’ultimo Congresso internazionale di matematici cui ho presenziato, il governo ordinò che tutta Pechino si bloccasse, mentre 4000 studiosi venivano trasferiti dal centro conferenze alla periferia della città per partecipare a un banchetto nel Palazzo del popolo, in piazza Tienanmen. Durante un convegno che coorganizzai a Durham, decidemmo di portare in autobus tutti gli eruditi a un’estremità del Vallo di Adriano e di andarli a riprendere nel tardo pomeriggio, dopo una passeggiata di 12 chilometri. Nel parcheggio, attirammo le occhiate curiose degli altri visitatori quando 150 individui mal vestiti scesero dai pullman, farfugliando frasi incomprensibili zeppe di gruppi pro-p e algebre di Lie. Gli studiosi dovevano soltanto seguire il muro finché fossero incappati negli autobus, ma riuscimmo ugualmente a perderne qualcuno lungo il tragitto.
Una volta, tra un congresso e l’altro, trascorsi tutte e 24 le ore del mio compleanno sulla Transiberiana, in compagnia di 100 colleghi russi. Quando salimmo sul vagone, uno di loro volle a tutti i costi sedersi accanto a me. Estrasse un volume. «Non avevo mai conosciuto un madrelingua inglese, e ho davvero bisogno del suo aiuto per risolvere sei problemi.» Mi posò sulle ginocchia quello che, immaginai, era un libro di matematica, ma il titolo del tomo vecchio e sbrindellato era 1000 barzellette. «Ne ho capite 994, ma il mio inglese non è abbastanza buono per comprendere le ultime sei.» Vi erano altrettanti minuscoli frammenti di carta che segnavano le pagine in questione. Non mi meravigliò che avesse avuto delle difficoltà: il testo era vecchissimo e le storielle davvero astruse. Con sua grande delusione, riuscii a decifrarne soltanto una, e, per farlo, dovetti leggerla ad alta voce con un accento molto snob per evidenziare eventuali giochi di parole oscuri. La matematica, sembrava, era più efficace dell’umorismo inglese arcaico nel superare gli spartiacque culturali.
Non molto tempo fa, assistetti a una conferenza in Assam. Facemmo una pausa per trascorrere il week-end in una riserva di rinoceronti. Tra la foschia della prima mattina, gli animali erano una vista indimenticabile, ma per me non furono il ricordo più duraturo di quella visita. La scarsa disponibilità di posti nel casotto lì accanto ci costrinse a dividere dei letti matrimoniali. La lieve ansia di dover dormire sotto la zanzariera con Dan Segal, il mio ex relatore, si tradusse, nei miei sogni, in un enorme cane nero che si arrampicava sul materasso. Quando mi svegliai, mi ritrovai impegnato in una sorta di atto edipico mentre aggredivo fisicamente Dan, che tentava in tutti i modi di calmarmi.
Oggi pomeriggio i matematici giapponesi hanno organizzato una gita in una distilleria di awamori, la versione locale del sakè. A quanto pare, Kurokawa ha la fobia dell’acqua, perciò l’escursione alternativa, che prevedeva una spedizione matematica subacquea, è stata scartata. Al termine del giro, il proprietario ci ha regalato dei piccoli campioni della bevanda come ricordo. Quando ho osservato che era un peccato che la gradazione alcolica corrispondesse solo al 30 per cento, e non a un numero primo, ha fatto sparire tutte le bottigliette all’improvviso. Ero un po’ nervoso all’idea di aver offeso il nostro ospite, e i miei colleghi giapponesi mi stavano lanciando occhiate rabbiose, quando a un tratto l’uomo è ricomparso con una nuova scorta di contenitori. «Quarantatré per cento» ha annunciato con fierezza «un numero primo, credo!» La mia fortuna si è capovolta di colpo, e per il resto della giornata tutti mi hanno chiamato «Numero primo-san».
Questa sera è riservata alla cena comune, un altro rituale di tutti questi raduni, durante il quale la tribù mangia insieme. Un ristorante italiano è un finale bizzarro per i partecipanti giapponesi: dopo una settimana di sashimi, bento box, insalate di ricci di mare e orecchie di maiale sott’aceto, sembra strano mangiare pasta e bere vino rosso.
A tavola, un collega giapponese ci mostra un turacciolo: sul lato è stampata la scritta «riserva 901». Posandomelo davanti, osserva: «Non è un numero primo!». Forse desidera che mi esibisca nello stesso trucco della distilleria. Il 30 non era chiaramente un numero primo, ma questo è più difficile. Provo con qualche divisore piccolo, ma, dall’aria sicura del mio interlocutore, si direbbe che 901 è divisibile per numeri primi più grandi. Ben presto uno dei commensali ci arriva: lo si può dividere per 17. Nella mia testa ho difficoltà a eseguire persino quell’operazione.
A mio parere, l’episodio del tappo illustra due diversi tipi di mente matematica. Vi è chi guarda un numero e cerca subito di capire se è primo. Nonostante il mio amore per i numeri primi, non ho mai sentito questa esigenza. Vi è chi, invece, cerca strutture e collegamenti nascosti. Si tratta di due capacità importanti. La bravura nel decifrare una grande congettura irrisolta accompagna spesso la prima, ma l’abilità nell’ideare la congettura all’inizio, di avere una nuova visione delle cose, contraddistingue non di rado la seconda.
Sono curioso di sapere se i miei ospiti ritengano che vi sia differenza tra la matematica prodotta qui in Giappone e le ricerche condotte in Occidente. Gli ideogrammi cinesi e giapponesi creano forse un dialogo diverso tra la matematica e il linguaggio? Se la grafia della tua lingua si concentra più sulle immagini, condiziona il modo in cui esprimi la matematica? I giochi numerologici che Kurokawa fa con il linguaggio riflettono una differente concezione del mondo. Quando lavoravo in Israele, ho imparato che la meravigliosa eredità matematica degli ebrei deve qualcosa all’arte talmudica di stabilire legami insoliti tra varie sezioni della Torah.
Secondo alcuni, la straordinaria etica lavorativa giapponese, che abbiamo modo di ammirare durante il convegno, soffoca la scoperta delle strutture nascoste. Il matematico pigro, costretto a trovare una scorciatoia, riesce spesso a individuare una logica interna che sfugge a chi ha la perseveranza di addentrarsi in calcoli senza fine. Questo sembra tuttavia essere uno stereotipo della cultura giapponese, anche se sono stati gli stessi giapponesi a generarlo.
Nonostante l’enorme divario culturale, credo che io e Kurokawa abbiamo una visione molto simile del mondo matematico, slegata dalla nostra eredità culturale. E questo è uno dei fattori che mi attirano verso la matematica. Come disse una volta il famoso David Hilbert: «I matematici non conoscono razza… Per la matematica, l’intero mondo culturale è un unico Paese».
La matematica e il kabuki: i teatri dell’élite
Di ritorno a Tokyo, il professor Kurokawa mi porta a un teatro kabuki. È un’esperienza fuori del comune. Il carattere formale e stilizzato conferisce allo spettacolo una magia che un dramma naturalistico non potrà mai avere. L’esibizione ha la sua logica interna e regole che gli attori, e persino il pubblico, devono rispettare. Quando un interprete entra in scena, gli spettatori perspicaci urlano il suo nome d’arte o addirittura il suo numero kabuki, quello che gli viene assegnato quando intraprende la professione, come il giocatore di una squadra di calcio. Gridate al momento sbagliato, e il rituale è distrutto.
Qui emergono curiose somiglianze con l’universo della matematica. Gli attori del kabuki hanno accettato i confini formali del loro mondo, ma sono ancora capaci di grande creatività. Essendo un processo creativo, la matematica assomiglia sovente a un’improvvisazione teatrale. Si allestisce una scena con le condizioni per gli scontri di idee e poi si lascia che il tutto proceda da solo. Molto spesso non va da nessuna parte, ma talvolta si delinea una dinamica efficace. Come le regole di un gioco teatrale, le condizioni spingono l’individuo in direzioni straordinarie e inattese, che verrebbero soffocate da un eccesso di libertà.
Quando il regista e produttore Peter Brook parla del suo lavoro in teatro, è come se descrivesse la vita di un matematico: «Mezzi modesti, impegno intenso, disciplina rigorosa, precisione assoluta. Inoltre, quasi come requisito indispensabile, l’ambiente è rappresentato dai teatri dell’élite». Quest’ultima frase sottolinea un altro parallelo tra la matematica e il teatro sperimentale: si rivolgono entrambi a un pubblico limitato.
Questa è una serata speciale per il kabuki, perché gli spettatori conosceranno un nuovo membro della compagnia, il figlio di sei anni di uno degli attori. L’orgoglio degli interpreti è evidente. D’ora in avanti chiameranno il piccino Falco bianco. Mi rendo conto che, in un certo senso, la conferenza è stata anche una celebrazione dei laureati più giovani, che sono la nuova linfa da cui dipendiamo. Sono i nostri figli, gli individui che terranno viva la nostra antica arte e la porteranno in dimensioni inesplorate.
Il mio viaggio in Giappone termina con una gita a Nikko, una città che vanta una stupefacente collezione di templi scintoisti e buddisti. Le incisioni e i colori sono sbalorditivi. Mentre varco un cancello per accedere al cortile di una di quelle costruzioni, noto qualcosa di piuttosto inconsueto. La struttura è sostenuta da otto colonne decorate da un bellissimo graticcio di motivi geometrici, tutte identiche tranne una, dove il disegno è capovolto e rovina del tutto la magnifica armonia dell’insieme.
Chiedo spiegazioni a Kurokawa. L’hanno fatto apposta, risponde. È una particolarità diffusa nell’architettura giapponese, per lo stesso motivo per cui i tessitori di tappeti arabi intrecciano un difetto nei loro disegni, poiché creare una simmetria perfetta può scatenare l’ira divina. Il testo trecentesco dei Momenti d’ozio giapponesi esprime il criterio alla base del cancello di Nikko: «In ogni cosa […] l’uniformità è indesiderabile. Lasciare una cosa incompleta la rende interessante, e comunica la sensazione che vi sia spazio per la crescita […]. Anche quando erigono il Palazzo imperiale, lasciano sempre un luogo incompiuto».
Forse è così che dovrei vedere il mio teorema sulle funzioni zeta della simmetria. Ho risolto cinque casi, ma il sesto rimane in sospeso. Avevo sperato che il viaggio in Giappone mi aiutasse a collocare l’ultima tessera del puzzle. Considererò tuttavia la colonna del tempio di Nikko come un invito a consegnare il saggio così com’è e andare avanti.5
Dicembre: nessi inaspettati
La fortuna favorisce la mente preparata.
Louis Pasteur
5 dicembre, Max Planck Institut, Bonn
Il Max Planck Institut di Bonn è uno dei miei luoghi preferiti. È qui che ho raggiunto alcune delle mie conquiste matematiche più emozionanti, quelle che danno euforia e slancio, quelle per le quali vale la pena essere un matematico. Una di esse ha cambiato drasticamente il mio modo di considerare i gruppi con cui è possibile costruire forme con un numero primo di lati.
Io e il mio coautore Fritz Grunewald, uno dei primi matematici a utilizzare la funzione zeta come strumento per studiare la simmetria, ogni anno ci ritroviamo al Planck Institut per una settimana di brainstorming. Bonn è forse la città più noiosa del mondo, e ciò la rende il posto perfetto in cui lavorare, perché non c’è nient’altro da fare: è un foglio bianco. Il Max Planck si è recentemente trasferito presso i piani superiori del vecchio Palazzo delle Poste nel cuore della città. Uno dei vantaggi del ritorno di tutti i burocrati da Bonn a Berlino è che moltissimi edifici si sono, all’improvviso, liberati.
Diversi anni fa, ebbi una di quelle inaspettate illuminazioni mentre me ne stavo seduto proprio nell’ufficio in cui mi trovo ora. Erano circa le otto di sera e stavo cercando di telefonare a Shani, che era rimasta a Londra, ma la linea era costantemente occupata. Mentre aspettavo che la mia compagna finisse di chiacchierare, mi balenò all’improvviso un’idea su come costruire un nuovo oggetto, il cui gruppo di simmetria potesse illustrare un comportamento che non avevamo mai osservato in precedenza. Non costruii fisicamente l’oggetto: sarebbe stato impossibile, dal momento che occupa uno spazio a nove dimensioni. Ma, usando il linguaggio della teoria dei gruppi, potevo scrivere le regole che governavano le interazioni fra le sue differenti simmetrie. Iniziai a scarabocchiare equazioni sul bloc-notes di fogli gialli che stava di fronte a me sulla scrivania. Per procedere, dovevo risolvere un problema che consisteva essenzialmente nel trovare un modo astuto per collocare delle x, delle y e delle z in una griglia 3 × 3: una sorta di mini sudoku con le lettere al posto dei numeri. Una volta che ebbi risolto quel rompicapo, l’oggetto parve bellissimo e dotato di caratteristiche particolarmente notevoli.
Avrei dovuto effettuare qualche controllo per appurare che fosse davvero in grado di fare ciò di cui lo ritenevo capace. Ma, se non mi stavo sbagliando, quest’oggetto avrebbe connesso il mondo della simmetria con un’area completamente slegata: quella delle curve ellittiche.
«Lampo di genio» è un’espressione che descrive bene il senso di rivelazione che si avverte: è come il passaggio di una scossa elettrica attraverso la testa. Purtroppo sono episodi piuttosto rari, ma ogni matematico vive in loro attesa. Nel corso della mia carriera ho avuto il piacere di vivere tre di questi momenti magici. Quando si presentano, si prova l’intensa emozione di un calciatore che mette a segno un goal fantastico mentre, per il resto del tempo, la ricerca scientifica è più simile a una maratona, in cui la fatica e la sofferenza aumentano progressivamente fino a che non si taglia la linea del traguardo. Naturalmente, anche i goal più spettacolari e decisivi sono il frutto di allenamento costante e di una buona preparazione atletica. E così, in modo analogo, questa folgorazione era stata prodotta da mesi e mesi di lavoro.
Rimasi immobile sulla mia sedia: mi mancava il respiro per l’emozione. Dovevo assolutamente comunicare a qualcuno la mia straordinaria intuizione, ma a quell’ora l’ufficio era deserto. Quindi ne parlai a Shani, non appena riuscii a raggiungerla telefonicamente, ma, non essendo una matematica, non poteva realmente comprendere l’enormità di ciò che questo esempio avrebbe significato per la mia ricerca. Dalla mia voce intuiva che si trattava di qualcosa di esaltante, ma io avevo bisogno di qualcuno che potesse condividere e apprezzare le sensazioni che stavo provando. Inoltre, occorreva che qualcuno verificasse l’esattezza di quanto avevo formulato.
Telefonai a Fritz, una delle pochissime persone al mondo che avrebbe potuto condividere la mia eccitazione di quel momento. Ci accordammo per bere una birra insieme in tarda serata, così gli avrei illustrato meglio quello che stavo farfugliando al telefono.
Fritz è una persona molto mite e i suoi capelli bianchi e arruffati gli danno un aspetto bonario. Ha una voce baritonale e pacata che si tramuta all’improvviso in una risata isterica quando ci accorgiamo di avere commesso un grossolano errore nei nostri calcoli. Ma, al volante della sua Mercedes, Fritz si scatena e io devo tenermi ben saldo al sedile e concentrarmi sulla matematica di cui stiamo discutendo, per non farmi prendere dal panico mentre sfreccia sulla corsia di sorpasso dell’autostrada.
Lo incontrai per la prima volta a una conferenza che si teneva a Oberwalfach, nel cuore della Foresta Nera. Conoscere Fritz fu come trovare un familiare nella tribù dei matematici. Ben presto, ci rendemmo conto di condividere alcuni interessi e, da allora, decidemmo di trascorrere ogni anno una settimana insieme per dedicarci, come due musicisti, a indiavolate jam session matematiche negli uffici del Max Planck Institut, certi che ogni volta ci avrebbero portato a qualcosa di nuovo. E la magia si ripete tutte le volte: infatti dedico i mesi successivi ai miei incontri con Fritz alla stesura e all’elaborazione dei risultati e dei dati che abbiamo ottenuto.
Sebbene io e Fritz parliamo lo stesso linguaggio, apportiamo contributi molto differenti al nostro lavoro. È come se ognuno di noi avesse una scala a cui mancano alcuni pioli. Da solo, non potrei salire tutta la scala, ma una volta uniti i miei pioli a quelli di Fritz, la combinazione fa sì che entrambi possiamo arrivare fino in cima. Spesso le idee si affacciano in modo quasi incosciente e appena abbozzate. Ma il semplice tentativo di comunicare a Fritz un’intuizione che mi è balenata può essere la spinta decisiva che dà vita all’idea. Tra di noi funziona molto bene anche il dialogo non verbale: a volte grugnisco e agito le mani nel disperato tentativo di mostrare a Fritz la struttura che sto vedendo. Spesso, però, accade che Fritz abbia già le parole per esprimere in modo articolato ciò a cui mi sto sforzando di dar voce.
Si tratta di un processo molto delicato. La gente spesso immagina che la matematica si possa discutere per e-mail e che non vi sia alcun bisogno di incontrarsi di persona. Ma nulla di tutto ciò che avviene nei nostri incontri potrebbe essere fatto via etere. Spesso, all’inizio rimaniamo seduti per ore, pensando tranquillamente, senza dire nulla, scribacchiando a più riprese sui nostri bloc-notes. Ma una parola detta durante questa prima fase può far scattare qualcosa nella mente dell’altro. Osservare gli occhi vivaci di Fritz, agitare le mani ed emettere un grugnito di tanto in tanto non sono gesti facilmente traducibili in una e-mail.
Quando lavoro con un’altra persona, trovo che la lavagna bianca sia la tela migliore, quando invece mi dedico all’esplorazione in solitudine ho un’avversione per questo strumento di lavoro. Sulla lavagna bianca, posso scribacchiare cose in rosso, in blu o in verde, cancellare le sciocchezze, provare qualcosa di nuovo, fare un disegno per esprimere i pensieri che voglio comunicare all’altra persona. Talvolta mi rammarico per l’impermanenza di quegli scarabocchi perché, una volta tornato a casa, non sempre riesco a ricordare tutto quello che abbiamo fatto. John Conway mi ha suggerito di adottare la tecnica utilizzata da uno dei suoi collaboratori che, a fine giornata, scattava una fotografia digitale della lavagna prima che qualcuno cancellasse tutto.
Collaborare significa avere grande fiducia reciproca. Si tratta di una relazione davvero delicata. Talvolta ho dovuto rinunciare a lavorare insieme ad alcune persone perché riscontravo in loro un eccessivo spirito di competizione. Succede che, dopo una proficua discussione, alcuni trascorrano un’intera nottata di febbrile lavoro e la mattina successiva annuncino trionfanti: «Guarda: l’ho risolto!». La sindrome da «primi della classe» è molto diffusa tra i matematici. Tutti desideriamo essere i primi a risolvere un problema, e aspiriamo ad affibbiare i nostri nomi a un teorema. Se questo atteggiamento costituisce un’importante forza propulsiva per i progressi personali, per contro, può essere un grave handicap quando si lavora in gruppo. Un collega mi ha confidato di aver condiviso solo le idee che sapeva non avrebbero funzionato. Pertanto, per costituire un team di lavoro produttivo, arruolo solo persone con cui è possibile intrattenere una relazione realmente onesta e trasparente. La collaborazione è una sorta di matrimonio matematico. Con Fritz sento che siamo dalla stessa parte e non ho alcun timore nel lasciarmi andare esprimendomi liberamente, anche se spesso so di dire cose stupide, banali o errate.
Il mio obiettivo ultimo è calcolare quanti sono gli oggetti i cui gruppi di simmetrie sono costituiti dall’unione di più copie di uno stesso gruppo di simmetria indivisibile consistente nelle rotazioni di un poligono con un numero primo di lati. Si tratta degli oggetti con un numero di simmetrie pari alla potenza di un numero primo. Come appresi dopo una conferenza da me tenuta qualche anno fa a Cambridge, stando alla «congettura PORC», avanzata negli anni Sessanta, questa risposta dovrebbe essere data da semplici equazioni. E così è, certamente, quando prendiamo in considerazione oggetti con p5 simmetrie. Se voglio sapere quante forme esistono con 175 simmetrie, posso semplicemente sostituire il numero primo p = 17 nell’equazione 2p + 67. Ma che cosa accade se prendiamo forme con 1710 simmetrie? Vi sarà anche in questo caso una semplice equazione tale che, sostituendo p con 17, ci dirà quanti sono gli oggetti con 1710 simmetrie? Dopo la scoperta che ho fatto qui a Bonn, non sono così sicuro che quella congettura possa dirsi vera.
Il gruppo di simmetrie che balenò nella mia mente mentre ascoltavo il segnale di occupato al telefono fu come un avvertimento. Se gli oggetti con un numero di simmetrie pari alla potenza di un numero primo sono assemblate in modo tale da soddisfare una condizione supplementare, che chiamerò «condizione ellittica», allora il numero di modi in cui si possono costruire queste forme speciali non è dato da una semplice formula, ma dipende da un problema di tipo completamente diverso, relativo alla teoria dei numeri piuttosto che alla teoria della simmetria.
Se si vuole sapere quanti oggetti ci sono con un numero di simmetrie pari alla potenza di un numero primo che soddisfino anche la mia condizione ellittica, bisogna prima risolvere anche il seguente problema: contare quante siano le coppie di numeri (x, y) dove x e y sono numeri interi maggiori o uguale a 1 e minori di p tali che il polinomio y2 - x3 - x sia divisibile per p. Trovare soluzioni alle equazioni di questo tipo, chiamate «curve ellittiche», è uno dei problemi più elusivi di tutta la matematica. I misteri di queste equazioni stanno alla base della soluzione di Andrew Wiles dell’ultimo teorema di Fermat. Sono inoltre fondamentali per affrontare i cosiddetti «problemi del Millennio», per la cui soluzione è in palio un milione di dollari.
La risoluzione di questa particolare equazione fu uno dei grandi risultati ottenuti dal matematico tedesco del XIX secolo, Carl Friedrich Gauss. In un’annotazione sul suo diario, il giovane Gauss spiega in che modo contare il numero di coppie di numeri (x, y) in modo tale che l’equazione y2 - x3 - x sia divisibile per p. Se dividendo p per 4 il resto è 3 (come i primi 3, 7, 11, …), allora vi sono sempre e solo p − 1 coppie. Sembra molto bello. Ma le cose si fanno di gran lunga meno controllabili quando un primo p ha resto 1 se diviso per 4 (come i primi 5, 13, 17, …). Allora non esiste una semplice equazione che dà il numero di coppie.
Data la connessione con queste strane equazioni della teoria dei numeri, chiamate curve ellittiche, molto spesso indico il mio gruppo di simmetrie come «il mio esempio di curva ellittica». Questo nuovo gruppo di simmetrie portò i miei studi in una direzione completamente nuova. All’improvviso, il conteggio di gruppi di simmetria si legava indistricabilmente al conteggio di soluzioni di equazioni complicate della teoria dei numeri. La cosa andava contro ogni aspettativa, e per questo mi piace così tanto. Ecco perché non stavo più nella pelle dalla voglia di mostrare a Fritz la mia scoperta.
Quando quella sera gli mostrai il mio esempio, anche lui fu del parere che avesse l’aria di essere corretto. Dopo la nostra birra, me ne andai immediatamente a dormire. Quando mi viene una buona idea la sera, preferisco andarmene a letto pensando di aver ottenuto un buon risultato piuttosto che rimanere sveglio tutta la notte a cercare un eventuale errore. Se ce n’è uno, sarà ancora lì il mattino dopo, nel frattempo mi sono goduto una buona nottata di riposo fantasticando un po’ sulla mia «conquista».
Fritz invece era rimasto sveglio e si era convinto che le cose stessero proprio come pensavo. Il mattino dopo, mi mostrò un linguaggio che avrei potuto utilizzare per analizzare le simmetrie. Una volta tornato a Londra, mi occorsero mesi di attenti controlli per convincere me stesso, e tutti quelli che avrebbero letto l’articolo, che la curva ellittica non è semplicemente un miraggio destinato a scomparire a un esame più attento. Esistono svariati modi in cui la curva ellittica potrebbe cancellare se stessa. Ma ero pressoché certo che non l’avrebbe fatto.
è il ricordo di quel parto avvenuto a Bonn, piuttosto che il duro lavoro necessario a sviluppare quell’esempio dopo averlo dato alla luce, a procurarmi ancora un fremito. Quel momento fu un atto creativo o una scoperta? Prima di quella sera a Bonn, il gruppo non esisteva. Il mattino successivo era già vecchio di un giorno.
Ecco perché i matematici parlano di creatività: esiste un’enorme tavolozza di colori con cui è possibile dipingere la matematica. Il ruolo del matematico consiste nel creare qualcosa di speciale a partire dai colori di cui dispone. Ecco che cosa rende la matematica un’arte.
E tuttavia… non posso esimermi dal pensare che questo gruppo fosse lì in attesa di essere scoperto, non come avviene per un pezzo musicale. Nessun altro avrebbe potuto creare le Variazioni Goldberg di Bach. Nessuno avrebbe potuto precedere Bach nella loro composizione. Ma il gruppo che ho scoperto ora è paragonabile piuttosto a una nuova specie di farfalla, che esisteva anche prima di essere scoperta.
Vi è un’enorme dose di casualità nel modo in cui approdiamo alle scoperte matematiche. Il mondo della matematica è fatto di interconnessioni, per cui la risposta a un problema può spesso portare a un’intuizione su un altro problema apparentemente del tutto slegato. Così come è possibile ruotare un cubo e vedere una faccia diversa dello stesso oggetto, un problema può essere rigirato in modo tale da rivelare un aspetto del tutto nuovo della questione.
La mia serata a Bonn aveva mostrato un nuovo punto di vista del mio argomento di studio. Affrontando il problema del conteggio del numero di gruppi di simmetrie da una nuova visuale, mi ritrovai con il problema di contare le soluzioni di strane equazioni chiamate curve ellittiche. La questione alla quale Fritz e io stavamo lavorando durante la mia visita consisteva nell’osservare che cosa accade se eliminiamo questa condizione ellittica. È ancora possibile ottenere insolite equazioni che devo necessariamente risolvere per contare quanti gruppi di simmetria vi siano in generale? Non è questa la prima volta che il problema della risoluzione di equazioni incontra la teoria della simmetria. La nozione di risoluzione di equazioni costituisce il punto di svolta nella nostra comprensione della simmetria. Essa dovrebbe essere in grado di fornirci il linguaggio necessario per parlare della reale sostanza della simmetria. E comunque ci vorrà molto più di una serata come quella, prima che questo nesso possa essere compreso a fondo.
La poesia della matematica: disvelare i segreti delle equazioni
La risoluzione di equazioni ha una tradizione antica. Circa 4000 anni fa, i matematici babilonesi avevano cercato di risolvere le «equazioni quadratiche» che si erano presentate nei loro tentativi di calcolare aree di terra. Per esempio, le tavolette a caratteri cuneiformi risalenti all’epoca documentano i calcoli per trovare la lunghezza del perimetro di un campo la cui area è pari a 60 e la lunghezza del lato più lungo supera quella del lato più corto di 7 unità (figura 5.1).
Ciò equivale a tentare di trovare un numero x che renda corretta l’equazione x2 + 7x = 60. Gli antichi matematici babilonesi avevano trovato una strategia per rivelare che, ponendo x = 5, si sarebbe verificata l’equazione. Nonostante essi fossero privi di un linguaggio matematico adatto a formulare il problema in modo chiaro, nonché a esprimere distintamente il loro procedimento per trovare le soluzioni, l’idea era già presente e preparò la strada per la formulazione che viene oggi insegnata a ogni scolaro.
Figura 5.1: Equazioni quadratiche che derivano dall’esigenza di calcolare le aree di terreno coltivabile.
Dopo la conquista dei persiani, avvenuta nel secolo VII, la nuova dinastia musulmana fondò un impero che sarebbe divenuto il fulcro dello sviluppo culturale mondiale del mezzo millennio successivo. Mentre l’Europa languiva nelle tenebre dell’alto Medioevo, le città di Kufah, Bassora e Baghdad vedevano la fioritura di biblioteche, musei, accademie e moschee.
Un’accademia, in particolare, sarebbe diventata il cuore della vita intellettuale di tutta la regione, responsabile di grandi progressi in medicina, astronomia, filosofia, e nella scienza in generale. La Bayt al-Hikma (Casa della Sapienza), una sorta di Max Planck Institut della sua epoca, fu fondata dal califfo di Baghdad, al-Ma’mun. Questi era determinato a far sì che la sua città divenisse la nuova Alessandria e fece costruire una biblioteca e un osservatorio. Il primo compito degli studiosi raccolti nel nuovo istituto fu tradurre l’enorme mole di testi greci, latini ed ebraici che l’impero stava ammassando. Furono inviate spedizioni per rintracciare e raccogliere il maggior numero possibile di manoscritti eventualmente sfuggiti alla distruzione della biblioteca di Alessandria. I califfi di Baghdad erano perfino disposti ad accettare testi di studiosi come pagamento in sede di trattative di pace.
Anche se molti di questi testi soffrirono orribilmente della traduzione, la natura universale delle idee matematiche fece sì che qualsiasi errore infiltratosi nelle traduzioni di opere che trattano di tali argomenti potesse essere rapidamente individuato e corretto. La logica interna dell’argomentazione forniva un meccanismo autocorrettivo, indipendente dalla lingua in cui il trattato era stato scritto. Via via che la conoscenza del mondo antico veniva assimilata dagli studiosi nella Casa della Sapienza, essi iniziarono a cimentarsi nella scrittura di veri e propri capitoli di storia della scienza, della medicina e dell’astronomia.
