lunedì 8 settembre 2025

IL VERO ITALIANO È DON ABBONDIO Leonardo Sciascia


IL VERO ITALIANO È DON ABBONDIO

Leonardo Sciascia 

Estratto da Leonardo Sciascia"Cruciverba" Einaudi


L’unico che ne esca bene è lui, Don Abbondio. L’unico che incarni la vera anima italiana, il pavido e prono servitore del potente di turno, indifferente alla sua provenienza e al suo casato, è lui. Non avrà mai tramonto la grandezza e l’intima cifra di questa figura romanzesca, specchio e verità di un carattere, di un’anima, di secoli di storia sociale e politica nostrana. Quell’umano silente che subisce e accomoda le cose, che ne accetta i dettami purché non portino scompiglio al suo angolino privato, che li gestisce nel taciuto dei suoi adempimenti purché questi non creino pericoli, insidie, trucchi; che vive insomma in omertoso assolvimento dei suoi modesti doveri e alla fine, quali che siano le sponde a cui deve pronarsi, ne esce sempre salvo e come incontaminato. Perché i veri potenti, ci dice Sciascia, sono quei manutengoli che coltivano l’ordine che viene dall’alto nelle sue maglie intatte, senza disturbi o scossoni, onorandolo e tenendolo saldo con l’eterna arte del servilismo.

In questa mirabile riflessione lo scrittore siciliano confuta, partendo da Goethe (che adorava il romanzo e ammirava Manzoni come poeta, meno invece come storico), sia Croce (che definiva il libro “senza poesia”) sia Moravia (che leggeva l’opera come “una propaganda che porta dritto alla Democrazia Cristiana”). In verità Croce, molto più tardi, ammise la grande poesia presente nei Promessi Sposi. Ma, al di là di questo, Sciascia fu sempre convinto, contro ogni visione e ogni idea contrarie, che il vero protagonista, la vera voce di dentro, il perno, nella profonda tessitura del romanzo, fosse proprio l’immortale curato. Qui di seguito la sua riflessione (Leonardo Sciascia. Cruciverba. Torino, Einaudi, 1983):

«Don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettivamente vince, è colui per il quale il lieto fine del romanzo è veramente un lieto fine. Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro. L’uomo del Guicciardini, del “particulare” contro cui tuonò il De Santis, perviene con Don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano. Anni addietro Cesare Angelini, dopo più di mezzo secolo di lettura dell’opera si chiese: perchè Renzo e Lucia se ne vanno ormai che tutto si è risolto felicemente per loro? Non seppe trovare risposta.

E pure la risposta è semplice. Se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a Don Abbondio e al suo sistema; a Don Abbondio che sta lì vivo, vegeto, su tutto e su tutti vittorioso e trionfante nelle ultime pagine del romanzo. Dalla vicenda il suo sistema è uscito collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge e a un secolo e mezzo dagli anni in cui Manzoni lo scrisse».

D'ALEMA O DELLA FASCINAZIONE PER GLI AUTORITARISMI Michele Magno



D'ALEMA O DELLA FASCINAZIONE PER GLI AUTORITARISMI

Michele Magno 

 08/09/2025 

Diceva Ennio Flaiano che “le dittature degli altri non ci danno fastidio”. Credo che per molti, anzi moltissimi italiani sia così. Sicuramente lo è per Massimo D’Alema. Non deve quindi sorprendere la presenza dell’ex presidente del Consiglio nella foto di gruppo con la cupola delle autocrazie planetarie, riunitosi a Pechino per celebrare il nuovo ordine internazionale sinocentrico.

Qui non mi interessa discutere la caratura morale del personaggio, i suoi presunti affari con la Cina o la sua attività di lobbista delle armi. La verità è che egli, con una spregiudicatezza che ad altri non è consentita, rappresenta la fascinazione per gli autoritarismi e i sentimenti antioccidentali (le due cose si tengono) di vasti ambienti della politica italiana, di destra e di sinistra.

A chi scrive sembra questo il nocciolo della questione. L’irresolutezza di Trump, la sua subalternità a Putin (il quale ha forse delle carte in mano che noi non conosciamo), il suo “delirio tariffario”, hanno dato una spallata al rovesciamento dei rapporti di forza tra Ovest e Est. In questo quadro, l’Europa rischia di fare la fine del vaso di coccio tra due vasi di ferro.

