giovedì 3 luglio 2025

IL MEGLIO DI PHILIP ROTH È IN QUESTI CINQUE ROMANZI CAPOLAVORO Di Gianni Montieri

 


IL MEGLIO DI PHILIP ROTH È IN QUESTI CINQUE ROMANZI CAPOLAVORO


Di Gianni Montieri

In occasione della nuova pubblicazione di Portnoy da parte di Adelphi, una rassegna di cinque titoli imperdibili.

Pubblicato: 27/06/2025

Cominciamo con un gioco. Prendiamo due diverse edizioni di uno dei capolavori di Philip Roth, Portnoy, e copiamo qui i due incipit, ovvero lo stesso incipit scritto da Roth, però nella doppia traduzione.

Qui, quella di Roberto Sonaglia per Einaudi:

«Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell'ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l'avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti. Invece di spingermi a lasciar perdere le mie fantasie, il fenomeno non faceva che aumentare il mio rispetto per i suoi poteri. Ed era sempre un sollievo non averla sorpresa nell'atto dell'incarnazione, anche se non smettevo mai di provarci; sapevo che mio padre e mia sorella ignoravano la vera natura di mia madre, e il peso del tradimento, che immaginavo avrei dovuto affrontare se l'avessi colta sul fatto, era più di quanto intendessi sopportare all'età di cinque anni. Credo addirittura di aver temuto che, qualora l'avessi vista rientrare in volo da scuola attraverso la finestra della camera o materializzarsi nel grembiule, membro dopo membro, da uno stato d'invisibilità, avrei dovuto per questo morire».Stupendo. 

E qui, il nuovo incipit, nella traduzione di Matteo Codignola.


«Ce l’avevo talmente conficcata in testa, mia madre, che per l’intero primo anno di scuola non riuscivo a non pensare che tutte le maestre fossero lei, travestita. Come suonava la campanella mi fiondavo a casa, e ogni volta, correndo, mi ripetevo sempre la stessa cosa: dài, se ti sbrighi ce la fai, la becchi che non si è ancora cambiata. Macché, appena mettevo piede in cucina mi si parava davanti, con latte e biscotti già pronti. Di fronte a un numero del genere avrei potuto togliermi dalla testa certe fesserie, ma figurarsi – accidenti che poteri, mi dicevo, e finiva lì. Comunque, benché non smettessi di provarci, non coglierla mai sul fatto era un gran sollievo. Dato che mio padre e mia sorella non ne sapevano nulla, della doppia vita di mamma, sbattergliela all’improvviso in faccia sarebbe stato un tradimento gigantesco – un peso che, a cinque anni, non ero certo di riuscire a reggere. Senza contare che, se mai l’avessi vista volare da scuola fino in camera da letto, o materializzarsi un pezzetto alla volta nel grembiule, cavolo, quell’oltraggio secondo me l’avrei pagato caro».Ottimo.



Perché Philip Roth è famoso


Si è molto discusso in queste settimane della nuova traduzione di uno dei capolavori di Roth riproposta da Adelphi. Ebbene, a dispetto del titolo che avrei lasciato uguale (ma io sono un romantico), le scelte di Codignola funzionano, specie in alcuni punti, anche se in diversi frangenti vanno oltre l'idea di dare freschezza a una vecchia traduzione. La voce del narratore sembra adeguarsi bene ai tempi - anche se non sono passati così tanti anni dal debutto di Portnoy -. In generale, è Roth che vince in entrambi casi ed è il motivo per cui ho messo qua i due diversi incipit, perché leggendoli insieme mi è venuto voglia di fonderli. Al punto di tenere la prima e l’ultima frase di Sonaglia e qualcosa della parte centrale di Codignola, generando un terzo incipit, tanto che ci importa, stiamo giocando. Chi non gioca è Roth, e da quando uscì quel libro la narrativa così come era stata immaginata è stata stravolta. Portnoy è molto di più di una lunga seduta dallo psicologo, è un capolavoro letterario in cui dall’inizio alla fine vengono stabiliti nuovi spazi e confini della letteratura. Quello che si può scrivere in un romanzo diventa improvvisamente Tutto e da quel punto non si torna indietro, bisogna adeguarsi, da lettori e da scrittori. È Roth, bellezza.