Il più importante matematico di questa sorta di accademia era uno studioso di nome Muhammad ibn-Musa al Khwarizmi. Egli riteneva che la matematica fosse un potentissimo strumento a disposizione degli uomini per intessere tra loro relazioni. Iniziò anche a stabilire un approccio più astratto e algoritmico alla risoluzione di problemi, che potesse essere applicato in una moltitudine di contesti. Registrò le sue scoperte in un libro che viene universalmente considerato l’inizio dell’algebra moderna.
Il libro non contiene simboli o equazioni, i comuni ingredienti dei moderni testi di algebra, ma descrive a parole i metodi generali per risolvere le equazioni. Per quanto astratti siano tali metodi, egli non perde di vista le loro potenzialità di strumento pratico per i suoi concittadini. Infatti, egli dimostra che risolvere equazioni è utile per districarsi tra una serie di questioni legate alla quotidianità: dalle dispute legali allo scavo di canali. Il potere — sosteneva - è dalla parte di chi è capace di parlare il linguaggio della matematica.
Il nome stesso di «algebra» trova origine nel titolo del libro di al Khwarizmi: al-Kitab al-mukhtasar fi-hisab al-jabr wa al-muqabala. La parola araba al-jabr era in effetti un termine medico che si riferiva alla riparazione delle fratture ossee. Applicandolo alla matematica, al Khwarizmi intendeva suggerire l’idea che un’equazione celasse numeri, e che l’algebra fosse in grado di ripristinare o far risorgere i numeri nascosti, un po’ come un medico quando aggiusta le ossa. Seguendo la teoria del matematico, il numero incognito poteva essere chiamato x. Un’equazione offre comunque qualche informazione su quel numero x: per esempio, potrebbe essere noto che x2 + 2x = 3. Al Khwarizmi voleva sviluppare un procedimento per essere in grado di manipolare equazioni in modo tale da individuare il numero nascosto x.
Poniamoci il problema di trovare valori di x che soddisfino un’equazione come
Se non ci fosse il termine 2x, potremmo risolvere x2 = 3 ponendo x uguale alla radice quadrata di 3. Ma il termine supplementare rende le cose, a prima vista, assai più complicate. La strategia che al Khwarizmi descrive per risolvere queste equazioni comporta il tentativo di dare all’equazione l’aspetto della semplice equazione quadratica. In questo caso, aggiungendo 1 a entrambi i membri dell’equazione e tenendo presente che x2 + 2x +1 = (x + 1)2, l’algebra di al Khwarizmi mostra come si possa scrivere questa equazione in una forma più semplice
Si tratta sempre dello stesso numero x, ma descritto in una nuova equazione. Nel libro di al Khwarizmi tutto è descritto a parole, e non compare alcuna x. Ma, con questa traduzione dell’equazione in qualcosa di nuovo, al Khwarizmi era finalmente nella posizione di risolverla, in quanto doveva semplicemente estrarre la radice quadrata di 4, cioè 2, e determinare 1 da essa. Così x = 1 è il risultato di questa equazione e di quella originale x2 + 2x = 3.
Ma vi è anche un altro numero che può risolvere questa equazione, ed è proprio questo secondo numero a dare il primo indizio che vi sia qualche nesso con i misteri della simmetria. La seconda soluzione era però nascosta agli studiosi della Casa della Sapienza, poiché essi non avevano ancora scoperto il potere di un nuovo tipo di numeri: i numeri negativi.
Questi ultimi furono scoperti e introdotti dai matematici indiani. Oltre al concetto di 0, essi riconobbero le potenzialità dell’introduzione di nuove classi numeriche per risolvere equazioni come x + 3 = 1. Chiamavano questi numeri con il nome di «debiti», termine molto efficace per esprimere il denaro che una persona doveva a un’altra. Uno dei primi a scrivere un trattato sui numeri negativi fu un matematico indiano del VII secolo di nome Brahmagupta. Questi fu probabilmente il primo a segnalare che moltiplicando un numero negativo per se stesso si ottiene un numero positivo. Anche se oggi questo fatto viene presentato agli studenti come una specie di dogma della matematica, Brahmagupta lo aveva dimostrato esplorando idee simili a quelle che al Khwarizmi stava sviluppando nello studio dell’algebra. Egli si rese conto che questa scoperta poteva essere applicata nella risoluzione delle equazione quadratiche. Implicava che ogni numero positivo avesse due radici quadrate: una positiva e l’altra negativa. Pertanto, per verificare x2 = 4 possiamo porre x = 2 e anche x = −2.
Questo, in effetti, indica che in queste equazioni vi è una simmetria. La soluzione negativa è speculare a quella positiva. Brahmagupta si rese conto che anche equazioni quadratiche più complesse ammettevano soluzioni speculari. Per esempio, analizzando l’equazione leggermente più complicata x2 + 2x = 3 considerata in precedenza, ci accorgiamo che la sua soluzione speculare è − 2 − 1 = −3. Brahmagupta tuttavia era ancora piuttosto incerto sul significato di questa soluzione negativa, poiché le equazioni quadratiche dovevano servire a trovare le lunghezze delle recinzioni di appezzamenti di terreno.
Testimonianze dimostrano che Brahmagupta fosse in procinto di sviluppare una notazione astratta per esprimere queste equazioni. Mentre il libro di algebra di al Khwarizmi conteneva ancora spiegazioni composte di parole, Brahmagupta aveva iniziato a sperimentare l’uso di lettere di vari colori per rappresentare le incognite delle equazioni. Questo primitivo linguaggio matematico non fiorì finché non fu ricreato in Europa, circa 1000 anni dopo la morte di Brahmagupta. Anche il concetto di numeri negativi era tra quelli che non avrebbero avuto diffusione in Europa per diversi secoli, e, senza questi numeri, le soluzioni speculari sarebbero rimaste nell’ombra. I numeri negativi e lo 0 sono così presenti nella nostra vita quotidiana da renderci difficile concepire che la cultura europea abbia impiegato un tempo così lungo prima di accettare la nuova teoria che veniva dall’Oriente. I numeri negativi erano associati al prestito di denaro in quanto utili a rappresentare il debito. Nell’Europa medievale, dove l’usura era un peccato, i numeri negativi erano quasi l’incarnazione del male.
Per quanto gli arabi possano essere stati inconsapevoli di queste soluzioni speculari, l’acquisizione di nuove capacità di manipolazione delle equazioni quadratiche aveva dato ai matematici della Casa della Sapienza fiducia nelle proprie possibilità, tanto da indurli a esplorare fin dove potesse estendersi il loro nuovo linguaggio. Invece di ricadere nel campo della geometria e delle figure solide degli antichi greci, questo linguaggio algebrico metteva a disposizione nuove tecniche per accedere a soluzioni nascoste. Essi stavano sviluppando un tipo di matematica del tutto nuovo, che aveva il potenziale di produrre molto di più che semplici soluzioni alle equazioni quadratiche.
Se le recinzioni di appezzamenti di terreno davano origine a equazioni quadratiche, allora i volumi di pietra da costruzione avrebbero prodotto equazioni in cui le quantità incognite sarebbero state elevate al cubo anziché al quadrato. Esisteva un modo in cui manipolare equazioni come x3 + 2x2 + 10x = 20 per rivelare il numero nascosto x?
Il grande poeta persiano dell’XI secolo Omar Khayyam raccolse la sfida della risoluzione della cubica. Purtroppo, però, non godeva delle condizioni ideali in cui lavorare: la sua casa, nella città persiana di Nishapur, era sotto il controllo dell’impero turco, che aveva invaso la regione alcuni decenni prima. Durante i primi anni in cui aveva lavorato nella Casa della Sapienza, l’attività intellettuale era stata tenuta nel più alto grado di considerazione, ora invece Khayyam si trovava costantemente a competere con ciarlatani e astrologi per ottenere le attenzioni di dominatori diventati sempre più superstiziosi. «I nostri contemporanei sono per lo più pseudo-scienziati, usi a mescolare il vero e il falso» scrisse.
Khayyam aveva una cultura davvero enciclopedica. Scrisse un trattato sulla musica. Impiantò uno dei principali osservatori della regione, a Isfahan, attraverso il quale calcolò la lunghezza dell’anno con una precisione straordinaria, e le sue misurazioni condussero a una correzione del calendario in uso all’epoca. Scrisse anche uno dei classici della letteratura persiana, le cosiddette Quartine (Rubaiyyat). Il titolo deriva dal nome della forma metrica usata da Khayyam. Ogni strofa consiste di quattro versi con schema AABA. I poeti dell’epoca si sbizzarrivano nelle loro composizioni con rime e strutture intrecciate. Talvolta il terzo verso della strofa veniva ripreso per generare lo schema ritmico della strofa successiva BBCB; così le strofe si concatenavano e manifestavano una simmetria ciclica.
Con la sua rigida logica di concatenazione delle rime e la sua metrica regolare, la poesia è una delle forme letterarie più affini alla costruzione di dimostrazioni matematiche. Per questo non dovrebbe sorprendere che Khayyam trovasse diletto nella matematica così come nella composizione poetica. Nonostante avesse compiuto qualche progresso nella risoluzione dell’equazione di terzo grado, o cubica, la soluzione completa continuò a sfuggirgli. «Forse qualcun altro dopo di noi riuscirà a trovarla», ebbe a scrivere.
Le equazioni comprendenti termini di terzo grado erano il massimo che Khayyam fosse disposto a concepire. Il fatto che queste fossero ancora riferibili a una geometria tridimensionale gli permetteva di essere certo che la sua matematica avesse un senso. Per Khayyam, è ancora essenziale che vi sia una geometria nascosta dietro alle equazioni: «Chiunque pensi che l’algebra non sia altro che un trucco per ottenere incognite, pensa male. Le algebre sono un fatto geometrico». Khayyam accantona come prive di significato le equazioni con quarte potenze: esse descrivono oggetti con più di tre dimensioni di cui egli non può concepire l’esistenza.
Lo studioso riconobbe che esistevano essenzialmente 14 tipi differenti di cubica con cui si potesse avere a che fare. Era convinto che un metodo funzionante per un’equazione come x3 + 2x = 5 avrebbe risolto anche un’altra equazione cubica della stessa forma complessiva, in cui fossero stati variati semplicemente i coefficienti numerici, per esempio x3 + 8x = 13. Qualsiasi equazione della forma x3 + ax = b rappresentava il suo primo tipo di cubica. Ma, nell’analisi di Khayyam, un’equazione cubica come x3 + x2 + 2x = 5 era tutt’altra faccenda, e poteva richiedere tecniche differenti. Non conoscendo i numeri negativi, Khayyam pensava inoltre che x3 + 2x + 5 = 0 fosse un’equazione di tipo diverso da x3 + 2x = 5, dato che 5 era su lati diversi in un caso e nell’altro. Ma, con i numeri negativi, i matematici moderni vedrebbero x3 + 2x + 5 = 0 identica a x3 + 2x = −5. Senza le conoscenze moderne, Khayyam si ritrovò alle prese con 14 forme diverse di equazione cubica.
Nonostante i progressi di Khayyam, la soluzione completa della cubica non sarebbe stata trovata in Oriente. Un secolo dopo l’esplorazione di queste equazioni da parte dello studioso persiano, la grande dinastia fondata sulla Casa della Sapienza giunse al suo crollo. Pochi decenni dopo la caduta di Granada, quando il palazzo della simmetria fu conquistato dai mori, la dinastia degli Abbasidi fu a sua volta stroncata dai mongoli. Si calcola che, a Baghdad, morirono milioni di musulmani mentre tentavano di difendere la città, ma le principali sedi accademiche e le biblioteche furono inevitabilmente distrutte. Il compito di passare il testimone della cultura dall’Oriente alle nascenti accademie occidentali fu affidato ad alcuni matematici europei che, fino a quel momento, avevano studiato presso la Casa della Sapienza e che ora si vedevano costretti a far ritorno ai loro Paesi d’origine.
Combattimenti di galli matematici
Fu una pittoresca combriccola di matematici italiani del XVI secolo a capire come utilizzare il linguaggio dell’algebra per risolvere le equazioni cubiche. La scoperta maturò in un’epoca in cui la cultura europea si fondava unicamente sulle conquiste compiute dai greci. Sembrava che, a distanza di un millennio, ben pochi progressi fossero stati realizzati rispetto alla geometria di Euclide e di Archimede.
Non solo: gli scavi in Italia stavano riportando alla luce i monumenti della Roma antica. Era come se l’Europa del Rinascimento non potesse sfuggire alle sue antiche radici. Quando gli studiosi italiani scoprirono una nuova matematica, che i greci e perfino gli arabi nemmeno avrebbero potuto sognarsi, ciò fu accolto come un potente stimolo per la moderna scienza europea.
L’architetto di questa nuova matematica, Niccolò Fontana, non aveva trascorso un’adolescenza tranquilla. Era sfuggito alla morte per un soffio all’età di dodici anni, durante l’invasione di Brescia, nel 1512, da parte dei francesi. Durante il massacro degli abitanti a opera delle truppe di Luigi XII, Niccolò fu colpito da una sciabolata al volto, e, creduto morto, fu lasciato a terra. Fu salvato dalla madre, che cercò di curare le orribili ferite alla mandibola e al palato. Il ragazzino rimase danneggiato da un grave impedimento che non gli permetteva di articolare correttamente le parole e di lì in avanti fu sempre additato con il soprannome «Tartaglia». Da adulto, si fece crescere la barba per nascondere le brutte cicatrici lasciategli dal soldato francese.
Se con la spada era stato sconfitto, sarebbe risultato più tardi vittorioso nel duello con la mente. Escluso dai compagni di scuola per il suo aspetto deturpato, Tartaglia si rivolse alla matematica anche per sfuggire alla propria incapacità di socializzare. Seppur da autodidatta, si accorse di avere una grande predisposizione per la materia. Pubblicò un libro che, corredato delle prime tabelle balistiche, spiegava in che modo la matematica avrebbe potuto essere usata per prevedere le traiettorie dell’artiglieria. Ma la sua grande passione era la risoluzione di equazioni.
Agli inizi del secolo XVI, si riteneva che le equazioni cubiche fossero impossibili da risolvere. Era questa la convinzione di Luca Pacioli, un matematico che aveva scritto ciò che all’epoca era considerata la parola definitiva sulla conoscenza in fatto di equazioni. La svolta non avrebbe potuto verificarsi se non al di fuori dei perimetri accademici, dal momento che il punto di vista di Pacioli era considerato incontrovertibile dalla maggior parte degli studiosi. Combattendo contro queste equazioni nell’isolamento della sua stanza, Tartaglia riuscì a trovare il primo punto debole nell’armatura della cubica. La sua idea fu quella di usare le radici cubiche allo stesso modo delle radici quadrate. L’idea sembra oggi banale, ma le radici quadrate avevano una realtà fisica che conferiva loro credibilità, mentre le radici cubiche non l’avevano.
Grazie al teorema di Pitagora già si sapeva che le radici quadrate erano lunghezze di lati di triangoli. Di fatto, le radici quadrate rappresentano il limite di ciò che è possibile costruire geometricamente usando nient’altro che una riga e un compasso. Per questo, l’idea di utilizzare radici cubiche aveva per i matematici un che di irreale. Questa crepa nell’armatura della cubica bastò tuttavia a Tartaglia per produrre una formula utile a risolvere casi particolari di equazioni cubiche.
Tartaglia scoprì di non essere l’unico a credere di avere risolto la cubica. Un giovane veneziano, tale Antonio Maria Fiore, detto «Fior», andava vantandosi di essere in possesso della formula segreta per la risoluzione delle equazioni cubiche. Quando si diffuse la notizia delle scoperte dei due matematici, fu subito indetta una tenzone per porre i due a diretto confronto. Mentre i combattimenti di cani contro un orso o quelli tra i galli erano le forme di intrattenimento più in voga tra i contadini, lo spettacolo di due matematici impegnati in una gara mentale era considerato una chicca negli ambienti intellettuali dell’Italia settentrionale. Fior era estremamente fiducioso di poter battere il rozzo autodidatta, convinto che Tartaglia stesse semplicemente bluffando.
Il guaio era che, a causa dell’incapacità europea di affrontare l’idea dei numeri negativi, vi erano molteplici tipi diversi di equazioni cubiche che dovevano essere analizzati. Già Omar Khayyam, escludendo questa classe numerica, ne aveva classificati 14. Un procedimento che funzionava per la risoluzione di x3 = 5x + 1 non sarebbe stato utile nel caso di x3 + 4x = 1, per cui era necessaria una nuova strategia. I moderni matematici, armati di numeri negativi, non farebbero altro che riscrivere x3 + 4x = 1 come x3 = − 4x + 1, utilizzando così lo stesso metodo che vale a risolvere l’equazione x3 = 5x + 1, sostituendo il 5 con il − 4 in tutta l’analisi. Ma, senza numeri negativi, i matematici europei dovevano trovare un modo alternativo per risolvere questi differenti tipi di cubiche.
In realtà, il metodo del giovane Fior non era farina del suo sacco: si narra che il suo maestro, il bolognese Scipione del Ferro, glielo avesse trasmesso sul suo letto di morte, nel 1526. Del Ferro non voleva che il suo segreto scendesse con lui nella tomba, e decise così di metterne a parte Fior. Ma aveva confidato al suo allievo come risolvere uno solo dei 14 tipi di equazioni cubiche.
Il giorno della contesa arrivò. I matematici si diedero convegno all’università di Bologna, una della più grandi e famose università europee dell’epoca, che richiamava studiosi da tutta Europa, come la Casa della Sapienza aveva fatto secoli prima a Baghdad. Le disfide accademiche pubbliche attraevano folle di astanti e l’università era in gran fermento il giorno in cui Fior e Tartaglia si apprestarono a incrociare le armi della matematica.
Ciascun contendente avrebbe dovuto risolvere 30 equazioni proposte dall’avversario. Si calcolò che ognuno dei due avrebbe avuto bisogno di 40 giorni per risolvere l’intera lista con il proprio metodo. Si era convenuto che, per ogni equazione risolta, l’avversario avrebbe dovuto pagare una cena. Per quanto i problemi che Fior aveva preparato per Tartaglia fossero abbigliati in una varietà di fogge differenti (dal calcolo del profitto sulla vendita di zaffiri alla determinazione dell’altezza di un albero tagliato in pezzi), tutte le 30 equazioni si riducevano di fatto allo stesso tipo: la forma x3 + 2x = 5, dove b e c assumevano semplicemente un diverso valore numerico a seconda del quesito. Fior mise tutte le sue uova in un solo paniere, ma era ancora persuaso che Tartaglia non avesse alcuna possibilità di vittoria.
La strategia di Fior, di concentrare tutti i 30 problemi in un solo tipo di equazione cubica, rischiò di avere successo. Infatti, nonostante Tartaglia avesse fatto progressi nella risoluzione delle cubiche, era riuscito solo a trovare il modo per risolvere uno dei 14 tipi di quelle equazioni, precisamente quello che si presentava come x3 + bx2 = c, anziché quelle che Fior stava meditando di sottoporgli. Ma, stimolato dall’incombere della contesa, nelle prime ore del 13 febbraio 1535, otto giorni prima del duello con Fior, Tartaglia riuscì a sintetizzare le proprie idee in un metodo generale che avrebbe risolto tutte le equazioni cubiche. Manipolando le equazioni per mezzo di astute sostituzioni, Tartaglia capì che in realtà esistevano solo due tipi differenti di cubiche, e che egli era in grado di risolvere entrambi.
Tartaglia riuscì a risolvere tutte le 30 sfide di Fior in sole due ore. In contrasto con la strategia di Fior, che aveva basato tutti i suoi quesiti su un solo tipo di cubica, Tartaglia aveva proposto un intero campionario di cubiche differenti, che Fior non era in grado di decifrare. Si mostrò quindi per quel mediocre matematico che era, incapace di estendere il metodo appreso dal maestro al di là dell’unico tipo di cubica di cui gli era stata offerta la spiegazione. Nonostante il trionfo, Tartaglia rinunciò signorilmente alle 30 cene vinte a spese di Fior.
La notizia della travolgente vittoria di Tartaglia si diffuse rapidamente ben oltre i corridoi dell’università di Bologna. Un matematico, in particolare, sentì il vivo desiderio di scoprire il segreto del successo di Tartaglia e cominciò a fare pressioni su quest’ultimo per estorcergli la sua formula magica.
La controversia della cubica
Girolamo Cardano aveva un gran talento per mettersi nei guai. Il tatto non era il suo forte, e sembrava non poter fare a meno di irritare chi ricopriva ruoli di potere. Aveva compiuto studi di medicina, non di matematica, presso le università di Pavia e di Padova. La sua brama di potere lo aveva portato a candidarsi come rettore dell’università di Padova, e si aggiudicò la carica per un solo voto. Era del tutto consapevole di quanto potesse risultare sgradevole ai più il suo stile aggressivo e arrogante, ma di ciò pareva non volersi scusare in alcun modo.
Questo io riconosco come peculiare e preminente tra tutti i miei difetti: l’abitudine, in cui persisto, a dire soprattutto le cose che sono spiacevoli per gli orecchi dei miei ascoltatori. Sono consapevole di ciò, eppure persevero deliberatamente a farlo, senza ignorare affatto quanti nemici questa abitudine mi procuri.
Anche se avvocato di professione, il padre di Cardano, Fazio, era un matematico di talento, che aveva fornito la propria consulenza perfino a Leonardo da Vinci su questioni di geometria. Morì durante la campagna di Girolamo per il rettorato, ma aveva trasmesso al figlio la sua inclinazione per la matematica. Gli aveva insegnato il rigore della logica, nella speranza che gli potesse tornare utile per una carriera forense. Ma il ribelle Girolamo aveva intenzioni del tutto diverse. Le conoscenze matematiche in suo possesso gli diedero accesso alla comprensione della teoria delle probabilità, che pensò bene di mettere a frutto nelle sale da gioco di tutta l’Italia.
Cardano fu uno dei primi a rendersi conto che il lancio dei dadi poteva essere regolato da principi scientifici. Tentò di mettere in pratica la sua analisi delle probabilità di uscita di un doppio sei, ma il demone del gioco iniziò a prevalere sulla sua analisi razionale della matematica applicata al gioco dei dadi, e finì con il dilapidare il patrimonio che il padre gli aveva lasciato.
In una serata di gioco particolarmente disperata, accusò un giocatore di avere barato alle carte. La matematica gli aveva detto che avrebbe dovuto vincere, perciò Cardano non riuscì ad accettare la sconfitta e sguainò il coltello, colpendo il suo avversario al volto.
A causa di tali incresciosi episodi, perse del tutto credibilità e le basi della sua professione medica furono irreparabilmente minate. Quando le autorità scoprirono la sua condizione di figlio illegittimo, colsero il pretesto per espellerlo dal Collegio dei Medici. Avendo dato in pegno i gioielli della moglie e perfino i mobili per finanziarsi il vizio del gioco, Cardano finì dritto all’ospizio dei poveri nel 1535.
I matematici vennero in suo soccorso. I suoi talenti non erano passati inosservati, cosicché fu risollevato dalle ristrettezze e gli fu offerta una posizione di docente a Milano. Continuò a praticare la medicina, con alcuni notevoli successi, ma furono i suoi scritti sulla matematica ad assicurargli la celebrità.
Cardano era molto interessato alle equazioni. La convinzione comune era che, a differenza delle equazioni quadratiche, quelle comprendenti elevazioni al cubo non potessero essere risolte usando una formula. Questo era quanto Cardano aveva letto nel libro definitivo di Pacioli sull’aritmetica, scritto nel 1494. Ma ora, dopo la notizia del successo di Tartaglia, Cardano si rese conto che risolvere 30 equazioni cubiche con una rapidità sorprendente era realizzabile solo con l’aiuto di una formula.
Quando si viene a sapere che una soluzione è possibile, e che una mente umana è riuscita a trovare una strada per insinuarsi in un luogo che sembrava impenetrabile, si pone la sfida di verificare che il percorso sia accessibile a tutti. Quasi ogni matematico è certo che, se un’altra persona riesce a escogitare qualcosa, può riuscirci anche lui. Dopo tutto, l’argomentazione matematica possiede una natura tale da risultare indipendente dalla mente che l’ha escogitata. Una volta dimostrata, essa assume una realtà oggettiva. Ma prima che quel passo decisivo sia compiuto, è diffusa la sensazione che nessuno possa riuscirci, e che ci sia qualcosa di intrinsecamente impossibile in quell’impresa.
I matematici non sopportano di dover ammettere una sconfitta. L’ultima cosa che vogliono è chiedere la risposta a un quesito che non sanno sciogliere. Cardano continuò così a cimentarsi con il problema per diversi anni, convinto com’era che, se esisteva una formula, sarebbe stato capace di scoprirla autonomamente. Ma, nel 1539, non riuscì più a resistere e gettò la spugna. Inviò a questo misterioso Tartaglia una lettera, chiedendogli di poter includere la sua formula in un libro di aritmetica che stava scrivendo. Tartaglia, però, avrebbe preferito essere dannato piuttosto che permettere a qualcun altro di diffondere la sua scoperta, e fece sapere a Cardano che intendeva pubblicare la formula egli stesso.
Ora, però, Cardano desiderava più di ogni altra cosa conoscere il segreto. Prese di nuovo contatto con Tartaglia, promettendogli che non avrebbe divulgato la formula ad anima viva. Gli spiegò che bramava solo sapere di quale misteriosa formula si trattasse. Ma di nuovo Tartaglia si rifiutò.
Cardano era esasperato. Che ragione c’era di mantenere segreta la formula? Non era forse dovere di Tartaglia condividere la sua scoperta con i colleghi matematici? Sfidò Tartaglia a un dibattito aperto. La vicenda assunse un risvolto curioso. Non vi era alcun dubbio sul fatto che Tartaglia avesse realmente fatto la scoperta: a differenza di altre rivendicazioni matematiche, il fatto stesso che egli fosse riuscito a risolvere le equazioni cubiche che gli erano state sottoposte era la prova indiscutibile che egli avesse sottomano una formula. Dunque, Tartaglia non aveva nulla da temere: invece rifiutò ancora.
Alla fine, Cardano comprese che il modo per indurre Tartaglia a svelare il suo segreto era il denaro. Gli scrisse, accennando che un ricco mecenate, il governatore di Milano, era interessato a sponsorizzare il grande matematico che aveva risolto la cubica. Se Tartaglia fosse stato disposto a venire a Milano, Cardano pensava di potergli combinare una presentazione al governatore.
Il piano funzionò. Tartaglia aveva una necessità disperata di mezzi finanziari. La modesta posizione di insegnante che ricopriva a Venezia gli era a malapena sufficiente per le spese di vitto e alloggio, così scrisse a Cardano, accettando l’offerta, e, nel marzo del 1539, si recò a Milano.
Stando al resoconto di Tartaglia, Cardano fu estremamente ospitale, ma continuò a fargli pressione affinché gli rivelasse il segreto della cubica. Tartaglia, dal canto suo, continuava a chiedere quando sarebbe stato possibile incontrare il suo ricco mecenate. Astuto calcolatore e manipolatore, Cardano aveva fatto coincidere la visita di Tartaglia con il momentaneo trasferimento del governatore nella vicina città di Vigevano. «Avremo ogni opportunità di parlare e discutere delle nostre cose fino al suo rientro in città.» Cardano iniziò così a premere su Tartaglia, chiedendogli il motivo di tutto quel mistero sulla sua formula per la risoluzione della cubica.
Quando si fa una scoperta decisiva in matematica, vi è sempre la sensazione che forse quella nuova idea possa preludere a molto di più. Tartaglia pensava che, se la formula da lui escogitata era valsa a risolvere l’equazione di terzo grado, forse la si sarebbe potuta estendere a equazioni ancora più complicate, come quelle di quarto o addirittura di quinto grado. Spiegò quindi a Cardano che non intendeva rendere pubblici i suoi risultati almeno fino a quando non fosse stato ragionevolmente certo di non essere seduto su una miniera d’oro, matematicamente parlando. In quel momento era però oberato dal lavoro di insegnante, oltre a essere occupato in una nuova traduzione di Euclide.
Cardano promise che non avrebbe mai svelato il suo segreto e spiegò di voler conoscere la formula magica solo per un proprio bisogno intellettuale. Tartaglia non gli credette. A Cardano parve quasi di impazzire: disperava di ottenere la risposta dopo avere sudato per anni senza successo nel tentativo di risolvere la cubica con le sue sole forze. Gli giurò sui Vangeli di Dio, e come vero uomo di onore, che non solo non avrebbe mai pubblicato quelle scoperte, ma le avrebbe anche annotate in modo criptico, affinché, dopo la sua morte, nessuno avrebbe potuto decifrarle. Così almeno racconta Tartaglia riguardo alla promessa fattagli da Cardano tre giorni dopo il suo arrivo a Milano.
La pazienza del matematico bresciano era ormai agli sgoccioli. Sarebbe andato a Vigevano da solo e avrebbe parlato direttamente al governatore. Ma Cardano aveva dichiarato il suo prezzo per la lettera di presentazione di cui Tartaglia avrebbe comunque avuto bisogno. Così, di fronte al giuramento solenne con il quale Cardano si impegnava a non divulgare la formula ad alcuno, e a non scriverla neppure così che nessuno la potesse scoprire dopo la sua morte, Tartaglia cedette.
«Per essere in grado di ricordare il metodo in qualsiasi circostanza imprevista, l’ho espresso con una poesia in rima.» I versi erano alquanto verbosi e criptici, ma Tartaglia spiegò che erano stati la chiave del suo successo in tutte le contese da lui vinte. Cominciò così a trascrivere le rime per l’impaziente Cardano:
Quando che ’l cubo con le cose appresso
Se agguaglia à qualche numero discreto
Trovan dui altri differenti in esso.
Dapoi terrai questo per consueto
Che ’l lor produtto sempre sia eguale
Al terzo cubo delle cose neto,
El residuo poi suo generale
Delli lor lati cubi ben sottratti
Varrà la tua cosa principale.
In tutto, la poesia consisteva di 21 versi che spiegavano come manipolare l’equazione fino a quando essa svelasse i segreti delle sue soluzioni. La poesia terminava:
Questi trovai, et non con passi tardi
Nel mille cinquecentè, quatro e trenta
Con fondamenti ben sald’è gagliardi
Nella citta dal mar’intorno centa.