Nonostante la “coalizione dei volenterosi”, infatti, continua a essere divisa, legata da lacci e laccioli burocratico-procedurali, paralizzata nelle sue decisioni strategiche dalla regola dell’unanimità.

Senza uno scatto di coraggio che la liberino da queste gabbie, e senza la consapevolezza dei compiti storici che può e deve avere nello scenario globale, è destinata a un lento ma inesorabile declino. È ancora un gigante economico ma resta un nano politico e militare, come ha ricordato Mario Draghi.

C’è chi vorrebbe far salire questo nano ancora sulle spalle del gigante americano (Meloni), e chi gli consiglia di salire sul carro di Xi Jinping (D’Alema). Sono due strade che non portano da nessuna parte.



venerdì 5 settembre 2025

Tempo da Leone. Sergio Belardinelli




Tempo da Leone. 

Sergio Belardinelli 

 03 set 2025

Una citazione agostiniana del Papa delinea il percorso che attende la Chiesa

La storia non è padrona delle nostre vite, ma nemmeno noi siamo padroni della storia. Del resto nessuno può controllare la totalità delle conseguenze del proprio agire

"Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”. Con questa citazione di Agostino, il 12 maggio scorso, Papa Leone XIV si è rivolto ai rappresentanti dei media convenuti a Roma per il conclave di qualche giorno prima. Una citazione che, unitamente ai continui richiami alla centralità di Gesù Cristo e all’unità della chiesa, non sembra lasciare dubbi circa l’orizzonte all’interno del quale il nuovo pontefice intende impostare il suo magistero in generale e quello sociale in particolare. Ovviamente ci dirà il tempo come tutto questo evolverà; sarebbe semplicemente ridicolo avanzare previsioni fin da adesso. In ogni caso la citazione di Agostino mi sembra una sorta di premessa epistemologica particolarmente significativa per affrontare con efficacia le sfide del momento storico che stiamo attraversando.

Essa ci dice almeno due cose fondamentali: la prima è che esiste una dimensione del tempo che è semplicemente nostra. Non siamo inseriti come marionette in un tempo che segue un corso determinato. Non esiste alcuna necessità storica. Il tempo è nostro. Ma, ed ecco la seconda cosa fondamentale, non lo è nel senso che ne siamo i padroni, bensì nel senso che dobbiamo “viverlo bene”, sentire la responsabilità di ciò che facciamo, accettando nel contempo la logica dei “servi inutili”. Facciamo il nostro e lasciamo che Dio faccia il suo, senza confondere le nostre con le sue vie. Insomma “viviamo bene e i tempi saranno buoni”. La storia non è padrona delle nostre vite, ma nemmeno noi siamo padroni della storia. Accettiamo dunque la precarietà, la contingenza, l’imprevedibilità, l’imperscrutabilità di molto di ciò che accade nel mondo come una sorta di naturale conseguenza della nostra libertà e delle nostre limitate capacità di conoscenza. Del resto nessuno può controllare la totalità delle conseguenze del proprio agire; per nostra fortuna la nostra responsabilità è sempre limitata, anche se non per questo meno obbligante a fare il bene qui e ora: il bene possibile, il bene che dipende da noi, non quello dell’intero universo. 

Senza alcuna pretesa di esaurire con queste brevi considerazioni la portata della citazione agostiniana da cui sono partito e ben sapendo che ogni volta che Agostino nomina il tempo tremano letteralmente le vene ai polsi, credo tuttavia che proprio queste considerazioni possano rappresentare una buona premessa per una dottrina sociale della chiesa non costruttivista e attenta invece al carattere fallibile, contingente, non deterministico dei fenomeni sociali. Lo stesso si potrebbe dire delle parole rivolte da Leone XIV il 17 maggio all’Associazione Centesimus Annus, allorché veniva sottolineato come la dottrina sociale della chiesa non intenda in alcun modo “innalzare la bandiera della verità”, ma indicare una strada, un approccio “critico”, al fine di elaborare “un giudizio prudenziale” che non “equivale a un’opinione, ma a un cammino comune, corale e persino multidisciplinare verso la verità”. Sono soltanto indizi, ma secondo me queste parole inseriscono la dottrina sociale della chiesa in un orizzonte epistemologico molto promettente. A maggior ragione se consideriamo, sono sempre parole di Leone XIV, che la verità di cui si parla “non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo”.