Come Philip Roth ha cambiato la narrativa americana


Philip Roth sovverte, stravolge, cambia le regole e disegna la letteratura contemporanea in maniera diversa, dal suo primo libro a per sempre. La narrativa americana con l’avvento dello scrittore di Newark si è trasformata da com’era a come sempre avrebbe dovuto essere. E per fortuna. La prima parola che mi viene in mente se penso alla scrittura di Philip Roth è sovversione. Attraverso i suoi racconti, i suoi romanzi, ha invertito l’ordine prestabilito delle cose, riducendo a brandelli il sogno americano, dimostrandone l’impossibilità, partendo dalle relazioni di coppia, dalla famiglia, dall’io. La morale e il finto perbenismo che accompagnano la tradizione nordamericana sono stati smontati da Roth, pezzo per pezzo, credo per credo, falsità per falsità. Ogni romanzo che ho letto e amato tra i suoi - e l’elenco è molto lungo; perciò, oggi parlerò solo di cinque - mi ha mostrato una nuova prospettiva: storica o privata, del singolo o collettiva. Tra i sinonimi del verbo sovvertire c’è anche rovesciare che rende ancora meglio l’idea che mi sono fatto della capacità di osservare e quindi di scrivere di Philip Roth. Roth ha tolto le ragnatele, la muffa, la polvere, oltre le tende, le preghiere, i tappeti. Ha detto, in un’intervista su La Letturadel marzo 2013, che non dobbiamo cercare la felicità nei suoi romanzi, il lieto fine, lui si occupa di letteratura, di verità che si piega alla finzione, di finzione che mostra le cose per quello che sono. Tutto questo Philip Roth lo ha congegnato e diluito nel tempo, frase dopo frase, fino all’ultima parola scritta.


Cinque romanzi di Philip Roth da leggere assolutamente



Pastorale americana


Pastorale americana, Einaudi, traduzione di Vincenzo Mantovani, questo libro come tutti gli altri di Roth uscirà nel catalogo Adelphiche ne ha rilevato i diritti. Pastorale americanaè il romanzo di Roth che amo di più, l’ho amato da quando l’ho letto la prima volta e l’ho amato ancora di più le volte (quattro o cinque) in cui ci sono tornato. È uno dei libri che meglio spiega il Roth sovvertitore.

«Ed era solo una volta l’anno che si trovavano tutti insieme, e per giunta sul terreno neutrale e sconsacrato della festa del Ringraziamento, quando tutti mangiano le stesse cose e nessuno si allontana per andare a rimpinzarsi di nascosto di qualche cibo stravagante: né Kugel, né pesce gefilte, né insalata di rafano e lattuga romana, ma solo un tacchino colossale per duecentocinquanta milioni di persone; un tacchino colossale che le sazia tutte. Una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose, una moratoria sulla nostalgia trimillenaria degli ebrei, una moratoria su Cristo e la croce e la crocifissione per i cristiani, quando tutti, nel New Jersey come altrove, possono essere, quanto alla propria irrazionalità, più passivi che nel resto dell’anno. Una moratoria su ogni doglianza e su ogni risentimento, e non soltanto per i Dwyer e i Levov, ma per tutti coloro che, in America, diffidano uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza e dura ventiquattr’ore».Ecco un passaggio del romanzo che conosco a memoria. Il Ringraziamento è il mezzo, la festa statunitense per eccellenza, quella a cui nessun americano si sottrae, che gli piaccia o meno, è la grande moratoria. Il giorno in cui la grande finzione individuale si fa collettiva, una preghiera recitata a sorrisi aperti per un giorno intero.La mia copia di Pastorale americanapresenta un errore di stampa. Avrei potuto tornare in libreria al tempo e farmela sostituire con un’altra copia, ma non l’ho fatto. Da pagina 316 a pagina 362, il libro è stampato al contrario, per andare a leggere la pagina 317 dovetti voltare il romanzo, andare avanti di 46 pagine e leggere a ritroso fino alla 362. Finito il romanzo ho sempre considerato questa errata impaginazione come un segno del destino. L’ordine sovvertito delle pagine corrisponde idealmente all’ordine che sovverte Roth nelle storie che racconta. A suo tempo, dovrò chiedere ad Adelphi di stamparmene una copia impaginata male.