Il sollievo di Cardano fu palpabile: già gli sembrava che l’arcano si dipanasse ai suoi occhi. Ma quanto più l’uno si illuminava, tanto più grande si faceva la sensazione di disagio dell’altro. Tartaglia iniziava a maledire se stesso per aver divulgato la sua grande scoperta, la formula che gli avrebbe potuto aprire la via verso le formule per tutte le equazioni. Non si fidava di Cardano. Invece di cavalcare sino a Vigevano, Tartaglia rivolse il suo cavallo verso Venezia e se ne tornò a casa. Strada facendo, sentiva la rabbia montargli. Cominciava a rendersi conto di come Cardano, adescandolo con la prospettiva di trovare un mecenate, fosse riuscito a circuirlo estorcendogli l’ambita formula. Prima di aver raggiunto Venezia, si sentiva totalmente certo che fosse solo questione di tempo prima che Cardano rompesse la promessa e pubblicasse la sua scoperta. Quando l’anno successivo furono pubblicati due nuovi libri di Cardano, Tartaglia temette che i suoi più cupi timori fossero in procinto di realizzarsi. Ma, sfogliando quei libri, non trovò nulla che accennasse alla sua soluzione della cubica. Nondimeno, colse l’opportunità per schernire il contributo di Cardano.
Quest’ultimo, nonostante il suo carattere alquanto odioso, rimase fedele alla parola data e mantenne il segreto sulla formula di Tartaglia. O quasi. Non riuscì a trattenersi dal confidarsi con il suo migliore allievo, Lodovico Ferrari. Ferrari era stato in origine servitore di Cardano, ma, quando questi si rese conto che quel ragazzo di quattordici anni sapeva leggere, lo promosse a suo segretario personale. Con il passare del tempo, Ferrari andava imbevendosi delle idee che Cardano condivideva con lui. Ora che i due passavano insieme gran parte del tempo, fu del tutto naturale che Cardano discutesse col segretario della poesia di Tartaglia.
Decifrando a poco a poco il significato dei versi, Cardano iniziò ad afferrare il metodo. Il guaio era che, quando tentava di applicarlo a certe equazioni, accadeva qualcosa di alquanto preoccupante. Talvolta, a metà della poesia di Tartaglia, si imponeva il calcolo della radice quadrata di un numero negativo. Cardano non conosceva alcun numero il cui quadrato fosse negativo, e non sapeva quindi che pesci pigliare. L’antica formula per le equazioni quadratiche, o di secondo grado, dava qualche volta radici quadrate di numeri negativi, ma quando ciò accadeva, se ne usciva affermando semplicemente che l’equazione era insolubile. Vi era qualcosa di alquanto strano nel procedimento di Tartaglia per la risoluzione della cubica. Se si ignorava il fatto di non conoscere la radice quadrata di un numero negativo, alla fine della poesia queste misteriose radici quadrate erano scomparse, dopo essersi in qualche modo annullate a vicenda, per lasciare il posto a un numero perfettamente normale che avrebbe risolto l’equazione. C’era forse della magia in quella poesia? L’aveva interpretata correttamente?
Il 4 agosto del 1539, scrisse a Tartaglia in merito allo strano problema che stava rilevando. Non è chiaro se Tartaglia sia stato o meno illuminante sulla faccenda, ma certamente colse al volo l’opportunità di depistare Cardano: «Dico in risposta che Voi non siete giunto a dominare il vero modo per risolvere problemi di questo tipo, e mi spingerei addirittura a dire che i Vostri metodi siano del tutto falsi».
Comunque, le peggiori paure di Tartaglia circa la divulgazione della sua formula erano in procinto di materializzarsi. Il giovane Ferrari, appena diciottenne, aveva scoperto come usare la soluzione della cubica per produrre una formula risolutiva per equazioni che comprendessero un termine di quarto grado x4, o equazioni quartiche. Cardano fu così impressionato dalla scoperta del giovane che si dimise dalla sua carica alla fondazione Piatti di Milano per fare posto al giovane prodigio. Il solo problema era che, data la necessità di utilizzare la soluzione di Tartaglia nel corso del procedimento, non vi era modo di rendere pubblica la scoperta di Ferrari. Pur avendo già parzialmente infranto la sua promessa nel momento in cui aveva discusso con Ferrari della formula di Tartaglia, Cardano si sentiva comunque impegnato sul proprio onore a non pubblicare nulla. Ma come avrebbe potuto negare al proprio allievo i giusti onori che questi meritava?
Cardano pensò bene di recarsi a Bologna, per chiedere al suo collega Annibale della Nave un consiglio su come affrontare il dilemma. Della Nave si rivelò la persona più giusta. Possedeva infatti un vecchio taccuino malridotto appartenuto a suo suocero Scipione del Ferro, il matematico che per primo aveva risolto una cubica e, sul letto di morte, aveva affidato la sua scoperta all’allievo Fior. Quando Cardano e Ferrari sfogliarono il taccuino, riconobbero la formula che Tartaglia aveva scoperto indipendentemente alcuni anni più tardi. Ecco la via di uscita cercata. Cardano poteva legittimamente pubblicare la formula di del Ferro senza per questo rompere la promessa fatta a Tartaglia. Nella grande opera, Ars magna, con cui finalmente comunica al mondo la soluzione per la cubica e per la quartica, Cardano esprime i dovuti riconoscimenti a Tartaglia per la sua scoperta indipendente. Ma è il contributo di del Ferro a ricevere le lodi più altisonanti: «Quest’arte sorpassa tutta la sottigliezza umana e la perspicacia del talento dei mortali ed è da considerare un vero dono del Cielo».
Non sorprende che il riconoscimento di Cardano non sia stato accolto da Tartaglia come una ricompensa sufficiente. Non aveva pubblicato nulla sulla sua scoperta della formula, e ora veniva battuto nella soluzione dell’equazione di quarto grado da un diciottenne venuto dal nulla. Era davvero intollerabile.
Nel vano tentativo di riscattarsi, Tartaglia scrisse la propria versione di tutta la storia, comprendente una sfilza di attacchi velenosi a Cardano. Avendo pestato molti calli durante le sue ambiziose scalate, Cardano era talmente abituato agli insulti che non ne rimase per nulla scosso, ma il suo giovane allievo Ferrari si sentì obbligato a difendere l’onore del maestro. Scrisse a Tartaglia con toni di scherno e lo sfidò a pubblica tenzone. Una contesa con un matematico relativamente sconosciuto non avrebbbe per nulla giovato alla reputazione di Tartaglia. Battere Cardano in un combattimento matematico in campo aperto sarebbe stato tutt’altra cosa. Tartaglia rispose allora a Ferrari, tentando di trascinare Cardano nella mischia.
Vi fu un fitto fioccare di lettere tra Venezia e Milano. Il loro contenuto fu reso pubblico, poiché entrambi tentavano di prevalere nel dibattito agli occhi dell’intera comunità dei matematici. Gli insulti erano inframmezzati da problemi di matematica, che i due si sottoponevano a vicenda a mo’ di sfida. La varietà dei quesiti posti da Ferrari a Tartaglia rivela che la sua soluzione alla quartica non era un fuoco di paglia: il giovane aveva la stoffa di un pensatore profondo e filosofico. Oltre alle equazioni cubiche, Ferrari sfidava Tartaglia a risolvere problemi di geometria «dimostrando tutto», a spiegare brani di Platone e anche a discutere del problema filosofico insito nella proposizione «l’unità è un numero».
Nonostante il suo disprezzo per Ferrari, Tartaglia non poté resistere alla sfida di risolvere problemi che gli erano stati inviati, e gradualmente si lasciò trascinare in una vasta corrispondenza. Le discussioni filosofiche su Platone e il concetto di numero furono rifiutate da Tartaglia come questioni indegne di un matematico: un atteggiamento non infrequente anche tra molti matematici moderni, disdegnosi di chi dedica il proprio tempo alla riflessione filosofica sulla loro materia. In risposta alle sfide matematiche di Ferrari, Tartaglia spesso insinuava che il rivale tentasse di estorcergli risposte a quesiti che non sapeva risolvere, nella speranza di rubare qualcun’altra delle sue idee. «È una gran vergogna proporre un tale problema in pubblico e non sapere come risolverlo.»
Ferrari rispondeva biasimando il fatto che Tartaglia omettesse la dimostrazione quando presentava le sue soluzioni: «Come un falsario, voi omettete la parte importante, in particolare ignorate quelle due parole “provando tutto”». E la riluttanza di Tartaglia a discutere di più profondi argomenti di interesse matematico era da lui bollata come caratteristica di chi «passa tutto il suo tempo su radici, quinte potenze, cubi e altri gingilli. Se stesse a me ricompensarvi, prendendo esempio dall’usanza di Alessandro, vi caricherei talmente di radici e ravanelli che non potreste più mangiare nient’altro in tutta la vostra vita».
Si arrivò al dunque quando a Tartaglia fu offerta una prestigiosa posizione all’università di Brescia, sua città natale. L’offerta era però subordinata al suo successo in un confronto pubblico con un altro matematico scelto dalla facoltà. Senza dubbio ebbe un tuffo al cuore quando ricevette una lettera che lo invitava a recarsi a Milano per competere contro Ferrari. Se voleva ottenere il lucroso incarico che da tre anni stava inseguendo, avrebbe dovuto quindi accantonare il proprio orgoglio e competere contro il pupillo di Cardano. Comunque, non credeva che Ferrari disponesse davvero di una preparazione matematica sufficiente a opporgli grande resistenza.
Il mattino del 10 agosto 1548, i due studiosi si incontrarono nei magnifici giardini di uno dei monasteri francescani di Milano. La corrispondenza pubblica che era stata scambiata nei due anni precedenti aveva fatto sì che si generasse un notevole interesse sull’esito del confronto, e i giardini erano affollati da spettatori, tra cui un buon numero di celebrità milanesi, desiderose di veder scorrere sangue matematico. Per Tartaglia, le competizioni come queste erano inviti a nozze, e contava di poter archiviare agevolmente la sfida di Ferrari. Mentre Tartaglia aveva con sé solo il fratello a sostenerlo, Ferrari era spalleggiato da un’intera folla di amici.
All’incrociare delle armi, Tartaglia iniziò a capire che Ferrari non bluffava quando diceva di conoscere le risposte a tutti i problemi che gli aveva proposto. Come fu evidente, Ferrari aveva un controllo di gran lunga maggiore delle formule per risolvere le equazioni di terzo e di quarto grado. Tartaglia si aggrappava alla poesia che aveva composto per richiamare alla mente il proprio metodo, ma Ferrari era semplicemente troppo rapido per lui. Tartaglia non trovò di meglio che sparare frecciate all’indirizzo dello sfidante, criticando i suoi metodi, nel tentativo di deconcentrarlo. Al tramonto, il bresciano si rese conto di aver perso la battaglia. Ferrari continuava a portare a segno colpi sempre più efficaci, rivelando quanto fosse superficiale la maestria di Tartaglia nella risoluzione di equazioni rispetto alla capacità del giovane di rigirare le formule a proprio vantaggio.
Quando il pubblico si ritrovò il giorno successivo per assistere alla seconda tornata di combattimento, fu informato che Tartaglia era partito per Venezia, preferendo sottrarsi alla completa umiliazione. Ferrari fu dichiarato vincitore e tempestato da offerte di impiego, tra cui la richiesta da parte dell’imperatore Carlo V (il cui nonno aveva scacciato i mori dall’Alhambra) di far da tutore a suo figlio. Ferrari preferì privilegiare il proprio tornaconto economico e divenne così assessore alle tasse del governatorato di Milano. Quanti matematici, da allora, sono stati sedotti dagli allettamenti della sicurezza borghese! Il bolognese si arricchì grazie alla sua formula per la risoluzione della quartica, ma morì a soli 43 anni dopo essere stato avvelenato con l’arsenico dalla propria sorella.
Tartaglia trascorse un anno a dare lezioni a Brescia, ma, dopo la sua ignominiosa sconfitta, l’università decise di non pagarlo, e l’offerta dell’incarico a Brescia fu revocata. Tartaglia fece fuoco e fiamme, ma, nonostante le numerose cause legali intentate, non riuscì a ottenere nulla dall’università per tutto il lavoro svolto. Umiliato e senza un quattrino, terminò i suoi giorni a Venezia.
Cardano, dal canto suo, non riuscì più a dedicarsi in modo serio alla matematica, distratto come fu da una serie di catastrofi familiari. Il suo figlio maggiore, Giambattista, aveva sposato segretamente “una donna indegna e svergognata”, interessata soltanto a estorcere quanto più denaro possibile al ricco e famoso suocero. La relazione fra i coniugi iniziò presto a deteriorarsi, e la donna prese a insultare il marito in pubblico, dichiarando l’estraneità di lui al concepimento dei loro tre figli. Giambattista non resse l’onta, e uccise la moglie avvelenandola.
Al processo per uxoricidio, il giudice disse che avrebbe risparmiato il patibolo a Giambattista se suo padre fosse riuscito a patteggiare una riconciliazione con i familiari della donna uccisa. Costoro però, avidi di denaro quanto la loro congiunta, fissarono un prezzo ben superiore a quanto Cardano fosse in grado di pagare e pertanto non riuscì a salvare il figlio, che fu torturato in prigione e poi giustiziato il 13 aprile 1560.
Inoltre il suo figlio più giovane, che aveva ereditato la passione del padre per il gioco, perse ogni suo avere e si ridusse a rubare denaro e gioielli al padre. Cardano denunciò il figlio alle autorità e lo fece esiliare.
Nella propria autobiografia, De vita propria, Cardano scrisse che le quattro grandi tragedie della sua vita erano state: il suo matrimonio, la tragica morte del figlio maggiore, lo spregevole comportamento del figlio minore e infine la prigionia. La quarta tragedia si riferisce al tempo passato nelle carceri dell’Inquisizione, verso la fine della sua vita, con l’accusa di eresia. Aveva deliberatamente offeso la Chiesa nel tentativo di conquistarsi un posto nella storia, scrivendo un libro che lodava Nerone per avere tormentato i martiri, e osando compliare un oroscopo di Gesù. Ad assicurargli fama postuma non fu però la blasfemia, bensì il suo ruolo nella storia della risoluzione delle equazioni. Cardano morì il 21 settembre 1576. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi di suicidio, non tanto per la disperazione indotta dalle pene sofferte, quanto per comprovare una sua predizione astrologica fatta alcuni anni prima sulla data del proprio trapasso.
12 dicembre, Max Planck Institut
Fritz e io abbiamo passato la settimana a cercare di capire come contare quanti oggetti simmetrici possono essere costruiti con un numero di simmetrie pari alla potenza di un numero primo. La lezione che ho imparato dalla scoperta che avevo fatto qui a Bonn è che il numero di oggetti simmetrici poteva dipendere dalla risoluzione di un problema di tipo completamente differente da quello originale. Tale cifra potrebbe di fatto equivalere al numero di modi in cui è possibile risolvere un certo insieme di equazioni. La domanda che si pone ora è: qual è la natura delle equazioni che dovremo risolvere? Saranno insolite, come la selvaggia curva ellittica al cuore della mia scoperta di Bonn? O saranno semplici, come le equazioni con cui erano alle prese Cardano e Tartaglia?
Fritz e io abbiamo tentato di analizzare il tipo di equazioni che potrebbe scaturire dal conteggio di tutti questi gruppi di simmetrie. Il guaio è che la cosa ha iniziato a espandersi, fino a diventare un vasto problema che possiamo appena sperare di controllare. Mi sento come se avessi raccolto un sasso che improvvisamente si è trasformato, fino a raggiungere le dimensioni di una montagna.
Alla fine di ogni giornata sono esausto e ho mal di testa. Abbiamo trovato un modo per scomporre il problema in piccoli pezzi, così che il computer possa incaricarsi di fare qualche esperimento per noi. Mi piace quando si arriva a questa fase. Di rado mi capita di usare il computer nel mio lavoro, ma quando lo faccio, assaporo il gusto della scienza sperimentale. Vi è un gran lavoro nell’allestire un esperimento, ma poi il computer si incaricherà di tutti i calcoli ripetitivi. E otterremo alcune risposte! Anziché romperci la testa contro una lavagna, tentando di trovare un percorso astratto per addentrarci in questo mondo, possiamo lanciarci in piccole incursioni esplorative per valutare l’aspetto del terreno. La grande teoria che in definitiva stiamo inseguendo sarà come la comprensione dell’intera geografia di un territorio, senza averne mai visitato neppure un angolo. Questo esercizio sul computer, d’altro canto, è come una ricognizione di ciò che possiamo scorgere intorno a noi. Sarà importante che il responso non sia un’enorme quantità di dati casuali, senza alcuna regolarità riconoscibile.
È un sollievo potersi prendere un po’ di tempo, in attesa che il computer produca qualche risposta che ci possa guidare. Scendiamo nella piazza sottostante a sorseggiare un caffè mentre il computer rimane lì a macinare i suoi calcoli. Si avvicina il Natale, e nell’aria c’è un forte odore di Glühwein proveniente dai mercatini natalizi sparsi per la città. Per la verità, il periodo che prediligo per venire a Bonn è il carnevale, quando i tedeschi, solitamente compassati, indossano pazzi costumi per lanciarsi in una settimana di follia. Sono stato qui l’anno scorso durante la settimana di carnevale: nessuno sembrava divertirsi particolarmente, ma tutti erano seriamente intenzionati a ubriacarsi il più possibile. Si vedevano cinquantenni fermi ai chioschi a gustarsi salsicce, nel loro costume da cane o da coccinella.
Quando torniamo in ufficio per vedere che cosa abbia combinato il computer, ci rendiamo conto di avergli chiesto un po’ troppo. Ha esaurito la memoria disponibile. Ora siamo davvero soli nella giungla matematica.
Quando incontro delle difficoltà, cerco di infondermi coraggio ricordando che proprio i momenti di completa confusione sono stati improvvisamente rischiarati da un’idea. Proprio come accadde quella irripetibile sera a Bonn mentre tentavo di telefonare a Shani.
Da Bonn, decido di fare una visita a un’altra delle mie cittadine tedesche preferite: Gottinga. Questo villaggio da fiaba era una sorta di Mecca per i matematici del XIX secolo, ed è il luogo che ha dato i natali a due dei miei eroi della matematica: Gauss e Riemann. Ho trascorso il pomeriggio con un amico nel cimitero locale. Lo avrei definito un modo piuttosto macabro di passare il tempo, quando me lo ha proposto, invece si è rivelato un affascinante pellegrinaggio scientifico.
Molti dei più grandi scienziati di Gottinga sono sepolti in questo camposanto. Oltre ai nomi e alle date, le lapidi mostrano spesso l’equazione che rese celebre quel nome inciso sul marmo. È stato in occasione di questa visita che ho scelto l’epitaffio della mia pietra tombale. Non sto dicendo naturalmente che l’intuizione che ebbi quella sera nell’ufficio di Bonn sia destinata a scuotere il mondo, ma solo che, se mai qualcosa dovrà essere inciso sulla mia lapide, vorrei proprio che fosse l’equazione che definisce la mia scoperta:
6
Gennaio: impossibilità
Elimina tutti gli altri fattori, e quello che rimane deve essere la verità.
Sherlock Holmes, Il segno dei quattro
23 gennaio, Oxford
Devo il mio matrimonio con Shani al fatto di sapere qualcosa sui palindromi. Quando ero in cerca di un appartamento a Gerusalemme, come giovane studente di post-dottorato, nessuno era disposto a ospitarmi perché non ero ebreo. Continuai a cercare per settimane. Finalmente ebbi un colpo di fortuna quando una donna sporse la testa da dietro la porta a cui avevo bussato, mi squadrò da capo a piedi e abbaiò: «Mi sai dire che cos’è un palindromo?». Se proprio uno non è ebreo, che sia per lo meno un intellettuale… Superai il rito di iniziazione e mi aggiudicai la camera rimasta. La mia compagna di appartamento divenne mia moglie.
La prima volta in cui uscimmo insieme fu una specie di battesimo del fuoco per entrambi. La sua amica aveva appena partorito un bel maschietto, e Shani decise di portarmi alla sua cerimonia di brit-milah, altrimenti detta circoncisione. Sedevamo in circolo, addentando cosce di pollo mentre il padre e il nonno immobilizzavano il neonato sul tavolo e il mohel ne incideva il prepuzio. Per tentare di scacciare dalla mia mente quelle immagini per me angoscianti, trascorsi il resto della serata spiegando a Shani i rituali della mia religione. E, quando cercai di iniziarla ai segreti della simmetria, sul tavolo fu un roteare di posaceneri e di bicchieri.
Shani è tornata in Israele questa settimana per un’altra circoncisione. Questa volta ho deciso di non seguirla, e sono fuggito a Oxford per immergermi totalmente nella matematica. Dopo la brillante intuizione di Bonn dello scorso mese, non sono seguiti molti progressi e ho pertanto deciso di guardare il problema da un punto di vista completamente diverso. È mia abitudine dedicarmi a più di un problema contemporaneamente. Talvolta un cambio di prospettiva mi è di aiuto quando ritorno sulla questione precedente. In occasione della mia prima visita in Israele, 15 anni fa, i palindromi non solo mi fecero trovare un alloggio, ma iniziarono a comparire anche nelle funzioni zeta che stavo studiando.
Ogni gruppo di simmetrie ha una funzione zeta associata. Quest’ultima può essenzialmente essere descritta da una formula. In casi particolari, quando il gruppo di simmetrie non è eccessivamente complicato, posso effettivamente calcolare la formula per la funzione zeta di quel gruppo particolare. La cosa bizzarra che ho notato tornando in Israele è che, ogni volta che eseguivo uno di questi calcoli, sembrava sempre saltar fuori una formula con una simmetria palindromica piuttosto elegante. Per esempio, ottenevo una formula con l’aspetto di questa:
Se prendo tutti i coefficienti che compaiono in questa equazione, ottengo una bella disposizione simmetrica:
Come le parole, quindi, anche le equazioni possono dar luogo a dei palindromi.
Con il passare del tempo, le evidenze si facevano sempre più chiare. Ogni volta che qualcuno prendeva un nuovo gruppo di simmetrie e riusciva a calcolarne la funzione zeta, la formula risultante aveva ancora questa simmetria palindromica, ciò che i matematici chiamano equazione funzionale. Non riuscivo a scorgere alcuna ragione del perché partire con un oggetto pieno di simmetria dovesse costringere la funzione zeta risultante ad avere questa simmetria palindromica. Sembrava che non ci fosse nulla di sbagliato, ma cercavo di giungere a una dimostrazione. Come potevo essere sicuro che prendendo in considerazione un nuovo esempio questa simmetria non sarebbe scomparsa? Forse stavo semplicemente osservando esempi con una struttura speciale. Il guaio della matematica è che l’evidenza può essere spesso assai fuorviante. Quello che parrebbe essere un andamento molto regolare può svanire all’improvviso davanti agli occhi. Ecco perché i matematici sono così ostinati con le dimostrazioni. Per le altre scienze, l’evidenza è sovrana. Ma i matematici ripongono la loro fiducia solo in una dimostrazione.
Dalla mia prima visita a Gerusalemme, ho fatto molti tentativi per dimostrare come questa simmetria palindromica sia sempre presente. Il palindromo in sé e per sé non è importante. Per me questo andamento così armonioso è più che altro un segnale che accenna a una profonda struttura soggiacente, responsabile della simmetria palindromica. La mia speranza era che questo segnale potesse guidarmi alla scoperta di un’ampia panoramica della struttura che si stava manifestando attraverso questo palindromo. Negli anni successivi, però, mi resi conto che l’affiorare di questa simmetria palindromica poteva dipendere dal fatto di avere inconsapevolmente scelto esempi particolari.
Improvvisamente, con la scoperta del mio nuovo gruppo di simmetrie a Bonn, era possibile che la simmetria palindromica potesse scomparire. Dopo tutto, essa aveva completamente cambiato la mia prospettiva sulla congettura PORC. Forse era abbastanza «malvagia» da distruggere la mia congettura palindromica. Ma mi aspettava una sopresa.
Un anno dopo la mia scoperta di questo nuovo gruppo di simmetrie, Christopher, uno dei miei dottorandi, mi inviò un’e-mail, in cui trapelava tutta la sua eccitazione, per chiedermi se poteva venire a Londra a mostrarmi qualcosa. I miei studenti di dottorato hanno imparato che il posto migliore per avere la mia completa attenzione è casa mia. Tuttavia, ciò che Christopher voleva farmi vedere quel giorno avrebbe catturato la mia attenzione in qualsiasi contesto. Aveva eseguito un calcolo completo della funzione zeta del mio gruppo di simmetria di curva ellittica. La mia analisi aveva scavato un tunnel che collegava il mondo delle simmetrie a quello delle curve ellittiche. Christopher aveva raccolto la sfida e aveva fatto un calcolo completo.
Avrebbe rispettato la simmetria palindromica? Guardando il calcolo di Christopher, sembrava che ci fosse qualcosa di sbagliato. I numeri non corrispondevano del tutto: quasi, ma non del tutto. Ma poi notammo che una parte dell’equazione aveva attinenza con la curva ellittica. Non avevamo incluso tra i fattori questo elemento. Mi precipitai al piano di sopra a prendere un trattato su queste equazioni speciali. Sfogliando quel libro giallo, trovai presto ciò che cercavo. Anche queste curve ellittiche hanno funzioni zeta con una simmetria palindromica. Quando mettemmo insieme le cose, all’improvviso e come per magia, i calcoli di Christopher quadrarono perfettamente. Il palindromo era ancora lì!
Fu un momento davvero emozionante. Provavo una sorta di orgoglio paterno per il risultato ottenuto da Christopher ed ero commosso nel vedere in lui l’ebbrezza che gli aveva procurato quella sua prima scoperta. Ma ciò che più mi esaltava era sapere che, se il mio bizzarro esempio di curva ellittica aveva ancora questa simmetria palindromica, allora vi erano nuove speranze che la mia congettura palindromica potesse ancora essere vera. Mi sarei aspettato che il calcolo di Christopher distruggesse la congettura, invece aveva finito con il confermarla. Questo nuovo risultato mi spronò a cercare di comprendere meglio l’importanza di questa simmetria e a continuare il lavoro per dimostrare la mia congettura palindromica.
Quel giorno fu memorabile anche per un’altra terribile ragione. Shani mi telefonò pochi minuti dopo la nostra scoperta del nuovo palindromo e disse di accendere immediatamente il televisore. Due aerei di linea si erano appena lanciati contro le Torri Gemelle di New York. La data era l’11 settembre 2001. Christopher e io nelle ore successive non facemmo altro che rimanere davanti al televisore.
Nei giorni successivi tornai a una descrizione teorica della formula di una funzione zeta che Fritz e io avevamo scoperto alcuni anni prima. Ero convinto che il segreto della simmetria palindromica fosse nascosto da qualche parte all’interno di questa formula, ma ancora non mi era chiaro perché essa producesse sempre tale simmetria nella funzione zeta. Iniziai a riempire un numero imprecisato di bloc-notes gialli, mutando gli elementi della formula, riscrivendola in modi diversi, tentando di trovare il modo per modificarla fino a che non fosse possibile scorgere la simmetria. La formula è come il cubo di Rubik. Continuai a manipolarla, ruotando i lati del cubo, nella speranza che, all’improvviso, tutti i colori avrebbero trovato corrispondenza per rivelare quell’andamento regolare della cui esistenza ero convinto. Ma non accadde nulla.
Poche settimane dopo la scoperta di Christopher, telefonai a Fritz, a Bonn. Avevo mandato Christopher al Max Planck Institut perché mostrasse il suo lavoro a Fritz. Mi sentii rispondere: «Penso che Christopher e io dovremmo essere in grado di dimostrare l’equazione funzionale entro la prossima settimana». Ricordo di aver provato un senso di panico. Avrei dovuto essere felice, ma mi sentivo distrutto. Era quello che io avrei voluto dimostrare. Sapevo che poteva essere un errore condividere le mie idee, ma lo avevo fatto perché pensavo di dover coltivare un atteggiamento altruistico e mirare innanzitutto al progresso della disciplina. Ma ora, non riuscivo a sopportare l’idea che la dimostrazione potesse essere formulata da qualcun altro. Ero stato messo da parte così presto? Volevo immediatamente saltare su un aereo. Mi sentivo come Tartaglia che, lasciatosi sfuggire il suo segreto per la risoluzione delle cubiche, vide il giovane Ferrari risolvere con abilità e rapidamente la quartica.
Quando Christopher tornò da Bonn, capii che il loro iniziale ottimismo era stato deluso. Mi secca ammetterlo, ma trassi un respiro di sollievo: ero ancora in gioco. Quando ne parlai ad alcuni colleghi, li vidi ridere nervosamente: mi comprendevano perfettamente. Vi è uno strano antagonismo tra l’orgoglio per i propri allievi e il timore che ti possano superare.
Pochi anni dopo le cose presero un’altra svolta inattesa. Avevo stabilito di incontrare il mio studente di post-dottorato Luke nel mio ufficio a Oxford. Luke è un mago della programmazione. Ha escogitato un modo per far sì che il computer esplori un gruppo infinito di simmetrie e, se è abbastanza semplice, il computer scopre gli elementi necessari per calcolare la formula della funzione zeta. I calcoli che ha elaborato hanno spinto i nostri esempi ben oltre ciò che sarebbe stato possibile calcolare a mano. Tuttavia le operazioni non sono del tutto automatizzate, pertanto Luke deve guidare il computer durante il procedimento.
Luke iniziò a illustrarmi alcuni dei suoi ultimi calcoli. Aveva una pila di carte con elaborate equazioni che, in qualche caso, si estendevano per diverse pagine. Nonostante le loro dimensioni, continuavano invariabilmente a mostrare la simmetria palindromica: a metà dell’equazione, i coefficienti iniziavano a ripetersi in ordine inverso. Avevamo quasi finito quando ecco che Luke estrasse un foglio dal fondo del plico. «Oh, e poi ho trovato questo esempio.» Guardai l’equazione. Arrivato a metà, vidi che, invece di invertirsi, cominciava ad apparire uno schema completamente diverso.