Più che di sbandierare la verità, si tratta dunque di cercare pragmaticamente le soluzioni prudenziali maggiormente conformi ad essa, nella consapevolezza della complessità dei problemi che sono sul tappeto nonché della pluralità, della precarietà e della parzialità delle soluzioni possibili. Una ricerca cooperativa della verità, se così si può dire, che riesce ad avvantaggiarsi del contributo di tutti, senza che si debba ritenere che per ogni problema esiste una e una sola soluzione possibile, né che tutte le soluzioni hanno lo stesso valore. Se così stanno le cose, azzarderei l’idea che il potente cristocentrismo che sembra contraddistinguere i primi passi del magistero di Papa Leone XIV stia come creando le premesse per una dottrina sociale che non soltanto non teme la multidisciplinarietà né il pluralismo degli approcci, ma li proclama come una sorta di effetto collaterale del cristocentrismo stesso, offrendoli come parte del suo patrimonio in difesa della dignità umana e della giustizia. Sarà anche presto per dirlo, ma credo che siamo di fronte a una svolta, al primo benefico effetto di quanto leone XIV ebbe a dire durante la messa di apertura del suo pontificato: “Sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato”.


DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV

AGLI OPERATORI DELLA COMUNICAZIONE

Aula Paolo VI

Lunedì, 12 maggio 2025

Buongiorno! Good morning, and thank you for this wonderful reception! They say when they clap at the beginning it doesn’t matter much… If you are still awake at the end, and you still want to applaud… Thank you very much!


[traduzione italiana: Buongiorno e grazie per questa bellissima accoglienza! Dicono che quando si applaude all’inizio non vale granché! Se alla fine sarete ancora svegli e vorrete ancora applaudire, grazie mille!]


Fratelli e sorelle!


Do il benvenuto a voi, rappresentanti dei media di tutto il mondo. Vi ringrazio per il lavoro che avete fatto e state facendo in questo tempo, che per la Chiesa è essenzialmente un tempo di Grazia.


Nel “Discorso della montagna” Gesù ha proclamato: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Si tratta di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla. La pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra.


Permettetemi allora di ribadire oggi la solidarietà della Chiesa ai giornalisti incarcerati per aver cercato di raccontare la verità, e con queste parole anche chiederne la liberazione di questi giornalisti incarcerati. La Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere. La sofferenza di questi giornalisti imprigionati interpella la coscienza delle Nazioni e della comunità internazionale, richiamando tutti noi a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa.


Grazie, cari amici, per il vostro servizio alla verità. Voi siete stati a Roma in queste settimane per raccontare la Chiesa, la sua varietà e, insieme, la sua unità. Avete accompagnato i riti della Settimana Santa; avete poi raccontato il dolore per la morte di Papa Francesco, avvenuta però nella luce della Pasqua. Quella stessa fede pasquale ci ha introdotti nello spirito del Conclave, che vi ha visti particolarmente impegnati in giornate faticose; e, anche in questa occasione, siete riusciti a narrare la bellezza dell’amore di Cristo che ci unisce tutti e ci fa essere un unico popolo, guidato dal Buon Pastore.


Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso 311). Noi siamo i tempi».


Grazie, dunque, di quanto avete fatto per uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni, attraverso i quali leggiamo spesso la vita cristiana e la stessa vita della Chiesa. Grazie, perché siete riusciti a cogliere l’essenziale di quel che siamo, e a trasmetterlo con ogni mezzo al mondo intero.


Oggi, una delle sfide più importanti è quella di promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate, è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto. E guardando all’evoluzione tecnologica, questa missione diventa ancora più necessaria. Penso, in particolare, all’intelligenza artificiale col suo potenziale immenso, che richiede, però, responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti, così che possano produrre benefici per l’umanità. E questa responsabilità riguarda tutti, in proporzione all’età e ai ruoli sociali.


Cari amici, impareremo con il tempo a conoscerci meglio. Abbiamo vissuto – possiamo dire insieme – giorni davvero speciali. Li abbiamo, li avete condivisi con ogni mezzo di comunicazione: la TV, la radio, il web, i social. Vorrei tanto che ognuno di noi potesse dire di essi che ci hanno svelato un pizzico del mistero della nostra umanità, e che ci hanno lasciato un desiderio di amore e di pace. Per questo ripeto a voi oggi l’invito fatto da Papa Francesco nel suo ultimo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana.


Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore. Per questo vi chiedo di scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace.


Grazie a tutti voi. Che Dio vi benedica!


Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana


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