Questo breve paragrafo l’ho sempre preso come una dichiarazione d’intenti. Il Ringraziamento, la festa statunitense per eccellenza, quella a cui nessun americano si sottrae, che gli piaccia o meno, è la grande moratoria. Il giorno in cui la grande finzione individuale si fa collettiva, una preghiera recitata a sorrisi aperti per un giorno intero. Abbiamo Seymour Levov, detto “lo Svedese”, un numero uno fin dagli anni del college, bello quasi come un Dio, talmente superiore agli altri da risultare quasi un alieno, fortissimo nello sport: un predestinato. La vita di Seymour è perfetta: lavoro, gioie familiari, serenità, siamo negli anni Cinquanta. Poi il mondo, ciò che appare così lontano da non poterlo toccare minimamente, gli deflagra in casa, come una bomba, come quella che sua figlia Merry piazza in un ufficio postale. Eccolo l’altro mondo, la guerra, il Vietnam, il conflitto socio/politico che viene a presentare il conto. La grandezza di Philip Roth, però, sta nel non accontentarsi di risolverla con la politica. La guerra, la bomba, sono alcuni degli strumenti che gli servono. La Storia entra nella vita delle persone, ne sconvolge gli equilibri. La pastorale è molto altro. Sarà Nathan Zuckerman, lo scrittore, alter ego di Roth, a raccontarne il sovvertimento. Scrivendo la storia dello Svedese dirà il dolore, la perdita, il peso dei ricordi, la vecchiaia, la solitudine. Zuckerman narrerà la caduta di un uomo e del suo sogno fin lì realizzato. Il peso di questa caduta fa rumore già dal vertice fino allo sprofondo. Il rumore salirà di decibel acquistando velocità nel precipizio, fino a frantumarsi in mille pezzi come vetro. «In un modo assolutamente inverosimile, ciò che non avrebbe dovuto accadere era accaduto e ciò che avrebbe dovuto accadere non era accaduto.» Carver nei suoi racconti ha raccontato l’America dove quel sogno non arriva, Roth in Pastorale Americana mostra le falsità di quel sogno e lo sfascia con un meccanismo narrativo perfetto, dove ogni frase è un dettaglio fondamentale e indimenticabile. Chi cerca la grande narrativa può citofonare: interno Roth.


La macchia umana


La macchia umana, Einaudi, traduzione di Vincenzo Mantovani, è molto vicino per tipo di racconto alla pastorale dello svedese, di nuovo le convenzioni sociali, di nuovo la morale, il perbenismo, le voci e gli occhi che giudicano. Roth racconta il modo in cui cadiamo, che è diverso dal raccontare la caduta. Il fallimento della società contemporanea è evidente a Roth, lo è stato fin dai suoi primi romanzi, ed è per questo che gli è sempre interessato mostrare la maniera in cui quel fallimento si realizza. Si realizza attraverso il desiderio e il sesso, nella loro rappresentazione e ricerca spasmodica, nella precarietà dei rapporti di coppia. Si realizza nei destini segnati delle famiglie, con un piede dentro la perfezione e l’altro sull’orlo del precipizio, quasi sempre vince il precipizio. Si realizza con lo scandalo.


«La crudeltà è camuffata da “autostima” perduta. Anche Hitler mancava di autostima. Era il suo problema»

Complotto contro l’America


E ancora si manifesta con la reinvenzione della storia di Complotto contro l’America(Einaudi, trad. Vincenzo Mantovani), in cui Roth immaginò un’America apparentemente neutrale ma invece alleata dei nazisti, controllata da Hitler. Un’America ucronica, spaventosa – chissà che direbbe in questi giorni di quello che accade per esempio a Los Angeles – in cui gli ebrei sono spaventati, non più al sicuro e tentano sorti, altre strade, fughe. Un romanzo incredibile in cui dopo una serie di colpi di genio dell’autore e colpi di scena per il lettore si arriva a un finale in cui il complotto si rivela, in cui la grande narrativa si compie.


Everyman


Si compie nel decadimento del corpo, per malattia o per vecchiaia. Esemplare da questo punto di vista è Everyman(Einaudi, trad. Vincenzo Mantovani), che comincia con il funerale del protagonista e che mostra la morte come richiamo per tutti. La morte degli amici di una vita, dei compagni di lavoro, e il deterioramento del proprio corpo per l’abbinamento vecchiaia/malattia, sono i segnali che ci riguardano tutti, everyman, appunto. Siamo noi, saremo quell’uomo, siamo Roth che così si vedeva, così si stava vedendo. Disse a proposito di questo romanzo che nel periodo in cui lo scrisse provava un dolore profondo che trasferì poi in un personaggio femminile.

«Sarebbe stato diverso, si chiedeva, se io fossi stato diverso e avessi agito diversamente? Sarei stato meno solo di quanto lo sia oggi? Certamente! Ma questo è ciò che ho fatto! Ho settantun anni. Questo è l’uomo che ho creato. Questo è ciò che ho fatto per diventare quello che sono, e non c’è altro da dire!».

Portnoy


Di questo abbiamo già scritto. Mi pare che Roth ci abbia insegnato il romanzo, ci abbia indicato centinaia di strade e derive che la narrativa può prendere, assecondare.Ha lasciato tanti di quei libri straordinari – come detto quelli di cui si parla qui sono solo una sintesi del gusto di chi scrive il pezzo – che la sua morte avvenuta qualche anno fa è un dettaglio, per quello che ne sappiamo potrebbe essere solo un altro passo in avanti, nemmeno troppo definitivo, della sua fiction.

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini(2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli, Il Napoli e la terza stagionee Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.