Per anni avevo tentato di dimostrare la simmetria palindromica e ora questo esempio mandava la mia congettura in frantumi. L’equazione non era un palindromo. Mi dovevo scontrare con la dura realtà: il computer non è molto bravo a dimostrare teoremi, ma sa essere molto efficace nello smentire le ipotesi.
Capivo ora perché Luke sembrava così nervoso quando si era seduto. In parte era eccitato per aver fatto una scoperta così importante; in parte si stava chiedendo come avrei reagito nel rendermi conto di avere inseguito un fantasma negli ultimi 10 anni. Questo era un colpo di gran lunga più duro di quello che avrei ricevuto se qualcuno fosse riuscito a dimostrare la mia congettura davanti ai miei occhi.
Non potevo far altro che ingoiare il rospo. Queste sono le carte che la sorte mi ha offerto. Posso cercare di giocare al meglio, ma non posso cambiarle. Vi è qualcosa di crudelmente inesorabile nella logica matematica. Questa simmetria era così bella da convincermi che fosse anche vera, ma la logica mi dimostrava il contrario. I matematici si lasciano condurre nel loro lavoro anche da un forte senso dell’estetica, e il percorso corretto da seguire è spesso anche il più bello. E così come simmetria in Natura vuol dire significato, avevo provato la reale sensazione che questa simmetria palindromica dovesse contenere il messaggio di una qualche struttura interna che faceva palpitare la mia funzione zeta.
Questo non significa che non vi siano molti gruppi di simmetria che hanno funzioni zeta con questa simmetria palindromica. Ma ora la domanda importante è: perché alcuni gruppi di simmetria danno origine a palindromi mentre altri, come quello di Luke, non lo fanno?
L’esempio di Luke mi induce anche a una riflessione su quanto potere stanno conquistando i computer nell’ambito della ricerca matematica. La scorsa settimana, i giornali hanno pubblicato la notizia della scoperta di un nuovo numero primo costituito da oltre nove milioni di cifre: solo la potenza di calcolo del computer può darci accesso a numeri così grandi e generare molti più dati di quanto potessimo sperare in passato. Disponendo di un tempo enorme, forse, avrei potuto svolgere manualmente i procedimenti del calcolo dell’esempio di Luke. Ma avrei probabilmente commesso degli errori e, senza dubbio avrei avuto il sospetto di uno sbaglio una volta riscontrato che la risposta non aveva la simmetria palindromica. In passato mi era capitato spesso di usare questo procedimento per il controllo di un errore. Era molto efficace. Una volta ottenuta la simmetria sapevo che il calcolo era probabilmente corretto, perché la simmetria è ben difficile da trovare per caso.
Ma, come ho potuto scoprire il mese scorso a Bonn, vi sono limiti anche alle capacità del computer. Luke dice che sta raggiungendo il limite degli esempi che il computer può gestire. Oltre questo si trova una distesa infinita di territorio inesplorato, che sarà navigabile solo dalla mente umana.
L’esempio di Luke sarà per me un perenne monito per affrontare qualsiasi problema con mente aperta. Il gruppo di simmetrie di Luke rivelò quel giorno una nuova sottigliezza nella teoria della simmetria. Le cose non sono monocromatiche ed esiste una trama di cui eravamo inconsapevoli. Non abbiamo ancora battezzato questo fenomeno, ma certamente merita un nome. Forse dovremmo chiamare i gruppi di simmetrie le cui funzioni zeta hanno questa simmetria con il nome di «gruppi palindromici».
Nel mio ufficio, quel giorno, fui testimone di un nuovo inizio: l’oggetto dei miei studi era cambiato, e per descrivere questa nuova visione si rendeva necessario un ulteriore sviluppo nel linguaggio. Luke tornerà stamattina, così guarderemo insieme quali altre sorprese ci riservano le sue esplorazioni al computer.
Una delle cose più eccitanti del mestiere di un matematico è che, in qualunque momento, può piombare nell’ufficio uno studente, oppure giungere sulla scrivania una lettera spedita da qualche remoto angolo del globo, con una scoperta che improvvisamente cambia le caratteristiche di ciò che si stava studiando fino a un momento prima. Sorprese erano in serbo per i matematici che avevano raccolto il testimone da Tartaglia, Cardano e Ferrari e tentavano in ogni modo di escogitare una formula per risolvere le equazioni di quinto grado. E queste sorprese vennero da una fonte alquanto imprevedibile.
Un primo sguardo oltre lo Stretto di Magellano
All’inizio del XIX secolo, la Norvegia era isolata dal resto del mondo. Gli inverni spesso causavano il congelamento dell’acqua tra i fiordi, impedendo l’accesso al Paese, ma nel 1807 la Norvegia stava anche soffrendo le conseguenze dell’isolamento politico. Gli inglesi avevano lanciato un attacco preventivo nei confronti della flotta danese, temendo che potesse allearsi con Napoleone e sferrare un’invasione della Gran Bretagna dal mare. La Norvegia all’epoca era sotto il controllo danese, e l’Inghilterra, bloccando l’economia norvegese, in realtà desiderava punire i danesi. La principale esportazione del Paese era quella di legname verso la Gran Bretagna. Il blocco privò l’economia di fondi vitali. Ma, cosa ancora peggiore, la gente iniziò a morire di fame, dal momento che gli approvvigionamenti di grano dalla Danimarca erano stati interrotti.
Nonostante l’isolamento politico e le agitazioni che questo Paese stava soffrendo, un giovane matematico norvegese riuscì a rompere un altro tipo di blocco: quello intellettuale, che stava impedendo ai matematici europei di dare seguito ai progressi sulla risoluzione delle equazioni, compiuti dai matematici del Rinascimento 250 anni prima. Con scarsi contatti oltre ai pochissimi libri filtrati attravero il cordone che isolava la Norvegia, Niels Abel riuscì a risolvere un problema che secoli di lavoro dei più eminenti matematici di Francia, Italia o Germania non erano riusciti a scardinare.
L’interesse di Abel per la scienza era scoccato come una scintilla quando suo padre lo aveva svegliato improvvisamente nel cuore della notte per fargli osservare un’eclissi di luna. Le stelle entusiasmarono il piccolo Abel, mentre la matematica non sembrò inizialmente ispirarlo per nulla. Ma ciò era dovuto al fatto che il suo maestro di scuola ricorreva alle punizioni fisiche affinché i suoi alunni imparassero a memoria le tabelline. In un’occasione, il maestro ebbe la mano così pesante che uno dei bambini morì in seguito alle percosse. Espulso dalla scuola, l’insegnante fu sostituito da un giovane matematico, Berndt Holmboe.
Holmboe era al corrente dei nuovi eccitanti sviluppi che la materia stava avendo in Europa. I suoi racconti di grandi scoperte ed eccezionali sfide intellettuali trasformarono l’interesse di Abel per quella materia, tanto da indurlo a leggere alcune delle grandi opere di Eulero e Newton. Meno di un anno dopo l’arrivo di Holmboe, Abel aveva già compiuto passi da gigante nell’apprendimento della disciplina.
La fine degli studi superiori coincise con la tragica morte di suo padre, stroncato da anni di abusi etilici. Il padre aveva cominciato a cercare rifugio nell’alcol dopo aver subìto un’umiliante destituzione da un’alta carica politica, per aver rivolto false accuse contro un avversario. Il diciottenne Niels si ritrovò a badare a nove fratellini e alla madre, anch’essa alcolizzata e segnata dall’esclusione sociale per essere stata sorpresa a letto con un amante il pomeriggio stesso del funerale del marito.
Il mentore di Abel, Holmboe, si impegnò affinché il talento matematico di Niels non andasse sprecato e attinse alle proprie magre finanze perché il giovane potesse frequentare l’università appena aperta nella capitale norvegese. Abel non desiderava altro che poter sfuggire alle pressioni della sua vita familiare per immergersi nel mondo della matematica, così sgombro di emozioni. Uno dei grandi problemi irrisolti che lo affascinava in modo particolare era la scoperta di una formula che permettesse di risolvere un’equazione di quinto grado. Aveva letto le storie legate alle scoperte compiute da Tartaglia, Cardano e Ferrari. Queste formule sembravano quasi magiche per la loro capacità di produrre i numeri in grado di risolvere qualsiasi equazione cubica o quartica. Abel era determinato ad aggiungere il proprio nome alla lista dei grandi matematici che avevano svelato i segreti di quelle equazioni: il suo obiettivo era trovare la formula per la risoluzione dell’equazione di quinto grado, o quintica.
Era il tipo di problema con cui amavano cimentarsi anche i matematici dilettanti più ingenui. Un matematico tedesco, Walther von Tschirnhaus, pensò di aver risolto la quintica nel 1683, ma il suo compatriota e rivale di Newton, Leibniz, aveva individuato alcuni errori nell’analisi. Come scrisse un commentatore del XVII secolo, Jean Étienne Montucla: «Le macchine da guerra sono ormai a ridosso delle mura, ma, chiuso nella sua ultima ridotta, il problema si difende disperatamente. Chi sarà il fortunato genio che guiderà l’ultimo assalto e lo costringerà a capitolare?».
A quei tempi, la risoluzione della quintica aveva un fascino paragonabile a quello della dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat (problema che anche Abel aveva tentato di affrontare) o dell’enigma dei numeri primi: i due problemi che contano il maggior numero di tentativi da parte di matematici dilettanti. Così come oggi a me capita di ricevere diverse lettere alla settimana con una teoria sull’origine dei numeri primi, succedeva a quei tempi che i matematici professionisti delle principali accademie di tutta Europa ricevessero regolarmente missive da parte di persone che sostenevano di avere risolto i segreti dell’equazione di quinto grado. Dopo alcuni mesi passati ad affrontare la quintica, Abel andò da Holmboe con una formula che riteneva avrebbe risolto il più grande problema dell’epoca. Holmboe rimase strabiliato all’annuncio, ma non era in grado di verificare se la formula compisse davvero il miracolo che Abel sosteneva. La inviarono allora al matematico danese Ferdinand Degen, perché fosse pubblicata dalla Società Reale di Copenhagen.
Degen scrisse una lettera in risposta, chiedendo di vedere la formula applicata a un esempio. Stando a quanto Abel sosteneva, la formula avrebbe dovuto risolvere qualsiasi equazione contenente x5. Ma quando Abel tentò di mostrare come potesse essere usata la sua formula per trovare le soluzioni di una particolare quintica, si rese conto all’improvviso che vi era una falla nei suoi procedimenti. Degen aveva visto la stessa falla, ma, molto generosamente, aveva lasciato che fosse Abel ad accorgersene da solo. Degen ovviamente aveva riconosciuto il talento in Abel e aveva anche proposto al giovane matematico alcuni interessanti problemi con cui cimentarsi, insinuando che forse egli avesse le capacità per «scoprire uno Stretto di Magellano tale da condurre alle vaste distese di un tremendo oceano analitico».
Il riconoscimento dei limiti della formula produsse in Abel un effetto straordinario. Lo smacco di vedere la sua grande scoperta sgretolarsi davanti ai suoi occhi, gli fece acquisire una più profonda conoscenza riguardo alle sottigliezze dell’equazione quintica e mutare completamente la prospettiva da cui affrontare il problema. Cominciò a chiedersi in che modo dimostrare che non esisteva una formula capace di risolvere queste equazioni. Quasi come un rito di iniziazione, questa sconfitta segnò la metamorfosi di Abel da dilettante di talento a matematico destinato a essere riconosciuto come uno dei più grandi del suo tempo. Ma quel riconoscimento doveva ancora essere guadagnato sul campo, e sarebbe costato ad Abel un prezzo altissimo.
Grazie a una borsa di studio conferitagli dall’università, Abel ebbe l’opportunità di recarsi a Copenhagen dove incontrò Degen ed ebbe la possibilità di confrontarsi con lui sui suoi lavori di matematica. Si rendeva conto che la Norvegia era troppo isolata e del tutto priva degli stimoli intellettuali di cui egli aveva bisogno per portare a sviluppo le proprie idee. In realtà, nemmeno Copenhagen offriva di meglio, ma la sua visita alla capitale danese fu comunque fruttuosa: lì conobbe la giovane Christine Kemp, di cui si innamorò. Abel così la descrisse a un amico: «Non si può dire che sia bella; ha i capelli rossi e le lentiggini, ma è una donna mirabile». Abel, considerate le sue precarie condizioni economiche, sapeva di non poterle offrire una vita agiata, ma le giurò che sarebbe tornato per sposarla non appena avesse ottenuto l’agognata docenza in Norvegia e fosse riuscito a rendere la propria posizione un poco più solida. La ragazza promise che lo avrebbe aspettato.
Spronato dalle gioie che il futuro poteva avere in serbo per lui, dedicò i suoi sforzi a cercare di capire come mai le equazioni quintiche sembrassero così irrisolvibili.
Bando alle torture mentali
All’epoca, i matematici avevano iniziato a comprendere i numeri che Cardano aveva liquidato come pure torture mentali. Le radici quadrate di numeri negativi che erano comparse nei calcoli del matematico non erano «così astruse da essere inutili» come Cardano aveva pensato che fossero. Agli inizi del XIX secolo, questi «numeri immaginari», come Cartesio li chiamò per primo, erano ormai stati accettati come parte integrante del mondo della matematica. Gli studiosi si rendevano conto che questi numeri erano sempre stati presenti, e che ora si trattava di scoprirne i segreti. Iniziava a farsi strada l’ipotesi che il mondo della simmetria potesse essere intimamente connesso alla risoluzione di equazioni.
La storia della matematica mostra i modi in cui le differenti culture hanno combattuto con l’idea di nuovi numeri. Il concetto di numero intero per noi è assolutamente intuitivo. I nostri cervelli sembrano configurati per identificare 1, 2, 3… Non a caso i matematici chiamano questi numeri con il nome di «numeri naturali», in virtù del posto fondamentale che rivestono nel mondo naturale. La capacità di riconoscere la duplicità di qualcosa come differente dalla triplicità ci ha indotti a introdurre nel linguaggio matematico una serie di notazioni e simboli in grado di esprimere questa differenza.
Il fatto che ci si sia evoluti in modo da riconoscere il concetto di numeri interi può essere probabilmente ricondotto al principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto. La ricerca ha dimostrato che gli animali non solo sono capaci di confrontare, ma sanno anche contare. Scimmie, gatti e cani contano i loro piccoli per controllare che ci siano tutti; le folaghe si accorgono che il numero delle uova nel loro nido è aumentato, e comprendono che qualche altro animale ha aggiunto un uovo clandestino. Anche i cani sembrano capaci di subodorare che qualcosa non va, quando gli scienziati tentano di indurli a credere che 1 + 1 = 3.
A partire da queste basi numeriche, gli esseri umani hanno mostrato come si possano ricavare nuovi numeri a partire dai semplici 1, 2, 3, … Ogni nuova tipologia di numero, come i numeri negativi o i numeri irrazionali, sembrava a prima vista del tutto innaturale, e spesso ci vollero generazioni di scienziati per prenderli in seria considerazione e accettarli. Ma gradualmente, via via che venivano prodotte immagini di questi numeri, o regole ed equazioni capaci di manipolarli, emergeva un linguaggio che permetteva alla generazione successiva di parlare con confidenza di queste scoperte. I primi che tentarono di risolvere le equazioni quadratiche si complicarono non poco la vita, dal momento che i numeri negativi non facevano ancor parte del loro lessico.
Il problema della risoluzione di equazioni condusse alla scoperta di molti nuovi numeri. I numeri negativi sorsero come soluzioni a equazioni del tipo: si trovi x tale che x + 3 = 1. Le frazioni ci aiutano a dividere numeri che non si dividono naturalmente: per esempio il problema di dividere 7 pagnotte fra 3 persone, espresso dall’equazione 3x = 7, impone la creazione di un linguaggio che ci consenta di parlare di 1/3 di pagnotta.
Pitagora e i suoi seguaci avevano creduto che tutti i problemi della matematica potessero essere risolti usando numeri interi e le frazioni che dai numeri interi potevano essere create. Fu pertanto una sorta di trauma per loro accorgersi che la lunghezza dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo isoscele, con i due cateti di lunghezza unitaria, non poteva essere espressa sotto forma di frazione. Il teorema di Pitagora sui triangoli implicava che la lunghezza fosse un numero il cui quadrato è 2 (figura 6.1). Di quale numero si tratta?
Se si considera la frazione 7/5, allora il suo quadrato è abbastanza vicino a 2, ma 707/500 al quadrato ci va ancora più vicino. Per quanto si potessero trovare numeri sempre più grandi il cui rapporto fosse sempre più vicino alla lunghezza del lato del triangolo, i pitagorici dimostrarono che le frazioni non potevano esprimere quella lunghezza in modo esatto.
Figura 6.1: Un triangolo il cui lato maggiore (ipotenusa) misura la radice quadrata di 2.
La radice quadrata di 2 e gli altri numeri che non possono essere espressi come frazioni sono chiamati «numeri irrazionali», ossia numeri che non possono essere espressi come rapporto (ratio) tra numeri interi. Altri numeri irrazionali affiorarono dalle equazioni di Tartaglia. Questi aveva la necessità di estrarre radici cubiche di numeri per risolvere equazioni come x3 = 2. La radice cubica di 2 è la lunghezza del lato di un cubo che racchiude un volume pari a 2.
Ma fu con qualche disagio che i matematici iniziarono ad accettare numeri come la radice quinta di 2. Era meno chiaro quale significato geometrico potesse avere un numero del genere: sembrava richiedere uno sforzo di immaginazione per visualizzare scatole in 5 dimensioni. Omar Khayyam aveva scartato numeri di questo tipo ritenendoli privi di significato. Tuttavia, prendendo progressivamente le distanze dal preconcetto geometrico che aveva caratterizzato la matematica dell’antichità, gli studiosi iniziarono a rendersi conto che, elevando 11.487/10.000 alla quinta potenza, si andava molto vicino al numero naturale 2.
Lo studio delle lunghezze di oggetti geometrici produsse altri nuovi numeri. Si prenda una corda di una certa lunghezza, fissandone un’estremità al pavimento e attaccando una penna all’altra estremità. Si disegni poi un cerchio sul pavimento. Prendendo come unitaria la lunghezza della corda (e quindi il raggio del cerchio), quanto misurerà la superficie racchiusa dal percorso compiuto dalla penna? Questo è un numero così importante che i matematici gli attribuiscono un simbolo speciale: π. E per quanto i matematici, fin dai tempi degli antichi egizi, abbiano tentato in ogni modo di scrivere questo numero, si dovette aspettare il 1761 per avere la dimostrazione che questa lunghezza non poteva essere rappresentata come una frazione.
Anzi, nel 1882 fu mostrato che π era ancora più misterioso di quanto si pensasse. Era un numero che non poteva essere ricavato neppure come la soluzione a una delle equazioni che Cardano e gli altri studiosi si dedicavano a risolvere. I numeri che non possono essere espressi come soluzione a equazioni furono battezzati da Leibniz «numeri trascendenti», a causa del loro carattere elusivo.
Nonostante la natura sfuggente dei numeri irrazionali e trascendenti, i matematici iniziarono a costruirsi un’immagine in cui collocare tutti questi numeri: frazioni, numeri irrazionali come la radice quinta di 2 e importanti costanti come π potevano tutti essere pensati come punti giacenti su una linea, che oggi chiamiamo «retta dei numeri». La realtà fisica delle frazioni, dei numeri irrazionali e di quelli trascendenti contribuì a far sì che i matematici chiamassero l’insieme di tutti questi numeri con il nome di «numeri reali».
Il problema si pose quando gli studiosi tentarono di dare un senso alla risoluzione di x2 = -1. Gli indiani avevano insegnato ai matematici che un numero negativo elevato al quadrato dà un numero positivo. Non sembrava esistere alcun numero sulla retta dei numeri in grado di risolvere questa equazione. Si era perciò a un bivio: o dichiarare che queste equazioni non potevano essere risolte oppure, opzione più audace e ottimistica, inventare nuovi numeri per risolvere queste equazioni.
Da quando Cardano aveva avuto la necessità di estrarre radici quadrate di numeri negativi, i matematici si erano spinti sempre più vicini all’audace passo di ammettere questi nuovi numeri nel canone matematico. Il guaio era che ciò avrebbe messo in circolazione un’eccessiva quantità di nuovi numeri. Per esempio, che cosa accadrebbe se volessimo trovare un numero la cui quarta potenza sia -1? Ciò richiederebbe forse l’invenzione di un altro numero?
La sorprendente congettura che i matematici avevano avanzato nel XVII secolo era che la semplice ammissione di un nuovo numero per risolvere x2 = -1 sarebbe stata sufficiente — combinando questo nuovo numero con tutti i numeri reali — a produrre numeri per risolvere anche le altre equazioni. Non tutti però erano convinti che tale ipotesi avrebbe davvero funzionato. Leibniz era dell’avviso che non vi fosse la necessità di inventare altri numeri. Non riusciva a vedere come la semplice introduzione della radice quadrata di -1 potesse aiutare a risolvere la questione più complessa dell’individuazione della radice quarta di -1.
Il nuovo numero il cui quadrato era -1 fu chiamato «numero immaginario», e gli fu assegnato il simbolo «i». Trascorsero 200 anni prima di dimostrare che questo numero immaginario era davvero importante come si era creduto. Ci volle il contributo del famoso matematico tedesco Carl Friedrich Gauss, il quale dimostrò nella sua tesi di dottorato che qualsiasi equazione come x6 + x5 + 3 = 0 o x4 = -1 poteva essere risolta ponendo x uguale a un numero a + bi composto da questo numero immaginario i e da due normali numeri a e b. Questa combinazione di numeri immaginari e numeri reali era l’ambito dei cosiddetti «numeri complessi».
Per esempio, ponendo a e b uguali a 1/√-2 si ottiene un numero a + bi la cui quarta potenza è -1. Per chi è capace di fare un po’ di algebra, ecco perché:
e quando eleviamo i di nuovo al quadrato, otteniamo -1.
Tale scoperta fu talmente importante da diventare nota come il «teorema fondamentale dell’algebra». Dimostrando questo risultato, Gauss rispose anche a un altro problema che stava agitando i matematici: dove si trovano i numeri immaginari? Egli produsse un’immagine di questi nuovi numeri che conferiva a essi una certa parvenza di realtà, che fino a quel momento era mancata. È questa immagine che iniziò a suggerire le connessioni che la risoluzione di equazioni poteva avere con la simmetria.
Gauss aveva già da tempo elaborato una rappresentazione grafica dei numeri immaginari come strumento matematico per la sua dimostrazione, ma l’aveva tenuta nascosta per molti anni, temendo che potesse suscitare l’ilarità del mondo accademico ancora legato al linguaggio delle equazioni e delle formule. L’immagine era efficace e dava ai numeri immaginari una realtà fisica, perciò era solo questione di tempo prima che qualcun altro proponesse la stessa rappresentazione. Infatti due matematici dilettanti, il danese Caspar Wessel e lo svizzero Jean-Robert Argand, proposero in maniera indipendente l’uno dall’altro rappresentazioni simili in opuscoli da loro pubblicati. Nonostante Argand fosse l’ultimo dei tre ad aver avuto l’idea, è al suo nome che viene associata l’immagine che oggi chiamiamo appunto «diagramma di Argand». Spesso si commettono ingiustizie nelle attribuzioni dei meriti.
Il diagramma di Argand dei numeri complessi
Se l’idea era che non vi fossero numeri sulla retta il cui quadrato è -1, perché non creare una nuova direzione per rappresentare quei numeri i cui quadrati sono negativi? Improvvisamente emerse un’immagine bidimensionale in cui la linea orizzontale rappresentava i numeri ordinari o reali e la linea verticale poteva essere usata per registrare i numeri immaginari (figura 6.2). Pertanto, se si voleva visualizzare un numero come 3 + 4i, si andava al punto le cui coordinate nella mappa dei numeri complessi erano (3, 4).
Una volta che il quadro di questi numeri fu accolto nel linguaggio matematico e accettato dagli accademici, i matematici si accorsero delle ricche potenzialità offerte da questa mappa. Aggiungere numeri complessi era come seguire due insiemi di direzioni, uno dopo l’altro. I matematici s’avvidero anche di un fatto interessante: la moltiplicazione di numeri si traduceva nella rotazione dei numeri attorno al punto che rappresentava il numero 0. I matematici andarono a formulare un dizionario che tramutava l’algebra di questi numeri in geometria. Era come avere due lingue diverse per esprimere lo stesso concetto. Il potere di questo dizionario stava nel fatto che certe idee erano molto più evidenti in un linguaggio rispetto all’altro.
Figura 6.2: Il diagramma di Argand dei numeri complessi.
Per esempio, il numero che risolve x4 = -1 si ottiene viaggiando orizzontalmente e verticalmente nella direzione immaginaria di 1/√2 (figura 6.3). Questo numero, x = 1/√2 + 1/√2i, giace su un cerchio di raggio 1. Si può arrivare a quel numero partendo in corrispondenza del numero 1, il punto (1, 0), e compiendo 1/8 di rotazione in senso antiorario attorno al cerchio.
Figura 6.3: Il punto x indica la posizione della radice quarta di -1 nel diagramma di Argand. Elevando x alla quarta potenza, il punto si sposta lungo la circonferenza fino a raggiungere -1.
Esiste un modo geometrico piuttosto elegante di elevare questo numero alla quarta potenza. Ogni volta che moltiplico il numero per se stesso, l’immagine del numero ruota intorno al cerchio di 1/8 di giro. Dopo quattro rotazioni si arriva al numero -1, il punto (-1, 0) sul diagramma di Argand. In questo caso il linguaggio geometrico si rivela molto più intuitivo di quanto non sia l’algebra.
Non solo: rivela anche che vi sono di fatto tre altri numeri che possono risolvere l’equazione x4 = -1. Se si prende uno qualsiasi dei quattro punti x, y, z o w sul cerchio e lo si fa ruotare attorno alla circonferenza per quattro volte, tutti andranno a finire sul numero -1 (figura 6.4). Per esempio, il numero y rappresenta una rotazione di 3/8 di giro dal numero 1 sull’asse dei numeri reali. Per ottenere la posizione di y4 basta ripetere questa rotazione per quattro volte e si arriva al numero -1. Vi sono così perciò quattro numeri immaginari che risolveranno questa equazione.
Figura 6.4: I punti x, y, z e w indicano la posizione dei quattro numeri complessi la cui quarta potenza è -1.
La rappresentazione di queste soluzioni e le rotazioni che portano da una soluzione a un’altra iniziano a rivelare la simmetria geometrica nascosta dietro a un’equazione come x4 = -1. Un’espressione in forma più esplicita di questa connessione svelerebbe i segreti delle equazioni e al tempo stesso metterebbe a disposizione un nuovo linguaggio per descrivere la simmetria.
La scoperta che vi erano quattro diversi numeri immaginari che potevano risolvere l’equazione x4 = -1 segnò un importantissimo progresso. L’analisi delle equazioni fatta da Omar Khayyam aveva consentito agli studiosi di intuire che vi era più di una risposta a queste equazioni. Nel 1629, il matematico fiammingo Albert Girard ipotizzò che il numero di soluzioni dipendesse dalla più alta potenza nell’equazione. Così, se l’equazione è una quartica come x4 = -1, ci si aspetteranno quattro soluzioni, mentre l’equazione x7 = -1 avrà sette soluzioni. Quella ovvia si ottiene ponendo x = -1 ma ne esistono altre sei che, assieme a x = -1, sono disposte in punti equidistanti lungo il cerchio di raggio unitario a formare punti di un ettagono. Probabilmente i matematici avevano riscontrato una certa simmetria quando si erano accorti che x2 = 4 ha due soluzioni: x = 2 e la sua speculare x = -2. Ma ciò che ora stavano proponendo era una generalizzazione molto più ampia: esistono cinque radici quinte, sette radici settime.
Queste soluzioni supplementari ci mostrano dove la simmetria potrebbe intrecciarsi alla risoluzione di equazioni. Il grande salto che i matematici avrebbero fatto doveva consistere nello scoprire che ogni equazione ha qualche oggetto simmetrico annesso. Per l’equazione x4 = -1 si tratta di alcune delle simmetrie (non tutte) del quadrato che connette le soluzioni x, y, w e z.
Già Abel aveva intuito che le simmetrie nelle soluzioni di queste equazioni erano la chiave per capire se i risultati della quintica potessero o meno essere trovati mediante equazioni comprendenti radici quinte. Chiaramente un’equazione come x5 = 3 può essere risolta usando radici quinte. Ma che dire di x5 + 6x + 3 = 0? Tartaglia aveva escogitato i modi per manipolare la cubica fin quando si presentasse come un’equazione che comportava l’estrazione di radici cubiche e radici quadrate. Si poteva applicare un trucco del genere anche alla quintica? Nel 1824 Abel aveva risolto l’arcano. Vi era qualcosa di relativo alle simmetrie annesse alle cinque soluzioni della quintica che implicava l’inesistenza di una formula in grado di risolvere una qualsiasi equazione quintica. Finalmente capiva perché la formula da lui inviata a Degen tre anni prima fosse fatalmente destinata a non funzionare.
Dimostrare l’impossibilità di una formula per la quintica era un problema di un ordine di complessità assai differente dal lavoro prodotto da Tartaglia, Ferrari e Cardano. Come convincere gli utenti dell’algebra che, nonostante qualsiasi tentativo dell’immaginazione, non sarebbe mai stato possibile trovare una formula per risolvere la quintica? La formula di Tartaglia era un qualcosa di tangibile, che si poteva controllare. Ora la quintica stava costringendo i matematici a pensare in modo assai più astratto. E questo passaggio verso l’astrazione fu il primo passo verso un linguaggio della simmetria.
Rimescolare soluzioni
Il genio di Abel fu in grado di rompere con le pastoie del passato, con tutte le sue equazioni e le sue formule. A scuola impariamo la formula di Khwarizmi per risolvere le equazioni quadratiche. Quando si vuole trovare la soluzione di una qualsiasi equazione quadratica ax2 + bx + c = 0 basta introdurre i coefficienti a, b e c nella formula:
Riguardo alle equazioni di quinto grado, Abel dimostrò che, per quanto complicate da un’accozzaglia di radici quadrate, cubiche o magari anche di ordine superiore, vi sarebbe stata un’equazione quintica della quale la formula non avrebbe potuto trovare le soluzioni. Per dimostrare la sua affermazione, fece una delle mosse più classiche del gioco della matematica, che consiste nell’assumere che esiste una formula del genere per poi dimostrare che ciò conduce necessariamente a una contraddizione.
Reductio ad absurdum è il nome di questa strategia, che consiste nel continuare a fare deduzioni a partire da un’ipotesi finché non si ottiene qualcosa di palesemente assurdo. Da ciò si può dedurre che l’ipotesi di partenza era falsa. I pitagorici facevano ampio uso delle dimostrazioni per assurdo: proprio in questo modo erano riusciti a dimostrare che non sarebbe stato possibile rappresentare la radice quadrata di 2 come una frazione. Partendo dall’ipotesi di poterlo fare, si finisce infatti con il dimostrare che un numero pari è uguale a un numero dispari. Il celebre matematico di Cambridge G. H. Hardy scrisse nel suo libro Apologia di un matematico che la reductio ad absurdum era una delle armi più efficaci della matematica: «È un gambetto assai più elegante di qualsiasi gambetto scacchistico: un giocatore di scacchi può offrire in sacrificio un pedone o un pezzo di maggior valore, ma un matematico offre la partita».
Dopo avere posto come ipotesi che la quintica potesse essere risolta con una formula che avrebbe svelato quali fossero le cinque soluzioni, Abel iniziò a trarre tutte le implicazioni, andando a caccia di qualche manifesta assurdità che avrebbe confutato l’ipotesi stessa. Abel sapeva che un’equazione quintica come x5 - 6x + 3 = 0 ha cinque soluzioni differenti che chiameremo A, B, C, D ed E. Queste lettere indicano i cinque numeri che risolvono l’equazione. Abel poteva anche pensare queste lettere come nomi contrassegnanti i cinque punti nella mappa dei numeri immaginari. Partì dal presupposto che esistesse una formula tale da rivelare quali fossero questi cinque numeri. Iniziò quindi a considerare tutte le nuove formule che si potessero costruire dalle cinque soluzioni: formule come B-A × C-D × E oppure A × B × C × D × E.
Il passo illuminante consistette nel considerare che cosa accade quando si prende una formula e si scambiano le cinque soluzioni all’interno della stessa. Prendiamo per esempio la formula A × B × C × D × E in queste cinque differenti soluzioni. Che cosa succede alla risposta a questa formula se si interscambiano alcuni dei numeri? In questo caso la formula non cambia il suo valore. La formula A × B × C × D × E, ottenuta moltiplicando tra loro tutte le soluzioni, non ha una risposta differente se varia la posizione dei numeri per esempio B × A × C × D × E. Ma una formula come A - B × C - D × E potrebbe avere risposte differenti se scambio i numeri A e B e calcolo invece B - A × C - D × E.
Qual è il numero massimo di risposte diverse che una formula potrebbe dare scambiando i numeri A, B, C, D ed E? Ho bisogno di calcolare in quanti modi diversi mi sarebbe possibile ridisporre le cinque lettere in questa formula. Per esempio, ecco una possibile ridisposizione:
Contare quante altre possibilità vi siano è un po’ come enumerare le combinazioni di una serratura con cinque ingranaggi, in cui ciascun ingranaggio reca impresso le lettere da A a E, con l’unica differenza che in questo caso alla serratura non è permesso mostrare la stessa lettera due volte. Un altro modo di pensare il problema è contare quante parole di cinque lettere si possano formare usando le lettere da A a E una e una sola volta. Vi sono cinque opzioni possibili per la prima lettera. Nell’esempio sopra scegliamo la lettera D. Avendo selezionato la prima lettera rimaniamo con solo quattro possibilità per la seconda lettera, poi tre per la terza, due per la penultima e non abbiamo possibilità di scelta per l’ultima lettera. Vi sono così 5 × 4 × 3 × 2 × 1 = 120 parole differenti che potremmo costruire. Ogni parola mi indica un nuovo modo per ridisporre le lettere nella formula che stiamo osservando. Ciò significa che vi sono 120 modi diversi di scambiare questi cinque numeri A, B, C, D ed E, e pertanto una formula potrebbe dare potenzialmente un massimo di 120 risposte differenti. Ma dipende dalla formula.
Alcune formule danno solo una risposta, indipendentemente dall’ordine dei numeri. Nel caso di A × B × C × D × E, per esempio, scambiando l’ordine delle lettere il risultato non cambia. Alcune formule prendono in considerazione due valori per volta. Per esempio, invertendo i numeri nella formula:
si otterrà o il numero di partenza o il suo negativo.
Il successo fondamentale di Abel fu la dimostrazione che non si sarebbe mai potuta costruire una formula da questi cinque numeri A, B, C, D ed E da cui scaturissero solo tre risposte differenti permutando l’ordine dei numeri. Era anche impossibile ottenere solo quattro risposte da una formula. Dunque si arrivava a dimostrare che doveva esistere una formula che desse almeno cinque risposte diverse. Ma ciò significava che si saltava dalla formula che dava due risposte a quella che ne forniva cinque.
E la soluzione di equazioni quadratiche o cubiche o quartiche non mostravano questo salto. Esso iniziava a manifestarsi solo quando i cinque numeri A, B, C, D ed E erano soluzioni di una quintica. Ma come avrebbe potuto, il nostro Abel, sfruttare l’acquisizione di questo risultato?
Abel iniziò assumendo che vi fosse una qualche formula magica per le soluzioni A, B, C, D ed E analoga alle formule degli arabi per le equazioni di secondo grado o alla formula di Tartaglia per le cubiche. Dopo avere posto questa ipotesi, andò in cerca di una contraddizione. Prese la formula per le soluzioni A, B, C, D ed E e la introdusse nelle formule come A - B × C - D × E che stava analizzando, per verificare che conducesse a un’assurdità o a una contraddizione. Dopo pagine di prove, Abel finalmente riuscì a evidenziare che una formula magica avrebbe contraddetto il fatto da lui dimostrato in precedenza: che una formula nelle soluzioni A, B, C, D ed E non può ammettere tre o quattro risposte. Questa contraddizione era sufficiente a dimostrare che la formula non poteva esistere.
Ciò di cui Abel non si rese conto era che, pensando ad A, B, C, D ed E come a punti nella mappa dei numeri immaginari, la commutazione dei cinque numeri sarebbe apparsa più simile a mosse geometriche eseguibili per permutare questi punti. Il linguaggio che Abel stava formulando per esprimere le sue idee sulle equazioni avrebbe aiutato in definitiva a esprimere la simmetria. Le 120 parole costruite a partire dalle lettere A, B, C, D ed E furono i primi passi che condussero alla formulazione di un linguaggio in grado di descrivere le mosse geometriche che permutano i punti nella mappa. Ma in quel momento, Abel era più interessato al fatto di avere appena trovato una soluzione a uno dei più grandi problemi della sua epoca: non esisteva una formula magica per risolvere le equazioni di quinto grado.
Lo stizzoso Cauchy
Abel sapeva di avere in mano il passaporto che gli avrebbe consentito l’accesso alle più prestigiose accademie di Francia, Italia e Germania. Ecco la sua opportunità di farsi un nome, ottenere una cattedra nella nativa Norvegia e, infine, di sposare la donna di cui si era innamorato a Copenhagen. Malgrado la sua estrema povertà, raccolse fondi sufficienti a pubblicare a sue spese la soluzione al quesito. L’unico formato della carta che poteva permettersi era il mezzo folio, che ripiegato gli avrebbe fornito sei pagine a stampa. Per giungere alla sua dimostrazione per assurdo erano state necessarie pagine e pagine di fitte annotazioni, ma di fronte a costi di stampa per lui insostenibili, riuscì a distillare i punti chiave e mantenersi nei limiti dell’esiguo spazio disponibile.
Il pamphlet si apriva con le parole:
I matematici si sono occupati a lungo della risoluzione generale di equazioni algebriche, e molti di essi hanno cercato di dimostrarne l’impossibilità. Ma, se non mi inganno, non vi sono riusciti fino al presente. Auspico pertanto che i matematici vogliano accogliere con cortesia questa memoria, che si propone di colmare questa lacuna […]
dopodiché lo scritto entrava direttamente nel vivo della dimostrazione.
Abel inviò la sua pubblicazione ai più illustri matematici della sua epoca, ma sperava di impressionare soprattutto l’Accademia di Francia. Fondata nel 1666, l’Accademia si era trasformata da accolita di pochi scienziati che si davano convegno nella Biblioteca Reale in un’istituzione capace di indirizzare il mondo scientifico di tutta Europa. Dal 1721 l’Accademia indiceva annualmente dei concorsi: essa proponeva dei problemi e premiava chi forniva le soluzioni più ingegnose. Nelle prime edizioni del concorso, l’Accademia sottoponeva quesiti legati a problemi pratici (per esempio gli alberi delle navi, la mappatura delle stelle in mare o saggi sull’uso della bussola), ma, con il passare degli anni, i problemi iniziarono a riflettere un interesse verso questioni matematiche più astratte. La fama dell’Accademia era tale che il bando di concorso, e pertanto i problemi proposti, catalizzavano l’attenzione e il lavoro dei maggiori matematici e scienziati dell’epoca e influenzavano le tendenze della scienza europea.
Gli accademici di Francia si incontravano con regolarità per presentare e discutere le più notevoli conquiste scientifiche del momento. Il sigillo di approvazione dell’Accademia era essenziale per qualsiasi giovane matematico di talento, e questo spiega perché Abel avesse preparato la sua pubblicazione sull’equazione quintica in francese. Il matematico che Abel sperava di impressionare era l’accademico Augustin Louis Cauchy. Se solo fosse riuscito a fare in modo che Cauchy presentasse il suo articolo all’Accademia, era certo che non avrebbe più dovuto rimanere ai margini dei salotti matematici d’Europa. Sarebbe stato invitato caldamente a entrarvi, come il nuovo campione dell’epoca.
Augustin Cauchy aveva la reputazione di essere uno degli ossi più duri di tutta l’Accademia. Che Abel lo sapesse o no, Cauchy aveva lavorato a questioni relative alla simmetria e alla risoluzione di equazioni, ma non aveva mai scorto alcuna connessione tra i due ambiti. Era nato a Parigi il 21 agosto 1789, un mese dopo la presa della Bastiglia, e aveva avuto un’infanzia particolarmente difficile. Suo padre era stato un ambizioso esponente del regime che i rivoluzionari erano determinati a rovesciare. Con l’avvento del Terrore parigino, il padre di Cauchy ebbe sempre più paura vedendo amici e compatrioti finire sotto la ghigliottina. La famiglia decise così di fuggire e di trovare rifugio in campagna. Ma neppure lì la vita era facile. Il padre di Cauchy ebbe a scrivere di questo periodo di angustie: «Non abbiamo mai più di mezza libbra di pane, e talvolta neppure quella. Integriamo con la piccola razione di gallette dure e riso che ci vengono destinati».
Cauchy contrasse il vaiolo e da allora fu sempre cagionevole di salute. La costante minaccia dell’arresto del padre e la spossatezza causata dalla denutrizione contribuirono probabilmente allo sviluppo del carattere severo e introverso. Raramente lo si vedeva giocare con altri bambini della sua età. Preferiva trovare sollievo dalle inquietudini della vita familiare rifugiandosi nei libri. Per quanto amasse le lingue e la letteratura, era sempre più evidente che era la matematica a esercitare su di lui un fascino del tutto particolare. Il suo maestro annotò che: «Non era raro trovare lo svolgimento di un tema interrotto all’improvviso: un’idea matematica doveva avere attraversato la mente del ragazzo, assorbendolo a tal punto da costringerlo a tradurre i pensieri in numeri e figure».
Finita l’epoca del Terrore, la famiglia fece ritorno a Parigi e il padre di Cauchy si gettò nuovamente nella politica. Alla fine, il suo impegno fu ricompensato, ed egli guadagnò un seggio al Senato. Qui strinse amicizia con due colleghi senatori, che erano anche eminenti matematici: Pierre-Simon de Laplace e Joseph-Louis Lagrange. Quest’ultimo era diventato famoso prima della Rivoluzione per avere risolto alcuni dei problemi per cui l’Accademia aveva messo in palio dei premi: uno studio sulle lune di Giove e di Saturno, uno riguardante l’influenza dei pianeti sul transito delle comete e un terzo volto a spiegare le leggere oscillazioni con cui la Luna mostra caratteristiche differenti della propria superficie. Riteneva che i rovesci di fortuna di suo padre fossero stati la ragione preponderante per cui era diventato un matematico: «Se fossi stato ricco, probabilmente non mi sarei dedicato alla matematica».
Come il padre di Cauchy, anche Lagrange aveva temuto il peggio quando il vento della Rivoluzione si era abbattuto sulla Francia. Era riuscito a cavarsela per il rotto della cuffia. Essendo italiano, aveva rischiato il carcere per le nuove leggi del settembre 1793. Un collega che era intervenuto in suo favore fu mandato alla ghigliottina per averlo aiutato. «È bastato un solo istante per far cadere quella testa, e cent’anni non basteranno per farne sorgere una simile», scrisse Lagrange dell’amico che lo aveva salvato dall’incarcerazione. Alcuni attribuiscono la sopravvivenza di Lagrange durante questo periodo alla sua notoria idea secondo cui «il primo principio di ogni persona saggia è conformarsi strettamente alle leggi del Paese in cui si trova a vivere, anche quando quelle leggi sono irragionevoli». Una lezione che forse aveva imparato dallo spietato mondo della matematica.
Un giorno, Cauchy padre portò con sé il figlio al Palais du Luxembourg e mostrò ai grandi accademici i problemi di matematica con cui il ragazzo si dilettava. Lagrange ne rimase impressionato e, rivolgendosi al collega Laplace, commentò: «Vedete questo ometto? Bene! Finirà col superare tutti noi in fatto di matematica». Poi diede al padre di Cauchy un insolito consiglio per la formazione futura di Augustin: «Non lasciate che tocchi un libro di matematica o che scriva un solo numero prima di avere completato i suoi studi di letteratura». In pratica Lagrange suggeriva di sviluppare in primo luogo le abilità linguistiche.
Lagrange avvertiva nell’aria l’imminenza di alcuni importanti cambiamenti nel mondo della matematica. Vi era necessità di un linguaggio più astratto, abbastanza sofisticato da permettere di esprimere le sottigliezze di questi tempi nuovi per la disciplina. Forse, se il giovane Cauchy avesse ben padroneggiato le regole grammaticali del greco e del latino, avrebbe avuto gli strumenti per creare questo nuovo linguaggio. «Se non vi affrettate a dare ad Augustin una solida educazione letteraria, si lascerà trasportare dalle sue inclinazioni; potrebbe anche diventare un grande matematico, ma sarebbe incapace di trovare un suo proprio linguaggio.»
Cauchy iniziò a frequentare l’università alla precoce età di sedici anni, ma, nell’ambiente accademico, si sentiva un estraneo. I suoi compagni erano tutti appassionati alla politica rivoluzionaria del momento. Cauchy, d’altro canto, aveva ereditato le solide tendenze monarchiche del padre e i devoti sentimenti cattolici della madre. I compagni lo schernivano impietosamente per le sue reazionarie convinzioni politiche e religiose. Ciò non fece che rinsaldare ulteriormente Cauchy nel proprio credo, tanto che aderì a una società segreta cattolica, mirante a collocare persone fedeli al papa in posizioni influenti.
Nonostante l’opposizione di Cauchy alla causa repubblicana, Napoleone non si privò dei suoi servigi come ingegnere ai cantieri di Cherbourg, dove era in allestimento la flotta che avrebbe invaso l’Inghilterra. Terminati gli studi, Cauchy lavorò fuori Parigi per tre anni: «Mi alzo alle quattro di mattina, e sono occupato fino a sera. Il lavoro non mi stanca; al contrario mi rafforza e mi fa sentire in perfetta salute».
Lagrange continuò a tenere sotto osservazione quel prodigio matematico e gli propose di esaminare un problema che stava sconcertando i matematici dell’epoca. Esso riguardava certi nuovi solidi simmetrici che erano stati scoperti. Platone, 2000 anni prima, aveva dimostrato che esistevano cinque tipi di dado in cui le facce fossero tutte copie dello stesso poligono regolare. Per esempio, 12 pentagoni potevano essere messi insieme per realizzare la «sfera di pentagoni», o dodecaedro.
Con grande sorpresa, nel 1809 era stata costruita una nuova forma costituita da 12 pentagoni. Platone aveva posto come condizione che le facce delle sue forme non dovessero intersecarsi reciprocamente. Ma che cosa accadeva rimuovendo questa limitazione? Un insegnante di matematica parigino aveva scoperto un nuovo modo per assemblare i 12 pentagoni così da produrre una nuova forma simmetrica battezzata «grande dodecaedro» (figura 6.5).
Per quanto si presenti come una forma costituita da molti triangoli irregolari, essa può essere vista come un solido con 12 facce pentagonali che si intersecano. La forma soddisfa tutte le condizioni di un solido platonico, a eccezione della intersecabilità. Ma quante altre forme strane e belle come queste sarebbe stato possibile immaginare? Tre altre forme erano state aggiunte alla lista, ma i matematici iniziavano a chiedersi quando questa lista si sarebbe esaurita.
Figura 6.5: Il grande dodecaedro.
L’Accadema di Francia decise che la questione dovesse essere definita una volta per tutte e destinò il suo premio per l’anno 1811 a chi fosse riuscito a dimostrare incontrovertibilmente che i cinque solidi platonici più i quattro nuovi solidi costituivano tutte le forme tridimensionali che sarebbe stato possibile costruire con facce date da poligoni regolari.
Mentre sgobbava in qualità di ingegnere a Cherbourg, preparando la flotta di Napoleone per l’invasione dell’Inghilterra, Cauchy si dedicò a verificare se queste quattro forme fossero le sole aggiunte possibili ai dadi dei greci. Per ambire al premio, però, sarebbe stata necessaria un’argomentazione solidissima e che non ne ammettesse altre. Forgiare nuove forme era bello. La loro esistenza, una volta costruite, parlava da sé, un po’ come le formule che risolvevano le equazioni di secondo, terzo e quarto grado.
Cauchy sperimentò quanto fosse arduo trovare un linguaggio per esprimere l’insidioso mondo visivo della geometria e dello spazio. Come aveva dichiarato Cartesio: le percezioni sono inganni dei sensi. Il lavoro di Cauchy segna un punto di svolta nel modo di fare matematica. Egli riconobbe la debolezza intrinseca nel ricorrere alle intuizioni geometriche e cercò un modo più rigoroso per esprimere queste idee intuitive, che potesse mettere al riparo dai tranelli delle percezioni visive. Questo approccio era in contrasto con quello di scienziati della statura di Keplero, il quale, poco più di due secoli prima, aveva schernito l’idea che le immagini potessero essere espresse in un linguaggio verbale, seppure matematico: «Nulla è dimostrato da simboli; nulla di nascosto viene svelato in filosofia naturale attraverso simboli geometrici».
Con il suo approccio critico alla matematica dello spazio e della simmetria, Cauchy rispose con successo al problema proposto dall’Accademia per il 1811. Queste quattro nuove forme, oltre alle cinque forme platoniche classiche, erano le sole forme simmetriche possibili. L’Accademia gli conferì il premio. Lo sforzo che aveva profuso nel cercare di dirimere la questione delle forme in aggiunta al faticoso impegno di Cherbourg aveva però un prezzo. Cauchy ebbe un collasso nel settembre del 1812, dovuto a una combinazione di grave depressione ed esaurimento nervoso. Fece ritorno a Parigi, accorgendosi che l’isolamento non era stato buona cosa. Parigi era il teatro in cui si svolgeva l’azione: qui e solo qui avrebbe dovuto svolgere il suo lavoro di matematico. Avendo vinto il premio dell’Accademia, poté ben presto occupare il posto che gli spettava nell’élite degli accademici.
Il piccolo errore di Ruffini
Nonostante la comparsa di queste nuove forme simmetriche, ai matematici mancava ancora una teoria coerente su cosa fosse in realtà la simmetria. Come si faceva a dire che due oggetti avessero la stessa simmetria o una simmetria differente? Veniva posta ancora troppa attenzione sulla realtà fisica di questi oggetti, rispetto a una comprensione teorica di ciò che li rendeva simmetrici oppure no.
Il testo che Abel aveva inviato a Cauchy conteneva i primi elementi costitutivi di un linguaggio per la simmetria. Tuttavia non era il solo testo che Cauchy avesse ricevuto in tema di quintica. In contrasto con lo smilzo pamphlet di sei pagine di Abel, diversi anni prima Cauchy aveva percorso le 500 pagine scritte da un medico italiano di nome Paolo Ruffini, che pure rivendicava di avere dimostrato l’impossibilità di una formula per la risoluzione della quintica. A differenza dell’indigente Abel, Ruffini aveva potuto permettersi carta a volontà.
Era stato Lagrange a presentare a Cauchy quest’opera enorme. Lagrange non riteneva che ne valesse la pena, ma il giovanile entusiasmo di Cauchy lo sorresse nella lettura del poderoso tomo. Il lavoro di Ruffini era stato ispirato da un articolo che Lagrange aveva scritto circa 30 anni prima. I matematici erano ancora assai riluttanti ad accettare che non potesse esistere una formula per risolvere la quintica, e ciò spiega come mai Ruffini, la prima persona a prendere atto della spiacevole realtà, avesse ricevuto scarsi riconoscimenti per la sua impresa.
Ruffini sperava che il suo risultato lo avrebbe reso celebre. Era venuto a capo di quello che, per dirla con Lagrange, era «il più famoso e importante problema di tutta l’algebra». Aveva deciso di inviare il suo lavoro all’«immortale» Lagrange, vero ispiratore della sua dimostrazione. Essendo tra l’altro suo compatriota, Ruffini si sentiva più che certo di ricevere buona accoglienza.
Ruffini non ottenne il riconoscimento atteso anzi, il suo libro sembrò cadere nella più assoluta indifferenza. Lagrange neppure lo degnò di una risposta. Ruffini decise allora di scrivere una seconda versione che inviò a Lagrange nel 1801 con una lettera di presentazione che implorava la cortesia di un qualsiasi riscontro, anche negativo:
Nel dubbio che Voi non abbiate mai ricevuto il mio libro, mi permetto di inviarvene un’altra copia. Se ho commesso errori di dimostrazione, o se ho affermato cosa che credevo nuova, ma che in realtà nuova non era, se insomma ho scritto un libro inutile, Vi prego di segnalarmelo in tutta franchezza.
Ancora nessuna risposta. Nel 1802 Ruffini inviò una terza versione: «Nessuno è più degno […] di ricevere il libro che mi prendo la libertà di inviarVi».
I colleghi compatrioti si prodigavano per dargli ogni appoggio possibile, ma il loro sostegno si basava più su motivi di campanilismo che su una fredda e obiettiva analisi. «Mi rallegro oltremodo con Voi e con la nostra Italia, che ha visto nascere e perfezionare una teoria alla quale ben poco hanno contribuito altre nazioni […]», scrisse un professore di Pisa a Ruffini nel ricevere il suo manoscritto.
Ma vi era un problema cruciale nel testo: Ruffini aveva commesso un errore. Se solo qualcuno glielo avesse fatto notare, avrebbe potuto correggerlo e rivendicare gli onori dovuti. Fatalmente, aveva assunto qualcosa di davvero speciale circa la formula magica di cui voleva dimostrare la non-esistenza. Il guaio era che non aveva specificato alcun motivo per cui si dovesse supporre che la formula, qualora esistesse, dovesse possedere quella speciale proprietà. Era un pezzo mancante nel puzzle della dimostrazione e, senza di esso, quella diventava inutile quasi come una rivendicazione di discendenza da Giulio Cesare con la «sola» pecca di una piccola lacuna nell’albero genealogico.
Rassegnatosi al mancato riconoscimento del suo lavoro da parte del mondo accademico, Ruffini tornò a dedicarsi alla pratica medica. Curando i malati di tifo durante un’epidemia che travolse l’Italia nel 1877, si ammalò lui stesso. Non si riprese mai completamente, ma riuscì a pubblicare una memoria sulle sue esperienze della malattia.
Pochi mesi prima di morire, ricevette una lettera da Cauchy: il suo lavoro sulla quintica non era stato del tutto misconosciuto. «[…] la vostra relazione sulla risoluzione generale delle equazioni è un lavoro che mi è sempre sembrato degno dell’attenzione dei matematici e che, a mio giudizio, dimostra completamente l’impossibilità di risolvere equazioni algebriche di grado superiore al quarto.»
Cauchy non si era accorto del piccolo errore che Ruffini aveva commesso.
La lode espressa da Cauchy a Ruffini aveva qualcosa di atipico per il personaggio. Cauchy appariva di solito come un matematico pieno di sé, interessato esclusivamente alle proprie scoperte e mai disposto a concedere riconoscimenti, anche quando questi erano dovuti. Questo lato del suo carattere era emerso in occasione della presentazione all’Accademia delle idee di Ruffini. Anziché esporre il lavoro dello studioso, aveva presentato la propria generalizzazione del risultato compiuto dal medico italiano. E il risultato originale di Ruffini, dal quale egli aveva tratto ispirazione, non fu minimamente citato né tantomeno lodato.
Non fu del resto quella la sola circostanza in cui Cauchy si dimostrò più incline ad autoincensarsi che a riconoscere il lavoro di chi aveva posto le basi dei suoi stessi successi. La sua arroganza lo rendeva odioso a tutti, come molti suoi contemporanei ebbero a dire. Poncelot, un collega, ne descrive l’atteggiamento estremamente scostante mostrato durante un incontro nelle vie di Parigi. Aveva appena ricevuto una lettera da Cauchy con il rifiuto del suo lavoro per la presentazione all’Accademia.
[…] Cercai di avvicinare il mio giudice troppo rigido presso casa sua […] mentre stava uscendo […]. Nel breve e rapido tragitto a piedi, percepii subito di non avere conquistato in alcun modo il suo interesse o il suo rispetto come scienziato […]. Senza permettermi di dire altro, si allontanò bruscamente, rimandandomi all’imminente pubblicazione delle sue Leçons à l’École Polytechnique dove, secondo lui, la questione sarebbe stata esplorata in modo molto appropriato.
I colleghi avevano insomma un’opinione di Cauchy assai negativa. Perfino della sua matematica si diceva che fosse più negativa che positiva: in fondo aveva vinto il suo premio all’Accademia non per avere costruito un nuovo oggetto simmetrico, ma per avere dimostrato che non vi erano altre forme da aggiungere alla lista.
Egli ha introdotto nella scienza solo dottrine negative […] è quasi sempre l’aspetto negativo della verità a prevalere nelle sue scoperte, e a essere da lui messo in risalto con cura: se avesse trovato oro in una cava di gesso, sarebbe stato capace di annunciare al mondo che il gesso non è esclusivamente formato da solfato di calcio […].
Lo Stretto di Magellano
Dato l’isolamento cui era soggetta la Norvegia agli inizi del XIX secolo, sia dal punto di vista geografico sia da quello politico, e data la scarsa eco che il lavoro di Ruffini aveva avuto a Parigi, è poco probabile che Abel fosse in alcun modo al corrente dei progressi del matematico italiano. Mentre il lavoro di Ruffini comprendeva centinaia di pagine e conteneva un errore, Abel aveva condensato la sua dimostrazione in sei facciate e non aveva commesso alcun errore come quello che così fatalmente aveva vanificato la convinzione di Ruffini di avere risolto l’enigma della quintica.
Nell’autunno del 1825 Abel partì con quattro amici per il suo grande viaggio in Europa, immaginando che il suo articolo, precedendolo, gli avrebbe assicurato una buona accoglienza. Il viaggio lo intimoriva: Abel aveva solo ventitré anni, e mai si era spinto così lontano dalla madrepatria. Le condizioni della borsa di studio che aveva ricevuto per finanziare il viaggio prevedevano che trascorresse più tempo possibile a Parigi, dato che quella città era considerata la capitale del mondo matematico. I suoi amici vollero però visitare per prima la Germania, e Abel non ebbe il coraggio di avventurarsi da solo in Francia. Scrisse a casa: «Per ciò che provo adesso, non mi riesce di reggere la solitudine. Da solo, mi sento depresso, litigioso e con poca voglia di lavorare». Pertanto decise di unirsi agli amici nella loro visita a Berlino.
Mentre si trovava nella città tedesca, fece amicizia con un dinamico funzionario del ministero degli Interni prussiano. August Crelle era un appassionato di matematica e organizzava serate di discussione per giovani studiosi, oltre ad avere fondato una nuova rivista di matematica dedicata alla pubblicazione dei lavori di giovani promesse della disciplina.
Crelle aveva la reputazione del cacciatore di talenti, e in effetti non gli ci volle molto per accorgersi che quel giovane norvegese aveva una stoffa eccezionale. Nel primo volume della rivista di Crelle figuravano non meno di sette articoli di Abel, compreso il suo lavoro sulla quintica. Abel scrisse al suo vecchio maestro Holmboe:
Non potete immaginare che uomo eccellente sia Crelle; proprio come uno dovrebbe essere: profondo e al tempo stesso non orribilmente formale come lo è così tanta gente per altri versi a modo. Con lui mi trovo bene come con voi e altri ottimi amici.
Abel si sentiva certo che la pubblicazione del suo lavoro lo avrebbe collocato in ottima posizione per aspirare alla cattedra di matematica all’università di Christiania (la moderna Oslo), la sola università norvegese. La nomina gli avrebbe finalmente consentito di convolare a nozze con la fidanzata. Tremenda fu quindi la delusione quando, ancora a Berlino, ricevette una lettera con la notizia che la cattedra vacante era stata assegnata, e proprio al suo tutore Holmboe. Abel provava un profondo affetto per il suo maestro, ma sapeva bene che la matematica di Holmboe non poteva reggere il confronto con i suoi lavori. Inoltre Holmboe era ancora abbastanza giovane, e vi erano quindi ben poche speranze che quella cattedra potesse tornare vacante in tempi brevi.
Tuttavia, il sostegno di Crelle diede ad Abel la spinta psicologica per recarsi a Parigi, e scoprire che cosa ne fosse stato del suo lavoro. Prima, però, deviò nuovamente il percorso per visitare Italia e Svizzera. «Mio Dio! Io, perfino io, riesco a provare gusto per le bellezze della natura, come tutti gli altri. Farò questo unico viaggio nella mia vita.» Arrivò infine a Parigi, emozionato all’idea di poter incontrare i grandi matematici della sua epoca.
Con suo grande disappunto, nessuno sembrava mostrargli il minimo interesse. Cauchy non aveva presentato all’Accademia neppure uno dei suoi articoli, e sembrava completamente assorbito dal proprio lavoro. Abel scrisse a Holmboe:
I francesi sono molto più riservati con gli stranieri di quanto non siano i tedeschi. È estremamente difficile guadagnare la loro confidenza, e io non oso neppure spingere le mie aspirazioni fino a quel punto; alla fine qualsiasi principiante trova grandi difficoltà a farsi notare qui. Ho appena finito un’estesa trattazione su una certa classe di funzioni trascendenti in vista di una presentazione all’Istituto, che verrà fatta lunedì prossimo. L’ho mostrata al signor Cauchy, ma si è degnato a malapena di darle un’occhiata.
Nel frattempo i fondi di Abel stavano assottigliandosi pericolosamente. Arrivò a un solo pasto al giorno. Trascorreva le sue serate giocando a biliardo o intrufolandosi a teatro, ma la completa mancanza di interesse per il suo lavoro stava iniziando a demoralizzarlo totalmente: «Sono mostruosamente egoisti […] qui ognuno lavora per se stesso, senza disturbare gli altri. Tutti vogliono insegnare e nessuno vuole imparare».
Finì col perdere ogni illusione riguardo a Cauchy: «Cauchy è pazzo, e non si può fare alcun conto su di lui, per quanto, al momento, sia il solo a sapere come si debba fare matematica». Decise così di limitare i danni e ripartì per la Norvegia, raggiungendo la capitale nel maggio del 1827. Il suo grande risultato era stato completamente ignorato, non si era costruito una posizione e perdipiù si ritrovava pesantemente indebitato. Il sogno di sposare la fidanzata era adesso ancor più remoto di quando era partito per il suo viaggio in Europa.
Ma non smise di pensare alla matematica. Stava iniziando ad afferrare che la sua soluzione al problema della quintica avrebbe potuto fare molto più che limitarsi a dimostrare la non-esistenza di una formula per risolvere queste equazioni. Il modo in cui si comportavano le radici di ogni equazione quando venivano permutate sembrava suggerire che ogni equazione avesse un certo oggetto simmetrico a essa annesso. Ed erano le proprietà individuali di questi oggetti simmetrici a detenere la chiave per la risoluzione di ogni singola equazione. Abel stava iniziando a vedere gli spazi che si aprivano all’uscita dallo Stretto di Magellano, come gli aveva predetto Degen a Copenhagen. Scrisse a Crelle sottoponendogli i dettagli delle sue idee, oltre alla preghiera di un prestito, dichiarando di essere «povero come un topo di chiesa» e terminando con l’espressione «Vostro distrutto».
Il desiderio di trascorrere un po’ di tempo con l’innamorata convinse Abel a prendersi una pausa dalle pressioni della matematica, della povertà e dell’incertezza per il proprio futuro. Nel dicembre del 1828, partì per l’isola Froland per trascorrere il Natale con la fidanzata, che lavorava come governante presso una famiglia che viveva sull’isola. Abel però non poteva permettersi il pesante vestiario che i rigidi inverni di Froland avrebbero imposto. Dopo una romantica uscita in slitta nel paesaggio ghiacciato, con le mani protette solo da calze usate a mo’ di guanti, Abel si ammalò in modo gravissimo.
Nonostante il disinteresse di Cauchy per il lavoro di Abel, altri a Parigi avevano iniziato ad aprire gli occhi sui suoi incredibili risultati. Appreso che viveva nelle ristrettezze in Norvegia, scrissero una petizione al re di Svezia nel disperato tentativo di assicurare una posizione a questo giovane matematico «dal talento così raro e precoce». Anche Crelle stava facendo tutto il possibile perché Abel ottenesse un incarico a Berlino e finalmente, l’8 di aprile, scrisse all’amico per comunicargli la grande notizia: l’università gli avrebbe offerto un posto di professore in riconoscimento del suo lavoro pionieristico. «Potete stare completamente tranquillo sul vostro futuro. Verrete in un buon Paese, con un clima migliore, e sarete più vicino alla scienza e a veri amici che nutrono per voi ogni stima e affetto.»
La lettera arrivò troppo tardi. Lo stesso giorno in cui Crelle scrisse ad Abel per comunicargli le buone notizie, Abel morì, all’età di ventisei anni. Non coronò mai il sogno di sposare la sua fidanzata. Sul letto di morte scrisse all’amico Baltazaar Keilhau, pregandolo di sposare Christine Kemp al suo posto. Pur non avendola mai incontrata, l’amico accettò.
Con il passare del tempo, i matematici iniziarono a rendersi conto della bellezza e profondità del lavoro di Abel. Come commentò il matematico francese Charles Hermite: «Egli ha lasciato ai matematici qualcosa di sufficiente a tenerli occupati per i successivi 500 anni». Abel ebbe il conferimento postumo del Grand Prix dell’Accademia parigina nel 1830. Oggi, il più grande riconoscimento che un matematico possa ricevere è il conferimento del premio Abel da parte dell’Accademia norvegese delle Scienze. Istituito nel 2003, il premio assegna al vincitore circa 750.000 euro e intende assurgere allo stesso prestigio che i premi Nobel hanno per quanto attiene ad altre scienze.
Per la maggior parte dei matematici, tuttavia, il bene più ambito non è ottenere il Grand Prix dell’Accademia di Parigi o ricevere una telefonata dall’Accademia norvegese, ma la scarica di adrenalina che si prova quando all’improvviso si conquista intellettualmente ciò che così a lungo era rimasto inafferrabile. Per il mio studente Christopher questa esperienza accadde l’11 settembre 2001, quando la simmetria palindromica prese forma tutto d’un tratto, come uscendo dalla nebbia dei suoi calcoli. Per Luke la conquista del t7
Febbraio: rivoluzione
Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia.
Charles Dickens, Le due città
13 febbraio, La Villette, Parigi
Per quanto ciò possa suonare inverosimile, esistono differenti stili matematici. Nonostante questa disciplina si avvalga di un linguaggio di natura universale, matematici diversi lo utilizzano in modi diversi, e ciò riflette i loro tratti culturali. Il temperamento anglosassone tende a venire subito al sodo, soffermandosi su strani esempi e anomalie. I francesi, al contrario, amano le grandi teorie astratte e sono dei maestri nell’arte di inventare forme linguistiche per articolare nuove e difficili strutture.
Fu con l’aiuto del mio coautore francese François Loeser che riuscii a sviluppare l’esempio della curva ellittica, il mio epitaffio costruito a Bonn, in una grande teoria chiamata «integrazione motivica». Grazie alla scoperta che feci al Max Planck Institut, avevo già scavato un primo tunnel che metteva in collegamento due aree, ma il linguaggio che ho imparato a Parigi da François mi ha poi aiutato ad ampliare quel minuscolo tunnel, fino a trasformarlo in una magnifica strada. Così, il percorso tra i gruppi e la geometria è oggi ben servito, come il Tunnel della Manica che ho appena attraversato per recarmi a Parigi.
La matematica richiede una personalità ossessiva. Oltre alla sua straordinaria capacità di muoversi sul terreno matematico, François dedica molta energia e passione anche alle corse su lunga distanza, e non mi riferisco esclusivamente alle maratone. Uno dei suoi hobby è quello di partecipare a gare di corsa estreme che durano anche 48 ore, che, per esempio, prevedono l’attraversamento da un capo all’altro di un’isola, nel cui centro si erge una montagna di 3000 metri che l’atleta, per procedere nel percorso, deve scalare. In occasione di una delle mie visite, aveva appena completato una corsa di 70 chilometri attraverso la neve che gli arrivava fino alle ginocchia. Una volta, lo accompagnai in una «corsetta» prima di colazione e, all’ultimo passo prima di rientrare a casa, finii per vomitare nel suo giardino. La determinazione che dimostra nella corsa si riflette anche nel suo vigore in campo matematico. È in grado di sostenere discussioni che attraversano alcuni dei terreni matematici più astratti che io abbia mai incontrato.
Le altre ossessioni di François sono cose che sono ben più felice di condividere con lui: il cibo, il vino e il fumetto Tintin (ma anche qui non riesco a tenere il passo con la sua profondissima conoscenza). «Mi sai dire chi è Belle in Tintin?» mi mise alla prova una volta. Cercai di ricordare i personaggi femminili che compaiono in Tintin oltre alla signora Castafiore, la cantante d’opera, ma mi resi conto che non ce n’era nessuna. Hergé, il creatore di Tintin, era un po’ misogino. «È il nome del cavallo che Tintin sta cavalcando sulla tua maglietta» mi disse. Guardai la mia T-shirt, che ritraeva una scena di Tintin in America dove il giovane reporter, vestito da cowboy, era in groppa a un cavallo.
In un’altra occasione, dopo un seminario che avevo tenuto all’École Polytechnique andammo a pranzo; sulla tavola c’era un magnifico formaggio rotondo da cui tagliai uno spicchio con grande piacere e all’improvviso un silenzio imbarazzato calò sulla tavola. François mi spiegò che questo formaggio andava tagliato in senso orizzontale; si trattava di un’impresa quasi impossibile, cosa che probabilmente spiega perché nessuno lo avesse ancora toccato. E io che pensavo che i rituali gastronomici di Oxford fossero severi!
Alcuni matematici francesi credono che la qualità della loro matematica sia un prodotto della lingua francese in cui è scritta. Uno dei colleghi di François, Bruno Poizat, è particolarmente orgoglioso della propria lingua madre e non si piegava mai alle pressioni delle riviste che lo invitavano a scrivere in inglese, la lingua universalmente accettata della scienza. Uno dei suoi più importanti contributi è un libro sulla logica matematica e le sue interazioni con la teoria dei gruppi. A causa della sua insistenza per pubblicarlo in francese, nessun editore aveva voluto farsene carico. Egli andò comunque avanti e finanziò di tasca sua la pubblicazione sotto la propria firma editoriale: Nur al-Mantiq wal-Ma’rifah, che in arabo significa «Luce della logica e della conoscenza». Dato che Poizat ha avuto il completo controllo editoriale, l’opera risulta alquanto eccentrica. Ogni capitolo si apre con un’immagine pornografica. Nell’introduzione, Poizat spiega che quelle immagini sono state appositamente scelte e lì collocate per calmare la mente prima della matematica difficoltosa che le segue.
È facile immaginare lo scandalo sollevato. Tra i cultori della logica matematica ci sono anche molte donne, che non furono affatto entusiaste di questo libro, non ultimo perché alcuni dei nomi femminili riportati nell’indice dei nomi rimandano alle pagine con le foto pornografiche. L’ultimo capitolo presenta una fotografia dell’autore in vestaglia che, seduto su una poltrona, guarda il lettore. La matematica contenuta nel libro è però talmente valida che non era possibile ignorare quest’opera. Secondo Poizat, il materiale è particolarmente adatto alla lingua in cui è scritto:
Il francese scientifico, che lingua meravigliosa! […] Io non nutro sentimenti nazionalisti, né provo nostalgia per il tempo il cui la Francia aveva una posizione più dominante […]. Sono convinto che la pluralità dei linguaggi in uso per la comunicazione scientifica sia di per se stessa un valore.
Nel corso di una conferenza a cui partecipai in Russia, Poizat insistette per esporre il proprio intervento in francese, che fu simultaneamente tradotto in russo, e fu palesemente felice di lasciare l’unico membro inglese del pubblico a brancolare nel buio:
Alcune brave persone mi hanno detto che è molto maleducato rivolgersi a una persona in una lingua che non comprende. Nel caso ciò fosse vero, la comunità matematica sarebbe ai primi posti nella scala della maleducazione, considerando il numero di volte in cui alcuni dei suoi membri si sono rivolti a me parlando in inglese.
Questo pomeriggio spero di fare un salto da François all’École Normale Supérieure per vedere se il suo modo francese di vedere le cose mi può aiutare a capire quando le mie funzioni zeta hanno una simmetria palindroma e quando no. Stiamo anche collaborando a un articolo a cui abbiamo già pensato ma che, né lui né io, abbiamo il tempo per scrivere. La ragione principale che mi ha spinto a fare un viaggio di un giorno a Parigi, però, non è quella di esplorare le strutture matematiche. La capitale francese ha la fortuna di possedere alcuni fantastici esempi di simmetria nell’architettura, e ho deciso di prendermi una pausa dalle mie ricerche per fare un piccolo pellegrinaggio dall’altra parte della Manica assieme a Tomer, il mio fedele Passepartout. La nostra prima destinazione è una piramide.
La nuova, straordinaria entrata del Louvre a Parigi è una piramide di vetro eretta in modo provocatorio sullo sfondo della facciata settecentesca, riccamente adornata, dell’edificio originale (figura 7.1). È un po’ come se il visitatore fosse invitato a imitare i grandi archeologi del passato, a vestire i panni di Indiana Jones e saccheggiare i tesori che il Louvre nasconde nelle sue profondità. La struttura delle antiche piramidi egiziane è piuttosto semplice. Ogni strato offre una solida base per lo strato superiore. Ma la piramide del Louvre è una struttura cava al proprio interno. Per costruire la loro piramide, gli ingegneri hanno sfruttato la forza del triangolo. Ogni faccia triangolare è costituita da un reticolo di triangoli più piccoli. Per coloro che apprezzano i significati numerologici, per costruire la piramide del Louvre sono stati usati 666 pannelli di vetro triangolari. La piramide è circondata dall’acqua, ragion per cui, grazie ai riflessi, ciò che si vede non è una semplice piramide a base quadrata bensì un ottaedro, una delle figure simmetriche di Platone.
Figura 7.1: La piramide del Louvre, Parigi.
Dopo aver visitato la piramide nel cuore di Parigi, ci dirigiamo verso il parco de La Villette, che ospita un altro straordinario esempio di architettura. Circondata da tutte le costruzioni quadrate, simili a grossi scatoloni, che riempiono la maggior parte dei sobborghi parigini, La Géode è un enorme globo argenteo (figura 7.2). Tomer ne è impressionato: «Sembra un’astronave aliena». Come all’Alhambra e al Louvre, l’acqua viene utilizzata per accentuare la simmetria. La Géode galleggia come un’enorme bolla sopra una distesa d’acqua che la circonda. Al proprio interno, questa sfera ospita un enorme cinema Imax dal quale si entra attraverso un ingresso situato al di sotto del livello del suolo.
Figura 7.2: La Géode a La Villette, Parigi.
La natura ama la sfera in quanto si tratta di una forma a basso consumo energetico: è proprio questo il motivo per cui le bolle e le gocce di pioggia sono sferiche. Per gli esseri umani, però, creare una sfera non è altrettanto facile. Quando papa Benedetto XI chiese a Giotto un disegno che dimostrasse il suo talento di artista, egli dipinse a mano libera un cerchio perfetto. Per un architetto, costruire una sfera è forse la sfida più difficile. Chiunque abbia tentato di impacchettare nella carta regalo un pallone da calcio, avrà senz’altro avuto modo di fare esperienza di alcune delle difficoltà che devono affrontare gli architetti.
Vista da una certa distanza, La Géode sembra una sfera perfetta, ma quando ci avviciniamo possiamo renderci conto di come l’architetto ha ottenuto questo effetto visivo. La sua superficie, come quella della piramide del Louvre, è formata da sezioni triangolari. Ci sono complessivamente 6433 triangoli. Per coprire la superficie curva è stato necessario utilizzare diversi tipi di triangoli: 136 varietà in tutto. Alcuni si uniscono per formare degli esagoni, mentre altri creano figure pentagonali. La struttura poliedrica sulla quale La Géode è modellata è l’icosaedro, il solido platonico costituito da 20 triangoli equilateri. Suddividendo questi triangoli in altri sempre più piccoli e imprimendo loro una lieve curva, l’architetto si è avvicinato alla forma di una sfera.
Tomer ama guardare nei vetri ricurvi la propria immagine allungata e allargata. L’impressione è quella di trovarsi in una sala degli specchi. All’interno della Géode aleggia una musica misteriosa, simile al suono di campane, che accresce ulteriormente l’effetto surreale. A quanto pare, questo suono è generato da un orologio musicale, ed è possibile conoscere l’ora basandosi sulla sua posizione in rapporto all’edificio.
Quando ci si serve dei triangoli per costruire una sfera completa, è essenziale che non ci siano errori nelle specifiche di ognuno dei tre lati. Il 16 aprile 1984, quando il creatore della Géode, vestito con un’avveniristica tuta spaziale, sistemò l’ultimo triangolo della struttura, fu un momento di grandissima tensione. Sarebbe bastato il più piccolo errore, e le tessere del puzzle sferico non avrebbero combaciato fra loro. La matematica e l’ingegneria si unirono per far sì che sulla superficie della Géode non ci fossero imbarazzanti buchi.
Liberté, égalité, fraternité
La passione francese per la sfera non è un fenomeno recente. La Géode realizza un sogno che risale a 200 anni fa. Nei primi decenni dell’Ottocento, la città di Parigi era al centro dei cambiamenti dinamici che stavano investendo l’Europa. La rivoluzione del 1789 aveva reso improvvisamente possibile ciò che prima era ritenuto impossibile. L’ancien régime era stato spazzato via, assieme a tutte le sue idee ormai sorpassate, dalle nuove idee radicali di giovani menti rivoluzionarie.
Égalité era la parola che tutti gridavano dalle barricate: ogni individuo, indipendentemente dal ceto sociale, deve ricevere lo stesso trattamento. La simmetria era entrata nel cuore stesso della società.
L’architettura era considerata un veicolo ideale per questo nuovo ethos. Nel 1784, Étienne-Louis Boullée aveva steso i progetti per la costruzione, a Parigi, di un’enorme sfera dedicata a Isaac Newton. I rivoluzionari francesi erano particolarmente attratti dalla natura egalitaria della sfera, un simbolo perfetto per incarnare i loro ideali, e adottarono i progetti di Boullée. Essi vedevano nella sfera la forma socialista per eccellenza, dato che in essa nessuna direzione risulta privilegiata rispetto alle altre.
La proposta prevedeva la costruzione di una sfera cava di 150 metri di diametro, con la superficie tempestata di piccoli buchi in modo da permettere alla luce di penetrare durante il giorno (figura 7.3). Lo scopo era quello di ricreare all’interno della sfera un’immagine del cielo notturno; essa sarebbe cioè stata il primo planetario. Di notte, l’interno sarebbe stato illuminato da un’enorme lampada sospesa nel mezzo della sfera, come il Sole che sedeva al centro dell’universo settecentesco. I rivoluzionari francesi però scoprirono che la realizzazione degli ideali matematici, proprio come quelli politici, non è sempre così semplice da ottenere, e per altri due secoli la creazione della sfera rimase per i parigini soltanto un sogno.
Figura 7.3: Uno schizzo della sfera di Étienne-Louis Boullée.
Il fervore di quel primo turbolento periodo esaurì infine la propria forza. Ciononostante, lo spirito rivoluzionario animò molte istituzioni fondate in quell’epoca, delle quali numerose sono sopravvissute fino a oggi. Furono creati nuovi centri d’apprendimento per coltivare i nuovi talenti di quest’epoca rivoluzionaria. Il 1794 vide la fondazione della grande École Polytechnique, che avrebbe trasformato l’educazione scientifica del Paese e avrebbe messo Parigi al centro della mappa intellettuale d’Europa.
Gli studenti della nuova École sarebbero stati selezionati solo sulla base della loro intelligenza e delle loro conoscenze. A nessuno sarebbe stato negato un posto per mancanza di mezzi economici. Ogni nuovo studente riceveva un salario di 900 franchi l’anno (circa 1500 euro di oggi), assieme a un rimborso delle spese di viaggio pari a quello ricevuto da un artigliere di prima classe dell’esercito. L’École aveva anche una propria uniforme militare. Fra tutte le discipline, quelle tenute in maggior conto erano la matematica e la scienza. Di fatto, il motto dell’École divenne Pour la Patrie, les Sciences et la Gloire, «Per la Patria, le Scienze e la Gloria».
Nel 1804, Napoleone fu incoronato imperatore. La Rivoluzione sembrò raggiungere una certa stabilità legando la propria bandiera al culto di Bonaparte. Napoleone, però, trasformò la politica rivoluzionaria in una missione volta alla conquista del mondo. La Francia si espanse, per poi contrarsi rapidamente. L’umiliante sconfitta subita da Napoleone nel 1814 rimise la Francia sotto la bianca bandiera borbonica e il regno di Luigi XVIII, fratello del ghigliottinato Luigi XVI. Cantare la Marsigliese fu dichiarato illegale e sui tetti di Parigi smise di sventolare il tricolore.
L’energia e la potenza che la Rivoluzione avevano scatenato in tutta Europa non potevano però esser tenute così facilmente a freno dai sostenitori della Restaurazione. L’École Polytechnique continuò a essere una spina nel fianco delle classi dirigenti e rimase un centro del giacobinismo e del liberalismo. Nonostante le fosse stato tolto lo status militare e il suo direttore fosse stato licenziato, i realisti (o ultraconservatori) riconoscevano comunque l’importanza della scuola al fine di formare i migliori scienziati che il Paese potesse avere. Anche se l’École Polytechnique stava preparando gli scienziati per l’età moderna, l’Accademia delle Scienze, fondata dall’ancien régime nel 1666, rappresentava ancora il pinnacolo del mondo accademico. L’Accademia era stata chiusa sotto la spinta dello zelo del primo periodo rivoluzionario, essendo considerata come uno strumento al servizio della causa realista, ma fu ben presto riaperta e rimessa al centro della vita intellettuale francese.
Nella primavera del 1829, uno studente diciassettenne di nome Évariste Galois attraversò il grande cortile dell’Accademia, che dava sulla Senna. Portava con sé un pacchetto da consegnare al professor Cauchy; al suo interno c’era un manoscritto e il giovane studente sapeva che avrebbe destato l’interesse non solo di Cauchy, ma anche del resto della comunità matematica. Ci volle una certa audacia, da parte di Galois, per scegliere di presentare le proprie idee a Cauchy anziché a un altro accademico. Il professore era famoso perché, durante le sessioni settimanali dell’Accademia, presentava soltanto i suoi lavori, e solitamente non era bendisposto nei confronti delle idee formulate da altri. Aveva completamente ignorato il lavoro di Abel e aveva incorporato l’opera di Ruffini all’interno delle proprie scoperte. Ma Galois era comunque convinto che le scoperte che aveva elaborato nei mesi precedenti avrebbero acceso una rivoluzione matematica in grado di rivaleggiare con quella che Robespierre aveva fatto scoppiare a Parigi.
Cauchy era solito ricevere manoscritti da tutta Europa da parte di autori sconosciuti che speravano che le loro opere fossero discusse nelle sessioni ordinarie dell’Accademia. Si era fatto strada a stento attraverso le 512 pagine della dimostrazione inviatagli dal medico italiano Ruffini; aveva combattuto con le sei dense pagine mandategli dal norvegese Abel. Ma rimase senz’altro piuttosto incuriosito quando vide l’indirizzo da cui arrivava questo particolare pacchetto: il Lycée Louis-le-Grand. Era la scuola che avevano frequentato sia Robespierre sia Victor Hugo, situata in un edificio solenne, ma alquanto fatiscente, sulla riva sinistra della Senna, non molto lontano dall’Accademia. Le sbarre alle finestre la facevano somigliare più a una prigione che a una scuola, e lo stesso regime scolastico che vigeva al suo interno faceva ben poco per allontanare questa impressione: la disciplina era rigida, le punizioni frequenti; c’erano una dozzina di celle spoglie, perennemente occupate dagli studenti colti a chiacchierare o a giocherellare in classe, o anche solo a rigirarsi troppo frequentemente nel letto.
Galois era cresciuto nel piccolo villaggio di Bourg-la-Reine, alla periferia di Parigi. Fino a quando non fu mandato come convittore al Lycée, alla tenera età di dodici anni, visse a casa, coccolato dai genitori. Per lui fu senz’altro un cambiamento doloroso. All’improvviso, fu costretto a vivere in un mondo dove veniva regolarmente punito, sottoposto a una dieta carceraria a base di pane secco e acqua e, di notte, veniva morso dai ratti che infestavano la scuola. Galois lavorò sodo per non deludere le grandi aspettative di suo padre. Gli piaceva soprattutto lo studio delle lingue, e nei primi tre anni impressionò i suoi insegnanti con la sua padronanza del latino e del greco.
All’età di quindici anni, si imbatté in un libro scritto dal matematico francese Adrien-Marie Legendre, che gli rivelò un nuovo linguaggio che sembrava rivolto direttamente a lui. Davanti ai suoi occhi si spalancò un nuovo mondo entusiasmante e pieno di mistero, in cui trovò un rifugio dagli orrori del Lycée. Il libro di matematica copriva due anni di corso, ma Galois lo divorò in due giorni. I suoi insegnanti si resero senza dubbio conto del cambiamento che era avvenuto in lui: «È stato preso dall’entusiasmo per la matematica». Riguardo alle altre discipline, i suoi insegnanti di lettere riferirono che:
Nei suoi lavori si trovano soltanto strane fantasie e negligenza; fa sempre tutto ciò che non dovrebbe fare. Peggiora di giorno in giorno. Continua a passare da un castigo all’altro. La sua ambizione, la sua originalità spesso ostentata e il suo carattere bizzarro lo tengono isolato dai suoi compagni di scuola.
Galois era certamente ambizioso. Suo padre, il sindaco di Bourg-la-Reine, era stato un grande sostenitore della Rivoluzione e aveva instillato nel figlio gli ideali in cui egli stesso credeva. Quando i Borboni ripresero il potere, egli fu uno dei pochi sindaci liberali eletti in Francia, aiutato in parte dalle sconsideratezze del candidato realista, che era stato costretto ad abbandonare la città.
Galois credeva che la grande École Polytechnique fosse il suo destino: un centro pieno di giovani rivoluzionari e la fucina del progresso accademico in Europa. Egli voleva fuggire dalla tediosa routine del Lycée. Così, andando contro i consigli dei suoi insegnanti e senza dire nulla ai genitori, nel giugno 1828, all’età di sedici anni, affrontò i severi esami d’ammissione all’École Polytechnique. Sfortunatamente, l’ambizione e l’arroganza non gli bastarono. Fu respinto.
Nella matematica c’è un senso di certezza che si diffonde in coloro che ne sanno padroneggiare il linguaggio. Galois non aveva dubbi riguardo alle proprie capacità, dato che era in grado di risolvere tutti i problemi che il suo insegnante gli sottoponeva. Nel mondo della matematica non c’erano ambiguità né spazio per la discussione. Le sue dimostrazioni erano corrette e lui lo sapeva. Ma la matematica è anche comunicazione. Nella mente di Galois tutti i concetti erano chiari e trasparenti, ma aveva ancora bisogno di imparare a esporre chiaramente le proprie idee a chi gli stava attorno.
Il fallimento agli esami di ingresso spronò Galois a dar prova di sé l’anno successivo. I candidati potevano tentare l’esame di ammissione soltanto due volte, ma lui era certo che la volta seguente avrebbe mostrato loro che meritava il suo posto nella più prestigiosa istituzione accademica d’Europa. Fu durante quell’anno che Galois trovò l’articolo che avrebbe gettato i semi di quelle scoperte contenute nel pacco che avrebbe in seguito consegnato a Cauchy. Si trattava dell’articolo che aveva ispirato il lavoro di Ruffini sulla soluzione delle equazioni di quinto grado, un articolo nel quale Lagrange aveva iniziato a esplorare che cosa sarebbe successo permutando tra di loro le cinque soluzioni, un po’ come quando si mescola un mazzo di carte.
Ispirato dall’articolo di Lagrange, Galois fece la scoperta concettuale che avrebbe condotto lui e la matematica, attraverso lo Stretto di Magellano, in un nuovo mondo dove la simmetria custodiva i suoi segreti. Nel pacchetto da lui consegnato a Cauchy all’Accademia c’erano i suoi primi tentativi di articolare le proprie idee. Questo lavoro, pensava Galois, avrebbe dimostrato che meritava un posto all’École Polytechnique.
Che forma ha la vostra equazione?
Galois comprese che alla base del tentativo di risolvere le equazioni di quinto grado si nascondeva un problema più sottile. Tartaglia aveva trovato dei modi per trasformare un’equazione di terzo grado fino a farla diventare come un’equazione che richiedeva l’estrazione di radici cubiche e radici quadrate. Anche se Abel aveva dimostrato che, in generale, era impossibile procedere in questo modo anche per tutte le equazioni di quinto grado, ce n’erano comunque alcune, come x5 = 3, che potevano essere risolte usando le radici quinte. Ma per quanto riguardava le equazioni come x5 + 6x + 3 = 0? Ci doveva essere, pensava Galois, un modo per distinguere le equazioni di quinto grado che potevano essere manipolate fino a diventare risolvibili attraverso le estrazioni di radici dalle equazioni alla quinta che erano impossibili da risolvere con lo stesso metodo.
Abel aveva dimostrato soltanto che non c’era una formula generale che permettesse di risolvere in un colpo solo tutte le equazioni di quinto grado. Anche lui aveva iniziato a riflettere su quella più sottile formulazione del problema a cui avrebbe poi pensato Galois, ma la sua morte prematura lo aveva privato della possibilità di esplorare ulteriormente questa strada. Galois si rese conto che la chiave per rispondere a questo problema stava nelle simmetrie delle soluzioni dell’equazione.
L’equazione x2 = 2 ha due soluzioni: la radice quadrata di 2, ossia 1,414…, e il negativo di questo numero. Allo stesso modo, con l’introduzione dei numeri immaginari, un’equazione di terzo grado, cioè un’equazione che contenga x3, ha tre soluzioni, e un’equazione di quinto grado, che contenga cioè x5, ne ha cinque. Quanto più cresce l’esponente di x, tante più soluzioni ci sono. Galois prese in esame le quattro soluzioni di un’equazione di quarto grado. Per esempio, due delle soluzioni di x4 = 2 sono numeri reali, vale a dire 1,18921… e il suo negativo, -1,18921… Le altre due soluzioni sono numeri immaginari, (1,18921…)i e -(1,18921…)i. Possiamo tracciare una figura che rappresenta queste soluzioni sulla mappa dei numeri complessi creata da Gauss (figura 7.4). A e C indicano qui le due soluzioni reali, mentre B e D sono le due soluzioni immaginarie.
In questa figura, i numeri sono stati trasformati negli angoli di un quadrato, e sono proprio le simmetrie del quadrato a custodire il segreto del motivo per cui questa equazione può essere risolta così facilmente. Galois comprese che questi quattro numeri erano collegati da alcune relazioni. Per esempio, sommando A e C si ottiene 0, così come sommando B e D. Pertanto, A + C = 0 e B + D = 0 possono essere considerate come «leggi» che mettono in relazione le soluzioni di questa particolare equazione. Ogni legge produce una sorta di rigidità nella figura.
Figura 7.4: Le simmetrie delle quattro soluzioni della quartica x4 = 2 corrispondono alle simmetrie di un quadrato.
Galois decise di esaminare i modi in cui è possibile permutare le soluzioni così che la nuova equazione sia ancora una legge. Per esempio, scambiando tra loro A e C otteniamo che C + A = 0, e ciò è ancora vero. Ma guardiamo che cosa accade se scambiamo invece B e C. L’equazione A + C = 0 diventa A + B = 0, ma questa nuova equazione è falsa. Questa permutazione non è una legge soddisfatta dai numeri A e B. Ci sono potenzialmente 24 modi differenti di permutare A, B, C e D, ma solo otto di queste permutazioni cambiano una legge in un’altra legge. Se interscambiamo i numeri facendoli ruotare in un ciclo va bene: se A va al posto di B, B a quello di C, C a quello di D e D a quello di A, le leggi A + C = 0 e B + D = 0 vengono cambiate in B + D = 0 e C + A = 0, che sono nuovamente leggi soddisfatte dai numeri.
Ma queste otto permutazioni di lettere non sono un bizzarro sottoinsieme delle 24 permutazioni possibili. Esse sono in realtà tutte le differenti permutazioni che descrivono le simmetrie del quadrato che si ottiene congiungendo i numeri A, B, C e D (figura 7.4). Le simmetrie del quadrato sono esattamente i modi in cui è possibile scambiare i numeri A, B, C e D, preservando al contempo le leggi. Le regole a cui le soluzioni obbediscono sono un po’ come la rigidità del quadrato: per quanto il quadrato venga ribaltato o fatto ruotare, gli angoli A e C devono sempre finire in posizione opposta l’uno rispetto all’altro, così come gli angoli B e D.
Galois non aveva una chiara visione delle possibili forme nascoste dietro un’equazione, o del motivo per cui quel linguaggio che stava sviluppando avrebbe contribuito a rivelare la simmetria di tali forme. Ma forse andava bene anche così, poiché il potere del linguaggio sta nella sua capacità di creare un’astrazione, una descrizione matematica che era indipendente da qualsiasi geometria sottostante. Ciò che Galois era invece in grado di vedere era che tutte le equazioni avrebbero avuto un loro particolare insieme di permutazioni delle soluzioni, che avrebbe preservato le leggi che mettevano in relazione tali soluzioni, e che l’analisi dell’insieme delle permutazioni avrebbe permesso di scoprire i segreti di ciascuna equazione. Egli chiamò questo insieme «il gruppo di permutazioni associato all’equazione». Galois scoprì che era il particolare modo in cui queste permutazioni interagivano tra loro che indicava se un’equazione poteva essere risolta oppure no.
Quando Galois prese altre equazioni di quarto grado, come x4 − 5x3 − 2x2 − 3x − 1 = 0, scoprì che esistevano meno leggi che collegavano tra di loro le soluzioni. Anche in questo caso, c’erano quattro numeri - A, B, C e D - che risolvevano l’equazione. Questa volta, però, c’era meno rigidità ed era possibile scambiare tutte le soluzioni in qualunque ordine preservandone tuttavia le leggi. Il «gruppo» di operazioni che Galois associò a questa equazione consisteva di tutte le 24 differenti disposizioni delle quattro soluzioni. Anche in questo caso, c’era un oggetto geometrico nascosto dietro questa equazione: questa volta, si trattava del tetraedro. Il tetraedro è il più semplice di tutti i solidi platonici e ha moltissime simmetrie. È possibile indicare le quattro soluzioni dell’equazione di quarto grado come i quattro vertici del tetraedro (figura 7.5). Tutte le differenti simmetrie del tetraedro corrispondono alle diverse permutazioni di questi quattro vertici. Le simmetrie del tetraedro e le permutazioni delle radici dell’equazione sono in realtà due differenti manifestazioni di qualcosa di astratto che cattura la simmetria nascosta dietro entrambe: ciò era quanto Galois stava iniziando ad articolare.
La conquista di Galois fu la scoperta che il gruppo di permutazioni associate a determinate equazioni quintiche avevano un carattere particolare che le rendeva alquanto diverse dalle equazioni di secondo, di terzo e di quarto grado. La forma nascosta dietro queste equazioni di quinto grado aveva delle simmetrie molto più complesse di quelle del tetraedro o del quadrato, oggetti che Galois aveva trovato nascosti dietro certe equazioni quartiche. Per esempio, le simmetrie delle cinque soluzioni di x5 + 6x + 3 = 0 erano strettamente collegate alle simmetrie di uno dei solidi platonici più complicati, l’icosaedro. Galois aveva scoperto che le simmetrie di quest’ultima figura erano di un diverso ordine di complessità rispetto a quelle del quadrato e del tetraedro. Il pacchetto che aveva consegnato all’Accademia, indirizzato a Cauchy, conteneva la sua esposizione del perché le cose iniziavano a farsi drammaticamente difficili con le equazioni di quinto grado.
Figura 7.5: Le simmetrie delle quattro soluzioni della quartica x4 − 5x3 − 2x2 − 3x− 1 = 0 corrispondono alle simmetrie di un tetraedro.
Manoscritti perduti
Quando Cauchy aprì il pacchetto di Galois, il suo cuore ebbe con tutta probabilità un sussulto di fronte alla vista di un altro gruppo di articoli che promettevano di dimostrare che le equazioni di quinto grado non potevano essere risolte. Leggendo attentamente il manoscritto, però, egli rimase catturato dalle idee che conteneva, in particolare per quanto riguardava il lavoro di Cauchy sulle permutazioni. Durante l’anno 1812, mentre era in convalescenza nella casa della sua famiglia a Parigi dopo il collasso avuto a Cherbourg, Cauchy aveva scritto due articoli che presentavano un linguaggio e un insieme di notazioni per la matematica delle permutazioni.
Per esempio, Cauchy usava la notazione (ABCD) per rappresentare la permutazione ciclica che manda A al posto di B, B al posto di C, C al posto di D e D al posto di A. Analogamente, (AC) significava «scambiare solo A e C e tenere fissi ai loro posti B e D». Ciò che Cauchy iniziava a vedere era che alla base di queste idee c’era una nuova aritmetica. Dopotutto, (ABCD) seguita da (AC) produceva una terza permutazione: A va al posto di B, B va a quello di A, C va a quello di D e D va a quello di C o, nel linguaggio di Cauchy, (AB)(CD). Egli la vedeva come una sorta di nuova moltiplicazione che poteva essere scritta come:
Cauchy aveva iniziato a esplorare la teoria di questo nuovo linguaggio in un articolo pubblicato nel 1815 che però, a causa della sua natura piuttosto astratta, non aveva avuto seguito. All’École Polytechnique, Cauchy si stava facendo la fama di spingere gli studenti in territori astratti. Il direttore aveva criticato la sua ossessione per la matematica pura a discapito dell’insegnamento di una matematica che avrebbe contribuito all’edificazione della Francia rivoluzionaria: «Molti ritengono che all’École l’insegnamento della matematica pura venga spinto troppo oltre e che un tale eccesso non richiesto venga a pregiudicare le altre branche».
Man mano che Cauchy proseguiva nella lettura dell’articolo di Galois, il suo iniziale scetticismo svaniva per lasciare posto a un forte entusiasmo di fronte alla matematica in esso contenuta. Il 25 maggio, i membri dell’Accademia rimasero certamente sorpresi quando, durante la loro riunione, Cauchy si alzò in piedi per far mettere a verbale il suo intento di tenere, in un successivo incontro, una presentazione dettagliata delle idee di Galois. Il fatto che Cauchy volesse presentare il lavoro di qualcun altro era già di per sé una prova di quanto lo ritenesse importante, soprattutto se consideriamo che si trattava dell’opera di un diciassettenne che frequentava ancora il liceo. Dato che Cauchy era la persona più adatta per analizzare questo lavoro, gli accademici furono d’accordo nel lasciare che tenesse con sé l’unica copia esistente, in modo da poter preparare la sua relazione.
Poche settimane dopo la consegna del suo manoscritto, Galois avrebbe avuto la sua seconda occasione di affrontare gli esami di ingresso all’École Polytechnique. Avrebbe allora potuto realizzare il suo sogno di unirsi agli studenti rivoluzionari, che egli credeva rappresentassero il futuro della Francia. Poteva vedere gli schieramenti politici francesi che si preparavano per affrontarsi nello scontro. I realisti stavano conquistando sempre più potere politico, e Galois sapeva che i giovani studenti dell’École Polytechnique sarebbero stati in prima linea, pronti alla battaglia per fermare la restaurazione dell’ancien régime.
Di fatto, però, mentre Galois si preparava per l’esame, fu la sua famiglia a Bourg-la-Reine a ritrovarsi sulla linea del fronte. All’inizio del 1829, un giovane prete cattolico era arrivato nella città di cui il padre di Galois, Nicolas, era sindaco. Incoraggiato dall’atmosfera politica che si respirava a Parigi, il giovane prete si era unito agli ultraconservatori locali per organizzare un complotto mirato a rovesciare il sindaco liberale vicino ai gesuiti. Nicolas Galois aveva la fama di scrivere versi per intrattenere gli amici. Il prete iniziò quindi a far circolare alcuni componimenti volgari attribuendoli falsamente al sindaco. Pur proclamando la propria innocenza, Nicolas non poté scrollarsi di dosso lo scandalo e fu infine costretto ad abbandonare la città. Affittò una camera a pochi isolati di distanza dalla scuola di suo figlio. Il 2 luglio, si suicidò impiccandosi. Nella vita del ragazzo era esplosa una bomba, che aveva mandato in frantumi quelle solide fondamenta su cui egli pensava di riposare.
Anche da morto, Nicolas Galois continuava ad avere moltissimi sostenitori nella sua città. Numerosi cittadini andarono incontro al feretro mentre veniva riportato da Parigi a Bourg-la-Reine e lo accompagnarono in chiesa. Sebbene il sindaco si fosse suicidato, il prete acconsentì a celebrare una funzione per lui e a seppellirlo in terra consacrata. Forse lo fece per alleviare il senso di colpa che avvertiva per averlo spinto al suicidio. Altre persone, però, trovarono intollerabile l’ipocrisia del sacerdote, che aveva orchestrato la morte del sindaco e ora ne celebrava il funerale. Galois vide il funerale di suo padre trasformarsi in uno scontro politico tra i realisti e i liberali, i cattolici e i gesuiti. Furono lanciati sassi contro il prete e gridati insulti mentre la bara veniva tumulata. Galois ritornò a Parigi con il fuoco della politica che gli bruciava in petto. Ma, nonostante questo, doveva cercare di concentrarsi sugli imminenti esami d’ammissione.
Stando a tutte le testimonianze, l’esame davanti a due professori dell’École Polytechnique fu un disastro. Galois non mostrò alcun rispetto per coloro che considerava due mediocri matematici. Alle loro domande rispose con uno sdegnoso «questo è ovvio». Per l’acuta mente matematica di Galois, certe asserzioni erano evidentemente scontate. Ciò che però non era altrettanto chiaro era che, se voleva farcela, doveva stare al loro gioco.
Nella sua testa c’era senz’altro molta agitazione, avendo appena seppellito suo padre in circostanze così traumatiche. Forse, agli occhi di Galois, i due esaminatori incarnavano quell’ancien régime a cui dava la colpa per la morte di suo padre. Stando a un rapporto dell’esame, Galois arrivò addirittura al punto di scagliare un cancellino da lavagna dall’altra parte dell’aula. Non è quindi una sorpresa che non sia riuscito a ottenere, per la seconda e ultima volta, la possibilità di accedere all’École. Nel giro di un mese, l’euforia per le sue scoperte nel mondo della matematica aveva lasciato il posto al crollo delle sue speranze e dei suoi sogni nel mondo reale.
Anziché accedere all’École Polytechnique per essere preparato a far parte dell’élite accademica e politica, Galois dovette accontentarsi di andare all’École Préparatoire, dove venivano formati gli insegnanti delle scuole. Si trattava di un’istituzione reazionaria e religiosa, dove il non presentarsi regolarmente alla confessione portava all’espulsione. Ora, relegato in ciò che considerava come un mortorio accademico, l’unica speranza di Galois stava nell’attendere l’opinione di Cauchy a proposito del manoscritto che aveva consegnato all’Accademia.
Cauchy si era impegnato a tenere la sua relazione all’Accademia sul manoscritto del giovane matematico il 18 gennaio 1830. Ma l’enorme carico di lavoro cui Cauchy si sottoponeva stava iniziando a minare la sua salute. Non si presentò all’incontro e mandò una lettera di scuse per giustificare la propria assenza:
Avrei dovuto presentare oggi all’Accademia una relazione sul lavoro del giovane Galoi [sic] e una dissertazione sulla determinazione analitica delle radici primitive in cui mostro come è possibile ridurre questa determinazione alla soluzione di equazioni numeriche le cui radici sono tutte numeri interi positivi. Sono però indisposto a casa. Mi dispiace di non poter partecipare alla sessione odierna, e gradirei se metteste in calendario per la prossima sessione questi miei due interventi. Vi prego di accettare i miei omaggi […]. A. L. Cauchy.
Questa fu l’ultima volta in cui si sentì parlare del primo manoscritto di Galois. La settimana successiva, Cauchy presentò soltanto il proprio lavoro. Galois non ricevette mai indietro il proprio manoscritto, che non fu neppure mai trovato tra le cose appartenute a Cauchy. Anche il trattato di Niels Abel presentato all’Accademia era andato perduto mentre si trovava in possesso di Cauchy, ma ricomparve dopo la morte di Abel.
In merito al comportamento tenuto da Cauchy rispetto a Galois, gli storici si dividono: alcuni ritraggono Cauchy come un uomo egocentrico e negligente, interessato soltanto al proprio lavoro; altri ipotizzano che Cauchy potrebbe essere stato la persona che incoraggiò Galois a presentare una versione riveduta del proprio manoscritto per concorrere a un nuovo premio appena annunciato dall’Accademia per la soluzione di un problema. Il Grand Prix dell’Accademia era la più grande onorificenza che la scienza europea potesse conferire. Il premio sarebbe stato assegnato per la più ragguardevole applicazione della matematica alla fisica generale o all’astronomia, oppure per un’importante scoperta analitica. Il termine per la presentazione delle domande era il 1° marzo. Nel collegio dei giudici c’erano anche Siméon-Denis Poisson e Louis Poinsot, l’uomo che aveva scoperto il nuovo solido simmetrico formato da un’intersezione di pentagoni. Forse non sapremo mai se fu Cauchy a incoraggiare Galois o se fu lo stesso Galois a decidere che, dopo aver aspettato per mesi che Cauchy si facesse sentire, l’unico modo per ottenere una risposta dall’Accademia era quello di presentare un nuovo manoscritto, mettendolo in lizza per il premio.
Per valutare il secondo manoscritto di Galois fu nominato un altro membro dell’Accademia, Jean-Baptiste Fourier. Tuttavia, per Galois le cose non andarono meglio nemmeno con questo suo secondo giudice. Il 16 maggio 1830, poche settimane dopo aver preso in custodia il lavoro di Galois, Fourier morì. Per la seconda volta, un manoscritto di Galois andò perduto per non riapparire mai più. In assenza di un manoscritto o di una relazione su di esso, Galois non fu preso in considerazione per il premio. Non fu mai messo al corrente di ciò che era successo allo scritto da lui presentato. Alla fine, quell’anno il premio fu assegnato postumo ad Abel.
Rivoluzione
Il 26 luglio 1830, incoraggiato dalla crescente forza degli ultraconservatori, re Carlo X decise di sciogliere il Parlamento, di riscrivere le leggi elettorali in modo da restringere il diritto di voto ai cittadini sufficientemente ricchi e di sospendere la libertà di stampa. Le ordinanze furono come un fazzoletto rosso agitato davanti agli occhi dei tori rivoluzionari, che stavano diventando sempre più irrequieti. Il giorno seguente, quattro quotidiani pubblicarono provocatoriamente degli articoli che denunciavano le azioni del re e incitavano alla ribellione. Nelle prime ore del pomeriggio, le strade parigine erano gremite di persone che scandivano slogan contro i gendarmi mandati per disperderle. I dimostranti iniziarono a lanciare pietre contro la polizia, partirono i primi colpi d’arma da fuoco e si scatenò il panico. Una ragazza rimase uccisa. Un operaio sollevò il suo corpo esanime, lo depose ai piedi di una statua di Luigi XIV e invocò vendetta a gran voce. La città fu presto in preda a una rivolta di quelle che in Francia non si vedevano dal 1789. Le strade di Parigi erano nuovamente bloccate da barricate costruite con carri rovesciati e mobili portati via dagli uffici governativi.
Mentre su Parigi calava la notte, Galois, ora studente dell’École Préparatoire, poteva sentire l’odore dei fuochi che bruciavano sulle barricate e ascoltare le strofe della Marsigliese cantate dai rivoluzionari che bloccavano le strade. Per contenere il crescente numero di cittadini che stavano imbracciando le armi, fu mobilitato l’esercito. La mattina seguente, anche gli studenti rivoluzionari dell’École Polytechnique si unirono ai rivoltosi. Anche se le entrate dell’École erano sorvegliate da reggimenti dell’esercito, gli studenti riuscirono a fuggire scalando le mura e si diressero alle barricate, da dove condussero molti sanguinosi attacchi contro le truppe. Per le strade risuonavano le canzoni degli studenti: «Compagni francesi, cantiamo l’eroico coraggio dei giovani dell’École Polytechnique». Nel pomeriggio, gli studenti avevano già preso il controllo del Quartiere Latino.
Quella rivoluzione a cui Galois aveva sognato di partecipare fin dalla morte di suo padre era infine arrivata. Ma anziché unirsi ai suoi compagni di ideali politici sulle barricate, Galois era costretto a restarsene seduto a sentire la rivoluzione da dietro le porte chiuse dell’École Préparatoire sulla Rue Saint-Jacques, a pochi isolati di distanza dal luogo dell’azione. Se i professori dell’École Polytechnique erano fin troppo felici di sostenere l’azione dei loro studenti, il direttore dell’École Préparatoire proibì invece a tutti gli iscritti della sua scuola di farsi coinvolgere. Galois e i suoi compagni di classe vennero di fatto imprigionati nell’edificio e fu loro ricordata la solenne promessa di fedeltà allo Stato che avevano professato quando si erano iscritti. Il direttore minacciò che, nel caso fosse stato necessario, avrebbe chiamato le truppe, per impedire ai suoi studenti di unirsi all’insurrezione.
Galois era infuriato. Alla sera del secondo giorno di rivoluzione, non poté più trattenersi. Era veramente troppo dover ascoltare gli studenti dell’École Polytechnique che stavano facendo la storia, mentre lui era rinchiuso nella Préparatoire con un gruppo di futuri insegnanti mediocri, nessuno dei quali era disposto a sfidare gli ordini del direttore. Quella notte, da solo, tentò di scalare le mura, che si dimostrarono però troppo alte. Giunti al terzo di quelli che sarebbero diventati celebri come i «Tre giorni gloriosi», l’esercito reale o aveva disertato per unirsi ai cittadini sulle barricate, oppure era fuggito in esilio assieme a Carlo X. La bianca bandiera borbonica non sventolava più su Parigi, ritornata sotto il controllo dei repubblicani. Nell’aria mattutina, una cacofonia di campane delle chiese annunciava la vittoria della rivoluzione.
Ma c’era un problema. La rivolta aveva avuto un così gran successo che Parigi aveva l’opportunità di far risorgere nuovamente la Repubblica della Rivoluzione del 1789. Questo, però, era un rischio che i repubblicani più moderati non erano pronti a correre. La Francia era stata isolata e messa in ginocchio dal resto dell’Europa per la sua precedente avventura repubblicana. Ora non era il momento opportuno per la nascita di un’altra Repubblica vera e propria, evento per cui si sarebbe dovuta aspettare l’ondata rivoluzionaria che avrebbe spazzato l’intero continente europeo nel 1848. I leader dei Tre giorni gloriosi decisero invece di invitare il duca d’Orléans a diventare il nuovo re, un re che credevano avrebbe appoggiato le istituzioni governative senza cercare, come aveva fatto il suo predecessore, di assumere direttamente eccessivi poteri. Incoronato il 9 agosto con il nome di Luigi Filippo I, il re fu presentato assieme alla bandiera tricolore.
Per i rivoluzionari più radicali, il ripristino della monarchia rappresentò un tradimento del sacrificio di quasi 2000 cittadini, che avevano perso la vita per ammainare la bandiera borbonica che sventolava su Parigi. L’esperienza di essere stato imprigionato nel suo collegio durante la rivoluzione spinse Galois ancora di più verso l’ala estremista. Durante le vacanze estive presso la casa della sua famiglia a Bourg-la-Reine, Galois arringò sua madre e i suoi fratelli con ardenti discorsi sovversivi. La rivoluzione di luglio era fallita, dichiarò. Era necessario lanciare un’altra ribellione, nella quale questa volta era determinato ad avere un ruolo centrale: «Se solo fossi sicuro che il sacrificio di una vita sarebbe sufficiente a incitare il popolo alla rivolta, offrirei la mia».
Il crescente zelo rivoluzionario di Galois giunse al culmine quando, nell’autunno del 1830, fece ritorno a Parigi per il nuovo anno accademico. In una lettera ai giornali, egli accusò il direttore dell’École Préparatoire di essere un traditore della Repubblica, per la sua decisione di non permettere ai suoi studenti di salire sulle barricate. Il direttore rispose subito, scrivendo al ministero dell’Istruzione: «Ho espulso Évariste Galois. In nome del suo indubbio talento per la matematica, avevo finora tollerato il suo comportamento anticonformista, la sua pigrizia e il suo carattere molto difficile». Ma non lo avrebbe tollerato più a lungo. Galois era ora libero da ogni vincolo.
Durante il tempo passato all’École Préparatoire, Galois aveva trovato un solo vero amico: Auguste Chevalier. Auguste era un anno avanti rispetto a Galois, e suo fratello studiava all’École Polytechnique. I tre discutevano a lungo di politica. I Chevalier erano seguaci del movimento politico utopistico del sansimonismo, ma la riluttanza dei sansimoniani a ricorrere alla violenza per raggiungere i loro obiettivi politici non fece presa su Galois e sulla sua sempre più aggressiva posizione repubblicana. Egli andò invece a cercare il gruppo repubblicano più attivo, noto come la Société des Amis du Peuple. A causa degli articoli pubblicati sugli organi di stampa controllati dal governo, che dipingevano la Société come una pericolosa banda di militanti, i bottegai abbassavano le saracinesche alla semplice vista di un membro di questa società.
Galois si arruolò anche nella Guardia Nazionale anarchica. Fondata al culmine della Rivoluzione del 1789, la Guardia era una milizia che non faceva parte dell’esercito regolare francese. Dotata di proprie bandiere, inni e uniformi, la Guardia assomigliava piuttosto a un’ala militare del movimento repubblicano. Alla fine, anche Galois poté indossare un’uniforme militare come i suoi compagni d’armi dell’École Polytechnique. Ma diversi mesi dopo la sua incoronazione, Luigi Filippo mise fuori legge sia la Guardia Nazionale sia la Société des Amis du Peuple. Il re era consapevole della minaccia che questi due gruppi rappresentavano, scontenti com’erano del fatto che i Tre giorni gloriosi non erano riusciti a ripristinare un vero governo repubblicano. Gli incontri della Société dovevano ora tenersi in clandestinità.
Per Galois, l’espulsione dall’École Préparatoire fu un’esperienza liberatoria; tuttavia, come rovescio della medaglia, ora non riceveva più quell’assegno governativo a cui aveva diritto come studente. Per raccogliere un po’ di fondi, decise allora di organizzare una serie di conferenze pubbliche settimanali. Tenute nel retrobottega della libreria di un amico, queste conferenze gli avrebbero offerto l’occasione di pubblicizzare le scoperte matematiche che aveva fatto e che erano cadute nel vuoto quando le aveva presentate all’Accademia.
Galois mise un annuncio su un giornale in cui segnalava il primo incontro, che si sarebbe tenuto alle 13:15 di giovedì 13 gennaio 1831 nella libreria Caillot di Rue de la Sorbonne. All’incontro si presentò un folto pubblico di quasi 40 persone. I fratelli Chevalier erano desiderosi di appoggiare il loro amico, e a essi si unirono diversi membri della Société des Amis du Peuple, che si aspettavano forse che Galois sfruttasse le conferenze per promuovere la loro causa rivoluzionaria. Ma se ciò in cui speravano era una rivoluzione politica, le loro aspettative andarono deluse. Dopo diverse settimane, il pubblico scomparve. Galois aveva cercato di spiegare le sue nuove idee per un linguaggio rivoluzionario in grado di trasformare lo studio delle equazioni e, in ultima analisi, la teoria della simmetria. Ma le sue conferenze risultavano impenetrabili, come i manoscritti che aveva mandato all’Accademia.
È tuttavia possibile che uno dei membri del pubblico fosse l’accademico Poisson, uno dei giudici del Grand Prix a cui Galois aveva concorso l’anno precedente. Poco dopo la prima conferenza, Galois fu avvicinato dal grande matematico che lo invitò a presentare un terzo manoscritto che spiegasse la sua nuova visione matematica. Galois scrisse una nuova introduzione e, ancora una volta, attraversò il cortile dell’Accademia per depositare il suo manoscritto in segreteria. Il giorno seguente, durante la sessione di lavori dell’Accademia, Poisson e Sylvestre Lacroix furono incaricati di riferire sul terzo tentativo fatto da Galois per convincere l’élite matematica della validità della propria scoperta.
Sotto processo
Questa volta, non fu più Cauchy a esaminare gli scritti. Se Galois era deluso dalla mancanza di zelo rivoluzionario del nuovo governo, per i gusti di Cauchy il nuovo regime era invece di gran lunga troppo estremista. Poco dopo essere entrato in carica, il governo aveva insistito perché i funzionari pubblici, compresi i professori dell’École Polytechnique, giurassero fedeltà al nuovo regime.
Ma Cauchy non era disposto a tradire le sue profonde convinzioni religiose e politiche e si rifiutò di inchinarsi alle richieste. Spinto anche dai suoi ricordi infantili dei traumi della Rivoluzione del 1789, Cauchy fuggì da Parigi il 30 agosto 1830. Dal suo esilio, prima in Svizzera e poi in Italia, si vide privato di tutte le cariche che aveva rivestito nell’Accademia e nell’École Polytechnique. Cauchy aveva troppa paura di far ritorno a Parigi con quel clima politico e, nonostante avesse lasciato dietro di sé sua moglie e i suoi figli, rimase in esilio per otto anni.
Con il suo manoscritto ora in nuove mani, Galois si sentiva speranzoso di poter infine ricevere un riconoscimento per il lavoro che aveva svolto. Iniziò anche a seguire gli incontri settimanali dell’Accademia, nella speranza di ascoltare una relazione sul proprio scritto. La sua arrogante sicurezza del proprio talento matematico gli diede il coraggio di commentare ad alta voce il lavoro di altri matematici, nonostante avesse solo diciannove anni. Si stava facendo una fama per le sue interruzioni aggressivamente critiche. Dopo uno scambio di battute particolarmente acceso tra Galois e un professore dell’Accademia, Sophie Germain, una delle poche donne che partecipavano a questi incontri, scrisse al professore per consolarlo: «Ha mantenuto la sua capacità di essere sgarbato, della quale vi ha offerto un assaggio dopo il vostro eccellente intervento all’Accademia».
Passarono diversi mesi, e Galois non aveva ancora sentito discutere il suo manoscritto. Incapace di tenere ulteriormente a freno la sua impazienza, egli scrisse di getto una lettera al presidente dell’Accademia che celava a malapena la rabbia che stava evidentemente ribollendo sotto la superficie:
La ricerca che costituisce questa dissertazione è parte di un lavoro che avevo presentato l’anno scorso per il Grand Prix de Mathématiques […] il comitato del premio ha deciso che non era possibile che io lo avessi risolto, in primo luogo perché il mio nome è Galois e poi perché sono uno studente. Sono stato informato che la mia dissertazione è andata perduta. Avrei già dovuto imparare una lezione da questo fatto. Ciononostante, l’ho parzialmente riscritta e l’ho ripresentata a voi su consiglio di un membro dell’Accademia.
Egli proseguiva chiedendo che Lacroix e Poisson o ammettessero di aver perso l’ultimo manoscritto, o per lo meno dicessero se avevano intenzione di presentare una relazione su di esso all’Accademia.
La sua disperazione di fronte ai difetti delle istituzioni traboccò infine con spettacolari conseguenze. Il 9 maggio, i membri della Société des Amis du Peuple invitarono 200 compagni repubblicani a un banchetto per celebrare la recente liberazione di diversi membri della loro organizzazione. Diciannove membri erano stati accusati per aver sfoggiato l’uniforme della Guardia Nazionale dopo il decreto di scioglimento emanato dal re. Al processo, il verdetto di non-colpevolezza aveva elevato i 19 al rango di eroi nazionali.
La festa risuonava del rumore dei tappi di champagne e di una serie di discorsi sempre più arditi e di brindisi al movimento repubblicano. Galois, riscaldato da un’eccessiva quantità di alcol e dall’atmosfera politica appassionata, saltò in piedi, spronato dai suoi giovani coetanei. Sollevò il bicchiere e gridò: «A Luigi Filippo!». Diversi commensali iniziarono a fischiarlo per aver brindato al re, che loro volevano deporre. Ma poi diversi altri notarono uno scintillio nell’altra mano di Galois. Era un piccolo pugnale. Il brindisi di Galois era una vera e propria minaccia alla vita del re. I fischi si trasformarono in applausi e nella sala del banchetto scoppiò un trambusto. Diversi fra i repubblicani meno estremisti compresero che la festa stava diventando pericolosa e fuggirono dalle finestre del ristorante prima dell’arrivo delle truppe.
Il giorno seguente, Galois fu arrestato per istigazione a delinquere e minaccia alla vita del re. Condotto in aula per il processo il 15 giugno, riuscì a evitare la condanna alla prigione grazie alla vivacità d’ingegno del suo avvocato difensore. Nonostante il desiderio del giovane matematico di sacrificarsi per la causa repubblicana e di andare incontro al martirio, il suo avvocato protestò, dicendo che Galois non aveva di fatto specificato la sua minaccia. Nel trambusto che era seguito al suo iniziale grido di «A Luigi Filippo», gli ospiti non si erano accorti che lui aveva poi aggiunto «se diventerà un traditore». Il suo avvocato sostenne quindi che Galois aveva semplicemente preso in considerazione una situazione ipotetica e che la sua intenzione non era affatto stata quella di minacciare la vita del re.
L’episodio si concluse con alcune ripercussioni matematiche. Per sostenere il loro amico al suo processo, i fratelli Chevalier pubblicarono un articolo su «Le Globe», un giornale simpatizzante del movimento sansimoniano, nel quale deplorarono ogni ricorso alla violenza e le minacce alla vita del re, ma presentarono anche diverse circostanze attenuanti: Galois era un genio matematico, il cui lavoro era stato ignorato o perso dalle istituzioni. «Egli sentiva di avere in sé i semi di un brillante futuro ma, privo di protettori e amici, nutriva un violento odio contro il regime» scrissero. L’articolo documentava ripetutamente che Galois aveva presentato le sue idee perché venissero commentate all’Accademia, ma non aveva ricevuto risposta. Anche adesso, il manoscritto si trovava da «Poisson, che ha l’incarico di esaminarlo, ma lo sventurato autore sta aspettando una parola gentile dall’Accademia da ormai più di cinque mesi».
Il fatto di vedere il proprio nome sul giornale spinse senz’altro Poisson a darsi da fare, ma il tono dell’articolo non lo portò certo a guardare il manoscritto di Galois con favore. Nella relazione che presentò all’Accademia, egli dichiarò che «la tesi non è né sufficientemente chiara, né abbastanza sviluppata da permetterci di giudicarne il rigore. E, da parte nostra, noi non siamo in grado di esporre una chiara idea intorno a questo lavoro». Per la prima volta, comunque, Galois ottenne almeno che gli venisse restituito il suo manoscritto.
Una settimana dopo, alla vigilia dell’anniversario della presa della Bastiglia, Galois fu nuovamente arrestato, questa volta per aver indossato l’uniforme messa al bando della Guardia Nazionale e per porto abusivo di armi, e fu rinchiuso in cella per la notte. Il suo compagno di cella peggiorò la situazione di Galois, riempiendo le pareti di vignette politiche e slogan contro il re. Questa volta, la corte non fu altrettanto clemente. Dopo tre mesi trascorsi in attesa del processo, Galois fu giudicato colpevole e condannato a nove mesi da scontare nella prigione di Sainte-Pélagie, alla periferia meridionale di Parigi.
Escapismo matematico
Da sempre, i prigionieri hanno trovato nell’escapismo letterario un modo per affrontare la privazione della libertà fisica. Il romanzo seicentesco Il viaggio del pellegrino fu scritto nella prigione di Bedford, dove John Bunyan rimase incarcerato per 12 anni. Il Marchese de Sade, Oscar Wilde e Adolf Hitler scrissero tutti delle opere significative mentre si trovavano in prigione. Ma la storia reca anche testimonianza di un modo leggermente più insolito di vincere il tedio delle ore trascorse chiusi in cella con la sola compagnia del proprio cervello: l’escapismo matematico. Negli anni Ottanta del Novecento, alcuni degli ostaggi incarcerati per anni nel Libano descrissero come l’esplorazione mentale dei numeri li aveva aiutati a rendere meno pesanti i loro giorni di isolamento.
Nel 1940, il matematico pacifista André Weil, fratello della filosofa francese Simone Weil, si ritrovò in prigione in attesa di affrontare il processo per diserzione. Durante quei mesi trascorsi nel carcere di Rouen, Weil produsse una delle più grandi scoperte del XX secolo sulla soluzione delle curve ellittiche. Scrisse a sua moglie: «Il mio lavoro matematico sta procedendo oltre le mie più rosee aspettative, e la cosa mi preoccupa anche un po’: se riesco a lavorare così bene soltanto in prigione, dovrò fare in modo di farmi rinchiudere in cella per due o tre mesi ogni anno?». Sentendo della sua scoperta, il suo compagno matematico Henri Cartan gli rispose: «Non tutti abbiamo la fortuna di poterci sedere a lavorare indisturbati come te […]».
Ritrovandosi chiuso in cella, anche Galois prese la via dell’escapismo nella sua matematica. Mentre si trovava in carcere, ricevette la relazione di Poisson sul suo manoscritto. Per quanto fosse profondamente negativa, si concludeva per lo meno con un ultimo paragrafo incoraggiante:
L’autore sostiene che la proposizione che costituisce l’argomento della sua dissertazione fa parte di una teoria generale ricca di applicazioni. Capita spesso che diverse parti di una teoria si chiarifichino a vicenda, così che è più facile comprenderle assieme che non prese singolarmente. Occorrerebbe quindi aspettare che l’autore pubblichi il proprio lavoro nella sua interezza prima di farsene un’idea definitiva.
Galois decise quindi di riscrivere il manoscritto che gli era stato restituito, aggiungendo una nuova e più ampia introduzione. Mentre procedeva nel suo lavoro matematico, i suoi compagni di prigione iniziarono a considerarlo come il loro giovane studioso.
Egli, tuttavia, non poteva tenere per sé quel senso di frustrazione che provava di fronte al trattamento meschino che aveva ricevuto dall’Accademia di Francia e, in ultima analisi, dall’Institut de France, che sovrintendeva il lavoro di tutte le accademie francesi. Il suo nuovo scritto si apriva con parole al vetriolo, cariche di rabbia:
Sono gli uomini di scienza a essere responsabili della perdita dei miei manoscritti tra i documenti dell’Institut de France. Non riesco a comprendere una simile negligenza da parte di uomini che hanno sulla loro coscienza la morte di Abel, né desidero essere paragonato a quell’eminente matematico.
Ma Galois non spese tutto il suo tempo a inveire contro le istituzioni matematiche. Scrisse anche delle potenzialità di un nuovo approccio concettuale alla matematica, di una presa di distanza dai calcoli complicati di Eulero per muoversi verso l’«eleganza dei matematici moderni, le cui menti afferrano rapidamente, in un colpo solo, un gran numero di operazioni». La sua grande scoperta fu quella di identificare una nuova entità astratta, da lui chiamata col nome di «gruppo». La via per trovare la vera essenza delle simmetrie di un oggetto non era quella di concentrarsi su ciascuna di esse presa individualmente, bensì quella di studiarle assieme come un gruppo.
Galois si scontrò con quel problema che ogni matematico deve affrontare quando presenta per iscritto una nuova scoperta. Se esponete solo pochi dettagli, i lettori non avranno indicazioni sufficienti ad attraversare il nuovo labirinto matematico. Se, al contrario, li sommergete con troppe precisazioni, essi non avranno una chiara visione d’insieme del luogo dove state cercando di condurli. Le sei pagine di Abel si trovavano a un’estremità di questo spettro, mentre il poema epico di 512 pagine scritto da Ruffini si trovava a quella opposta.
Galois si rese conto che la sua dissertazione era alquanto breve sul piano delle spiegazioni: «Quando vide i miei manoscritti, il tipografo pensò che fossero solo un’introduzione». Egli, tuttavia, ammise che sarebbe stato
troppo semplice limitarsi a sostituire tutte le lettere dell’alfabeto che comparivano in ciascuna equazione, cosa che avrebbe portato al risultato di moltiplicare indefinitamente il numero delle equazioni stesse. Una volta esaurito l’alfabeto latino, avrei potuto usare quello greco; e, finito anche questo, ci sarebbero state ancora le lettere gotiche tedesche, e nulla ci avrebbe poi impedito di usare i caratteri siriaci o persino quelli cinesi!
Ciò che stava invece cercando di fare era comunicare la propria comprensione dei concetti: «C’è tanto francese quanta algebra», una cosa che si potrebbe dire di molti articoli matematici, e che giunge come una sorpresa per coloro che si aspettano una semplice sfilza di equazioni. Galois, tuttavia, stava ancora cercando di trovare quella voce matematica che gli avrebbe consentito di far vivere le sue idee nelle menti degli altri.
Mentre si trovava in prigione, Galois fece amicizia con un altro membro della Société des Amis du Peuple, che a sua volta trascorreva le proprie ore in cella studiando e scrivendo. François-Vincent Raspail, più vecchio di 17 anni rispetto a Galois, si era già fatto un nome come uno dei più grandi scienziati naturalisti francesi grazie a una sua importante classificazione delle erbe e a una nuova teoria delle cellule. Discutendo con Galois, Raspail si accorse del talento del giovane matematico: «Nel giro di due anni diventerà Évariste Galois, lo scienziato! Ma la polizia non vuole che esistano scienziati di questo calibro e con questo temperamento».
Gli altri prigionieri, però, non avevano altrettanto rispetto, e si divertivano a stuzzicare il giovane rivoluzionario privo di esperienza. In più occasioni sfidarono Galois a delle gare a chi beveva di più. Come raccontò Raspail nelle sue lettere dalla prigione:
Rifiutare la sfida sarebbe un atto di codardia. E il nostro povero Bacco ha così tanto coraggio nel suo fragile corpo che darebbe la sua vita per la centesima parte della più piccola nobile impresa. Egli, quindi, afferra il piccolo bicchiere come Socrate quando prese coraggiosamente la cicuta; lo ingoia tutto d’un fiato, non senza battere le palpebre e fare una smorfia. Un secondo bicchiere non è più difficile da svuotare di quanto lo sia il primo, e così il terzo. Il principiante perde il proprio equilibrio. Trionfo! Omaggi al Bacco della cella! Avete ubriacato un’anima ricca d’ingegno, che prova orrore di fronte al vino.
In un’altra lettera dal carcere, Raspail raccontò come Galois, da ubriaco, gli aveva aperto il proprio cuore:
Come ti voglio bene, in questo momento più che mai. Tu non ti ubriachi, sei una persona seria e un amico dei poveri. Ma che cosa sta succedendo al mio corpo? Ci sono due uomini dentro di me e, sfortunatamente, posso indovinare quale dei due sta per sopraffare l’altro. Sono troppo impaziente per raggiungere l’obiettivo. Le passioni della mia età sono tutte imbevute d’impazienza […]. Guarda qui! Non mi piace l’alcol. Ma mi basta una parola per berlo, turandomi il naso, e per ubriacarmi. Non mi piacciono le donne, e mi sembra che potrei amare soltanto una Tarpeia o una Gracca. Eppure ti dico che morirò in un duello per causa di una qualche civetta di basso rango. Perché? Perché lei mi inviterà a vendicare il suo onore che qualcun altro ha compromesso. Sai che cos’è che mi manca, amico mio? Lo confido solo a te: è qualcuno che io possa amare, e amare soltanto in spirito. Ho perso mio padre e nessuno lo ha mai sostituito, mi ascolti […]?
Le sue parole sono talmente profetiche che l’unica ipotesi sensata che possiamo fare è che la lettera di Raspail sia stata riveduta negli anni successivi alla morte di Galois. Ma Galois per poco non riuscì a uscire di cella per andare incontro al proprio destino. Una sera, mentre stava andando a letto, un colpo d’arma da fuoco balenò nel cortile della prigione e un uomo nella sua cella cadde a terra. Sembrava che qualcuno nella soffitta dall’altra parte del cortile, dove erano sistemate le guardie, avesse deciso di eliminare i prigionieri. Quando infine arrivarono le guardie di servizio, i prigionieri erano in tumulto. Galois in particolare era furibondo, essendo convinto che il colpo fosse diretto a lui. Accusò il direttore della prigione di aver deliberatamente organizzato l’assassinio dei prigionieri difficili. Il direttore, vedendo che nel carcere stava per scoppiare una sommossa, fece subito gettare Galois in una cella di isolamento nelle segrete sotterranee della prigione.
Gli altri prigionieri protestarono a gran voce di fronte al trattamento subito da Galois: «Avete gettato nelle segrete la vittima e il testimone di questa vergognosa trappola? Questo giovane Galois non è uno che alza la voce, come ben sapete; quando vi parla rimane freddo come la sua matematica». «Galois nelle segrete!» gridò un altro. «Bastardi! Ce l’hanno con il nostro piccolo studioso.» La sera si concluse con una rivolta generale.
L’amore al tempo del colera
La natura ultraterrena della matematica finisce spesso per riversarsi su coloro che trascorrono molto tempo nel suo reame. La paura delle donne da parte di Galois, da lui confidata al suo amico Raspail, era probabilmente il risultato della sua completa incapacità di afferrare le regole e la logica del complicato gioco dell’amore. Il suo unico esperimento in questo campo ebbe conseguenze disastrose.
Non furono l’uccisione o l’imprigionamento degli attivisti politici a seppellire infine il sogno di una rivoluzione generale a Parigi, bensì i terribili effetti di un’epidemia di colera che scoppiò nella primavera del 1832. Chiunque fosse abbastanza ricco da poterselo permettere fuggì dalla città, ma, tra coloro che vivevano nei bassifondi, il bilancio delle vittime fu pesantissimo. Le autorità decisero di trasferire i prigionieri giovani e malati fuori dal carcere di Sainte-Pélagie per evitare che i detenuti venissero sterminati dall’infezione. Galois rientrò in un gruppo di prigionieri che fu condotto il 16 marzo in una clinica nel Quartiere Latino. Un mese dopo, Galois finì di scontare la propria condanna. Ma, per quanto fosse ormai un uomo libero, decise di continuare a vivere presso la clinica.
Dopo esser stato rinchiuso per mesi in compagnia di soli uomini, Galois venne ora in contatto con una giovane donna che lavorava all’ospedale. Stéphanie, la figlia del dottore della clinica, era solita aiutare il padre nei suoi giri di visite. Era particolarmente affascinata da Galois ma, a quanto pare, lui non era in grado di destreggiarsi nella relazione che stava nascendo tra loro. L’euforia dell’innamoramento lasciò presto il posto alla disperazione di vedere le proprie avances respinte dalla giovane donna.
Verso la metà di maggio, Stéphanie scrisse a Galois due lettere cercando di raffreddare l’ardore di lui. Galois le strappò in un accesso di rabbia e le gettò nel fuoco. Poi, pentendosi delle proprie azioni, cercò di ricostruire quello che Stéphanie gli aveva scritto. Sul retro di alcuni degli scritti matematici ritrovati dopo la morte di Galois ci sono dei frammenti delle lettere di Stéphanie scritti nella grafia del matematico: «Per favore, mettiamo fine a quanto è successo. Io non ce la faccio a portare avanti una corrispondenza come questa, ma cercherò di trovare il coraggio di continuare le nostre conversazioni come facevo prima che succedesse qualcosa». La fine del loro rapporto lasciò nella disperazione Galois, che il 25 maggio scrisse al suo amico Chevalier:
Come posso rimuovere le tracce di emozioni così violente come quelle che ho provato? Come posso consolarmi quando in un mese ho esaurito la più grande fonte di felicità che un uomo possa avere, quando l’ho esaurita senza felicità, senza speranza, quando sono certo che questa fonte si è ormai prosciugata per tutta la vita?
Ciò che successe nei giorni seguenti rimane avvolto nel mistero. Galois, ritornato un libero cittadino, aveva ripreso a frequentare gli incontri della Société des Amis du Peuple, che era sempre fuorilegge. All’incontro del 5 maggio, al quale aveva partecipato anche Galois, la Société aveva deciso che una rivolta armata era l’unico modo per rovesciare il nuovo regime. Sappiamo di questa decisone grazie a Lucien de la Hodde, un informatore della polizia che si era infiltrato nella società e riferiva i piani che vi venivano tramati.
Ciò che rimane ambiguo nel rapporto di de la Hodde è se Galois abbia pianificato ciò che sarebbe poi successo. Il 30 maggio, tra le nebbie del primo mattino, un contadino che camminava accanto a uno stagno mentre stava andando al mercato vide a terra un giovane che si stava contorcendo nell’agonia. Gli avevano sparato, e aveva una ferita da proiettile allo stomaco. Molto probabilmente, si trattava di una ferita da duello. Nell’Europa dell’Ottocento, i duelli erano un modo comune di risolvere le dispute sulle donne, la politica, gli insulti, persino sulle oche. Spesso, i giornali locali riportavano gli avvisi degli imminenti duelli e le loro condizioni.
Galois fu condotto all’ospedale Cochin dove morì il giorno dopo, rifiutando gli ultimi conforti religiosi che gli erano stati offerti dal prete dell’ospedale. «Non piangere» disse a suo fratello, che rimase al suo fianco nelle ultime ore. «Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent’anni.» Nelle lettere mandate ai suoi amici repubblicani la notte prima di avventurarsi verso il suo incontro con la morte, scrisse:
Prego i miei amici patrioti di non rimproverarmi se muoio per una causa che non è quella del mio Paese. Muoio vittima di una crudele civetta e dei suoi due creduloni. È per una miserabile calunnia che arrivo al termine della mia vita. Oh! Perché morire per qualcosa di così piccolo, di così spregevole? […] Mi sarebbe piaciuto dare la mia vita per il bene comune.
Sembra probabile che la «civetta» non fosse nient’altro che Stéphanie. Non sono comunque chiare le cause che portarono al duello. Forse Galois aveva scoperto che Stéphanie aveva avuto un amante per tutto il tempo in cui, ai suoi occhi, lo aveva preso in giro? Il duello stesso ebbe luogo a solo pochi isolati di distanza dalla clinica dove Galois l’aveva incontrata.
Anche se il duello fu per una donna, sono state avanzate alcune ipotesi secondo le quali Galois potrebbe aver pianificato la propria morte così da creare la scintilla per innescare una nuova rivoluzione. Quando i leader della Société des Amis du Peuple vennero a sapere della sua morte, convocarono una riunione. Stando all’agente di polizia infiltrato, si decise che il funerale di Galois avrebbe offerto la scusa perfetta per lanciare quella violenta rivolta che stavano organizzando.
La mattina seguente, 3000 persone parteciparono al funerale a Montparnasse. Durante le orazioni, però, si sparse la voce che si doveva aspettare un’occasione migliore per la rivolta. Il generale Lamarque, uno dei bracci destri di Napoleone, era morto quella stessa mattina. Il suo funerale avrebbe probabilmente risvegliato un fervore rivoluzionario ancora più profondo di quello suscitato da questo ribelle relativamente sconosciuto. Venne presto presa una decisione. La rivolta fu rinviata, e il funerale di Galois fu celebrato rapidamente. La sua morte fu senz’altro uno degli eventi più tragici e inutili della storia della matematica.
Anche se diverse delle lettere da lui scritte la notte prima del duello espongono le ragioni della disputa, egli trascorse la maggior parte della sua ultima notte cercando di rimpolpare quella teoria matematica che non aveva suscitato l’interesse di nessuno. Galois ritenne che il suo amico Chevalier fosse la persona più adatta a cui comunicare le proprie idee. Egli sembrava così sicuro della sua imminente morte che, con crescente panico, trascorse la nottata cercando di render chiare le proprie scoperte. Tentò di rispondere ad alcune delle obiezioni sollevate da Poisson nella sua relazione. Ma, all’approssimarsi dell’alba, dovette tagliar corto nelle spiegazioni. In un punto dello scritto, annotò freneticamente: «In questa dimostrazione rimangono ancora alcune cose da completare. Ma io non ho tempo per farlo».
La sua lettera a Chevalier si chiudeva con questa disperata supplica:
Nella mia vita ho spesso osato avanzare delle affermazioni di cui non ero del tutto sicuro. Ma tutto ciò che ho scritto qui è chiaro nella mia mente da più di un anno, e non sarebbe nel mio interesse lasciarmi aperto al dubbio di annunciare dei teoremi di cui non ho ancora una dimostrazione completa. Chiedi pubblicamene a Jacobi o a Gauss di esprimere le loro opinioni non riguardo alla verità di questi teoremi, ma alla loro importanza. Dopodiché, spero che qualche persona riterrà opportuno mettere ordine in questa confusione. Ti abbraccio con affetto. E. Galois.
Poche ore dopo fu colpito a morte. Sophie Germain riassunse in una lettera a un amico il brutto momento che sembrava imperversare sulla comunità matematica parigina:
C’è decisamente una sorta di sfortuna o di maleficio che si libra su tutto ciò che ha a che fare con la matematica. Le vostre stesse difficoltà, i problemi di Cauchy, la morte di Fourier e quella dello studente Galois che, nonostante tutta la sua impertinenza, ha suggerito alcuni stimolanti sviluppi e innovazioni.
Le generazioni successive avrebbero confermato l’intuizione di Sophie Germain riguardo alle idee di Galois. Gli articoli da lui lasciati a Chevalier contengono i semi di un modo completamente nuovo di vedere la simmetria, uno dei concetti più fondamentali della natura. Leggendo oggi le sue note, resto stupito da come un uomo così giovane abbia potuto avere una tale visione. Le grandi scoperte nel campo della teoria della simmetria fatte dai matematici nel corso degli ultimi 200 anni possono spesso essere fatte risalire alle profonde idee nascoste negli appunti di Galois. Questo giovane rivoluzionario fu il primo ad articolare un linguaggio che ora risuona in ogni giorno della mia vita.
13 febbraio, pomeriggio. La Défense, Parigi
Tomer e io facciamo una breve visita all’École Normale, nella quale François ha il suo studio. L’École si trova nel cuore del Quartiere Latino, dove Galois aveva vissuto i pochi anni della sua vita adulta. Mentre ci dirigiamo verso l’ufficio di François, passiamo davanti a due stanze sulle cui porte sono riportati i nomi di chi le aveva in precedenza occupate: Samuel Beckett e Paul Celan. Tomer mi chiede chi fossero costoro. Per quanto riguarda Beckett sono in grado di rispondere, ma non so dire molto sul perché Celan sia famoso. François non è in ufficio. Vorrà dire che gli manderò le mie domande per e-mail. Vederlo non è il motivo principale del nostro viaggio, e il fatto che non ci sia ci lascia il tempo per dirigerci verso la terza tappa del nostro pellegrinaggio platonico tra l’architettura parigina.
Questa volta, la nostra meta è un cubo. Ma non si tratta di un cubo ordinario. È invece un cubo 4-dimensionale situato alla periferia di Parigi (figura 7.6). L’ex presidente François Mitterand ha commissionato alcuni dei grandi esempi di architettura moderna che si possono vedere a Parigi, il più impressionante e sorprendente dei quali è, a mio parere, l’Arche de La Défense. Il quartiere di La Défense venne scelto in quanto si trovava sulla stessa linea di alcune delle altre grandi costruzioni parigine, lungo quella che è oggi indicata come la «prospettiva Mitterand», che inizia con la piramide del Louvre, che abbiamo visitato questa mattina, e procede, passando per l’Arc de Triomphe e l’obelisco egiziano, fino all’enorme Arche de La Défense.
Quando saliamo le scale all’uscita della metropolitana, vediamo l’Arche torreggiare sull’ampio viale di La Défense. È talmente immenso che sotto la sua volta sarebbe possibile far stare le torri di Notre Dame. Sulla fiancata di un palazzo di molti piani affacciato sul viale campeggia un enorme cartellone pubblicitario che ritrae Thierry Henry mentre colpisce un pallone a mezz’aria. Sembra quasi che l’Arche sia la porta verso cui sta tirando. Per me, tuttavia, l’importanza dell’Arche non sta nelle sue dimensioni, ma nel fatto che esso tenta di mostrare che aspetto abbia un cubo in quattro dimensioni. Vivendo in un mondo tridimensionale, è per noi impossibile costruire un cubo 4-dimensionale. I matematici, però, hanno trovato altri affascinanti modi per catturare queste forme sfuggenti.
Figura 7.6: Arche de La Défense, Parigi.
Mentre camminiamo verso l’Arche, il sole proietta le nostre ombre sul marciapiede. Un’ombra è un’immagine bidimensionale della nostra forma tridimensionale. Quando ci muoviamo e ci giriamo, le nostre ombre cambiano. Alcune ombre, come i nostri profili, ci offrono una buona indicazione di che aspetto abbiano i nostri corpi in tre dimensioni. L’Arche sfrutta l’idea utilizzata dai pittori rinascimentali per creare l’illusione di vedere le forme tridimensionali su una tela piatta, bidimensionale. Se vogliamo raffigurare un cubo su una pagina bidimensionale, un quadrato disegnato all’interno di un altro quadrato più grande riesce a catturare qualche aspetto di questa figura tridimensionale.
L’Arche applica questa illusione in una dimensione superiore. Una proiezione tridimensionale dell’ipercubo 4-dimensionale consiste in un cubo all’interno di un altro cubo più grande. Mentre ci avviciniamo a questi cubi annidati l’uno nell’altro, possiamo notare uno strano effetto. Anche se il cielo è sereno, c’è un vento che soffia sibilando attraverso la piazza in direzione dell’Arche. Forse creare un’ombra di una forma 4-dimensionale è una cosa piuttosto pericolosa. Si ha come l’impressione che l’architetto abbia aperto un minuscolo tunnel spazio-temporale che ci trascina verso il centro dell’Arche. Forse, anziché guidare i nostri occhi verso i sobborghi di Parigi che si vedono attraverso il cubo centrale, l’Arche è in realtà un portale che si apre su un altro mondo.
Figura 7.7: Ombra bidimensionale di un cubo tridimensionale.
Ma ci sono anche altri modi per descrivere questo ipercubo. Come avevo scoperto quand’ero uno studente, uno di questi modi consiste nel tradurre la geometria in numeri. Le coordinate dei quattro angoli di un quadrato in due dimensioni possono essere scritte nella forma (0, 0), (0, 1), (1, 0), (1, 1). Gli otto vertici di un cubo tridimensionale vengono allo stesso modo tradotti in otto coordinate: (0, 0, 0), (0, 0, 1), …, (1, 1, 1). Ciò che questo processo di trasformazione della geometria nel linguaggio dei numeri riesce a fare è dare una realtà a qualcosa che nel linguaggio visivo sembra alquanto misterioso: l’ipercubo 4-dimensionale, una figura con 16 «vertici», è indicata in modo preciso dalle coordinate (0, 0, 0, 0), (0, 0, 0, 1), …, (1, 1, 1, 1).
Anche quando non possiamo vederne la geometria, i numeri ci permettono di esplorare le forme attraverso un diverso insieme di lenti matematiche. Uno spigolo, per esempio, viene indicato scegliendo due vertici che differiscono l’uno dall’altro per una delle loro coordinate, come (0, 1, 1, 0) e (0, 1, 0, 0). Per scoprire quanti spigoli ci sono nel cubo 4-dimensionale, basta semplicemente contare quante sono le coppie di vertici che differiscono l’una dall’altra per una coordinata. Così, grazie all’algebra, possiamo calcolare che, in aggiunta a questi 16 vertici, l’ipercubo ha 32 spigoli e 24 facce quadrate, ed è costituito da otto cubi. E per quanto riguarda la sua simmetria? Qui viene in nostro soccorso l’eredità lasciataci da Galois. Il suo nuovo linguaggio ci permette di analizzare le simmetrie di queste figure iperdimensionali senza doverle tenere fra le mani. È di questo linguaggio che mi dovrò servire, se mai riuscirò a vedere quali simmetrie possono essere costruite nelle dimensioni superiori alla terza, partendo dalle mie semplici figure con un numero primo di lati. Quando, mentre torniamo a Londra, Tomer si addormenta sull’Eurostar, io tiro fuori il mio bloc-notes giallo, pronto a lanciare un nuovo assalto al mio problema.rofeo fu quando il bip del computer annunciò il primo calcolo di una funzione zeta priva di questa simmetria. Abel potrà anche essere morto prima che gli fossero riconosciuti premi e cattedre, ma nessuno gli tolse l’impagabile soddisfazione di sapere di aver risolto uno dei grandi problemi matematici della sua epoca.